IIncazzati ncazzati ““neri”neri”? - senzasoste.it · si è enfatizzato la presenza...

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Periodico livornese indipendente - anno VIII n. 88 - in uscita dal 21 dicembre 2013 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it Forconi e minchioni NIQUE LA POLICE I l movimento dei forconi ha di- mostrato, ma solo per i ritarda- tari della politica, come oggi le ag- gregazioni centrifughe, di protesta, siano frutto di sedimenti sociali e identitari molto diversi tra loro. D’altronde un movimento che pro- pone il simbolico di piazzale Lore- to e della marcia su Roma, che ha striscioni in caratteri Casa Pound e veicola l’immagine di Pertini, non fa che registrare l’esistenza di una inedita e profonda differenzia- zione al proprio interno. Un po’ Social Forum, il movimento dei movimenti e delle differenze, un po’ il sogno, oggi fuori tempo mas- simo, di Pino Rauti. Poi ci sono i minchioni: quelli che si innamora- no del fermo immagine. Vedono un imprenditore ed allora si è trat- tato di un movimento di padroni, per non parlare dell’Unità che, da decenni, i fascisti li vede in qual- siasi soggetto non addomesticato. In questa categoria il premio min- chione dell’anno l’ha sicuramente vinto il gruppo consiliare “Imperia bene comune”. Nella cittadina li- gure, la cui conflittualità mancava da tempi ormai remoti, c’è stato un blocco serio del traffico e del trasporto merci con tanto di scio- pero di solidarietà degli studenti. I nostri eroi del bene comune di Imperia, invece di mescolarsi con la protesta cercando di spostarla a sinistra, hanno pensato di chiedere ufficialmente alle autorità locali di polizia come mai non siano inter- venute con fermezza. Ricordando quegli esponenti della rete Lilliput, che nelle drammatiche giornate di Genova 2001, per loro stessa ammissione, telefonavano alla po- lizia segnalando gli spostamenti di black bloc. Con la differenza che allora la polizia minacciava di ca- ricare chi aveva telefonato mentre, oggi, la richiesta di carica dei “be- necomunisti” viene accolta con rispetto e considerazione. I forconi altro non sono che un pezzo di società che viene giù a causa del- la crisi. Siccome le società dell’ex capitalismo maturo sono molto differenziate, socialmente ed iden- titariamente, è naturale che fuori- esca di tutto. Per evitare che tutto questo passi a destra la ricetta è semplice: organizzare conflitti che spostino a sinistra la popolazione. Tutto quello che la sinistra non sa fare. Perché si tratta di una crisi lunga della quale non si vuol am- mettere che ha cambiato il modo di fare politica. Ma, come diceva Seneca, “il destino guida chi vuol lasciarsi guidare e trascina chi non vuole”. E sono molti i minchioni, in Italia e a Livorno, che saranno trascinati da un destino di cui non percepiscono molto o, addirittura, si fanno vanto di non capirci nulla. FRANCO MARINO N on sono tempi da esercizi reto- rici della politica, ma allo stesso tempo non si può liquidare in modo superficiale quello che è accaduto il 9 dicembre e i giorni seguenti. I me- dia di potere l’hanno bollato come “la rivolta dei Forconi” (il vero nome era “Fermiamo l’Italia”), da sinistra si è enfatizzato la presenza fascista, Berlusconi ha cercato di foraggiarlo e cavalcarlo mentre i 5 Stelle sono ri- masti spiazzati. Il 9 dicembre però è stato tutto e niente, rispetto a questi aspetti. Il 9 dicembre ha avuto una portata più mediatica che reale. Se si toglie la città di Torino, dove si è assistito a blocchi organizzati e scontri, nel resto d’Italia il presunto “blocco” è riuscito solo grazie a qualche presi- dio di camionisti che, pur non sup- portati dai maggiori sindacati, hanno fatto “danno” col minimo sforzo, mettendo qualche camion di traver- so e sfruttando l’approccio soft delle questure. Non prendiamoci in giro, per i numeri che si sono visti e letti è veramente difficile bloccare le arterie principali delle città. Chiunque di noi ha subito cariche per molto meno e con numeri più consistenti. I motivi? Possono essere tanti. Il Ministero de- gli Interni ha ordinato di non far suc- cedere episodi che potessero fare da scintilla per una sollevazione mag- giore? Può darsi. Le forze dell’ordine hanno riconosciuto nei manifestanti qualcuno in cui potersi immedesi- Incazzati Incazzati “neri” “neri” ? ? Il 9 dicembre non può essere derubricato superficialmente da chi pretende di fare politica. Il conto della crisi sta arrivando, è salato e diverso da come molti si aspettavano: una rivolta ambigua ma disperata, pilotata da personaggi loschi ma spontanea allo stesso tempo. Il risultato è uno solo: non c’è più tempo da perdere mare? Plausibile, visto che non sono mancati cori a favore della polizia e comunque linguaggi molto vicini a una destra populista a cui i poliziot- ti italiani hanno sempre ammiccato. Sicuramente, per chi governa, questo tipo di protesta è il male minore: non porta con sé grosse rivendicazioni se non un vago “Tutti a casa” e “Basta tasse” insieme a una vulgata un po’ razzista e un po’ nazionalista che non fa mai male. E non scordiamoci che in questa fase anche Berlusconi minaccia rivolte e lancia anatemi anti- sistemici, per cui non è certo da dietro- logi legare alcuni personaggi di questa protesta al vasto mondo delle clientele berlusconiane, specialmente al sud. Tutti fascisti? Quindi, tutti fascisti o qualunquisti e la sinistra deve sta- re sui divani e al pc? Il punto focale della discussione sta proprio qui e la risposta non è scontata. Era chiaro da tempo che prima o poi anche in Italia la crisi avrebbe prodotto reazioni così come è avvenuto, con diverse cause e motivazioni, nei paesi Brics (Brasi- le, Cina…), con le primavere arabe o con l’austerità europea in Spagna o Grecia. In Italia la crisi generalizzata si è palesata con il malessere della pic- cola imprenditoria fallita, delle partite iva, dei camionisti e degli ambulanti con parole d’ordine variegate e foca- lizzate su “tasse”, “italiani” e “casta”. Una specie di grillismo di destra un po’ improvvisato ma che attira su di sé soggetti sociali strangolati dalla cri- si i cui unici riferimenti sono il 40% di disoccupazione giovanile, centi- naia di negozi e imprese chiuse ogni giorno, il processo di impoverimento delle cosiddette classi medie e la di- soccupazione di massa degli over50 e di tutti coloro che stanno uscendo dai cicli produttivi. Per chiarezza, non è che il 9 dicembre rappresenti il pri- mo atto di ribellione nel paese dall’i- nizio della crisi. Dal 2008 ad oggi ci sono stati grandi cortei di movimento come quello del 16 ottobre di tre anni fa, c’è stato il protagonismo studente- sco, le lotte sui territori come quella dei No Tav, alcuni scioperi anche se poco incisivi, un’ondata gigantesca di occupazioni per il diritto all’abita- re, le lotte dei tranvieri, degli operai Ilva e dei tarantini, quella dei facchini del comparto della logistica e quella dei metalmeccanici contro il sistema Marchionne. Fuori dalla politica isti- tuzionale qualcosa è sempre successo. Ma la differenza fra queste proteste, solitamente identificabili con orga- nizzazioni, slogan o concetti vicini alla “sinistra” e quelle del 9 dicembre è gigantesca. Da una parte migliaia di persone nelle piazze ed un’attività quotidiana sui territori a fronte però di una marginalità mediatica e di pratiche. Dall’altra il 9 dicembre con numeri esigui ma un ampio risalto mediatico. Perché? Perché come det- to il potere preferisce il qualunquismo di piazza ma soprattutto perché gli slogan (“Italiani”, “Poliziotto uno di noi”, “Tutti a Casa”), l’immaginario (piccolo imprenditore fallito o cittadi- no disoccupato o vessato dalle tasse), i luoghi comuni (gli immigrati a cui vengono regalati soldi e case e che ru- bano il lavoro) rappresentano oggi nel paese il pensiero egemone di milioni di persone. Preferiscono, quindi, una protesta di pancia che una di siste- ma. E se nelle piazze la protesta del 9 dicembre è stata poco partecipata e spesso rappresentata, come in Ve- neto, dalla vecchia base leghista e da qualche partitino fascista, ha però col- pito l’immaginario di un paese intero, quello del famoso italiano medio. Che fare? Intanto partiamo da un assunto: non è possibile lasciare nelle mani di gruppi corporativi, reazio- nari o palesemente fascisti un imma- ginario e una protesta che riguarda centinaia di migliaia di nuovi poveri creati dalla crisi, dall’austerità targata euro e dal capitalismo liberista. Pove- ri che aumenteranno sempre di più a fronte dei conti in banca sempre più gonfi di una minoranza in ascesa. È la fotografia che è uscita anche su Il Tirreno in un articolo che faceva il re- soconto dei depositi bancari dei livor- nesi. Dobbiamo, dunque, separare il giudizio sui loschi figuri che hanno attraversato la protesta e sui soggetti economici da leghismo della prima ora da quello sulle persone per cui il 9 dicembre è stata l’occasione per mostrare pubblicamente un males- sere. E perché lo hanno fatto questa volta e non in altre occasioni? Molte persone hanno perso … [continua a pagina 3]

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Periodico livornese indipendente - anno VIII n. 88 - in uscita dal 21 dicembre 2013 OFFERTA LIBERAPoste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Forconi e minchioni

NIQUE LA POLICE

Il movimento dei forconi ha di-mostrato, ma solo per i ritarda-

tari della politica, come oggi le ag-gregazioni centrifughe, di protesta, siano frutto di sedimenti sociali e identitari molto diversi tra loro. D’altronde un movimento che pro-pone il simbolico di piazzale Lore-to e della marcia su Roma, che ha striscioni in caratteri Casa Pound e veicola l’immagine di Pertini, non fa che registrare l’esistenza di una inedita e profonda differenzia-zione al proprio interno. Un po’ Social Forum, il movimento dei movimenti e delle differenze, un po’ il sogno, oggi fuori tempo mas-simo, di Pino Rauti. Poi ci sono i minchioni: quelli che si innamora-no del fermo immagine. Vedono un imprenditore ed allora si è trat-tato di un movimento di padroni, per non parlare dell’Unità che, da decenni, i fascisti li vede in qual-siasi soggetto non addomesticato. In questa categoria il premio min-chione dell’anno l’ha sicuramente vinto il gruppo consiliare “Imperia bene comune”. Nella cittadina li-gure, la cui conflittualità mancava da tempi ormai remoti, c’è stato un blocco serio del traffico e del trasporto merci con tanto di scio-pero di solidarietà degli studenti. I nostri eroi del bene comune di Imperia, invece di mescolarsi con la protesta cercando di spostarla a sinistra, hanno pensato di chiedere ufficialmente alle autorità locali di polizia come mai non siano inter-venute con fermezza. Ricordando quegli esponenti della rete Lilliput, che nelle drammatiche giornate di Genova 2001, per loro stessa ammissione, telefonavano alla po-lizia segnalando gli spostamenti di black bloc. Con la differenza che allora la polizia minacciava di ca-ricare chi aveva telefonato mentre, oggi, la richiesta di carica dei “be-necomunisti” viene accolta con rispetto e considerazione. I forconi altro non sono che un pezzo di società che viene giù a causa del-la crisi. Siccome le società dell’ex capitalismo maturo sono molto differenziate, socialmente ed iden-titariamente, è naturale che fuori-esca di tutto. Per evitare che tutto questo passi a destra la ricetta è semplice: organizzare conflitti che spostino a sinistra la popolazione. Tutto quello che la sinistra non sa fare. Perché si tratta di una crisi lunga della quale non si vuol am-mettere che ha cambiato il modo di fare politica. Ma, come diceva Seneca, “il destino guida chi vuol lasciarsi guidare e trascina chi non vuole”. E sono molti i minchioni, in Italia e a Livorno, che saranno trascinati da un destino di cui non percepiscono molto o, addirittura, si fanno vanto di non capirci nulla.

FRANCO MARINO

Non sono tempi da esercizi reto-rici della politica, ma allo stesso

tempo non si può liquidare in modo superficiale quello che è accaduto il 9 dicembre e i giorni seguenti. I me-dia di potere l’hanno bollato come “la rivolta dei Forconi” (il vero nome era “Fermiamo l’Italia”), da sinistra si è enfatizzato la presenza fascista, Berlusconi ha cercato di foraggiarlo e cavalcarlo mentre i 5 Stelle sono ri-masti spiazzati. Il 9 dicembre però è stato tutto e niente, rispetto a questi aspetti. Il 9 dicembre ha avuto una portata più mediatica che reale. Se si toglie la città di Torino, dove si è assistito a blocchi organizzati e scontri, nel resto d’Italia il presunto “blocco” è riuscito solo grazie a qualche presi-dio di camionisti che, pur non sup-portati dai maggiori sindacati, hanno fatto “danno” col minimo sforzo, mettendo qualche camion di traver-so e sfruttando l’approccio soft delle questure. Non prendiamoci in giro, per i numeri che si sono visti e letti è veramente difficile bloccare le arterie principali delle città. Chiunque di noi ha subito cariche per molto meno e con numeri più consistenti. I motivi? Possono essere tanti. Il Ministero de-gli Interni ha ordinato di non far suc-cedere episodi che potessero fare da scintilla per una sollevazione mag-giore? Può darsi. Le forze dell’ordine hanno riconosciuto nei manifestanti qualcuno in cui potersi immedesi-

Incazzati Incazzati “neri”“neri”??Il 9 dicembre non può essere derubricato superfi cialmente da chi pretende di fare politica. Il conto della crisi sta arrivando, è salato e diverso da come molti si aspettavano: una rivolta ambigua ma disperata, pilotata da personaggi loschi ma spontanea allo stesso tempo. Il risultato è uno solo: non c’è più tempo da perdere

mare? Plausibile, visto che non sono mancati cori a favore della polizia e comunque linguaggi molto vicini a una destra populista a cui i poliziot-ti italiani hanno sempre ammiccato. Sicuramente, per chi governa, questo tipo di protesta è il male minore: non porta con sé grosse rivendicazioni se non un vago “Tutti a casa” e “Basta tasse” insieme a una vulgata un po’ razzista e un po’ nazionalista che non fa mai male. E non scordiamoci che in questa fase anche Berlusconi minaccia rivolte e lancia anatemi anti-sistemici, per cui non è certo da dietro-logi legare alcuni personaggi di questa protesta al vasto mondo delle clientele berlusconiane, specialmente al sud.Tutti fascisti? Quindi, tutti fascisti o qualunquisti e la sinistra deve sta-re sui divani e al pc? Il punto focale della discussione sta proprio qui e la risposta non è scontata. Era chiaro da tempo che prima o poi anche in Italia la crisi avrebbe prodotto reazioni così come è avvenuto, con diverse cause e motivazioni, nei paesi Brics (Brasi-le, Cina…), con le primavere arabe o con l’austerità europea in Spagna o Grecia. In Italia la crisi generalizzata si è palesata con il malessere della pic-cola imprenditoria fallita, delle partite iva, dei camionisti e degli ambulanti con parole d’ordine variegate e foca-lizzate su “tasse”, “italiani” e “casta”. Una specie di grillismo di destra un po’ improvvisato ma che attira su di sé soggetti sociali strangolati dalla cri-si i cui unici riferimenti sono il 40%

di disoccupazione giovanile, centi-naia di negozi e imprese chiuse ogni giorno, il processo di impoverimento delle cosiddette classi medie e la di-soccupazione di massa degli over50 e di tutti coloro che stanno uscendo dai cicli produttivi. Per chiarezza, non è che il 9 dicembre rappresenti il pri-mo atto di ribellione nel paese dall’i-nizio della crisi. Dal 2008 ad oggi ci sono stati grandi cortei di movimento come quello del 16 ottobre di tre anni fa, c’è stato il protagonismo studente-sco, le lotte sui territori come quella dei No Tav, alcuni scioperi anche se poco incisivi, un’ondata gigantesca di occupazioni per il diritto all’abita-re, le lotte dei tranvieri, degli operai Ilva e dei tarantini, quella dei facchini del comparto della logistica e quella dei metalmeccanici contro il sistema Marchionne. Fuori dalla politica isti-tuzionale qualcosa è sempre successo. Ma la differenza fra queste proteste, solitamente identificabili con orga-nizzazioni, slogan o concetti vicini alla “sinistra” e quelle del 9 dicembre è gigantesca. Da una parte migliaia di persone nelle piazze ed un’attività quotidiana sui territori a fronte però di una marginalità mediatica e di pratiche. Dall’altra il 9 dicembre con numeri esigui ma un ampio risalto mediatico. Perché? Perché come det-to il potere preferisce il qualunquismo di piazza ma soprattutto perché gli slogan (“Italiani”, “Poliziotto uno di noi”, “Tutti a Casa”), l’immaginario (piccolo imprenditore fallito o cittadi-

no disoccupato o vessato dalle tasse), i luoghi comuni (gli immigrati a cui vengono regalati soldi e case e che ru-bano il lavoro) rappresentano oggi nel paese il pensiero egemone di milioni di persone. Preferiscono, quindi, una protesta di pancia che una di siste-ma. E se nelle piazze la protesta del 9 dicembre è stata poco partecipata e spesso rappresentata, come in Ve-neto, dalla vecchia base leghista e da qualche partitino fascista, ha però col-pito l’immaginario di un paese intero, quello del famoso italiano medio.Che fare? Intanto partiamo da un assunto: non è possibile lasciare nelle mani di gruppi corporativi, reazio-nari o palesemente fascisti un imma-ginario e una protesta che riguarda centinaia di migliaia di nuovi poveri creati dalla crisi, dall’austerità targata euro e dal capitalismo liberista. Pove-ri che aumenteranno sempre di più a fronte dei conti in banca sempre più gonfi di una minoranza in ascesa. È la fotografia che è uscita anche su Il Tirreno in un articolo che faceva il re-soconto dei depositi bancari dei livor-nesi. Dobbiamo, dunque, separare il giudizio sui loschi figuri che hanno attraversato la protesta e sui soggetti economici da leghismo della prima ora da quello sulle persone per cui il 9 dicembre è stata l’occasione per mostrare pubblicamente un males-sere. E perché lo hanno fatto questa volta e non in altre occasioni? Molte persone hanno perso … [continua a pagina 3]

2 internazionale anno VIII, n. 88

le enormi spese in Afghanistan si dimo-strino giustificate. Inoltre nel sottosuolo sono stati scoperti grandi giacimenti di rame, zinco, argento, alluminio, zolfo, molibdeno, lapislazzuli, ferro, cobalto, wolframio, marmo, uranio, e terre rare come il niobio e il torio, una grande torta da dividersi nei prossimi anni. Uno degli obiettivi dell’ammini-strazione Bush era quello del controllo geopolitico della zona, per rompere l’influenza della Russia, impedire la ri-unificazione euroasiatica sotto Mosca, e controbattere l’azione economica, politica e culturale della Cina e dell’Iran nella regione. Ma non è andata come previsto. Il governo imposto a Kabul è debole, non ha la capacità di limitare l’immensa insicurezza esistente nono-stante la presenza delle truppe stranie-

re; il paese è distrutto e impoverito e le famiglie hanno seguito due strade: scontrarsi con l’occupante o cercare di sopravvivere con il traffico dell’oppio. 14 milioni di afghani su 30 sono coin-volti direttamente o indirettamente nella coltivazione e nella lavorazione del papavero: l’Afghanistan è diventato uno Stato produttore di eroina a causa dell’occupazione statunitense.

Hedelberto López Blanch, rebelión.org - Traduzione e riadattamento di Nello Gradirà

La produzione di oppio in Afghani-stan è enormemente cresciuta da

quando nel 2001 i talebani sono stati espulsi dal governo dall’invasione sta-tunitense. Le coltivazioni e la produzio-ne dello stupefacente sono diventate la principale fonte di valuta straniera del regime di Hamid Karzai, imposto dagli Stati Uniti. Dati delle Ong affermano che questa nazione ricava dal traffico della droga il 25% del suo Pil, mentre nel 1999 i talebani avevano messo al bando la sua coltivazione e due anni dopo la pianta era praticamente era-dicata. Ora la produzione si estende a quasi tutto il paese e la distribuzione arri-va a coprire l’85% del mercato europeo e il 35% di quello statunitense. Milioni di afghani poveri sopravvivono con la semina della pianta ma ricevono miseri dividendi, mentre i signori della guerra (che controllano tribù e zone strategi-che del paese) e membri del governo centrale, hanno i soldi e la capacità per occuparsi della produzione dell’oppio su grande scala. È stato più volte de-nunciato che numerosi membri delle forze di occupazione e della Cia fanno parte del lucrativo traffico, in quanto c’è bisogno di trasporti e grandi contatti per attraversare frontiere e mettere la droga a disposizione dei consumatori nelle nazioni occidentali. Uno dei prin-cipali trafficanti dell’Afghanistan era il fratello del presidente e governatore della provincia di Kandahar, Ahmed Wali Karzai, assassinato due anni fa. Christina Orguz, ex rappresentante in Afghanistan dell’Ufficio delle Nazio-ni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) ha dichiarato che fino a tre anni fa la maggior parte della droga trafficata nel paese asiatico era oppio, ma oggi circa il 90% viene trasforma-to in morfina ed eroina prima di essere esportato. La raffinazione viene effet-tuata in centinaia di laboratori artigia-nali su tutto il territorio, e sorvolando le zone di produzione si vedono molte

colonne di fumo sulle alture prove-nienti dai laboratori. Risulta difficile credere che gli Stati Uniti, con decine di migliaia di soldati che occupano il paese per terra, aria e mare, non sap-piano dove si processano e le strade per le quali si esportano queste droghe. In questi 12 anni più di 100.000 civili sono morti per mano delle forze della Nato, circa 750.000 hanno abbando-nato il paese, 10 milioni sono disoccu-

pati, l’85% sono analfabeti. A questo si aggiunge la quasi totale mancanza di acqua potabile e fognature; il 55% dei bambini sono denutriti, ogni giorno ne muoiono 600 per malattie evitabi-li. L’80% della popolazione di Kabul vive in insediamenti non pianificati in condizioni subumane. Non si parla più della promessa degli occupanti di portare avanti la ricostruzione del pae-se, e sono scomparsi miliardi di dolla-

ri che erano destinati a questo scopo.Per il 2014 gli Stati Uniti prevedono di lasciare 9.000 soldati sul suolo afghano con un contributo minore di alcuni dei loro alleati, nonostante che negli ultimi tempi ci sia stata una recrudescenza della violenza e i ribelli siano stati mol-to più attivi. Gli alti militari del Penta-gono e le transnazionali delle armi non vogliono abbandonare il paese, perché prima di ritornare a casa vogliono che

AFGHANISTAN - Dopo la “liberazione” l’unica attività

economica che funziona è il narcotraffi co

EUROPA - Un déjà vu, i media occidentali pompano le manifestazioni antigovernative in Ucraina

Oh no, ancora la rivoluzione arancione!D icesi “rivoluzione colorata”

quella strategia di destabi-lizzazione che Usa e Ue hanno attuato con alterne fortune in sva-riati paesi per imporre governi di stretta osservanza filo-occidentale e neoliberista. Il format prevede una forte pressione mediatica sul “regi-me” da abbattere, il finanziamento di gruppi di opposizione, il ricorso a manifestazioni di piazza oppor-tunamente “gonfiate”, la costru-zione a tavolino di leader politici amici, e pesanti tentativi di con-dizionare i risultati elettorali. In Ucraina stiamo assistendo in que-sti giorni ad una riedizione di que-sto format, già visto nel 2004 sotto forma di “rivoluzione arancione”. Nell’intervista che segue, tratta dal portale Rebelión, il sociologo sta-tunitense James Petras riassume efficacemente la situazione (N. G.).

***

L’Ucraina è divisa in due fa-zioni, l’una filo-occidentale e l’altra più indipendente, più propensa ad un maggior rap-porto con la Russia. La stampa internazionale, o per meglio dire la stampa imperialista,

descrive la situazione come se il popolo fosse a favore dell’Unione Europea e solo il governo fosse fa-vorevole a un avvicinamento alla Russia, rimanendo indipendente dall’Unione Europea. Ma, in re-altà, se l’Ucraina entrasse nell’U-nione Europea perderebbe molte cose e avrebbe anche conseguenze molto negative su tutto il settore della piccola e media industria, ca-dendo nella stessa trappola che sta sperimentando ora il sud europeo. Cioè ripeterebbe l’esperienza di Portogallo, Spa-gna, Grecia e gli altri paesi svan-taggiati, perché non è in grado di competere con Germania, Fran-cia, ecc., in parti-colare nel settore manifatturiero. E inoltre perde-rebbe l’accesso al mercato russo, dove i prodotti ucraini sono competitivi. La gente che sta protestando, che sono circa 200.000 persone -dati di domenica 2 dicembre- crede che riceverebbe

solo sovvenzioni dall’Europa, che avrebbe il diritto di viaggiare e la-vorare in Europa, ma non pensa alle vere conseguenze che avrebbe tutto questo. Non c’è alcun dubbio che se ci sarà l’integrazione arrive-ranno sovvenzioni e sussidi, ma ad un costo molto alto per l’andamen-to dell’economia, oltre al fatto di perdere la sovranità, perché Bru-xelles detterà la politica economi-ca e il governo nazionale ucraino non influirebbe per niente. Ma per questo l’Europa sta facendo il

doppio gioco: negozia al ver-tice per arrivare alla conquista dell’Ucraina e dal basso finan-zia i gruppi op-positori, perché mobilitino un settore della po-polazione con promesse false sulla prosperità. Quello dei pa-

esi occidentali è un doppio gioco come quello che hanno fatto in altri contesti con altri paesi. Mobi-litano la gente con illusioni di pro-

sperità, e poi quando la storia fini-sce questi riprendono il governo, cambiano la politica ma è troppo tardi; rimangono con grandi tassi di disoccupazione, grandi esten-sioni di terra in mano alle multina-zionali agro-industriali e la gente ha come unica soluzione quella di andarsene dal paese per cercare lavoro da un altra parte. Il punto è che ora non c’è lavoro in Europa, anche l’Inghilterra sta proponendo un tetto all’immigrazione e limiti ai diritti degli immigrati da altri pa-esi. Ormai sta finendo l’idea di una via d’uscita verso Occidente. Per-tanto gli ucraini che scendono in

piazza -principalmente studenti e professionisti di classe media- pensano soltanto di legarsi alle multinazionali con l’illusione che l’Ucraina nell’Unione Eu-ropea sarà come la Germania, il che è impossibile, invece di guardare quello che sta succe-dendo in Portogallo, Grecia, Italia, Spagna, con tassi di di-soccupazione che superano il 15, 20 o 30%.

Fonte: rebelion.orgTraduzione e riadattamento di Nello Gradirà

Su 30 milioni di abitanti 14 sono

coinvolti nella coltivazione e nella

lavorazione del papavero.

Per loro è l’unica possibilità

di sopravvivenza

Media e altaborghesia spingono

per entrare nell’Unione Europea, ma quale futuro può aspettarsi l’Ucraina

sotto i tecnocrati di Bruxelles?

Cronache dal regno dell’oppio

3interniin uscita dal 21 dicembre 2013

Salvo poi promuovere politiche economiche mortifere, ma arrivati a quel momento si vedrà.L’offerta di assoggettamento, già ricevuta nel caso di Landini e te-nuta in understatement se legata a Vendola, è legata naturalmente alle necessità di sopravvivenza di tanto ceto della Fiom e di Sel. Di-ciamo che, di fronte ad una crisi che rischia concretamente di por-tare ad uno sbocco greco (almeno per buona parte della società itali-ana), entrambe hanno scelto non di fondare una nuova Syriza ma di venire in soccorso del Pasok liber-ista. E per trovare spazio, entrambe dovranno declamare la versione simulacrale dell’antifascismo. Gridando alla nuova Alba Dorata ogni volta che un movimento so-ciale, di quelli che rappresentano il polimorfo mondo reale, metterà il naso fuori di casa. In modo da

cercare di farsi di imbarcare da un Renzi il quale, previdente come è, l’Anpi l’ha già visitata. Tutto torna comodo quando si tratta di far in-goiare, ad un paese stremato, una cura da cavallo liberista facendola passare come una innovazione democratica e, ci mancherebbe, anche di sinistra.

TERRY MCDERMOTT

Preceduta da reciproci abboc-camenti molto informali, è

arrivata l’offerta pubblica di Sel per il dialogo e l’eventuale col-laborazione con il Pd di Renzi. La risposta, da parte del segretario Pd e sindaco di Firenze, non c’è stata o comunque non ha avuto i caratteri dell’immediatezza. E si comprende il perché: il renzismo ha la vocazione del partito piglia-tutto. Vuoi una formazione di sin-istra? Niente meglio del renziano Pd che interpreta, a suo avviso, una sinistra moderna. La vuoi di centro? Quale miglior garanzia di un partito dove l’egemonia è ormai in mano agli ex-democ-ristiani. Vuoi qualcosa di destra? L’atteggiamento da uomo che decide di Renzi è ottimo e abbon-dante proprio per elettori delusi provenienti da destra. La freddez-za del Pd di Renzi, verso quella che di fatto è un’offerta di sott-omissione da parte dei vendoliani, si spiega quindi in diversi modi. Due da scegliere tra tutti: il primo è tutto interno al futuro incerto della legge elettorale. Non è dato sapere ancora quale legge eletto-rale ci sarà e se Sel farà comodo o meno sia in sede di approvazione che, successivamente, nella succes-siva futura campagna elettorale. Il secondo sta nel potere attrattivo di Sel dopo le intercettazioni telefon-iche di Vendola nella permanenza di mancanza di iniziativa del par-tito (costruito per un centrosinis-tra che non c’è più). È vero, come sostiene qualche sondaggista, che ciò che perde il Pd a sinistra a causa di Renzi può essere re-cuperato da Sel e poi, di nuovo, dal Pd in una alleanza dal sapore della ragionieristica partita dop-pia. Ma è anche vero che Sel, in un accordo con un soggetto mar-catamente neoliberista come il Pd

di Renzi, può attrarre pochissimo, innervosire alleati di destra e poi magari pretendere, a compensazi-one del sacrificio per una alleanza difficile, qualcosa di troppo dopo un’elezione.La possibile intesa tra Vendola e Renzi comporta quindi, tralascian-do le giravolte dialettiche che im-plicherebbe da parte di entrambi, ancora troppi forse per poter es-sere messa davvero in calendario. Nell’attesa di una eventuale svolta, chi si logora di più, tra i due sog-getti, è sicuramente Sel. Senza una prospettiva credibile nei movimen-ti e a sinistra, l’inviato di Sel è stato sonoramente fischiato al congresso di un Prc che l’aveva a lungo cor-

teggiata, messa fuori dal governo dal Pd e senza innovazioni polit-iche e culturali che la rimettano al centro della scena. Allo stato dell’arte il partito di Vendola può solo sperare in qualche necessità impellente di Renzi che lo costrin-ga al ripescaggio di Sel. Differente la liturgia seguita da Renzi per ri-conoscere Landini, segretario del-la Fiom, che è sottomesso quanto Vendola ma dentro tutto un altro percorso, quello politico-sindacale. Prima di tutto Landini già da tempo si è rimesso in linea con la segreteria Cgil. Quella presieduta dalla Camusso che argomenta, e sostiene, politiche neoliberiste con una naturalezza, apprezzata da

Renzi, che dovrebbe essere ignota ad una leader sindacale. Poi c’è il fatto che Landini, nella sua offerta di dialogo a Renzi, parla soprat-tutto di necessità di dialogo legata alla “democrazia”. Quella che ha permesso a Renzi di vincere le pri-marie e che dovrebbe permettere alla Fiom di tornare a far eleggere i propri delegati in fabbrica. In-somma niente di legato alla ques-tione della politica industriale, cosa vuoi che sia, ma molta neces-sità di reciproca legittimazione tra ceti politici e sindacali. Cosa che fa bene anche a Renzi, sia per mo-tivi interni e di immagine, per dare l’impressione di essere un soggetto che dialoga anche con i sindacati.

POLITICA - Sel e Landini provano a sottomettersi al Pd, saranno imbarcati?

Servire Renzi, servire il capitale

Allo stato dell’arteil partito di Vendola

può solo sperare in qualche necessità impellente di Renzi

che lo costringa al ripescaggio di Sel

Incazzati “neri”?

[Segue da pagina 1] …i rife-rimenti etici e politici e non vogliono più sentir parlare di sinistra, probabilmente giudi-candola inefficace, incompren-sibile o non corrispondente ai suoi interessi. Non vogliono più sentir parlare nemmeno di divisioni fra sinistra e destra ma si sentono più a loro agio parlando di poveri/ricchi, pe-nalizzati/privilegiati, cittadi-ni/politici e italiani/stranieri che, senz’altro, sono categorie più semplici. Chi come noi ritiene che, seppur con diver-se mutazioni di significato, la differenza formale e sostan-ziale fra sinistra e destra esista ancora, deve riuscire a far tor-nare protagonisti certi valori e certe pratiche nella massa. Per farlo c’è da sporcarsi le mani e stare in mezzo ai problemi e alla gente: organizzare mate-rialmente una solidarietà “di classe” con iniziative concre-te e cercare di alzare il livello di comprensione politica in-dicando chiaramente chi è il nemico e chi fa peggiorare le nostre condizioni di vita, di-

sarticolando tutti quei luoghi comuni e quelle pulsioni che creano guerre fra poveri. Anche perché non bisogna andare mol-to lontano per sentire discorsi raccapriccianti o luoghi comuni aberranti, spesso anche dentro i comitati a cui partecipiamo o usciti dalla bocca di lavoratori iscritti ai nostri sindacati. Bol-lare tutto come “fascista” o di “destra” è uguale ad accusare continuamente le persone di razzismo: è la via migliore per farceli diventare. Così come è inutili fare sterili polemiche sul-le bandiere tricolori. Insieme ai nuovi poveri stanno emergendo anche nuove esigenze e nuove culture, spesso deleterie. Esserci è l’unica maniera per cambiare il verso di una deriva sempre più individualista, prodotto della fi-nanziarizzazione e della globa-lizzazione dell’economia. E bi-sogna riuscire a darsi obiettivi di breve periodo, chiari e semplici da ottenere sapendo presidiare anche istituzioni e poteri, per-ché poi la massa chiede anche il conto e le vittorie su obiettivi di breve periodo servono.I rischi. Esserci sì, ma c’è da stare anche molto attenti: nel qualunquismo e nell’ambiguità

alberga spesso chi mesta nel torbi-do. E il 9 dicembre, al netto della rabbia spontanea di molti parte-cipanti, di torbido e ambiguo ce n’era molto. C’era un detto fra i tifosi del basket livornese che ne-gli anni ’80 si dividevano fra PL e Libertas “Chi dice d’esse’ per tutte e due è di si’uro per quell’artri”. Lo stesso vale nelle nuova vulga-ta “né di destra né di sinistra”. Il 9 dicembre ha dimostrato come i fascisti, seppur divisi in gruppetti e con numeri esigui, siano pronti a cavalcare il malumore popola-re trovando terreno fertile in una cultura di massa che risente di un

ventennio berlusconiano-leghista e di una sinistra che ha introitato i diktat liberisti. Senza contare l’as-senza di un quadro teorico di rife-rimento sul contesto economico e sociale. C’è tanto da fare e tanto da stare attenti.Chiudiamo con un’analisi fatta da Guido Viale su Il Manifesto con un parallelismo che, seppur for-zato, fornisce un’idea chiara sulle possibilità di errori di approccio di fronte ad eventi nuovi:“Cinquant’anni fa, nel 1962, e pro-prio a Torino, una rivolta di piazza inne scata da una mani fe sta zione indetta dalla Cgil con tro la Uil,

(fir ma ta ria di un accordo sepa-rato con la Fiat per bloc care la lotta ope raia in una fab brica che era stata per più di un decen nio tea tro della più spie tata oppres-sione padro nale) era “dege ne-rata” in quelli che sono pas sati alla sto ria come i fatti di Piaz-za Sta tuto. Sor pren dendo tutti, per ché nes suno se li aspet tava; anche per ché ai primi mani fe-stanti si era aggiunta, tenendo la piazza per alcuni giorni, una folla ster mi nata di attori di in-certa clas si fi ca zione sociale: non la classe ope raia inqua drata da sin da cati e par titi, ma una folla ano nima di ope rai di pic-cole e pic co lis sime fab bri che, di immi grati e disoc cu pati, di gen-te “senza arte né parte”: subito tac ciati come “pro vo ca tori” dal Pci, che pure avrebbe poi dovu-to con tare tra gli arre stati anche diversi suoi mem bri e per sino un fun zio na rio. Eppure, a distanza di anni, gli sto rici con cor dano nel vedere in quei moti la scin-tilla di un risve glio e la mani fe-sta zione di una nuova com po si-zione sociale che di lì a qual che anno sareb bero stati pro ta go ni-sti dell’autunno caldo del ‘69 e delle lotte sociali del ’68 e degli anni Settanta”.

4 Livorno anno VIII, n. 88

ni invece scarica Ferrari (senza neanche degnarsi di avvertirlo), ci va lo stesso e, peggio ancora, alla fine esprime “il plau-so per la totale trasparenza e disponibil-ità dimostrata” affermando “la sua grat-itudine nei confronti dell’ammiraglio Domenico De Bernardo per aver aperto le porte del centro e risposto alle doman-de”. Artini, preso dall’entusiasmo, rac-conta che “i dati delle analisi delle acque trattate mostrano come i limiti di legge siano tutti più che rispettati (con valori ben quattro volte inferiori)”. E non solo: “Abbiamo visitato anche il sito di stoc-caggio, dove abbiamo trovato in buono stato gli 800 fusti. La struttura ci è sem-brata solida ed integra”. Ecco un altro motivo per cui Ferrari non era gradito: a Livorno aveva espresso forti perples-sità sul sito e sulle modalità di stoccag-

gio. Per finire, dobbiamo assolutamente citare la solita impagabile Arpat: “nelle analisi delle acque del Canale Navicelli, dopo lo sversamento delle acque trattate della piscina del Cisam sarà più facile trovare dei valori sballati non dovuti agli sversamenti provenienti dall’ex reattore, quanto da altri fattori”. E ci dovrebbe tranquillizzare che i Navicelli sarebbero inquinati da altri ma non dal Cisam? Quali altri fattori di inquinamento ra-dioattivo ci sono in zona? Forse Camp Darby? E non è proprio l’Arpat, sem-mai, che deve vigilare? Roba da pazzi...

NELLO GRADIRÀ

Com’era prevedibile continua senza intoppi l’operazione “acque radio-

attive nei Navicelli” gestita dal Cisam con la complicità degli enti locali di Livorno e Pisa. Il Comune di Livorno ha fatto finta di lamentarsi per non es-sere stato informato tempestivamente, poi ha partecipato a un paio di riunioni (quando tutto era già stato deciso) e non ha trovato niente da ridire. Il Cisam da parte sua ha rispolverato la simpatica iniziativa delle visite guidate che veni-vano organizzate negli anni ‘70 con le scuole. Stavolta gli ospiti non sono studenti e insegnanti ma personaggi che si bevono tutto quello che gli rac-contano. Ha cominciato l’onnipresente comitato “Togliete quei bidoni”, che ormai è diventato un’autorità assoluta sui temi ambientali. Ad essere pignoli molti dei bidoni sono rimasti dov’erano, ma i promotori non se la sono presa più di tanto. Il 18 novembre, dopo la loro visita al Cisam, hanno dichiarato “Vogliamo ringraziare l’ammiraglio per la disponibilità e la chiarezza di-mostrataci. Abbiamo potuto verificare e conoscere nel dettaglio il progetto che, precisiamo, non è mai stato messo in dubbio”. Beh, certo, quando mai... In quella occasione i responsabili del Cisam facevano sapere che nei Navi-celli verrà sversata “acqua distillata”, e quando parlano così c’è da toccare ferro. Abbiamo spesso ricordato come negli anni ‘60 il deputato missino Nic-colai segnalava che un’operazione di smaltimento di rifiuti radioattivi era stata condotta “con la più sbalorditiva, fanciullesca, incredibile imperizia”. Gli uomini avevano lavorato “a petto nudo, senza guanti né tuta”, rimanendo con-taminati, compreso il responsabile della radioprotezione. “Se il capo è questo” concludeva Niccolai “si può immaginare il resto”. Più di recente, nel 2000, quando tra i militari italiani

impegnati in Kossovo cominciavano a manifestarsi tumori causati dall’uranio impoverito, Vittorio Sabatini, altro “esperto” del Cisam, dichiarava: “Tre campagne di analisi hanno dimostrato che non ci sono rischi per i militari ital-iani. Tutti i valori riscontrati rientrano nella norma”. L’anno dopo un altro del Cisam, il tenente colonnello Mauro Billi, sosteneva “Difficile che l’uranio impoverito abbia causato i tumori che hanno colpito i nostri soldati. Nessun militare italiano può essere stato esposto in maniera prolungata alle radiazioni”.

Nel 2012 su La Stampa si leggerà: “L’ex sergente Salvo Cannizzo, 36enne e pa-dre di tre bambine è stato stroncato da un tumore al cervello. La stessa sorte era toccata a un suo commilitone e al-tri cinque uomini (su nove) della sua squadra sono gravemente malati, a causa delle radiazioni assorbite durante la missione in Kosovo del ’99. Gli ex militari che si sono ammalati a causa dei proiettili all’uranio impoverito usati dagli americani sono circa duemila”.Ma torniamo alle visite guidate: il 13 dicembre è stata la volta di Massimo Ar-

tini, deputato del M5S e vicepresidente della commissione difesa della Camera. Doveva essere accompagnato da Gior-gio Ferrari, esperto vicino ai movimenti ambientalisti. Ma i militari fanno sapere che Ferrari è sgradito perché sarebbe uno dei firmatari di un esposto con-tro il Cisam. Se lo avesse fatto sarebbe stato un motivo in più per invitarlo e convincerlo che tutto era regolare, ma oltretutto non è neanche vero. A quel punto chiunque avrebbe annullato una visita dove il Cisam si arrogava il diritto di decidere chi poteva partecipare. Arti-

ACQUE PERICOLOSE - Divieto di accesso per gli esperti

indipendenti: troppi scheletri nell’armadio

ANNIVERSARI - Due anni fa al largo della Gorgona il disastro dei bidoni tossici

Era una notte buia e tempestosa... e 198 bidoni fi nirono in mareCIRO BILARDI

La storia inizia il 16 dicembre 2011, quando il cargo Venezia

della compagnia Grimaldi salpa da Catania diretto a Genova nono-stante previsioni meteo sfavorevoli. In coperta ci sono due semirimor-chi con un carico di bidoni conte-nenti catalizzatori al nichel e mo-libdeno di proprietà della raffineria Isab di Priolo Gargallo (Siracusa). Nelle prime ore del 17 dicembre il Venezia arriva nelle acque del-la Gorgona, dove in un mare in tempesta, in balia di onde alte fino a dieci metri, effettua una brusca manovra per evitare la collisione con un’altra nave, inclinandosi di 35 gradi. 198 bidoni finiscono in mare, ma la notizia viene resa pubblica dopo più di dieci giorni. Poi inizia la telenovela delle operazioni di re-cupero, e com’è finita si sa: più di 70 bidoni non sono mai stati ritrovati. A pochi giorni dal secondo anni-versario dell’incidente il Pubblico Ministero Luca Masini (di solito

più solerte) ha chiesto il rinvio a giudi-zio del comandante del Venezia, Pietro Colotto, del responsabile del magazzi-no della Isab, Salvatore Morello, e dello spedizioniere Mario Saccà. Per tutti e tre si parla di violazione delle proce-dure di sicurezza e di trasporto dei materiali; inoltre al comandante viene contestato di aver proseguito la navi-gazione nonostante le condizioni proi-bitive, rischiando il naufragio e cau-sando un disastro ambientale. Vertenza Livorno nei mesi scorsi aveva presentato un esposto nel quale, oltre a questi, erano stati messi in evidenza molti altri fatti di possibile rilevanza pe-nale a carico dei vari personaggi coin-volti nella vicenda, ma il Pm Masini aveva fatto sapere che non riteneva op-portuno incontrare i promotori prima della chiusura dell’inchiesta. Ora non dovrebbero esserci più motivi di riman-dare l’incontro, che sarà utile per capire

quali elementi hanno determinato le decisioni del magistrato. A breve quindi si svolgerà un incontro con gli avvocati che hanno seguito l’esposto per presen-tare una richiesta di accesso agli atti dato che solo tramite la loro visione di-

retta si potrà espri-mere un giudizio sensato e decidere o meno se costi-tuirsi parte civile. Al momento però l’impressione che si ricava leggendo la stampa è che si-ano stati tralasciati diversi aspetti im-portanti.

Il primo è che ai dirigenti della compa-gnia Grimaldi non viene addebitata al-cuna responsabilità penale diretta per il disastro. Ricordiamo che finora, a parte le spese sostenute per il recupero di una parte dei bidoni (e vorremmo anche vedere...), l’unica sanzione comminata all’armatore del Venezia ammonta a 1.000 euro per i ritardi nelle operazioni di recupero. Se si pensa che la Juventus è stata multata di 5mila euro per i famosi

cori offensivi dei bambini al portiere av-versario crediamo che sia mancato un tantinello di equilibrio.Il secondo punto è che non si è ritenuto di procedere nei confronti di quegli enti pubblici che per più di dieci giorni mancarono di co-municare alla popolazione l’avvenuto disastro, esponendo i pescatori o i sem-plici appassionati del mare al rischio di

trovarsi a loro insaputa a contatto con sostanze che si incendiano al contatto con l’aria sprigionando vapori tossici. Come dimenticare il mitico “livello di allerta zero” de-cretato dall’allora assessore all’am-biente Grassi... Leggiamo addirit-

tura che il Comune di Livorno intenderebbe costituirsi parte civile nel processo. Certo che nonostante i tempi non certo allegri dalle parti di Palazzo Civi-co non viene meno il senso dell’umorismo... Non è chiaro infine se tra i reati contestati vi sia anche l’indicazione nelle schede di carico di sostanze diverse da quelle effettivamente contenute nei bidoni o solo irregolarità nello stoccaggio e nel tra-sporto. E qui ricordia-mo che la vera natura delle sostanze disperse in mare si seppe solo quaranta giorni dopo

l’incidente in quanto all’ARPAT venne in mente di fare le analisi sui fusti rimasti a bordo con un... leggero ritardo. Tutti aspetti che meritavano probabilmente una maggiore considerazione da parte del PM, ma aspettiamo la lettura degli atti.

I militari invitano solo comitati

farlocchi e politici disposti a farsi

convincere che l’operazione

“acque radioattive” è del tutto regolare

Com’era stato temuto, più di 70 bidoni sono

rimasti sul fondo, ma per ora la Grimaldi

ha pagato solo una multa di 1000 euro

Cisam: alla facciadella trasparenza!

5Livorno

4- L’accordo del 31 maggio non è sta-to ancora recepito né da leggi né dal CCNL. Questa sentenza ovviamente sanci-sce la fine del monopolio di Cgil-Cisl-Uil ed apre la strada alla elezione delle Rsu nelle altre aziende e coope-rative nel porto di Livorno e non solo in esso. È una sentenza di portata na-zionale perché mette in mora questo accordo del 31/5/2013 sulla rappre-sentanza nel settore privato (che poi si vorrebbe esteso pattiziamente an-che al pubblico), in base al quale si stabilisce che tutti i diritti sindacali spetterebbero solo a coloro che pre-ventivamente accettano questo accor-do (esigibilità). In sostanza solo chi accetta la flessibilità e le deroghe peg-giorative ai contratti e soprattutto si impegna a non scioperare, pur in caso di dissenso dall’accordo rag-

giunto a maggioranza, potrà parteci-pare alla misurazione della rappre-sentanza e alle elezioni delle Rsu. Prima di questa sentenza, la demo-crazia sindacale veniva quindi subor-dinata alla rinuncia a qualsiasi forma di critica sindacale ed a qualsiasi stru-mento di lotta. I risultati elettorali e le prospettive L’elezione della Rsu dell’Alp si è svolta nei giorni 2 e 3 dicembre e, no-nostante il boicottaggio di Cgil-Cisl-Uil che inneggiavano all’astensione, il quorum è stato ampiamente rag-giunto, hanno votato 48 lavoratori su 62 aventi diritto, pari al 77,4%. Un risultato clamoroso soprattutto per-ché la percentuale dei votanti è supe-riore a quella che in genere si registra in questo tipo di elezioni. Sono stati eletti Mazza Massimo e Busoni Bru-no, entrambi dell’Unicobas. Il terzo seggio non è stato assegnato perché, in base alla norma iniqua e antide-mocratica contenuta nell’accordo in-terconfederale del 20/12/1993, dove-va essere riservato a Cgil-Cisl-Uil ( il famigerato terzo garantito) se si fosse-ro presentate alle elezioni ma non lo hanno fatto per cui non spetta loro neanche il premio di consolazione. Da oggi la trattativa aziendale con la direzione dell’Alp verrà condotta dal-la Rsu e il primo obiettivo è il rag-giungimento di un nuovo contratto integrativo visto che il vecchio è stato azzerato nel passaggio da Agelp ad Alp, con il beneplacito di Cgil, Cisl e Uil. Un altro obiettivo da raggiungere è il rispetto delle regole e la fine dello straordinario selvaggio nel porto. Per questo la Rsu ha già deciso l’indizio-ne dello stato di mobilitazione che si effettuerà a breve. Dopo questa schiacciante vittoria facciamo pertan-to appello a tutti i lavoratori del porto di Livorno affinché si proceda alla elezione della Rsu anche nelle altre ditte e cooperative. Così vedremo, an-che dal responso delle urne, chi rap-presenta effettivamente i lavoratori.

La recente vicenda della sentenza sulla rappresentanza sindacale

all’interno dell’azienda portuale Alp pronunciata poche settimane fa dal Tri-bunale del Lavoro di Livorno, e delle seguenti elezioni dei delegati sindacali Rsu in tale azienda, ha segnato una svolta importante nelle dinamiche sin-dacali all’interno del Porto di Livorno, da anni stagnante nel monopolio di Cgil-Cisl-Uil. Ne abbiamo parlato con Claudio Galatolo, segretario provin-ciale livornese della Cib-Unicobas, che ci ha fatto un quadro complessivo della situazione con questo contributo.

***

Per comprendere appieno come sia stato possibile ribaltare i rapporti di forza a livello sindacale nell’Agenzia per il Lavoro in Porto (Alp ex Agelp), come ci auguriamo del resto possa avvenire anche in altre ditte e coope-rative del porto di Livorno, bisogna aver presente l’evoluzione dei rappor-ti di lavoro e della collocazione socia-le dei lavoratori portuali in questi ulti-mi 20 anni, dopo la privatizzazione della attività portuali (legge 84/1994). Prima della privatizzazione e nei primi anni successivi ad essa era la Compagnia Portuali a dettare legge ed i suoi soci costituivano una vera e propria aristocrazia operaia ben in-quadrata nella logica cittadina della spartizione dei poteri (e non solo di quelli). Il ruolo dei sindacati era quindi commisurato alle necessità: serviva un sindacato molto soft, orientato a richiedere qualcosa in più ma in una logica spartitoria, senza confliggere con i dirigenti del-la cooperativa. Per questa ragione non sono quasi mai esistiti, se non negli ultimi anni, dei contratti inte-grativi ed anche dove venivano fatti non venivano chiusi, cioè non avve-niva la sottoscrizione definitiva. Molte volte la “contrattazione” di secondo livello avveniva semplice-mente tramite accordi verbali. Per evitare poi che qualche elemento estraneo alla logica spartitoria ap-prodasse alla contrattazione azien-dale, nonostante che da 20 anni Cgil, Cisl e Uil scrivessero nei con-tratti nazionali che dovevano essere elette le Rappresentanze Sindacali Unitarie (Rsu) in tutti i luoghi di la-voro, nel porto di Livorno dappertut-to sono rimaste le Rappresentanze Sindacali Aziendali (Rsa). In sostan-za i sindacati suddetti hanno sempre preferito delegare alle trattative aziendali degli elementi “fidati” piut-tosto che metterle in mano diretta-mente ai lavoratori tramite rappre-sentanti da loro eletti. Con l’avanza-re della privatizzazione e con l’av-vento della “crisi”, grazie anche ad una gestione poco oculata, la Com-pagnia ha perso terreno, padroni e padroncini la stanno mettendo piano piano in minoranza e i lavoratori portuali hanno perso la loro “aristo-crazia” e sono diventati lavoratori come tutti gli altri, sfruttati, con gli integrativi parzialmente azzerati o addirittura azzerati del tutto come è accaduto per l’Alp. Cgil-Cisl-Uil non si sono adeguati alla nuova situazio-ne e continuano per forza d’inerzia nella direzione primitiva, convinti di avere un monopolio sindacale che mai nessuno potrà togliergli ed arro-ganti per questo. L’Unicobas, grazie soprattutto al lavoro di Massimo Lomi molto conosciuto nel porto di Livorno per la sua attività di sindaca-

lista, ha trovato quindi adesioni nei settori più coscienti e combattivi che ormai hanno compreso che di questi tempi con la logica della parrocchia non si va da nessuna parte. Attual-mente l’Unicobas nel porto di Livor-no ha un consistente numero di iscritti nell’Agenzia per il Lavoro in Porto (Alp ex Agelp), Cpl, Cilp, Tdt e alcuni iscritti anche in Seatrag, Ltm, Lorenzini, Unicoop Servizi, Global Service. I lavoratori dell’Alp e la sentenza L’Alp è l’ultima ruota del carro, nel senso che è l’unico art. 17 nel porto di Livorno ed ha quindi il compito di fornire manodopera quando le al-tre ditte o cooperative ne hanno bi-sogno per un surplus di lavoro. Così perlomeno in teoria dovrebbero an-dare le cose, in realtà padroni e pa-droncini (che poi sono gli stessi che si sono spartiti l’Alp) fanno molto spesso ricorso allo straordinario sel-vaggio, nel senso che superano ab-bondantemente il massimo delle 300 ore annue di straordinario per dipendente previsto dal Ccnl, col ri-sultato che i lavoratori dell’Alp non riescono mai ad effettuare un nume-ro di turni sufficiente a raggiungere lo stipendio pieno. L’Autorità por-tuale e la Direzione Provinciale del Lavoro conoscono bene il problema ma finora i loro molto sporadici in-terventi non lo hanno minimamente risolto. Per questo e per le condizioni di lavoro estremamente penalizzanti (per esempio non sanno mai se avranno una domenica libera perché fino al sabato sera possono essere chiamati per il lavoro domenicale) buona parte dei lavoratori dell’Alp recentemente hanno aderito all’Uni-cobas che ha immediatamente ri-chiesto, come sindacato maggiorita-

rio per numero di iscritti, l’accesso alla trattativa aziendale. La Direzio-ne dell’Alp ha negato all’Unicobas l’accesso alla trattativa perché non firmatario di contratto, per cui si è reso necessario passare all’elezione della Rsu. Nonostante la richiesta di elezione della Rsu firmata dal 60% dei lavoratori e nonostante il nostro invito a fare una indizione comune Cgil, Cisl e Uil non solo si sono defi-lati, ma hanno cercato in tutti i modi di impedirla, appellandosi alla Con-findustria a cui l’Alp aderisce. L’Alp pertanto non ha concesso i locali per lo svolgimento delle elezioni e l’Uni-cobas si è visto costretto a ricorrere al giudice del lavoro. Con sentenza N° 1582 del 21/11/2013 il giudice Raffaela Calò del Tribunale di Li-vorno ha riconosciuto la validità dell’indizione della Rsu effettuata solo dall’Unicobas. Il giudice ha quindi condannato per condotta an-tisindacale l’Alp e ha ordinato la messa a disposizione dei locali per effettuare le elezioni. Questa senten-za è molto importante perché mette da parte e rende inefficace il famige-rato accordo del 31 maggio 2013 dove Cgil-Cisl-Uil, tra l’altro, si arro-gano il diritto di decidere dove si debba effettuare il passaggio da Rsa a Rsu, cassando quindi di fatto quanto sta scritto nell’accordo inter-confederale del 20/12/1993 che pre-vede invece la possibilità da parte di altri sindacati di indire le elezioni delle Rsu anche laddove ci sono le Rsa. Le ragioni per cui il giudice si è pronunciato in questo modo sono sostanzialmente 4: 1- Il Ccnl dei porti 2009-2012 tuttora vigente nell’art. 42 e nell’allegato G è perentorio: “ Le parti si danno atto che le rappresentanza dei lavoratori

in azienda sono costituite dalle Rsu nel rispetto dei principi e della disci-plina stabiliti …. dall’accordo di set-tore di cui all’allegato G e per quanto in esso non previsto dall’accordo in-terconfederale del 20/12/1993”; 2- Cgil, Cisl e Uil, tronfi della loro ar-roganza, si sono dimenticati di scrive-re nell’accordo del 31/5/2013 che le parti in contrasto con l’accordo inter-confederale del 1993 erano da consi-derare modifiche dello stesso; 3- L’accordo del 31 maggio è incosti-tuzionale perché cozza contro l’art.

39 della Costituzione ed è contrario “ai valori del pluralismo e della liber-tà di azione della organizzazione sin-dacale, così come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità oltre che costituzionale, da ultimo con la sen-tenza n. 231/2013 che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 19 L. 300/70”. Ci voleva che Marchionne mettesse alla porta la Cgil perché i giudici costituzionali si accorgessero, dopo decenni, che l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, che dice che sono rappresentativi solo i sindacati che firmano i contratti, fo-raggia il sindacalismo giallo e filopa-dronale;

SINDACATO - Nell’importante settore portuale

della città avanza il sindacalismo di base

Porto di Livorno:lavoratori protagonisti

Cgil, Cisl e Uil hanno sempre

preferito delegare alle trattative aziendali degli elementi “fi dati”

piuttosto che metterle in mano direttamente

ai lavoratori tramite rappresentanti da loro eletti.

in uscita dal 21 dicembre 2013

6

valgono solo lo “straordinario” per un reggimento di vigili urbani in servizio d’ordine pubblico.”L’esperienza del Teatrino fu rilan-ciata e difesa dal movimento dopo circa due settimane dallo sgombe-ro, il 23 gennaio con l’occupazione simbolica dell’allora chiuso Teatro Goldoni. Godzilla ruggiva ancora. Scrive Daniele, all’epoca sedicen-ne: «di quell’autunno resta solo il timore provato e il rammarico di esser stato troppo piccolo, però va anche detto che quello era solo l’inizio dell’onda lunga che poi ho cavalcato fino ad oggi attraversan-do in maniera consapevole tutto il movimento no-global del 2000. Sorto a Livorno grazie anche a quella scossa del ’93».Venti anni sono passati e la pra-

tica dell’occupazione e dell’au-torecupero ha fatto nascere spazi straordinari come il Refugio e l’Ex Caserma. Aveva ragione Marco Rossi nel già citato articolo di fine ‘94 pubblicato sulla rivista Il Gran-de Vetro: Dieci anni fa, senza voler capire l’importanza culturale, politi-ca e sociale di spazi extraistituzionali autogestiti, sicuramente in molti osser-vando l’apparire di quei “marziani” del centro sociale, si saranno detti, con un sorriso di sufficienza: “... sono gio-vani, gli passerà. Non sanno neppure loro cosa vogliono.” Si sono sbagliati e continuano a sbagliarsi. Siamo ancora qua e più in salute di loro. Nonostante tutto. A cura di Lucio Baoprati

Per capire l’importanza gene-rale del 1993 e dei suoi ultimi

mesi basta ricordare una data: 1 novembre ‘93, entrata in vigore del Trattato di Maastricht che istituiva l’Unione Europea. Il filosofo e so-ciologo liberale Ralf Gustav Dah-rendorf in quei giorni scriveva (in un articolo dal titolo che era tutto un programma Perché la sinistra ora piace al capitale) «Ci troviamo però tuttora in una zona imprecisata, nel bel mezzo della trama confusa di un dramma in pieno svolgimen-to». Beh, vent’anni dopo il dram-ma non si è ancora risolto. Nel mezzo, la tendenziale e progressiva disgregazione di tutto ciò che pote-va dirsi di sinistra.In Italia in quei mesi finali del ‘93 si preparavano le basi per la discesa in campo di Silvio Berlusconi, che di lì a poco avrebbe riportato la de-stra al governo. A guidare politica-mente il paese il governo tecnico di transizione con a capo il livornese Carlo Azeglio Ciampi. Già artefi-ce del famigerato accordo di luglio, che ridisegnava la concertazione tra parti sociali, il governo Ciampi l’11 dicembre ci regalerà, utilizzan-do come cavallo di Troia la Finan-ziaria, anche la cosiddetta autono-mia scolastica che rivoluziona (in peggio, se era possibile) il sistema scolastico italiano. Quel progetto di riforma contro cui il movimento studentesco si era opposto nei mesi precedenti contestando l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Iervolino.Un movimento studentesco molto forte anche a Livorno, città attra-versata da crisi sociale ed econo-mica e descritta come una sorta di polveriera (la Livorno della storica trasferta a Pontedera di cui scrivia-mo a pag. 8) e che era andato a dare nuova linfa al movimento spazi so-ciali trovando un luogo di aggrega-zione e confronto nel redivivo CSA Godzilla di Via dei Mulini. Utile riproporre alcuni passaggi di un documento a firma Godzilla Ros-so elaborato in quel periodo che inquadra bene la deriva che stava prendendo la città: «Dal ‘90 a oggi, la politica immobiliare del Comu-ne ha cambiato disegno: la crisi economica dl territorio lo ha spin-to a cercare nuove risorse (in uno sfruttamento più serrato del patri-monio immobiliare) e a “valoriz-zare” una fonte certa di ricchezza in periodo di crisi. La speculazione dei suoli e la rendita immobiliare. Defunta la politica industriale (ed emarginati i soggetti sociali portan-ti di quel periodo: portuali e classe operaia pacificata), grande sforzo di lor signori sta nella politica dei suoli e degli immobili (che crea una centralità di controllo dell’ammi-nistrazione nell’intreccio, peraltro spesso confuso, tra lega delle co-operative, speculatori immobiliari privati, studi professionali, circu-ito massonico, apparati di partito “leggeri” cioè allo stadio terminale di un chiaro radicamento sociale). In questo disegno all’aumento del valore formale dei suoli e degli im-mobili con le politiche del Piano Regolatore […] corrisponde l’au-mento dei prezzi delle “prestazioni degli immobili del Comune, con la vendita di ciò che è “necessario” e “possibile”. Questo è il compito del Comune: favorire l’accumula-

zione da rendita e reperire risorse tramite la cannibalizzazione degli immobili. »In questo contesto il Movimento spazi sociali contestualmente ad una critica al nuovo modello di gestione speculativa del territorio rilancia il problema della mancan-za di spazi autonomi di aggrega-zione ed espressione e lavora su un dossier (“Livorno muore”) che denuncia lo stato d’abbandono di varie strutture pubbliche e private a vocazione culturale e spettacolare. Strutture e luoghi che possono es-

sere liberati e recuperati grazie alla pratica dell’occupazione perché, come si legge nel dossier sopraci-tato, “non tutto ciò che è legale è giusto”Si arriva così al 16 dicembre 1993: nelle stesse ore in cui a Milano si sta consumando lo sgombero dello storico Leoncavallo, a Livorno vie-ne occupato in via Maria Terreni lo spazio polivalente di proprietà pubblica (chiuso da oltre due anni)

annesso al Complesso Gherarde-sca conosciuto come Teatro delle Commedie. C’è un primo “sgom-bero” ma in serata il Teatrino viene riconquistato.«Mi ricordo benissimo – ci raccon-ta Alessandra - la sera che occu-pammo. Davanti a me c’era il Bobo e tutti gli artisti che entrarono si esibirono sul palco. Compresi i Si-nistrati (il nostro gruppo di teatro di strada del momento - io, il Cuc-cu e il Palazzi). Tutti i giorni c’era assemblea nel pomeriggio, erava-mo durante le feste di Natale, tutti

i giorni c’era sempre più gen-te, più studenti, più voglia di fare. Dal punto di vista tecnico e organizzati-vo eravamo già bravi. Mi ricor-do una grande cooperazione tra tutti. Turni per pulire, bar sempre pieno e

idee di spazi liberati».Quell’esperienza è stata raccontata nel documentario della Anthony Perkins Productions “Oltre il sipa-rio… Storia di un teatro liberato”, curato da Enrico Pompeo e Ales-sandro Barbadoro, ed è il punto narrativo di arrivo di un altro video dell’APP “Questa storia non mi piace! Gli spazi sociali a Livorno dagli anni ‘80 al 1993” (Raccontata da chi c’e-ra prima che lo faccia qualcun al-

tro), di Luca Falorni. Un’esperien-za breve ed intensa che ha lasciato un segno profonda nella città, sia sul piano politico che su quello so-ciale e di prospettiva professionale (molti che sono passati dal teatrino in quei venti giorni sono rimasti poi a lavorare ad esempio in ambito artistico ed altri hanno poi succes-sivamente dato vita a nuovi spazi occupati). Un’esperienza durante la quale emersero con forza nuove esigenze e nuovi desideri. Ricorda Toto: «al posto delle interminabili assemblee sui “massimi sistemi” presero il sopravvento concerti/spettacoli/mostre/ e una sana aria di festa. Erano gli inizi degli anni ‘90 e la nuova onda che coinvolse tutta la cultura mainstream mon-diale infettò leggermente anche il mondo cosiddetto antagonista e al-ternativo. Infatti secondo me è sta-to un momento importante proprio per questo: durante quell’occupa-zione si videro facce nuove non solo tra gli occupanti ma soprattut-to tra i partecipanti. Tutte le nuo-ve band labroniche furono parte integrante dell’occupazione: si re-spirava veramente un’aria nuova». Ma fuori l’aria non era cambiata: il giorno di Befana del 1994, dopo lo storico concerto dei 99 Posse, il teatrino fu sgomberato. Così scri-verà poi Marco Rossi nell’articolo Livorno: dieci anni di guerre spaziali (nov. ‘94): “Venti giorni di iniziati-ve, aggregazione, teatro, musica e au-togestione sono ancora, per la giunta a maggioranza Pds, insopportabili e

SPAZI E STORIA – Ultima tappa dello speciale,

iniziato a gennaio, che ripercorre il fatidico anno 1993

C’era una volta il Teatrino Occupato

“Dal ‘90 a oggi, la politica immobiliare

del Comune ha cambiato disegno: la crisi economica

del territorio lo ha spinto a cercare

nuove risorse”

per non dimenticare anno VIII, n. 88

7stile libero

Sta per concludersi il 2013, l’otta-vo anno di vita di Senza Soste,

e come ogni fine anno ci troviamo a fare un bilancio del lavoro svolto dalla nostra redazione sotto tutti i punti di vista, da quello dei con-tenuti a quello dei numeri che ri-scontriamo rispetto a ciò che pro-duciamo. Numeri che parlano di oltre mille accessi unici al nostro sito ogni giorno, 6mila “mi piace” sulla nostra pagina Facebook, più di 1600 “followers” su Twitter, 280 iscritti alla nostra newsletter setti-manale, oltre ai 1000 giornali carta-cei che ogni mese distribuiamo sul territorio tramite la “vendita” ad offerta libera nelle edicole e la spe-dizione direttamente a domicilio ai nostri associati presenti a Livorno ma anche in altre province e regioni italiane. Ma soprattutto numeri che sono sempre in continua crescita e che ci danno lo stimolo per prose-guire il nostro percorso. Cos’è Senza Soste?Più volte abbiamo avuto modo di rispondere a questa domanda, spiegando la natura del nostro me-dia articolato nelle sue versioni di giornale cartaceo e sito web, oltre alle sopracitate presenze sui social network. Un media indipendente e libero, che può essere descritto riprendendo direttamente le parole scritte in un editoriale redazionale pubblicato sul nostro sito lo scorso 30 novembre. Senza Soste (“Periodico livornese indipendente”) è una redazione e non un soggetto politico compiu-to. Il grosso lavoro quotidiano che ci impegna è svolto secondo un si-stema di cerchi concentrici: esiste un primo livello, cioè quello della redazione “fisica” di persone che organizzano la quotidianità reda-zionale, distribuiscono il giornale, fanno autofinanziamento ed elabo-rano e pubblicano articoli o fanno le rassegna stampa. All’interno di questo primo cerchio ci sono per-sone di diversa provenienza politica che possono far parte di comitati, sindacati, collettivi o partiti (nel no-stro caso non c’è nessuno ma non sarebbe elemento ostativo). Altri fanno parte solo della redazione di Senza Soste. Questo primo livello decide cosa pubblicare e quando, e come regola generale ha quella di non pubblicare o elaborare con-tenuti di natura fascista, sessista o razzista o contenuti riconducibili a soggetti di governo del territorio. Poi esiste un secondo livello che è

quello di tutti coloro a cui chiedia-mo contributi su temi che all’inter-no della redazione non curiamo da vicino o che curano meglio di noi. E quindi ci rivolgiamo a una rete di persone all’interno dei posti di lavo-ro, nei comitati, nelle associazioni, nei partiti o singoli esperti che pro-ducono il materiale per noi. Infine c’è il terzo livello, che sono tutti co-loro che propongono contenuti da pubblicare, coloro che ci contattano via email e tutti coloro che pubblica-no link o materiali sulle mailing list di movimento che per noi rappre-sentano una vera e propria rassegna stampa della rete in tempo reale.Tutto questo per dimostrare che, al netto del gossip politico, Senza So-ste è un sistema indipendente, senza editore e senza padroni, in cui i vari protagonisti hanno libertà di movi-mento nel panorama politico, ferme restando le regole generali esposte prima. L’autofinanziamento: come associarsiMa oltre ad essere un media libero e indipendente, siamo soprattutto au-tofinanziati, nel senso che ci man-teniamo tramite il vitale contributo dei nostri associati e grazie ad alcu-ni appuntamenti (principalmente cene) di autofinanziamento. Rin-noviamo quindi anche quest’anno l’appello ai nostri lettori ad associar-si, perché senza il sostegno fonda-mentale di chi ci legge, Senza Soste non potrebbe sopravvivere. Per rinnovare il sostegno o per as-sociarsi ex novo basta effettuare il pagamento (20 euro quota mini-ma) tramite bollettino postale in-testato a “Associazione culturale Senza Soste” (conto corrente n. 86830122), inserendo i propri dati anagrafici e come causale QUO-TA ASSOCIATIVA 2014, oppure tramite bonifico bancario (codice IBAN: IT67 V076 0113 9000 0008 6830 122). Associandosi (è possibi-le farlo in ogni momento dell’an-no) si ricevono 12 numeri del nostro giornale cartaceo mensile direttamente a casa. Per qualsiasi necessità di chiarimenti, spiegazio-ni o comunicazioni integrative (ad esempio l’indirizzo al quale dovrà essere spedito il giornale nel caso in cui questo sia diverso rispetto a quello indicato sul bollettino o sul bonifico) basta contattarci al nostro indirizzo mail [email protected]. Nell’articolo che segue, una rapida carrellata su quello che è stato il 2013 di Senza Soste. Buona lettura!

CAMPAGNA ASSOCIATIVA 2014 - Come sostenere il nostro periodico di informazione indipendente

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in uscita dal 21 dicembre 2013

Mese per mese, il 2013 di Senza Soste

Un viaggio all’indietro dentro il 2013 di Senza Soste. Una rasse-

gna, mese per mese, di come abbia-mo seguito le vicende locali e nazio-nali nel corso dell’anno che si sta per concludere.Gennaio - Il 2013 di Senza Soste si apre con l’inchiesta del nostro giorna-le cartaceo sul mondo Coop e in parti-colare sull’azienda Unicoop Tirreno, al centro di numerose polemiche per le sue azioni in campo sindacale, fi -nanziario e immobiliare. Sul piano nazionale è invece il mese in cui fra le tante tempeste preelettorali scoppia lo scandalo del Monte dei Paschi di Sie-na, e noi titoliamo “Mps, la banca del Pd che nel 2012 è costata 3,9 miliardi agli italiani. Più dei tagli della riforma Fornero”.Febbraio - La prima pagina del gior-nale di febbraio è un’altra nostra in-chiesta locale, dedicata al caso dello sversamento nel mare livornese di so-stanze radioattive provenienti dal re-attore nucleare del Cisam di San Piero a Grado. A livello nazionale è invece il mese delle elezioni politiche che vedono l’exploit del Movimento 5 Stelle, primo partito del paese. Attra-verso il nostro sito produciamo diver-se analisi, fra cui quella sui motivi del pesante fl op di Rivoluzione Civile. Marzo - A Livorno è il mese della cla-morosa (non accadeva dal dopoguer-ra) emergenza idrica che lascia senza acqua la città per tre giorni. Apriamo il nostro giornale con un articolo di analisi sull’amministrazione comu-nale e su Asa, la municipalizzata che gestisce il servizio idrico a Livorno, ripercorrendo la storia dell’azienda e focalizzando l’attenzione sulle conse-guenze della sua privatizzazione. Sul piano nazionale è il mese delle reazio-ni post-voto, talvolta isteriche, infatti noi titoliamo “Don’t panic: fermare l’isteria, sfruttare il contesto”.Aprile - Il giornale di aprile si apre con l’articolo “Stato d’assedio”, in cui ripercorriamo la storia delle battaglie dei movimenti livornesi per la riaper-tura della Fortezza Nuova, represse dalla Procura con sanzioni pesantis-sime nei confronti di chi altro non aveva fatto che opporsi al degrado e all’abbandono del più bel parco del-la città. A livello nazionale è il mese della rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, e sul nostro sito scriviamo un articolo dal titolo “Pd e Quirinale: sorprende chi si sorprende”.Maggio - La prima pagina del nostro giornale di maggio è dedicata alla co-siddetta variante “Puntone del Valli-no”, la quale prevede che un’immen-sa area verde alle porte di Livorno venga destinata ad attività industriali e nocive, in nome del profi tto della Cna, delle cooperative e di altri im-

prenditori legati al Pd. Sul piano na-zionale invece succede di tutto un po’: muore Andreotti, Epifani è il nuovo segretario del Pd, Grillo fa un mezzo fl op alle amministrative (ma lui dice di no), Cgil-Cisl-Uil fi rmano l’accor-do del 31 maggio che Usb defi nisce “accordo vergogna”. Tutti temi su cui produciamo letture ed analisi tramite il nostro sito.Giugno - “Alla faccia della salute” è il titolo che dedichiamo (nell’aper-tura del giornale di giugno) ad un articolo sul nuovo ospedale di Livor-no, che affronta i risvolti sanitari del modello cosiddetto “per intensità di cure” e le ripercussioni sulla qualità dei servizi per i cittadini. A livello na-zionale invece spiccano i ballottaggi delle elezioni amministrative, che noi commentiamo sul nostro sito con l’articolo: “Il mondo di Epifani. Alle amministrative votano solo gli elettori del Pd”.Luglio - I rifi uti, vero e proprio bu-siness per i privati, sono al centro dell’attenzione nella prima pagina di Senza Soste di luglio, dove titoliamo: “Il denaro non puzza”. Una panora-mica sul tema in cui analizziamo chi ci guadagna, dove fi niscono i nostri rifi uti, e soprattutto affrontiamo la questione degli inceneritori. Sul piano nazionale tengono banco le mille dif-fi coltà del governo Letta a rimanere in piedi, che rischia di cadere addirittura per il caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Ablyazov espulsa dall’Italia. La mozione di sfi ducia al ministro Alfano però viene respinta grazie ai voti del Pd, e Letta rimane in sella.Agosto - A Livorno arriva il rigassi-fi catore, e la sera del 4 agosto più di 2mila persone scendono in corteo per celebrare il funerale del nostro mare. Una manifestazione riuscitis-sima e partecipatissima, con cui la cittadinanza grida il proprio sdegno per l’arrivo del “mostro”, il quale non fornisce garanzie e anzi lascia mille dubbi su tutti i fronti: della sicurezza, ambientale, economico, lavorativo. A livello nazionale è invece il mese del-la condanna giudiziaria di Berlusconi e del serrato dibattito politico che ne deriva. Noi lo seguiamo sul sito con il nostro Nique La Police, che scrive un editoriale dal titolo: “Vicende giudi-ziarie, indici azionari e sacra famiglia. La permanente centralità di Mediaset e Berlusconi”. Settembre - Il nostro giornale del mese di settembre si apre con un’in-chiesta sulla vicenda del nuovo quar-tiere livornese di Salviano 2-Borgo di Magrignano, un’altra pagina oscura e assurda della nostra città che rap-presenta l’emblema dei rapporti tra i vari anelli del potere locale e la leva dell’immobiliarismo come fonte di accumulo di denaro. A livello nazio-nale invece il dibattito è incentrato sul ruolo che dovrebbe avere l’Italia in caso di intervento militare americano

nella guerra civile in corso in Siria, ma anche sulle vicende di Berlusconi e sulle mille contraddizioni del gover-no delle larghe intese. Noi riassumia-mo il tutto in un editoriale sul nostro sito dal titolo: “Orwell in Italia, nuove puntate”.Ottobre - L’apertura del nostro gior-nale di ottobre si intitola “Acque peri-colose”, e riguarda il caso (già affron-tato, come scritto sopra, nel nostro giornale di febbraio) dell’imminente sversamento nel Canale dei Navicel-li di 750mila litri di acque sospette di essere contaminate radioattivamente per via di forti dubbi sulla regolarità dell’iter autorizzativo e sulle proce-dure. Sul piano nazionale invece è un mese denso di avvenimenti, che noi seguiamo attraverso vari articoli sul nostro sito: la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre (366 morti accertati), la crisi del Governo Letta (che si salva in Parlamento provocando una clamo-rosa marcia indietro di Berlusconi), lo sciopero generale del 18 ottobre e la manifestazione del giorno successivo a Roma (con il conseguente strascico di polemiche sulle assurde narrazioni mediatiche degli “scontri”). Novembre - Dopo la prima pagina del mese di luglio, sono ancora i rifi uti ad aprire il nostro giornale di novem-bre, e se la volta precedente avevamo messo al centro dell’attenzione il bu-siness dell’incenerimento, questa vol-ta ci concentriamo sulla novità della raccolta dei rifi uti porta a porta a Li-vorno, che analizziamo in tutte le sue criticità e ne sottolineiamo il carattere di probabile spot elettorale in vista delle prossime consultazioni ammi-nistrative. A livello nazionale, oltre a quello della decadenza di Berlusco-ni da senatore, novembre è anche il mese dei congressi territoriali del Pd in vista delle primarie per la segrete-ria che vedono strafavorito Matteo Renzi; noi dedichiamo articoli ed edi-toriali allo scandalo dei tesseramenti gonfi ati e delle iscrizioni “sospette” dell’ultimo momento. Dicembre - L’apertura del giornale di dicembre è dedicata eccezionalmen-te ad una vicenda nazionale, quella dell’esplosione delle proteste organiz-zate dal movimento dei Forconi, che fanno molto discutere per la loro con-notazione politica e sulle quali, oltre appunto all’articolo che apre questo giornale, pubblichiamo sul sito an-che altre analisi da siti di movimento come Infoaut, Contropiano e Mili-tant. A livello locale invece seguiamo tramite il nostro sito gli scioperi con-tro le privatizzazioni nei trasporti, or-ganizzati con enorme successo anche a Livorno così come in altre parti d’I-talia con l’epocale sciopero di cinque giorni consecutivi a Genova.Tutto questo (e anche molto altro) è stato il 2013 di Senza Soste, aspet-tiamo il vostro sostegno per garan-tire un 2014 sugli stessi livelli di informazione ed analisi. Redazione

PAGINA OTTOANNO VIII - n° 88 - in uscita dal 21 dicembre 2013

marchi pubblicitari Alisarda, Seiko e Cora; l’esempio venne seguito l’an-no successivo dall’Inter, che marchiò con lo sponsor Inno-Hit le tute d’al-lenamento di giocatori e raccattapal-le, i biglietti d’ingresso e i tagliandi d’abbonamento.

Il processo divenne inarrestabile, e nel 1981 Figc e Lega si videro in pratica costrette ad approvare un do-cumento che apriva le porte del cal-cio italiano agli sponsor extrasettore, permettendone un’esposizione mas-sima di 100 cm² sulla parte anteriore delle maglie (aumentata a 144 cm² due anni dopo). Lo stesso D’Atto-ma, solo pochi mesi prima osteggia-to dai vertici del calcio tricolore, ven-ne messo a capo della Promocalcio.

TITO SOMMARTINO

Ve lo immaginate il nome di un marchio di jeans “da battaglia”

sulle maglie del Milan? E quello di un’azienda vinicola locale a con-duzione familiare sulle maglie del Toro? Non c’è bisogno di chiudere gli occhi e provare a immaginare un futuro impossibile, ma al contrari ba-sta aprirli, sfogliare gli album Panini e tuffarsi nel passato, precisamente nella stagione 1981/82, quella che di fatto aprì alla sponsorizzazione di massa delle maglie delle squadre di calcio italiane. Alcuni club siglarono sponsorizzazioni storiche e plurien-nali con veri e propri colossi econo-mici, tanto che ad un certo punto ve-niva quasi automatico associare ad una maglia il nome dello sponsor o viceversa. È il caso della Roma e del-la pasta Barilla, che andranno a brac-cetto per 13 anni dal 1981 al 1994, o della Juve e di Ariston (8 anni dal 1981 al 1989). Ma il 1981 regalò anche accoppia-menti bizzarri. Marchi semiscono-sciuti come la Pooh Jeans o la Barbe-ro presero possesso rispettivamente delle maglie del Milan (una cosa impensabile solo cinque o sei anni più tardi) e del Torino. Solo per fare alcuni esempi la sconosciuta Cook O’Matic si guadagnò il petto dei giocatori del Catanzaro, la Pop 84 appose il suo nome contemporanea-mente sulle maglie di Ascoli e Sam-benedettese (non proprio una gran-de mossa considerato l’odio atavico tra le due città e le due tifoserie) e i Fratelli Dieci, con i loro macchina-ri agricoli, misero il nero sul bianco delle maglie del Cesena. Ma vedia-mo come siamo arrivati alla stagione che per molti ha segnato il cambio di un’epoca e gettato le basi del cosid-detto “calcio moderno”.Una cosa ben peggiore degli sponsor sulle maglie si visse negli anni ‘50. Alcuni club calcistici fusero il pro-prio nome con aziende o prodotti dei più vari: Simmenthal Monza, Ozo Mantova, Sarom Ravenna Zenit Modena e perfino Talmone Torino, un abbinamento messo in piedi nella stagione 1958-1959 tra i Granata e l’azienda dolciaria pie-montese che culminò con la prima retrocessione della loro storia, nel decimo anniversario della strage di Superga. L’esempio più fortunato e longevo rimane quello del Lanerossi Vicenza, risultato della fusione tra la squadra vicentina e l’azienda Lane-rossi: la nuova società si contraddi-stinse subito per la caratteristica “R” blu inserita come stemma sulle ma-glie, a richiamare il marchio del lani-ficio. Questo abbinamento, nato nel 1953, proseguirà con successo fino al 1990, ben oltre la legalizzazione del-le sponsorizzazioni in Italia e, dopo una pausa di quindici anni, nel 2006 la storica ‘R’ è ritornata a furor di popolo sulle maglie del Vicenza. Un matrimonio talmente storico che alla fine degli anni cinquanta, in virtù di una speciale concessione, sopravvis-se anche al bando della Federazione che vietò la pratica dell’abbinamento per circa un ventennio.Nel 1978, la Federazione creò la Promocalcio, struttura a scopo commerciale istituita per studiare e regolamentare Totocalcio, diritti TV e sponsorizzazioni che autoriz-

zò per la prima volta l’inserimento sulle maglie da gioco di piccoli mar-chi commerciali: l’autorizzazione riguardava esclusivamente i forni-tori tecnici, che potevano mostrare il proprio logo per uno spazio non superiore a 12 centimetri quadrati (poi portati a 16 cm²), ma tanto bastò per segnare un’epoca, e per dare il là

ad una serie di decisioni irreversibili che da lì a pochi anni cambiarono radicalmente il panorama calcistico italiano. La Juventus recepì per pri-ma questa nuova norma, inserendo subito tra le sue strisce bianconere il logo del fornitore tecnico Kappa.Nella stagione 1978/79, in Serie B,

grazie al presidente dell’Udinese Te-ofilo Sanson avvenne la comparsa del primo sponsor commerciale nel calcio italiano. Sfruttando le pieghe del Regolamento delle divise da gioco – che norma esclusivamen-te le maglie – il Patron dei friulani, anche proprietario della Sanson Gelati, fece inserire il nome della sua azienda sui pantaloncini della squadra. La cosa suscitò un gran clamore mediatico, e la controversa interpretazione del regolamento co-stò all’Udinese una multa di 10 mi-lioni di lire e la rimozione del mar-chio extrasettore dai pantaloncini, ma intanto la Sanson ottenne dalla cosa una notevole visibilità ed un conseguente aumento delle vendite.La stagione successiva, precisamen-te il 26 agosto 1979, cadde l’ultimo tabù con l’esordio in Coppa Italia della prima maglia di calcio italiana griffata da uno sponsor, quella del Perugia. Artefice di ciò fu il presi-dente dei Grifoni Franco D’Attoma. Per reperire i 700 milioni necessari a portare in Umbria l’attaccante Paolo Rossi in prestito, D’Attoma si accor-dò col pastificio Pasta Ponte, da cui ne ottenne 400; in cambio, il nome

dell’azienda sarebbe comparso sulle tute d’allenamento della squadra. La Figc non tollerò però sull’abbi-gliamento tecnico la presenza di un logo diverso da quello del fornitore, multando la società perugina per 20 milioni ed imponendo la rimozione

del marchio Ponte.Dato che era questa l’unica forma di sponsorizzazione allora permessa dalla Federazione, in 48 ore D’Atto-ma aggirò le regole federali fondando un maglificio col nome del pastificio, la Ponte Sportswear, che ora figurava ufficialmente come fornitore tecnico delle casacche, ma che de facto fu il primo vero sponsor di maglia del cal-cio italiano. La Federazione provò il goffo tentativo di raggiro e squalificò D’Attoma che però non demorse e rilanciò arrivando perfino a scrivere il nome dello sponsor Ponte sulle reti e sull’erba dello stadio Renato Curi.Nel 1980, Cagliari, Genoa e Tori-no riuscirono a marchiare le tute di riserve e raccattapalle coi rispettivi

CALCIO E SPONSOR - Così, tra il 1978 e il 1981, furono profanate

e rovinate per sempre le maglie delle maggiori squadre calcistiche italiane

Una macchia Una macchia indelebileindelebile

L’aperturaalle sponsorizzazioni

sulle maglie può essere considerata

la prima veraconcessione

al “calcio moderno”