III. La scala umana - maurizio...

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III. La scala umana 1. Dalla “Carta d’Atene” alla città contemporanea. Da diversi decenni i principi urbanistici di matrice funzionalista, generalmente identificati con gli enunciati della “Carta d’Atene” 80 , sono oggetto di critiche feroci. «La decomposizione delle città europee verifica- tasi negli ultimi quarant’anni - scrive Manuel de Solà-Morales in un celebre articolo - ha sol- levato una pesante ombra di colpevolezza sull’ideologia urbanistica derivata dall’architet- tura funzionale» 81 . Certamente, «da queste idee sono nati tutti i quartieri, tutte le città-satelliti, tutte le rico- struzioni nelle quali la nuova sostanza urbana è costituita unicamente da edifici in linea ed edifici a torre immersi in uno spazio troppo vasto. La reazione alla “strada-corridoio” - con- clude André Corboz in un altro celebre scritto - è sfociata in una specie di decomposizione della città nel verde o in un ambiente aperto da tutti i lati» 82 . Certamente, infine, come scrive Bernard Huet in un terzo celebre testo, il modello ispirato dalla Carta d’Atene illustrata da Le Corbusier finì per imporsi, non solo in Francia, «come l’unico modello ufficiale per tutte le operazioni di edilizia abitativa fino alla fine degli anni Settanta» 83 , producendo «spazi informi e opachi, privi di spessore simbolico, sprovvisti di espliciti riferimenti a qualsiasi convenzione di socialità» 84 , così tipici di molte delle periferie che conosciamo. Senza voler negare i danni spaventosi prodotti dalle applicazioni peggiori di questo model- lo, forse tuttora operante «pur sotto forme diverse, nonostante le critiche di cui è stato oggetto» 85 , occorre tuttavia evitare di “gettare il bambino con l’acqua sporca”. Anzitutto, non tutti i quartieri di “torri” e “barre” sono di cattiva qualità. Ve ne sono molti, nelle “retrovie” di zone urbane tradizionali, o anche nelle periferie di alcune città, che oltre a essere immersi nel verde, dispongono di servizi collettivi adeguati - i famosi “prolunga- menti” della Carta d’Atene - e non presentano segregazione funzionale, con attività terzia- rie e industriali compatibili accanto alle abitazioni. Inoltre, soprattutto le “barre”, non esclu- dono attività commerciali ai piani terra, e quando collocate in serie possono essere collega- te da corpi di fabbrica allineati lungo la strada, dove alloggiare attività ed esercizi tipica- mente urbani. In generale, le città con brani di urbanistica funzionale di buona qualità hanno conservato molti spazi verdi e presentano una maggiore varietà e articolazione spaziale. Sono anche le città che hanno sviluppato una più marcata evoluzione delle tipologie edilizie. Va anche det- to che questi risultati di varietà urbana sono stati possibili grazie alla coesistenza con modelli più tradizionali e al fallimento di ipotesi radicali e visionarie come il Plan Voisin di Le Corbusier, per il centro di Parigi, del 1925, o il Plan Braillard per Ginevra del 1935. I sommari elementi che precedono ci aiutano a comprendere che, in realtà, il modello di derivazione funzionale è pienamente parte della città contemporanea, e anzi può essere oggi in un certo modo rivalutato. Di fatto, fin dalle sue origini, questo modello vituperato ha rappresentato il tentativo di conciliare una certa densità urbana con le esigenze che al prin- cipio del Novecento erano quelle dell’igienismo e che oggi sono quelle della sostenibilità ambientale. La nostra ipotesi è che “la ville contemporaine pour trois millions d’habitants” (1922) e la successiva “Ville Radieuse” (1930) di Le Corbusier, derivino dalla combinazione della densi- tà seriale del Plan Cerdà per Barcellona del 1859 con la collocazione nel paesaggio tipica della “città giardino”. Questa ipotesi è avvalorata dalla critica puntuale della Carta d’Atene (nella versione di Le Corbusier) sia nei confronti del tipo edilizio impostosi a Barcellona, sia della fuga in periferie lontane e disperse nelle campagne. La tesi numero 17 osserva che «le strade parallele o oblique disegnano, intersecandosi, delle superfici quadrate o rettangolari, a trapezio o a triangolo, di varie dimensioni che, quando vi si costruisca, costituiscono gli “isolati”. La necessità di illuminare il centro di questi blocchi fa nascere i cortili interni di varie dimensioni. I regolamenti edilizi lasciano disgraziatamente agli speculatori la libertà di restringere questi cortili a misure veramente inconcepibili. Si giunge allora al triste risul- tato che una facciata su quattro, dia essa sulla strada o sul cortile, è orientata al nord e il sole non vi batte mai, mentre le altre tre, a causa della strettezza delle strade e dei cortili, e per l’ombra portata che ne deriva, ne sono egualmente private a metà» 86 . A sua volta, la tesi numero 20 apostrofa come «paradisi illusori, soluzione irrazionale» 87 le Il piano modernista di Maurice Braillard per Ginevra (1935) e un quartiere di “barre” nella città svizzera 125

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III. La scala umana

1. Dalla “Carta d’Atene” alla città contemporanea. Da diversi decenni i principiurbanistici di matrice funzionalista, generalmente identificati con gli enunciati della “Cartad’Atene”80, sono oggetto di critiche feroci. «La decomposizione delle città europee verifica-tasi negli ultimi quarant’anni - scrive Manuel de Solà-Morales in un celebre articolo - ha sol-levato una pesante ombra di colpevolezza sull’ideologia urbanistica derivata dall’architet-tura funzionale»81.Certamente, «da queste idee sono nati tutti i quartieri, tutte le città-satelliti, tutte le rico-struzioni nelle quali la nuova sostanza urbana è costituita unicamente da edifici in linea ededifici a torre immersi in uno spazio troppo vasto. La reazione alla “strada-corridoio” - con-clude André Corboz in un altro celebre scritto - è sfociata in una specie di decomposizionedella città nel verde o in un ambiente aperto da tutti i lati»82.Certamente, infine, come scrive Bernard Huet in un terzo celebre testo, il modello ispiratodalla Carta d’Atene illustrata da Le Corbusier finì per imporsi, non solo in Francia, «comel’unico modello ufficiale per tutte le operazioni di edilizia abitativa fino alla fine degli anniSettanta»83, producendo «spazi informi e opachi, privi di spessore simbolico, sprovvisti diespliciti riferimenti a qualsiasi convenzione di socialità»84, così tipici di molte delle periferieche conosciamo.Senza voler negare i danni spaventosi prodotti dalle applicazioni peggiori di questo model-lo, forse tuttora operante «pur sotto forme diverse, nonostante le critiche di cui è statooggetto»85, occorre tuttavia evitare di “gettare il bambino con l’acqua sporca”.Anzitutto, non tutti i quartieri di “torri” e “barre” sono di cattiva qualità. Ve ne sono molti,nelle “retrovie” di zone urbane tradizionali, o anche nelle periferie di alcune città, che oltrea essere immersi nel verde, dispongono di servizi collettivi adeguati - i famosi “prolunga-menti” della Carta d’Atene - e non presentano segregazione funzionale, con attività terzia-rie e industriali compatibili accanto alle abitazioni. Inoltre, soprattutto le “barre”, non esclu-dono attività commerciali ai piani terra, e quando collocate in serie possono essere collega-te da corpi di fabbrica allineati lungo la strada, dove alloggiare attività ed esercizi tipica-mente urbani.In generale, le città con brani di urbanistica funzionale di buona qualità hanno conservatomolti spazi verdi e presentano una maggiore varietà e articolazione spaziale. Sono anche lecittà che hanno sviluppato una più marcata evoluzione delle tipologie edilizie. Va anche det-to che questi risultati di varietà urbana sono stati possibili grazie alla coesistenza conmodelli più tradizionali e al fallimento di ipotesi radicali e visionarie come il Plan Voisin diLe Corbusier, per il centro di Parigi, del 1925, o il Plan Braillard per Ginevra del 1935.I sommari elementi che precedono ci aiutano a comprendere che, in realtà, il modello diderivazione funzionale è pienamente parte della città contemporanea, e anzi può essereoggi in un certo modo rivalutato. Di fatto, fin dalle sue origini, questo modello vituperato harappresentato il tentativo di conciliare una certa densità urbana con le esigenze che al prin-cipio del Novecento erano quelle dell’igienismo e che oggi sono quelle della sostenibilitàambientale.La nostra ipotesi è che “la ville contemporaine pour trois millions d’habitants” (1922) e lasuccessiva “Ville Radieuse” (1930) di Le Corbusier, derivino dalla combinazione della densi-tà seriale del Plan Cerdà per Barcellona del 1859 con la collocazione nel paesaggio tipicadella “città giardino”. Questa ipotesi è avvalorata dalla critica puntuale della Carta d’Atene(nella versione di Le Corbusier) sia nei confronti del tipo edilizio impostosi a Barcellona, siadella fuga in periferie lontane e disperse nelle campagne. La tesi numero 17 osserva che «lestrade parallele o oblique disegnano, intersecandosi, delle superfici quadrate o rettangolari,a trapezio o a triangolo, di varie dimensioni che, quando vi si costruisca, costituiscono gli“isolati”. La necessità di illuminare il centro di questi blocchi fa nascere i cortili interni divarie dimensioni. I regolamenti edilizi lasciano disgraziatamente agli speculatori la libertàdi restringere questi cortili a misure veramente inconcepibili. Si giunge allora al triste risul-tato che una facciata su quattro, dia essa sulla strada o sul cortile, è orientata al nord e ilsole non vi batte mai, mentre le altre tre, a causa della strettezza delle strade e dei cortili, eper l’ombra portata che ne deriva, ne sono egualmente private a metà»86.A sua volta, la tesi numero 20 apostrofa come «paradisi illusori, soluzione irrazionale»87 le

Il piano modernista di Maurice Braillard per

Ginevra (1935) e un quartiere di “barre” nella

città svizzera

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Lo spazio edificato e lo spazio libero nel

piano di Ildefons Cerdà per Barcellona (1859)

e gli isolati come appaiono oggi

Le Corbusier, Ville contemporaine pour trois

millions d’habitants (1922) e Ville Radieuse

(1929-1930)

città-giardino. In esse, infatti, come precisato nella successiva tesi numero 21, «la densitàdella popolazione è bassa e l’area scarsamente utilizzata, nondimeno la città è obbligata aprovvedere necessari servizi alla periferia: strade, condutture, rapidi mezzi di comunicazio-ne, polizia, illuminazione e nettezza urbana, servizi ospedalieri e scolastici, ecc. È evidentela sproporzione tra le spese disastrose conseguenti a tanti obblighi e l’esiguo contributo chepuò essere fornito da una scarsa popolazione»88. Inoltre, alla tesi numero 79 si osserva che«il desiderio di riportare la vita alle “condizioni di natura”89 sembra a prima vista consiglia-re la maggiore estensione orizzontale delle città, ma la necessità di regolare le diverse atti-vità sulla durata del giro del sole si oppone a questa concezione che ha l’inconveniente diimporre distanze che non s’accordano col tempo disponibile»90.Lo schema urbano di Le Corbusier cerca la migliore esposizione possibile per edifici ad altadensità posti a una certa distanza l’uno dall’altro, che liberano molto spazio al suolo soprat-tutto per parchi e giardini, ma anche con l’inevitabile conseguenza di sopprimere la “rue-corridor”. La forma urbana perde in questo modo i suoi tipici contenuti di condensazione ericonoscibilità determinati da strade, piazze, allineamenti e continuità.Malgrado le differenze, i tre modelli - dell’espansione (Eixample) di Barcellona, della città-giardino e della città funzionale - hanno un importante elemento in comune: sono sempremodelli assoluti, estensibili all’infinito, ripetitivi, e quindi standardizzabili, riducibili a pro-cessi industriali e burocratici semplici. Dunque, modelli adatti a una fase di rapida espan-sione urbana. «Che cosa c’era in comune fra i diversi modi di porre il problema che distin-guono fra di loro le tre prime fasi [...]? È l’idea della razionalizzazione, nel senso di controlloassoluto, vale a dire l’eliminazione dell’imprevisto e l’istituzione di un ordine tanto perfettoquanto definitivo»91.Nell’attuale fase di “costruzione della città costruita” e di crescente complessità, in cui l’ur-banistica si confronta con il “palinsesto” urbano e con il contenimento della dispersione

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informe nell’ambiente agricolo e naturale, non hanno più senso formule uniche da applica-re a grande scala. Pur rimanendo valide le ragioni di fondo della città funzionale, cioè lanecessità di conciliare alta densità con spazi aperti pubblici e naturali, oggi si cercano solu-zioni alla scala del progetto urbano che combinano modelli e tipologie differenti, in accor-do con i caratteri dei luoghi. Soluzioni che accostano tessuti urbani di tipo tradizionale, checonsentono la tipica “massa critica” della città, con coaguli di densità edilizia che liberanoil suolo per usi collettivi, in un disegno complessivo equilibrato. In definitiva, «fra le strade-corridoio e la città esplosa - scrive ancora Corboz - c’è una miriade di soluzioni intermedieda esplorare»92.Un esempio di soluzione è quello adottato per la Città Olímpica di Barcellona (1987-1992),che combina bassa densità e compattezza, come spiega in modo esemplare uno dei suoiautori, Oriol Bohigas, del quale vale la pena seguire per intero il ragionamento. «Quando progettavamo quella parte di città, che sostituiva un vecchio quartiere industrialeobsoleto e degradato, accettammo dei limiti di densità imposti dalla legislazione vigente per-ché credevamo che ciò era adeguato a conseguire un certo grado di comfort, soprattuttoriguardo alla concentrazione del traffico e alla presenza di servizi. Tuttavia, nello stesso tem-po, era necessario che il nuovo quartiere non avesse un carattere suburbano e conseguente-mente applicammo il modello della città compatta ma non densa [...] Per riuscirci, concen-trammo la maggior parte dell’edificazione ai bordi degli isolati - nei settori allineati lungo lestrade - e lasciammo molti spazi liberi - pubblici e semipubblici - all’interno. In questo modo,le strade avevano la stessa immagine agglutinante che si otteneva con le alte densità dell’Ei-xample storico, senza le stesse difficoltà funzionali. Orbene, affinché questa immagine fosseuna trama reale era necessario situare attività commerciali ai piani bassi di quasi tutti gli edi-fici. Una volta costruito il quartiere, tuttavia, accertammo ciò che temevamo: la superficiecommerciale prevista era superiore a quella necessaria al ridotto numero di abitanti del quar-tiere. Una parte di quei locali commerciali tardarono troppo a essere occupati e alcuni furonodestinati a funzioni terziarie di minore uso collettivo. Questa circostanza si accentuò a causadi una perdita di visione del futuro - tanto dei commercianti che degli abitanti - creando uncircolo vizioso: i commercianti non arrivavano, in attesa che crescesse la densità della popo-lazione, e gli abitanti si lamentavano per l’insufficienza dei servizi. L’inaugurazione di un cen-tro commerciale risolse la carenza di servizi, ma ciò in qualche modo aumentò la difficoltà del-l’insediamento dei commerci lungo le strade. Col passare del tempo questa situazione si ècorretta grazie al fatto che tutta la Città Olimpica si è trasformata in un nuovo centro metro-politano e lo squilibrio iniziale è stato superato con l’aumento di utenti esterni. I commerci sisono dedicati prioritariamente a questi nuovi utenti, e per questo ci sono più bar e ristorantiche panettieri e mercerie [...] Questa esperienza dimostra che l’ideale della continuità dellestrade commerciali non è sempre possibile in una zona a bassa densità e che pertanto la com-pattezza effettiva è un problema nel quale bisogna introdurre altri fattori di attività o accetta-re l’alternanza di settori più densi e parentesi vuote ma organizzate e ben definite [...] Sicura-mente la Città Olimpica avrebbe funzionato ancora meglio se si fosse accettata una densitàun po’ più alta, per lo meno in alcuni punti specifici»93.

La Città Olimpica di Barcellona

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Il Plan Briquet di espansione di Ginevra

(1901) sul suolo delle vecchie fortificazioni

(in grigio, funzioni pubbliche)

Il caso della Città Olímpica di Barcellona spiega molto bene che il parametro quantitativodella densità, uno degli indici fondamentali della pianificazione tradizionale, deve sempreessere articolato con il fattore qualitativo della compattezza (compacidad 94) per diventaresignificativo, e ciò può avvenire solo alla scala del progetto urbano.Un altro esempio di grande interesse che combina compattezza tipicamente urbana e ampispazi liberi è proprio il progetto di Renzo Piano e Michel Corajoud per le aree dismesse diSesto San Giovanni. Corajoud rivela che «Renzo Piano, con la sua équipe, aveva già fatto unprimo progetto che era molto differente da quello di oggi, nel senso che si trattava di un pro-getto più spalmato, e che occupava molto più spazio del progetto attuale»95. In seguito,«Renzo Piano ha cambiato il progetto iniziale, facendo la proposta di un masterplan dovedelle case alte permettevano [...] di liberare una buona parte del suolo e di mettere a dispo-sizione di Sesto e del nuovo insediamento un grande parco»96.Sulla base di una nuova trama viaria ortogonale, il progetto di Renzo Piano per le aree dis-messe di Sesto San Giovanni incrocia due differenti strutture insediative: una di tipo tradi-zionale, caratterizzata da allineamenti stradali e continuità edilizia con edifici a corte, aper-ta o chiusa, alti 28 metri; l’altra costituita da una sequenza di edifici a “torre”, che Pianochiama “case alte”, liberamente collocati ai due lati dell’asse maggiore di viale Italia (LaRambla), e posti a una certa distanza l’uno dall’altro anche per evitare le ombre portate. «Che cosa sono le “case alte”? Se noi mettiamo tutto il costruito a terra, orizzontale, occu-piamo tutto lo spazio»97. Si tratta quindi di edifici alti 72 metri, con piante di 25 metri per 25,che poggiano al suolo solo con il pilastro centrale lasciando passare lo sguardo fino a un’al-tezza di 12 metri (grosso modo l’altezza degli alberi). I tetti sono trattati a verde, e a essi siaggiungono giardini d’inverno. L’uso è residenziale, con la possibilità di studi professionaliai piani bassi.La densità rarefatta, discreta e paesaggistica delle “case alte” non è tuttavia sufficiente aprodurre la compattezza necessaria a produrre “effetto città”: a essa è perciò accostata lastruttura insediativa più tradizionale attestata intorno all’asse trasversale - detto “La Tra-versa” - proveniente dalla nuova stazione a ponte e quindi dal vecchio abitato di Sesto. La sequenza urbana della Traversa può essere distinta in due segmenti: uno dalla stazione-ponte fino all’incrocio con la Rambla, consacrata a usi residenziali e commerciali; l’altro cheprosegue verso est, destinato a funzioni universitarie e di eccellenza. Lungo il primo seg-mento è previsto un grande magazzino - forse della catena Corte Inglés - con un ruolo diattrazione verso l’incrocio, dove è collocato anche un mercato. Tuttavia, il ruolo del com-mercio nel progetto per Sesto San Giovanni è attentamente calibrato, come spiega lo stes-so Renzo Piano: «Ho sempre predicato, anzi tuonato, fin dall’inizio, che questo progetto nonpoteva essere il ripetersi di un film déjà vu, cioè centri commerciali a non finire. Non è che

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io demonizzi i centri commerciali, è che Sesto non può avere in questo progetto l’energiaproveniente solo dal rito consunto del consumo, bisogna che sia legato a qualcos’altro. Edeve essere legato alla ricerca, all’Università, ai giovani. Detto questo però, in un progettodi questa dimensione è anche giusto e realistico capire che l’aspetto legato al commercio èun aspetto importante, purché non diventi troppo forte. E non credo che lo sia. L’abbiamostudiato con grande attenzione [...] Credo che questa equilibratura vada trovata, perché èsbagliato eccedere ma anche demonizzare. Il rapporto con la parte commerciale è un rap-porto vivace»98.Gli edifici della Traversa sono alti 28 metri, a corte aperta o chiusa, più idonei a funzionimiste - residenziali, commerciali, terziarie e direzionali - delle torri. «Non abbiamo fatto edi-fici alti per l’amministrazione - spiega Piano - perché [...] non sarebbero più 25 metri per 25,sarebbero 40 per 40, diventerebbero subito delle cose gigantesche, molto aggressive»99.Infine, alle due trame della Rambla e della Traversa occorre sovrapporre gli spazi ecletticistrutturati dagli edifici di archeologia industriale che vengono conservati e riqualificati pernuovi usi. Nell’insieme si determina una successione di spazi pubblici - strade, piazze, via-li, corti, punti verdi - estremamente ricca, e che penetra in molti edifici grazie a una altret-tanto ricca varietà di funzioni pubbliche e private. «Una città come si deve è costellata di[...] magneti culturali che fecondano la vita della città. In fondo l’urbanità è proprio questagioia di stare assieme, e di godere assieme di luoghi che hanno a che fare con la vita comu-nitaria e la collettività»100.È del tutto evidente che la qualità di un progetto urbano come quello per Sesto San Gio-vanni sta tutta nella distribuzione delle densità, nel rapporto tra pieni e vuoti, nel ritmo del-le diradazioni e degli accostamenti, nel sapiente utilizzo dei segni e degli elementi già pre-senti sul territorio e in una conseguente attribuzione di funzioni, che gli indici urbanistici inse stessi non possono determinare. Inoltre, una densità scarsa - spesso rivendicata ideolo-gicamente - è sbagliata al pari di una densità eccessiva. Facendo eco a quanto espresso daOriol Bohigas a proposito della Città Olímpica di Barcellona, Renzo Piano afferma: «Abbia-mo sempre lavorato con il criterio che bisognava ottenere la densità giusta. Una città non èun villaggio. Se ti dicessero fai pochissimo sbagli, perché la città è un luogo urbano dovec’è la densità giusta, l’intensità giusta. Sarebbe addirittura peggio, e accade spesso, di faretroppo, perché fai ombra e crei condizioni invivibili. È sbagliato fare la cosa sbagliata, cioènon bisogna fare un luogo troppo diradato. La città non è un villaggio turistico. Ha bisognodi una certa intensità»101. Anche la densità giusta in un determinato contesto può essereverificata e precisata solo alla scala del progetto urbano.Lo stesso discorso vale per i cosiddetti “standard urbanistici”, cioè le dotazioni di verde, ser-vizi e attrezzature pubbliche per ogni abitante previste da alcune legislazioni nazionali.

in queste pagine in alto

L’accostamento di una struttura insediativa

tradizionale, basata su edifici a corte alti 28

metri, e di una struttura insediativa moderna,

costituita da una sequenza libera di torri alte

70 metri, nel progetto di Renzo Piano e

Michel Corajoud per la trasformazione delle

aree industriali dismesse di Sesto San

Giovanni.

La doppia trama insediativa adottata per il

nuovo quartiere di Sesto San Giovanni

consente di ottenere insieme continuità

urbana, produttrice di “effetto città”,

e apertura paesaggistica di un grande parco

naturale

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Rendering della Rambla di Sesto

San Giovanni, punteggiata dalle “torri”

multicolori di Renzo Piano, che l’autore

definisce “case alte”

Come abbiamo già visto nei capitoli precedenti102, tali prescrizioni quantitative non garan-tiscono in alcun modo la qualità dei risultati effettivi, che dipendono anch’essi da concretescelte di progettazione urbana. In Italia, gli “standard urbanistici” sono stati fissati da undecreto ministeriale del 1968103: malgrado alcuni adeguamenti introdotti dalle legislazioniregionali, essi appaiono ormai del tutto inadeguati di fronte alle esigenze attuali, e special-mente di quelle prevedibili in futuro.

2. Invecchiamento della popolazione e urbanistica. Le tendenze alla riduzione eall’invecchiamento della popolazione nella maggior parte dei paesi sviluppati pongononumerosi problemi non solo in termini di declino demografico ma anche di produzione del-la ricchezza. Nell’area dell’euro, a causa dell’attuale tasso di fecondità104, la popolazionepotrebbe cominciare a decrescere, in termini assoluti, già al volgere dei prossimi vent’anni.Ciò significa anche una modifica della composizione demografica, con la riduzione nume-rica delle fasce giovanili (fino a 15 anni) e della popolazione in età di lavoro (tra 15 e 64 anni),e viceversa l’aumento degli anziani (oltre i 64 anni). In altre parole, una contrazione della for-za lavoro e della ricchezza prodotta a parità delle altre condizioni. Secondo le previsioni ela-borate dalla Banca Centrale Europea su dati Eurostat e ONU105, la popolazione in età lavo-rativa dovrebbe diminuire rispetto a quella attuale già a partire dal 2012, mentre il tasso didipendenza degli anziani106 dovrebbe passare dal 26% di oggi al 55% nel 2050, contro un tas-so di dipendenza giovanile107 che scende dal 40 al 24% alla stessa data. Quindi una situa-zione in cui si riduce il numero di lavoratori, in quanto «un numero minore di nuovi lavora-tori farà ingresso nel mercato del lavoro per sostituire i lavoratori in uscita»108.Oltre alle pressioni prevedibili sulla spesa pubblica, soprattutto in ordine al sistema previ-denziale e ai servizi sanitari, l’invecchiamento della popolazione e la riduzione della forzalavoro potrebbero incidere fortemente sulla produzione di ricchezza e sul PIL procapite. Percontrastare tali effetti occorrerà agire sugli altri fattori che determinano il PIL, cioè la pro-duttività del lavoro e il tasso di occupazione. Sulla produttività del lavoro si può influire nonsolo con l’aumento delle ore lavorate o con l’innalzamento dell’età pensionabile, ma soprat-tutto attraverso il miglioramento delle politiche di formazione professionale e la diffusionedell’innovazione tecnologica, secondo quanto previsto dalla strategia di Lisbona109.

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Sul tasso di occupazione si può invece agire aumentando il numero di attivi sul mercato dellavoro fino all’intera popolazione in età lavorativa. «L’invecchiamento della popolazione nel-l’area dell’euro rende ancora più impellente nel mercato del lavoro l’applicazione di politi-che destinate a incrementarvi la partecipazione e l’occupazione. In molti paesi dell’area itassi di partecipazione e di occupazione dei giovani, delle donne e degli individui in età piùavanzata risultano particolarmente contenuti rispetto a quelli della popolazione complessi-va in età da lavoro [...] Esiste pertanto un potenziale significativo per accrescere l’utilizzodella popolazione in età da lavoro aumentando il numero di persone che fanno ingresso nelmercato del lavoro dell’area dell’euro, nonché aumentando le ore lavorate e/o la durata del-la vita attiva»110.Per raggiungere questi risultati è tuttavia necessario «ridurre ulteriormente i disincentiviall’attività lavorativa che persistono tuttora in alcuni mercati del lavoro dell’area dell’euro[...] Siffatti disincentivi agiscono soprattutto sul secondo percettore di reddito (spesso don-ne) in una famiglia, sui lavoratori con basse retribuzioni, sui lavoratori più giovani e su quel-li più anziani. Le politiche tese a incrementare la partecipazione femminile al mercato dellavoro devono aiutare le donne a conciliare la vita familiare e quella professionale, aumen-tando la flessibilità dell’orario di lavoro e migliorando i servizi di assistenza all’infanzia eagli anziani»111.Un ulteriore contributo al mercato del lavoro può essere senza dubbio fornito dai lavoratoriimmigrati, sia generici che qualificati o formati nelle Università occidentali, ma anche que-sto dipende dalle condizioni di vita nei paesi e nelle città ospitanti. «Le politiche di immi-grazione [...] con tutta probabilità non offrono una soluzione ai problemi demografici, datol’elevato numero di lavoratori immigrati che si renderebbe necessario»112. Le politiche diimmigrazione nei diversi paesi dipendono anche da ragioni politiche e culturali che condi-zionano l’afflusso e la capacità di assorbimento di manodopera straniera.Paradossalmente, quindi, l’invecchiamento della popolazione non richiede solo maggiori ser-vizi per gli anziani, pur necessari, ma anche una migliore organizzazione urbana per tutte lealtre fasce demografiche. Particolarmente significativi e urgenti appaiono i servizi per le fami-glie, che consentano a un numero maggiore di donne di partecipare al mercato del lavoro.La vita delle donne nelle città, specialmente delle madri di figli giovani, è contrassegnata damolteplici impegni quotidiani, in orari e luoghi diversi, che in caso di donne occupate devo-no essere coordinati con i tempi di lavoro. Riferendosi a uno studio sulla città brasiliana diBelo Horizonte, Manuel Castells e Jordi Borja, nel volume La città globale. Sviluppo e con-traddizioni della metropoli del terzo millennio, ricordano che «la pianificazione dei traspor-ti urbani, per esempio, si è tradizionalmente concentrata sull’organizzazione degli schemidi mobilità tra la casa e il luogo di lavoro. [A Belo Horizonte] gli autobus percorrevano tra-gitti che andavano dalle periferie al centro di mattina e dal centro alle periferie alla fine del-la giornata lavorativa, riflettendo gli spostamenti della forza lavoro maschile. Ma le necessi-tà quotidiane di spostamento delle donne erano assai varie: portare i bambini a scuola, farela spesa, recarsi presso i servizi sanitari e, soprattutto, raggiungere i propri lavori part-timein un ampio spettro di aree e di orari, a volte anche dopo la fine delle corse degli autobus. Ilrisultato era che i tempi di spostamento quotidiano delle donne erano tre volte superiori aquelli degli uomini»113.Nei paesi più ricchi, ciò ha provocato l’aumento dell’uso dell’automobile da parte delle don-ne, che percorrono meno chilometri degli uomini ma fanno più viaggi ogni giorno114, anchea causa della scarsa flessibilità e sicurezza dei mezzi di trasporto pubblico, contribuendocosì al maggiore traffico e inquinamento stradale. «Le statistiche relative ai trasportimostrano che nel percorso tra la casa e il posto di lavoro le donne fanno molte più sosteintermedie rispetto agli uomini»115. La lunghezza degli spostamenti è inoltre accentuata neicasi di residenza in aree suburbane o in quartieri monofunzionali. «In breve: la città delle donne è temporalmente e spazialmente varia, richiede un sistema ditrasporto flessibile e capillare, in contrasto con la maggior parte dei sistemi metropolitaniesistenti, organizzati in base alla tradizionale giornata lavorativa maschile. Ma, come l’eco-nomia, la società e il mercato del lavoro sono sempre più orientati verso la flessibilità e ladiversificazione dei tempi, degli spazi e delle attività, sembrerebbe esservi quindi una qual-che convergenza tra gli interessi intrinseci nella condizione femminile e la probabile formafutura del trasporto urbano»116. Ancor più vi è convergenza tra la condizione femminile e

Dall’alto, evoluzione storica e proiezione al

2050 della popolazione in età da lavoro (tra

15 e 64) e del tasso di dipendenza degli

anziani (persone con più di 65 anni in

rapporto alla popolazione in età da lavoro):

raffronto tra Paesi dell’euro e Stati Uniti

(fonte BCE su dati Eurostat e ONU)

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Manifesto, progetti e realizzazione del

laboratorio per la trasformazione di cortili

residenziali in spazi di gioco per i bambini

nel quartiere di Testaccio a Roma (1997)

una forma urbana compatta e multifunzionale, che garantisca un’ampia gamma di servizi diprossimità in un ambiente strutturato per rispondere a molte esigenze diverse.Tra queste esigenze vi sono in particolare quelle dei bambini e dei ragazzi, quasi sempreignorate nell’organizzazione dei servizi urbani. «Gli studi sulla cura dei bambini, svolti alMassachusetts Institute of Technology (MIT) e a Berkeley dall’urbanista Michael South-worth dimostrano la necessità che i minori siano autonomi nell’uso della città, pur all’inter-no di una rete di protezione. Nelle città in cui la mobilità si basa sull’uso dell’automobile, ibambini e i minori in genere sono privati del godimento della varietà urbana, se non insituazioni controllate dalle famiglie»117. Ciò rende i bambini meno indipendenti e ritarda illoro sviluppo.Viceversa, una buona articolazione spaziale consente di ricavare percorsi e ambienti adattiai ragazzi di tutte le età negli interstizi del palinsesto urbano, per andare a scuola in bici-cletta, giocare, incontrarsi con i coetanei. Spesso un cortile condominiale o uno spazio inu-tilizzato possono diventare l’occasione per esercizi di creatività e la costruzione di angoli amisura di bambino. Ciò provoca effetti positivi, anche psicologici, sulla qualità della vita ditutti i residenti. Anche il progetto per le aree dismesse di Sesto San Giovanni cerca di tenere conto dellemutate esigenze delle diverse fasce sociali: «Il numero degli anziani è in costante crescitae aumenta sempre di più la quota di anziani autosufficienti, che chiedono una migliore qua-lità della vita basata sui servizi offerti oltre che sulla qualità dell’alloggio e nuove opportu-nità per il tempo libero. I bambini hanno bisogno di spazi specifici a loro dedicati, luoghisicuri e affidabili che permettano ai genitori di disporre maggiormente del proprio tempo.Per i giovani è auspicabile incentivare la realizzazione di residenze in affitto o acquisibilicon finanziamenti a lungo termine118, che possano dare risposta anche a categorie sociali areddito medio-basso, dalle famiglie di nuova formazione agli immigrati. Ciò avrebbe la dop-pia valenza di garantire maggiore mix sociale e di ospitare una popolazione più dinamicache vivrebbe di più lo spazio pubblico»119. Nello stesso tempo, sono garantiti «spazi pubbli-ci capaci di favorire l’incontro e l’aggregazione facilitando la coesione fra abitanti di età,gruppi sociali, interessi, fedi ed etnie diverse»120.In generale, soprattutto per quello che riguarda i servizi per gli immigrati, non si tratta dicreare spazi specializzati e ghettizzanti ma di “aumentare le scelte possibili”, secondo il prin-cipio etico già richiamato di Heinz von Foerster121: «Agisci sempre in modo da aumentare ilnumero delle scelte». La stessa complessità del palinsesto urbano e le soluzioni progettuali

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disponibili offrono la possibilità di modulare lo spazio per rispondere a molte esigenze diver-se, anche contraddittorie tra loro, alla scala ravvicinata e fine del progetto urbano.

3. La misura umana. La Carta d’Atene non ha solo fornito uno schema urbano che, rive-duto e corretto, può oggi essere utilizzato, insieme ad altri, per costruire - e, soprattutto,ricostruire - pezzi di città in grado di conciliare compattezza urbana e apertura paesaggi-stica. Ha anche indicato alcuni principi di organizzazione spaziale tuttora validi.Alcuni di questi principi li abbiamo già visti. Non solo la corretta disposizione degli edi-fici rispetto all’esposizione solare, ma anche la ricerca dei «panorami più belli, l’aria piùsalubre, tenendo conto dei venti e delle nebbie, i pendii meglio esposti, e utilizzare infinele aree verdi esistenti, crearle se mancano o ricostruirle se sono state distrutte» (tesi 23)122.Altro punto molto importante è il rapporto tra le abitazioni e le strade: «Le costruzioni sor-te lungo le vie di comunicazione e attorno agli incroci non sono adatte all’abitazione acausa dei rumori, della polvere e dei gas nocivi» (tesi 16)123, su cui «la città d’oggi apre [...]le sue innumerevoli finestre» (tesi 27)124. Da ciò deriva sia l’accorgimento di evitare l’af-faccio degli alloggi privati lungo le strade di grande traffico, sia l’esigenza di differenzia-re la rete stradale, portando a contatto delle case solo strade di uso locale a velocitàmoderata. Infatti, «le strade residenziali e gli spazi destinati agli usi collettivi esigonoun’atmosfera particolare [...] per consentire agli alloggi e ai loro “prolungamenti” di gode-re della calma e della pace che sono indispensabili» (tesi 63)125.A proposito dei “prolungamenti” degli alloggi, «si tratta dei centri di approvvigionamen-to, di servizi medici, di nidi per l’infanzia, di asili, di scuole, alle quali si aggiungeranno leorganizzazioni culturali e sportive destinate a fornire agli adolescenti le occasioni di lavo-ro e di gioco adatte a soddisfare le aspirazioni proprie a questa età e infine le “attrezza-ture-salute”, terreni per la cultura fisica e gli sport quotidiani di ognuno» (tesi 18)126. Taliservizi, come le scuole, devono trovarsi in prossimità dei luoghi di residenza delle fami-glie: «Le scuole sono in generale mal distribuite all’interno del complesso urbano. Troppolontane dalle abitazioni, mettono il bambino a contatto con i pericoli della strada» (tesi19)127. È dunque auspicabile un’ulteriore articolazione di percorsi pedonali e ciclabili,paralleli o trasversali alle vie principali, per consentire altre forme di mobilità - non solodei bambini - in ambiti più protetti.L’ideale peraltro è collocare i “prolungamenti” all’interno di zone verdi: «Ogni quartiereresidenziale deve disporre d’ora in avanti della superficie verde necessaria alla razionaleorganizzazione dei giochi e degli sport per i bambini, gli adolescenti, gli adulti» (tesi 35)128.Anche le aree industriali e le vie di grande traffico devono essere preferibilmente isolateda zone verdi (tesi 47 e 64).In generale, «il piano regolatore [“statut du terrain”] avrà una varietà tale da corrisponde-re alla diversità dei bisogni da soddisfare» (tesi 35)129, ricercando un equilibrio tra esigen-ze spesso contraddittorie, quali ad esempio «libertà individuale e azione collettiva»: senon si tiene conto di tutti i fattori in gioco «ogni iniziativa [...] è votata a un inevitabile fal-limento» (tesi 75)130.La ricerca di questo equilibrio tra funzioni, obiettivi ed esigenze diverse ha la sua misuranell’essere umano: «Il dimensionamento di ogni cosa entro il dispositivo urbano non puòessere regolato che sulla scala umana. La misura naturale dell’uomo deve servire di basea tutti i canoni che siano in rapporto con la vita e le diverse funzioni dell’essere. Canonidi misura da applicarsi alle superfici e alle distanze, canoni di distanza da valutarsi nelloro rapporto con l’andatura naturale dell’uomo, canoni orari che dovranno essere deter-minati tenendo conto del giro quotidiano del sole» (tesi 76)131.La misura umana (“The Human Scale”) è anche il titolo di un articolo presentato da Wal-ter Gropius132 all’VIII CIAM del 1951, tenuto ad Hoddesdon (Londra) e dedicato al “Cuo-re della città” (“The Heart of the City”), considerato il primo grande momento di ripensa-mento critico da parte del movimento moderno, in cui si elabora un tentativo di confron-to e riconciliazione con la città tradizionale. Va per esempio in questo senso «la tavolarotonda in cui i partecipanti (Gropius, Le Corbusier, Sert, Rogers, Richards, Giedion e altri)discutono sull’esperienza della piazza come spazio centrale e pubblico per antonoma-sia»133: titolo dell’incontro, “Discussion on Italian Piazzas”134.Acutamente, Ignasi de Solà-Morales definisce “controllo di scala” l’orientamento di pen-

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siero proposto da Gropius all’VIII CIAM: «Gropius introduce questo orientamento di pen-siero - secondo de Solà-Morales - ripensando al recupero di certi valori di “umanità” pro-pri della città antica e perduti nella metropoli moderna. Potrebbe essere proprio la scala,o meglio, l’indovinato accostamento di diverse scale, il procedimento per mitigare il con-trasto tra la dimensione gigantesca, che spesso caratterizza l’edificazione moderna, e ilcarattere erratico e diffuso dello spazio pubblico? Pur in modo sommario, lo strumentoproposto da Gropius - prosegue de Solà-Morales - rappresenta la revisione di una posi-zione formale ereditata dall’avanguardia. Nell’espressione “scala umana”, infatti, è rac-chiusa non solo un’evocazione ideologica del vecchio umanesimo, ma anche un riferi-mento psicologico alla dimensione fisica del corpo in relazione allo spazio. A partire daquesto momento l’architettura moderna si sforzerà incessantemente di conciliare formaastratta ed esperienza corporale, nel tentativo di risolvere la possibile divergenza tra l’am-biente fisico e i suoi effetti a livello percettivo»135.Sebbene in modo più sfumato, anche Le Corbusier136, attraverso il concetto della ricom-posizione delle arti in ambito urbano, propone all’VIII CIAM, secondo de Solà-Morales, un«progetto dove l’antico e il moderno convivano, si contrappongano e si fecondino reci-procamente»137, in cui «ricostruire il cuore della città, e pertanto riattribuire significatoallo spazio pubblico»138.Cosa afferma, più esattamente, Walter Gropius? L’architetto del Bauhaus parte da consi-derazioni di paesaggio: «In America tutto è grande, le automobili, le strade, gli edifici, mamanca la possibilità di rapporto diretto tra le cose. In Inghilterra, quando si attraversa lacampagna, ci si accorge che tutto è piccolo, le automobili, le strade, le case, ma subito sistabilisce un rapporto diretto tra le cose e con il paesaggio. Il paesaggio è molto addo-mesticato, è così vecchio, e la vita vi è passata sopra per tanto tempo che è nata una pro-fonda relazione tra gli uomini e la campagna»139. Queste considerazioni servono a Gropiusper mostrare che «è impossibile per noi uomini riuscire ad avere la nozione dello spazioinfinito [...] Noi possiamo capire lo spazio e la misura soltanto entro un rapporto che siriferisce al finito»140. Dunque, l’arte del costruire « è una specie di magia [sort of magic]per rendere umana una piccola porzione dell’infinito»141 attraverso la manipolazione dei«rapporti di spazio e di misura [of space and scale]»142.Questi rapporti sono essenziali nella costruzione delle città per stabilire anzitutto «la rela-zione che passa tra le masse costruite e lo spazio libero in esse contenuto»143, ovvero, laproporzione tra lo spazio pubblico aperto e i volumi edilizi: tale proporzione deve in defi-nitiva essere riferita alla scala umana. Per Gropius si tratta di un punto fondamentale chedeve essere approfondito, «onde chiarire perché ci troviamo bene in un determinato Cuo-re144 e nel suo spazio libero e non in un altro, [dopodiché] ci sarà più facile giudicare qua-li debbano essere le misure e le proporzioni adatte a questi spazi liberi, in rapporto all’uo-mo»145. Certo è che, secondo Gropius, «se la composizione generale delle masse costrui-te e degli spazi liberi è buona ed è nella misura umana, essa è in grado di assorbire ancheun brutto edificio»146, o di far convivere armoniosamente edifici diversi risalenti a epochediverse, come accade per esempio nei centri «delle vecchie città italiane e francesi»147.Gropius affronta concretamente il problema in occasione del progetto per il “GraduateCentre” dell’Università di Harvard, a Cambridge (USA): «Una delle prime ricerche che ese-guimmo ad Harvard per il Centro dei Laureati - scrive Gropius - fu di renderci conto perquale ragione la composizione architettonica del campus di Harvard fosse così buona:scoprimmo che l’equilibrio compositivo era dato da una certa sequenza di cortili apertitra gli edifici la quale era stata sempre conservata fedelmente da tutti gli architetti che invarie generazioni avevano dato il loro contributo alla costruzione dell’Università. Tro-vammo che questo tema spaziale era buono e piacevole: misurammo gli spazi per sape-re quali di essi possedevano le migliori proporzioni e tenemmo conto di queste ricerchequando ideammo il nostro progetto»148.Gropius, tuttavia, si spinge oltre le giuste proporzioni in rapporto alla scala umana, pas-sando dalla geometria alla psicologia. Egli osserva che il disegno architettonico è costi-tuito da tre discipline principali: scienza delle costruzioni, economia e soprattutto, perquello che qui interessa, scienze dello spazio. Queste ultime attingono certo allo studiodelle proporzioni, delle dimensioni e dei rapporti, ma anche alla psicologia dello spazio,ovvero alla possibilità «di modificare l’effetto psicologico esercitato da questo spazio ser-

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vendoci delle superfici in modo da ottenere determinate illusioni. Per esempio, se tingia-mo di nero pieno un soffitto, sembrerà che esso sia molto più basso; una parete dipintain giallo limone avanzerà verso di noi, mentre andrà indietro se la faremo blu scuro. Que-sti esempi spiegano la psicologia dello spazio, e fanno parte di una scienza che dobbia-mo conoscere se vogliamo realizzare con l’architettura le nostre intenzioni»149.Per quanto riguarda l’architettura in senso stretto, «l’effetto psicologico di un edificio èmigliore se è più in armonia con la misura umana, e con il desiderio umano di sentirlo inun giusto rapporto con gli spazi che lo circondano»150.Per quanto riguarda invece gli spazi aperti, «si devono evitare i due estremi: la claustro-fobia, la paura cioè che lo spazio sia troppo piccolo, che ci racchiuda in modo opprimen-te, e l’agorafobia, la paura cioè dello spazio libero»151.

a sinistra

Una parte del campus di Harvard

(Cambridge, USA) comprendente anche il

Graduate Center realizzato nel 1950

su progetto di Walter Gropius

sopra

Planimetria originale e immagini

dell’opera di Gropius

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L’area sportiva e industriale dismessa di

Charmilles, tra rue de Lyon, avenue de d’Aïre

e chemin François Furet a Ginevra

Quando uno spazio è troppo vasto e vuoto ci si può sentire a disagio, e perfino intimori-ti, come avveniva nelle enormi arene o nei saloni colossali dei dittatori, che «per afferma-re il loro potere si servivano di spazi che avevano una scala super-umana»152. Ma se untale spazio «fosse interrotto, come nelle quinte di un palcoscenico, da piani verticali perlimitare uno spazio troppo vasto, per esempio con cespugli, cancellate o muri, si ristabi-lirebbe l’illusione della sicurezza e sparirebbe la paura: gli occhi della persona che bran-cola nel vuoto troverebbero finalmente un punto al quale riferirsi»153.Dunque, l’arte del costruire sia edifici che città, è tutt’altro che rigida. Entro certi limiti, lospazio può essere modellato, plasmato, modulato, articolato e strutturato, non solomediante proporzioni e rapporti che hanno come unità di misura l’essere umano maanche attraverso la ricerca di particolari effetti psicologici. Ciò consente peraltro di per-seguire diversi obiettivi funzionali, formali, sociali - e perfino politici - anche in ambitiristretti come in un progetto urbano. Sebbene i principi spaziali della Carta d’Atene, presentati in questo capitolo, fossero inorigine fortemente permeati da un certo assolutismo ideologico, e da un’ottica generaliz-zata all’intera città nella forma di uno zoning rigido, essi conservano la loro utilità, insie-me alle indicazioni di Walter Gropius, nella costruzione e ricostruzione della città con-temporanea alla scala del progetto urbano.Un esempio è quello già riportato nelle pagine precedenti di un progetto di RichardRogers per un complesso di edifici pubblici nella città inglese di Nottingham. Tale pro-getto presenta motivi di interesse per il modo in cui articola spazi aperti e chiusi - comein un progetto urbano - in rapporto alle condizioni ambientali del sito. Essendo la lungaparcella delimitata da strade rumorose e inquinate su due lati e da un tranquillo canalesu un terzo lato, «abbiamo collocato [...] gli uffici amministrativi lungo la strada [mentre]gli ambienti per funzioni sociali e comunitarie intorno al nuovo giardino sul fronte delcanale»154.Un secondo esempio è fornito dalla nostra proposta (insieme all’architetto Hakim Bou-louiz) per la riqualificazione della zona di Charmilles a Ginevra155. Tale progetto prende-va spunto dalla costruzione del nuovo stadio di calcio a Lancy, e quindi dalla possibilitàdi realizzare un insediamento residenziale sul suolo del vecchio stadio di Charmilles. Aquesto fine è anche prevista la copertura della trincea ferroviaria (già realizzata più a est). Nel nuovo insediamento prevalentemente residenziale in sostituzione del vecchio stadioabbiamo collocato uffici e attività commerciali (in giallo nella figura in alto a destra) sul-la via di grande traffico di Avenue de Châtelaine, separando le abitazioni (in nero) dall’in-quinamento e dai rumori della strada. La funzione di isolante verso Chemin des Sports, aovest, è invece attribuita a spazi verdi densamente alberati. Uno spazio all’aperto per rap-presentazioni e spettacoli (in arancio) sfrutta il dislivello tra la piazza centrale del quar-

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tiere e la copertura della trincea ferroviaria per ricavare una gradinata per gli spettatori.L’asilo e un’area di gioco per bambini (in viola) sono posti in una zona protetta tra duestecche di alloggi ad angolo e il centro polivalente di quartiere. Infine, un’area attrezzataper adolescenti e ragazzi (in blu) è ricavata nel corridoio tra le nuove case e la fabbrica aest, trasformata in centro culturale e sportivo.

Hakim Boulouiz, Maurizio Russo, proposta

per un nuovo isolato residenziale sul suolo

del vecchio stadio dismesso di Charmilles a

Ginevra (2001)

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