Identità corporea ed immagine di sé - Psicologo Ivrea · “non sarà certo un biscotto a...

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Identità corporea ed immagine di sé Chi ha a che fare con persone che vivono un rifiuto del proprio corpo, si tratti di chirurghi estetici, terapeuti, o di genitori di adolescenti in crisi, sa molto bene che il “corpo a corpo” non sta nel corpo, ma in un particolare non-luogo, nella mente e nei significati che essa costruisce intorno al corpo. In molti casi il disagio corporeo si associa ad intransigenti tentativi di restrizione alimentare poiché il cibo rappresenta, per chi ne pratica l’ascesi, la forma di controllo percepita più potente. Eccessi, restrizioni alimentari, possono fare da specchio alle ansie per l’aspetto fisico e per la sua controparte psicologica, ovvero la rappresentazione o immagine di sé. Queste preoccupazioni tendono a riflettere sentimenti di inadeguatezza e di insoddisfazione: dalla bassa autostima all’incertezza per il proprio senso dell’identità e valore. Ma non è sempre stato questo il modo di guardare al corpo. Il presente lavoro nasce dal desiderio di comprendere come possa svilupparsi in certe persone l’idea angosciosa che il proprio corpo sia sbagliato, e di come sia possibile continuare a crederlo quando, a detta di altri, è perfetto. In questi casi aspetto e immagine di sé si divaricano drammaticamente e la percezione soggettiva prevale cancellando ogni evidenza contraria.

La Costruzione e le rappresentazioni dell’identità corpore La dialettica tra cibo, aspetto fisico e immagine di sé La persona bulimica, l’anoressica, come il dismorfofobico, (forse non più degli altri cosiddetti “normali”) hanno una percezione alterata ed irreale del corpo, vedendosi enormi o deformi. Lo specchio rinvia loro un’immagine imperfetta. Per semplificare si potrebbe dire che l’anoressica e l’obeso stanno ai due estremi di un continuum: mentre la prima è insoddisfatta di come si rappresenta il corpo, ma gestisce le angosce attraverso il controllo alimentare, e la parte di sé che si guarda allo specchio è la stessa che negozia le briciole di cui privarsi al momento del pasto, il secondo prova grande disagio per il corpo fisico, ma è un esperto nel tradire il proprio intento davanti al piatto. Dimentico dell’impegno con l’altro se stesso, si ristruttura velocemente convincendosi del fatto che il proprio corpo non sia poi così male o che: “non sarà certo un biscotto a cambiargli il destino!” Tipico caso di autoinganno che lo porterà a giustificarsi, solo qualche minuto più tardi, scegliendo tra artifici retorici quali: la mancanza di forza di volontà, la goduria irresistibile dello sfizio alimentare o l’assurdità di lasciare avanzi. Sebbene l’obeso definisca come più adeguato, sul piano razionale, lo stile alimentare di chi è magro, tuttavia tende a considerarlo emotivamente negativo. Lo descrive infatti come “freddo”, “intelligente” ma “spiacevole” e così afferma implicitamente di fidarsi più del proprio. Forse anche per questo motivo gli risulta difficile dar continuità alla voce autocritica che, come un grillo parlante, scatta davanti alla vetrina quando gli fa da specchio. È difficile comprendere come lo stile alimentare di una persona obesa, per quanto sbagliato,

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possa trasmetterle, sicurezza, forza e potenza. Usando un’analogia si potrebbe dire che chi si è identificato a lungo con una casa, per quanto brutta possa apparirgli, vive contemporaneamente il desiderio di abbandono ed il richiamo della nostalgia che precede il ritorno. Ovviamente quest’ipotesi non vale per tutti; nell’obeso come in ogni altro tipo di diversità le differenze individuali pesano più delle somiglianze, conferendo un diverso senso e significato ad azioni solo in apparenza affini. Pure tra le persone che nelle culture occidentali sono considerate “normali” la dialettica tra cibo, aspetto fisico e immagine di sé costituisce spesso un motivo di disagio psicologico. Il corpo come discorso dell’altro Se è vero che l’uomo incontra la propria natura apprendendola dagli altri, non fa eccezione quella particolare esperienza di sé che chiamiamo identità corporea. Più che nella realtà fisica del corpo il sé corporeo sta nella particolare versione soggettiva del sentire se stessi che ciascun individuo costruisce in relazione ai significati sociali intorno al corpo, all’educazione ricevuta, ai modelli di comportamento, alle attese e alle prescrizioni legate al ruolo, anche sessuale. Per gli uomini l’identità non è data. Anche il valore ed il significato dell’aspetto corporeo e della sua controparte psicologica, l’immagine di sé, è sempre fluttuante e transitorio, poiché necessita di un doppio sguardo di conferma: il proprio e quello altrui. Se il proprio utilizza i criteri normativi delle persone reali o immaginate per noi importanti, quello altrui non viene mai colto per ciò che è, ma è accessibile solo attraverso le proprie categorie interpretative. Il sé corporeo parte dal corpo ma non è una categoria intra-psichica, quanto piuttosto l’esito di un processo interattivo; è un costrutto ipotetico le cui componenti includono processi cognitivi, emotivi e sociali che organizzano la coscienza ed il comportamento, dando all’individuo un senso di continuità al proprio essere corpo e ai propri vissuti. In tal senso il sistema rappresentazionale dell’individuo è dato in ostaggio ad altri. La persona possiede le potenzialità, ma gli effetti di queste possono essere colte solo dall’occhio di un osservatore, il quale, nel cogliere il dato utilizza categorie di senso e significato proprie del contesto e del ruolo in cui è inserito. Le sue potenzialità sono quindi tenute in vita dagli altri. La bravura di un pugile non sta nell’intensità della sua forza fisica, ma nell’abilità di farne un uso adatto. Per destreggiarsi sul ring gli è necessaria una buona capacità anticipatoria ed autoriflessiva al fine di modificare contestualmente la tattica in funzione dell’avversario e delle sue mosse. La vicenda relazionale lo rende competente ed indica al corpo le sue possibilità. Il significato di una carezza non sta nella struttura scheletrica, muscolare e nervosa della mano che la agisce, ma nel volto che inclinandosi ad accoglierla le conferisce senso e la conferma gradita. Il sé corporeo ha quindi le sue radici nella vicenda relazionale.

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Il processo di costruzione dell’immagine di sé La fotografia: l’avvento di se stessi come altro Posando davanti all’obiettivo, negli istanti che precedono lo scatto di una fotografia, un individuo, mentre simula la massima naturalezza, è impegnato su due fronti: da una parte tenta di anticipare l’immagine che lo scatto produrrà, dall’altra assume l’atteggiamento e la postura con cui vorrebbe essere identificato; come se fosse possibile agire dall’interno sulla propria pelle per trasformarla. Deciso il genere della foto, serio, formale o comico, arriva l’istante in cui passare al vaglio dell’autocoscienza l’espressione del volto per adeguarla all’immagine con cui si vuole essere identificati e con cui si desidera essere riconosciuti. Quasi si potesse fabbricare istantaneamente un altro corpo, trasformandosi anticipatamente in immagine. Prendere in mano una propria fotografia può portare anche ad un senso di estraniazione, e se l’immagine non appare adeguata all’effetto desiderato capita di essere colti anche dall’impulso a strapparla. Nella fotografia non si cerca solo la topografia di un volto, ma un’immagine di sé che prende forma in coerenza con il genere ritenuto più adatto in funzione del contesto e anche quella di un corpo la cui espressività rinvia a codici normativi e a giudizi di valore. Nella foto si desidera essere riconosciuti e ricordati entro una cornice di significati prestabiliti. La fotografia rappresenta non tanto se stessi, quanto una metafora di sé. Ogniqualvolta una persona si fa fotografare da vita ad un’immagine di sé, ed il tentativo di imitare se stessa può introdurre ad un imbarazzato senso d’inautenticità. Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere e quello che vorrei si creda io sia. Nel rituale della messa in posa è coinvolto un processo psicologico importante nella formazione del senso dell’identità personale, ovvero la capacità di auto-osservazione. Una persona seduta sul lettino di un ambulatorio medico è, in quell’istante, contemporaneamente corpo che vive, che interagisce, che parla con lo specialista e organo oggetto dell’osservazione. Non perché esistano due realtà, ma perché due sono i modi con cui il medico si rapporta con lei. Un altro esempio di questa doppia percezione si sperimenta guardando un’ecografia: sebbene si sappia di essere se stessi, si è anche qualcosa di diverso dalla coscienza che si ha di sé. Le fluttuazioni relazionali delle rappresentazioni di sé tra “io sono un corpo” e “io ho un corpo”, generano diverse forme di autoconsapevolezza, che, nella quotidianità, risultano sbilanciate sul versante di ciò che uno sente, crede e immagina di essere. La mancata percezione di questa molteplicità è legata al tentativo di integrare le diverse forme di autocoscienza in un sé unitario. La coscienza di sé è come il tronco di un albero secolare, ha tanti strati quanti sono i ruoli, i contesti, le situazioni, le storie e le relazioni in cui si è inseriti. Nonostante salti e dissociazioni, ogni volta che un uomo si guarda allo specchio questi aspetti tendono ad integrarsi in un’unica e coerente rappresentazione.

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Stranieri a se stessi Si è abituati a pensare all’immagine corporea come alla fedele fotografia di un involucro e coloro che non vi si riconoscono sono chiamati portatori di un disturbo; ma la misura in cui è possibile valutare la natura “reale” del proprio corpo non è univocamente definita. Quando si guida un’auto non è possibile sapere, stando all’interno dell’abitacolo, se le luci di posizione o quelle dei freni funzionino correttamente, l’incontro con un automobilista che, con un colpo di abbaglianti, ammicchi un segnale, è la condizione che fa nascere il sospetto e la necessità di un controllo. Anche durante l’acquisto di un vestito è più facile per una commessa esprimersi rispetto alla taglia o al livello dell’orlo più adatto, di quanto non lo sia per lo stesso acquirente. Abitare un corpo impedisce di vederlo come appare a chi lo guarda da fuori. A nessuno è concessa l’immagine fedele del proprio corpo; la mia vista non può esplorare ciò che si nasconde dietro le mie spalle, e soprattutto non può vedere quel viso che sono e che mi esprime. Anche con lo specchio non raggiungo lo scopo, perché l’immagine riflessa non è sovrapponibile ma simmetrica, la destra diventa la sinistra, e siccome le due parti non sono perfettamente identiche l’espressione che vedo riflessa non è la mia espressione. Il dramma di Narciso e la sua tragica conclusione dicono, in un’altra cultura e in un altro modo, l’impossibilità per il corpo di afferrare la propria immagine. Guardando il volto di un uomo solo la nostra supposizione ci fa ritenere che a lui siano noti i tratti che noi vediamo. Nello specchio non trovo la mia espressione, ma la topografia di un volto, trovo dei tratti dai quali è difficile ricostruire il taglio del mio sguardo, lo stile del mio aspetto. Tutto ciò apre al senso di estraneazione che pervade un individuo ogniqualvolta un frammento di sé appare come dotato di vita autonoma, si pensi all’ascolto della propria voce registrata su di una segreteria telefonica, alla proiezione di un filmino in cui il modo di incedere assuma i toni di una buffa caricatura di se stessi. La dimensione sociale delle immagini corporee Espressioni come “Di fronte a lui mi sento invisibile” o “Quando lo vedo mi si allarga il cuore” descrivono quanto l’interazione, reale o immaginata, possa essere decisiva nella formazione e modificazione delle immagini corporee. Se è vero infatti che non può costituirsi un “io” senza un “tu”, così non è possibile costruire la propria immagine corporea senza l’immagine corporea altrui. La rilevanza di una sociologia delle immagini corporee filtra anche dai modi in cui il corpo si offre alla parola: gli aggettivi qualificativi utilizzati per descriverlo, sembra ne riflettano delle proprietà. Tuttavia ogni aggettivo nasce da una relazione, da un confronto e questo vale anche per un corpo che possa essere descritto come “alto” oppure “basso”. Ciò che il metro misura in termini numerici rimane indicatore anonimo e privo di senso fin quando non viene interpretato alla luce di altri dati,

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scelti come parametri di riferimento; parametri che cambieranno in funzione della situazione. Non vi è soggetto in sovrappeso che non si sia sentito un po’ più leggero in compagnia di altri obesi. Una donna che voglia sentirsi più femminile può fare del tacco o dell’abito attillato il proprio biglietto da visita, ma troverà maggiori conferme alla propria avvenenza scegliendo una passerella esposta allo sguardo maschile, che le consenta di percepirsi attraverso i criteri, o meglio, i costrutti di senso e di significato attribuiti all’ipotetico osservatore. Anche la visione di un film o di uno spot pubblicitario può modificare le immagini corporee nella misura in cui si tende ad identificarsi con il corpo degli attori. Sono dinamiche le rappresentazioni del corpo; rispetto all’immagine corporea, qualsiasi cosa entri in contatto con la sua superficie la modifica: tatuarsi, darsi il rossetto, dipingersi il viso o tingere i capelli, ma anche semplicemente lavarsi o pulirsi, cambiarsi d’abito, l’insieme di queste operazioni genera un’immagine differente del proprio corpo.

I disturbi dell’immagine corporea L’insoddisfazione per l’aspetto fisico, per il peso, per la propria figura nella sua globalità o per parti di essa è virtualmente definibile come il confronto tra immagine corporea reale e immagine del corpo ideale. Il livello della disistima è collegato a quanta parte del concetto di sé sia messa a disposizione del sé corporeo, e a quanto invece il senso di autoefficacia e di adeguatezza possa essere mutuato da altre versioni del sé. I problemi legati all’insoddisfazione corporea emergono ad esempio quando un adolescente assolutizza uno dei codici di lettura del corpo, frequentemente quello estetico, a scapito di altri. Il corpo “giusto” per una sfilata di moda non potrà esserlo per una gara di salto ad ostacoli o per un trekking in montagna. Non si può amare un corpo che, in quanto brutto diventa indegno e immeritevole; così il criterio estetico, sovrano, viene legittimato a spiegare anche quello etico. La dismorfofobia rappresenta un esempio estremo della totale identificazione in un corpo “sbagliato”; questa etichetta è utilizzata per descrivere un individuo che si presenta dal chirurgo estetico per modificare il proprio naso o la propria bocca, regolari e perfetti a giudizio di tutti, considerati sgraziati e abnormi a giudizio proprio. In questi casi non si fa riferimento ad un disturbo della percezione, ma ad una immagine mentale attraverso cui il soggetto valuta e attribuisce un significato negativo ad un certo modo di sentirsi. Il naso, il labbro o le caviglie possono diventare il punto focale di una non autoaccettazione. Il giudizio sovrasta la percezione, o più correttamente il giudizio diviene la percezione. La persona dismorfofobica vede il proprio viso come gli altri, ma vi nota un qualcosa di anomalo, di irregolare, di non desiderato come se a guidarlo fosse, più che l’occhio, una voce interiore, critica e disapprovante, che può trasformarsi in sensazione

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molesta ed infelice verso le disgraziate parti di sé che prese a bersaglio riassumono e condensano un senso d’insofferenza nel modo di sentirsi. Tant’è vero che, nella maggior parte dei casi, la correzione chirurgica non placa la disaffezione, ma semplicemente la sposta. Dalle labbra, ai seni, alle palpebre… “ciò che non va” cambia sede. Un caso differente è quello di una ragazza anoressica, che vive il corpo come simbolo delle capacità di controllo e dominio, secondo la formula “quanto più magro – tanto più potente”. Si identifica nella privazione fino a farne l’unica fonte della coscienza di sé, il controllo sul cibo la fa sentire onnipotente nella responsabilità su se stessa. Allo specchio non è colto il profilo di un corpo consunto ma la dimostrazione compiaciuta della propria incrollabile capacità di dominio sull’immagine che deve realizzare di sé. Come ha scritto un’ex-anoressica: “Il mio corpo è la mia opera d’arte”. Le persone di fronte allo specchio progettano l’immagine del proprio corpo, lo cambiano, coltivano illusioni o aberranti percezioni volte a organizzare e mantenere in equilibrio il proprio senso dell’identità. Anche l’obeso che si concede ad infinite orge alimentari riuscendo a deformare, al di là di ogni immaginazione, il proprio corpo, occulta ciò che vede con ciò che dice, convincendosi di essere, dopotutto, in forma spesso genuina, “un tipo che mangia poco o normale”. È possibile riconoscere in queste espressioni forme di autoinganno. Ancora una volta ciò che viene raccontato e percepito non corrisponde a ciò che uno è dal punto di vista somatico, in questa differenza sta appunto il salto dal corpo fisiologico al corpo psicologico. L’insoddisfazione per il proprio corpo non è prerogativa di chi viene designato come soggetto “clinico”. In una ricerca condotta su più di 400 studenti è emerso che ben il 98% delle studentesse riferisce di provare disagio per almeno una parte o caratteristica del proprio corpo, insieme al 90% dei maschi. Queste percentuali sembrano suggerire che l’insoddisfazione per il corpo rappresenti ormai la norma. La tirannide normativa ed estetica impone al corpo dei prezzi molto elevati in termini di fatica, di stress, di focalizzazione attentiva e di alienazione. Per capire quanto l’importanza dell’aspetto di sé sia estesa e condivisa, è sufficiente pensare alle migliaia di palestre, nelle quali tutti inseguono non la salute bensì una promessa di perfezione, alle profumerie, ai beauty farm, all’editoria specializzata e agli abiti alla moda visti come una seconda pelle. Il sistema culturale alimenta in forma diffusa i prodromi di una dismorfofobia, un angoscioso senso di non essere belli o di essere disapprovati, configurabile come una situazione preclinica.