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LICEO CLASSICO IDONEITÀ AL V ANNO SCIENZE NATURALI - I Minerali e le Rocce - Classificazione delle Rocce: Magmatiche, Sedimentarie e Metamorfiche - Materia - Le Rocce - Il Ciclo Litogenetico - Reazioni Chimiche - I Vulcani e i Terremoti - La Struttura Interna della Terra - Il Concetto di Equilibrio Chimico - Il Sistema Respiratorio e Cardiocircolatorio

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LICEO CLASSICO

IDONEITÀ AL V ANNO

SCIENZE NATURALI - I Minerali e le Rocce - Classificazione delle Rocce: Magmatiche, Sedimentarie e Metamorfiche - Materia - Le Rocce - Il Ciclo Litogenetico - Reazioni Chimiche - I Vulcani e i Terremoti - La Struttura Interna della Terra - Il Concetto di Equilibrio Chimico - Il Sistema Respiratorio e Cardiocircolatorio

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I MINERALI E LE ROCCE

I minerali sono sostanze naturali solide, caratterizzate da una composizione chimica definita, con gli atomi disposti in una struttura geometrica chiamata reticolo cristallino. Una roccia contiene in genere più minerali, anche se vi sono rocce formate da un solo minerale. La forma esterna di un cristallo è detta abito cristallino. Le proprietà dei minerali sono: – il colore, che può essere utile al riconoscimento, anche se alcuni minerali presentano colori diversi a seconda delle impurità; – la lucentezza, che è il modo in cui la superficie di un cristallo riflette la luce; – la durezza di un minerale, che è la resistenza alla scalfittura e viene definita tramite la scala di Mohs che prevede 10 gradi di durezza dal minerale più tenero il TALCO fino al DIAMANTE che è il minerale più duro ; – la sfaldatura, che è la tendenza di un minerale a rompersi lungo delle superfici parallele alle facce dell’abito cristallino; – la densità, che è data dalla compattezza degli atomi nel reticolo cristallino del minerale. Classificazione dei minerali I minerali sono classificati in 9 gruppi principali, in base alla forma del reticolo cristallino e agli elementi chimici che li costituiscono. 1.SILICATI sono i minerali più abbondanti della crosta terrestre: da soli rappresentano l’80% dei materiali che affiorano sulla superficie del pianeta. Si chiamano così perché contengono lo ione silicato (SiO4 4-).. Il reticolo cristallino dei silicati ha forma di tetraedro I vari modi con i quali i tetraedri si legano tra di loro permettono di suddividere i silicati in 4 gruppi differenti. – Nei nesosilicati sono separati e legati a ioni metallici. – Negli inosilicati sono collegati tra loro soltanto da alcuni atomi di ossigeno. – Nei fillosilicati aumenta il numero degli atomi di ossigeno che fungono da ponte. – Nei tettosilicati tutti gli atomi di ossigeno fanno da ponte.

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Quando solamente alcuni atomi di ossigeno sono condivisi si generano delle catene oppure degli strati e i silicati che si formano sono fragili (come ad esempio le miche); quando invece prevalgono gli ossigeno-ponte i tetraedri sono più compatti e i silicati risultano più resistenti (come ad esempio il quarzo). Gli altri minerali sono CARBONATI: contengono lo ione carbonato (CO3)2- (calcite, aragonite, dolomite); OSSIDI: contengono Ossigeno legato a metalli (ematite, magnetite, corindone); SOLFURI: contengono lo ione solfuro S- (pirite, galena, cinabro, blenda); SOLFATI: contengono lo ione solfato (SO4) 2- (gesso, barite, celestina, anidride); ELEMENTI NATIVI: costituiti da un solo elemento (oro, argento, rame, diamante) ALOGENURI: sono costituiti dalla unione di uno o più elementi con cloro, bromo, iodio, fluoro (fluorite, salgemma) BORATI: (borace da cui si ricava boro utilizzato nell’industria farmaceutica, e dei cosmetici) FOSFATI: contengono lo ione fosfato (PO4)3- (apatite) Le rocce Sono aggregati di minerali. In base all’origine le rocce possono essere suddivise in tre gruppi. 1. Le rocce magmatiche si formano dalla solidificazione di magma. 2. Le rocce sedimentarie si formano per erosione, trasporto, deposito e litificazione (compattazione e cementificazione) di sedimenti derivati dalla disgregazione di rocce preesistenti, dalla precipitazione chimica o da materiale di origine organica (per esempio, coralli). 3. Le rocce metamorfiche si formano da tutte le rocce a causa delle forti pressioni e del calore elevato che si incontrano all’interno della Terra. Tutte le rocce sono legate in un percorso ciclico, formato dai processi che trasformano continuamente le rocce. Questo percorso prende il nome di ciclo litogenetico, o ciclo delle rocce e mostra la «vitalità» dell’intero pianeta, poiché i movimenti della crosta sono conseguenza di giganteschi movimenti ancora più profondi.

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La formazione delle rocce magmatiche Gran parte delle rocce che costituiscono la crosta terrestre si è formata per solidificazione di un magma, cioè a partire da materiale fuso. Esse sono dette rocce magmatiche(o ignee). Un magma è una massa di rocce fuse che si forma a profondità variabili. È una complessa miscela di minerali (silicati) e gas. Quando il magma si raffredda inizia un processo di cristallizzazione: gli atomi degli elementi in esso presenti si dispongono in posizioni fisse producendo una struttura cristallina. Le rocce magmatiche sono di due tipi: – intrusive, che si formano quando la massa fusa solidifica e cristallizza in profondità; – effusive, che si formano invece quando il magma solidifica in superficie. Tutte le rocce magmatiche intrusive sono formate da cristalli visibili a occhio nudo. I cristalli che si formano mano a mano che il magma si raffredda hanno il tempo sufficiente per crescere anche fino a qualche millimetro prima che l’intera roccia cristallizzi. Esempi: GRANITO E GABBRO. Nelle rocce magmatiche effusive, invece, il magma risale fino in superficie, la sua temperatura passa da circa 1000 °C a quella ambiente in maniera più rapida e i singoli cristalli non hanno il tempo di crescere. Quindi i cristalli hanno piccole dimensioni, visibili solo al microscopio., in questo caso si parla di Struttura vetrosa o amorfa. Esempi: OSSIDIANA, BASALTO, POMICE Le rocce sedimentarie e la loro formazione La crosta terrestre è formata per la maggior parte da rocce metamorfiche e magmatiche, ma la sua superficie è composta da uno strato quasi continuo di rocce sedimentarie. Esse si formano attraverso processi che avvengono sulla superficie terrestre. La sedimentazione è la deposizione, in strati sovrapposti, di vari tipi di materiali. Le rocce sedimentarie vengono divise in tre gruppi, a seconda del processo di formazione: 1. clastiche, dovute all’accumulo di frammenti provenienti dalla disgregazione di altre rocce; 2. organogene, formate da materiali che derivano dall’attività di organismi o dai loro resti; 3. chimiche, che derivano da processi chimici, come la precipitazione dei sali. Le rocce che affiorano in superficie subiscono la disgregazione e l’erosione per opera degli agenti atmosferici.

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I frammenti sono trasportati dall’acqua, dal ghiaccio e dal vento e quindi depositati sulle terre emerse o sul fondo del mare. La deposizione dei frammenti è detta sedimentazione. I sedimenti si accumulano in strati sovrapposti e vanno incontro a litificazione (compattazione e cementificazione), cioè sono trasformati in roccia consolidata. Le rocce che si formano seguendo questi processi sono dette rocce clastiche (1). Ne sono esempi i Conglomerati, le arenarie e le argilliti Le rocce organogene (2) invece sono derivate dall’accumularsi di resti di organismi: gusci e scheletri di animali di varie dimensioni; ammassi di organismi costruttori (come i coralli); resti di vegetali (come quelli che formano il carbone fossile). Le rocce organogene più diffuse sono i CALCARI, CARBONI FOSSILI, PETROLIO. Le rocce chimiche (3) si formano soprattutto in seguito alla precipitazione di sostanze sciolte nell’acqua dei mari e dei laghi. Le STALATTITI E LE STALAGMITI depositi di calcare che si formano in seguito allo stillicidio di acqua satura di carbonato di calcio dal soffitto delle grotte. La formazione delle rocce metamorfiche Quando le rocce vengono sottoposte a temperature elevate o a forti pressioni (o a entrambi i processi), pur rimanendo allo stato solido possono subire dei cambiamenti nella composizione mineralogica (cioè del tipo di minerali di cui sono costituite) e nella struttura (cioè nella disposizione dei minerali al loro interno). Questo processo di trasformazione mineralogica e strutturale è detto metamorfismo e le rocce che ne derivano sono chiamate rocce metamorfiche. I casi più frequenti di metamorfismo sono due: 1. Il metamorfismo regionale è un fenomeno che riguarda porzioni molto estese della crosta terrestre. Le rocce che ne derivano presentano una tipica scistosità, cioè la proprietà di dividersi facilmente in lastre su piani paralleli. ESEMPIO: ARDESIA. 2. Il metamorfismo di contatto si osserva invece quando una massa di magma incandescente risale attraverso la crosta, oppure si ferma all’interno di questa, provocando un forte aumento di temperatura nelle rocce con cui viene a contatto. Attorno alla massa di magma le rocce subiscono delle modificazioni nella composizione dei minerali. ESEMPIO: MARMO. La temperatura e la pressione che innescano il metamorfismo sono conseguenze del calore interno della Terra e del peso delle rocce sovrastanti.

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CLASSIFICAZIONE DELLE ROCCE: MAGMATICHE, SEDIMENTARIE E METAMORFICHE

La classificazione delle rocce Una roccia può essere generalmente definita come un aggregato naturale compatto ed eterogeneo di minerali. Esistono però anche rocce costituite da un solo minerale (omogenee) e rocce composte da sostanze che non si trovano allo stato cristallino (ad esempio i vetri vulcanici si veda oltre). Un solido può trovarsi in due stati di aggregazione: · Stato cristallino: caratterizzato da una composizione chimica ben definita e da una disposizione ordinata e regolare degli atomi nello spazio; questa struttura ordinata è quella che caratterizza i minerali. · Stato amorfo: gli atomi del composto hanno una disposizione nello spazio totalmente casuale, analogamente a quanto accade ad un composto allo stato liquido. Le sostanze minerali sono quindi composti chimici uniformi e caratterizzate da una struttura ordinata, mentre le rocce sono aggregati di minerali, a parte alcune eccezioni, o sono composte da frammenti di altre rocce cementati insieme. In ogni caso una roccia si presenta come un aggregato in genere eterogeneo. La grande varietà litologica che si riscontra sulla crosta terrestre è imputabile ai diversi meccanismi genetici, ai diversi ambienti di formazione ed alla composizione chimico-mineralogica. I processi responsabili della genesi delle rocce sono estremamente vari e vanno dalla solidificazione di un magma alla litificazione di sedimenti originati dalla degradazione di rocce preesistenti, comprendendo complessi equilibri chimici e termodinamici. La prima grande ripartizione è quella tra rocce endogene, ossia di origine interna alla crosta terrestre, ed esogene, ossia di origine superficiale (fig. 1.2). Le prime comprendono le rocce magmatiche (ignee) e le metamorfiche; le magmatiche a loro volta si suddividono in intrusive (plutoniti) se risultano dal consolidamento di un magma all’interno della crosta terrestre ed effusive se il consolidamento avviene al di sopra di essa. Le rocce esogene vengono invece suddivise in sedimentarie e residuali (alteriti).

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I processi responsabili della genesi delle rocce, così come sono suddivise nello schema di fig. 2.1, fanno parte del ciclo litogenetico di cui rappresentano stadi distinti (si veda fig. 2.2). Il primo stadio del ciclo si può identificare con la solidificazione del magma che può avvenire all’interno della crosta terrestre (rocce intrusive) o sulla superficie terrestre (rocce effusive). Il processo sedimentario, responsabile dell’alterazione e disgregazione delle rocce esposte in superficie e del trasporto ed accumulo dei sedimenti, rappresenta uno stadio successivo, cui seguono i processi di tipo metamorfico che intervengo quando le rocce vengono trasferite in profondità a causa della dinamica crostale (si veda il cap. 3 ed il paragrafo sulle rocce metamorfiche). Il ciclo litogenetico si chiude nel momento in cui i processi metamorfici risultano talmente spinti da produrre la fusione completa del materiale (anatessi). Questo ciclo in realtà è una semplice schematizzazione teorica di una vasta serie di processi che si sovrappongono gli uni agli altri senza essere necessariamente sequenziali. Inoltre il ciclo è di tipo aperto, ovvero soggetto a continui scambi sia di energia che di materia con gli altri ambienti; infatti (si veda la fig. 2.2) oltre ai continui apporti di magma dal mantello molti elementi, come H2O, CO2, O2, vengono apportate dall’idrosfera e dall’atmosfera alle rocce di superficie. I vari stadi del ciclo non sono poi strettamente sequenziali, infatti ad esempio una roccia magmatica intrusiva può essere sottoposta a metamorfismo senza prima essere esposta in superficie.

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Fig. 2.2 Schema di ciclo litogenetico. Le frecce nere indicano il sollevamento (tettonica) in superficie delle rocce indicate nei riquadri. Si noti la diversa origine e composizione dei magmi e le differenze dei relativi apparati vulcanici. Inoltre i processi esogeni agenti in superficie, ovvero l’interazione della litosfera con idrosfera, atmosfera e biosfera, oltre a provocare la disgregazione delle rocce ed il trasporto ed accumulo dei sedimenti nei fondali marini e lacustri, sono il mezzo attraverso il quale avvengo gli scambi di elementi (H2O, O2, CO2 … ecc.). Ridisegnato da “Il Globo Terrestre e la sua Evoluzione” E. Lupia Palmieri, B. Accordi, M. Parotto. Rocce esogene Rocce sedimentarie Le rocce sedimentarie rappresentano il 5% della composizione della crosta terrestre superiore che, con uno spessore di poche decine di Km, costituisce uno strato sottilissimo rispetto ai 6530 Km del raggio del pianeta Terra. A causa della grande varietà e differenza degli ambienti in cui si formano, le rocce sedimentarie sono un insieme estremamente eterogeneo. I processi sedimentari possono essere così schematizzati: 1) Sedimentogenesi:

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Degradazione: è l’azione degli agenti esogeni sulle rocce presenti in superficie e comprende azioni di tipo fisico (termoclastismo, crioclastismo, erosione, corrasione, aloclastismo), chimico (ossidazione, idratazione, idrolisi, azione di acidi inorganici ed organici) e biologico (sgretolamento causato dagli apparati radicali delle piante, azione di organismi litofagi, batteri). Trasporto: è la mobilizzazione delle particelle (clasti) originate dai fenomeni di degradazione. Se il mezzo di trasporto è un fluido avviene per sospensione, rotolamento e saltazione (in acqua anche in soluzione). Il trasporto in acqua implica anche la selezione granulometrica ovvero il fenomeno secondo il quale le dimensioni del materiale trasportato sono funzione dell’energia cinetica dell’acqua; infatti i sedimenti fini riescono a depositarsi solo in situazioni caratterizzate da scarsa energia (acque calme), mentre i ciottoli grossolani vengono trasportati solo da acque con alta energia cinetica. Il trasporto può avvenire anche tramite i ghiacciai; in questo caso, non verificandosi alcun trasporto selettivo, si producono degli ammassi di tipo caotico. Altri mezzi di trasporto sono il vento (trasporto eolico), le correnti di torbida (torbiditi sottomarine) e le frane sia in ambiente aereo che sottomarino. Deposito: la perdita di energia del mezzo di trasporto comporta il deposito del materiale trasportato, secondo le modalità viste sopra. 2) Diagenesi; E’ quell’insieme di trasformazioni chimiche e fisiche subite dai sedimenti nel tempo successivo alla loro deposizione e che portano alla litificazione ossia alla formazione della roccia compatta. Il primo fenomeno è dovuto al seppellimento che causa la riduzione dei volumi con espulsione di H2O ed eventuale disidratazione di alcuni minerali; a questo si uniscono scambi ionici e variazioni dei reticoli cristallini. Il seppellimento comporta un aumento di temperatura e di pressione che portano alla litificazione completa mediante la cementazione dei clasti attraverso la ricristallizzazione ed altri fenomeni. E’ importante notare come l’alterazione delle rocce sia intimamente legata alle condizioni ambientali e climatiche in cui si verifica, ossia al sistema morfoclimatico. Ad esempio i fenomeni di alterazione di una roccia in zona subpolare sono molto diversi da quelli che si verificano in zona tropicale o desertica, ragione per cui la grande varietà delle rocce sedimentarie è connessa alla grande varietà degli ambienti. Tali condizioni possono essere parzialmente ricostruite dall’analisi dei clasti che costituiscono la roccia sedimentaria. Inoltre i fenomeni di alterazione sono ovviamente dipendenti anche dal tipo di roccia ed in particolare dai minerali che la compongono; così un calcare subirà un’alterazione ben diversa in ambiente tropicale (si pensi alle isolette dalle pareti alte e verticali del Mar della Cina immortalate in un film di James Bond) o in ambiente temperato (ad esempio le isole del Quarnaro del Mediterraneo orientale caratterizzate da una morfologia

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decisamente più dolce). Le rocce sedimentarie possono essere suddivise in: clastiche, carbonatiche, silicee, fosfatiche ed organiche. Rocce clastiche Sono rocce che derivano dalla litificazione di frammenti (clasti) di altre rocce che vengono trasportati ed accumulati in aree depresse in seguito al calo dell’energia cinetica del mezzo di trasporto (acqua, ghiaccio o vento). In una roccia sedimentaria si possono individuare: · gli elementi, cioè i clasti. · la matrice, costituita da particelle che hanno riempito le cavità intergranulari durante il processo di sedimentazione; sono di dimensioni inferiori rispetto ai clasti. · Cemento, ovvero il materiale fine di occlusione delle cavità intergranulari ancora libere; si forma durante la diagenesi, portando alla litificazione. I clasti possono anche essere costituiti da resti fossili di organismi viventi (gusci, apparati scheletrici…); se la percentuale di resti fossili è predominante la roccia è di tipo organogeno bioclastica. Classificazione granulometrica: Le rocce sedimentarie vengono classificate in base al diametro degli elementi secondo lo schema seguente: CLASSE GRANULOMETRICA

DIAMETRO DEGLI ELEMENTI (mm)

ARGILLE Ø < 0.0039 SILTITI 0.0039 < Ø < 0.0625 ARENITI 0.0625 < Ø < 2 RUDITI 2 < Ø Argilliti: Sono rocce a grana finissima frutto di deposizione in ambienti a bassa energia e composte prevalentemente da minerali argillosi. Il termine argilla indica il sedimento incoerente mentre con argillite viene indicata la roccia. Siltiti:

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Sono frutto della deposizione dei materiali più fini in pieno oceano, in mare aperto, al largo dei grandi delta fluviali o sul fondo di grandi laghi. Vengono classificate in base alla composizione mineralogica. Areniti: Sono sabbie cementate (i granuli possono essere di quarzo, di feldspato o di calcare) che derivano da sabbie di tipo desertico, fluviali, lacustri, deltizie o da dune litorali. Appartengono a questa categoria i loess, vasti depositi eolici di origine continentale di colorazione giallastra estremamente diffusi in Asia centrale. La classificazione, effettuata in base alla percentuale di matrice e di minerali (quarzo e feldspato) è correlabile agli ambienti di formazione. Senza entrare nei particolari la classificazione in base all’abbondanza mineralogica individua le grovacche, le arenarie e le quarzareniti. Ruditi: Brecce, se gli elementi hanno forma spigolosa. Conglomerati, se gli elementi hanno forma arrotondata. Derivano dalla cementazione delle ghiaie deposte in prossimità delle coste o accumulate in depositi alluvionali o morenici. Le dimensioni dei clasti permettono di elaborare indici morfometrici degli stessi circa il grado di sfericità (indica l’usura per rotolamento), di arrotondamento (usura in generale), e di asimmetria (permette di distinguere tra degradazione chimica e meccanica). Questo tipo di analisi morfometrica deve essere effettuata su di un numero ragionevole di granuli (dell’ordine di 100).

Fig. 2.3 Indici di arrotondamento e sfericità utilizzabile nell’analisi statistica dei clasti che compongono una rudite. In colonna granuli con

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arrotondamento simile ma diverso grado di sfericità.

Fig. 2.4 Paragone tra deposito di tipo morenico (caotico) ed alluvionale (stratificato). Marne: Sono rocce clastiche la cui composizione è compresa tra le argille ed i calcari in tutte le possibili proporzioni, i cui termini estremi sono le argille marnose ed i calcari marnosi. Hanno una colorazione generalmente grigia e sono caratterizzate da scarsa durezza.

Proprietà di insieme: Sono le proprietà del campione di roccia nel suo complesso; le principali sono: Porosità: è la percentuale di spazi vuoti contenuti nella roccia. Le rocce clastiche sono da mediamente a notevolmente porose (a differenza di quelle

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metamorfiche ed intrusive che non lo sono affatto) il ché implica l’assenza di contatto completo tra clasti. La presenza di porosità inoltre implica la disomogeneità nella distribuzione di eventuali carichi di pressione e quindi anche una minor resistenza alla rottura. Permeabilità: è la capacità di lasciar passare fluidi senza subire variazioni di struttura e, in generale, aumenta con l’aumentare della dimensione dei clasti. Una roccia porosa non è necessariamente permeabile; un esempio di questo tipo è fornito dall’argilla, mentre arenarie e ruditi sono sia porose che permeabili. Colorazione: è una caratteristica di difficile descrizione oggettiva; inoltre dipende dalla matrice, dai granuli e da pigmentazioni che si formano nell’ambiente di deposizione e diagenesi Rocce Carbonatiche Le carbonatiche comprendono rocce di varia genesi ed origine: le evaporitiche hanno un’origine di tipo chimico mentre le carbonatiche non evaporitiche (carbonatiche s.s.) possono essere di origine organogena, cioè legate ad attività biologica, o terrigena. Una roccia di tipo carbonatico particolare è la dolomia - CaMg(CO3)2 , sale doppio di Ca e Mg – che nella maggioranza dei casi è generata per sostituzione (dolomitizzazione), ovvero per dissoluzione di carbonato di calcio e simultanea precipitazione del sale doppio di Ca ed Mg. La dolomia primaria, ovvero quella generata per precipitazione diretta, rappresenta una minima percentuale di tutta la dolomia; inoltre il fenomeno di precipitazione diretta non si verifica nelle condizioni ambientali attuali. Rocce evaporitiche Sono generate da fenomeni di precipitazione di sali in seguito all’evaporazione dell’acqua in cui si trovano disciolti. Tali fenomeni si verificano in ambienti di transizione, circoscritti ed a circolazione di acqua ristretta quali lagune, aree litorali, laghi delle zone endoreiche o in bacini marini rimasti isolati in cui l’acqua evapora completamente o quasi. In tali condizioni i sali precipitano in ordine inverso di solubilità: calcite (CaCO3), anidride (CaSO4) e gesso (CaSO42H2O) fino al salgemma (NaCl) ed ai sali di Na, K ed Mg. Fenomeni di precipitazione chimica possono verificarsi anche in ambiente continentale da acque sorgive o fluviali soprassature in CaCO3. La precipitazione del carbonato avviene in seguito a variazioni di temperatura e pressione dell’acqua (tipiche condizioni di sbocco di una sorgente) o per forte agitazione meccanica (ad esempio in prossimità di una cascata). In questo caso i prodotti della

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precipitazione del carbonato sono il travertino e, in condizioni ipogee, l’alabastro e le formazioni stalattitiche e stalagmitiche. Rocce carbonatiche s.s. (non evaporitiche) Sono riconducibili a due tipologie fondamentali (classificazione di Pettijon): Calcari autoctoni: sono il frutto di accumulo di sostanze organiche senza che si verifichi un trasporto significativo. Appartengono a questa tipologia le scogliere coralline fossili, gli accumuli di gusci calcarei e gli accumuli di organismi planctonici (alghe planctoniche, foraminiferi, spicole di spugna, protozoi…). Calcari alloctoni: sono di origine detritica, ovvero hanno subito processi di trasporto, deposizione e sedimentazione esaminati in precedenza. Le rocce da cui sono stati originati i clasti possono essere anche i calcari autoctoni visti sopra. Inoltre la classe granulometrica, così come per le altre rocce sedimentarie, è legata all’ambiente deposizionale: i sedimenti più fini sono quelli depositati alle maggiori profondità. In ogni caso i sedimenti calcarei non si depositano al di sotto di una profondità definita limite di compensazione dei carbonati (CCD); oltre questo limite, che nei mari attuali è ad una profondità di circa 4000 m, il calcare passa in soluzione. Accanto alla classificazione appena vista ne esistono di più articolate e complesse (Folk, Dunham, Embry e Klovan). Rocce silicee Sono rocce sedimentarie composte prevalentemente da silice (SiO2 – quarzo, opale, calcedonio). In base ai meccanismi genetici si distinguono in: Organogene: derivano dall’accumulo a profondità oceaniche di apparati scheletrici di microorganismi a guscio siliceo (diatomee, radiolari, spugne…). Chimiche: la loro genesi avviene durante i fenomeni diagenetici per precipitazione da soluzioni sature o in seguito a manifestazioni vulcaniche secondarie (geyseriti). Appartengono a questa categoria i diaspri dalla caratteristica colorazione rossastra o verdastra, che quindi testimoniano deposizione in ambiente di bacino profondo (non avendo composizione carbonatica possono essere deposte anche sotto il CCD).

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Rocce organiche Derivano dall’accumulo di sostanze organiche che, durante i processi diagenetici, vengono trasformate in carboni fossili o idrocarburi. I carboni fossili sono il risultato dell’attività di batteri anaerobi che, durante le fasi iniziali del processo diagenetico su sedimenti di origine organica (vegetali), producono un arricchimento in carbonio ed il contemporaneo allontanamento di idrogeno ed ossigeno. Gli idrocarburi sono invece accumuli di sostanze di origine organica in rocce sedimentarie; tali accumuli si verificano per migrazione in rocce porose e permeabili (rocce serbatoio) in particolari condizioni stratigrafiche e tettoniche. I combustibili fossili (idrocarburi, carbone, torba ecc.) sono dei veri e propri “serbatoi” dell’energia (solare) immagazzinata mediante la fotosintesi dai vegetali da cui sono originati. Il ciclo energetico connesso all’uso dei combustibili fossili è schematizzato in fig. 2.5.

Fig. 2.5 Ciclo energetico connesso all’uso dei combustibili fossili. I

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vegetali, diversi milioni di anni fa, hanno immagazzinato l’energia solare attraverso il processo della fotosintesi. Una parte di essi non subisce ossidazione completa, viene trasformata in carbone e petrolio durante la diagenesi ed accumulata in particolari situazioni stratigrafiche e tettoniche. L’energia immagazzinata viene liberata (lavoro utile e calore) attraverso la combustione insieme alle emissioni elencate sulla destra del disegno. Si noti come la CO2 prodotta con la combustione vada a sommarsi a quella legata ai processi naturali (respirazione e fotosintesi). Ridisegnato da “Ambiente Terra – I fattori naturali della sua evoluzione” Quaderni di Le Scienze, F. Ippolito (Milano 1993). Rocce residuali Si tratta di rocce che derivano dall’accumulo in situ, ovvero senza trasporto, dei prodotti di alterazione di una roccia affiorante e per tale motivo vengono indicate anche con il termine di alteriti. I fenomeni di alterazione ed il dilavamento delle sostanze solubili formate durante tale processo sono i caratteri fondamentali della genesi di questo tipo di rocce. In generale il dilavamento comporta l’allontanamento di determinati elementi (ad esempio il silicio per le Lateriti) e l’arricchimento di altri (ossidi ed idrossidi di ferro ed alluminio sempre per le Lateriti). Il meccanismo più importante che interviene nella genesi delle rocce residuali è l’idrolisi dei silicati, la cui entità dipende dal regime climatico (principalmente temperatura e precipitazioni); un ruolo fondamentale è svolto anche dall’acidità dell’acqua che, in ambiente tropicale, viene aumentata dalla dissoluzione di acidi organici la cui presenza è legata alla forte copertura vegetale. Le principali rocce di questo genere sono le argille residuali, le lateriti e le bauxiti. Rocce Endogene Magmatiche Le rocce magmatiche sono originate dalla solidificazione di un magma che è una massa fusa composta da un liquido silicatico, cui si aggiungono una fase solida e una gassosa. La classificazione delle rocce di questo tipo deriva dalle modalità con cui il fuso si è solidificato; la velocità di raffreddamento infatti regola la crescita dei cristalli, secondo lo schema seguente:

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A causa della grande eterogeneità degli elementi che compongono il fuso ed ai complessi equilibri termodinamici che ne regolano l’evoluzione, il processo di solidificazione avviene in modo discontinuo, secondo un processo definito cristallizzazione frazionata che si verifica per temperature comprese tra i 500 ed i 1500 °C circa. In pratica, semplificando al massimo il processo, alcuni minerali cristallizzano prima di altri e, in alcuni casi, si formano cristalli che sono destinati a scomparire (magari in parte) al diminuire della temperatura e della pressione. In base alle modalità di raffreddamento si distinguono: Rocce intrusive (plutoniti): si tratta di corpi magmatici consolidati entro la crosta terrestre per inclusione. Per tale ragione durante il raffreddamento, che avviene lentamente, la pressione si mantiene elevata. Il risultato è una struttura di tipo olocristallina, cioè composta da cristalli di grandi dimensioni (tutti sono almeno distinguibili ad occhio nudo). Fanno parte di questa tipologia i graniti, le dioriti, i gabbri e le peridotiti (si veda oltre). Rocce effusive (vulcaniti): corpi magmatici consolidati sopra la crosta terrestre, anche in fondali oceanici (dorsali sottomarine). In questo caso il processo di solidificazione avviene con un brusco abbassamento dei valori di temperatura e pressione; in realtà il processo di cristallizzazione frazionata (solidificazione) inizia prima che il magma venga espulso in superficie, per cui alcuni cristalli riescono a crescere fino ad avere dimensioni apprezzabili (fenocristalli). La struttura della roccia in questo caso è di tipo ipocristallina, cioè composta da piccoli cristalli immersi in una pasta di fondo microcristallina o vetrosa. I magmi che invece raffreddano molto bruscamente durante fenomeni vulcanici di tipo esplosivo (si veda il cap. sul vulcanismo), producono rocce con caratteristiche particolari ovvero le rocce piroclastiche. Appartengono a questa categoria i tufi, le cineriti (lapilli e ceneri lanciati in aria durante l’attività esplosiva e formanti depositi stratificati), le pomici (rocce a bassissima densità la cui bollosità deriva dall’alta viscosità del fuso che

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non ne permette un rapido degassamento) e le ossidiane o vetri vulcanici (il rapido raffreddamento non permette la formazione della struttura cristallina). Altre rocce di tipo effusivo sono i basalti (generati durante attività magmatica di tipo non esplosivo), le andesiti e le rioliti. Rocce filoniane: consolidano in condizioni intermedie (né profonde né superficiali) e presentano una grande varietà composizionale e strutturale. Oltre alle modalità di solidificazione, l’altro carattere fondamentale di classificazione tanto dei magmi quanto delle rocce magmatiche è il loro chimismo, in particolare la percentuale di silice (SiO2) presente. La ragione di questa classificazione su basi chimico-mineralogiche risiede nel fatto che la maggior parte dei minerali è di tipo silicatico (comprende SiO2 nella struttura); inoltre il quarzo è l’ultimo minerale a cristallizzare, quindi la sua presenza in una roccia fornisce informazioni circa la composizione chimica del fuso da cui si è originata. I minerali che costituiscono le rocce possono essere ripartiti in due grandi famiglie: Sialici: incolori o biancastri, in cui predomina la SiO2 e l’allumina. Femici: di colorazione scura (da verde a nero) e contenenti prevalentemente Fe ed Mg. La presenza e proporzione dei minerali presenti in una roccia magmatica permette di definire le seguenti tipologie: - Rocce acide: contengono grandi quantità di quarzo (SiO2) e sono caratterizzate da una densità media e da una colorazione chiara (rocce leucocratiche). - Rocce intermedie: hanno composizione mineralogica appunto intermedia. - Rocce basiche: basso tenore in silice (SiO2) e densità più elevata; la colorazione prevalente è nerastra (rocce melanocratiche). - Rocce ultrabasiche: la silice libera è totalmente assente e la densità molto elevata. Appartengono a questa categoria le Peridotiti (rocce del mantello superiore risalite in superficie) e le Ofioliti (note anche come pietre verdi). Nella tabella seguente è riassunta la classificazione delle rocce magmatiche in base a modalità di raffreddamento e chimismo. ACIDE INTERMEDIE BASICHE ULTRABASICHE INTRUSIVE Graniti,Granodioriti Dioriti, sieniti Gabbri Peridotiti EFFUSIVE Rioliti, Daciti Andesiti, Trachiti Basalti

Rapporti di frequenza: i magmi hanno una composizione che è prevalentemente o acida o basica, sono cioè scarsi quelli a composizione intermedia. Le rocce intrusive sono nella maggior parte di tipo acido, cioè molto diffusi sono i graniti e molto meno i gabbri. Per le rocce effusive

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vale invece il contrario, ovvero sono molto diffuse quelle di tipo basico (basalti). Schema riassuntivo rocce magmatiche Intrusive: Granito: roccia acida con struttura olocristallina; minerali principali: quarzo (incolore), plagioclasio (bianco opaco), k-feldspato (rosato), mica (scura o bianca). Diorite: roccia intermedia con struttura olocristallina di aspetto simile al granito; può contenere o meno quarzo. Gabbro: roccia basica con struttura olocristallina di composizione chimico-mineralogica uguale ai basalti; minerali principali: olivina, plagioclasi, anfiboli e pirosseni (non contiene quarzo). Riolite: corrispondente effusivo del granito con struttura ipocristallina porfirica (pasta di fondo microcristallina o vetrosa) di colorazione chiara e con scarsi fenocristalli (quarzo, biotite, plagioclasio). Trachite: chimismo intermedio, struttura ipocristallina, corrispondente effusivo della diorite; colorazione prevalente grigio rossastra. Basalto: chimismo acido, struttura ipocristallina totalmente porfirica o vetrosa. Colorazione nera o grigio nerastra che può diventare rossastra o verdastra in seguito a fenomeni di alterazione; è il corrispondente effusivo del gabbro. Porfido: chimismo acido, struttura porfirica (struttura olocristallina molto fine talora disseminata di cristalli di dimensioni maggiori). Si trova spesso associato a masse granitiche. Rocce piroclastiche: sono il risultato della deposizione (stratificata) dei materiali lavici (parzialmente solidificati) lanciati in aria nel corso di manifestazioni vulcaniche esplosive; si suddividono in: 1. Tufi: accumuli di lapilli di dimensioni comprese tra 2 mm e 3 cm. 2. Cineriti: accumuli di ceneri (diametro delle particelle inferiore ai 2 mm). 3. Ignimbriti: estesi espandimenti di materiali acidi ad alta viscosità, in grado di scorrere per lunghe distanze durante le eruzioni. 4. Pomice: derivato di schiume di vetro vulcanico, la cui bollosità è causata dall’alta viscosità che impedisce un rapido degassamento; è caratterizzata da bassissimi valori di densità (galleggia in acqua). 5. Ossidiana: roccia totalmente vetrosa caratterizzata da fratture concoidi e da assenza di bollosità; il rapido raffreddamento impedisce la crescita dei cristalli.

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Rocce metamorfiche Si tratta del risultato dell’esposizione di rocce preesistenti (sedimentarie, magmatiche e metamorfiche) ad alte temperature e/o pressioni. Metamorfismo indica dunque un insieme di complessi processi di trasformazione di una roccia in risposta alle diverse condizioni ambientali in cui viene a trovarsi. Il chimismo viene mantenuto (o alterato in minima parte), ma le mutate condizioni ambientali inducono la formazione di nuovi minerali secondo processi di ricristallizzazione. Condizioni di temperatura e pressione non elevate intervengono nei processi diagenetici che, come si è visto in precedenza, sono all’origine della genesi delle rocce sedimentarie, mentre alti valori di pressione e temperatura comportano fusione (anche parziale) della roccia, ossia il fenomeno dell’anatessi. Le condizioni intermedie rispetto a questi due estremi individuano il metamorfismo, che non comporta quindi il passaggio allo stato liquido. Inoltre queste condizioni di pressione e temperatura indicano la crosta terrestre come sede dei processi metamorfici; le rocce di questo tipo, ma lo stesso accade anche per le magmatiche intrusive e per le sedimentarie, si ritrovano successivamente in superficie a causa dei processi tettonici di sollevamento e per il denudamento operato dall’erosione. L’ampio intervallo di temperature e pressioni unitamente ai complessi processi che intervengono durante il metamorfismo fanno si che una classificazione delle rocce di questo tipo sia estremamente complessa. Il primo fattore rilevante è l’individuazione del tipo di roccia originaria (sedimentaria, magmatica o metamorfica), che viene detto protolito. Le rocce metamorfiche vengono indicate con i seguenti suffissi in funzione della natura del protolito: PARA- indica rocce metamorfiche il cui protolito è una roccia sedimentaria (parascisto, paragneiss). ORTO- indica rocce metamorfiche da protolito magmatico (ortoscisto, ortogneiss). Quindi l’osservazione e lo studio dei minerali al microscopio in luce polarizzata permette di identificare le associazioni di minerali presenti nel campione da cui è possibile ricostruire le condizioni di temperatura e pressione cui è stato sottoposto. I processi metamorfici possono essere ripartiti in tre grandi famiglie: 1) Metamorfismo di contatto E’ caratterizzato da basse pressioni e da temperature da basse fino ad elevate. Si verifica per contatto con corpi caldi (intrusione di grandi masse

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granitiche, vicinanze di condotti lavici). Il marmo è un tipico esempio di roccia di questo tipo. 2) Metamorfismo regionale Tipico di aree ad alto gradiente geotermico che causano quindi condizioni di alta temperatura e pressione, quali le zone di corrugamento. E’ quindi associato alle deformazioni più intense. 3) Metamorfismo di seppellimento Prodotto da debole aumento di temperatura e forte innalzamento di pressione; queste condizioni sono tipiche delle zone di subsidenza (piani di Benioff) in aree a basso flusso di calore. Modificazioni della tessitura della roccia: Le condizioni ambientali che comportano metamorfismo sono strettamente connesse alle deformazioni plastiche della crosta (geodinamica). Il metamorfismo comporta frequentemente la comparsa di superfici di anisotropia o di isoorientazione dei minerali nella roccia che spesso sono visibili ad occhio nudo; si individuano superfici di scistosità, clivaggio, foliazione ecc..

Fig. 2.6 Rappresentazione schematica dei processi metamorfici in funzione

delle condizioni ambientali di pressione (profondità) e temperatura. Il metamorfismo di tipo regionale occupa la porzione di grafico compresa tra quello di seppellimento, quello di contatto e l’anatessi.

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MATERIA

In fisica classica, con il termine materia, si indica genericamente qualsiasi oggetto che abbia massa e che occupi spazio; oppure, alternativamente, la sostanza di cui gli oggetti fisici sono composti, escludendo quindi l'energia, che è dovuta al contributo dei campi di forze. Questa definizione, sufficiente per la fisica macroscopica, oggetto di studio della meccanica e della termodinamica, non si adatta bene alle moderne teorie nel campo microscopico, proprie della fisica atomica e subatomica. Ad esempio, lo spazio occupato da un oggetto è prevalentemente vuoto, dato il grande rapporto tra il raggio medio delle orbite elettroniche e le dimensioni tipiche di un nucleo atomico; inoltre, la legge di conservazione della massa è fortemente violata su scale subatomiche. In questi ambiti, si può invece adottare la definizione che la materia è costituita da una certa classe di particelle, che sono le più piccole e fondamentali entità fisicamente rilevabili: queste particelle sono dette fermioni e seguono il principio di esclusione di Pauli, il quale stabilisce che non più di un fermione può esistere nello stesso stato quantistico. A causa di questo principio, le particelle che compongono la materia non si trovano tutte allo stato di energia minima e per questa ragione è possibile creare strutture stabili di assemblati di fermioni. Particelle della classe complementare, dette bosoni, costituiscono invece i campi. Essi possono quindi essere considerati gli agenti che operano gli assemblaggi dei fermioni o le loro modificazioni, interazioni e scambi di energia. Una metafora non del tutto corretta da un punto di vista fisico, ma efficace e intuitiva, vede i fermioni come i mattoncini che costituiscono la materia dell'universo, e i bosoni come le colle o i cementi che li tengono assieme per costituire la realtà fisica. Definizione teorica Tutto ciò che occupa spazio e ha massa è conosciuto come materia. In fisica, non c'è un largo consenso per una comune definizione di materia, in parte perché la nozione di "occupare spazio" è mal definita e addirittura inconsistente nel quadro della meccanica quantistica. I fisici non definiscono con precisione cosa si deve intendere per materia, preferendo invece utilizzare e rivolgersi ai concetti più specifici di massa, energia e particelle. La materia è definita da alcuni fisici come tutto ciò che è composto da fermioni elementari. Questi sono i leptoni, come ad esempio gli elettroni, e i quark, inclusi quelli up e down che costituiscono i protoni e i neutroni. Dato che elettroni, protoni e neutroni si aggregano insieme a costituire atomi, questi fermioni da soli costituiscono tutta la sostanza elementare che forma tutta la materia ordinaria. La proprietà rilevante dei fermioni è che essi hanno spin semi-intero (per esempio 1/2, 3/2, 5/2, ...) e quindi devono seguire il principio di esclusione di Pauli, che vieta a due fermioni di occupare lo stesso stato quantistico. Questo sembra

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corrispondere all'elementare proprietà di impenetrabilità della materia e all'antico concetto di occupazione dello spazio. Secondo questa visione, non sono materia la luce (costituita da fotoni), i gravitoni e i mesoni (a parte i muoni, tipi di leptoni chiamati con ambiguità mesoni prima che la distinzione fra di loro fosse chiara). Questi hanno spin intero (0, 1, 2, 3, ...), non seguono il principio di esclusione di Pauli e quindi non si può dire che occupino spazio nel senso sopra menzionato. Ciò nonostante hanno tutti energia per cui (in accordo con l'equivalenza relativistica massa-energia) hanno anche massa. Sotto questa definizione esistono perciò particelle che hanno massa, ma senza costituire materia. La parte principale della massa dei protoni e dei neutroni proviene dai quark ma anche dai gluoni (un tipo di bosoni) che li legano, quindi non solamente dai quark stessi. La definizione di materia come formata da fermioni soffre perciò del problema primario che la gran parte della massa (più del 99%) della "materia ordinaria" non è composta da fermioni (quark e leptoni) ma dalla massa generata dinamicamente dalle particelle virtuali che interagiscono. Proprietà della materia Secondo la visione classica ed intuitiva della materia, tutti gli oggetti solidi occupano uno spazio che non può essere occupato contemporaneamente da un altro oggetto. Ciò significa che la materia occupa uno spazio che non può contemporaneamente essere occupato da un'altra materia, ovvero la materia è impenetrabile (principio dell'impenetrabilità). Se prendiamo un pezzo di gomma, lo misuriamo con una bilancia e otteniamo, ad esempio, una massa di 3 grammi, dividendo la gomma in tanti piccoli pezzi e pesando tali pezzi otterremo sempre 3 grammi. La quantità non è cambiata, in accordo con la legge di conservazione della massa. Secondo questa ipotesi si può quindi affermare che "la materia ha una massa che non cambia anche se variano la sua forma e il suo volume". Su queste basi in passato si è così costruita la definizione secondo cui "la materia è tutto ciò che occupa uno spazio e ha una massa". La massa inerziale di una certa quantità di materia, ad esempio di un dato oggetto, che una bilancia misura per confronto con un'altra massa, rimane invariata in ogni angolo dell'universo, ed è quindi considerata una proprietà intrinseca della materia. L'unità con cui si misura la massa inerziale è il chilogrammo. Viceversa, il peso è una misura della forza di gravità con cui la Terra attira verso di sé un corpo avente una massa gravitazionale; come tale, il peso di un dato corpo cambia a seconda del luogo in cui lo misuriamo - in diversi punti della Terra, nello spazio cosmico o in un altro pianeta. Il peso quindi non è una proprietà intrinseca della materia. Come altre forze statiche, il peso può essere misurato con un dinamometro. Massa inerziale e massa gravitazionale sono due concetti distinti nella meccanica classica, ma sono state sempre trovate uguali sperimentalmente. È solo con l'avvento della relatività generale che abbiamo una teoria che interpreta la loro identità.

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La densità superficiale e volumica di materia nel mondo subatomico è minore che nell'universo macroscopico. Nel mondo degli atomi le masse occupano in generale volumi maggiori (minore densità di volume) e si trovano a distanze maggiori (più bassa densità di superficie) di quelle che separano pianeti, stelle, galassie. Fra i costituenti della materia prevale il vuoto.

Struttura della materia

La materia omogenea ha composizione e proprietà uniformi. Può essere una mistura, come il vetro, un composto chimico come l'acqua, o elementare, come rame puro. La materia eterogenea, come per esempio il granito, non ha una composizione definita. È di fondamentale importanza nella determinazione delle proprietà macroscopiche della materia la conoscenza delle strutture a livello microscopico (ad esempio l'esatta configurazione delle molecole e dei cristalli), la conoscenza delle interazioni e delle forze che agiscono a livello fondamentale unendo fra loro i costituenti fondamentali (come le forze di London e i legami di van der Waals) e la determinazione del comportamento delle singole macrostrutture quando interagiscono fra loro (ad esempio le relazioni solvente - soluto o quelle che sussistono fra i vari microcristalli nelle rocce come il granito).

Proprietà fondamentali della materia

I fermioni sono particelle a spin semi-intero e costituiscono una possibile definizione per tutta la materia di cui siamo fatti. I fermioni sono divisi in quark e leptoni a seconda se partecipano o meno alla forza nucleare forte. I fermioni interagiscono fra di loro attraverso i bosoni, particelle mediatrici delle forze. Leptoni I leptoni sono fermioni che non risentono della forza nucleare forte, ma interagiscono solo tramite la forza di gravità e la forza elettrodebole. Nel modello standard, sono previste tre famiglie di leptoni che comprendono una particella carica e una neutra ciascuna. L'elettrone, il muone e il tauone hanno carica elettrica negativa (positiva per le rispettive antiparticelle), mentre i relativi neutrini hanno una carica elettrica nulla. I neutrini sono privi di massa nel modello standard, anche se estensioni di questo e modelli cosmologici prevedono che abbiano una piccola massa non nulla. Fasi della materia In risposta a differenti condizioni termodinamiche come la temperatura e la

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pressione, la materia si presenta in diverse "fasi", le più familiari (perché sperimentate quotidianamente) delle quali sono: solida, liquida e aeriforme. Altre fasi includono il plasma, il superfluido e il condensato di Bose-Einstein. Il processo per cui la materia passa da una fase ad un'altra, viene definito transizione di fase, un fenomeno studiato principalmente dalla termodinamica e dalla meccanica statistica. Le fasi sono a volte chiamate stati della materia, ma questo termine può creare confusione con gli stati termodinamici. Per esempio due gas mantenuti a pressioni differenti hanno diversi stati termodinamici, ma lo stesso "stato" di materia.

Solidi

I solidi sono caratterizzati da una tendenza a conservare la loro integrità strutturale e la loro forma, al contrario di ciò che accade per liquidi e gas. Molti solidi, come le rocce, sono caratterizzati da una forte rigidità, e se le sollecitazioni esterne sono molto alte, tendono a spezzarsi e a rompersi. Altri solidi, come gomma e carta, sono caratterizzati invece da una maggiore flessibilità. I solidi sono di solito composti da strutture cristalline o lunghe catene di molecole (ad esempio polimeri).

Liquidi

In un liquido, le molecole, pur essendo vicine fra di loro, sono libere di muoversi, ma al contrario dei gas, esistono delle forze più deboli di quelle dei solidi che creano dei legami di breve durata (ad esempio, il legame a idrogeno). I liquidi hanno quindi una coesione e una viscosità, ma non sono rigidi e tendono ad assumere la forma del recipiente che li contiene.

Aeriforme

Un aeriforme è una sostanza composta da piccole molecole separate da grandi spazi e con una debolissima interazione reciproca. Quindi gli aeriformi non offrono alcuna resistenza a cambiare forma, a parte l'inerzia delle molecole di cui è composto. Materia chimica La materia chimica è la parte dell'universo composta da atomi chimici. Questa parte dell'universo non include la materia e l'energia oscura, buchi neri, stelle a neutroni e varie forme di materia degenerata, che si trova ad esempio in corpi celesti come la nana bianca. Dati recenti del Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP), suggeriscono che solo il 4% della massa totale dell'intero universo visibile ai nostri telescopi sia costituita da materia chimica. Circa il 22% è materia oscura, il restante

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74% è energia oscura. La materia che osserviamo è generalmente nella forma di composti chimici, di polimeri, leghe o elementi puri. Antimateria Nelle particelle fisiche e nella chimica quantistica, l'antimateria è composta dalle rispettive antiparticelle che costituiscono la normale materia. Se una particella e la sua antiparticella si incontrano tra loro, le due annichiliscono; si convertono cioè in altre particelle o più spesso in radiazione elettromagnetica di uguale energia in accordo con l'equazione di Einstein E=mc². L'antimateria non si trova naturalmente sulla Terra, eccetto quantità piccole e di breve durata (come risultato di decadimenti radioattivi o raggi cosmici). Questo perché l'antimateria che si crea fuori dai confini dei laboratori fisici incontra immediatamente materia ordinaria con cui annichilirsi. Antiparticelle ed altre forme di stabile antimateria (come antiidrogeno) possono essere create in piccole quantità, ma non abbastanza per fare altro oltre a test delle proprietà teoriche negli acceleratori di particelle. C'è una considerevole speculazione nella scienza e nei film su come mai l'intero universo sia apparentemente composto da ordinaria materia, sebbene sia possibile che altri posti siano composti interamente da antimateria. Probabili spiegazioni di questi fatti possono arrivare considerando asimmetrie nel comportamento della materia rispetto all'antimateria. Materia oscura In cosmologia, effetti a larga scala sembrano indicare la presenza di un incredibile ammontare di materia oscura che non è associata alla radiazione elettromagnetica. La teoria del Big Bang richiede che questa materia abbia energia e massa, ma non è composta né da fermioni elementari né da bosoni. È composta invece da particelle che non sono mai state osservate in laboratorio (forse particelle supersimmetriche). Materia esotica La materia esotica è un ipotetico concetto di particelle fisiche. Si riferisce a ogni materia che viola una o più delle classiche condizioni e non è costituita da particelle barioniche note. Storia del concetto di Materia Nel medioevo e nell'antichità era radicata la convinzione aristotelica che la materia fosse composta da quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco. Ciascuno di questi, avendo un diverso "peso", tende verso il proprio luogo naturale, lasciando al centro

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dell'universo la terra e l'acqua, facendo invece salire verso l'alto aria e fuoco. Inoltre si credeva che la materia fosse un insieme continuo, privo completamente del vuoto (la natura aborre il vuoto, horror vacui). Oggi invece si è scoperto che la materia è al contrario composta per oltre il 99% di vuoto. Una grossa disputa nella filosofia greca riguardò la possibilità che la materia possa essere divisa indefinitamente in parti sempre più piccole. Contrari a questa ipotesi, gli atomisti erano invece convinti che vi fosse una struttura elementare costituente la materia non ulteriormente divisibile.

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LE ROCCE Le rocce si definiscono come aggregati di minerali. Frequentemente sono costituite da un minerale dominante e solo in piccole percentuali da altri; le rocce calcaree ad esempio sono costituite essenzialmente dal minerale calcite (CaCO3). Le rocce vengono classificate in base all'origine dei minerali di cui sono costituite e si distinguono in: Primarie: ignee quelle che derivano direttamente dal raffreddamento del magma sia superficiale (eruzioni vulcaniche) che profondo (camera magmatica). Secondarie: sedimentarie quelle che si originano dalla deposizione e successiva compattazione dei prodotti di disgregazione e alterazione di rocce preesistenti; metamorfiche quelle che derivano da rocce preesistenti (PROTOLITI) che subiscono modificazioni cristalline dovute in genere ad aumenti di temperatura e/o di pressione, spesso legati a fenomeni tettonici. Le rocce ignee Questo tipo di rocce si forma per il raffreddamento e la cristallizzazione di un magma fuso. Tale magma, che può avere origine anche a 200 Km di profondità, è composto prevalentemente dagli elementi che si ritrovano nei minerali silicatici, insieme a vapore acqueo e ad altri composti volatili.

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Il flusso magmatico grazie alla minor densità rispetto alle rocce in cui è inglobato tende a risalire verso la superficie (Principio di Archimede) ove talvolta fuoriesce e, causa il brusco raffreddamento che subisce, si solidifica velocemente dando luogo alle rocce effusive. Non sempre il magma arriva in superficie e allora si solidifica lentamente al di sotto di questa diventando roccia intrusiva. Questo tipo di roccia non verrebbe mai alla luce se gli agenti atmosferici non ne erodessero la copertura. La velocità con cui il magma si raffredda influisce in maniera determinante sul tipo di roccia che ne deriva. Infatti se si raffredda lentamente la roccia avrà una struttura più ordinata e compatta e sarà più ricca di cristalli in quanto gli elementi costituenti avranno avuto molto tempo per ordinarsi mineralogicamente. Al contrario se questo raffreddamento è rapido si può arrivare fino ad avere una struttura completamente vetrosa (che non possiede una struttura mineralogica ordinata). L'esempio più calzante per una roccia di questo tipo resta sempre l'ossidiana. Le rocce ignee, cosi come anche tutte le altre rocce, vengono distinte in base alla loro composizione mineralogica e alla loro struttura. Si intende per struttura l'insieme delle caratteristiche, in genere rilevate al microscopio, della forma e dimensioni dei cristalli, della loro disposizione e dimensione. Le rocce che si sono formate in superficie (quelle effusive) in genere presentano una struttura granulare molto fine in cui i singoli cristalli non si distinguono ad occhio nudo, mentre per quelle intrusive si parla di rocce granitoidi per la presenza di cristalli facilmente visibili. A volte può capitare che un magma, che ha iniziato a cristallizzare in profondità, venga poi portato in superficie dove termina la sua cristallizzazione. Risulterà quindi una roccia dalle caratteristiche intermedie e sarà definita come filoniana. Le rocce sedimentarie Le rocce sedimentarie sono il risultato finale di un processo che inizia con l'alterazione e la disgregazione di rocce preesistenti (sia magmatiche, sia metamorfiche, sia sedimentarie già formatesi), prosegue con il trasporto dei materiali così prodotti e termina con la loro deposizione e compattazione, in genere sui fondali marini o nel profondo dei grandi laghi, dove resterà pressoché immobile per molti molti anni.

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Il termine sedimentarie dà già qualche indicazione, poiché deriva dal latino "sedimentum" che significa deposto, e si riferisce alla decantazione (o precipitazione) di materiale solido all'interno fluido. Poiché l'alterazione delle rocce che affiorano e il trasporto e deposito dei prodotti alterati sono fenomeni sempre in atto, si trovano sedimenti quasi ovunque. Non appena il loro accumulo raggiunge un certo spessore, il materiale che si trova nella parte inferiore viene compattato dal peso dei sedimenti "fratelli" sovrastanti (questo processo prende il nome dicostipazione). Questi sedimenti possono anche venire cementati da sostanze minerali che precipitano chimicamente dalle acque che filtrano attraverso i minuscoli spazi (detti pori) esistenti tra i singoli granuli (chiamati clasti). Il processo finale che dà luogo alla roccia sedimentaria è chiamato DIAGENESI. Le rocce metamorfiche Il processo metamorfico, detto appunto metamorfismo, comporta la trasformazione mineralogica di rocce preesistenti. Una roccia metamorfica si può infatti formare da una roccia ignea, sedimentaria, o da una stessa roccia metamorfica. Il nome di questo genere di rocce risulta molto appropriato in quanto significa "cambiamento di forma" e questi cambiamenti sono innescati da alcuni fattori tra cui i più importanti sono la temperatura e la pressione.

E' noto infatti che, fino ad una certa profondità , vi è un aumento di temperatura variabile tra i 10°C e i 30°C per ogni chilometro a seconda delle diverse regioni. In pratica più si scende in profondità e più aumenta la temperatura. Infatti in alcune miniere d'oro del Sud Africa, che possono arrivare anche a 2 Km di profondità, si possono raggiungere temperature di 40°C-50°C all'interno dei cunicoli. Similmente alla temperatura cresce anche il valore della pressione detta "di confinamento". Questi cambiamenti ambientali coinvolgono sia la struttura mineralogica che la composizione chimica della roccia. In alcuni casi la roccia subisce solo dei modesti cambiamenti in altri si può arrivare ad un cambiamento radicale, e al limite, una sua nuova fusione (quindi geneticamente tornerebbe ad essere una roccia ignea); ma perchè si possa parlare di metamorfismo la roccia deve rimanere pressoché allo stato solido. Le rocce che si trovano in queste condizioni sono quindi piuttosto calde e si

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comportano in modo plastico durante la deformazione e ciò spiega la loro capacità di muoversi quasi come un fluido, e di formare pieghe , anche molto complesse, senza per questo rompersi. Il processo metamorfico ha luogo quando una roccia viene sottoposta a condizioni (in genere si parla di temperature e pressioni) diverse da quelle in cui essa si è formata. Infatti quando sprofondano certi minerali, ad esempio come quelli argillosi, diventano instabili e gli atomi dei loro reticoli cristallini cambiano disposizione e si formano dei minerali nuovi che sono stabili in quelle nuove condizioni.

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IL CICLO LITOGENETICO

I processi magmatico, sedimentario e metamorfico fanno parte di un unico ciclo litogenetico, del quale rappresentano diversi stadi successivi (figura 41). Un primo stadio comprende l’intero processo magmatico, con l’intrusione e l’effusione di materiali fusi in risalita nella crosta. Uno stadio successivo si individua nel processo sedimentario, che porta all’accumulo di sedimenti. Il trasferimento di rocce dalla superficie in profondità e il loro coinvolgimento nei movimenti della crosta porta a un terzo stadio, quello del processo metamorfico, che, attraverso i fenomeni di fusione (anatessi), ci riporta al processo magmatico. Nella realtà intervengono però numerosi elementi di complicazione. Ad esempio, una roccia intrusiva o effusiva può venire metamorfosata senza prima essere demolita dal processo sedimentario; una roccia sedimentaria può venire esposta in superficie subito dopo la sua formazione; una roccia metamorfica può venire sollevata ed esposta in superficie, senza prima subire fenomeni di rifusione. Inoltre il ciclo non è perfettamente chiuso, come è messo in evidenza da quanto accade al magma basaltico primario che risale dal mantello ed entra nel ciclo. Sebbene gran parte delle rocce originate da tale magma ritorni per fusione al mantello (come conseguenza di movimenti della parte più esterna della Terra) una parte resta all’interno della crosta continentale. Il ciclo non è chiuso nemmeno nei confronti di perdite verso l’esterno: l’idrosfera e l’atmosfera, infatti, si sono accumulate e continuano a farlo grazie ai processi vulcanici, anche se, nei processi di alterazione in superficie, l’idrosfera e l’atmosfera «cedono» alla litosfera acqua e anidride carbonica. Il ciclo litogenetico rappresenta solo un aspetto dei meccanismi attraverso cui il nostro pianeta si è trasformato e si trasforma: incontreremo cicli di portata ancora maggiore, nei quali il ciclo litogenetico è solo una delle componenti. Per ora fissiamo alcune idee fondamentali

- La crosta terrestre è formata da un mosaico di rocce prodotte da processi dinamici, governati da parametri, come temperatura e pressione, che variano nel tempo.

- Rocce dei diversi tipi si sono formate nel corso del tempo e si formano tuttora, ma nessuna si è formata «una volta per tutte». Ogni roccia che arriva ad affiorare in superficie finisce prima o poi per fornire materiale per la formazione di nuove rocce.

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- La classificazione delle rocce è un potente strumento di indagine, che permette di ricavare informazioni sull’ambiente in cui la roccia si è formata e sul tempo trascorso da quando si è formata. Con queste chiavi in grado di farci penetrare nell’«archivio» della crosta terrestre, possiamo ricostruire la storia della Terra e cominciare a scoprire «come funziona».

Figura 41. Schema del ciclo litogenetico. Le frecce di diverso colore mettono in evidenza i processi; i riquadri indicano i prodotti dei vari stadi del ciclo.

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REAZIONI CHIMICHE

Cosa sono le reazioni chimiche Una reazione chimica, rappresentata da un’equazione chimica, mostra la trasformazione delle sostanze durante un processo chimico. A destra di tale equazione compaiono i reagenti, ossia le specie chimiche che si combinano (stadio iniziale), a sinistra compaiono i prodotti di reazione (stadio finale). Il segno di uguale è sostituito da una freccia per indicare la direzione in cui avviene la reazione chimica: tale freccia può essere diretta in una (destra o sinistra) o entrambe le direzioni. Nel primo caso la reazione si dice irreversibile perchè è ‘spostata’ nella direzione che mostra la freccia, nel secondo caso si dice reversibile. Reazioni chimiche reversibili Definizione Reazione chimica reversibile. Una reazione chimica è reversibile se l’equilibrio chimico non è completamente spostato nè dalla parte dei reagenti nè da quella dei prodotti. Esempio reazione chimica reversibile:

3H2 (g) + N2 (g) \ 2NH3 (g) in cui l’idrogeno e l’azoto si combinano e formano ammoniaca (NH3) e, sotto particolari condizioni di temperatura e pressione, l’ammoniaca si dissocia in idrogeno e azoto. Si ha, in definitiva, una situazione di equilibrio chimico e la reazione non risulta spostata nè verso destra nè verso sinistra. Il pedice (g) indica lo stato fisico della sostanza (solido (s), liquido (l), gassoso (g) e acquoso (aq)) e viene talvolta omesso. Reazioni chimiche irreversibili Esempio reazione chimica irreversibile:

C (g) + O2 (g) → CO2 (g) il carbonio (C) e l’ossigeno (O2) sono i reagenti (stadio iniziale), l’anidride carbonica (CO2) è il prodotto (stadio finale). La freccia è diretta verso destra: tale reazione è ‘spostata’ verso i prodotti. Il carbonio e l’ossigeno tenderanno ad unirsi e formare anidride carbonica, ma l’anidride carbonica non si dissocierà in carbonio e ossigeno. Questa reazione è chiamata reazione di combustione e consiste in una rapida

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ossidazione di un combustibile, che in questo caso è il carbonio, ad opera di un comburente, ossia una specie chimica che si comporta da agente ossidante (tende a strappare elettroni), quale è l’ossigeno. I prodotti di reazione della combustione variano a seconda del combustibile coinvolto nel processo, supponendo fissato l’ossigeno come comburente: nel caso del carbonio viene prodotta anidride carbonica. Le reazioni chimiche di combustione sono un perfetto esempio di reazioni irreversibili. Il bilanciamento delle reazioni chimiche L’equazione chimica è, in fin dei conti, un’equazione algebrica: il numero di atomi di ogni elemento a sinistra deve essere uguale al numero di atomi dello stesso elemento a destra dell’equazione. Dal punto di vista chimico significa che la massa totale prima e dopo la reazione si conserva, come affermato dalla Legge di conservazione della massa (« Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma »). Per capire come si può ottenere tale conservazione di massa è necessario definire il coefficiente stechiometrico: Definizione Coefficiente stechiometrico. Il coefficiente stechiometrico è un numero intero che esprime i rapporti molari di una sostanza in una reazione chimica. Questo numero è anteposto ad ogni specie chimica (atomo, molecola, ione, complesso) coinvolta nella reazione e ne permette il bilanciamento. Rifacciamoci all’esempio precedente:

aC (g) + bO2 (g) → cCO2 (g) (1) In questa reazione il coefficiente stechiometrico ‘a’ del carbonio, ‘b’ dell’ossigeno molecolare e ‘c’ dell’anidride carbonica è pari a 1. Risulta:

1C (g) + 1O2 (g) → 1CO2 (g) (1bis) Nella (1bis) una mole di carbonio reagisce con una mole di ossigeno molecolare per formare una mole di anidride carbonica. Il fatto che i conti con le moli non tornino (1 mole + 1 mole ≠ 1 mole) non vuol dire che l’esempio sia errato: è la massa che si conserva, non il numero di moli. Infatti, il numero di atomi di carbonio a sinistra e a destra della freccia è lo stesso (1 atomo), così come il numero di atomi d’ossigeno (2 atomi). L’uguaglianza si è ottenuta mediante la determinazione corretta dei coefficienti stechiometrici, che in questo caso sono tutti uguali a 1. La reazione è bilanciata perchè le masse di reagenti e prodotti sono le stesse. Possiamo fare una verifica, ad esempio, calcolando i grammi di carbonio e di ossigeno molecolare e quelli di CO2 usando la definizione di mole. Risulta:

C (g) = 1 mol x 12 g/mol = 12g

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O (g) = 1 mol x 16 g/mol x 2 = 32 g

Reagenti (g) = 12 + 32 = 44 g

CO2 (g) = 1 mol x 44 g/mol = 44 g

per cui

Reagenti (g) = Prodotti (g) in pieno accordo con la Legge di conservazione della massa. Come si calcolano i coefficienti stechiometrici? È possibile effettuare un bilanciamento “intuitivo” per reazioni semplici come la (1) facendo i conti a mente, ma in tutti gli altri casi abbiamo bisogno di un metodo opportuno che risolva l’equazione. Il procedimento logico che ci permette di trovare matematicamente i coefficienti stechiometrici, che sono le incognite delle equazioni chimiche, è descritto nella sezione Esercizi svolti e può cambiare a seconda del tipo di reazione. Tipi di reazioni chimiche: reazioni di ossidoriduzione (redox) e reazioni acido-base Hanno carattere didattico le reazioni chimiche di ossidoriduzione e acido-base (redox ioniche). I modi di risoluzione delle prime e delle seconde sono assai simili e in quanto a caratteristiche diciamo: Reazioni redox: sono reazioni in cui c’è uno scambio di elettroni tra una specie chimica e un’altra. Almeno una coppia di atomi, quindi, cambia il proprio numero di ossidazione: se un atomo (tra i reagenti) cede un elettrone, ci sarà un atomo (tra i prodotti) che lo acquista. Si dice che la specie che cede elettroni si ossida, la specie che li acquista si riduce (altresì viene detta ossidante la specie chimica che può ridursi acquistando elettroni e riducente la specie che può ossidarsi cedendoli). Grazie alla variazione dei numeri di ossidazione delle specie ossidanti e riducenti è possibile calcolare i coefficienti stechiometrici che bilanciano la reazione chimica. Reazioni acido-base: sono reazioni in cui avviene il trasferimento di un protone (H+) da una specie (l’acido), ad un’ altra (la base). Spesso per bilanciare queste equazioni è necessario aggiungere H+ e H2O se l’ambiente di reazione è acido e OH– e H2O se l’ambiente è basico (è specificato dal problema). Metterle tra i reagenti o

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tra i prodotti non cambia l’esercizio nè induce in errore: la posizione esatta è determinata matematicamente. Ovviamente, se queste specie sono già presenti nell’equazione è inutile aggiungerne altre. Per reazioni acido-base è sempre necessario il bilanciamento delle cariche: gli elettroni sono particelle massive, se la massa si conserva anche la carica deve conservarsi.

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I VULCANI E I TERREMOTI In termini generali, sono vulcani tutte le discontinuità nella crosta terrestre attraverso le quali, con manifestazioni varie, si fanno strada i prodotti dell’attività magmatica endogena: polveri, gas, vapori e materiali fusi solidi. La fuoriuscita di materiali è detta eruzione e i materiali eruttivi sono: lava, cenere, lapilli, gas, scorie varie e vapore acqueo.

Un generico vulcano è formato da strutture che in generale si possono trovare in ciascuno di essi: a) una camera magmatica, alimentata dal magma proveniente dal mantello; b) un camino principale, luogo di transito del magma dalla camera magmatica verso l’esterno; c) un cratere sommitale, dove sgorga il camino principale; d) uno o più camini secondari, i quali, sgorgando dai fianchi del vulcano o dalla stessa base, danno vita spesso a coni secondari; e) delle fessure laterali, cioè delle fratture longitudinali sul fianco del vulcano, che permettono la fuoriuscita di lava sotto forma di eruzione fessurale. Eruzioni e tipi di vulcani

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Quando la lava esce da un vulcano, diciamo che il vulcano sta eruttando. Il tipo di eruzione dipende dal tipo di lava che fuoriesce. La lava, infatti, può essere spessa e viscosa, oppure fluida. Lava viscosa e vulcani a cono Se la lava è spessa e viscosa, procede lentamente e quindi tende a raffreddarsi vicino al punto in cui è fuoriuscita, formando imponenti vulcani, alti e massicci, detti vulcani a cono. A volte questo tipo di lava solidifica addirittura all’interno del vulcano, tappando l’apertura e fermando così l’eruzione. In genere, però, i gas intrappolati nella lava fanno pressione sotto questo “tappo” di roccia, fino a farlo saltare in una gigantesca esplosione. In questo caso, pezzi di roccia solida vengono lanciati in aria, mentre fiumi di lava e di cenere piovono al suolo intorno al vulcano. Il cielo può essere addirittura oscurato da nuvole di polvere, cenere e fumo. Questo tipo di eruzione vulcanica è il più violento. Lava fluida e vulcani a scudo Se invece la lava è fluida, l’eruzione è meno violenta. Dalla bocca del vulcano fuoriescono fiumi di lava che possono scorrere per molti chilometri prima di solidificarsi. Si formano così vulcani larghi e piatti, detti vulcani a scudo. Esistono poi altri tipi di vulcani: se nell’eruzione si alternano fuoriuscite di lava e di ceneri, si formano i cosiddetti strato-vulcani, costituiti appunto da strati di rocce laviche intervallati da strati di ceneri. Se invece le eruzioni sono soprattutto emissioni di ceneri e lapilli, si formano vulcani chiamati coni di cenere. Vulcani attivi Oggi esistono circa 500 vulcani attivi nel mondo. Si trovano soprattutto dove ci sono le faglie (cioè le fratture) della crosta terrestre. Questa, infatti, non è un blocco unico, ma è suddivisa in tante porzioni dette placche o zolle. Là dove due o più placche della Terra si scontrano o scorrono l’una rispetto all’altra, sono concentrati i vulcani e si verificano con maggiore probabilità i terremoti.

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Alcuni dei più famosi vulcani del mondo sorgono ai bordi del Mar Mediterraneo: l’Etna (che è il più alto vulcano d’Europa), il Vesuvio, lo Stromboli e Vulcano. Molte isole dell’Oceano Pacifico sono la parte emersa di vulcani sottomarini: sono talmente alti, che svettano al di sopra della superficie dell’acqua. Le isole Hawaii, ad esempio, sono un gruppo di oltre 100 isole nell’Oceano Pacifico, tutte formate da vulcani. Esiste poi un’altra zona di vulcani, lungo una linea di “debolezza” dell’Oceano Atlantico, che comprende i vulcani dell’Islanda, delle Azzorre, delle Canarie e dell’isola Tristan da Cunha. Vulcani dormienti Quando un vulcano non erutta da molto tempo, si dice che è dormiente. Normalmente un vulcano erutta per un breve periodo e poi rimane dormiente per un lungo periodo. Il Monte Fuji, in Giappone, è un vulcano dormiente: l’ultima volta eruttò nel 1707. Anche il Vesuvio è dormiente: la sua ultima eruzione risale al 1944.

Quando un vulcano è dormiente, può comunque emettere del vapore dal cratere, dando luogo a un fenomeno chiamato fumarola. Oppure, la lava può ribollire nel cratere del vulcano e anche indurirsi lì. Si possono quindi verificare due casi: o il vulcano smette definitivamente di eruttare, come accadde per il Monte Kenya, in Africa, oppure torna a eruttare, ma quando lo fa esplode in maniera catastrofica, come fece il Krakatoa, in Indonesia, nel 1883. Vulcani estinti Se un vulcano non dà segni di vita per migliaia di anni si dice che è estinto. Due famosi vulcani estinti sono il Taranki in Nuova Zelanda e il Kilimangiaro in Tanzania.

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Non è sempre facile dire quando un vulcano è dormiente e quando è estinto. Tutti pensavano che il vulcano dell’isola Tristan da Cunha fosse estinto, quando nel 1961 eruttò nuovamente. I Terremoti

I terremoti, o sismi, sono una serie di rapide oscillazioni del terreno causate da una brusca liberazione di energia elastica da una zona del sottosuolo definito come ipocentro. Dall'ipocentro, che può essere situato a profondità comprese tra poche decine di metri sino ad alcune centinaia di chilometri, si propagano in tutte le direzioni serie di onde elastiche dette onde sismiche. Il punto della superficie situato sulla verticale dell'ipocentro viene chiamato epicentro. Se la distanza tra l'epicentro e l'ipocentro è inferiore ai 60-70Km, il terremoto è considerato superficiale; intermedio se la distanza è compresa tra i 300 e i 500 Km; profondo se questa è tra i 500 e i 700 km. I tipi di scosse: Le vibrazioni del terreno causate da un terremoto sono distribuite in tempi successivi secondo tre principali modalità: a) Scossa principale e repliche: la scossa principale ha energia superiore a quelle delle repliche. L'energia di queste ultime rimane generalmente costante mentre il loro numero diminuisce con il passare del tempo.

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b) Precursori - scossa principale - repliche: secondo questa modalità la scossa principale è preceduta da una serie di scosse minori per energia, sempre più frequenti a mano a mano che si avvicina il momento della scossa principale. Seguono poi le scosse di replica. c) Sciame di terremoti: negli sciami di terremoti non si può identificare una scossa principale poiché l'energia sprigionata è mediamente la stessa per ogni evento. Si assiste ad un incremento nella frequenza delle scosse e ad un successivo decremento. La situazione reale è però molto più complessa e difficilmente si può classificare un evento tellurico seguendo uno schema così semplice. Ad esempio, frequentemente si verifica una sequenza di più scosse principali seguite da quelle che, nel linguaggio comune, vengono chiamate scosse di assestamento. I movimenti del suolo sono sovente descritti come "ondulatori" o "sussultori" a seconda che siano provocati da onde sismiche rispettivamente a bassa e ad alta frequenza. Anche in questo caso però, il movimento è un fenomeno molto più complesso che può essere studiato con maggiore precisione solo con l'analisi delle registrazioni effettuate con i sismografi. Intensità e magnitudo Sin dai tempi antichi, l'intensità dei terremoti è stata valutata in modo empirico e qualitativo e cioè sulla base degli effetti prodotti da un sisma principalmente sulle costruzioni umane. Fu Giuseppe Mercalli, sismologo e vulcanologo nato a Milano nel 1850, a proporre all'inizio del 20٠ secolo, una scala di intensità suddivisa dapprima in 10 poi in 12 gradi di intensità crescente. Si arrivò in seguito alla Scala Mercalli modificata (M.M), una delle più usate. L'intensità del terremoto espressa in gradi indicati in numeri romani ha una relazione molto vaga con l'energia liberata da un evento tellurico. Pensiamo infatti che se è vero che in uno stesso punto geografico e sugli stessi edifici, un terremoto di maggiore energia provoca maggiori danni, è altrettanto plausibile che la stessa energia sismica possa provocare danni molto diversi in punti con differenti tipologie edilizie o con differenti caratteristiche geologiche locali.

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Nel 1935 venne ideata dal sismologo americano Richter un'altra scala di classificazione basata sulla misura dell'ampiezza massima dello spostamento di un punto del suolo situato ad un distanza prefissata dall'epicentro. Tale misura si intende effettuata con un ben preciso tipo di sismografo avente precise caratteristiche tecniche. Nel formulare la sua proposta di scala, Richter associò ad un terremoto che genera uno spostamento di 1 micron a 100Km dall'epicentro, la magnitudi 0 (=Log1); ad uno generante uno spostamento di 10 micron, la magnitudine 1 (=Log10) e così via sino a valori di poco inferiori a 9 che corrispondono a quelli più elevati fino ad ora registrati. Passando quindi da un grado a quello successivo, l'intensità "aumenta" di 10 volte. La Scala Richter, non essendo riferita a lesioni a manufatti, può dare informazioni più precise sull'entità del sisma.

Onde sismiche: - ONDE LONGITUDINALI O DI COMPRESSIONE (P) - ONDE DI TAGLIO O TRASVERSALI (S) - ONDE SUPERFICIALI (R E L). Le ONDE P (onde primarie) sono onde longitudinali che si propagano dilatando e comprimendo la roccia nella quale producono una variazione di volume. In termini molto semplici possiamo dire che la roccia oscilla avanti e indietro nella stessa direzione di propagazione dell'onda. Per visualizzare l'effetto di questo tipo di onde potremmo pensare ad una molla. Le onde primarie sono quelle che si propagano più

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rapidamente e sono le prime ad essere avvertite e registrate dai sismografi. Possono raggiungere i 10Km al secondo. La velocità delle Onde P, che si possono propagare sia nei solidi che nei fluidi, dipende dalle costanti di elasticità e dalla densità ed aumenta con la profondità. Le ONDE S (onde secondarie) sono onde trasversali che si propagano con oscillazioni su un piano perpendicolare alla direzione di propagazione. Per visualizzare l'effetto di questo tipo di onde potremmo pensare ad una corda sferzata orizzontalmente. L'effetto prodotto su una roccia è quello della distorsione; non si hanno variazioni di volume. Le Onde S sono più lente di quelle P: raggiungono i 4,6 Km al secondo. La velocità delle onde S è in funzione della rigidità e della densità del materiale in cui si propagano. Se la rigidità è pari a zero, come nei liquidi, la velocità è nulla e infatti, nei fluidi che non oppongono resistenza al taglio, le Onde S non si propagano. Questo significa che le onde S non vengono trasmesse dal materiale del nucleo terrestre. Le ONDE R e L (onde superficiali) sono il risultato della combinazione delle onde P con le onde S. Onde molto complesse, sono quelle che provocano i danni maggiori avendo sì una minore velocità ma anche una maggiore ampiezza. Si propagano dall'epicentro e si disperdono. Dipendono, per frequenza ed accelerazione, dalle caratteristiche di elasticità delle rocce in cui si propagano. Distribuzione dei terremoti nel mondo

Le regioni più sismiche si trovano in corrispondenza delle zone di confine delle placche tettoniche e principalmente ai margini di collisione. Zone di subduzoine: placca oceanica + placca continentale: I terremoti più profondi (ipocentro a 100-700Km) si hanno in corrispondenza delle zone di subduzione: - Ande - Caraibi Occidentali - Aleutine - Mar del Giappone - Indonesia - Nuove Ebridi

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Tra placche continentali Altre zone caratterizzate da una forte attività sismica sono quelle di collisione tra placche di tipo continentale come ad esempio il Continente euro-asiatico centrale dal Pacifico attraverso l'Himalaya, il Caucaso, l'Anatolia sino al Mediterraneo. In Europa sono zone sismiche la Turchia, la Grecia, i Balcani, l'Italia e la Spagna Pirenaica. L'attività sismica è elevata anche in corrispondenza delle dorsali oceaniche. Per quanto riguarda il nostro paese l'attività sismica è elevata in particolare nelle aree centro-appenniniche e in Calabria e Sicilia. Infine i terremoti si possono verificare anche in corrispondenza delle dorsali oceaniche legate a faglie trasformi. Le cause dei terremoti Per capire come le rocce rispondono alle sollecitazioni sismiche possiamo fare riferimento al modello elastico. In base a tale modello un corpo roccioso sottoposto ad uno sforzo, risponde in modo elastico deformandosi. Al cessare dello sforzo cessa il processo di deformazione e il corpo restituisce pressoché istantaneamente l'energia accumulata (fatta eccezione per una frazione dissipata sotto forma di calore) riprendendo la forma iniziale. Oltre un certo limite, quando cioè viene superato il valore massimo o limite di elasticità, il corpo roccioso non risponde più elasticamente ma si rompe lungo un piano di faglia; i due blocchi ai lati di questo si spostano l'uno rispetto all'altro mentre ciascuno di essi tende a recuperare la forma originaria. E' l'energia accumulata durante la deformazione elastica e restituita sotto forma di rimbalzo elastico a propagarsi in tutte le direzioni per mezzo di onde elastiche ossia sismiche. La teoria del rimbalzo elastico fa ricondurre la maggior parte dei terremoti alle faglie che si formano o si riattivano nella litosfera. Tale meccanismo però non è l'unico possibile anche se il più importante. Una piccola percentuale di terremoti può ad esempio essere ricondotta ad una origine vulcanica.

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LA STRUTTURA INTERNA DELLA TERRA Siamo abituati a considerare i terremoti come avvenimenti in assoluto negativi, soprattutto per gli effetti a volte disastrosi che comportano tali eventi. In realtà questi eventi possono rappresentare anche uno strumento utile da analizzare per capire meglio com’è fatta la terra, in particolar modo indagarne la struttura. Lo studio delle onde sismiche, infatti, è considerato uno dei metodi indiretti per indagare la composizione chimica, mineralogica, termica di strati così profondi da non poter essere analizzati con metodi diretti. Attraverso lo studio dei parametri che regolano la propagazione delle onde sismiche (es. direzione, velocità) è possibile ricavare informazioni riguardanti lo stato fisico dei materiali costitutivi delle zone più interne della Terra e la loro relativa composizione. Queste analisi hanno permesso di sviluppare un modello che descrive la struttura interna della Terra. La prima importante informazione sulla sua struttura riguarda la densità. La terra non ha una densità uniforme. Se le onde sismiche si propagassero lungo un gradiente di densità (densità che varia in modo costante) le loro curve non dovrebbero presentare grosse deviazioni. Invece è stato dimostrato (grazie all’analisi dei sismogrammi) che tali onde subiscono delle brusche deviazioni. Cosa può giustificare tali deviazioni? Delle grosse discontinuità (e differenze di densità) dei vari strati che un’onda attraversa lungo il suo corso. Proprio queste superfici di discontinuità sono la caratteristica peculiare dei 3 involucri in cui possiamo suddividere la struttura interna della Terra, la cui composizione chimica e densità presentano notevoli differenze: • la crosta: lo strato più esterno • il mantello: strato intermedio (compreso tra 2 superfici di discontinuità) • il nucleo: la regione più interna, a sua volta distinguibile in un nucleo esterno e un

nucleo interno La crosta presenta notevoli variazioni di spessore: massima dove ci sono le terre emerse (in particolare le catene montuose), minima sul fondo degli oceani. Ma le differenze non si limitano alla spessore ma interessano anche la composizione e l’origine. E’ possibile infatti evidenziare due tipologie di crosta: una crosta continentale, composta principalmente da rocce contenenti silicio e alluminio, e una crosta oceanica, che si presenta più uniforme nella sua composizione, presenta rocce di tipo femico (ferro-magnesio). La densità della crosta continentale si attesta intorno ai 2,7 g/cm³. Quella della crosta oceanica, invece, intorno ai 3 g/cm³ La crosta è separata dallo strato sottostante, il mantello, attraverso una superficie di discontinuità, conosciuta come discontinuità di Mohorovičić (dal nome del geofisico che l’ha scoperta e abbreviata in “Moho”. Lo spessore del mantello rappresenta circa il 67% dello spessore totale degli strati interni della Terra. Il mantello è formato da rocce di tipo ultra-femico nella sua parte superiore, immediatamente sotto la Moho, ed è molto più rigido e denso della crosta. L’insieme di crosta e questo primo strato

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di mantello viene anche definito litosfera. Appena sotto la litosfera si estende una zona definita dalle basse velocità, o astenosfera: è chiamata così perché in questo strato le onde sismiche subiscono forti rallentamenti a causa della densità della materia, quasi “plastica”. Le differenze tra litosfera e astenosfera sono quindi principalmente legate allo stato fisico più che alla composizione chimica. Sotto l’astenosfera è possibile individuare una zona, detta mesosfera, dove la materia è organizzata in strutture cristalline e si presenta con notevole rigidità. Lo strato più inferiore del mantello presenta, invece, delle differenze che riguardano la composizione chimica, con una massiccia presenza di ossidi femici, più densi dei materiali incontrati negli strati precedenti. Tra il mantello e la parte più interna della Terra, si estende una seconda superficie di discontinuità, chiamata discontinuità di Gutemberg. Al di sotto di essa c’è il vero centro della Terra, il nucleo, il cui raggio, in realtà, rivela uno strato per nulla confinato a dimensioni ridotte (rispetto alla Terra, il raggio del nucleo è quasi la metà di quello terrestre). Qui la densità raggiunge livelli molto elevati (circa 9-13 g/cm³) anche grazie alle pressioni elevatissime. Il nucleo al suo interno presenta una superficie di discontinuità, la discontinuità di Lehmann, che ne distingue due strati: • un nucleo esterno, composto principalmente da nichel, ferro silicio e zolfo, che si

comporta come un fluido; • un nucleo interno, composto essenzialmente da nichel e ferro, che si comporta

come un solido.

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IL CONCETTO DI EQUILIBRIO CHIMICO Nel rappresentare le reazioni abbiamo finora usato quasi sempre (escluso nel capitolo precedente sulla termodinamica delle reazioni reversibili) una sola freccia ® che indica la direzione da reagenti a prodotti, come se le reazioni potessero andare solo in quella direzione, cioè come se esse fossero tutte irreversibili; in effetti quasi tutte le reazioni chimiche sono reversibili e dovremo perciò usare una doppia freccia e scrivere

Questo comporta che dai prodotti si possa ottenere i reagenti; in realtà avremo, quando il sistema si sarà stabilizzato, quando cioè sarà all'equilibrio, una situazione in cui saranno presenti tutti i componenti, ognuno con una concentrazione che non cambia nel tempo (sempre che non cambino i parametri: pressione p, numero di moli dei singoli componenti ni, temperatura T). Reazioni di equilibrio Nella figura 07.1-1 vengono evidenziate le variazioni delle concentrazioni nel tempo, sia che si parta dai reagenti, sia che si parta dai prodotti, per una reazione di equilibrio. Notare che le concentrazioni di partenza possono essere casuali: quando si crea un sistema di reazione, non è necessario che le quantità dei componenti rispettino esattamente i coefficienti stechiometrici. La reazione procede comunque, in base ai coefficienti stechiometrici propri della reazione. Per esempio: se ho una reazione del tipo: 2 A + B ¬® C e se il mio sistema è formato da 1 mole di A e 10 moli di B, la reazione procede comunque ma, supponendo che reagiscano quasi tutte le moli di A (cioè che l'equilibrio sia spostato quasi completamente a destra), alla fine della reazione avrò circa 0,5 moli di C e resteranno ancora circa 9,5 moli di B (perché non hanno a disposizione altro A con cui reagire).

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Fig.07.1-1 Grafico C/t, Concentrazione contro tempo, che rappresenta la variazione di concentrazione di ogni singolo componente in un sistema chiuso in cui avviene la reazione sopra indicata. Se si parte da A (verde) e B (viola), questi avranno una certa concentrazione a t=0, mentre C (rosso) e D (azzurro) hanno concentrazione nulla; mano a mano che la reazione procede le concentrazioni di A e B diminuiscono e contemporaneamente quelle di C e D aumentano fino a raggiungere un valore limite. Viceversa se si parte da C e D. Sia che si parta dai reagenti A e B, sia dai reagenti C e D, le concentrazioni finali sono le stesse e corrispondono alla situazione di equilibrio.

Questa situazione si chiama di equilibrio dinamico: si può considerare raggiunto quando la velocità di reazione diretta è eguale a quella della reazione inversa: per questo si chiama "dinamico", perché, anche quando l'equilibrio è raggiunto, le reazioni diretta e inversa continuano ad avvenire, ma senza modificare le concentrazioni delle specie presenti. La posizione dell'equilibrio, cioè le mutue concentrazioni dei componenti, dipende da vari fattori, ma, a parità di questi, non cambia, sia che si parta dai reagenti sia dai prodotti: il risultato finale, nelle stesse condizioni, è lo stesso, anche se la velocità di raggiungimento può essere diversa, ma questo è solo un problema cinetico. La legge dell'azione di massa Poiché all'equilibrio le concentrazioni dei componenti sono costanti, sarà costante anche un loro rapporto, che esprime la legge dell'azione di massa (nel senso che se

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modifico la concentrazione di un componente, automaticamente si modificano le altre in modo che il rapporto generale Kc resti costante).

Per convenzione scriviamo al numeratore i prodotti della reazione così come noi l'abbiamo scritta: se considerassimo la reazione inversa, avremmo al numeratore A e B, al denominatore C e D. Gli esponenti sono i rispettivi coefficienti stechiometrici (ricordiamo che essi non sono necessariamente eguali a quelli che compaiono nella velocità di reazione, anche se è possibile trovare fra questi e quelli una relazione, purché si conosca il meccanismo di reazione). La costante di equilibrio La costante Kc viene chiamata costante di equilibrio; è una costante termodinamica; dipende solo dalle sostanze in equilibrio e dalla T del sistema; il simbolo "c" è dovuto al fatto che essa è espressa mediante le concentrazioni (mol dm-3). Il valore di Kc è ovviamente costante, ma esso rappresenta la costante di equilibrio solo quando il sistema è effettivamente all'equilibrio; prima del raggiungimento esprime la legge dell'azione di massa. Queste espressioni dell'azione di massa ci permettono di calcolare come variano le concentrazioni degli altri componenti del sistema se variamo la concentrazione (o la pressione pi o il numero di moli ni) di uno di essi (sempre però a T costante). La K perciò potrà avere delle dimensioni, che dipendono dalla somma algebrica degli esponenti o essere adimensionale se (a+b) = (c+d). Quest'ultima condizione significa che non c'è variazione del numero di moli nel corso della reazione. La costante di equilibrio in un sistema gassoso Quando si tratta di gas, si usano spesso le pressioni parziali anziché le concentrazioni (basta ricordare che, per la legge di Dalton sulle miscele gassose ideali, la pi è proporzionale a ni); otterremo, in questo caso, una Kp.

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Kp = Kc solo quando le K sono adimensionali, quando cioè non c'è variazione del numero di moli. Sarà così, per esempio per la reazione di dissociazione dell'acido iodidrico in fase gassosa

2 HI ¨ H2 + I2

perché il numero di moli è uguale a sinistra e a destra, mentre per la reazione di sintesi dell'ammoniaca

N2 + 3 H2 ¬® 2 NH3 in cui abbiamo 4 moli a sinistra e 2 a destra, sarà Kp ¹ Kc. Relazioni tra le costanti Infatti, poiché la concentrazione, per definizione, è ni/V, dalla legge generale dei gas avremo che ni/V = pi/RT, e se sostituiamo nella Kc avremo:

cioè la Kc è uguale alla Kp moltiplicata per un fattore (1/RT) elevato ad un esponente che rappresenta la variazione del numero di moli caratteristico del processo. Analogamente potremmo definire una Kn. Solo se Dn = O allora Kp = Kc = Kn. Cambia la K se scriviamo la reazione in modo diverso? La K, pur rappresentando la stessa situazione reale, può assumere valori diversi se scriviamo la reazione in modo diverso, perciò è molto importante sapere "come" è scritta la reazione, per dare il giusto valore e il giusto significato alla costante di equilibrio. Un esempio: consideriamo la stessa reazione scritta in 3 modi diversi; la reazione I rappresenta la sintesi di ammoniaca partendo dagli elementi; la II è la stessa ma considerando che si ottenga una sola molecola di ammoniaca; la III la dissociazione dell'ammoniaca negli elementi che la costituiscono: I) N2 + 3 H2 ¬® 2 NH3

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II) 1/2 N2 + 3/2 H2 ¨ NH3 III) 2 NH3 ¨ N2 + 3 H2

Fig.07.1-2 Tre espressioni diverse della K e relative dimensioni, in funzione del

diverso modo di scrittura della reazione Le tre K sono legate tra loro:

KI = KII 2 = KIII -1 Di solito si può dedurre di quale reazione si tratti in base alle dimensioni della K relativa (purché Dn ¹ O). In realtà le relazioni che esprimono le K e la legge dell'azione di massa (espresse considerando le concentrazioni o le pressioni parziali) sono perfettamente valide solo per sostanze ideali: occorrerebbe utilizzare le "attività" al posto delle pressioni o delle concentrazioni, che corrispondono a concentrazioni o pressioni "efficaci". L'attività è legata alla concentrazione o alla pressione ideali mediante un coefficiente di attività moltiplicativo. Ma in prima approssimazione consideriamo che il sistema sia ideale. Il principio di Le Chatelier Se, quando il sistema è in equilibrio, si cerca di modificare qualcosa dall'esterno, il sistema reagisce cercando di minimizzare l'effetto provocato. Questo è detto principio dell'equilibrio mobile o principio di Le Chatelier (Henry Louis Le Chatelier, Francia, 1850-1936). La posizione dell'equilibrio si sposta nella direzione che tende a ristabilire le condizioni iniziali. Per esempio, se si impone dall'esterno un aumento di pressione, l'equilibrio si sposta verso una situazione di minore pressione (la pressione è però ininfluente se non c'è variazione del numero di moli); nel caso della reazione I di formazione dell'ammoniaca, vista sopra, poiché i reagenti comportano un numero maggiore di moli rispetto al prodotto (con rapporto 2/1) se aumento la pressione l'equilibrio si sposterà verso destra. Oppure, se si cerca di aumentare la T, la posizione dell'equilibrio andrà nella direzione che comporta un assorbimento di calore.

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Equilibri eterogenei Negli equilibri in sistemi omogenei (quelli fin qui considerati), occorre tener conto di tutti i componenti, mentre nei sistemi eterogenei si considera che i componenti in fase condensata (solida o liquida) abbiano "attività" costante (non "nulla" o eguale a 1!); perciò questa attività può venire conglobata nella K di equilibrio. Consideriamo per esempio la reazione di equilibrio (molto importante nel nostro settore: è la reazione di formazione della calce viva da carbonato di calcio, conosciuta e utilizzata da moltissimi secoli):

CaCO3 ¬® CaO + CO2 la costante Kp è semplicemente Kp = pCO2 dato che le "attività" di CaCO3 e di CaO, essendo solidi (e purché presenti), sono costanti. Equilibri di dissociazione Molte reazioni di equilibrio sono reazioni di dissociazione; possiamo ragionare definendo il grado di dissociazione x, come il rapporto tra numero di molecole dissociate e numero di molecole iniziali.

Fig.07.1-3 Equilibrio di dissociazione gassosa e relativa K di equilibrio espressa anche mediante il grado di dissociazione

Si può perciò calcolare la situazione della reazione di dissociazione purché si conosca la K, oppure si può determinare la K se si conosce il grado di dissociazione. Un esempio numerico: se abbiamo 1 mole iniziale di pentacloruro di fosforo e questo, a una certa T, ha un grado di dissociazione x del 30% (0,3), all'equilibrio avremo: 0,3 moli (x) di tricloruro; 0,3 moli di cloro; 0,7 moli (1-x) di pentacloruro. La K avrà perciò il valore 0,32/0,7. In base al principio di Le Chatelier un aumento del volume del recipiente (o una diminuzione della p) favorisce la dissociazione del pentacloruro di fosforo. In una reazione come la dissociazione dell'acido iodidrico 2 HI ¬® H2 + I2, dato che non c'è variazione del numero di moli nella dissociazione, una variazione di p o di V sarebbe ininfluente.

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IL SISTEMA RESPIRATORIO E CARDIOCIRCOLATORIO

Per comprendere gli effetti fisiologici indotti al nostro organismo dall’aria, o da altre miscele respiratorie, utilizzate durante un’immersione, bisogna conoscere il funzionamento del sistema respiratorio e quello cardiocircolatorio. Entrambi, lavorando in perfetta sinergia, garantiscono la produzione d’energia, fornendo ai nostri tessuti un rifornimento continuo d’ossigeno, necessario al processo biochimico del metabolismo cellulare. Inoltre provvedono all’eliminazione dell’anidride carbonica, il prodotto di scarto. Nei normali atti respiratori è la dilatazione della gabbia toracica a far sì che la pressione all’interno dei nostri polmoni si equilibri a quell’esterna.

Al contrario di quanto si possa pensare, lo stimolo alla respirazione non è indotto dalla carenza d’ossigeno, ma dalla sovrabbondanza d’anidride carbonica nel sangue. Sono i centri del riflesso respiratorio a ricevere il messaggio, e dare l’impulso all’atto respiratorio. L’aria entra dal naso o dalla bocca e, oltrepassando l’epiglottide, che funge da valvola separatrice, tra l’esofago e la trachea, per scongiurare la possibile inalazione di liquidi o cibo, scende attraverso la trachea per arrivare ai bronchi, che a loro volta si ramificano in passaggi d’aria sempre più piccoli: i

bronchioli. Questi terminano nei circa 300 milioni d’alveoli, che costituiscono il tessuto dei nostri polmoni, conferendogli l’aspetto di una spugna porosa. E’ in queste piccole sacche d’aria, altamente vascolarizzate dai capillari polmonari, che, attraverso membrane sottilissime, permeabili ai gas, avvengono gli scambi d’ossigeno e anidride carbonica tra il sangue e gli alveoli stessi. Il principio per cui avvengono è quello del gradiente pressorio: un gas tende a diffondersi da un tessuto in cui è presente ad una determinata pressione verso uno in cui è contenuto ad una pressione inferiore. Quindi, l’aria appena inspirata, contenuta negli alveoli, arricchirà d’ossigeno il sangue giunto ai capillari dall’arteria polmonare, e cederà, invece, l’anidride carbonica di cui è carico, che sarà espulsa nella fase espiratoria. E’ proprio tramite il sangue che avvengono i processi di scambio d’ossigeno e

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anidride carbonica. Nel nostro organismo è contenuto in una quantità di circa 5-6 litri. E’ costituito dal 50% dal plasma, dal 45% dai globuli rossi, dal 5% dai globuli bianchi, più una piccolissima percentuale di piastrine. Il plasma, sostanza liquida giallognola, serve anche per il trasporto d’altri elementi e di sostanze come sali, proteine, grassi, zuccheri e una parte di gas che si discioglie in esso. I globuli rossi trasportano buona parte dell’ossigeno grazie all’emoglobina: una proteina che si lega facilmente all’ossigeno per il suo elevato contenuto di ferro. Dopo essersi ossigenato nei polmoni, quando il sangue raggiunge i nostri tessuti, dove i processi metabolici hanno fatto ridurre il gradiente pressorio dell’ossigeno, questo sarà rilasciato dall’emoglobina. Viceversa i tessuti cederanno al sangue l’anidride carbonica per essere eliminata. Una parte di questa si lega all’emoglobina, l’altra, trasformata in bicarbonato, è veicolata dal plasma. La circolazione del sangue è assicurata dal cuore, detto anche miocardio, che è un muscolo cavo di forma e grandezza simile al pugno chiuso di una persona. Contraendosi spontaneamente e ritmicamente, provvede al pompaggio in due circuiti: la piccola circolazione o circolo polmonare, e la grande circolazione o circolo sistemico. E’ diviso verticalmente in cuore venoso a destra e cuore arterioso, che contiene il sangue ossigenato, a sinistra. A loro volta, le due sezioni sono suddivise in atri in alto, e ventricoli in basso. Il ciclo di lavoro completo che compie il cuore, la rivoluzione cardiaca, avviene in due fasi distinte: la fase di contrazione, detta sistole, e la fase di rilascio, o di riposo, detta diastole. Il ritmo con cui il sangue è pompato prende il nome di frequenza cardiaca, che normalmente è di circa 70-75 battiti al minuto. Dall’atrio sinistro, il sangue ossigenato passa al ventricolo sinistro il quale provvede a pomparlo nel grande circolo attraverso l’aorta. Suddivisa in arterie carotidee, che ossigenano il cervello, e arterie che si ramificano nella periferia del nostro organismo, riducendosi di diametro in arteriole, fino ad arrivare ai capillari che vascolarizzano i tessuti. Qui, le loro pareti sottili e permeabili permettono gli scambi gassosi tra il sangue e i tessuti stessi. I capillari quindi si ricongiungono nel sistema venoso, che confluendo nelle vene cave riportano il sangue povero d’ossigeno, e carico d’anidride carbonica, nell’atrio destro del cuore. Da qui passa al ventricolo destro, che baderà a pomparlo nel piccolo circolo, verso il sistema respiratorio, attraverso l’arteria polmonare.