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COLLANA MAGISTERO DEL VESCOVO 8. I VIZI CAPITALI Un’illusione di libertà + ANDREA BRUNO MAZZOCATO VESCOVO SUPERBIA E AVARIZIA

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collana

magistero del vescovo8.

4,00 Euro

Il tema deI vIzI capItalI ha una lunga tradIzIone nella dottrIna morale ed ascetIca crIstIana e In questI ultImI annI sta suscItando un rInnovato Interesse. anche Il crIstIano subIsce facIlmente Il fascIno IllusorIo del consumIsmo, che InvIta a soddIsfare I vIzI per un facIle appagamento deI sensI... Il sI-gnore chIede a chI vuol essere suo dIscepolo Il coraggIo dI taglIare con queste attrattIve al male, per seguIre Il suo esempIo. e la rIchIesta del maestro non ammette mezze mIsure, perché sono In gIoco la realIzzazIone o Il fallImento eterno della vIta.

collana magistero del vescovo

1 - Il vizio e la virtù nella vita cristiana

2 - Il pane disceso dal cielo

3 - “Date e vi sarà dato”

4 - Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo

5 - “Ho visto il Signore!”

6 - Adoratori e Missionari. I anno - Adoratori

7 - Adoratori e Missionari. II anno - Missionari

8 - I vizi capitali - Superbia e avarizia

i vizi capitali Un’illusione

di libertà

+ andrea BrUno mazzocato vescovo

sUperBia e avarizia

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i vizi capitali Un’illusione

di libertà

+ andrea BrUno mazzocato vescovo

sUperBia e avarizia

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AUTORE: Andrea Bruno Mazzocato, vescovo

TITOLO: I vizi capitali - Superbia e Avarizia

COLLANA: Magistero del Vescovo - 8

FORMATO: 13 x 21 cm

PAGINE: 80

ISBN: 978-88-95262-07-9

In copertina: Girolamo Romano

Avarizia

affresco, 1531-32, Castello del Buonconsiglio - TN

© 2008 Editrice San Liberale

Opera San Pio X - Diocesi di Treviso

Via Longhin 7 - 31100 Treviso

Telefono 0422 576850 - Fax 0422 576992

E-mail: edit.sanliberale@diocesitv. it

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1. Ne ricordo alcune: AA. VV., I sette vizi capita-li, Raffaello Cortina Editore, 2004 (in sette vo­lumetti); Galimberti U., I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2005; Savater, F., I sette pecca-ti capitali, Mondadori, 2007; DaG teSSore, I vizi capitali, Città Nuova, 2007; ravaSi G., Le porte del peccato, Mondadori, 2007.

IntroduzIone

Il tema dei vizi capitali ha una lunga tradizione nella dottrina morale ed ascetica cristiana e in questi ultimi anni sta susci tan­do un rinnovato interesse, come testimonia­no varie pubblicazioni sull’argomento 1.

Può sorprendere un simile interesse, perché la società dei consumi sembra far leva proprio sui vizi capitali per espande­re il proprio mercato. Pensiamo all’avari­zia, alla lussuria o alla gola. L’orientamen­to diffuso non è quello di combatterli come modi negativi di vivere. Sono considerati, piuttosto, delle tendenze da assecondare per rendere l’esistenza più piacevole e ric­ca di benessere.

Probabilmente, però, si sta facendo stra da la constatazione che seguire i vi­zi of fre un’immediata soddisfazione ma

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la scia, poi, la bocca amara e un senso di vuo to dentro la persona.

Sappiamo che nella storia dell’umani­tà grandi civiltà e grandi imperi sono an­dati in sfacelo non per la forza dei nemici esterni ma per una progressiva debolez­za interna dei propri abitanti. Il benesse­re materiale ha scatenato i vizi portando le persone a perdere il loro vigore morale e civile. La dissolutezza dei cittadini è di­ventata dissoluzione della società.

Può essere questo il destino anche della nostra società del progresso e del be­nessere? Il timore c’è e motiva il ritorno di attenzione al tema dei vizi capitali e al ri­schio che queste attrattive negative rovini­no la persona e la società

Anche il cristiano subisce facilmente il fascino illusorio del consumismo che in­vita a soddisfare i vizi per un facile appa­gamento dei sensi. Per lottare contro tali lusinghe è utile aver presente l’elenco dei sette vizi capitali quando facciamo l’esa­me di coscienza.

Da essi si parte per obbedire all’invito pressante col quale Gesù iniziò la sua pre­dicazione: “Convertitevi e credete al Van­gelo” (Mc 1,15).

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Non c’è dubbio che il Signore chiede a chi vuol essere suo discepolo il coraggio di tagliare con queste attrattive al male per seguire il suo esempio.

La richiesta del Maestro, per altro, non ammette mezze misure perché è in gioco la realizzazione o il fallimento eter­no della vita: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che con­duce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,13­14).

Le riflessioni che seguiranno sono na­te come catechesi quaresimali e non han­no la pretesa di dare approfondimenti esaustivi di carattere teologico e culturale su ciascuno dei vizi capitali.

Partendo da brani della parola di Dio, si accontentano di offrire delle tracce per la meditazione personale e per una verifi­ca più concreta sulla propria condotta cri­stiana.

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I. I vIzI capItalI:

IllusIone dI felIcItà

Rom 7,14­25:Sappiamo infatti che la legge è spiri-

tuale, mentre io sono di carne, venduto co-me schiavo del peccato.

Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io fac-cio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desi-derio del bene, ma non la capacità di at-tuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è ac-canto a me. Infatti acconsento nel mio in-timo alla legge di Dio, ma nelle mie mem-bra vedo un’altra legge, che muove guer-ra alla legge della mia mente e mi rende

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schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra.

Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

Prima di prendere in considerazione ciascuno dei vizi capitali, ricordo quale sia la condizione nella quale viviamo ogni giorno dopo aver ricevuto il battesimo.

È una situazione di lotta interiore tra libertà e schiavitù, di lotta contro dei pa­droni che tendono a sottomettere a sé i no­stri pensieri, desideri e volontà. I padroni sono appunto i vizi.

Nel brano della Lettera ai Romani ri­portato, S. Paolo descrive, senza vergogne e con molto realismo, questo scontro che sente e, in parte, subisce dentro di sé.

“Vedo il bene e faccio il male”: la contraddizione che vive Paolo

Quotidianamente l’apostolo si tro­va coinvolto dentro una lotta molto dura

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e non teme di confessare di uscirne spes­so sconfitto perché la sua volontà cede: “Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”.

Egli, da vecchio fariseo, sa bene qua­le sia la legge di Dio e, se usa bene la sua mente, si rende anche conto che quella legge gli indica la strada del vero bene e, quindi, dell’autentica felicità.

Nel corpo, però, ritrova dei bisogni e delle attrattive che ubbidiscono ad un’al­tra legge. Essa, attraverso gli istinti del corpo, domina la volontà di Paolo e lo por­ta a fare il male contro la legge di Dio: è la legge del peccato.

L’apostolo vorrebbe rifiutarla; essa, però, è radicata profondamente dentro di lui e spesso ha la meglio sulla sua libertà.

In questo modo egli si sente come uno schiavo perché desidera il bene e lo vede, ma la sua volontà cede al male che non vuole perché porta alla rovina della sua persona, del suo rapporto con Dio e con gli altri.

Paolo conclude la sua confessione con un grido di sofferenza che, insieme, è an­che una preghiera di speranza: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo cor­po votato alla morte? Siano rese grazie a

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Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Si­gnore!”.

Egli sa ormai per esperienza che se fa conto solo sulle forze della sua mente e della sua volontà rimarrà sempre sconfitto dalla legge del peccato. Non vede via di uscita e per questo riconosce di essere uno condannato alla sventura, perché è schia­vo dentro un corpo che lo trascina verso il male, il fallimento e la morte.

Da quando, però, ha incontrato Gesù ha incontrato anche la speranza. Dio, in­fatti, gli ha già dato prova di poter e voler liberarlo per mezzo di Gesù Cristo.

Dove non riescono le sue capacità, ri­esce la grazia di Cristo e la potenza del suo Santo Spirito che porta nel battezzato la legge dell’obbedienza a Dio e della ca­rità che contrasta e sconfigge la legge del peccato (cfr. Rom 8).

La vita del battezzato è una lotta contro le passioni

Nell’esperienza di Paolo, descritta in modo tanto sincero, non facciamo fatica a riconoscere anche la nostra quotidiana esperienza. Se abbiamo maturato una co­

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scienza, appena discreta, di ciò che avvie­ne dentro di noi, non possiamo che confes­sare come l’apostolo: “Vedo il bene e fac­cio il male”.

Conosciamo bene anche noi lo scon­tro tra la legge di Dio e la legge del pec­cato che tanto faceva soffrire l’apostolo. La sua sofferenza nasceva dalla constatazio­ne che era incapace di decidere in modo pienamente libero.

Leggendo le sue lettere, capiamo che la più profonda aspirazione di Paolo era quella di essere un uomo libero. Questo era il titolo più alto di dignità a cui teneva e, proprio nell’incontro con Gesù, aveva trovato la vera libertà: “Cristo ci ha libera­ti perché restassimo liberi” (Gal 5,1).

Per lui era un’umiliante sofferenza do­ver, invece, scrivere ai Romani: “Io sono di carne, venduto come schiavo del peccato”.

Quella che Paolo descrive, partendo dalla sua esperienza personale, è la condi­zione in cui si trova il battezzato. È la no­stra condizione reale di vita della quale è importante essere sinceramente coscienti.

Con il Battesimo Gesù ci ha introdotti ad una comunione personale con Lui più profonda e vitale di quella che possiamo

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avere anche con la persona a cui siamo più legati. Egli ci ha conquistati ed è diventato il nostro Signore. Ha posto in noi il sigillo della sua proprietà, lo Spirito Santo.

Lo Spirito è il dono che Gesù riserva ad ogni uomo che crede in Lui e si unisce a Lui nel battesimo.

Grazie ai doni dello Spirito Santo, noi conosciamo anche una legge nuova, quel­la che ha guidato Gesù stesso nella sua vi­ta umana. Essa è sintetizzata in un coman­damento solo, “Amatevi gli uni gli altri co­me io vi ho amato” (Gv 13,24): è la legge dell’Amore che nelle pagine del Vangelo è descritta nei suoi vari aspetti.

Questa legge nuova, però, si scontra in noi con quella che guida invece l’uomo peccatore. Con il battesimo Gesù ci dona lo Spirito Santo che ci libera dalla legge del peccato, ma la lotta per una completa liberazione dura tutta la vita.

Questo è il motivo per cui Paolo de­scrive la vita cristiana anche come un com­battimento. Agli Efesini scrive: “Rivestite­vi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6,11).

Le insidie del diavolo non cessano mai e cercano ogni giorno di trascinarci ancora

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dentro la legge del peccato. Possiamo rico­noscerle facendo attenzione alle “passio­ni”, che sono come delle attrattive al male che si agitano in noi.

Sempre nella Lettera agli Efesini le passioni sono dette “ingannatrici” (Ef 4,22) e in questo sta la loro pericolosità.

Esse attirano i pensieri e i desideri dell’uomo dandogli la sensazione di trova­re felicità. Di fatto, però, sono solo un’il­lusione di felicità perché portano l’uomo nuovamente dentro il peccato e la rovina di se stesso.

Sono ingannatrici perché vengono dal maligno che è per sua natura “menzogne­ro e padre della menzogna (Gv 8,44).

Il battezzato, fino alla morte e all’in­contro finale con Gesù risorto, ha come suo impegno principale quello di resistere alle passioni che ci sono appiccicate addosso perché, come dice S. Giacomo, “combatto­no nelle nostre membra” (Gc 4,1).

Questa è la strada per liberarsi, pro­gressivamente, dell’uomo vecchio “che si corrompe dentro le passioni ingannatrici” (Ef 4,22) e far crescere sempre più in noi un “uomo nuovo” che assomiglia a Gesù perché è capace di vivere secondo la sua legge, la legge dell’Amore.

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Le passioni principali: i vizi capitali

Tra le passioni che il cristiano sente in sé e che lo attirano verso la legge del pec­cato, allontanandolo dalla legge del Van­gelo, ce ne sono alcune che con più forza riescono ad influenzare i pensieri e la vo­lontà. Esse sono chiamate “vizi capitali”.

Quanti di noi hanno studiato nell’in­fanzia il Catechismo di S. Pio X, ricorda­no l’elenco dei sette vizi capitali: super­bia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia.

Il Catechismo raccoglieva una lunga tradizione che aveva dato sempre partico­lare rilievo a questi vizi come cause princi­pali di peccato e di rovina dell’uomo.

I primi a riconoscerli e a descriverli so­no stati i monaci del deserto. Essi vivevano molto tempo nella solitudine, in una vita sobria e in preghiera e questa era la condi­zione per individuare una per una queste passioni che sono i vizi capitali e per senti­re tutta la loro attrattiva.

Già nel IV secolo Evagrio Pontico ha dedicato alcuni dei suoi scritti ai sette o ot­to “pensieri malvagi” che disturbano il mo­naco e contro i quali è necessario lottare. La sua dottrina è stata recepita dai grandi

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maestri di spiritualità tra i quali possiamo ricordare Giovanni Cassiano, S. Gregorio Magno e S. Tommaso d’Aquino.

L’elenco dei vizi capitali è entrato poi nel catechismo. Il grande Catechismo di Trento li elenca e spiega anche perché so­no detti “capitali”: “Questi vizi si chiama­no capitali, perché sono la sorgente e la cagione di molti altri vizi e peccati” (Cate-chismo Maggiore, Parte quinta).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II ripropone la stessa spie­gazione (n. 1865­66).

Il fatto che l’elenco dei vizi capitali sia entrato nel catechismo che veniva inse­gnato a tutti i cristiani, fin dall’infanzia, fa capire che per ogni cristiano – e non solo per i monaci – è fondamentale saper rico­noscere queste passioni negative per com­batterle.

Prima di tutto è decisivo riconoscerle e non restare in una confusione interiore di bisogni e stati d’animo. Molte persone non si accorgono neppure che certi loro senti­menti, bisogni e reazioni interiori sono in­fluenzate da uno dei vizi capitali.

In questo modo si lasciano trascinare a comportamenti e scelte negative senza

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essere ben coscienti che c’è un nemico che li sta dominando e rovinando. Se ne ren­deranno conto più avanti perché, purtrop­po, i vizi capitali sono implacabili e rovi­nano la persona, le sue doti, il suo corpo, i rapporti con gli altri.

Per evitare tali conseguenze è fonda­mentale conoscere se stessi con molta sin­cerità anche in quei vizi a cui siamo più esposti. Alcuni dei sette vizi, infatti, hanno maggiore attrattiva in noi.

Una volta chiamati per nome, i vizi vanno combattuti. Si tratta di una vera e propria lotta interiore per la quale S. Pao­lo, come abbiamo già detto, invita i cristia­ni a “mettersi l’armatura di Dio”; a vestirsi, cioè, come soldati che vanno in battaglia.

Ci sono delle vere e proprie strategie per opporsi alle attrattive dei vizi e degli aiuti importanti ai quali ricorrere. Altri­menti – e quante volte dobbiamo ricono­scerlo – usciamo sconfitti dalla gola, dall’in­vidia, dall’ira. Cadiamo, di conseguenza, in scelte e comportamenti che rovinano la nostra dignità di battezzati, il rapporto con Dio e i rapporti con i fratelli.

È sicuramente da respingere quella mentalità corrente, a cui già ho accenna­

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to, che è propensa a non dare importanza a questi vizi se non addirittura a giustifi­carli come legittimi bisogni dell’uomo, nel seguire i quali non c’è nulla di male. Non si vuol riconoscere quanto seguirli porti ognuno di noi a conseguenze negative per sé e per gli altri.

Le meditazioni che seguono vogliono offrire un aiuto sia per smascherare in noi la presenza e l’influenza di ognuno dei vizi capitali, sia per sapere come contrastarli in modo che non ci condannino ad una umi­liante schiavitù.

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II. la superbIa

1. La gravità del vizio di superbia

L’elenco dei vizi capitali si apre con la superbia. Questo vizio è chiamato an­che con altri termini: vanagloria, orgoglio, presunzione, arroganza. Essi esprimono comunque un identico atteggiamento e, cioè, la tendenza dell’uomo a porsi contro Dio e contro gli altri uomini.

Gli autori spirituali hanno posto la su­perbia sempre al primo posto nell’elenco dei vizi capitali. Si tratta di una scelta pre­cisa perché è stata, a ragione, considerata il più grave dei peccati; anzi, la madre di tutti gli altri peccati.

Gregorio Magno non pone neppure la superbia nell’elenco dei vizi capitali per­ché la considera “la regina di vizi”. Tom­maso d’Aquino, raccogliendo la tradizione patristica, afferma che la superbia è il più grave dei peccati perché “negli altri pec­cati l’uomo si allontana da Dio o per igno­ranza o per fragilità o per il desiderio di al­tri beni; ma nella superbia uno abbandona

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Dio proprio perché si rifiuta di sottometter­si alle sue disposizioni” (Summa Teologi-ca, II­II, q. 162, a. 6).

Questa tradizione spirituale cristia­na ha fatto proprio l’insegnamento della Sacra Scrittura che riserva alla superbia un’attenzione tutta particolare per la sua gravità e pericolosità

Essa sta nel fatto che l’uomo, schiavo della superbia, diventa duro di mente e di cuore e si contrappone a Dio: “Principio della superbia umana è allontanarsi dal Signore, tenere il proprio cuore lontano da chi l’ha creato” (Sir 10,12).

Sorprende non poco l’atteggiamento di Dio che è sempre pronto a piegarsi con misericordia verso coloro che peccano per fragilità e, pentiti, invocano di essere gua­riti; assume, invece, una posizione dura contro i superbi.

Con un uomo presuntuoso anche la misericordia di Dio resta impotente, per­ché egli non conosce il pentimento per il suo peccato di rifiuto di Dio.

Nel Magnificat, splendida espressio­ne della spiritualità dei “poveri in spirito”, Maria afferma: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei

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pensieri del loro cuore e ha innalzato gli umili (Lc 1,51).

Le fanno eco Pietro e Giacomo con u na forte dichiarazione: “Dio resiste ai su per bi, ma dà grazia agli umili (1Pt 5,5; Gc 4,6).

2. Gesù contro la superbia dei farisei

L’atteggiamento di Dio contro i super­bi è fatto proprio da Gesù. Egli si oppose ad un’unica categoria di persone: gli scribi e i farisei. Ad essi si oppose con uno scon­tro durissimo che non avrà alcuna possibi­lità di riconciliazione ma che lo porterà al­la condanna a morte per crocifissione.

Leggendo il Vangelo non può non im­pressionare questo modo di agire del Si­gnore. Egli si lasciò avvicinare anche dai peccatori più rovinati dal male e mostrò verso di loro sempre e solo misericordia. Il primo che portò con sé in paradiso fu il brigante crocifisso accanto a lui, che aveva rovinato tutta la sua vita andando contro ogni legge.

Contro i capi religiosi del tempo, in­vece, ebbe solo parole dure di giudizio e di condanna: egli era il Dio che “resiste ai superbi”.

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Resiste al fariseo che ha l’ardire di an­dare al tempio apparentemente per prega­re ma di fatto per portare una sfida, nean­che tanto camuffata, a Dio. Si pone davan­ti a Lui con la pretesa di essersi compor­tato in modo perfetto con le sue sole forze e di avere, quindi, il diritto dell’elogio da parte di Dio.

Questa durezza di cuore che ha verso il suo Signore risuona anche nel giudizio sprezzante che rivolge al povero pubblica­no che in ginocchio si batteva il petto per le proprie miserie (Lc 18,9­14).

Dall’alto della loro superbia i farisei giudicavano gli uomini e, peggio ancora, giudicavano Gesù e la sua misericordia.

Questo è quel “peccato contro lo Spi­rito Santo” di fronte al quale anche la mi­sericordia del Signore deve arrendersi: “chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna” (Mc 3,29).

Non c’è perdono per i farisei presun­tosi perché bestemmiamo l’amore di Dio che si rivela in Gesù e non conoscono pen­timento per questo peccato.

La gravità del peccato dei farisei sta nella menzogna. Gesù li definisce ripetu­

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tamente: “sepolcri imbiancati” (Mt 23,27). Esternamente si presentano come per sone per bene, osservanti della legge, degne di rispetto. Il loro cuore, però, è corroso dalla menzogna. Sono falsi nei sentimenti ver­so i loro simili perché giudicano tutti e si sentono migliori degli altri: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presume­vano di esser giusti e disprezzavano gli al­tri” (Lc 18,9). Era la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio.

L’estrema menzogna è contro Dio, perché presumono di poter stare di fronte a Lui senza aver bisogno di Lui. Dimenti­cano che hanno tutto da Lui e che, senza la sua misericordia infinita, non esistereb­bero.

Non c’è possibilità di perdono per i superbi perché partecipano dell’orgoglio menzognero del loro padre, il diavolo: “Voi che avete per padre il diavolo, e vo­lete compiere i desideri del padre vostro. Egli [...] quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della men­zogna” (Gv 8,44).

Partecipano dello stesso peccato, sen­za remissione, di satana che rifiutò di es­sere creatura dipendente dall’amore infi­nito e misericordioso di Dio. La superbia lo

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portò alla menzogna di pensare di essere sufficiente a se stesso.

3. La superbia secondo la Parola di Dio: Gen 3,1-21

Gen 3,1­7:Il serpente era la più astuta di tutte le

bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpen-te: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’al-bero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete».

Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quan-do voi ne mangiaste, si aprirebbero i vo-stri occhi e diventereste come Dio, cono-scendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acqui-stare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si ac-

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corsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Poi udirono il Signore Dio che passeg-giava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Si-gnore Dio, in mezzo agli alberi del giardi-no. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?».

Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nu-do, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse man-giato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».

Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse al-la donna: «Che hai fatto?». Rispose la don-na: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Allora il Signore Dio disse al serpen-te: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu male-detto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre cammi-nerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: que-sta ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

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Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore par-torirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».

All’uomo disse: «Poiché hai ascol-tato la voce di tua moglie e hai mangia-to dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre.

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in pol-vere tornerai!».

L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì”.

Quella diabolica menzogna che è la superbia è entrata nel cuore dell’uomo e in mezzo all’umanità fin dall’inizio della sto­ria umana. Appena Dio ha concluso la sua opera “molto buona” della creazione, es­sa viene avvelenata dal peccato più grave: dal vizio e peccato della superbia.

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La realtà entro la quale viviamo vie­ne dal nulla o, meglio, dall’Amore onni­potente e totalmente gratuito di Dio che sa sprigionare dal nulla la bellezza delle crea ture.

Lo scopo della creazione è quello di rendere gloria a Dio, alla sua bellezza, on­nipotenza e amore. È come uno splendido movimento di gioia e di vita che parte dal cuore di Dio che dona la vita alle creature perché gliela restituiscano con la lode e la riconoscenza.

S. Francesco, nel suo Cantico delle crea ture, ha espresso con una poesia im­mortale questo movimento che parte da Dio e a Lui ritorna.

La più grande opera del Creatore è stato l’uomo libero, la creatura fatta a sua immagine. Proprio l’uomo ha tragicamen­te rovinato se stesso e tutto il creato con un peccato contro Colui che lo aveva chiama­to ad un dialogo di amore.

Il peccato che l’uomo commise alle origini della sua esistenza – per questo è detto “originale” – è un atto di superbia che rivolse in piena libertà contro Dio.

Così rispose al suo Signore e fece uso malvagio di quel sublime dono della liber­

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tà che doveva servirgli per vivere un dialo­go di alleanza con il suo Creatore e Padre.

Il racconto della Genesi descrive il peccato di superbia nei suoi passaggi e merita attenzione perché è una descrizio­ne che resta attuale anche per noi, che sia­mo soggetti al vizio della superbia.

a. Dio dona all’uomo la sua legge perché conosca la strada per vivere in pienezza.

Dio aveva dotato gli animali dell’istin­to ripetitivo; era la legge che sicuramente le guidava a vivere secondo lo scopo per cui erano stati creati.

L’uomo era radicalmente diverso per­ché aveva ricevuto il dono della libertà. Grazie ad essa era in grado di deciderete e determinare la realizzazione della pro­pria vita.

Alla libertà dell’uomo Dio aveva con­segnato la sua legge, altro grande dono della sua bontà. Nella legge divina, infatti, era indicata con chiarezza la via che l’uo­mo doveva seguire per realizzare la vita ri­cevuta.

Questo è il comandamento di Dio: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardi­

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no, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2,16).

Egli consegna all’uomo tutto il creato perché abbia il potere di governarlo. Ma non era in potere dell’uomo la conoscenza del bene e del male. Era una conoscenza di Dio.

In altre parole, il comandamento di­vino chiede all’uomo di accogliere la sua condizione di creatura nata dall’amore fe­condo di Dio. Come creatura non possiede nulla in proprio; con le sue sole forze egli resta un nulla. Tutto ha ricevuto: la vita, l’essere anima e corpo, il reciproco com­pletarsi in maschio e femmina. Da Dio ha ricevuto anche il senso e lo scopo della vi­ta e la legge che indica il bene da seguire per raggiungere la vera felicità.

Con il suo comando Dio chiede all’uo­mo l’umiltà di riconoscersi creatura che accoglie il progetto dall’Amore infinito di Dio e vi obbedisce con riconoscenza.

b. La tentazione

Tra le creature di Dio c’erano esseri personali e spirituali che la Sacra Scrittu­ra chiama angeli. Alcuni di essi, invece di

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glorificare in eterno Dio per la grandezza e bellezza del suo Amore creatore, avevano ceduto al fascino della superbia e si erano contrapposti a Lui.

Essi rappresentano lo spirito del male che la Sacra Scrittura chiama con vari no­mi: satana, demonio, diavolo, avversario, maligno.

Questo essere maligno vive nelle te­nebre della superbia, della menzogna e dell’odio e si rende subito presente già all’inizio della creazione per rovinare l’opera di Dio.

Attacca la creatura che ha il dono del­la libertà e può, quindi, decidere contro la volontà di Dio, pur essendo da Lui creata.

L’azione propria del demonio è la ten­tazione e il testo della Genesi la descrive con molta chiarezza. Satana introduce nei pensieri e desideri dell’uomo una nuova e affascinante attrattiva la quale turba il suo rapporto con Dio.

L’uomo non avverte più solo il deside­rio di vivere nei confronti di Dio un atteg­giamento di amore riconoscente e di ob­bedienza.

Il demonio gli suggerisce anche l’at­trattiva della superbia: “Diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male”.

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Essa convince la libertà e la volontà della prima coppia umana ed essi cedono alla tentazione che diventa così peccato, scelta libera contro Dio.

Il peccato di superbia ha due forme che sono sempre attuali e facilmente pre­senti anche nel nostro cuore e nelle nostre azioni.

c. Il primo peccato di superbia

Cedendo alla tentazione e aderendo liberamente al peccato di superbia, il rap­porto con Dio di Adamo ed Eva viene stra­volto radicalmente.

Essi non hanno più la purezza nel cuo­re e non vivono più un sentimento sempli­ce di fiducia e di obbedienza verso l’Amo­re da cui tutto hanno ricevuto.

Si insinua in essi l’atteggiamento del sospetto. Dubitano che la legge ricevuta da Dio sia per il loro bene e la vera felicità. Cominciano a sentirla come un divieto che si impone dall’esterno e va contro la liber­tà e la felicità dell’uomo.

Il sospetto si fa anche più diabolico e insinua il dubbio che Dio sia stato menzo­gnero e abbia dato una legge per tenere a

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freno l’uomo che, altrimenti, con la sua li­bertà avrebbe potuto fare senza Dio e de­cidere autonomamente del suo destino.

Satana annebbia lo sguardo dell’uomo e gli fa vedere un Dio che diventa geloso della sua creatura, sulla quale si impone per difendere se stesso dall’uomo: “Dio sa che diventereste come Lui”.

Sotto la tentazione della superbia, Adamo ed Eva non riconoscono più la vo­lontà e la legge di Dio come la via per la realizzazione dell’uomo ma piuttosto un condizionamento che porta alla mortifica­zione della libertà.

È terribile dirlo ma, per l’uomo cadu­to nel peccato della superbia, Dio diven­ta avversario da cui prendere le distanze. Contro di Lui l’uomo proclama la volontà di essere lui il padrone della sua vita, colui che liberamente decide del suo bene e del suo male.

Crede alla promessa di satana che, tra­sgredendo la legge di Dio, gli si apriranno gli occhi e vedrà la verità. Finalmente po­trà farsi lui legge a se stesso e decidere li­beramente il suo bene e il suo male in ba­se a ciò che sente, in base alla sua ragione e alla sua esperienza.

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L’esito di questo percorso della super­bia è il raffreddamento del cuore dell’uo­mo tante volte denunciato dai profeti. In esso non c’è più il calore dell’amore verso Dio, il desiderio della comunione con Lui.

Subentra piuttosto la sfida o l’indiffe­renza verso Dio nella pretesa di essere ar­tefice di se stesso. Il superbo si pone fuori dell’amore.

Gesù ha descritto il peccato di super­bia nel comportamento del figlio minore della parabola del Padre misericordioso.

Non mi soffermo a commentarla ma è facile ritrovare nei sentimenti e nelle scel­te di quel giovane gli stessi comportamen­ti di Adamo ed Eva.

Anch’egli sospetta che il Padre non voglia donargli libertà e felicità. Vuol farsi padrone di tutti i beni come fossero suoi e, allontanandosi dal padre, cerca da solo la strada della propria realizzazione. Di fatto si allontana dall’amore con il cuore induri­to dalla superbia.

La tentazione del demonio ha otte­nuto il suo obiettivo. Ha spento nel cuo­re dell’uomo l’amore per il suo Dio e lo ha convinto ad avviarsi in un cammino di ap­parente libertà dalla legge di Dio, nell’illu­

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sione di poter farsi padrone della propria esistenza e della propria storia.

La superbia è un’illusione tragica per­ché stravolge la realtà: fa apparire Dio av­versario della realizzazione dell’uomo e satana, invece, suo alleato. La meta del cammino non può che essere il fallimento e la morte.

d. Il secondo peccato di superbia

Satana aveva promesso ad Adamo ed Eva che, se si fossero impossessati anche dei frutti dell’albero del bene e del male, avrebbero finalmente conosciuto la verità, come la conosceva Dio.

Il maligno mantiene la promessa. Do­po che hanno compiuto il gesto di super­bia contro Dio, si aprono veramente i loro occhi e prendono coscienza della verità.

Soltanto che si trovano di fronte ad una verità molto amara: si ritrovano nudi uno di fronte all’altra, impoveriti e rovinati nella loro persona.

Appare loro chiaro chi sia stato il men­zognero che li ha ingannati. Non è stato Dio con la sua legge, ma il maligno con la sua tentazione.

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È la più terribile menzogna credere che l’uomo possa fare senza Dio. Quan­do lo rifiuta per presunzione e si allontana da Lui, l’uomo si ritrova nudo, non capisce più il senso e lo scopo per cui si trova al mondo, è totalmente disorientato.

A questo punto verrebbe quasi spon­taneo aspettarci il pentimento da parte di Adamo ed Eva e un loro ritorno a Dio, che era pronto ad accoglierli.

Satana, invece, approfitta del loro sta­to di debolezza e di disorientamento e tor­na ad attaccarli sempre con la tentazione della superbia per portare a termine la sua azione di rovina.

Ancora una volta insinua in loro il so­spetto nei confronti di Dio che ora diventa sentimento della vergogna. Essi si rendono conto che la legge di Dio era giusta e che, trasgredendola, si sono rovinati con le loro mani. Guardando, però, alla loro misera­bile condizione temono il giudizio di con­danna di Dio per la loro sfida presuntuosa. Questo giudizio appare come una logica conseguenza del peccato commesso.

Sono in preda al sospetto nei confron­ti del cuore di Dio. Non si fidano della sua misericordia capace di perdono ma temo­

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no un Dio giudice. Un amore tanto gratu­ito da essere capace di perdonare sembra loro impossibile.

Dio li cerca e li chiama nel giardino perché non vuol perdere le sue creatu­re. Ma essi non vogliono affrontare il suo sguardo che temono sia solo severo e giu­dicante.

Sono presi da una vergogna insop­portabile che li porta ancora una volta a fuggire da Dio nascondendosi nel buio per non essere trovati.

Questa vergogna non è altro che la se­conda manifestazione della superbia della quale restano ancora schiavi.

La vergogna, infatti, nasce dal sospet­to che Dio voglia il loro male. Il male che temono da Lui, questa volta, non è una legge che soffocava la loro libertà, ma una condanna senza appello per aver trasgre­dito la sua legge ed essersi rovinati.

Sono coscienti di meritarsi la condan­na e, piuttosto di riconsegnarsi a Dio come poveri peccatori, preferiscono darsi da soli la condanna nascondendosi nel buio e ab­bandonandosi alla rovina totale.

Questo è il tremendo orgoglio che preferisce la rovina all’umile ritorno ver­so Dio, che, senza rassegnarsi, cerca l’uo­

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mo come il pastore cerca la pecora che si è smarrita.

La superbia, camuffata da vergogna, con tinua a spegnere l’amore nel cuore del­l’uomo peccatore. Lo porta a difendersi dalla misericordia divina che vuol donare il per­dono e che dichiara: “Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).

Rifiuta quella misericordia preso dal sospetto di meritare solo uno sguardo di condanna da parte di Dio. Si rinchiude in un senso di fallimento roso dalla rabbia, piuttosto che aprirsi alla confessione del peccato e all’umile richiesta di perdono.

Questa condizione del peccatore non pentito è descritta da Gesù come condan­na “alle tenebre, pianto e stridore di denti (Mt 8,12; 22,13; 25,30).

È la tenebra della mancanza di senso per la vita, il pianto desolato di chi non ha più speranza e il digrignare i denti per la rabbia contro se stessi, per aver contribui­to alla propria rovina, e contro Dio, ormai lontano.

Questa è la superbia disperata a cui satana si è condannato e nella quale vuol trascinare il peccatore che coltiva in sé la

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stessa superbia. In altre parole, è la condi­zione dell’inferno che è fatta di superbia disperata che non ha accolto la misericor­dia di Dio sciogliendo il proprio cuore al dolore del peccato, al pentimento e all’in­vocazione di perdono.

e. La superbia: madre degli altri vizi

Dal peccato di superbia nascono tutte le altre forme di male che rovinano l’esisten za dell’uomo e dell’umanità sulla terra.

Dopo il racconto del peccato origina­le, il Libro della Genesi prosegue presen­tando le conseguenze.

L’uomo che si è chiuso a Dio e ad una comunione di amore con Lui rovina, di conseguenza, i rapporti tra uomo e donna, tra gli altri simili, con il creato che gli è sta­to consegnato dal creatore.

Così succede anche al figlio prodigo. Egli ha indurito il suo cuore nella superbia e ha rotto la comunione con il padre pre­tendendo di farsi padrone della sua vita.

Lontano dalla casa paterna egli sper­pera la propria vita con tutte le ricchezze che gli erano state donate. Esse diventa­no oggetto di un consumo smodato e insa­

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ziabile, fino a distruggerlo. Prevarica, poi, sulle persone usandole senza rispetto per i propri bisogni.

Alla fine si trova solo e nudo, proprio come Adamo ed Eva dopo il peccato.

4. La superbia: peccato sociale contemporaneo

La Parola di Dio ci ha descritto il pec­cato di superbia nelle sue espressioni e conseguenze. Non è difficile riconoscere quanto tale descrizione resti di piena at­tualità per la nostra vita personale e so­ciale.

Offro qualche spunto per mostrare questa attualità prima dentro la società e poi nella nostra vita personale.

Ritroviamo le dinamiche del peccato originale dentro la società in cui viviamo e le ritroviamo anche se guardiamo indietro agli ultimi secoli.

Apro qui un discorso molto comples­so che chiederebbe ben più spazio. Mi ac­contento di fare due esempi significativi.

Richiamo due affermazioni che han­no segnato e stanno segnando il nostro tempo.

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a. Dio è morto

A questa terribile conclusione è arri­vata dapprima la filosofia moderna e poi la mentalità più diffusa. L’uomo è arriva­to a liberasi di Dio come conseguenza del suo impegno ad affermare le capacità del­la propria ragione.

Ha visto che con le proprie capacità era in grado di dominare la natura con la scienza e la tecnica e di crearsi da solo un futuro di progresso e di benessere.

Ha diminuito sempre di più l’impor­tanza di Dio e del riferimento a lui fino a concludere che non esiste, che è un’inven­zione dell’uomo quando non aveva ancora raggiunto la civiltà e il progresso.

L’uomo che ha raggiunto il progres­so scientifico è caduto nella presunzione di poter bastare a se stesso per dar senso alla propria esistenza e crearsi la felicità. Dio e la religione non servivano più ed erano, an­zi, un ostacolo alla realizzazione dell’uomo.

b. Non esiste la legge naturale

Questa è una seconda grave dichiara­zione di superbia a cui è giunto l’uomo e

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contro la quale continuamente prende po­sizione il Santo Padre.

Non si accetta che Dio sia il Creatore e abbia messo dentro la sua opera di amo­re una legge che noi creature siamo chia­mati a seguire per realizzare veramente la felicità sulla terra e non rovinare l’opera di Dio.

Non si accetta, ad esempio, che Dio abbia creato l’uomo “maschio e femmina” perché si uniscano nell’amore formando una carne sola che è indivisibile. Questa è la legge che Dio ha impresso nell’uomo; se la segue si realizza nel dono reciproco tra uomo e donna e diviene fonte di fecondità generando figli, frutto dell’amore e garan­zia di futuro per l’umanità.

Il dibattito che periodicamente si ac­cende anche in Italia spesso si pone contro la legge che Dio ha dato. Si diffonde il so­spetto che questa “legge naturale” sia con­tro la libertà dell’uomo il quale pretende di vivere rapporti affettivi e sessuali come crede, senza alcuna legge e, in questo mo­do, è convinto di trovare la vera felicità.

Il racconto del peccato originale nel li­bro della Genesi ci illumina e ci fa capire come quel peccato continui a diffondersi

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nel mondo e, purtroppo, sia presente nel­la nostra società e nella mentalità di tante persone.

Ci ritroviamo con lo stesso sospet­to contro Dio che il diavolo insinuò nella mente e nel cuore di Adamo ed Eva.

Si sospetta che Dio e la religione siano contro l’uomo e il suo progresso. Si sospet­ta che la legge di Dio mortifichi la libertà dell’uomo e per questo la si rifiuta e si ri­fiuta la voce della Chiesa che la sta ricor­dando per il bene della società.

L’uomo vuol essere padrone del suo bene e del suo male senza avere imposi­zioni da Dio e dalla sua Parola di luce e di amore.

Chi è onesto deve, però, riconoscere che ci ritroviamo anche con le conseguenze del peccato descritte dalla Sacra Scrittura:

a. Questa superbia sta spegnendo l’amore nel cuore dell’uomo.Nel progresso che l’uomo vuol portare

avanti come padrone assoluto si spengono l’amore e la compassione per i più deboli, dei quali si parla sempre meno perché gli Stati e i poteri economici più forti domina­no anche l’opinione pubblica.

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Nella pretesa di vivere la propria af­fettività e sessualità senza alcuna legge divina, si spegne l’amore autentico tra uo­mo e donna e per la generazione di nuovi figli.

b. Questa superbia rende l’uomo nudo.Forse non si vogliono aprire gli occhi

per riconoscere come questo atteggiamen­to diabolico di superbia, che mette Dio fuori della vita personale e sociale, avvili­sca la dignità delle persone che cedono a vizi sempre più pesanti.

Indebolisce, inoltre, i rapporti familia­ri e sociali generando sofferenze, spesso nascoste, perché non hanno una voce ab­bastanza forte per farsi udire.

5. La superbia: peccato personale

Mt 27,1­10:Venuto il mattino, tutti i sommi sacer-

doti e gli anziani del popolo tennero con-siglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e conse-gnarono al governatore Pilato.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e ripor-

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tò le trenta monete d’argento ai sommi sa-cerdoti e agli anziani dicendo: «Ho pecca-to, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!». Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.

Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: «Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue». E tenu-to consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi.

Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: E presero trenta de-nari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.

La superbia si manifesta nella vita so­ciale, ma si annida principalmente nella coscienza della persona quando questa cede alla tentazione del demonio. Esso è sempre in azione e mira in ogni occasione a rovinare quella splendida opera di Dio che siamo ognuno di noi.

Per approfondire ulteriormente i modi con cui la superbia può insinuarsi in noi e

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trascinarci al male, richiamiamo il brano e­van gelico che narra il tradimento di Giuda.

Facciamo questa scelta perché Giuda Iscariota cedette proprio alla tentazione della superbia. Fu questo peccato che lo rese il traditore di Gesù, lo portò a conse­gnare il Figlio di Dio alla morte in croce e poi a distruggere se stesso impiccandosi.

Egli cadde nelle due stesse forme di superbia di Adamo ed Eva e che, se siamo sinceri, ritroviamo in noi stessi.

Giuda era stato cercato personalmen­te da Gesù, come gli altri apostoli, e chia­mato con un gesto di amore privilegiato. Il Signore lo aveva accolto nella sua amicizia fino a lavargli i piedi nell’ultima cena e of­frigli la comunione con Lui, il suo Corpo e Sangue nell’eucaristia.

Si era fidato di lui scegliendolo tra co­loro che avrebbero avuto la missione di predicare il Vangelo della salvezza e fon­dare la Chiesa.

L’evangelista Luca, però, ricorda: “Al­lora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici” (Lc 22,3). Come i progenitori, cedette alla tentazio­ne di satana che è sempre la stessa: la ten­tazione della superbia. Come loro, peccò di superbia in due modi.

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a. Rifiutò il Figlio di Dio dalla propria vita

Gesù, che lo aveva scelto personal­mente per una missione grande, gli diven­ne un avversario da allontanare e combat­tere fino al tradimento.

In lui nacque un vero fastidio per l’amicizia nella quale il Signore lo aveva accolto. Non sopportava più la comunione che Gesù aveva creato nella sua ultima ce­na e l’abbandona per entrare in una solitu­dine fredda. S. Giovanni racconta: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). È la notte del peccatore che ha rifiutato l’amore tenero e gratuito di Dio per una durezza di cuore creata dalla ten­tazione della superbia.

In Giuda si fece strada anche il sospet­to contro la legge che Gesù proponeva ai suoi, la legge del Vangelo. Non si fidò della parola del Maestro e la sentì non come la via che conduce alla vera realizzazione del­la vita dell’uomo, ma al fallimento, sia per Gesù che per se stesso. Trovò alleati coloro che erano schiavi della sua stessa super­bia e per questo avevano combattuto Gesù lungo tutti gli anni del suo ministero. Si unì al loro complotto per distruggere Gesù e il suo Vangelo dalla faccia della terra.

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Con loro divenne alleato di satana che è omicida e mira a distruggere la vita e l’amo­re. Contribuì alla morte del Figlio di Dio.

La superbia aveva raffreddato il suo cuore, per cui non poteva resistere vici­no al S. Cuore di Gesù, che era ardente di amore per ogni uomo e nel quale ci sareb­be stato posto anche per Giuda, come per ogni peccatore.

Ritroviamo in Giuda gli stessi atteg­giamenti di Adamo ed Eva: il sospetto ver­so Dio e la sua legge, la volontà di allonta­narlo dalla loro vita, il cuore freddo senza amore e riconoscenza.

Forse può crearci qualche disagio inte­riore confrontarci con il peccato di Adamo ed Eva e di Giuda. Magari nella nostra vita la presenza della superbia è meno grave e drammatica ma la ritroviamo certamente.

Se non la riconosciamo, significa so­lo che non ne siamo coscienti ed essa può agire in modo ancor più subdolo e perico­loso perché non vi poniamo ostacolo.

Faccio appena qualche esempio:

– Ci capita di vivere l’incontro con Gesù nell’eucaristia con tiepidezza di cuo­re, con indifferenza, quasi come un’abi­

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tudine. In questa situazione, ricambiamo tutto l’Amore appassionato del S. Cuore di Gesù, che è presente nell’eucaristia, con un cuore freddo e distratto, quasi avessi­mo altro di più importante a cui attaccare i nostri affetti, sentimenti e interessi.

Da dove ci viene questa indifferenza, se non da un presuntuoso senso di autosuf­ficienza? Non riconosciamo più la verità di noi stessi, che è quella di poveri mendi­canti che cercano il pane della vita eterna, Gesù, che si fa cibo nostro pur di salvar­ci dalla morte. Siamo in preda all’illusio­ne presuntuosa di essere sazi lo stesso, di poterci arrangiare con le nostre forze per sostenere la nostra vita.

– Ci capita anche di soffermarci poco a fare un serio esame della nostra vita di fronte alla legge di Gesù che è il Vangelo; sentiamo, anzi, un certo fastidio a fermarci e fare una verifica della nostra vita. Insie­me, non avvertiamo la necessità di confes­sate i nostri peccati e invocare umilmen­te il suo perdono. Come Adamo ed Eva e come Giuda non prendiamo seriamente in considerazione la legge di Dio che Gesù ci ha rivelato nel suo Vangelo. Con presun­zione pensiamo di saper ugualmente qua­

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le sia il bene e il male da scegliere ogni giorno e di trovare la strada per essere fe­lici e realizzati.

Di fatto, senza un frequente confronto con la parola di Gesù ci lasciamo influen­zare dalla mentalità comune arrivando a comportamenti e scelte lontane dalla vo­lontà del Signore e da quello che egli chie­de ai suoi discepoli.

– Ognuno di noi ha ricevuto la sua vo­cazione e magari l’ha anche scelta o con il matrimonio o con la consacrazione. Possia­mo, però, trascurare questa vocazione non impegnando tutte le nostre energie e i nostri talenti per essa, ma disperdendoli in altri in­teressi e forme di realizzazione di noi stessi.

I progenitori, il figliol prodigo e Giuda rifiutarono la vocazione di Dio e andaro­no per una loro strada nella vita, pensan­do di trovare una migliore realizzazione di se stessi. Di fatto si avventurarono in una condizione di fallimento e di morte.

Noi non arriviamo al rifiuto della voca­zione, ma riempiamo la nostra vita di cose, affetti, interessi che contrastano con essa. Ci spinge a ciò l’impressione che la con­dizione di vita in cui ci pone la vocazio­ne non sia sufficiente per soddisfare pie­

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namente i nostri desideri e i talenti che ab­biamo ricevuto.

Se ci esaminiamo più a fondo, però, scopriamo che siamo sotto la tentazione della superbia. Essa ci fa sospettare della promessa di Gesù che ci ha chiamati alla sua sequela promettendoci che “avremo la vita e in abbondanza” (Gv 10,10).

Anche Giuda sospettò della promessa di Gesù e lo condannò scambiandolo per trenta denari.

b. Rifiutò il perdono di Gesù e distrusse se stesso

Quando Giuda vide Gesù condannato al tremendo supplizio della crocifissione e, forse, incontrò il suo sguardo, si rese conto a quale male lo aveva portato la tentazio­ne di satana e il suo peccato di superbia.

“Si aprirono i suoi occhi” come quelli di Adamo ed Eva dopo aver mangiato del frutto dell’albero del bene e del male. Vide la verità del suo agire.

Il Vangelo ci narra che si pentì e da­vanti ai sacerdoti, di cui si era fatto compli­ce, confessò il suo peccato: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”.

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Satana approfittò della debolezza del cuore, che si trovava nella desolazione, e vi insinuò ancora la tentazione della su­perbia, questa volta, però, in una seconda forma, più subdola della prima.

Vedendo lucidamente la gravità del suo peccato, in lui si fecero spazio il dub­bio e il sospetto. Dubitò dell’amore di Ge­sù verso di lui, dubitò di poter essere anco­ra accolto e perdonato dal Maestro mentre questi, per causa sua, andava verso la cro­cifissione.

Non accettò, con grande umiltà, di mettersi sotto lo sguardo di Gesù e scop­piare in lacrime di pentimento affidandosi solo alla sua misericordia. Così fece Pie­tro e fu perdonato e riaccolto pienamente nell’amicizia del Signore (Lc 22,61).

Preso da un orgoglio cieco, Giuda pre­ferì fuggire ancora una volta da Gesù e an­dare a nascondersi, come i primi uomini. Andò a nascondersi nel luogo e nel modo più tragico: nella morte.

Satana aveva portato a termine la sua opera di distruzione di un discepolo di Ge­sù fino alla morte disperata.

Anche questa seconda forma di su­perbia è facilmente presente in noi. Non

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è facile conoscerla perché è subdola e si camuffa dentro altri sentimenti che sem­brano il contrario della superbia. Può es­sere il sentimento della vergogna che ci fa sentire impresentabili o un senso di fallimento di noi stessi o la paura del giu­dizio degli altri o la rassegnazione per­ché non riusciamo a migliorare su certi difetti.

Ognuno di noi ha le sue debolezze e fragilità ed è bene impegnarsi per miglio­rarle. In esse, però, può insinuarsi la su­perbia che ci porta a vivere male tali debo­lezze chiudendoci in noi stessi.

Nel cammino spirituale è molto im­portante riconoscere queste manifestazio­ni della superbia perché non ci rovini.

A questa seconda forma di superbia sono esposti spesso i cristiani che si im­pegnano nella vita spirituale e le persone consacrate.

Quando constatano che, nonostante il loro impegno spirituale e la loro condizio­ne di consacrazione a Dio, si ritrovano a fare i conti con umilianti debolezze e infe­deltà, è facile che si insinui la tentazione dell’orgoglio.

Faccio, in proposito, qualche altro esempio:

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– Di fronte alla constatazione delle nostre debolezze e miserie che permango­no nel tempo, può crescere nella coscienza silenziosamente un rifiuto di noi stessi. Ci chiudiamo dentro un tormento dell’animo, a volte anche doloroso, che diventa co­me un carcere interiore. Diventa difficile l’apertura semplice a fiduciosa a Dio nel­la preghiera. Ugualmente diventa difficile aprirsi al confronto con il confessore o il padre spirituale per farsi aiutare.

– A volte cristiani anche impegna­ti spiritualmente fanno difficoltà ad acco­starsi al sacramento della Penitenza. Se si esaminano a fondo, riconoscono che li trattiene una profonda vergogna.

Essa non è causata da colpe gravi che non hanno commesso ma, piuttosto, dalla difficoltà a confessare, per l’ennesima vol­ta, le stesse debolezze che da anni ci si tra­scina dietro.

Questa vergogna è frutto della super­bia e ci spinge a dubitare sulla potenza dello Spirito Santo e sull’efficacia del sa­cramento per noi. Gli umili tornano a chie­dere perdono perché ne hanno bisogno confidando in Colui che ha insegnato a perdonare settanta volte sette.

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– La constatazione che non riuscia­mo a vincere certe miserie può ingenerare la rassegnazione a vivere nel compromes­so con alcune nostre debolezze e peccati sia morali che spirituali. Un po’ alla volta si crea l’abitudine interiore a giustificarsi senza più lottare per migliorare, confidan­do nell’aiuto dello Spirito di Gesù.

Questa forma di superbia è pericolo­sa, perché ci porta ad allontanarci da Ge­sù e dal suo perdono, presi da risentimen­to e delusione verso noi stessi e dal so­spetto che il Signore possa essere capace di liberarci.

Essa può portare, col tempo, a com­promessi e peccati anche più gravi, per­ché ci condanna ad essere soli, nascosti nella nostra miseria come Adamo ed Eva che non vollero incontrare Dio che li cer­cava, e come Giuda che evitò lo sguardo di Gesù che andava in croce per lui e per i suoi peccati.

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6. Contro la superbia: il dono dell’umiltà

Non possiamo lottare da soli contro la tentazione del diavolo che ci attira alla su­perbia; ne usciamo certamente sconfitti.

Per questo l’arma fondamentale è la preghiera che invoca il dono dell’umiltà. Solo lo Spirito Santo, infatti, può insegnar­ci l’umiltà ed aprirci gli occhi per vedere le insidiose radici della superbia che sono penetrate dentro di noi.

La Parola di Dio stessa ci suggerisce preghiere molto intense ed efficaci per chiedere di essere liberati dalla superbia ed entrare nell’umiltà. Ne ricordo alcune:

Dall’orgoglio salva il tuo servoperché su di me non abbia potere;allora sarò irreprensibile,sarò puro dal grande peccato. (Sal 18,14).

Ti ho manifestato il mio peccato,non ho tenuto nascosto il mio errore.Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato. (Sal 31,5)

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Davanti a te poni le nostre colpe,i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto. (Sal 89,8)

Se consideri le colpe, Signore,Signore, chi potrà sussistere?Ma presso di te è il perdono:e avremo il tuo timore.Io spero nel Signore. (Sal 129,3­5)

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III. l’avarIzIa

1. L’avarizia o la cupidigia

Dopo la superbia, nell’elenco dei vi­zi capitali viene nominata l’avarizia. Essa indica un desiderio che non è mai sazio di accumulare denaro e beni che si possono comprare con il denaro.

È una vera avidità, una fame insazia­bile di possedere a causa della quale il de­naro diviene lo scopo da raggiungere per sentirsi appagati. Tale appagamento, pe­rò, non è mai raggiunto perché non si è mai accumulato abbastanza.

La Sacra Scrittura definisce questo vi­zio anche con il termine “cupidigia”: essa indica un’attrattiva smodata verso i beni materiali che domina gli interessi e la vo­lontà dell’uomo e lo spinge a possederli ad ogni costo.

S. Pietro ne parla con espressioni pe­santi: “Han gli occhi pieni di disonesti de­sideri e sono insaziabili di peccato, ade­scano le anime instabili, hanno il cuo­re rotto alla cupidigia, figli di maledizio­

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ne!” (2Pt 2,14). Questo vizio ha la forza di “rompere” il cuore dell’uomo rendendolo insaziabile nel suo bisogno, devastando­lo con desideri disonesti per soddisfare i quali egli è pronto anche ad adescare chi è più debole.

La cupidigia torna nelle lettere de­gli apostoli come uno dei vizi da cui un battezzato deve guardarsi con decisione (Rom 1,29 Ef 5,3; 1Ts 2,5; 1Pt 2,3).

Dice il Qoelet: “Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto. Anche questo è vani­tà” (Qo 5,9).

L’avaro non ha misura nel procurarsi sempre più denaro, perché in questo tro­va gioia e stimolo nella vita. Gli costa un grosso sacrificio, invece, staccarsi anche da una piccola parte dei beni che ha ac­cumulato.

Il denaro diviene la sua vita, come il sangue che gli scorre nelle vene, e uno non vuol rinunciare neppure ad una goc­cia di sangue perché è come una goccia di vita.

Ha ragione il Qoelet nel dire che l’avaro “non trae profitto dalla ricchezza” perché neppure la gode per non diminui­

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re la quantità di denaro accumulato. Esso, infatti, non è più un mezzo utile per rag­giungere altri scopi, ma è lo scopo stesso di ogni suo sforzo.

Il vizio dell’avarizia non riguarda so­lo chi possiede grossi capitali e beni mate­riali, ma è un atteggiamento interiore che può annidarsi nel cuore di ognuno.

Un po’ di avidità di possedere di più soldi e cose, anche quando non ne abbia­mo bisogno, ce la ritroviamo tutti, spe­cialmente in un clima di consumismo che spinge a riempirsi la vita di cose superflue e ad avere sempre abbondanza di soldi per acquistarle.

2. L’avaro in una parabola di Gesù

Lc 12,15­24:Uno della folla gli disse: «Maestro, di’

a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costi-tuito giudice o mediatore sopra di voi?».

E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni».

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Disse poi una parabola: «La campa-gna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magaz-zini e ne costruirò di più grandi e vi racco-glierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, man-gia, bevi e datti alla gioia.

Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».

Gesù dedica una delle sue parabole a descrivere la condizione dell’avaro dal­la quale i suoi discepoli devono guardarsi con decisione: “Guardatevi e tenetevi lon­tani da ogni cupidigia”.

a. Il protagonista della parabola è un uomo che ha impegnato tutta la vita ad accumulare beni e, a causa di questa preoccupazione, non li ha mai goduti. Vive dentro una strana contraddizio­

ne: è ricco e non può godere della ricchez­za messa da parte perché altrimenti con­

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suma i beni che ha accumulato ed essi di­minuiscono.

La cupidigia impone all’uomo di pos­sedere sempre di più denaro, che investe comprando beni da porre da parte nel suo tesoro. Egli, però, non sa apprezzare que­sti beni per il valore che hanno in se stessi ma per quanto sono costati o possono va­lere in termini di denaro.

L’avaro chiude in una cassaforte an­che capolavori d’arte, perché ai suoi occhi valgono solo da un punto di vista econo­mico, come se fossero oggetti qualunque e non splendori dell’ingegno umano da contemplare e da offrire alla contempla­zione.

In questo modo stravolge il senso e il valore delle cose.

b. L’avarizia tiene l’uomo in uno stato continuo di tensione. Ha accumulato abbastanza beni, ma deve pensare ai magazzini da demolire e da ricostrui-re più grandi.Ancora non può concedersi quella pa­

ce per raggiungere la quale sta faticando da tutta la vita. Si trova all’ultima sera del­la sua vita senza essersi concesso tregua nel cercare di possedere di più.

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Dice il Qoelet: “Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire” (Qo 5,11).

Egli brucia tutti gli anni di vita senza goderli perché lo rode la cupidigia di ac­cumulare in vista di un futuro di tranquil­lità per il quale non si sente mai sicuro di aver messo da parte abbastanza.

Questo bisogno diventa, a lungo an­dare, un vero vizio, cioè un’abitudine ra­dicata di cui non sa fare a meno. Se non si impegna per guadagnare e fare nuovi affari la vita gli diventa vuota e senza in­centivi.

Quante persone, ricche ed economica­mente ben garantite, quando arrivano al­la condizione di non poter più produrre e guadagnare soldi sono prese da un senso di vuoto e di angoscia. Possiamo parlare di una vera crisi di astinenza causata dal vizio dell’avarizia che riempiva e dava stimoli alle loro giornate. Il bisogno di accumulare sempre di più era diventata una droga.

Nella parabola evangelica, il bilan­cio finale della vita dell’avaro è tremenda­mente amaro. In fondo ha sprecato la vita per il nulla perché ha trasformato in fine

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ciò che doveva essere mezzo per raggiun­gere la vera realizzazione di sé.

Ha cercato continuamente di arricchi­re per sé e nel momento della morte non può sfuggire alla verità. È quasi impietosa la parola di Dio: “Stolto, questa notte stes­sa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?”.

Tutto ciò che ha accumulato impe­gnando tempo e capacità ricevute da Dio svanisce completamente; non sarà più suo. Sarà di altri che magari sperpereranno tutto come se avesse poco valore: “Men­tre dice: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni», non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà” (Sir 11,19).

Il giudizio finale su di lui è: “Stolto”. Ha investito male le sue risorse trovandosi nudo di tutto al momento della verità.

c. Che cosa spinge l’uomo all’avari-zia e a sprecare l’esistenza restando schiavo di questo vizio?Ogni uomo sente il bisogno di riempi­

re un senso di vuoto che sta al fondo della propria esistenza. Cerca garanzie di fron­te a una profonda insicurezza e paura che gli nascono dall’incertezza del futuro, nel

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quale lo attende un evento che non può controllare, l’evento della propria morte.

L’avaro cerca di sopportare la preca­rietà dell’esistenza e la paura della morte riempiendosi il più possibile di denaro e beni che si possono toccare e contare. In essi trova un senso di sicurezza e un’assi­curazione per il domani. Più ne accumula e più aumenta il suo senso di potenza e sicurezza. Istintivamente si sente protetto dai beni che lo circondano e potente nel confronto con gli altri.

È guidato dall’obiettivo di arrivare al giorno in cui può permettersi di smettere la fatica di accumulare e dirsi: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia”.

Insegue il progetto di essersi creato, con la quantità di denaro e di cose messe da parte, una sicurezza tale che gli garan­tisca la vita “per molti anni” senza l’ango­scia di trovarsi nell’insicurezza e nella de­bolezza che dà la povertà.

d. Questo progetto, però, è la più gran-de illusione in cui l’uomo possa cadere. Il vizio dell’avarizia promette sicurez­

ze e garanzie sulla vita che sono eviden­temente false. Chiude, poi, l’uomo in un

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egoismo sempre più duro perché guarda agli altri solo come a potenziali rivali che possono privarlo di qualche bene di cui sente il bisogno.

Ma, come conseguenza peggiore, lo trascina nella menzogna più grave che è quella dell’idolatria. Essa rovina totalmen­te l’esistenza.

L’avaro, di fatto, affida la propria vi­ta al denaro e a cose materiali e ad esse chiede felicità e speranza per il futuro. Per questo si merita il duro giudizio che Ge­sù riserva al ricco della parabola: “Stol­to!”. Quel ricco è un insensato, un pazzo, perché ha completamente smarrito il buon senso e la più elementare saggezza.

“Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Questa è la verità che viene ottenebrata dall’avarizia.

Essa appare fin troppo evidente. Do­po aver faticato per accumulare la sicurez­za nel denaro e nelle cose, queste nel mo­mento decisivo abbandonano l’uomo.

Sono idoli deboli ed illusori perché, co­me dicono i salmi, “sono opera delle mani dell’uomo” (Sal 114,4; 134,15) e, per que­sto, non hanno nessuna forza per sostene­re la sua debolezza mortale. Anzi, lo tra­

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volgono nel loro nulla, come afferma sem­pre il salmo: “Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Sal 114,8).

Nella parabola Gesù ripropone la radi­cale alternativa che aveva indicato nel di­scorso della montagna: “Nessuno può ser­vire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’al­tro: non potete servire a Dio e a mammo­na” (Mt 6,24).

L’uomo è creatura che non possiede in sé la vita; inoltre, a causa del peccato, è segnato dalla fragilità mortale. Per que­sto non può bastare a se stesso e deve ap­poggiarsi a un padrone in cui cercare si­curezza.

Questa è la scelta radicale che non prevede compromessi: o si affida a Dio e alla sua Provvidenza senza affannarsi per il domani, o mette il possesso del denaro al centro del suo cuore e si affanna tutta la vita per accumularne il più possibile. O arricchisce davanti a Dio o accumula teso­ri per sé.

e. La gravità del vizio dell’avarizia giu-stifica anche l’insistenza particolare con cui Gesù invita i suoi discepoli ad

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estirparla dal loro cuore: “Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia”.Essa ha la forza di condurre l’uomo a

vivere tutta l’esistenza dentro un’illusione di sicurezza, che gli sarà smentita quando sarà troppo tardi; quando gli sarà richiesta l’anima, senza possibilità di proroghe, per­ché il tempo a lui concesso è terminato.

Inoltre, lo fa vivere nella più grave fal­sità perché il denaro, invece di mezzo, di­venta fine e senso della sua esistenza. Di­venta l’idolo che soppianta la confidenza in Dio nel cuore dell’uomo.

3. Il distacco dai beni: prima condizione per seguire Gesù

Mt 6,19­34:“Non accumulatevi tesori sulla terra,

dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scas-sinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.

La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio

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è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete ser-vire a Dio e a mammona.

Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non semina-no, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?

E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del cam-po: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?

Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si

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preoccupano i pagani; il Padre vostro cele-ste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiun-ta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudi-ni. A ciascun giorno basta la sua pena”.

Soffermiamoci ancora un po’ sul ri­chiamo pressante di Gesù rivolto ai di­scepoli a non diventare servi di mammò­na, presi dall’affanno di accumulare tesori sulla terra.

Fa riflettere l’ampio spazio che egli dedica all’argomento dell’uso dei beni materiali e della tentazione dell’avarizia nel discorso programmatico che costitui­sce la regola di vita per chi vuol essere suo discepolo e per la futura Chiesa.

Appare in modo evidente che il Mae­stro considera un caratteristica fondamen­tale, per chi vuol seguirlo, un certo modo di usare i soldi e le cose materiali che si distacca in modo deciso dai costumi di vi­ta dei pagani. È un segno distintivo che permette di riconoscere il discepolo del Vangelo.

Se ripercorriamo i Vangeli, troviamo molti passi in cui Gesù torna su questo ar­

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gomento. E le sue richieste sono sempre radicali, senza compromessi. Chiede di la­sciare tutto come condizione per seguir­lo e Pietro conferma che quella è stata la prima condizione per seguire il Maestro (Mt 4,18­22; 19,16­22.27.29).

Anche noi, quindi, dobbiamo prende­re sul serio questa condizione perché è il primo passo che ci permette di vivere co­me discepoli del Vangelo.

Lo hanno capito tutti i cristiani che, lun­go i secoli, si sono impegnati nella seque­la di Cristo. Lo ha capito s. Antonio abate, padre dei monaci, che iniziò la sua espe­rienza monastica ascoltando, durante una S. Messa, la parola di Gesù che dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).

Lo hanno capito S. Francesco e S. Do­menico, fondatori degli ordini mendicanti e gli altri fondatori dei vari ordini e istituti di vita consacrata.

La povertà è diventata uno dei tre con­sigli evangelici che abbraccia, con un vo­to, chi si sente chiamato a consacrare tutta la vita a Gesù e alla Chiesa.

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Non c’è alternativa su questo punto perché l’avarizia – o cupidigia di possede­re soldi e beni – attanaglia il cuore dell’uo­mo e diventa il suo tesoro e il suo padro­ne. Finché non c’è un distacco del cuore da tale dipendenza non c’è spazio per un altro tesoro che è “il Regno di Dio e la sua giustizia”.

La paura di non avere per il domani cibo, vestito e altre sicurezze porta all’af­fanno di accumulare e rende torbido il nostro cuore. Di conseguenza, come dice Gesù, si ammala anche il nostro occhio e ci porta a guadare i soldi e i beni con avidità e a cercarli invece di essere libe­ri per dedicare tutta la vita ai beni del Vangelo.

4. L’avarizia “indolore” in epoca di consumismo

Può essere che non avvertiamo in noi la tentazione all’avarizia o alla cupidigia verso il denaro e le cose che con esso si acquistano. Possiamo avere l’impressio­ne che tale vizio riguardi chi è ricco e, per questo, è attratto dalla tentazione di accu­mulare sempre di più.

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Probabilmente questa percezione non dipende da un reale distacco dall’attac­camento ai beni materiali e alla sicurezza che essi fanno percepire. Se vivessimo, in­fatti, tale distacco, esso dovrebbe comun­que farci percepire una certa sofferenza.

È facile, piuttosto, che siamo influen­zati dal clima diffuso di consumismo che caratterizza la nostra società. È normale oggi essere garantiti non solo nelle cose che ci sono necessarie per vivere ma esse­re abituati anche ad avere il superfluo co­me possibilità legittima di cui godere.

Spontaneamente compriamo tante co­se, le consumiamo e le gettiamo via senza farci neppure caso; tanto, abbiamo le pos­sibilità economiche di acquistarne altre.

Man mano che escono nuovi prodotti e nuovi strumenti, anche noi li acquistia­mo con delle motivazioni che sembrano valide e nemmeno ci chiediamo più se sia­no realmente necessari. Siamo influenzati dalla logica che domina la pubblicità e la mentalità corrente.

In questo clima l’avarizia e l’attacca­mento eccessivo ai beni materiali possono facilmente insinuarsi in noi in modo “in­dolore” senza avere la percezione sensi­

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bile che stiamo sottomettendoci ad una schiavitù.

Fatichiamo a fare quel lucido esame di coscienza che Gesù chiede ai suoi discepo­li: “Non accumulatevi tesori sulla terra, do­ve tignola e ruggine consumano... accumu­latevi invece tesori nel cielo... dov’è il tuo tesoro a cui è attaccato il vostro cuore?”.

Il tema del distacco dai beni materiali e della povertà non è molto ricorrente nel­la predicazione, nella catechesi, nelle pro­poste formative. Quella radicalità che Ge­sù predica con chiarezza nel Vangelo, con delle esigenze che non ammettono com­promessi per chi vuol iniziare a seguirlo, è lasciata un po’ sotto silenzio.

Probabilmente, anche noi sorvoliamo su certe pagine del Vangelo che invitano a tale radicalità. Se ne cerchiamo il motivo, riconosciamo che esse contengono propo­ste del Signore che ci lasciano un senso di fastidio e generano in noi una specie di re­sistenza interiore, se le confrontiamo con il nostro attuale tenore di vita.

Questi sintomi possono indicare che siamo scivolati in un compromesso senza inquietudini e che evitiamo di disturbare confrontandoci con le richieste radicali di Gesù.

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Questo stato di vita può essere defi­nito “avarizia indolore”. Esso è pericoloso per la coerenza evangelica della nostra vi­ta perché non ci è facile riconoscerlo e non siamo così motivati a combatterlo.

5. Le conseguenze dell’avarizia

S. Paolo ammonisce il discepolo Timo­teo: “L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali” (1Tim 6,10).

È un ammonimento che va meditato seriamente anche da noi che, come abbia­mo visto, corriamo il rischio di un tranquil­lo attaccamento a un benessere materiale.

Esso, infatti, porta certamente con sé delle conseguenze che, in modo altrettan­to indolore, possono snaturare la qualità della nostra vita cristiana.

Accenno ad alcune.

– Un allentamento generale della vo-lontà.

Essa, un po’ alla volta, si adatta al com­promesso e non trova più la motivazione per affrontare lo sforzo, anche sofferto, per vivere una maggior coerenza con il Van­gelo. Questo sforzo della volontà è chia­

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mato “ascetica”, un tema che, a differenza del passato, manca spesso nella predica­zione e nella catechesi.

– Un certo impigrimento nella pre-ghiera.

Conserviamo una fedeltà materiale ai tempi di preghiera e questo ci tranquillizza. Cala, però, il fervore, il desiderio per una preghiera che sia più prolungata ed inten­sa. Può essere, questo, il segno che il cuore è meno orientato alla ricerca “del Regno di Dio e della sua giustizia” perché ospita, al­meno in comproprietà, altri tesori.

– Un certo inutile sperpero di denaro.Acquistiamo cose che sono di fatto su­

perflue ma che ci concediamo per un senso di piacere che creano in noi. Questi acqui­sti, magari, diventano più frequenti quan­do abbiamo bisogno di riempire qualche vuoto o insoddisfazione che si è creata dentro di noi. In queste occasioni cediamo alla cupidigia che ci attira verso i soldi e le cose.

– Una minore sensibilità verso i poveri.Facciamo, anche, qualche gesto di

elemosina ma sulla spinta di uno slancio

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emotivo o per sentirci a posto in coscienza. Però non ci facciamo più di tanto inquieta­re dai poveri che abbiamo vicini e, più an­cora, da quelli che sono lontani. Perdiamo la sensibilità per una solidarietà più impe­gnativa che ci porterebbe a turbare il be­nessere in cui viviamo.

6. Per smascherare e combattere l’avarizia

L’avarizia, come tutti i vizi capitali, per essere contrastata va prima smasche­rata. Questo è particolarmente vero in una società dei consumi che porta facilmente ad essere schiavi di un’avarizia indolore.

Tre attenzioni, tra altre, possono far­ci riconoscere quando stiamo cedendo a questo vizio e indicarci il modo per supe­rarlo.

– Convertire i nostri gusti meditando la Parola del Vangelo e pregando lo Spirito Santo.

Il clima consumistico rovina il nostro gusto interiore. Si sbiadisce il desiderio spirituale di vivere il Vangelo nella sua ra­dicalità. Calano un interesse e una convin­

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zione per mettere in discussione il benes­sere e impegnarci in un distacco dai soldi e dai beni.

È necessario convertire il gusto, per avere in noi i desideri propri di chi è disce­polo di Gesù. Si tratta di una guarigione interiore che non realizziamo con le nostre forze.

La meditazione costante delle pagi­ne del Vangelo rende familiari in noi le richieste radicali di Gesù e crea il deside­rio di seguirle. L’invocazione allo Spirito Santo ottiene la grazia per rafforzare la volontà.

– Allenare la volontà con la scelta con creta di rinuncia e distacco da qualche be ne.

La volontà è una grande energia che abbiamo ma se non è esercitata diviene sempre più debole. Se siamo adagiati nel compromesso è necessario un serio allena­mento della volontà con impegni concreti di rinuncia.

– Distribuire un po’ della nostra ric-chezza ai poveri.

Essa non va considerata come proprie­tà nostra ma come comproprietà con tutti

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i fratelli e le sorelle. Anzi, è una compro­prietà con Gesù, che ci ha detto: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”.

Condividere il nostro benessere libera dall’avarizia e converte alla carità, che ci permette di incontrare Cristo nei poveri.

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IndIce

Introduzione ................................................ 5

I. i vizi capitali: illUSione Di Felicità .... 8 “Vedo il bene e faccio il male”:

la contraddizione che vive Paolo La vita del battezzato

è una lotta contro le passioni Le passioni principali: i vizi capitali

II. la SUperbia .......................................... 19 La gravità del vizio di superbia Gesù contro la superbia dei farisei La superbia secondo

la Parola di Dio: Gen 3,1-21 La superbia:

peccato sociale contemporaneo La superbia: peccato personale Contro la superbia: il dono dell’umiltà

III. l’avarizia ............................................. 57 L’avaro in una parabola di Gesù Il distacco dai beni:

prima condizione per seguire Gesù L’avarizia “indolore”

in epoca di consumismo Le conseguenze dell’avarizia Per smascherare e combattere l’avarizia