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collana
magistero del vescovo8.
4,00 Euro
Il tema deI vIzI capItalI ha una lunga tradIzIone nella dottrIna morale ed ascetIca crIstIana e In questI ultImI annI sta suscItando un rInnovato Interesse. anche Il crIstIano subIsce facIlmente Il fascIno IllusorIo del consumIsmo, che InvIta a soddIsfare I vIzI per un facIle appagamento deI sensI... Il sI-gnore chIede a chI vuol essere suo dIscepolo Il coraggIo dI taglIare con queste attrattIve al male, per seguIre Il suo esempIo. e la rIchIesta del maestro non ammette mezze mIsure, perché sono In gIoco la realIzzazIone o Il fallImento eterno della vIta.
collana magistero del vescovo
1 - Il vizio e la virtù nella vita cristiana
2 - Il pane disceso dal cielo
3 - “Date e vi sarà dato”
4 - Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo
5 - “Ho visto il Signore!”
6 - Adoratori e Missionari. I anno - Adoratori
7 - Adoratori e Missionari. II anno - Missionari
8 - I vizi capitali - Superbia e avarizia
i vizi capitali Un’illusione
di libertà
+ andrea BrUno mazzocato vescovo
sUperBia e avarizia
collana
magistero del vescovo8.
i vizi capitali Un’illusione
di libertà
+ andrea BrUno mazzocato vescovo
sUperBia e avarizia
AUTORE: Andrea Bruno Mazzocato, vescovo
TITOLO: I vizi capitali - Superbia e Avarizia
COLLANA: Magistero del Vescovo - 8
FORMATO: 13 x 21 cm
PAGINE: 80
ISBN: 978-88-95262-07-9
In copertina: Girolamo Romano
Avarizia
affresco, 1531-32, Castello del Buonconsiglio - TN
© 2008 Editrice San Liberale
Opera San Pio X - Diocesi di Treviso
Via Longhin 7 - 31100 Treviso
Telefono 0422 576850 - Fax 0422 576992
E-mail: edit.sanliberale@diocesitv. it
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1. Ne ricordo alcune: AA. VV., I sette vizi capita-li, Raffaello Cortina Editore, 2004 (in sette volumetti); Galimberti U., I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2005; Savater, F., I sette pecca-ti capitali, Mondadori, 2007; DaG teSSore, I vizi capitali, Città Nuova, 2007; ravaSi G., Le porte del peccato, Mondadori, 2007.
IntroduzIone
Il tema dei vizi capitali ha una lunga tradizione nella dottrina morale ed ascetica cristiana e in questi ultimi anni sta susci tando un rinnovato interesse, come testimoniano varie pubblicazioni sull’argomento 1.
Può sorprendere un simile interesse, perché la società dei consumi sembra far leva proprio sui vizi capitali per espandere il proprio mercato. Pensiamo all’avarizia, alla lussuria o alla gola. L’orientamento diffuso non è quello di combatterli come modi negativi di vivere. Sono considerati, piuttosto, delle tendenze da assecondare per rendere l’esistenza più piacevole e ricca di benessere.
Probabilmente, però, si sta facendo stra da la constatazione che seguire i vizi of fre un’immediata soddisfazione ma
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la scia, poi, la bocca amara e un senso di vuo to dentro la persona.
Sappiamo che nella storia dell’umanità grandi civiltà e grandi imperi sono andati in sfacelo non per la forza dei nemici esterni ma per una progressiva debolezza interna dei propri abitanti. Il benessere materiale ha scatenato i vizi portando le persone a perdere il loro vigore morale e civile. La dissolutezza dei cittadini è diventata dissoluzione della società.
Può essere questo il destino anche della nostra società del progresso e del benessere? Il timore c’è e motiva il ritorno di attenzione al tema dei vizi capitali e al rischio che queste attrattive negative rovinino la persona e la società
Anche il cristiano subisce facilmente il fascino illusorio del consumismo che invita a soddisfare i vizi per un facile appagamento dei sensi. Per lottare contro tali lusinghe è utile aver presente l’elenco dei sette vizi capitali quando facciamo l’esame di coscienza.
Da essi si parte per obbedire all’invito pressante col quale Gesù iniziò la sua predicazione: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).
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Non c’è dubbio che il Signore chiede a chi vuol essere suo discepolo il coraggio di tagliare con queste attrattive al male per seguire il suo esempio.
La richiesta del Maestro, per altro, non ammette mezze misure perché è in gioco la realizzazione o il fallimento eterno della vita: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,1314).
Le riflessioni che seguiranno sono nate come catechesi quaresimali e non hanno la pretesa di dare approfondimenti esaustivi di carattere teologico e culturale su ciascuno dei vizi capitali.
Partendo da brani della parola di Dio, si accontentano di offrire delle tracce per la meditazione personale e per una verifica più concreta sulla propria condotta cristiana.
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I. I vIzI capItalI:
IllusIone dI felIcItà
Rom 7,1425:Sappiamo infatti che la legge è spiri-
tuale, mentre io sono di carne, venduto co-me schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io fac-cio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.
Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desi-derio del bene, ma non la capacità di at-tuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.
Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è ac-canto a me. Infatti acconsento nel mio in-timo alla legge di Dio, ma nelle mie mem-bra vedo un’altra legge, che muove guer-ra alla legge della mia mente e mi rende
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schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra.
Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.
Prima di prendere in considerazione ciascuno dei vizi capitali, ricordo quale sia la condizione nella quale viviamo ogni giorno dopo aver ricevuto il battesimo.
È una situazione di lotta interiore tra libertà e schiavitù, di lotta contro dei padroni che tendono a sottomettere a sé i nostri pensieri, desideri e volontà. I padroni sono appunto i vizi.
Nel brano della Lettera ai Romani riportato, S. Paolo descrive, senza vergogne e con molto realismo, questo scontro che sente e, in parte, subisce dentro di sé.
“Vedo il bene e faccio il male”: la contraddizione che vive Paolo
Quotidianamente l’apostolo si trova coinvolto dentro una lotta molto dura
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e non teme di confessare di uscirne spesso sconfitto perché la sua volontà cede: “Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”.
Egli, da vecchio fariseo, sa bene quale sia la legge di Dio e, se usa bene la sua mente, si rende anche conto che quella legge gli indica la strada del vero bene e, quindi, dell’autentica felicità.
Nel corpo, però, ritrova dei bisogni e delle attrattive che ubbidiscono ad un’altra legge. Essa, attraverso gli istinti del corpo, domina la volontà di Paolo e lo porta a fare il male contro la legge di Dio: è la legge del peccato.
L’apostolo vorrebbe rifiutarla; essa, però, è radicata profondamente dentro di lui e spesso ha la meglio sulla sua libertà.
In questo modo egli si sente come uno schiavo perché desidera il bene e lo vede, ma la sua volontà cede al male che non vuole perché porta alla rovina della sua persona, del suo rapporto con Dio e con gli altri.
Paolo conclude la sua confessione con un grido di sofferenza che, insieme, è anche una preghiera di speranza: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a
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Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”.
Egli sa ormai per esperienza che se fa conto solo sulle forze della sua mente e della sua volontà rimarrà sempre sconfitto dalla legge del peccato. Non vede via di uscita e per questo riconosce di essere uno condannato alla sventura, perché è schiavo dentro un corpo che lo trascina verso il male, il fallimento e la morte.
Da quando, però, ha incontrato Gesù ha incontrato anche la speranza. Dio, infatti, gli ha già dato prova di poter e voler liberarlo per mezzo di Gesù Cristo.
Dove non riescono le sue capacità, riesce la grazia di Cristo e la potenza del suo Santo Spirito che porta nel battezzato la legge dell’obbedienza a Dio e della carità che contrasta e sconfigge la legge del peccato (cfr. Rom 8).
La vita del battezzato è una lotta contro le passioni
Nell’esperienza di Paolo, descritta in modo tanto sincero, non facciamo fatica a riconoscere anche la nostra quotidiana esperienza. Se abbiamo maturato una co
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scienza, appena discreta, di ciò che avviene dentro di noi, non possiamo che confessare come l’apostolo: “Vedo il bene e faccio il male”.
Conosciamo bene anche noi lo scontro tra la legge di Dio e la legge del peccato che tanto faceva soffrire l’apostolo. La sua sofferenza nasceva dalla constatazione che era incapace di decidere in modo pienamente libero.
Leggendo le sue lettere, capiamo che la più profonda aspirazione di Paolo era quella di essere un uomo libero. Questo era il titolo più alto di dignità a cui teneva e, proprio nell’incontro con Gesù, aveva trovato la vera libertà: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” (Gal 5,1).
Per lui era un’umiliante sofferenza dover, invece, scrivere ai Romani: “Io sono di carne, venduto come schiavo del peccato”.
Quella che Paolo descrive, partendo dalla sua esperienza personale, è la condizione in cui si trova il battezzato. È la nostra condizione reale di vita della quale è importante essere sinceramente coscienti.
Con il Battesimo Gesù ci ha introdotti ad una comunione personale con Lui più profonda e vitale di quella che possiamo
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avere anche con la persona a cui siamo più legati. Egli ci ha conquistati ed è diventato il nostro Signore. Ha posto in noi il sigillo della sua proprietà, lo Spirito Santo.
Lo Spirito è il dono che Gesù riserva ad ogni uomo che crede in Lui e si unisce a Lui nel battesimo.
Grazie ai doni dello Spirito Santo, noi conosciamo anche una legge nuova, quella che ha guidato Gesù stesso nella sua vita umana. Essa è sintetizzata in un comandamento solo, “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13,24): è la legge dell’Amore che nelle pagine del Vangelo è descritta nei suoi vari aspetti.
Questa legge nuova, però, si scontra in noi con quella che guida invece l’uomo peccatore. Con il battesimo Gesù ci dona lo Spirito Santo che ci libera dalla legge del peccato, ma la lotta per una completa liberazione dura tutta la vita.
Questo è il motivo per cui Paolo descrive la vita cristiana anche come un combattimento. Agli Efesini scrive: “Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6,11).
Le insidie del diavolo non cessano mai e cercano ogni giorno di trascinarci ancora
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dentro la legge del peccato. Possiamo riconoscerle facendo attenzione alle “passioni”, che sono come delle attrattive al male che si agitano in noi.
Sempre nella Lettera agli Efesini le passioni sono dette “ingannatrici” (Ef 4,22) e in questo sta la loro pericolosità.
Esse attirano i pensieri e i desideri dell’uomo dandogli la sensazione di trovare felicità. Di fatto, però, sono solo un’illusione di felicità perché portano l’uomo nuovamente dentro il peccato e la rovina di se stesso.
Sono ingannatrici perché vengono dal maligno che è per sua natura “menzognero e padre della menzogna (Gv 8,44).
Il battezzato, fino alla morte e all’incontro finale con Gesù risorto, ha come suo impegno principale quello di resistere alle passioni che ci sono appiccicate addosso perché, come dice S. Giacomo, “combattono nelle nostre membra” (Gc 4,1).
Questa è la strada per liberarsi, progressivamente, dell’uomo vecchio “che si corrompe dentro le passioni ingannatrici” (Ef 4,22) e far crescere sempre più in noi un “uomo nuovo” che assomiglia a Gesù perché è capace di vivere secondo la sua legge, la legge dell’Amore.
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Le passioni principali: i vizi capitali
Tra le passioni che il cristiano sente in sé e che lo attirano verso la legge del peccato, allontanandolo dalla legge del Vangelo, ce ne sono alcune che con più forza riescono ad influenzare i pensieri e la volontà. Esse sono chiamate “vizi capitali”.
Quanti di noi hanno studiato nell’infanzia il Catechismo di S. Pio X, ricordano l’elenco dei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia.
Il Catechismo raccoglieva una lunga tradizione che aveva dato sempre particolare rilievo a questi vizi come cause principali di peccato e di rovina dell’uomo.
I primi a riconoscerli e a descriverli sono stati i monaci del deserto. Essi vivevano molto tempo nella solitudine, in una vita sobria e in preghiera e questa era la condizione per individuare una per una queste passioni che sono i vizi capitali e per sentire tutta la loro attrattiva.
Già nel IV secolo Evagrio Pontico ha dedicato alcuni dei suoi scritti ai sette o otto “pensieri malvagi” che disturbano il monaco e contro i quali è necessario lottare. La sua dottrina è stata recepita dai grandi
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maestri di spiritualità tra i quali possiamo ricordare Giovanni Cassiano, S. Gregorio Magno e S. Tommaso d’Aquino.
L’elenco dei vizi capitali è entrato poi nel catechismo. Il grande Catechismo di Trento li elenca e spiega anche perché sono detti “capitali”: “Questi vizi si chiamano capitali, perché sono la sorgente e la cagione di molti altri vizi e peccati” (Cate-chismo Maggiore, Parte quinta).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II ripropone la stessa spiegazione (n. 186566).
Il fatto che l’elenco dei vizi capitali sia entrato nel catechismo che veniva insegnato a tutti i cristiani, fin dall’infanzia, fa capire che per ogni cristiano – e non solo per i monaci – è fondamentale saper riconoscere queste passioni negative per combatterle.
Prima di tutto è decisivo riconoscerle e non restare in una confusione interiore di bisogni e stati d’animo. Molte persone non si accorgono neppure che certi loro sentimenti, bisogni e reazioni interiori sono influenzate da uno dei vizi capitali.
In questo modo si lasciano trascinare a comportamenti e scelte negative senza
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essere ben coscienti che c’è un nemico che li sta dominando e rovinando. Se ne renderanno conto più avanti perché, purtroppo, i vizi capitali sono implacabili e rovinano la persona, le sue doti, il suo corpo, i rapporti con gli altri.
Per evitare tali conseguenze è fondamentale conoscere se stessi con molta sincerità anche in quei vizi a cui siamo più esposti. Alcuni dei sette vizi, infatti, hanno maggiore attrattiva in noi.
Una volta chiamati per nome, i vizi vanno combattuti. Si tratta di una vera e propria lotta interiore per la quale S. Paolo, come abbiamo già detto, invita i cristiani a “mettersi l’armatura di Dio”; a vestirsi, cioè, come soldati che vanno in battaglia.
Ci sono delle vere e proprie strategie per opporsi alle attrattive dei vizi e degli aiuti importanti ai quali ricorrere. Altrimenti – e quante volte dobbiamo riconoscerlo – usciamo sconfitti dalla gola, dall’invidia, dall’ira. Cadiamo, di conseguenza, in scelte e comportamenti che rovinano la nostra dignità di battezzati, il rapporto con Dio e i rapporti con i fratelli.
È sicuramente da respingere quella mentalità corrente, a cui già ho accenna
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to, che è propensa a non dare importanza a questi vizi se non addirittura a giustificarli come legittimi bisogni dell’uomo, nel seguire i quali non c’è nulla di male. Non si vuol riconoscere quanto seguirli porti ognuno di noi a conseguenze negative per sé e per gli altri.
Le meditazioni che seguono vogliono offrire un aiuto sia per smascherare in noi la presenza e l’influenza di ognuno dei vizi capitali, sia per sapere come contrastarli in modo che non ci condannino ad una umiliante schiavitù.
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II. la superbIa
1. La gravità del vizio di superbia
L’elenco dei vizi capitali si apre con la superbia. Questo vizio è chiamato anche con altri termini: vanagloria, orgoglio, presunzione, arroganza. Essi esprimono comunque un identico atteggiamento e, cioè, la tendenza dell’uomo a porsi contro Dio e contro gli altri uomini.
Gli autori spirituali hanno posto la superbia sempre al primo posto nell’elenco dei vizi capitali. Si tratta di una scelta precisa perché è stata, a ragione, considerata il più grave dei peccati; anzi, la madre di tutti gli altri peccati.
Gregorio Magno non pone neppure la superbia nell’elenco dei vizi capitali perché la considera “la regina di vizi”. Tommaso d’Aquino, raccogliendo la tradizione patristica, afferma che la superbia è il più grave dei peccati perché “negli altri peccati l’uomo si allontana da Dio o per ignoranza o per fragilità o per il desiderio di altri beni; ma nella superbia uno abbandona
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Dio proprio perché si rifiuta di sottomettersi alle sue disposizioni” (Summa Teologi-ca, IIII, q. 162, a. 6).
Questa tradizione spirituale cristiana ha fatto proprio l’insegnamento della Sacra Scrittura che riserva alla superbia un’attenzione tutta particolare per la sua gravità e pericolosità
Essa sta nel fatto che l’uomo, schiavo della superbia, diventa duro di mente e di cuore e si contrappone a Dio: “Principio della superbia umana è allontanarsi dal Signore, tenere il proprio cuore lontano da chi l’ha creato” (Sir 10,12).
Sorprende non poco l’atteggiamento di Dio che è sempre pronto a piegarsi con misericordia verso coloro che peccano per fragilità e, pentiti, invocano di essere guariti; assume, invece, una posizione dura contro i superbi.
Con un uomo presuntuoso anche la misericordia di Dio resta impotente, perché egli non conosce il pentimento per il suo peccato di rifiuto di Dio.
Nel Magnificat, splendida espressione della spiritualità dei “poveri in spirito”, Maria afferma: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei
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pensieri del loro cuore e ha innalzato gli umili (Lc 1,51).
Le fanno eco Pietro e Giacomo con u na forte dichiarazione: “Dio resiste ai su per bi, ma dà grazia agli umili (1Pt 5,5; Gc 4,6).
2. Gesù contro la superbia dei farisei
L’atteggiamento di Dio contro i superbi è fatto proprio da Gesù. Egli si oppose ad un’unica categoria di persone: gli scribi e i farisei. Ad essi si oppose con uno scontro durissimo che non avrà alcuna possibilità di riconciliazione ma che lo porterà alla condanna a morte per crocifissione.
Leggendo il Vangelo non può non impressionare questo modo di agire del Signore. Egli si lasciò avvicinare anche dai peccatori più rovinati dal male e mostrò verso di loro sempre e solo misericordia. Il primo che portò con sé in paradiso fu il brigante crocifisso accanto a lui, che aveva rovinato tutta la sua vita andando contro ogni legge.
Contro i capi religiosi del tempo, invece, ebbe solo parole dure di giudizio e di condanna: egli era il Dio che “resiste ai superbi”.
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Resiste al fariseo che ha l’ardire di andare al tempio apparentemente per pregare ma di fatto per portare una sfida, neanche tanto camuffata, a Dio. Si pone davanti a Lui con la pretesa di essersi comportato in modo perfetto con le sue sole forze e di avere, quindi, il diritto dell’elogio da parte di Dio.
Questa durezza di cuore che ha verso il suo Signore risuona anche nel giudizio sprezzante che rivolge al povero pubblicano che in ginocchio si batteva il petto per le proprie miserie (Lc 18,914).
Dall’alto della loro superbia i farisei giudicavano gli uomini e, peggio ancora, giudicavano Gesù e la sua misericordia.
Questo è quel “peccato contro lo Spirito Santo” di fronte al quale anche la misericordia del Signore deve arrendersi: “chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna” (Mc 3,29).
Non c’è perdono per i farisei presuntosi perché bestemmiamo l’amore di Dio che si rivela in Gesù e non conoscono pentimento per questo peccato.
La gravità del peccato dei farisei sta nella menzogna. Gesù li definisce ripetu
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tamente: “sepolcri imbiancati” (Mt 23,27). Esternamente si presentano come per sone per bene, osservanti della legge, degne di rispetto. Il loro cuore, però, è corroso dalla menzogna. Sono falsi nei sentimenti verso i loro simili perché giudicano tutti e si sentono migliori degli altri: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Era la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio.
L’estrema menzogna è contro Dio, perché presumono di poter stare di fronte a Lui senza aver bisogno di Lui. Dimenticano che hanno tutto da Lui e che, senza la sua misericordia infinita, non esisterebbero.
Non c’è possibilità di perdono per i superbi perché partecipano dell’orgoglio menzognero del loro padre, il diavolo: “Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli [...] quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44).
Partecipano dello stesso peccato, senza remissione, di satana che rifiutò di essere creatura dipendente dall’amore infinito e misericordioso di Dio. La superbia lo
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portò alla menzogna di pensare di essere sufficiente a se stesso.
3. La superbia secondo la Parola di Dio: Gen 3,1-21
Gen 3,17:Il serpente era la più astuta di tutte le
bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpen-te: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’al-bero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete».
Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quan-do voi ne mangiaste, si aprirebbero i vo-stri occhi e diventereste come Dio, cono-scendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acqui-stare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si ac-
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corsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Poi udirono il Signore Dio che passeg-giava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Si-gnore Dio, in mezzo agli alberi del giardi-no. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?».
Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nu-do, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse man-giato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse al-la donna: «Che hai fatto?». Rispose la don-na: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpen-te: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu male-detto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre cammi-nerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: que-sta ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
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Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore par-torirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».
All’uomo disse: «Poiché hai ascol-tato la voce di tua moglie e hai mangia-to dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in pol-vere tornerai!».
L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì”.
Quella diabolica menzogna che è la superbia è entrata nel cuore dell’uomo e in mezzo all’umanità fin dall’inizio della storia umana. Appena Dio ha concluso la sua opera “molto buona” della creazione, essa viene avvelenata dal peccato più grave: dal vizio e peccato della superbia.
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La realtà entro la quale viviamo viene dal nulla o, meglio, dall’Amore onnipotente e totalmente gratuito di Dio che sa sprigionare dal nulla la bellezza delle crea ture.
Lo scopo della creazione è quello di rendere gloria a Dio, alla sua bellezza, onnipotenza e amore. È come uno splendido movimento di gioia e di vita che parte dal cuore di Dio che dona la vita alle creature perché gliela restituiscano con la lode e la riconoscenza.
S. Francesco, nel suo Cantico delle crea ture, ha espresso con una poesia immortale questo movimento che parte da Dio e a Lui ritorna.
La più grande opera del Creatore è stato l’uomo libero, la creatura fatta a sua immagine. Proprio l’uomo ha tragicamente rovinato se stesso e tutto il creato con un peccato contro Colui che lo aveva chiamato ad un dialogo di amore.
Il peccato che l’uomo commise alle origini della sua esistenza – per questo è detto “originale” – è un atto di superbia che rivolse in piena libertà contro Dio.
Così rispose al suo Signore e fece uso malvagio di quel sublime dono della liber
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tà che doveva servirgli per vivere un dialogo di alleanza con il suo Creatore e Padre.
Il racconto della Genesi descrive il peccato di superbia nei suoi passaggi e merita attenzione perché è una descrizione che resta attuale anche per noi, che siamo soggetti al vizio della superbia.
a. Dio dona all’uomo la sua legge perché conosca la strada per vivere in pienezza.
Dio aveva dotato gli animali dell’istinto ripetitivo; era la legge che sicuramente le guidava a vivere secondo lo scopo per cui erano stati creati.
L’uomo era radicalmente diverso perché aveva ricevuto il dono della libertà. Grazie ad essa era in grado di deciderete e determinare la realizzazione della propria vita.
Alla libertà dell’uomo Dio aveva consegnato la sua legge, altro grande dono della sua bontà. Nella legge divina, infatti, era indicata con chiarezza la via che l’uomo doveva seguire per realizzare la vita ricevuta.
Questo è il comandamento di Dio: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardi
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no, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2,16).
Egli consegna all’uomo tutto il creato perché abbia il potere di governarlo. Ma non era in potere dell’uomo la conoscenza del bene e del male. Era una conoscenza di Dio.
In altre parole, il comandamento divino chiede all’uomo di accogliere la sua condizione di creatura nata dall’amore fecondo di Dio. Come creatura non possiede nulla in proprio; con le sue sole forze egli resta un nulla. Tutto ha ricevuto: la vita, l’essere anima e corpo, il reciproco completarsi in maschio e femmina. Da Dio ha ricevuto anche il senso e lo scopo della vita e la legge che indica il bene da seguire per raggiungere la vera felicità.
Con il suo comando Dio chiede all’uomo l’umiltà di riconoscersi creatura che accoglie il progetto dall’Amore infinito di Dio e vi obbedisce con riconoscenza.
b. La tentazione
Tra le creature di Dio c’erano esseri personali e spirituali che la Sacra Scrittura chiama angeli. Alcuni di essi, invece di
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glorificare in eterno Dio per la grandezza e bellezza del suo Amore creatore, avevano ceduto al fascino della superbia e si erano contrapposti a Lui.
Essi rappresentano lo spirito del male che la Sacra Scrittura chiama con vari nomi: satana, demonio, diavolo, avversario, maligno.
Questo essere maligno vive nelle tenebre della superbia, della menzogna e dell’odio e si rende subito presente già all’inizio della creazione per rovinare l’opera di Dio.
Attacca la creatura che ha il dono della libertà e può, quindi, decidere contro la volontà di Dio, pur essendo da Lui creata.
L’azione propria del demonio è la tentazione e il testo della Genesi la descrive con molta chiarezza. Satana introduce nei pensieri e desideri dell’uomo una nuova e affascinante attrattiva la quale turba il suo rapporto con Dio.
L’uomo non avverte più solo il desiderio di vivere nei confronti di Dio un atteggiamento di amore riconoscente e di obbedienza.
Il demonio gli suggerisce anche l’attrattiva della superbia: “Diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male”.
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Essa convince la libertà e la volontà della prima coppia umana ed essi cedono alla tentazione che diventa così peccato, scelta libera contro Dio.
Il peccato di superbia ha due forme che sono sempre attuali e facilmente presenti anche nel nostro cuore e nelle nostre azioni.
c. Il primo peccato di superbia
Cedendo alla tentazione e aderendo liberamente al peccato di superbia, il rapporto con Dio di Adamo ed Eva viene stravolto radicalmente.
Essi non hanno più la purezza nel cuore e non vivono più un sentimento semplice di fiducia e di obbedienza verso l’Amore da cui tutto hanno ricevuto.
Si insinua in essi l’atteggiamento del sospetto. Dubitano che la legge ricevuta da Dio sia per il loro bene e la vera felicità. Cominciano a sentirla come un divieto che si impone dall’esterno e va contro la libertà e la felicità dell’uomo.
Il sospetto si fa anche più diabolico e insinua il dubbio che Dio sia stato menzognero e abbia dato una legge per tenere a
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freno l’uomo che, altrimenti, con la sua libertà avrebbe potuto fare senza Dio e decidere autonomamente del suo destino.
Satana annebbia lo sguardo dell’uomo e gli fa vedere un Dio che diventa geloso della sua creatura, sulla quale si impone per difendere se stesso dall’uomo: “Dio sa che diventereste come Lui”.
Sotto la tentazione della superbia, Adamo ed Eva non riconoscono più la volontà e la legge di Dio come la via per la realizzazione dell’uomo ma piuttosto un condizionamento che porta alla mortificazione della libertà.
È terribile dirlo ma, per l’uomo caduto nel peccato della superbia, Dio diventa avversario da cui prendere le distanze. Contro di Lui l’uomo proclama la volontà di essere lui il padrone della sua vita, colui che liberamente decide del suo bene e del suo male.
Crede alla promessa di satana che, trasgredendo la legge di Dio, gli si apriranno gli occhi e vedrà la verità. Finalmente potrà farsi lui legge a se stesso e decidere liberamente il suo bene e il suo male in base a ciò che sente, in base alla sua ragione e alla sua esperienza.
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L’esito di questo percorso della superbia è il raffreddamento del cuore dell’uomo tante volte denunciato dai profeti. In esso non c’è più il calore dell’amore verso Dio, il desiderio della comunione con Lui.
Subentra piuttosto la sfida o l’indifferenza verso Dio nella pretesa di essere artefice di se stesso. Il superbo si pone fuori dell’amore.
Gesù ha descritto il peccato di superbia nel comportamento del figlio minore della parabola del Padre misericordioso.
Non mi soffermo a commentarla ma è facile ritrovare nei sentimenti e nelle scelte di quel giovane gli stessi comportamenti di Adamo ed Eva.
Anch’egli sospetta che il Padre non voglia donargli libertà e felicità. Vuol farsi padrone di tutti i beni come fossero suoi e, allontanandosi dal padre, cerca da solo la strada della propria realizzazione. Di fatto si allontana dall’amore con il cuore indurito dalla superbia.
La tentazione del demonio ha ottenuto il suo obiettivo. Ha spento nel cuore dell’uomo l’amore per il suo Dio e lo ha convinto ad avviarsi in un cammino di apparente libertà dalla legge di Dio, nell’illu
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sione di poter farsi padrone della propria esistenza e della propria storia.
La superbia è un’illusione tragica perché stravolge la realtà: fa apparire Dio avversario della realizzazione dell’uomo e satana, invece, suo alleato. La meta del cammino non può che essere il fallimento e la morte.
d. Il secondo peccato di superbia
Satana aveva promesso ad Adamo ed Eva che, se si fossero impossessati anche dei frutti dell’albero del bene e del male, avrebbero finalmente conosciuto la verità, come la conosceva Dio.
Il maligno mantiene la promessa. Dopo che hanno compiuto il gesto di superbia contro Dio, si aprono veramente i loro occhi e prendono coscienza della verità.
Soltanto che si trovano di fronte ad una verità molto amara: si ritrovano nudi uno di fronte all’altra, impoveriti e rovinati nella loro persona.
Appare loro chiaro chi sia stato il menzognero che li ha ingannati. Non è stato Dio con la sua legge, ma il maligno con la sua tentazione.
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È la più terribile menzogna credere che l’uomo possa fare senza Dio. Quando lo rifiuta per presunzione e si allontana da Lui, l’uomo si ritrova nudo, non capisce più il senso e lo scopo per cui si trova al mondo, è totalmente disorientato.
A questo punto verrebbe quasi spontaneo aspettarci il pentimento da parte di Adamo ed Eva e un loro ritorno a Dio, che era pronto ad accoglierli.
Satana, invece, approfitta del loro stato di debolezza e di disorientamento e torna ad attaccarli sempre con la tentazione della superbia per portare a termine la sua azione di rovina.
Ancora una volta insinua in loro il sospetto nei confronti di Dio che ora diventa sentimento della vergogna. Essi si rendono conto che la legge di Dio era giusta e che, trasgredendola, si sono rovinati con le loro mani. Guardando, però, alla loro miserabile condizione temono il giudizio di condanna di Dio per la loro sfida presuntuosa. Questo giudizio appare come una logica conseguenza del peccato commesso.
Sono in preda al sospetto nei confronti del cuore di Dio. Non si fidano della sua misericordia capace di perdono ma temo
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no un Dio giudice. Un amore tanto gratuito da essere capace di perdonare sembra loro impossibile.
Dio li cerca e li chiama nel giardino perché non vuol perdere le sue creature. Ma essi non vogliono affrontare il suo sguardo che temono sia solo severo e giudicante.
Sono presi da una vergogna insopportabile che li porta ancora una volta a fuggire da Dio nascondendosi nel buio per non essere trovati.
Questa vergogna non è altro che la seconda manifestazione della superbia della quale restano ancora schiavi.
La vergogna, infatti, nasce dal sospetto che Dio voglia il loro male. Il male che temono da Lui, questa volta, non è una legge che soffocava la loro libertà, ma una condanna senza appello per aver trasgredito la sua legge ed essersi rovinati.
Sono coscienti di meritarsi la condanna e, piuttosto di riconsegnarsi a Dio come poveri peccatori, preferiscono darsi da soli la condanna nascondendosi nel buio e abbandonandosi alla rovina totale.
Questo è il tremendo orgoglio che preferisce la rovina all’umile ritorno verso Dio, che, senza rassegnarsi, cerca l’uo
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mo come il pastore cerca la pecora che si è smarrita.
La superbia, camuffata da vergogna, con tinua a spegnere l’amore nel cuore dell’uomo peccatore. Lo porta a difendersi dalla misericordia divina che vuol donare il perdono e che dichiara: “Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).
Rifiuta quella misericordia preso dal sospetto di meritare solo uno sguardo di condanna da parte di Dio. Si rinchiude in un senso di fallimento roso dalla rabbia, piuttosto che aprirsi alla confessione del peccato e all’umile richiesta di perdono.
Questa condizione del peccatore non pentito è descritta da Gesù come condanna “alle tenebre, pianto e stridore di denti (Mt 8,12; 22,13; 25,30).
È la tenebra della mancanza di senso per la vita, il pianto desolato di chi non ha più speranza e il digrignare i denti per la rabbia contro se stessi, per aver contribuito alla propria rovina, e contro Dio, ormai lontano.
Questa è la superbia disperata a cui satana si è condannato e nella quale vuol trascinare il peccatore che coltiva in sé la
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stessa superbia. In altre parole, è la condizione dell’inferno che è fatta di superbia disperata che non ha accolto la misericordia di Dio sciogliendo il proprio cuore al dolore del peccato, al pentimento e all’invocazione di perdono.
e. La superbia: madre degli altri vizi
Dal peccato di superbia nascono tutte le altre forme di male che rovinano l’esisten za dell’uomo e dell’umanità sulla terra.
Dopo il racconto del peccato originale, il Libro della Genesi prosegue presentando le conseguenze.
L’uomo che si è chiuso a Dio e ad una comunione di amore con Lui rovina, di conseguenza, i rapporti tra uomo e donna, tra gli altri simili, con il creato che gli è stato consegnato dal creatore.
Così succede anche al figlio prodigo. Egli ha indurito il suo cuore nella superbia e ha rotto la comunione con il padre pretendendo di farsi padrone della sua vita.
Lontano dalla casa paterna egli sperpera la propria vita con tutte le ricchezze che gli erano state donate. Esse diventano oggetto di un consumo smodato e insa
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ziabile, fino a distruggerlo. Prevarica, poi, sulle persone usandole senza rispetto per i propri bisogni.
Alla fine si trova solo e nudo, proprio come Adamo ed Eva dopo il peccato.
4. La superbia: peccato sociale contemporaneo
La Parola di Dio ci ha descritto il peccato di superbia nelle sue espressioni e conseguenze. Non è difficile riconoscere quanto tale descrizione resti di piena attualità per la nostra vita personale e sociale.
Offro qualche spunto per mostrare questa attualità prima dentro la società e poi nella nostra vita personale.
Ritroviamo le dinamiche del peccato originale dentro la società in cui viviamo e le ritroviamo anche se guardiamo indietro agli ultimi secoli.
Apro qui un discorso molto complesso che chiederebbe ben più spazio. Mi accontento di fare due esempi significativi.
Richiamo due affermazioni che hanno segnato e stanno segnando il nostro tempo.
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a. Dio è morto
A questa terribile conclusione è arrivata dapprima la filosofia moderna e poi la mentalità più diffusa. L’uomo è arrivato a liberasi di Dio come conseguenza del suo impegno ad affermare le capacità della propria ragione.
Ha visto che con le proprie capacità era in grado di dominare la natura con la scienza e la tecnica e di crearsi da solo un futuro di progresso e di benessere.
Ha diminuito sempre di più l’importanza di Dio e del riferimento a lui fino a concludere che non esiste, che è un’invenzione dell’uomo quando non aveva ancora raggiunto la civiltà e il progresso.
L’uomo che ha raggiunto il progresso scientifico è caduto nella presunzione di poter bastare a se stesso per dar senso alla propria esistenza e crearsi la felicità. Dio e la religione non servivano più ed erano, anzi, un ostacolo alla realizzazione dell’uomo.
b. Non esiste la legge naturale
Questa è una seconda grave dichiarazione di superbia a cui è giunto l’uomo e
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contro la quale continuamente prende posizione il Santo Padre.
Non si accetta che Dio sia il Creatore e abbia messo dentro la sua opera di amore una legge che noi creature siamo chiamati a seguire per realizzare veramente la felicità sulla terra e non rovinare l’opera di Dio.
Non si accetta, ad esempio, che Dio abbia creato l’uomo “maschio e femmina” perché si uniscano nell’amore formando una carne sola che è indivisibile. Questa è la legge che Dio ha impresso nell’uomo; se la segue si realizza nel dono reciproco tra uomo e donna e diviene fonte di fecondità generando figli, frutto dell’amore e garanzia di futuro per l’umanità.
Il dibattito che periodicamente si accende anche in Italia spesso si pone contro la legge che Dio ha dato. Si diffonde il sospetto che questa “legge naturale” sia contro la libertà dell’uomo il quale pretende di vivere rapporti affettivi e sessuali come crede, senza alcuna legge e, in questo modo, è convinto di trovare la vera felicità.
Il racconto del peccato originale nel libro della Genesi ci illumina e ci fa capire come quel peccato continui a diffondersi
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nel mondo e, purtroppo, sia presente nella nostra società e nella mentalità di tante persone.
Ci ritroviamo con lo stesso sospetto contro Dio che il diavolo insinuò nella mente e nel cuore di Adamo ed Eva.
Si sospetta che Dio e la religione siano contro l’uomo e il suo progresso. Si sospetta che la legge di Dio mortifichi la libertà dell’uomo e per questo la si rifiuta e si rifiuta la voce della Chiesa che la sta ricordando per il bene della società.
L’uomo vuol essere padrone del suo bene e del suo male senza avere imposizioni da Dio e dalla sua Parola di luce e di amore.
Chi è onesto deve, però, riconoscere che ci ritroviamo anche con le conseguenze del peccato descritte dalla Sacra Scrittura:
a. Questa superbia sta spegnendo l’amore nel cuore dell’uomo.Nel progresso che l’uomo vuol portare
avanti come padrone assoluto si spengono l’amore e la compassione per i più deboli, dei quali si parla sempre meno perché gli Stati e i poteri economici più forti dominano anche l’opinione pubblica.
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Nella pretesa di vivere la propria affettività e sessualità senza alcuna legge divina, si spegne l’amore autentico tra uomo e donna e per la generazione di nuovi figli.
b. Questa superbia rende l’uomo nudo.Forse non si vogliono aprire gli occhi
per riconoscere come questo atteggiamento diabolico di superbia, che mette Dio fuori della vita personale e sociale, avvilisca la dignità delle persone che cedono a vizi sempre più pesanti.
Indebolisce, inoltre, i rapporti familiari e sociali generando sofferenze, spesso nascoste, perché non hanno una voce abbastanza forte per farsi udire.
5. La superbia: peccato personale
Mt 27,110:Venuto il mattino, tutti i sommi sacer-
doti e gli anziani del popolo tennero con-siglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e conse-gnarono al governatore Pilato.
Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e ripor-
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tò le trenta monete d’argento ai sommi sa-cerdoti e agli anziani dicendo: «Ho pecca-to, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!». Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.
Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: «Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue». E tenu-to consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi.
Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: E presero trenta de-nari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.
La superbia si manifesta nella vita sociale, ma si annida principalmente nella coscienza della persona quando questa cede alla tentazione del demonio. Esso è sempre in azione e mira in ogni occasione a rovinare quella splendida opera di Dio che siamo ognuno di noi.
Per approfondire ulteriormente i modi con cui la superbia può insinuarsi in noi e
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trascinarci al male, richiamiamo il brano evan gelico che narra il tradimento di Giuda.
Facciamo questa scelta perché Giuda Iscariota cedette proprio alla tentazione della superbia. Fu questo peccato che lo rese il traditore di Gesù, lo portò a consegnare il Figlio di Dio alla morte in croce e poi a distruggere se stesso impiccandosi.
Egli cadde nelle due stesse forme di superbia di Adamo ed Eva e che, se siamo sinceri, ritroviamo in noi stessi.
Giuda era stato cercato personalmente da Gesù, come gli altri apostoli, e chiamato con un gesto di amore privilegiato. Il Signore lo aveva accolto nella sua amicizia fino a lavargli i piedi nell’ultima cena e offrigli la comunione con Lui, il suo Corpo e Sangue nell’eucaristia.
Si era fidato di lui scegliendolo tra coloro che avrebbero avuto la missione di predicare il Vangelo della salvezza e fondare la Chiesa.
L’evangelista Luca, però, ricorda: “Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici” (Lc 22,3). Come i progenitori, cedette alla tentazione di satana che è sempre la stessa: la tentazione della superbia. Come loro, peccò di superbia in due modi.
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a. Rifiutò il Figlio di Dio dalla propria vita
Gesù, che lo aveva scelto personalmente per una missione grande, gli divenne un avversario da allontanare e combattere fino al tradimento.
In lui nacque un vero fastidio per l’amicizia nella quale il Signore lo aveva accolto. Non sopportava più la comunione che Gesù aveva creato nella sua ultima cena e l’abbandona per entrare in una solitudine fredda. S. Giovanni racconta: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). È la notte del peccatore che ha rifiutato l’amore tenero e gratuito di Dio per una durezza di cuore creata dalla tentazione della superbia.
In Giuda si fece strada anche il sospetto contro la legge che Gesù proponeva ai suoi, la legge del Vangelo. Non si fidò della parola del Maestro e la sentì non come la via che conduce alla vera realizzazione della vita dell’uomo, ma al fallimento, sia per Gesù che per se stesso. Trovò alleati coloro che erano schiavi della sua stessa superbia e per questo avevano combattuto Gesù lungo tutti gli anni del suo ministero. Si unì al loro complotto per distruggere Gesù e il suo Vangelo dalla faccia della terra.
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Con loro divenne alleato di satana che è omicida e mira a distruggere la vita e l’amore. Contribuì alla morte del Figlio di Dio.
La superbia aveva raffreddato il suo cuore, per cui non poteva resistere vicino al S. Cuore di Gesù, che era ardente di amore per ogni uomo e nel quale ci sarebbe stato posto anche per Giuda, come per ogni peccatore.
Ritroviamo in Giuda gli stessi atteggiamenti di Adamo ed Eva: il sospetto verso Dio e la sua legge, la volontà di allontanarlo dalla loro vita, il cuore freddo senza amore e riconoscenza.
Forse può crearci qualche disagio interiore confrontarci con il peccato di Adamo ed Eva e di Giuda. Magari nella nostra vita la presenza della superbia è meno grave e drammatica ma la ritroviamo certamente.
Se non la riconosciamo, significa solo che non ne siamo coscienti ed essa può agire in modo ancor più subdolo e pericoloso perché non vi poniamo ostacolo.
Faccio appena qualche esempio:
– Ci capita di vivere l’incontro con Gesù nell’eucaristia con tiepidezza di cuore, con indifferenza, quasi come un’abi
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tudine. In questa situazione, ricambiamo tutto l’Amore appassionato del S. Cuore di Gesù, che è presente nell’eucaristia, con un cuore freddo e distratto, quasi avessimo altro di più importante a cui attaccare i nostri affetti, sentimenti e interessi.
Da dove ci viene questa indifferenza, se non da un presuntuoso senso di autosufficienza? Non riconosciamo più la verità di noi stessi, che è quella di poveri mendicanti che cercano il pane della vita eterna, Gesù, che si fa cibo nostro pur di salvarci dalla morte. Siamo in preda all’illusione presuntuosa di essere sazi lo stesso, di poterci arrangiare con le nostre forze per sostenere la nostra vita.
– Ci capita anche di soffermarci poco a fare un serio esame della nostra vita di fronte alla legge di Gesù che è il Vangelo; sentiamo, anzi, un certo fastidio a fermarci e fare una verifica della nostra vita. Insieme, non avvertiamo la necessità di confessate i nostri peccati e invocare umilmente il suo perdono. Come Adamo ed Eva e come Giuda non prendiamo seriamente in considerazione la legge di Dio che Gesù ci ha rivelato nel suo Vangelo. Con presunzione pensiamo di saper ugualmente qua
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le sia il bene e il male da scegliere ogni giorno e di trovare la strada per essere felici e realizzati.
Di fatto, senza un frequente confronto con la parola di Gesù ci lasciamo influenzare dalla mentalità comune arrivando a comportamenti e scelte lontane dalla volontà del Signore e da quello che egli chiede ai suoi discepoli.
– Ognuno di noi ha ricevuto la sua vocazione e magari l’ha anche scelta o con il matrimonio o con la consacrazione. Possiamo, però, trascurare questa vocazione non impegnando tutte le nostre energie e i nostri talenti per essa, ma disperdendoli in altri interessi e forme di realizzazione di noi stessi.
I progenitori, il figliol prodigo e Giuda rifiutarono la vocazione di Dio e andarono per una loro strada nella vita, pensando di trovare una migliore realizzazione di se stessi. Di fatto si avventurarono in una condizione di fallimento e di morte.
Noi non arriviamo al rifiuto della vocazione, ma riempiamo la nostra vita di cose, affetti, interessi che contrastano con essa. Ci spinge a ciò l’impressione che la condizione di vita in cui ci pone la vocazione non sia sufficiente per soddisfare pie
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namente i nostri desideri e i talenti che abbiamo ricevuto.
Se ci esaminiamo più a fondo, però, scopriamo che siamo sotto la tentazione della superbia. Essa ci fa sospettare della promessa di Gesù che ci ha chiamati alla sua sequela promettendoci che “avremo la vita e in abbondanza” (Gv 10,10).
Anche Giuda sospettò della promessa di Gesù e lo condannò scambiandolo per trenta denari.
b. Rifiutò il perdono di Gesù e distrusse se stesso
Quando Giuda vide Gesù condannato al tremendo supplizio della crocifissione e, forse, incontrò il suo sguardo, si rese conto a quale male lo aveva portato la tentazione di satana e il suo peccato di superbia.
“Si aprirono i suoi occhi” come quelli di Adamo ed Eva dopo aver mangiato del frutto dell’albero del bene e del male. Vide la verità del suo agire.
Il Vangelo ci narra che si pentì e davanti ai sacerdoti, di cui si era fatto complice, confessò il suo peccato: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”.
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Satana approfittò della debolezza del cuore, che si trovava nella desolazione, e vi insinuò ancora la tentazione della superbia, questa volta, però, in una seconda forma, più subdola della prima.
Vedendo lucidamente la gravità del suo peccato, in lui si fecero spazio il dubbio e il sospetto. Dubitò dell’amore di Gesù verso di lui, dubitò di poter essere ancora accolto e perdonato dal Maestro mentre questi, per causa sua, andava verso la crocifissione.
Non accettò, con grande umiltà, di mettersi sotto lo sguardo di Gesù e scoppiare in lacrime di pentimento affidandosi solo alla sua misericordia. Così fece Pietro e fu perdonato e riaccolto pienamente nell’amicizia del Signore (Lc 22,61).
Preso da un orgoglio cieco, Giuda preferì fuggire ancora una volta da Gesù e andare a nascondersi, come i primi uomini. Andò a nascondersi nel luogo e nel modo più tragico: nella morte.
Satana aveva portato a termine la sua opera di distruzione di un discepolo di Gesù fino alla morte disperata.
Anche questa seconda forma di superbia è facilmente presente in noi. Non
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è facile conoscerla perché è subdola e si camuffa dentro altri sentimenti che sembrano il contrario della superbia. Può essere il sentimento della vergogna che ci fa sentire impresentabili o un senso di fallimento di noi stessi o la paura del giudizio degli altri o la rassegnazione perché non riusciamo a migliorare su certi difetti.
Ognuno di noi ha le sue debolezze e fragilità ed è bene impegnarsi per migliorarle. In esse, però, può insinuarsi la superbia che ci porta a vivere male tali debolezze chiudendoci in noi stessi.
Nel cammino spirituale è molto importante riconoscere queste manifestazioni della superbia perché non ci rovini.
A questa seconda forma di superbia sono esposti spesso i cristiani che si impegnano nella vita spirituale e le persone consacrate.
Quando constatano che, nonostante il loro impegno spirituale e la loro condizione di consacrazione a Dio, si ritrovano a fare i conti con umilianti debolezze e infedeltà, è facile che si insinui la tentazione dell’orgoglio.
Faccio, in proposito, qualche altro esempio:
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– Di fronte alla constatazione delle nostre debolezze e miserie che permangono nel tempo, può crescere nella coscienza silenziosamente un rifiuto di noi stessi. Ci chiudiamo dentro un tormento dell’animo, a volte anche doloroso, che diventa come un carcere interiore. Diventa difficile l’apertura semplice a fiduciosa a Dio nella preghiera. Ugualmente diventa difficile aprirsi al confronto con il confessore o il padre spirituale per farsi aiutare.
– A volte cristiani anche impegnati spiritualmente fanno difficoltà ad accostarsi al sacramento della Penitenza. Se si esaminano a fondo, riconoscono che li trattiene una profonda vergogna.
Essa non è causata da colpe gravi che non hanno commesso ma, piuttosto, dalla difficoltà a confessare, per l’ennesima volta, le stesse debolezze che da anni ci si trascina dietro.
Questa vergogna è frutto della superbia e ci spinge a dubitare sulla potenza dello Spirito Santo e sull’efficacia del sacramento per noi. Gli umili tornano a chiedere perdono perché ne hanno bisogno confidando in Colui che ha insegnato a perdonare settanta volte sette.
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– La constatazione che non riusciamo a vincere certe miserie può ingenerare la rassegnazione a vivere nel compromesso con alcune nostre debolezze e peccati sia morali che spirituali. Un po’ alla volta si crea l’abitudine interiore a giustificarsi senza più lottare per migliorare, confidando nell’aiuto dello Spirito di Gesù.
Questa forma di superbia è pericolosa, perché ci porta ad allontanarci da Gesù e dal suo perdono, presi da risentimento e delusione verso noi stessi e dal sospetto che il Signore possa essere capace di liberarci.
Essa può portare, col tempo, a compromessi e peccati anche più gravi, perché ci condanna ad essere soli, nascosti nella nostra miseria come Adamo ed Eva che non vollero incontrare Dio che li cercava, e come Giuda che evitò lo sguardo di Gesù che andava in croce per lui e per i suoi peccati.
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6. Contro la superbia: il dono dell’umiltà
Non possiamo lottare da soli contro la tentazione del diavolo che ci attira alla superbia; ne usciamo certamente sconfitti.
Per questo l’arma fondamentale è la preghiera che invoca il dono dell’umiltà. Solo lo Spirito Santo, infatti, può insegnarci l’umiltà ed aprirci gli occhi per vedere le insidiose radici della superbia che sono penetrate dentro di noi.
La Parola di Dio stessa ci suggerisce preghiere molto intense ed efficaci per chiedere di essere liberati dalla superbia ed entrare nell’umiltà. Ne ricordo alcune:
Dall’orgoglio salva il tuo servoperché su di me non abbia potere;allora sarò irreprensibile,sarò puro dal grande peccato. (Sal 18,14).
Ti ho manifestato il mio peccato,non ho tenuto nascosto il mio errore.Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato. (Sal 31,5)
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Davanti a te poni le nostre colpe,i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto. (Sal 89,8)
Se consideri le colpe, Signore,Signore, chi potrà sussistere?Ma presso di te è il perdono:e avremo il tuo timore.Io spero nel Signore. (Sal 129,35)
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III. l’avarIzIa
1. L’avarizia o la cupidigia
Dopo la superbia, nell’elenco dei vizi capitali viene nominata l’avarizia. Essa indica un desiderio che non è mai sazio di accumulare denaro e beni che si possono comprare con il denaro.
È una vera avidità, una fame insaziabile di possedere a causa della quale il denaro diviene lo scopo da raggiungere per sentirsi appagati. Tale appagamento, però, non è mai raggiunto perché non si è mai accumulato abbastanza.
La Sacra Scrittura definisce questo vizio anche con il termine “cupidigia”: essa indica un’attrattiva smodata verso i beni materiali che domina gli interessi e la volontà dell’uomo e lo spinge a possederli ad ogni costo.
S. Pietro ne parla con espressioni pesanti: “Han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizio
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ne!” (2Pt 2,14). Questo vizio ha la forza di “rompere” il cuore dell’uomo rendendolo insaziabile nel suo bisogno, devastandolo con desideri disonesti per soddisfare i quali egli è pronto anche ad adescare chi è più debole.
La cupidigia torna nelle lettere degli apostoli come uno dei vizi da cui un battezzato deve guardarsi con decisione (Rom 1,29 Ef 5,3; 1Ts 2,5; 1Pt 2,3).
Dice il Qoelet: “Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto. Anche questo è vanità” (Qo 5,9).
L’avaro non ha misura nel procurarsi sempre più denaro, perché in questo trova gioia e stimolo nella vita. Gli costa un grosso sacrificio, invece, staccarsi anche da una piccola parte dei beni che ha accumulato.
Il denaro diviene la sua vita, come il sangue che gli scorre nelle vene, e uno non vuol rinunciare neppure ad una goccia di sangue perché è come una goccia di vita.
Ha ragione il Qoelet nel dire che l’avaro “non trae profitto dalla ricchezza” perché neppure la gode per non diminui
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re la quantità di denaro accumulato. Esso, infatti, non è più un mezzo utile per raggiungere altri scopi, ma è lo scopo stesso di ogni suo sforzo.
Il vizio dell’avarizia non riguarda solo chi possiede grossi capitali e beni materiali, ma è un atteggiamento interiore che può annidarsi nel cuore di ognuno.
Un po’ di avidità di possedere di più soldi e cose, anche quando non ne abbiamo bisogno, ce la ritroviamo tutti, specialmente in un clima di consumismo che spinge a riempirsi la vita di cose superflue e ad avere sempre abbondanza di soldi per acquistarle.
2. L’avaro in una parabola di Gesù
Lc 12,1524:Uno della folla gli disse: «Maestro, di’
a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costi-tuito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni».
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Disse poi una parabola: «La campa-gna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magaz-zini e ne costruirò di più grandi e vi racco-glierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, man-gia, bevi e datti alla gioia.
Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».
Gesù dedica una delle sue parabole a descrivere la condizione dell’avaro dalla quale i suoi discepoli devono guardarsi con decisione: “Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia”.
a. Il protagonista della parabola è un uomo che ha impegnato tutta la vita ad accumulare beni e, a causa di questa preoccupazione, non li ha mai goduti. Vive dentro una strana contraddizio
ne: è ricco e non può godere della ricchezza messa da parte perché altrimenti con
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suma i beni che ha accumulato ed essi diminuiscono.
La cupidigia impone all’uomo di possedere sempre di più denaro, che investe comprando beni da porre da parte nel suo tesoro. Egli, però, non sa apprezzare questi beni per il valore che hanno in se stessi ma per quanto sono costati o possono valere in termini di denaro.
L’avaro chiude in una cassaforte anche capolavori d’arte, perché ai suoi occhi valgono solo da un punto di vista economico, come se fossero oggetti qualunque e non splendori dell’ingegno umano da contemplare e da offrire alla contemplazione.
In questo modo stravolge il senso e il valore delle cose.
b. L’avarizia tiene l’uomo in uno stato continuo di tensione. Ha accumulato abbastanza beni, ma deve pensare ai magazzini da demolire e da ricostrui-re più grandi.Ancora non può concedersi quella pa
ce per raggiungere la quale sta faticando da tutta la vita. Si trova all’ultima sera della sua vita senza essersi concesso tregua nel cercare di possedere di più.
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Dice il Qoelet: “Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire” (Qo 5,11).
Egli brucia tutti gli anni di vita senza goderli perché lo rode la cupidigia di accumulare in vista di un futuro di tranquillità per il quale non si sente mai sicuro di aver messo da parte abbastanza.
Questo bisogno diventa, a lungo andare, un vero vizio, cioè un’abitudine radicata di cui non sa fare a meno. Se non si impegna per guadagnare e fare nuovi affari la vita gli diventa vuota e senza incentivi.
Quante persone, ricche ed economicamente ben garantite, quando arrivano alla condizione di non poter più produrre e guadagnare soldi sono prese da un senso di vuoto e di angoscia. Possiamo parlare di una vera crisi di astinenza causata dal vizio dell’avarizia che riempiva e dava stimoli alle loro giornate. Il bisogno di accumulare sempre di più era diventata una droga.
Nella parabola evangelica, il bilancio finale della vita dell’avaro è tremendamente amaro. In fondo ha sprecato la vita per il nulla perché ha trasformato in fine
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ciò che doveva essere mezzo per raggiungere la vera realizzazione di sé.
Ha cercato continuamente di arricchire per sé e nel momento della morte non può sfuggire alla verità. È quasi impietosa la parola di Dio: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?”.
Tutto ciò che ha accumulato impegnando tempo e capacità ricevute da Dio svanisce completamente; non sarà più suo. Sarà di altri che magari sperpereranno tutto come se avesse poco valore: “Mentre dice: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni», non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà” (Sir 11,19).
Il giudizio finale su di lui è: “Stolto”. Ha investito male le sue risorse trovandosi nudo di tutto al momento della verità.
c. Che cosa spinge l’uomo all’avari-zia e a sprecare l’esistenza restando schiavo di questo vizio?Ogni uomo sente il bisogno di riempi
re un senso di vuoto che sta al fondo della propria esistenza. Cerca garanzie di fronte a una profonda insicurezza e paura che gli nascono dall’incertezza del futuro, nel
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quale lo attende un evento che non può controllare, l’evento della propria morte.
L’avaro cerca di sopportare la precarietà dell’esistenza e la paura della morte riempiendosi il più possibile di denaro e beni che si possono toccare e contare. In essi trova un senso di sicurezza e un’assicurazione per il domani. Più ne accumula e più aumenta il suo senso di potenza e sicurezza. Istintivamente si sente protetto dai beni che lo circondano e potente nel confronto con gli altri.
È guidato dall’obiettivo di arrivare al giorno in cui può permettersi di smettere la fatica di accumulare e dirsi: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia”.
Insegue il progetto di essersi creato, con la quantità di denaro e di cose messe da parte, una sicurezza tale che gli garantisca la vita “per molti anni” senza l’angoscia di trovarsi nell’insicurezza e nella debolezza che dà la povertà.
d. Questo progetto, però, è la più gran-de illusione in cui l’uomo possa cadere. Il vizio dell’avarizia promette sicurez
ze e garanzie sulla vita che sono evidentemente false. Chiude, poi, l’uomo in un
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egoismo sempre più duro perché guarda agli altri solo come a potenziali rivali che possono privarlo di qualche bene di cui sente il bisogno.
Ma, come conseguenza peggiore, lo trascina nella menzogna più grave che è quella dell’idolatria. Essa rovina totalmente l’esistenza.
L’avaro, di fatto, affida la propria vita al denaro e a cose materiali e ad esse chiede felicità e speranza per il futuro. Per questo si merita il duro giudizio che Gesù riserva al ricco della parabola: “Stolto!”. Quel ricco è un insensato, un pazzo, perché ha completamente smarrito il buon senso e la più elementare saggezza.
“Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Questa è la verità che viene ottenebrata dall’avarizia.
Essa appare fin troppo evidente. Dopo aver faticato per accumulare la sicurezza nel denaro e nelle cose, queste nel momento decisivo abbandonano l’uomo.
Sono idoli deboli ed illusori perché, come dicono i salmi, “sono opera delle mani dell’uomo” (Sal 114,4; 134,15) e, per questo, non hanno nessuna forza per sostenere la sua debolezza mortale. Anzi, lo tra
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volgono nel loro nulla, come afferma sempre il salmo: “Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Sal 114,8).
Nella parabola Gesù ripropone la radicale alternativa che aveva indicato nel discorso della montagna: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24).
L’uomo è creatura che non possiede in sé la vita; inoltre, a causa del peccato, è segnato dalla fragilità mortale. Per questo non può bastare a se stesso e deve appoggiarsi a un padrone in cui cercare sicurezza.
Questa è la scelta radicale che non prevede compromessi: o si affida a Dio e alla sua Provvidenza senza affannarsi per il domani, o mette il possesso del denaro al centro del suo cuore e si affanna tutta la vita per accumularne il più possibile. O arricchisce davanti a Dio o accumula tesori per sé.
e. La gravità del vizio dell’avarizia giu-stifica anche l’insistenza particolare con cui Gesù invita i suoi discepoli ad
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estirparla dal loro cuore: “Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia”.Essa ha la forza di condurre l’uomo a
vivere tutta l’esistenza dentro un’illusione di sicurezza, che gli sarà smentita quando sarà troppo tardi; quando gli sarà richiesta l’anima, senza possibilità di proroghe, perché il tempo a lui concesso è terminato.
Inoltre, lo fa vivere nella più grave falsità perché il denaro, invece di mezzo, diventa fine e senso della sua esistenza. Diventa l’idolo che soppianta la confidenza in Dio nel cuore dell’uomo.
3. Il distacco dai beni: prima condizione per seguire Gesù
Mt 6,1934:“Non accumulatevi tesori sulla terra,
dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scas-sinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio
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è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!
Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete ser-vire a Dio e a mammona.
Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non semina-no, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del cam-po: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si
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preoccupano i pagani; il Padre vostro cele-ste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiun-ta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudi-ni. A ciascun giorno basta la sua pena”.
Soffermiamoci ancora un po’ sul richiamo pressante di Gesù rivolto ai discepoli a non diventare servi di mammòna, presi dall’affanno di accumulare tesori sulla terra.
Fa riflettere l’ampio spazio che egli dedica all’argomento dell’uso dei beni materiali e della tentazione dell’avarizia nel discorso programmatico che costituisce la regola di vita per chi vuol essere suo discepolo e per la futura Chiesa.
Appare in modo evidente che il Maestro considera un caratteristica fondamentale, per chi vuol seguirlo, un certo modo di usare i soldi e le cose materiali che si distacca in modo deciso dai costumi di vita dei pagani. È un segno distintivo che permette di riconoscere il discepolo del Vangelo.
Se ripercorriamo i Vangeli, troviamo molti passi in cui Gesù torna su questo ar
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gomento. E le sue richieste sono sempre radicali, senza compromessi. Chiede di lasciare tutto come condizione per seguirlo e Pietro conferma che quella è stata la prima condizione per seguire il Maestro (Mt 4,1822; 19,1622.27.29).
Anche noi, quindi, dobbiamo prendere sul serio questa condizione perché è il primo passo che ci permette di vivere come discepoli del Vangelo.
Lo hanno capito tutti i cristiani che, lungo i secoli, si sono impegnati nella sequela di Cristo. Lo ha capito s. Antonio abate, padre dei monaci, che iniziò la sua esperienza monastica ascoltando, durante una S. Messa, la parola di Gesù che dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).
Lo hanno capito S. Francesco e S. Domenico, fondatori degli ordini mendicanti e gli altri fondatori dei vari ordini e istituti di vita consacrata.
La povertà è diventata uno dei tre consigli evangelici che abbraccia, con un voto, chi si sente chiamato a consacrare tutta la vita a Gesù e alla Chiesa.
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Non c’è alternativa su questo punto perché l’avarizia – o cupidigia di possedere soldi e beni – attanaglia il cuore dell’uomo e diventa il suo tesoro e il suo padrone. Finché non c’è un distacco del cuore da tale dipendenza non c’è spazio per un altro tesoro che è “il Regno di Dio e la sua giustizia”.
La paura di non avere per il domani cibo, vestito e altre sicurezze porta all’affanno di accumulare e rende torbido il nostro cuore. Di conseguenza, come dice Gesù, si ammala anche il nostro occhio e ci porta a guadare i soldi e i beni con avidità e a cercarli invece di essere liberi per dedicare tutta la vita ai beni del Vangelo.
4. L’avarizia “indolore” in epoca di consumismo
Può essere che non avvertiamo in noi la tentazione all’avarizia o alla cupidigia verso il denaro e le cose che con esso si acquistano. Possiamo avere l’impressione che tale vizio riguardi chi è ricco e, per questo, è attratto dalla tentazione di accumulare sempre di più.
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Probabilmente questa percezione non dipende da un reale distacco dall’attaccamento ai beni materiali e alla sicurezza che essi fanno percepire. Se vivessimo, infatti, tale distacco, esso dovrebbe comunque farci percepire una certa sofferenza.
È facile, piuttosto, che siamo influenzati dal clima diffuso di consumismo che caratterizza la nostra società. È normale oggi essere garantiti non solo nelle cose che ci sono necessarie per vivere ma essere abituati anche ad avere il superfluo come possibilità legittima di cui godere.
Spontaneamente compriamo tante cose, le consumiamo e le gettiamo via senza farci neppure caso; tanto, abbiamo le possibilità economiche di acquistarne altre.
Man mano che escono nuovi prodotti e nuovi strumenti, anche noi li acquistiamo con delle motivazioni che sembrano valide e nemmeno ci chiediamo più se siano realmente necessari. Siamo influenzati dalla logica che domina la pubblicità e la mentalità corrente.
In questo clima l’avarizia e l’attaccamento eccessivo ai beni materiali possono facilmente insinuarsi in noi in modo “indolore” senza avere la percezione sensi
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bile che stiamo sottomettendoci ad una schiavitù.
Fatichiamo a fare quel lucido esame di coscienza che Gesù chiede ai suoi discepoli: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano... accumulatevi invece tesori nel cielo... dov’è il tuo tesoro a cui è attaccato il vostro cuore?”.
Il tema del distacco dai beni materiali e della povertà non è molto ricorrente nella predicazione, nella catechesi, nelle proposte formative. Quella radicalità che Gesù predica con chiarezza nel Vangelo, con delle esigenze che non ammettono compromessi per chi vuol iniziare a seguirlo, è lasciata un po’ sotto silenzio.
Probabilmente, anche noi sorvoliamo su certe pagine del Vangelo che invitano a tale radicalità. Se ne cerchiamo il motivo, riconosciamo che esse contengono proposte del Signore che ci lasciano un senso di fastidio e generano in noi una specie di resistenza interiore, se le confrontiamo con il nostro attuale tenore di vita.
Questi sintomi possono indicare che siamo scivolati in un compromesso senza inquietudini e che evitiamo di disturbare confrontandoci con le richieste radicali di Gesù.
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Questo stato di vita può essere definito “avarizia indolore”. Esso è pericoloso per la coerenza evangelica della nostra vita perché non ci è facile riconoscerlo e non siamo così motivati a combatterlo.
5. Le conseguenze dell’avarizia
S. Paolo ammonisce il discepolo Timoteo: “L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali” (1Tim 6,10).
È un ammonimento che va meditato seriamente anche da noi che, come abbiamo visto, corriamo il rischio di un tranquillo attaccamento a un benessere materiale.
Esso, infatti, porta certamente con sé delle conseguenze che, in modo altrettanto indolore, possono snaturare la qualità della nostra vita cristiana.
Accenno ad alcune.
– Un allentamento generale della vo-lontà.
Essa, un po’ alla volta, si adatta al compromesso e non trova più la motivazione per affrontare lo sforzo, anche sofferto, per vivere una maggior coerenza con il Vangelo. Questo sforzo della volontà è chia
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mato “ascetica”, un tema che, a differenza del passato, manca spesso nella predicazione e nella catechesi.
– Un certo impigrimento nella pre-ghiera.
Conserviamo una fedeltà materiale ai tempi di preghiera e questo ci tranquillizza. Cala, però, il fervore, il desiderio per una preghiera che sia più prolungata ed intensa. Può essere, questo, il segno che il cuore è meno orientato alla ricerca “del Regno di Dio e della sua giustizia” perché ospita, almeno in comproprietà, altri tesori.
– Un certo inutile sperpero di denaro.Acquistiamo cose che sono di fatto su
perflue ma che ci concediamo per un senso di piacere che creano in noi. Questi acquisti, magari, diventano più frequenti quando abbiamo bisogno di riempire qualche vuoto o insoddisfazione che si è creata dentro di noi. In queste occasioni cediamo alla cupidigia che ci attira verso i soldi e le cose.
– Una minore sensibilità verso i poveri.Facciamo, anche, qualche gesto di
elemosina ma sulla spinta di uno slancio
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emotivo o per sentirci a posto in coscienza. Però non ci facciamo più di tanto inquietare dai poveri che abbiamo vicini e, più ancora, da quelli che sono lontani. Perdiamo la sensibilità per una solidarietà più impegnativa che ci porterebbe a turbare il benessere in cui viviamo.
6. Per smascherare e combattere l’avarizia
L’avarizia, come tutti i vizi capitali, per essere contrastata va prima smascherata. Questo è particolarmente vero in una società dei consumi che porta facilmente ad essere schiavi di un’avarizia indolore.
Tre attenzioni, tra altre, possono farci riconoscere quando stiamo cedendo a questo vizio e indicarci il modo per superarlo.
– Convertire i nostri gusti meditando la Parola del Vangelo e pregando lo Spirito Santo.
Il clima consumistico rovina il nostro gusto interiore. Si sbiadisce il desiderio spirituale di vivere il Vangelo nella sua radicalità. Calano un interesse e una convin
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zione per mettere in discussione il benessere e impegnarci in un distacco dai soldi e dai beni.
È necessario convertire il gusto, per avere in noi i desideri propri di chi è discepolo di Gesù. Si tratta di una guarigione interiore che non realizziamo con le nostre forze.
La meditazione costante delle pagine del Vangelo rende familiari in noi le richieste radicali di Gesù e crea il desiderio di seguirle. L’invocazione allo Spirito Santo ottiene la grazia per rafforzare la volontà.
– Allenare la volontà con la scelta con creta di rinuncia e distacco da qualche be ne.
La volontà è una grande energia che abbiamo ma se non è esercitata diviene sempre più debole. Se siamo adagiati nel compromesso è necessario un serio allenamento della volontà con impegni concreti di rinuncia.
– Distribuire un po’ della nostra ric-chezza ai poveri.
Essa non va considerata come proprietà nostra ma come comproprietà con tutti
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i fratelli e le sorelle. Anzi, è una comproprietà con Gesù, che ci ha detto: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”.
Condividere il nostro benessere libera dall’avarizia e converte alla carità, che ci permette di incontrare Cristo nei poveri.
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IndIce
Introduzione ................................................ 5
I. i vizi capitali: illUSione Di Felicità .... 8 “Vedo il bene e faccio il male”:
la contraddizione che vive Paolo La vita del battezzato
è una lotta contro le passioni Le passioni principali: i vizi capitali
II. la SUperbia .......................................... 19 La gravità del vizio di superbia Gesù contro la superbia dei farisei La superbia secondo
la Parola di Dio: Gen 3,1-21 La superbia:
peccato sociale contemporaneo La superbia: peccato personale Contro la superbia: il dono dell’umiltà
III. l’avarizia ............................................. 57 L’avaro in una parabola di Gesù Il distacco dai beni:
prima condizione per seguire Gesù L’avarizia “indolore”
in epoca di consumismo Le conseguenze dell’avarizia Per smascherare e combattere l’avarizia