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Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia Anno XV - Numero 102 - maggio/giugno 2010 Distribuzione gratuita Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia Festival del giornalismo 2010 Super speciale sulla trasferta a Perugia di Inchiostro Cinema a Pavia Tra promesse mancate e cineforum Intervista esclusiva allo scrittore Paul Bakolo Ngoi La politica del muro di Mauro Del Corno Q uando si innalza un muro per non vedere, sentire, dialogare, non è mai positivo; Barattolo compreso (a meno che non si parli di speculazione edilizia, che in quel caso è positivo per gli speculato- ri). Come se l’atto materiale di costruire un muro possa mettere a tacere per sempre gli animi e le voci che, del Barattolo, ne hanno fatto un “quartiere sociale”. La giunta comunale ha insistito sulla pa- rola “illegalità”, come se la vera illegalità a Pavia fosse un gruppo di giovani volenterosi appassionati ad attività come il doposcuola per stranieri, come il riciclaggio di bici usate e anche come incentivare giovani a discutere di politica, soprattutto quella locale. Un muro. Questo è il massimo sforzo adottato dalla giunta comunale nei confronti del Barattolo e delle sue numerose realtà. Più di una volta il Sindaco Cattaneo, il Vicesinda- co Centinaio e vari assessori hanno affermato che hanno tentato il dialogo con i membri del Barattolo, ma senza andare in contro alle loro proposte. Infatti la proposta del comune era quella di firmare una convenzione capestro nella quale non si poteva fare riunioni politi- che, non si poteva fare concerti, non si poteva vendere alcolici, chiusura serale del locale; in- somma, una serie di proibizioni che pratica- mente avrebbe portato l’attività del Barattolo alla paralisi totale. È comprensibile perciò la rabbia del Barattolo che si vede sfrattato dopo 13 anni dalla sua casa, per giunta senza pre- avviso e senza rispetto per le attrezzature la- sciate al suo interno. Infatti, il comune ha avu- to la brillante idea di fare lo sgombero senza preavviso circa dieci giorni prima rispetto alla data annunciata. Sgombero fatto il 4 maggio alle 8:00 mentre diluviava. E così, col totale disprezzo, vennero portati fuori e messi sotto la pioggia vari apparecchi elettronici: compu- ter, impianti audio e impianti luce. Inevitabili i danni, successivamente denunciati dal Ba- rattolo con richiesta di risarcimento. Lo sgombero, il muro, non ha fatto nient’altro che spostare verso il centro storico ciò che il comune considera illegale. Continua a pagina 2 4 I-VIII 10-11

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Il giornale degli studentidell’Università di Pavia

Anno XV - Numero 102 - maggio/giugno 2010 Distribuzione gratuita

Il giornale degli studentidell’Università di Pavia

Festival del giornalismo 2010 Super speciale sulla trasferta a Perugia di Inchiostro

Cinema a PaviaTra promesse mancate e cineforum

Intervista esclusiva allo scrittorePaul Bakolo Ngoi

La politica del murodi Mauro Del Corno

Quando si innalza un muro per non vedere, sentire, dialogare, non è

mai positivo; Barattolo compreso (a meno che non si parli di speculazione edilizia, che in quel caso è positivo per gli speculato-ri). Come se l’atto materiale di costruire un muro possa mettere a tacere per sempre gli animi e le voci che, del Barattolo, ne hanno fatto un “quartiere sociale”.

La giunta comunale ha insistito sulla pa-rola “illegalità”, come se la vera illegalità a Pavia fosse un gruppo di giovani volenterosi appassionati ad attività come il doposcuola per stranieri, come il riciclaggio di bici usate e anche come incentivare giovani a discutere di politica, soprattutto quella locale.

Un muro. Questo è il massimo sforzo adottato dalla giunta comunale nei confronti

del Barattolo e delle sue numerose realtà. Più di una volta il Sindaco Cattaneo, il Vicesinda-co Centinaio e vari assessori hanno affermato che hanno tentato il dialogo con i membri del Barattolo, ma senza andare in contro alle loro proposte. Infatti la proposta del comune era quella di firmare una convenzione capestro nella quale non si poteva fare riunioni politi-che, non si poteva fare concerti, non si poteva vendere alcolici, chiusura serale del locale; in-somma, una serie di proibizioni che pratica-mente avrebbe portato l’attività del Barattolo alla paralisi totale. È comprensibile perciò la

rabbia del Barattolo che si vede sfrattato dopo 13 anni dalla sua casa, per giunta senza pre-avviso e senza rispetto per le attrezzature la-sciate al suo interno. Infatti, il comune ha avu-to la brillante idea di fare lo sgombero senza preavviso circa dieci giorni prima rispetto alla data annunciata. Sgombero fatto il 4 maggio alle 8:00 mentre diluviava. E così, col totale disprezzo, vennero portati fuori e messi sotto la pioggia vari apparecchi elettronici: compu-ter, impianti audio e impianti luce. Inevitabili i danni, successivamente denunciati dal Ba-rattolo con richiesta di risarcimento.

Lo sgombero, il muro, non ha fatto nient’altro che spostare verso il centro storico ciò che il comune considera illegale.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 20102

Pavia

Disordini sociali e Festival farlocchiEra meglio la pioggia

di Riccardo Carcano Casali

Mentre, durante una festa, mi tro-vavo a parlare degli ultimi fatti di

cronaca che hanno scosso Pavia (il Barattolo murato, l’Università invasa, gay e “diversi” malmenati dai naziskin) mi ha stupito la posizione di un ragazzo presente: “Certo, ho scardinato il cancello dell’Università e sono entrato. Ma guarda ai problemi del mondo e alla loro gravità, a quello che succede nel nostro paese. In confronto a certe cose, quel-lo che ho fatto io non è niente.” Una specie di storia della pagliuzza e della trave, distorta e trasformata in un diritto a “farsi giustizia da soli”che, oltre a ledere i diritti di terzi (i cui occhi sono spesso privi sia di travi che

di pagliuzze) butta nuova legna sul fuoco, e alimenta la violenza. Ma non c’è da stupirsi, è questa l’aria che respiriamo a Pavia: gente che erge muri, gente che butta giù cancelli, e chi vuole andare in università a studiare la sera si ritrova col divieto da parte del rettore, e si domanda: “ma che c’entriamo noi con tutto questo?”. Niente, perché qui la partita si gioca sul campo sbagliato e senza regole, ed è difficile dire chi per primo ha fatto il passo più lungo della gamba.

La manifestazione in favore del Barattolo era ben nutrita, ma non certo impressionan-

te: una conseguenza naturale allo sdegno di vedersi sfrattati che ha però avuto, come spesso accade quando si scende in piazza, un impatto più visivo che sostanziale. Ci voleva di più per fare impressione alla Giunta, che invece di fare marcia indietro, continua per la sua strada. Facendo di una presunta lega-lità la propria bandiera, ma dimenticandosi di fare i distinguo necessari: una cosa sono una decina di buzzurri con le svastiche e le ragnatele tatuate che occupano uno stabile in Viale Sardegna, un’altra le centinaia di ragazzi e le associazioni che da anni occu-pavano il Barattolo, e che forse meritavano un trattamento che tenesse conto, al di là

dell’abusivismo, del radicamento di queste realtà nella vita sociale pavese.

Ed infine ecco arrivare l’ultimo capolavo-ro del Comune, un inquietante Pavia Music Festival le cui modalità, che prevedono una serie di vantaggi che alle associazioni non strettamente legate alla parte politica della Giunta non sono state concesse in occasione del Maggio Pavese, lasciano davvero perples-se quelle associazioni i cui volontari si sono sbattuti gratuitamente e con scarsi mezzi per rendere la città più viva. Quasi quasi era meglio la pioggia.

Continuazione di pagina 1Lo stesso giorno infatti ci furono dei mo-

menti di tensione e confusione avvenuti in aula del ‘400 dell’università dove si verifica-rono anche degli episodi di violenza da parte di persone appartenenti agli ambienti politi-ci della destra estrema. A seguire nei giorni successivi, ci furono altre violenze subite da persone solidali al Barattolo da parte sempre di persone di estrema destra. La politica del muro ha solamente alimentato questo clima di tensione che già si respirava da un po’ di tempo. Nel frattempo i capigruppi di mag-gioranza( di cui fa parte Mognaschi intervi-stato da Inchiostro a pagina 3) presenta un ordine del giorno nel quale si chiede al Sin-daco di condannare gli episodi di violenza e di impegnarsi a trovare luoghi più consoni per le attività giovanili. Benissimo! Ma mi permetto di dire che una politica intelligente avrebbe prima trovato nuovi spazi più consoni alle atti-vità giovanili come quelle del Barattolo(ma non solo) e poi, se così andava fatto, chiudere quegli spazi che non andavano bene.

A pochi giorni dalla chiusura, si è reso pubblico che il locale dove risiede-va il Barattolo verrà asse-gnato allo SFA(Servizio Formazione Autonomia), il quale anche lui sfrattato dalla sua attuale sede in Viale Oberdan. Giusta-mente anche loro, anzi, so-prattutto loro, hanno il bi-sogno nonché il diritto di avere un locale nel quale svolgere le proprie attività. Di certo però c’erano tanti altri spazi usufruibili come quello del Barattolo. Come ad esempio parte dei 700 mq del “nuovo mercato” sotto Piazza Vittoria, op-pure il vecchio stabilimen-to della protezione civile in via Luigi Porta. Spazi che il comune poteva dare allo SFA come al Barattolo, program-mandoli a tempo debito, discutendone e re-golamentando le varie attività. Insomma, le alternative andavano proposte e progettate prima dello sgombero.

Ora bisogna ripartire da capo, sperando che il comune non sia miope come prima e che prenda spunto dalle migliori caratteri-stiche del “vecchio” Barattolo per un nuovo spazio per i giovani ed un ripristino di ag-gregazione sociale.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 3

Pavia

Inchiostro - I rapporti tra amministrazione comunale e il C.S.A sono sempre più tesi da Gennaio in poi. Sulla Provincia

il sindaco dopo l’ultimo concerto, dichiara “Revochiamo la conven-zione”, “il barattolo non è un luogo adatto ai concerti”. I ragazzi del Barattolo tentano il dialogo e poi si susseguono iniziative per sostenere l’attività del centro. Arriva la revoca della convenzione a cui i Barattolini rispondono con l’occupazione. Possibile che non esistessero strade alternative?

Mognaschi - Come si fa un giorno a “tentare il dialogo” e il giorno dopo a fare un concerto non rispettando gli orari della convenzione e vendendo alcolici senza licenza? La convenzione (fatta su misura per loro dal sindaco Capitelli) è stata in realtà rescissa dai sottoscrittori delle associazioni e solo dopo è avvenuto lo sgombero…E’ già tanto che per 13 anni i figli della Pavia bene di sinistra hanno goduto del privilegio di uno spazio tutto loro in monopolio…il Barattolo aveva di sociale solo la partecipazione della comunità alle spese per il suo mantenimento.

Il Barattolo non era solo Co.R.S.A.Ri ma anche Cicloffoicina, New Funk, Pavia in serie A , Babele onlus e ancora un gruppo G.A.S. Associazioni attive nel sociale, che hanno svolto servizi per la comunità pavese. Se il motivo della chiusura del C.S.A è stato quello di irrispetto verso gli accordi presi, queste organizzazioni che per anni hanno servito Pavia gratuitamente e nella legalità non meritano forse un trattamento di riguardo?

Diciamo solo che di sei associazioni le due che veramente offrivano servizi alla città sono state ricollocate in altri spazi comunali. Delle altre mi risulta che stranamente i presidenti fossero alcuni dei membri storici dei Corsari…mi pare evidente che non ci sia tutto questo mo-vimento attorno al Barattolo se non quello creato dai Corsari stessi. I responsabili della revoca della convenzione sono le stesse persone delle associazioni…si dovevano assumere le loro responsabilità.

A Pavia, dove gli studenti e l’università sono risorse fondamen-tali, non credi che l’improvvisa chiusura di un luogo di libera ag-gregazione possa lasciare un vuoto difficilmente colmabile? Quali sono i vostri progetti futuri dedicati ai giovani?

Sui progetti dedicati ai giovani sono il primo a dire – e ho presen-tato un ordine del giorno in consiglio comunale firmato da tutta la maggioranza – che il sindaco deve trovare spazi adatti alle attività giovanili, ma nella piena fruizione da parte di tutti e nel rispetto delle regole. Sul vuoto incolmabile bisogna vedere i punti di vista…se per i pochi figli di famiglie benestanti che vi potevano accedere o se per la massa di giovani pavesi che, non avendo la fortuna di vivere nelle stesse famiglie, ogni sabato sera è costretta ad andare altrove, spesso fuori città.

Inchiostro - Pensi abbia agito in maniera corretta il Comu-ne sgomberando il Barattolo? E soprattutto cosa pensi delle

modalità con cui l’ha fatto?Veronesi - Il Comune, chiudendo il Barattolo, ha issato un

muro con i giovani, opponendosi così a un vero e sano dialogo con una parte importante della città. Noi siamo contro ogni chiusura di centri di aggregazione giovanili, soprattutto se non si dà una vera alternativa. Basti pensare che nella stesura del PGT, proprio di questi giorni, non si è pensato a creare luoghi dove poter fare cultura e stare insieme. Però è anche vero che se ci sono delle regole queste vanno rispettate, e la maggior parte di quelli che gestivano il Barattolo non lo ha fatto. Bisogna rispettarle proprio per evitare di trovarsi in situazioni del genere, dove si è ricattabili e si rischiano pesanti conseguenze.

Come vedi il futuro delle associazioni che prima avevano sede al Barattolo? Pensi verrà trovato un altro posto per loro? Credi ne abbiano diritto?

Sicuramente ne hanno diritto. Qualunque associazione che ag-greghi e porti valore aggiunto alla città deve poter operare in tran-quillità e con le risorse necessarie, se no la città muore. E una città morta, senza stimoli s’impoverisce, diventa individualistà e perde la coesione e la socialità. È necessario che le realtà associative che usavano il Barattolo possano trovare luoghi dove poter continuare le proprie attività. E mi chiedo, e chiedo a Cattaneo, dove sono con-cretamente tutte quelle promesse per i giovani e l’associazionismo in genere che ha fatto in campagna elettorale? I luoghi d’aggrega-zione che tanto sbandierava un anno fa e il progetto di un centro giovani sotto piazza Vittoria che era già contenuto nel programma di Albergati, dove sono?

Non ti sembra che si sia arrivati a un triste ritorno agli anni ‘70 con le lotte fra anarco-comunisti e fascisti?

La situazione in città è orrenda e bisogna che cambi in fretta. Da una parte i ragazzi del Barattolo rischiano di soffiare sul fuoco con certe occupazione piuttosto discutibili e controproducenti, poichè non agevolano il consenso e il sostegno della cittadinanza, ora più che mai fondamentale. Dall’altra parte, e questo è veramente grave, quattro dementi neofascisti che non dovrebbero proprio circolare (alcuni hanno già ricevuto il foglio di via ma sono ancora in giro per il centro) marciano per la città picchiando a destra e a manca. Ultimo caso qualche sera fa: hanno tirato fuori un coltello minac-ciando due ragazzi in mezzo alla folla, che per fortuna è riuscita a farli scappare, evitando che accadesse il peggio. È vergognoso che nessuno dica e faccia niente. Cosa fa il Sindaco, aspetta che il san-gue scorra per Strada Nuova?

Roberto VeronesiSegretario dei Giovani

Democratici della Provincia di Pavia

Matteo MognaschiCapogruppo della Lega Nord nel Consiglio Comunale di Pavia

Sgombero si o sgombero no?A cura di Matteo Miglietta e Francesca Perucco

Abbiamo voluto rivolgere qualche domanda a due giovani politici pavesi per sapere cosa ne pensano degli ultimi avvenimenti cittadini riguardanti il CSA Barattolo.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 20104

Pavia

Febbraio 2009: la Kursaal dopo ottan-totto anni di vita chiude i battenti

privando Pavia delle tre sale centrali di cor-so Cavour. Con la nuova destinazione d’uso dell’area (ora residenziale) approvata dal Co-mune, il proprietario ha deciso di investire in un campo assai più remunerativo: la co-struzione di un condominio di lusso.

I pavesi hanno, perciò, rivolto le loro at-tese verso la tanto promossa – e promessa- multisala di via Oberdan. Il progetto risale alla giunta Capitelli, sotto cui era stato ap-provato. Si tratta di un project financing: in sostanza prevede che il vincitore della gara di appalto si sobbarchi tutte le spese di co-struzione e di gestione rientrando delle spese con gli incassi; dopo 40 anni la multisala passa nelle mani del Comune, che ne di-venta proprietario. Il pregio di questo tipo di contratto è che do-vrebbe comportare nella gestione dei la-vori una trasparenza normalmente assente negli appalti pubblici (dove gli sprechi e i ritardi sono all’ordine del giorno).

Il bando di gara per la costruzione della multisala è sta-to vinto da Tullio Facchera e, a detta dell’assessore ai La-vori Pubblici Luigi Greco, il cantiere potrebbe aprire sin da subito. Il problema, però, è che Facchera vor-rebbe modificare ormai in corsa il progetto approvato, affidando l’operazione a due so-cietà diverse dal suo gruppo. Dal momento che le leggi vietano la modifica del progetto una volta vinta la gara d’appalto e che Fac-chera non sembra intenzionato a cedere, è probabile il naufragio del piano Oberdan (le cui ultime notizie pervenuteci risalgono ai primi di Marzo). Questo a dispetto della vo-lontà dell’assessore che sostiene fortemente l’apertura di una nuova struttura in centro, piuttosto che in periferia.

Intanto alcuni cittadini, preoccupati del prevedibile aumento di traffico che deriverà

dal nuovo cinema, hanno richiesto uno stu-dio di impatto ambientale prima dell’inizio del cantiere. Infatti i titolari dell’operazio-ne, avendo previsto un parcheggio di “poco meno” di 500 posti auto, hanno abilmente evitato l’obbligo di analisi di impatto am-bientale (previsto dalla legge per parcheggi con posti macchina superiori proprio a quel-la cifra).

In un quadro già così complicato, si inse-risce anche il progetto di costruzione di una nuova multisala a San Martino, sinora bloc-cato per la mancanza della Vas (Valutazione ambientale strategica). Risale al mese scor-so la notizia che i lavori inizieranno questa

estate e che l’apertura dell’impianto è previ-sta già per fine anno. Ancora nessuna delle due multisala pro-messe ha visto l’inizio dei lavori e già si par-la della concorrenza reciproca che ne de-riverà. Soprattutto perché la struttura di San Martino pro-mette –almeno sulla carta- di essere molto competitiva grazie alle sue cinque sale con annessa pizzeria e sala giochi.

Intanto però in questo susseguirsi di dichiarazioni e pro-messe, Pavia-città si accontenta delle tre sale ancora soprav-vissute (in dieci anni

ne sono state chiuse ben cinque), mentre le fiorenti multisala di periferia –come quello nato nel 2000 a Mon-tebello della Battaglia- impongono e incen-tivano l’uso smodato delle automobili. Così, vista l’esiguità dei cinema, molti film non sono passati per Pavia-centro (tra gli altri Agorà, film di cui ho già parlato nel numero 98 e che finalmente ha visto la luce anche in Italia per merito della Mikado Film).

Per fortuna, questo mezzo di cultura popolare continua a resistere -nonostante il disinteresse o “gli eccessivi interessi” di po-chi- utilizzando format diversi (come i ci-neforum), spesso per iniziativa di semplici studenti universitari.

Cinema e PaviaProspettive e promesse da mantenere

Di Irene Leonardis

Non è un paese per...cinefili

di Valentina Falleri

Se fossimo su Facebook, diremmo che “Pavia ha una relazione com-

plicata con il cinema”. Dopo la chiusura delle sale storiche

in centro (l'ultima ad aver subito que-sta sorte in ordine di tempo è stata il Kursaal, con le tre sale Corso, Corsino e Arti), ad un pavese appassionato di cinema non resta che accontentarsi dei sopravvissuti Politeama e Corallo-Ritz.

I più fortunati, ossia quelli “moto-rizzati”, possono migrare verso altri lidi: nello specifico, verso i multisala di Montebello della Battaglia e di Rozza-no, ovvero a 25 chilometri dal centro.

Davvero inconcepibile per una città universitaria, a meno che per cinema non si intendano solo i “cinepanettoni" di Vanzina. E così gli studenti hanno deciso di correre ai ripari, organizzan-do autonomamente una serie di cinefo-rum.

Si è partiti con il “Cineforum all'Ita-liana” organizzato da UniOnPv (la rete delle associazioni studentesche), nel quale si proponevano durante la stessa serata due diversi film tra quelli che hanno fatto la storia del cinema italia-no, da “Amici miei” a “8 e mezzo”, da “Roma città aperta” a “Il sorpasso”.

Anche i collegi hanno realizzato una serie di iniziative cinematografiche, che si sono tenute tra aprile e maggio.

Il collegio Fraccaro ha dedicato il suo cineforum alle migliori pellicole di Sergio Leone.

Il Castiglioni ha organizzato una rassegna sugli “Amori difficili” mentre il Borromeo ha scelto il tema “Tra de-monio e santità: percorso nel cinema di Liliana Cavani”.

Ultima in ordine di tempo, ma non di importanza, la rassegna di cinema indipendente Indie, giunta ormai alla quattordicesima edizione.

L'iniziativa è promossa dall'UDU e prevede un tema per ognuna delle quat-tro serate: storia/storie, amore/amori, tempo/tempi, passato/presente.

Sono solo alcuni esempi, ma signi-ficativi per dimostrare che riportare il buon cinema in città è ancora possibile.

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Università

Chi di noi non ha mai scattato una

fotografia digitale o rispo-sto a una chiamata al cel-lulare? Dietro a queste co-muni azioni si nascondono tanti gesti, che ognuno di noi ormai compie involon-tariamente come ad esem-pio: pronunciare la frase “qui non prende” o mentre si scatta una fotografia non capire se un oggetto è più lontano di un altro o in che direzione si stia spostando.

Nel dipartimento di elet-tronica della nostra univer-sità il Professore Giuseppe Martini si occupa di queste e di altre problematiche le-gate alle apparecchiature elettroniche e ai rumori di fondo in circuiti elettronici. Do-cente di Elettronica I per il corso di studi di Ingegneria informatica, il Prof. Martini rappresenta l’università e la ricerca italiana in organizzazioni internazionali inerenti l’elettronica e l’ottica. I suoi studi, in par-te svolti in collaborazione con altri docenti del dipartimento di elettronica, sono ricchi di curiosità e innovazione, come lo studio dei rumori di fondo in circuiti elettronici; è grazie all'applicazione dei risultati di ri-cerche di questo tipo che possiamo ascoltare così bene la musica nei moderni impianti ad Alta Fedeltà, dove è ridotto al minimo il fastidioso fruscio che emerge nelle pause di ascolto ad alto volume. Pensiamo anche al il telefonino: noi tutti desideriamo “pren-

Elettronica per la vitadi Daniele Mantione e Valentina Montagna

da” anche nelle condizioni più difficili ma in compenso di non dover essere costretti a ricaricare continuamente le batterie. La fo-tografia scientifica ad alta velocità di ripresa (106 immagini/secondo) è un altro argo-mento di ricerca e in particolare il progetto MEGAFRAME, dove sono coinvolti anche partner internazionali, come le università di Losanna e di Edimburgo, incentiva la ricer-ca di sensori ottici capaci di contare i singo-li fotoni e di scattare fotografie che danno l’informazione dei movimenti, ad esempio di fluidi diversi, quindi le più svariate ap-plicazioni in campo medico in campo bio-logico e idraulico. Un esempio più chiaro può essere l’immagine di un corso d’acqua, senza riferimenti alla sorgente o alla foce, e questa tecnologia è capace di dirci in che

senso scorra l’acqua...e se non c’è solo acqua!

Nell’ambito del proget-to MEGAFRAME il Prof. Martini si occupa della parte ottica del sensore: le microlenti poste su ciascun pixel, la più piccola unità dell’immagine, per aumen-tarne la capacità di raccolta della luce.

Ancora nel campo della fotografia tecnico/scienti-fica il Prof Martini studia, in collaborazione con altri gruppi di ricerca italiani, un’altra applicazione di ri-lievo: si tratta di un proget-to PRIN finanziato dal mi-nistero dell’istruzione, che

tratta la possibilità di scattare fotografie in tre dimensioni. Il pixel può contenere non solo le informazioni di luminosità ma anche la distanza degli oggetti raffigurati. Questo è il futuro della fotografia poiché le sue ap-plicazioni possono essere in tutti i campi: dal riconoscimento del volto, alla dinamica di un incidente (sarebbe come essere vera-mente presenti in quell’istante), dalla scena del crimine alla foto di un paesaggio, tutto avrebbe più chiarezza. Infatti nelle norma-li foto la prospettiva a volte inganna, come può avvenire quando si tenta di reggere una torre pendente o un monumento sulla mano. Questi sono solo alcuni dei progetti che con passione sono portati avanti da uno dei nostri migliori ingegneri che vanta una preparazione tutta italiana.

Cellurare - Da due Kg a pochi grammi in 40 anni

Martin Cooper, ricercatore e diri-gente della Motorola, è considerato l’inventore del primo telefono cellula-re, dopo una lunga e competitiva ri-cerca contro i Bell Labs per creare un telefono portatile. Mentre si trovava per le strade di Manhattan il 3 Aprile 1973 con il suo prototipo di cellulare, il Motorola Dyna-Tac, telefonò al suo rivale, il dottor Joel S. Engel dei Bell Labs: quella è ritenuta la prima tele-fonata tramite cellulare.

L’ingegnere durante una conferen-za stampa ha dichiarato che per la sua

ricerca era stato ispirato dal capitano Kirk della serie televisiva Star Trek. Questo modello di cellulare pesava cir-ca due chili e la sua batteria durava più o meno 35 minuti, ma il Sig Cooper affermò che le batterie non erano un grande problema perché non si riusci-va a tenere il telefono in mano così a lungo. Il sig Cooper è ancora un arzil-lo vecchietto cofondatore della Natio-nal Academy of Engineering e com-pare attivamente anche in programmi televisivi a dimostrazione che, quando la mente resta attiva, si resta giovani.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 20106

Università

L’associazionismo pavese è in crescita, e si vede. La lunga kermesse di eventi

che va sotto il nome di Maggio Pavese -un susseguirsi di concerti, dibattiti e iniziative culturali- è tutto frutto della collaborazione e dello spirito di iniziativa delle associazioni pavesi. La lista è lunga: Gi.P.Pa., Rockline, UDU, Kronstadt, OMP, Radio Aut, noi di Inchiostro, e altre ancora. A dimostrazione che la risposta più credibile all’immobilismo sociale pavese arriva dal basso, da parte di cittadini organizzati, propositivi e – cosa molto importante- giovani. Dove gli organi politici sonnecchiano, è giusto che siano i cittadini, veri proprietari della città, a pren-dere in mano la situazione, nel rispetto della legalità, ma senza aspettare soluzioni che la politica non può dare. Gli scorsi 7 e 8 maggio Unionpv, la rete che coinvolge buona parte delle associazioni pavesi, ha riproposto an-che quest’anno il Festival delle Idee: musica, birra a fiumi nella cornice del fossato del Ca-stello. L’iniziativa è stata un successo di pub-blico, nonostante si svolgesse sotto i cattivi auspici di un cielo grigio e dei movimentati fatti di cronaca che hanno scosso Pavia. Gra-zie a voi, le offerte raccolte durante le serate saranno investite da Unionpv l’anno prossi-mo per iniziative ancora più in grande stile. Questo maggio si sta rivelando piuttosto pio-voso, ma nemmeno le intemperie fermano i progetti in cantiere, che proseguiranno fino a fine mese. Contando sulla partecipazione sempre più numerosa da parte di tutti, l’au-spicio è che, in futuro, maggio duri tutto l’anno.

Omofobi: a volte ritornanoE neanche Pavia, con le sue violenze, è estranea al problema

di Matteo Miglietta

L’UniOnPvfa la forzadi Riccardo Carcano CasaliL'accettazione di quello che dai più è

considerato “diverso” deve rimanere un'aspirazione e un obiettivo costante, anche se si pensa di aver raggiunto il punto d'arri-vo. Quando però si verificano violenze verso questi “diversi”, quando l'indifferenza si tra-sforma in insofferenza, allora è il momento di fermarsi a riflettere, per capire cosa sta an-dando storto e cercare di trovare una soluzio-ne. Tutti ricordano quanto fu difficile l'estate scorsa per il mondo omosessule, in particolare per i ragazzi romani, che hanno subito diverse aggressioni da parte di esaltati omofobi, ripe-tutesi in diverse occasioni durante i mesi a causa del clima teso, che si era poi creato in città.

Oggi, alle porte di una nuova estate, biso-gna tenere la guardia più alta che mai, pro-va ne sono gli episodi “spiacevoli” verifica-tisi anche nella no-stra Pavia. Martedì 13 aprile, infatti, è stata una giornata decisa-mente importante per il mondo omosessuale pavese, che ha prima organizzato in Piazza Vittoria una singolare forma di sit-in: è stata ribattezzata “kiss-in” perché tutte le coppie presenti si sono baciate contemporaneamen-te sotto lo slogan “in amore si è tutti uguali, ciascuno è diverso”. Poi, in aula del '400, la seconda serata del ciclo di conferenze “Stop all'omofobia” orga-nizzato dall'UDU, in collaborazione con Comingout e il Circolo culturale Cairoli, ha mantenuto alta l'attenzione sull'ar-gomento. Ebbene, proprio quella stessa sera dopo mezzanotte, durante la serata “Gay friendly” al bar Dublino, due tren-tenni hanno aggredito Giuseppe Polizzi, tesoriere dell'Arcigay di Pavia, e riempito d'insulti a sfondo sessuale Barbara Bassa-ni, vicepresidente di Arcigay, e l'avvocato Stefania Santilli, protagonista della confe-renza di poco prima. A quanto pare, i due “buontemponi” non sono riusciti a pensa-re niente di meglio che calarsi i pantaloni

e iniziare a minacciare e deridere i pre-senti, per poi afferrare al collo a sbattere a terra Giuseppe, che intanto stava cercando di calmare gli animi.

Insomma nemmeno Pavia sembra rimasta immune dall'ondata omofoba che sta travol-gendo il nostro Paese, più o meno a partire da quando a Roma, dopo l'insediamento del nuovo sindaco Alemanno, gruppi di esaltati hanno iniziato ad alzare la testa, pensando di essere legittimati nelle loro azioni da un'ammi-nistrazione considerata amica. Ma da tempo il problema riguarda tutta Italia in maniera tra-

sversale: l'ultima ag-gressione di cui si ab-bia notizia è avvenuta a Bolzano nella notte fra l'8 e il 9 maggio, decisamente lontano dalla capitale.

Persino il governo si è accorto che qual-cosa va fatto. Così il Ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna, il 9 novem-bre scorso, ha presen-tato la prima cam-pagna istituzionale di sensibilizzazione contro l’omofobia e le discriminazioni di genere mai fatta da un governo italiano. Il Ministero ha in-vestito 2 milioni di euro nell’iniziativa, che comprende una serie di opuscoli da distribuire nelle scuo-

le, uno spot radiofonico e uno televisivo, che hanno raccolto molti apprezzamenti da parte della comunità lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e trans). Apprezzamenti confermati anche dall’onorevole Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, durante la sua presen-za a una delle quattro serate in aula del ‘400 di cui parlavamo prima. «Ricordate che la violenza non è solo quella fisica -ha esordito Grillini-, esiste anche la violenza verbale, ad esempio quando ti dicono che sei contro natu-ra. Combattere l’omofobia significa riportare un po’ d’aria buona in Italia». Peccato che la IV Giornata mondiale contro l’omofobia, ce-lebratasi lo scorso 17 maggio, nel nostro Paese sia passata quasi in sordina.

A useful tip for students: sconti sui computer

Andare in centrale sfoggiando un Mac è il vostro sogno proibito? Ora è un po’ più facile che si avveri. UNO, il negozio della Apple di Corso Mazzini, offre sconti agli studenti universitari per i suoi prodotti. Si parla di sconti del 6% sul prezzo totale, a tasso zero. Lo sconto non sarà altissimo, ma sicuramente è di grande valore per lo studente che deve affrontare le grandi spese dello studio. UNO ha contribuito alla sponsorizzazione del Festival delle Idee. Insomma, un vero amico dei giovani studenti!

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Il giornale degli studentidell’Università di Pavia

Allegato a Inchiostro n. 102 maggio/giugno 2010Inserto Speciale n. 11

Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 I

Festival Internazionale del GiornalismoL’orgoglio di essere lettori

di Giacomo Onorati

A Perugia, da quattro anni, il giorna-lismo si racconta, lasciandosi scru-

tare con sguardo critico da quei lettori che, posato il quotidiano sulle ginocchia, siedo-no pazientemente in platea come spettatori, in attesa di ascoltare una qualche riflessio-ne da portare a casa come souvenir.

Tante le persone accorse a questa edizio-ne del Festival Internazionale del Giorna-lismo: studenti, blogger, lettori affeziona-ti, giornalisti (ovviamente) ed anche noi, “quelli dei giornali universitari”.

Nei cinque giorni densi di incontri (dal 21 al 25 aprile), gli ospiti italiani e internazionali intervenuti alle diverse discussioni tematiche hanno tentato (con alcuni apprezzabili risul-tati) di non arenarsi nell'autoreferenzialità di un giornalismo che si parla/sparla addosso, quanto piuttosto d'interrogarsi sulle nuove modalità e sui linguaggi, anche tecnologici, che la comunicazione impone oggi ai suoi operatori, commerciali e non.

Il lavoro portato avanti da ProPublica mostra un percorso esemplare che, in-chiesta dopo inchiesta, ha condotto questo sito statunitense d’informazione no-profit al Premio Pulitzer. Persino la redazione de Il Fatto Quotidiano inten-de approfondire il rapporto con la rete ed è ormai prossima a lanciare un vero portale d’informazione, un’impresa che, a vedere l’affollata accoglienza riservata ai redattori, sembra lasciare pochi mar-gini d’incertezza.

Tra le emittenti televisive merita attenzio-ne il modello di Current, il network fondato da Al Gore (anche lui a Perugia in coppia con Roberto Saviano), che attraverso l’ormai rodata interazione web/televisione ha aperto la propria programmazione anche ai pro-dotti di videomaker indipendenti.

Non soltanto l’attività di cronaca, ma anche l’approfondimento culturale ha bi-sogno di essere reinventato e reso di più

immediata comprensione al pubblico, sen-za però abbassarne la qualità. Infatti, mai come ora, attraverso le pagine culturali dei giornali si gioca una sfida sul campo dei valori, un pensiero ben espresso da Giovanna Zucconi, che, citando nel suo intervento un recente proclama del Mini-stro (nonché Professore) Giulio Tremonti, «non siamo snob, mica leggiamo i libri noi», ha sottolineato come il disprezzo verso la cultura venga particolarmente incitato in Italia. «In un Paese dove chi legge viene fatto passare per nemico del popolo, leggere diventa un gesto dal valore politico», ha dichiarato la giornalista, con un’autore-volezza ed una passione ormai rare negli appelli dei partiti e che non potevano che strappare un applauso.

L’orgoglio di essere lettori: questa è la sensazione che il Festival Internazionale del Giornalismo trasmette al suo crescente pubblico. Un piccolo souvenir da Perugia.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010

Dossier

II

Non di sola cronaca si nutre il gior-nalismo, bensì anche di cultura,

un termine spesso abusato. Per questo mo-tivo, nel programma del festival perugino è stato incluso l’incontro “Giornalismo culturale: dalla terza pagina al citizen journalism”, tenutosi venerdì 23 aprile al Teatro Pavone e moderato da Massimo Gramellini, vicedirettore de La Stampa, sulla cui prima pagina scrive il corsivo “Buongiorno”, ed autore della posta del cuore per il settimanale Specchio.

Inchiostro - Di recente si è registrata una certa spettacolarizzazione del gior-nalismo: anche lei, ad esempio, è ormai ospite fisso di “Che tempo che fa”. Cosa pensa di questo spostamento dallo scrit-tura al video?

Gramellini - Dipende dai media: se oggi fosse vivo Manzoni probabilmen-te scriverebbe anche delle sceneggiature cinematografiche. Ognuno lavora con i mezzi della sua epoca: oggi un giornalista deve essere multimediale, in grado di scri-vere un articolo, di parlare in televisione, alla radio e usare un blog. Deve comuni-care. La cosa importante in questi anni è mantenere sempre la propria dignità e quindi non farsi catturare dai mezzi, cioè essere così bravi e così dignitosi e umili da non farsi prendere la testa. La televisione, soprattutto, è un’arma molto pericolosa e quindi va usata poco, presa con le pinze magari cercando di andarci per dire qual-cosa che si sente poco. Il rischio della TV in particolare è quello di rendere tutto una cosa molto leggera, mentre invece bisogna anche avere il coraggio di rischiare e dire cose magari non leggere, però cercando di dirle nel modo più leggero possibile. Insomma, la capacità di essere profondi senza essere pesanti. Invece nella cultura italiana spesso si pensa che siano profondi solo quelli che non capisce nessuno.

Nella sua rubrica, “Buongiorno” viene mostrata spesso l’assurdità di alcuni fatti di cronaca, come un’esortazione a scanda-lizzarsi finalmente di qualcosa. Secondo lei non c’è una sorta di insensibilità ad in-dignarsi? Cosa può servire a risvegliare questo sentimento?

Io penso un’altra cosa ancora: l’indi-gnazione non basta. Perché dopo, a furia di denunciare, chi è dall’altra parte mette

L’indignazione non bastaIntervista a Massimo Gramellini

a cura di Irene Leonardis, Giacomo Onorati e Irene Sterpi

su una corazza di cinismo per non soffri-re. Il risveglio delle coscienze è impor-tante, ma accanto a quest’elemento biso-gna cercare di dare anche delle speran-ze e io nel “Buongiorno”, fin dal nome, cerco di alternare le rubriche proprio in questo senso: bisogna ricordare sempre alla gente che la realtà è trasformabile nei sogni, che il futuro esiste, e nessuno più ne parla. Il racconto del male, purtroppo, non produce risveglio, ma assuefazione; allora bisogna raccontare il male, ma poi dire alla gente che tu puoi cambiare quella realtà, perché altrimenti il pensie-ro collettivo è: “E che ci posso fare io?” Per questo io sono un fautore del raccon-to del bene, purché non sia un racconto retorico o mieloso, ma fatto con grande garbo e con grande distacco. Mai come in questo momento le persone hanno bi-sogno di esempi positivi e di credere an-cora, perché nelle epoche di crisi politica, economica (come quella attuale) e morale ce n’è un enorme bisogno. È bastato che un signore di colore, intelligente e colto, con un’idea e un po’ di cuore, entrasse in politica in America sfidando gli appara-ti e tutti si sono innamorati di Obama. Quindi c’è un bisogno enorme di questo tipo di persona e di esempi positivi.

Ogni giorno molti lettori, anche su in-ternet, commentano la sua rubrica e le scri-vono raccontandole anche i loro problemi di cuore. Ritiene sia importante avere un rapporto stretto con i propri lettori?

Dieci anni fa iniziai la posta del cuore quasi per gioco e col tempo mi sono accorto che da lì ho un riscontro della realtà e degli Italiani molto maggiore di quello che ho da altre parti. Ancora oggi rimpiango di non essermene ac-corto quando nel 2000, o forse nel 1999, rice-vetti la lettera di una ragazza che raccontava la fine della sua storia d’amore che lei era precaria in tutto e che aveva appena perso un lavoro in un “centro telefonico”, perché non esisteva ne-anche ancora la parola call center. Quella ra-gazza mi stava raccontando un modo nuovo, di cui i giornali non avevano ancora parlato, un mondo reale, quello di ragazzi che aveva-no un lavoro precario, ripetitivo, che magari avevano studiato con il sogno di fare un lavoro intellettuale. Il rapporto con i lettori è fonda-mentale: io la prima cosa che faccio la mattina quando apro La Stampa è andare nelle pagine della cronaca a leggere la rubrica “Specchio dei tempi” e ogni giorno vi pubblichiamo alcuni sfoghi di lettori. Ecco, lì tu hai l’unico modo per entrare in contatto davvero con i problemi della gente comune, che non sono quelli di cui si occupano i potenti.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 III

Dossier

Di fronte al progresso delle comunicazio-

ni, oggi chiunque è in grado di diffondere immagini e in-formazioni in tempi ridotti, condizione che ha condotto al fenomeno del giornalismo partecipativo. Tuttavia, an-che la stessa rete, come spazio di libera espressione, è sotto-posta ad una duplice minac-cia: da una parte lo strapote-re degli intermediari (come i portali di ricerca), dall’altra la mancanza di punti saldi e di regole di comportamento da parte degli stessi cittadini del web.

Solamente un approccio “eretico”, che metta in di-scussione i dogmi del gior-nalismo e di internet, potrà salvare entrambe le realtà. Questa è la tesi sostenuta da Massimo Russo e Vittorio Zambardino, giornalisti per Kataweb e Repubblica, au-tori del libro Eretici Digitali (edito da Apogeo, ma anche liberamente consultabile su www.ereticidigitali.it), risultato finale di un manifesto in dieci punti, ampliato da un processo di conversazione aperto a tut-ti, orientato all’analisi realistica dei mec-canismi della rete e alla formulazione di nuovi modelli di cambiamento.

Nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, questa spin-ta propulsiva è stata tradotta nel premio giornalistico “Eretici digitali 2010”, un riconoscimento per gli autori di inchieste giornalistiche che hanno saputo sfruttare le potenzialità della rete in termini di mul-timedialità e modalità di realizzazione.

In quest’edizione del premio, ben due sono stati i progetti vincitori ex aequo: Af-ter Jugo - Sarajevo the life of a generation - di Marco Pavan e ELEVEN Catania, inchiesta collettiva a 11 voci degli studenti dell’Università di Catania, coordinati da Step1, periodico telematico realizzato da-gli studenti dell’ateneo catanese. Il lavoro dei ragazzi di Catania, visibile su www.step1.it, ha colto gli aspetti principali della filosofia “eretica”, presentando un dossier, realizzato in appena sette giorni, che fon-

I primi passi verso l’Eresia digitaleIncontro con Massimo Russo

a cura di Giacomo Onorati

de linguaggi comunicativi diversi (filmati, foto gallery, audio).

La premiazione, avvenuta giovedì 22 aprile all’Hotel Brufani, è stata anche l’oc-casione per una discussione sulla salute at-tuale del web e sulla sua progressiva com-mercializzazione per mezzo di compagnie come Google, rappresentata da Marco Pancini, direttore relazioni istituzionali per Google Italia, in alcuni momenti co-stretto nei panni dell’avvocato del diavolo.

Al termine della consegna dei premi, MassimoRusso si è fermato a discutere sulle ultime cronache dell’era digitale.

Nei primi mesi dell’anno abbiamo assistito ad una diatriba tra Google e il governo cinese. In proposito, le diverse riflessioni sono state principalmente in-centrate sul sistema di censura operato sul web cinese, il cosiddetto Great Fire-wall. Perchè non ci si è soffermati anche sull’enorme ruolo che oggi Google rico-pre?

Massimo Russo: Questo aspetto è stato trattato da alcuni. Il problema è che l’in-

formazione che passa nelle radio e nelle televisioni è com-posta da bit, unità informati-ve minime e molto semplici, e quindi tutto va semplifica-to, azzerato e sminuzzato. In realtà questo aspetto esiste; tanto è vero che ogni parte dell’iniziativa di Google è stata preventivamente con-cordata con il Dipartimento di Stato americano, o almeno comunicata, e di questo diver-si giornali americani hanno scritto e dato conto. Sarebbe bello se invece di fermarsi all’epifenomeno si comincias-se ad entrare nei meccanismi più nascosti e meno scontati. Detto questo, va anche sotto-lineato che in questa vicenda nessuno sano di mente po-trebbe pensare di solidarizza-re col governo cinese.

Altro esempio dello strapo-tere di Google è stata la que-stione dei diritti di riprodu-zione riservati a Google Libri per i testi fuori pubblicazione.

Lì la cosa è sempre duplice. Da una parte, chi non vorrebbe la possibilità di avere a disposizione una cosa straordina-ria come una biblioteca universale a por-tata di dito? È il sogno di Alessandria che si avvera. Il problema è quando questo viene fatto da una corporation, che quindi non risponde a logiche democratiche, ma di tipo economico, ovviamente lecitissime, ma che diventano un problema nel mo-mento in cui nessun altro può fare la stessa operazione.

Cosa pensa delle potenzialità che un supporto come l’iPad potrebbe avere nel ridefinire le testate giornalistiche ? Si ar-riverà ad una fusione tra l’interfaccia di-gitale e la grafica classica del giornale?

L’aspettativa intorno al prodotto è mol-to alta. Di certo è un prodotto è straordi-nario, molto promettente. Io ho avuto oc-casione di provarlo e sicuramente cambie-rà la fruizione dei media, ma come questo avverrà, in quale direzione, è ancora diffi-cile da dire. L’ipotesi espressa è quella più probabile.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010

Dossier

IV

Un approccio pragmatico: 22 aprile 2010, Perugia, Teatro Pavone. Per

parlare di “Ventisei anni di cattivi pensie-ri: la rubrica più longeva del giornalismo italiano”. A Gianni piacerebbe un incipit simile. Non ha mai amato le perifrasi. Preferisce schierare le parole secondo un modulo essenziale. Vuole fare goal sen-za indugiare. Un pensiero anacronistico nell’oggi tanta-apparenza e poca-sostan-za. Gianni, infatti, licenzierebbe volentieri la flotta dei grafici, perché un giornale va letto e non va osservato. Adora la sua mac-china da scrivere, perché i personal com-puter stanno bene nelle mani altrui. Vuole toccare il quotidiano con le dita, e ne mi-sconosce la lettura sull’iPad (murescamen-te definibile come moglie dell’iPod). A Gianni non interessa allacciare legami con queste famigliole elettroniche. Semmai vuole bene alla scrittura, la vittima sacri-ficale del giornalismo graficontempora-neo. Valori profondi che siamo costretti a definire antichi. Ci ha preso per mano tra le vie del suo pensiero, affrescando pareti dai tratti novecenteschi. Poi lo abbiamo interrogato sul presente. E lui ci ha rispo-sto, senza celare la sua nostalgia per quei tempi in cui lo sport era meno retorico e più pragmatico. Forse autentico.

Inchiostro – Scrivere di sport in un giornale generalista e scrivere di sport in un giornale sportivo. Cosa cambia nella trattazione sportiva?

Gianni Mura – Ma, in teoria, sia su un giornale sportivo che su uno generali-

Mura tra ieri e oggiIntervista a Gianni Mura

a cura di Simone Lo Giudice

sta si dovrebbe essere tenuti a dare delle spiegazioni tecnico-tattiche. Si riteneva una volta che queste fossero cose più da giornale sportivo, mentre invece per il grosso pubblico non particolarmente fer-rato andassero bene anche considerazioni d’altro genere. Io credo che oggi non ci sia più molta differenza. Vedo che quotidia-ni come Repubblica cercano di coprire le pagelle, il personaggio, gli spogliatoi, il pubblico esattamente come fanno i quo-tidiani sportivi. L’unica differenza è che quelli sportivi concedono un po’ di spazio in più a vantaggio degli atleti, ma questo è ovvio.

La cronaca cartacea (in differita) è stata influenzata dalla cronaca televisiva

Gianni Mura è un giornalista milanese. Dopo gli studi classici, nel 1964 ha ottenuto un posto da praticante al quotidiano spor-tivo La Gazzetta dello Sport. Giornalista professionista dal 1967, ha scritto anche per altri quotidiani: Corriere d’Informazione, Epoca, L’Occhio. Dal 1976 ad oggi collabora con La Repubblica, presso la quale tiene una rubrica domenicale intitolata Sette giorni di cattivi pensieri. Altra sua grande passione sportiva è il ciclismo che ha raccontato in al-cuni libri come Giallo su giallo (2007) e La fiamma rossa. Storie e strade dei miei Tour (2008). Da maggio 2010 conduce il Processo alla Tappa per Rai Tre.

Chi è Gianni Mura?

(in diretta)?Sì, però molto difficilmente la televisio-

ne è credibile, nonostante ci sia la seconda voce che a volte è brava e a volte no. Però io credo che non basti far vedere le cose per spiegarle.

Perché in Italia si promuove così tanto l’introduzione della tecnologia nel calcio, mentre nel resto del mondo nessuno si pone questo problema?

È che in Italia, più che in altri Paesi, si pone il calcio come una delle cose centra-li dell’esistenza. Mentre negli altri Paesi non è così. Quindi quelli che continuano a chiedere la moviola come se fosse una cosa che ci spetta di diritto e ci negano gli dei, dovrebbero sapere che per la FIFA, se si dà

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010

Dossier

V

Prendere spunto dalla storia della propria famiglia, esplorarne i luo-

ghi perduti, ricrearne le suggestioni, per discutere di identità e memoria storica. Questo è l’esperimento che Gad Lerner - un giornalista che non ha bisogno di presentazioni –opera nel suo ultimo li-bro, presentato al festival del giornalismo di Perugia. Il titolo dell’opera, Scintille, racchiude in sé tutto il leitmotiv estrema-mente spirituale che percorre il viaggio dell’autore: le scintille di anime, secondo la Qabbalah ebraica, si generano quando

Gad Lerner e le anime vagabondeUn viaggio tra memoria e identità

di Riccardo Carcano Casali

gli spiriti di coloro che sono morti per cau-se ingiuste o in modo doloroso rimangono sulla terra, confliggendo tra loro. Nizozot ha-neshamot, “scintille d’anime” si scate-nano, e gli spiriti dei morti cercano pace o comprensione tra i vivi che portano il loro stesso sangue.

Una filosofia che ha spinto lo scrittore a riconciliarsi con i propri parenti e con un passato “pesante”, e ad intraprendere un percorso interiore attraverso un viaggio concreto, nelle terre dove la famiglia Lerner ha vissuto: anni di pellegrinaggi, appunti e impressioni tra la Beirut di un Libano raf-finato e cosmopolita, dove i suoi genitori avevano vissuto una dolcissima giovinezza, e la Boryslaw ucraina; qui durante la secon-da guerra mondiale, gran parte dei Lerner ha trovato la fine, subendo lo stesso atroce destino che ha portato la comunità di ebrei polacchi alla decimazione. Un libro che è dunque difficile ascrivere a un genere defi-nito, perché in “Scintille” il giornalista cede il posto al narratore, al viaggiatore, al me-morialista, al sociologo e, soprattutto, a un intimismo che raramente scade nella sterile autoanalisi. Difatti la formula del racconto personale, della confessione, non fa altro che creare i presupposti per un forte coin-volgimento del lettore, che si avvicina in modo simpatetico alle vicende interiori di un famoso giornalista, quasi compatendo l’uomo perduto che affronta il suo incon-scio con le armi puntigliose della raziona-lità. Senza contare che i temi a cui Lerner si avvicina (l’integrazione - e interazione

- tra culture e religioni diverse, la crisi di identità dell’uomo che deve dialogare con una memoria, quella familiare e quella di un intero popolo) sono temi tremendamen-te attuali. Non serve essere un ebreo nato in Libano ed emigrato a Milano per essere vittime delle anime senza pace dei morti: come sembrano suggerirci ogni giorno, siamo parte di un percorso umano che va al di là delle nostre esistenze. Afferma lo stesso autore: “Bisogna turbare l’ordine del tempo e delle generazioni per dare un sen-so all’oggi”.

la moviola all’Italia, devono averla anche in Nepal. E siccome giustamente in Nepal non gliene frega niente di un fuorigioco di 30 o di 20 centimetri o di una spalla, secondo me è giusto rifiutarla. Preferisco dieci errori umani a una moviola.

Ritiene che alla gente interessi di più rivedere la moviola di un fuorigioco o un gesto tecnico particolarmente riuscito?

Secondo me, alla gente interesserebbe di più vedere dieci volte un gol o certe rove-sciate. Solo che, dove si fa l’informazione, si ritiene che alla gente vada bene… alle tv interessa ciò che fa discutere e porta pole-mica. Quindi siccome gli ascolti a tutti i livelli (direi anche politico) nei programmi tv li danno non la qualità ma la rissa, lo sport si adegua e cerca di copiare.

Parlando di polemica, pensiamo subito a Mourinho e al suo rapporto con la stam-pa. Lei come considera il suo comporta-mento?

Penso che Mourinho abbia avuto un trattamento di favore che quasi nessuno in Italia ha mai avuto. Penso che sia arrivato prevenuto. Penso che quelli che lo defini-scono un grande comunicatore, dovrebbe porsi una domanda successiva: “che cosa comunica?”. Perché, secondo me, comuni-ca solo cose che interessano a lui, cioè sono pro domo sua: in questo è abilissimo. Per il resto come allenatore, i frutti di quel-lo che ha fatto si stanno vedendo da due mesi a questa parte. Prima si vedevano solo cinque attaccanti e un unico centro-campista o un unico difensore, oppure un centromediano buttato a fare il centra-

vanti come Materazzi, come quando gio-cavo io all’oratorio; e non c’era niente che giustificasse questo suo essere speciale. Se non, speciale per l’aver capito in che Paese è arrivato.

Secondo lei, quanto ha influito (in maniera negativa sul calcio) lo sviluppo delle tv locali, basate sulla rissa verbale e sull’informazione tifosa?

Cioè, già stava malissimo la tv nazio-nale... penso che il Processo di Biscardi sia ciò che di peggio ci si possa augurare in una società civile. È chiaro che se viene replicato da cinquanta o sessanta tv loca-li, il livello non solo dell’informazione ma anche della formazione dei giovani, che è ciò a cui dovrebbe servire lo sport, è messo molto male. È in continua discesa.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010VI

Dossier

Aiutato da Antonio Sofi, giornalista di

webgol.it, Diego Bianchi (in arte Zoro), quest’anno ha movimentato la con-sueta rassegna stampa con la sua naturale comicità. Una rassegna semiseria si potrebbe pensare, ma no-nostante il tono scanzonato e l’inflessione romanesca Zoro ha condotto noi gio-vani giornalisti in erba at-traverso i temi d’attualità (dalla lite Berlusconi-Fini ai problemi della Fiat) con grande maestria. Di fronte ad una conversazione fuori dai soliti schemi giornalisti-ci e politici la sala si è accesa lasciandosi andare spesso a rumorose risate.

Abbiamo perciò cercato di indagare (attraverso al-cune domande) le ragioni alla base del successo di questo giornalista e comi-co, divenuto famoso per i suoi videocommenti alla politica italiana trasmessi sul blog personale e nella trasmissione Parla con me.

Inchiostro – Credi che la forza della tua comicità risieda anche nella capacità di ri-volgerti indifferentemente ai politici dei vari schieramenti?

Diego Bianchi – Mi fa piacere che me lo hai chiesto, perché generalmente passo per uno che si occupa solo di PD. In realtà, cerco di parlare un po’ di tutti. Anche oggi, se vedi, durante la rassegna stampa abbiamo trasmes-so un mio vecchio video sul congresso di AN. Di recente, per le elezioni regionali con la Polverini, ho fatto dei pezzi non incentrati sul Partito Democratico.

Nei tuoi interventi video reciti due o più parti, due o più personaggi con pensieri dif-ferenti. Come ti è venuto in mente questo format? In un certo senso rappresenta l’inde-cisione e la disillusione dei cittadini di fronte alla politica?

Sì, è proprio quello che hai detto tu. L’idea mi è venuta in mente dopo un po’ che regi-stravo i miei video. All’inizio facevo solo un monologo. Ho pensato di interpretare due

Zoro: una risata impegnata sulla politicaA cura di Irene Leonardis e Giacomo Onorati

parti, anche a livello scenografico, dopo esser-mi accorto che mi facevo delle domande e mi rispondevo da solo.

Poi, nel momento in cui mastichi questa roba (la politica nda) ti viene anche facile rap-presentare i tic e i luoghi comuni dei diver-si orientamenti politici: del mariniano, del franceschiniano e del bersaniano. Tanto che il primo in particolare ha raccolto moltissimo consenso.

Parlando di PD, pensi che abbia qual-

che speranza di uscire da questa situa-zione grigia?

La situazione è grigia da quando è nato; non ricordo un giorno in cui non lo è stata. O meglio, forse solo durante la campagna elet-torale di Veltroni: doveva ancora arrivare la prima botta e ci eravamo tutti quanti convinti che fosse giusto quello che si stava facendo.

In questo momento, diciamo che è una macchina che fa fatica a partire come avrebbe voluto chi ha votato Bersani al Congresso: per esempio io che ho fatto questa scelta senza es-sere un fan di Bersani né un dalemiano. Pero’, visti i due anni, che erano passati mi sembrava la figura migliore: è assolutamente una perso-

na seria, capace e presente su alcuni temi, anche se su altri oggettivamente ha avuto una condotta abba-stanza incomprensibile; in particolare per tutte le dina-miche che hanno regolato le alleanze e per la scelta sulle candidature delle Regionali. Poi alla fine, di queste ce ne sono state alcune tutto som-mato passabili, altre anche pregevoli: è stato pero’ più frutto del caso che non di una linea politica definita.

Poi ancora alcune cam-pagne elettorali hanno la-sciato un po’ desiderare, come pure la gestione del post-voto: insomma starse-la a menare col pareggio, con “non abbiamo perso, abbiamo vinto” quando la percezione generale è che almeno in alcuni casi il sen-so di sconfitta attraversi chi ha votato PD o a sinistra. Ammetterlo e capire perché si è perso forse sarebbe ap-

prezzato da tutti, anche perché questo è stato lo stesso errore di Veltroni.

Comunque io la speranza ce l’ho ancora. Bersani è segretario da cinque mesi, non da cinque anni: noi abbiamo il vizio di impalli-nare ogni segretario alla prima prova o dopo poco.

Uscendo un po’ dal PD, così come si ride della politica e dei politici, si puo’ imparare anche a ridere del giornalismo?

Il giornalismo è una categoria con mille vizzi, difetti e in questo momento è un cam-po dove accettare la satira, secondo me, non è molto facile. E’ un periodo in cui è difficile anche solo essere giornalista-giornalista; per cui o fai Rai per una notte e, anche contro le tue intenzioni, vieni indicato come un leader politico di opposizione (forse per le lacune di chi dovrebbe svolgere questo ruolo), oppure dall’altra parte passi per una persona servile e accondiscendente verso il potere. Noto quindi una difficoltà per molti giornalisti a rimanere nel mezzo senza essere etichettati automati-camente. In tutto ciò penso che la satira debba svolgere la sua funzione per tenere il giornali-sta ancorato alla sua professione.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 VII

Dossier

Donne, media e potereRiflessione a più voci su come il potere e i media trattano il corpo delle donne

di Mauro Del Corno

Si è ancora parlato di media universita-ri a Perugia, in occasione del Festival

Internazionale del Giornalismo, evento che nelle ultime due edizioni aveva riunito le di-verse esperienze redazionali italiane (e non solo) ospitando una nutrita tavola rotonda.

L’incontro di quest’anno, tenutosi venerdì 23 aprile presso la sede di UniCredit Banca, aveva come titolo “I giornalismi universitari: il nuovo media al galoppo fra web radio e media interattivi” e ha visto la partecipazione di Gioia Lovison per Raduni (Associazione operatori radiofonici universitari), Romeo Perrotta di Ustation (media network univer-sitario promosso da Telecom Italia), Roberto Chibbaro di Unimagazine in veste di mode-ratore, Jessica Camargo e Nicola Cappelli per L’Universitarea (Firenze) e Orizzonte Universitario (Milano-Roma), testate pre-senti anche l’anno scorso.

La minore rappresentanza delle inizia-tive autonomamente sviluppatesi negli ate-nei è stata spiegata al pubblico con l’intento organizzativo di coinvolgere anche le realtà delle web radio e dei network nazionali; inoltre, come dichiarato dai relatori, l’incon-tro è stata inserito nel calendario della mani-festazione solo all’ultimo momento. Alcuni dei giornali universitari già intervenuti in passato, tra cui Inchiostro, erano comunque presenti fra il pubblico ed hanno contribuito ad alimentare la discussione.

Aldilà delle presentazioni di rito e del-le constatazioni sulle difficoltà incontrate dalla stampa studentesca, è da sottolineare la riflessione sui diversi modi d’intendere il giornalismo universitario: Jessica Camargo ha espresso come L’Universitarea cerchi di rendere “notiziabile”, ovvero comprensibile, la realtà del proprio ateneo anche al di fuo-ri dei cortili e delle aule, mentre Orizzonte Universitario, con l’obiettivo di contrastare l’appiattimento culturale nel nostro Paese, ha deciso di adottare la prospettiva degli studenti per raccontare l’attuale panorama sociale e politico italiano.

La diversità di questi ed altri approcci dimostra che i media universitari sono oggi una realtà dinamica, caratterizzata dalla sperimentazione di linguaggi comunicativi e capace di trovare nelle esperienze redazio-nali dei singoli atenei il proprio motore.

Ore 17 di venerdì 21 aprile. Al Teatro Pavone si discute sull’esclusione del-

le donne dalle posizioni di potere nella sfera pubblica e sul ruolo dei media gestiti dalle donne. Le ospiti presenti all’evento sono Concita De Gregorio (direttore de L’Unità), Joumana Haddad (poetessa e giornalista libanese) e Alessandra Arachi (giornalista de Il Corriere della Sera). Moderatore del-la conferenza è Emilio Carelli (direttore di SkyTg24).

La conferenza dura quasi un’ora ed è ve-ramente interessante poiché è chiara nella trattazione dell’argomento, che spesso si ten-de a banalizzare, oltre che a parlarne poco. Sicuramente gli ospiti sono ben azzeccati: tutte donne in car-riera a discute-re sul perché le donne facciano fatica a esse-re presenti nei ruoli di potere delle istituzioni e dei media.

Comincia a parlare De Gre-gorio, la quale inizia dicendo che è un pro-blema di tipo culturale non solo a causa de-gli uomini, ma anche delle donne che con-dividono l’essere sottomesse professional-mente e culturalmente, anche soffrendone. Le lotte fatte in passato per i diritti paritari delle donne si stanno dimenticando e con-siderando cosa superflua per la donna, la quale deve concentrare i suoi sforzi per fare carriera sull’aspetto fisico. Certo, di donne in carriera come loro ce ne sono, ma mol-to meno rispetto agli uomini. Infatti, anche nei giornali, statisticamente le donne sono pagate di meno o hanno posizioni di lavoro più precarie. Sette persone su dieci, continua la De Gregorio, non leggono nulla, né libri né giornali. Per cui la loro unica fonte di in-formazione culturale è la televisione, che di certo negli ultimi 10-15 anni (soprattutto gli ultimi cinque o sei) educa ad una coscienza civica, etica e morale che considera la donna come oggetto materiale, la cui unica arma

per ottenere guadagni o una posizione pro-fessionale migliore è la bellezza del corpo.

A questo proposito la De Gregorio cita il caso Noemi, per poi concentrare il discorso sul fenomeno dei vari book fotografici che a volte fanno vedere in tivù. I book sono tra le prime delle tante forme di vendita del proprio corpo, non per fare una “ingenua” sfilata di moda, ma per arrivare al successo mediatico. Quel successo mediatico che non premia la capacità intellettuale, ma le belle gambe e tutto il resto. Perciò la nuova gene-razione di donne, fin da ragazzine, proget-tano il loro book: non è raro ormai trovare quindicenni che hanno già fatto un book

fotografico. Poi-ché, spiega la De Gregorio, si tenta la fortuna e non si investe sul talento intel-lettuale a parti-re dalla giovane età.

A questo punto prende la parola Ales-sandra Arachi, la quale fa un discorso più sin-tetico criticando leggermente il discorso fatto dalla De Gre-gorio, affer-

mando che comunque ci sono molte più donne in carriera rispetto al passato. Tut-tavia condivide il concetto che ancora non è sufficiente, anzi, negli ultimi anni c’è stata una involuzione della cultura delle persone, della considerazione della donna in ambito professionale, non come persona, ma come oggetto materiale e di desiderio degli uo-mini.

Dopo la Arachi c’è il momento di Jouma-na Haddad, che non gira troppo attorno al nocciolo della questione, ma cerca di dare soluzioni pratiche al problema che è perlo-più culturale. Innanzitutto bisogna smettere di categorizzare le persone: una persona in ambito professionale non va vista come un uomo o una donna, ma come una persona. Ma questo sarà difficile se non viene fatto non solo dalle singole persone, ma soprattut-to dalla televisione.

Media universitaria Perugia

Giornalismo di in-formazione

di Giacomo Onorati

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010VIII

Dossier

Nel carnet degli eventi proposti al Festival Internazionale del Gior-

nalismo di Perugia non poteva mancare un incontro con Gianluigi Nuzzi, inviato di Libero, specializzato in scandali giudi-ziari e soprattutto autore del libro-inchie-sta più venduto dell’anno: Vaticano S.p.A. (2009, Chiarelettere), frutto di ricerche tra i documenti dell’archivio di monsignor Renato Dardozzi, importante figura nel-la gestione finanziaria della Santa Sede, che per volontà testamentaria ne ha chiesto la pubblicazione.

In Vaticano S.p.A. le carte parlano da sole e il lettore stes-so può prendere libera visione dei rapporti, delle corrispon-denze e dei documenti bancari che permettono di ricostruire i flussi finanziari transitati per la più impenetrabile delle banche offshore, lo I.O.R., tra i quali la maxi tangente Eni-mont, al centro della stagione di Mani Pulite.

Durante l’incontro del 24 aprile, al Teatro Pavone, l’au-tore del libro ne ha raccontato la genesi, i motivi del successo e la scelta di adottare un punto di vista privo di pregiudizi sui rapporti tra la Chiesa e i poteri italiani.

A termine dell’evento Nuz-zi si è fermato a rispondere ad alcune do-mande per Inchiostro, su scandali e ope-razioni finanziarie dentro e fuori le mura vaticane.

Inchiostro - Durante l’incontro ha sol-levato l’ipotesi che la vasta eco seguita agli scandali di abusi da parte di membri del clero faccia parte di un’operazione nei confronti di Benedetto XVI, che starebbe scontando il tentativo di riordinare le fi-nanze vaticane. Chi ne avrebbe l’interes-se?

Gianluigi Nuzzi - Quando c’è un po-tere così strutturato e con radici così pro-fonde, che fanno dello IOR una lavanderia per centinaia di milioni di euro, io credo che siano inevitabilmente dei dissapori e che la struttura creatasi non ha alcun de-siderio di essere ostacolata. Così, se oggi noi abbiamo un Santo Padre che attacca

Dallo scandalo al metodoIntervista a Gianluigi Nuzzi

a cura di Matteo Miglietta e Irene Sterpi

determinate consuetudini di malaffare o di cattivi gusti, è chiaro che si crea una controreazione.

Lei ha detto che gli scandali tendono ad inabissarsi. Cosa ne pensa di quelli re-centi di pedofilia?

Andate a vedere le date di questi episo-di. Io non mai visto uno scandalo retroatti-vo e non capisco perché adesso siano usciti

scandali riferiti a vent’anni fa. In questi anni cos’è successo? Non ho capito per-ché dobbiamo essere a conoscenza di fatti negativi, avvenuti anche nel nostro paese, a distanza di vent’anni. C’è una sorta di Segreto di Stato che è inaccettabile.

Perché in Italia c’è questo senso d’im-punità, percepito quasi come legittimo, nei confronti del clero?

In realtà si sono dimessi molti vescovi, cosa una volta insperabile per uno scan-dalo sessuale. Secondo me l’effetto c’è ed è positivo.

Vaticano S.p.A è un esempio di libro d’inchiesta che oltrepassa le ideologie. Vede degli sviluppi in questa direzione?

Un collega, Giacomo Galeazzi, ha fatto un libro libero dai pregiudizi: Karol e Wan-da, uscito con Sperling & Kupfer, un libro

sulla vita segreta di questa amica di Gio-vanni Paolo II. Io credo che sia un metodo: Karl Popper diceva che le ideologie sono vecchie di duemila anni, quindi vorrei che le mettessimo definitivamente in soffitta. Io poi non ho un’ideologia, ma un metodo.

Lasciamo per un attimo gli ambienti vaticani. Dopo i successi alle elezioni re-gionali, Umberto Bossi ha dichiarato che

alla Lega spetta ora il controllo delle banche del nord. Come in-terpreta una così esplicita prete-sa da parte di un partito sugli istituti di credito?

Vorrei capire come mai, quando Bossi parla, a volte viene deriso, ritenendolo non credibi-le, mentre altre viene strumen-talizzato. Io non sono leghista, però credo che un partito come Lega Nord, ormai presente con maggioranze militari in certe regioni, abbia espresso il deside-rio dei suoi elettori: controllare o avere delle persone nei CdA delle banche presenti in quei de-terminati territori.

E anche nelle fondazioni.Sì, sono le fondazioni a con-

trollare le banche. Ma se tutto questo non è legittimo per la Lega, allora non lo è nemmeno per tutti quelli che l’hanno fatto

prima della Lega. Io capisco il ragionamento di Bossi. Lui dice: se i miei elettori vogliono chiedere un prestito e non glielo concedono, allora chiederanno perché non mettiamo noi degli interlocutori che siano espressione del territorio. Le banche devono essere espres-sione del territorio, giusto? Non parlo delle grandi banche, parlo del credito cooperativo, delle realtà di credito locale. Perché le ban-che devono essere gestite da una massoneria contraria alla Lega?

Insomma, “Così fan tutti”.Non sto dicendo questo. Mi chiedo se le

banche debbano essere una rappresentazio-ne del territorio o no. È un argomento in-teressante . Bossi dice: se io ho il 50-70% di certe zone, perché non devo avere dei miei consiglieri? E lo dice con la schiettezza tipi-ca della Lega, mentre magari il leader di un altro partito te la fa sotto il naso.

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 7

Università

Intervista a Mario Calabresidirettore de La Stampa

a cura di Matteo Miglietta e Irene Sterpi

Giovedì 6 maggio, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, “La

fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi”, Mario Ca-labresi, il giovane direttore de La Stampa, è stato ospite al Collegio Nuovo a Pavia.

Di fronte ad un pubblico eterogeneo, Calabresi ha cercato di spiegare i motivi che l’hanno spinto a pubblicare un nuovo romanzo, dopo il successo di “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo”.

Innanzitutto perché, dopo aver tra-scorso ben 18 mesi a seguire l’intensa campagna elettorale per le elezioni pre-sidenziali statunitensi del 2008, sentiva il bisogno di dedicarsi a qualche proget-to nuovo. Tuttavia, ha sottolineato bene che, anche dopo il secondo libro, lui si ritiene sem-pre e “solo” un giornali-sta, non uno scrittore.

Tornando al tema con-duttore de “La fortuna non esiste”, Calabresi ha citato una frase del vi-cepresidente degli USA Biden, che riassume bene lo spirito che ha animato i protagonisti del suo libro: “Non importa quante volte cadi. Quel che con-ta è la velocità con cui ti rimetti in piedi”. Ed è proprio con questo entu-siasmo che il direttore del popolare quotidiano torinese ha affascina-to la platea raccontando sprazzi di storie di persone che sono riuscite a ricomincia-re da zero la loro esistenza. In ogni frase, però, si inseriva sempre qualche aneddoto dell’amatissima nonna Maria, mancata da poco, perfetto esempio di saggezza e di per-sona a cui è stata data una seconda possibi-lità fin dalla nascita.

Tra le tante, toccanti, storie, di chi ha do-vuto reinventarsi una vita, ci ha colpiti molto quella degli operai della General Motors: dopo il licenziamento, senza farsi scoraggia-re, incuranti dell’età (alcuni erano cinquan-tenni) sono tornati a scuola, iscrivendosi a dei corsi professionali all’università.

Al termine del suo coinvolgente racconto, abbiamo avuto l’occasione di porgli alcune domande.

Inchiostro - La recente crisi economica in Grecia sta avendo forti ripercussioni sulla popolazione, ci sono state delle proteste dei lavoratori...Ma in futuro, secondo lei, potreb-bero esserci delle ripercussioni a livello sociale anche in tutto il resto dell’Europa?

Calabresi - E’ una previsione difficilissima da fare: il pericolo di un contagio c’è, anche se l’Italia mi sembra più solida perché abbia-mo meno disoccupazione della Grecia e della Spagna, e abbiamo i conti un pochettino più a posto e soprattutto abbiamo una società, mi sembra, più stabile e solida. Però non è possi-bile escluderlo, possiamo solo sperare che non accada e sperare, appunto, che la situazione non peggiori globalmente e non travolga an-che noi.

Visto che ha detto che bisogna guar-dare avanti alla fine del suo discorso, e ha avuto a che fare con il modello ame-ricano: l’università italiana e i giovani in Italia, che dovrebbero essere un po’ il futuro, spesso rimangono un...pre-sente e basta. Come vede la situazione della ricerca?

Sostanzialmente due cose io vedo. La prima è che i problemi che vedo nell’uni-versità italiana, che resta un’università che dà una formazione culturale più ampia, per esempio, di quella delle università americane, sono: troppi pochi investimen-ti sulle università. Se guardiamo ai piani di rilancio dell’economia e di sostegno dell’economia sia in Cina sia negli Stati Uniti, una grande parte è stata fatta di investimenti sulla ricerca, sulla formazio-

ne e sull’università, con l’idea proprio che così si costruisce il futuro. Invece da noi sono stati fatti tagli, e questo penso che sia un non scommettere sulle generazio-ni future, un non scommettere sul futuro di un paese. E la seconda cosa: manca un reale orientamento sul mondo del lavoro. In questo senso: io penso che dovremmo uscire da quest’idea che se si danno trop-pe indicazioni sul futuro lavorativo allora si fa una cosa quasi immorale, che non va bene dare agli studenti, che lo studio deve essere una cosa che non ha niente a che ve-dere col lavoro. Perché il problema è che troppi studenti escono dall’università e si trovano in un mondo del lavoro di cui non sanno niente e in cui sono lontanissimi.

Se pensate che nella sola provincia di Roma ci sono più avvocati che in tutta la Francia, allora vi ren-dete conto che forse una politica di orientamento e di spiegazione di dove sono le reali possibilità di lavoro secondo me sareb-be utile.

Lei ha detto prima che il gruppo degli ope-rai della General Motors sta puntando sulle rin-novabili, sulla bonifica ambientale e sulle nano-tecnologie mediche per la ripresa economica che ci sarà. In Italia invece, se-

condo lei, quali sono i campi su cui biso-gna puntare per una ripresa economica?

Mah io penso che dovremmo puntare intanto su tutto quello che ha a che vedere con le nostre professioni tradizionali, quel-le che tengono, come dicevo: noi puntiamo sulla qualità, per esempio. Esiste ancora un test di qualità? Allora dobbiamo puntare su quello, sull’agroalimentare di qualità, su tutte quelle cose...Però non dovremmo rinunciare a priori anche noi alle energie rinnovabili o appunto alle nanotecnologie e alla sanità, a fare investimenti su questo. Non possiamo pensare di essere soltanto produttori di buon vino e di lusso. Su quel-lo dobbiamo investire e tenere la qualità alta, perché se stiamo sulla qualità medio- bassa, allora perderemo sempre la sfida con le altre nazioni.

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Università

Spesso conve-gni e semi-

nari sono occasione per conoscere da vicino illustri perso-naggi del mondo ac-cademico e politico italiano, come è ac-caduto in occasione della presentazione del master in “Im-migrazione, genere, modelli familiari, strategie di inte-grazione”, promos-so dalla Facoltà di Scienze Politiche.

Infatti, a pre-senziare l’incontro c’era Laura Balbo, insigne sociologa ed ex ministro delle Pari Opportunità. Nel corso del suo discorso, ha toccato temi importanti per il futuro dell’Europa: ad esempio, dovrem-mo capire dove ci sentiamo collocati e cosa vuol dire per noi essere anti-razzisti, ma anche come possiamo coinvolgere chi è più indifferente verso questi temi.

Al termine dell’incontro, le abbiamo chiesto la sua opinione in merito al proble-ma del razzismo, di cui si è ampiamente parlato nel corso della conferenza. Secon-do la Balbo, intervenire nel settore educa-tivo è difficile: innanzitutto, la famiglia ha un ruolo di grande peso, ed è fondamen-tale per l’educazione dei bambini, ma non basta. È necessario che i genitori collabo-rino con la scuola, anche perché, da sola, quest’ultima non può intervenire efficace-mente nell’educazione contro il razzismo.

Parlando, quindi, di stranieri, il pensie-ro è andato ad alcune proposte in merito alla creazione di classi separate per i bam-bini immigrati: la Balbo, a proposito, ha le idee chiare. Infatti, afferma che è im-portante non generalizzare il problema: gli immigrati non hanno tutti le stesse difficoltà. L’idea delle quote massime di immigrati in ogni classe è di stampo poli-tico, non rappresenta una soluzione. Inve-ce, sarebbe utile cercare di stare più vicini ai ragazzi in difficoltà, anche per capire la realtà in cui vivono. Ad esempio, la Balbo

Incontri in Università: Laura Balbodi Irene Sterpi

Docente di Sociologia all’Università di Padova, Laura Balbo è una degli studiosi italiani più attivi su temi quali il razzismo nelle società multietniche e il ruolo della donna. Due volte parlamentare, dal 1998 al 2000 (durante il governo D’Alema) ha rico-perto l’incarico Ministro per le Pari Oppor-tunità. In passato, Laura Balbo ha presiedu-to l’Associazione italiana di Sociologia ed è tuttora tra i presidenti onorari dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Tra le sue opere ricordiamo: In che razza di so-cietà vivremo? L’Europa, i razzismi, il futuro (Mondadori, 2006) e Il lavoro e la cura. Impa-rare a cambiare (Einaudi, 2008).

Chi è Laura Balbo?

suggerisce di potenziare il doposcuola, in modo da aiutare gli alunni a svolgere i loro compiti, dato che spesso i genitori non ri-escono a seguirli. Una figura da inserire, poi, sarebbe quella dello psicologo, che do-vrebbe seguire tutto il nucleo famigliare.

Nel corso della conferenza, la Balbo ha ripetuto più volte l’espressione lezioni di futuro: ci è sembrato, quindi, interessante, provare a chiederle la sua opinione sulle varie comunità etniche presenti in Europa e sul futuro dell’integrazione in generale. Su questo tema, purtroppo, la sociologa non vede un cammino facile, anzi: non esiste una soluzione semplice per l’inte-grazione, come invece promettono spesso i politici. Ad esempio in America, nono-stante l’immigrazione esista da 100 anni, ci sono ancora i quartieri ghetto.

Parlando sempre di immigrazione, senz’altro anche i media rivestono un ruo-lo fondamentale: è attraverso i loro mes-saggi, infatti, che le persone percepiscono negativamente o positivamente la figura dell’immigrato, subendo una sorta di ma-nipolazione. Anche la Balbo è d’accordo: secondo lei, i media giocano un ruolo pe-santissimo e molto spesso rafforzano gli stereotipi. Due esempi: Sono razzisti è uno stereotipo attribuito a coloro che parlano

di immigrazione come un problema da risolvere; Gli im-migrati sono perico-losi, invece, è un pre-concetto subito dagli immigrati stessi.

Durante il suo in-teressante discorso, la Balbo ha anche volto lo sguardo al passato, in particola-re si è soffermata sul mito della guerra, che ha animato ge-nerazioni di giovani uomini, tra cui più recentemente quelli cresciuti in Unione Sovietica e in Cina. Oggi, invece, in Italia è addirittura stato abolito il ser-vizio militare obbli-gatorio: le abbiamo, quindi, chiesto, se

questa scelta sta contribuendo a modifica-re la società. Effettivamente, la sociologa ritiene che, in precedenza, la guerra fosse addirittura lo scopo della vita di una per-sona, mentre invece ora quest’idea è molto lontana dalla società contemporanea, pro-prio grazie all’abolizione del servizio mili-tare: si può parlare addirittura di un vuoto d’identità che si è venuto a formare. Non per questo, però, le guerre non ci sono più: semplicemente, il motivo scatenante è spesso di tipo economico.

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Cultura

Zoïle è impiega-to in una socie-

tà elettrica di Parigi, la EDF. Asdrolabe è una splendida ragazza che si prende cura di Aliénor, scrittrice di successo che soffre di una particolare forma di autismo. I due non potrebbero essere più diversi, ma allo stesso tempo così simili, ac-comunati entrambi da nomi improbabili che genitori poco attenti hanno affibbiato loro con colpevole disinvol-tura. Il loro destino si rivela in un sottotetto: un'attrazione nascosta sotto strati di maglio-ni di lana pesante per ripararsi dal freddo ge-lido di un inverno senza riscaldamento; un inverno che non permette ai cuori di avvici-narsi e di scaldarsi, un inverno che avvolge la mente di Aliénor e che richiede da Asdrola-be dedizione totale. Senza spazio per altri.

Zoïle vacilla costantemente tra la pulsio-ne verso Asdrolabe e il disprezzo per Alié-nore, desiderando l'eliminazione fisica di quest'ultima, e la completa sottomissione e abnegazione della propria volontà a quella dell'amata, che gli concede solo fugaci attimi di vita vissuta insieme e un'intimità spiata dai grandi occhi curiosi della scrittrice.

Amore e morte, da sempre indissolu-bilmente legati l'uno all'altra, sono i pen-

Il Viaggio D’invernoInnamorarsi d’inverno non è una buona idea

di Chiara Gelati

sieri che assillano la mente del protago-nista: la possibilità dell'amore e il suo rifiuto consapevole da parte dell'amata, che sceglie di dedica-re la propria vita alla cura della scrittri-ce, lasciando morire le proprie passioni all'ombra di un gi-gantesco baobab.

Zoïle viene trasci-nato lentamente in un vortice di passio-ne e di pensieri, dal quale non riesce a uscire, neanche cer-cando di trascinare con sé le due donne in un viaggio alluci-nogeno, sulla colon-

na sonora psichedelica della musica di Aphex Twin. L'esito sarà disastroso, in quanto il trip è l'unico mo-mento in cui i protagonisti possono esse-re se stessi e dare libera parola ai propri pensieri e alla propria visione del mondo e, come dice Zoïle: "Non si ha mai ragione fuori da un trip". Il vero è ciò che acca-de nelle otto ore di trip: il corpo stone di Asdrolabe, il baobab Aliénore, il deside-rio sempre grande di Zoïle, che non potrà trovare appagamento, se non in un gesto estremo di follia d’amore: la distruzione della bellezza, perché “si uccide ciò che si ama”, perché “solo il sublime monopolizza lo slancio necessario alla sua rovina”.

Amélie Nothomb è nata nel 1967 a Kobe, in Giappone, dove il padre era diplomatico. Gli anni dell’infanzia e della giovinezza sono trascorsi al seguito dei genitori e dei loro cambiamenti di sede. Tra i vari spostamenti, particolarmente importante per Amélie è stato quello alla volta del Bangladesh, dove la scrittrice ha sperimentato l’anoressia, esperienza che ha segnato profondamente la sua vita e la sua produzione letteraria, è infatti raccontata in Biografia della fame. A ventun anni ritorna in Giappone, terra amata e odiata, spunto e sfondo di numerosi romanzi. Tra i riconoscimenti letterari ottenuti dalla Nothomb, ricordiamo il Grand Prix du roman de l’Académie Francaise e il Prix Internet du Livre per Stupore e tremori , il Prix de Flore per Né di Eva né di Adamo e il Prix du Jury Jean Giono per le Catilinarie e Causa di forza maggiore. Oggi divide la sua vita tra Parigi e il Belgio, a Bruxelles, dove si è laureata in filologia classica alla Libera Università.

Chi è Amélie Nothomb?

Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno si terrà un ciclo di conferenze dal titolo “Lezioni pasoliniane: Pasolini fra cinema e letteratura”. L’evento è organizzato dall’Almo Collegio Borromeo e sarà costituito da due lezioni. Il programma di incontri sul grande scrittore e regista italiano sarà il seguente:

Giovedì 27 maGGio, ore 21.00Lezione e confronto fra “Una vita violenta” e “Mamma Roma” a cura della professoressa Maria Antonietta Grignani e del professor Nuccio Lodato (Università di Pavia)

Giovedì 10 GiuGno, ore 21.00: Lezione su “Teorema” - tra cinema e letteratura, a cura del professor Marco Antonio Bazzocchi (Università di Bologna) e del professor Nuccio Lodato.Non mancate!

Lezioni Pasoliniane

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Cultura

Né bianco né nero: sarà un Mondiale vero!Intervista a Paul Bakolo Ngoi

a cura Simone Lo Giudice e Stefano Sette

“Ciao Paul!”. Gli diamo rigorosa-mente del “tu” sin dall’inizio,

perché lui pretende questo. Prima barriera abbattuta. Adesso proviamo ad infrangere la seconda: prendiamo per mano l’Africa e tentiamo di farle guardare negli occhi l’Eu-ropa. Siamo in tre, seduti intorno a un tavolo nero come il continente eletto. Siamo scissi in due parti: il corpo in Italia e la mente in Africa. Paul ha seguito tanti Mondiali nella sua carriera, ma uno così non lo ha mai vi-sto. Si è quasi dimenticato delle sue origini congolesi. Perché oggi si sente soprattutto africano. Qua il goniometro e parliamone a 360°: retaggi del Colonialismo, situazione in Sudafrica, attentato in Angola e qualche pronostico sull’erba. Sarà un mese abbaglia-to da una luce nuova in terra sudafricana, la casa dell’etnicità arcobalenica. Al bando la ruotine europea, ma occhio a non scadere nella retorica africana. Né bianco, né nero: sarà un Mondiale vero!

Inchiostro – L’inno ufficiale di Sudafrica

2010 è This time for Africa. L’Africa ospita una competizione che “ha già vinto”? Il ri-ferimento è a Francia 98, alla spina dorsale transalpina fatta da cromosomi africani: dall’algerino Zidane al ghanese Desailly fino al senegalese Vieira. Che valore attri-buire ai retaggi del Colonialismo?

Paul Bakolo Ngoi – Sì è vero, però se an-diamo a vedere bene notiamo che la spina dorsale è africana non solo nello sport, ma anche nella società in generale… non a caso si dice che l’Africa è la culla dell’umanità. Tornando a quello che ci riguarda nel pal-lone, ci sono Paesi che hanno questo passato coloniale: la Francia, il Belgio, l’Inghilterra hanno una forte presenza di giocatori afri-cani sia a livello delle loro Nazionali che dei Club. Però, parlando per esempio di Zidane, parliamo di un francese… alcuni di questi atleti hanno origine africana però in Africa hanno vissuto pochi anni e poi sono andati via. Desailly, se la madre non avesse sposato questo signore francese non sarebbe mai arri-vato in Francia. Zidane gioca per la Francia:

lui è francese di origine algerino. Potremmo fare lo stesso discorso per Nicolas Sarkozy, che è francese anche se i suoi genitori non lo erano in tutto e per tutto.

Nel 2001 la FIFA decide di assegnare i Mondiali dal 2010 in poi a rotazione tra i vari continenti, a partire dall’Africa. Nel 2004 ci sono quattro proposte in lizza: la candidatura congiunta di Libia e Tunisia viene respinta, nessun voto per Egitto, 10 voti per Marocco, 14 voti per Sudafrica che si aggiudica l’organizzazione. Ma l’Africa ospiterà il Mondiale nello Stato africano “più bianco” del continente?

Sì, qualcuno lo ha letto così: l’assegnazio-ne del Mondiale al Sudafrica in realtà non è all’Africa, ma a quella parte bianca nostal-gica dell’Africa. Ma in realtà no, perché il Mondiale sudafricano è proprio il contrario di tutto questo. È la vittoria di Nelson Man-dela e di Frederik Willem de Klerk, l’uomo che ha abolito l’apartheid. Non è un Mon-diale organizzato in una terra dei bianchi,

Chi è Paul Bakolo Ngoi?

Paul Bakolo Ngoi è uno scrit-tore e mediatore culturale congo-lese. La sua specializzazione let-teraria è la narrativa per ragazzi.

Dal 2002 è una presenza co-stante della manifestazione “Set-timana dei Bambini del mediter-raneo” a Ostuni; tra 2004 e 2005, è stato inviato alla “Fiera del li-bro di Torino”; è il rappresentan-te in Italia della “Associazione Marie Madeleine”, un’ONG con sede operativa a Kinshasa.

Oltre ad occuparsi di let-teratura, Paul Bakolo Ngoi è un giornalista freelance: ha collaborato con Il Giorno e con Il Giornale, per il quale ha seguito le partite di Ger-mania 2006.

Tra i suoi scritti: Un tiro in porta per lo stregone (1994); Il maestro, il prete e lo stregone (1998); Colpo di testa (2003); Chi ha mai sentito russare una banana? (2008); Corri Lidja, corri (2010).

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Inchiostro 102 maggio/giugno 2010 11

Cultura

perché il Sudafrica è una “rainbow nation”, una “nazione arcobaleno” abitata da persone di diversi colori. Si parla molto delle mag-gioranze, cioè neri e bianchi, mentre si parla poco delle minoranze. Anche se alcuni Paesi occidentali non volevano che il Mondiale an-dasse all’Africa, credo che sia stata una bella vittoria. Blatter in prima persona è da felici-tare. Io sto con lui.

La Nazionale sudafricana è stata sospesa a più riprese dalla FIFA: nel 1962 la Feder-calcio sudafricana manifestò la volontà di schierare in Nazionale solamente giocatori bianchi; fu riammessa un anno dopo, ma dopo la decisione di creare una squadra for-mata da soli bianchi per il Mondiale 1966 e di soli neri per il Mondiale del 1970 fu so-spesa ancora fino al 1974. Come sta oggi il Sudafrica?

In Sudafrica, gli sport popolari sono pra-ticati dai neri in maggioranza, poi ci sono gli sport d’elite che spettano ai bianchi. Schiera-re una squadra di soli bianchi non sarebbe stato coerente con la storia recente del Su-dafrica, perché i neri hanno fatto tanto per riconquistare il proprio posto. Lo sport è quella terra di nessuno dove deve essere data una possibilità a tutti. La popolazione nera in Sudafrica, essendo anche maggioritaria, si ritrova anche nella squadra del calcio. È una questione legata al numero dei prati-canti. I neri hanno individuato nello sport un campo in cui si è veramente alla pari. È impossibile accettare nella FIFA un Paese in cui vige l’apartheid, è un controsenso, ecco perché ci sono stati i primi rifiuti. Oggi que-ste tensioni sono state superate, anche se il Sudafrica rimane una realtà difficile, perché un conto è arrivare a Johannesburg e ve-dere i grattacieli e un conto è andare nelle bidonvilles. Era stata avanzata l’ipotesi di

un piano Germania 2006-bis, nel caso il cui l’Africa non fosse stata pronta. Sarebbe stata una forzatura, sarebbe stato ingiusto perché avrebbe comportato per la stessa Germania investimenti non previsti. E poi con quale spirito le Nazionali africane sarebbero an-date a giocarsi un Mondiale scippatogli? Il Sudafrica ha vinto perché è nelle condizioni di poter ospitare un Mondiale.

Gennaio 2010: nell’enclave di Cabinda c’è stato un attentato ai due pullman della Nazionale togolese, diretta in Angola per disputare la Coppa d’Africa. Il governo to-golese ha deciso di ritirare la squadra e in-dire tre giorni di lutto nazionale. La CAF (affiliata alla FIFA) ha squalificato il Togo per le prossime due edizioni e lo ha multa-to. Quanto spazio c’è oggi per il calcio vero in un mondo fatto di interesse?

Chi ama lo sport è un sognatore. Oggi come oggi, sappiamo che il calcio non è più quello di una volta, perché il calcio di oggi sono gli sponsor e la televisione, tutta gente che fa business. Io capisco il disgusto provato dal Togo, ma quello che è successo non è né colpa della FIFA né colpa di Blatter. È una questione organizzativa legata alla CAF, che non ha saputo dare un’alternativa. Tra Congo e Angola ci sono state dispute lega-te all’indipendenza di Cabinda, la cui po-polazione parla il lingala (la lingua parlata in Congo) oltre al kikongo (un’altra lingua parlata in Congo). Ho sentito un mio amico giornalista del Togo e anche lui diceva che lo spostamento dei giocatori è a carico di ogni Federazione. Non si può attraversare “una zona di guerra”.

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Punto e a Capo (di Buona Speranza)

di Simone Lo Giudice

E adesso chiudiamo quel periodo. Mettiamoci un bel punto e ripartia-

mo con questo capoverso. Facciamolo italia-namente. Berlina 2006 festeggerà tra poco i suoi quattro anni di vita: non cammina più a tentoni e non annaspa più tra le parole. È grandicella ormai. Però avrebbe bisogno di una sorellina: e se la chiamassimo Johanna 2010? La nostra speranza a fare breccia tra i sogni altrui.

La Nazionale italiana si pregusta il dol-ce sudafricano, dopo aver divorato il primo piatto tedesco. Ma in molti la accusano di “essere alla frutta”. Perché le scelte lippiane non rispecchiano il sentimento popolare (ep-pure fu così anche nel 2006).

Siamo un popolo che ama remarsi con-tro, ma se poi si vince... ecco a voi le piazze gremite! Siamo Italiani perché dobbiamo frustarci in partenza. Proviamo a vince-re solo se ci sentiamo sconfitti. Dobbiamo dimenticare il passato per rimotivarci nel presente. È un gusto sadico per l’autocriti-ca azzeratrice. E il sorriso sul nostro volto lo vedi solo alla fine, se va bene. Non sappia-mo vivere comunque a testa alta: e pensare che c’è chi lo fa in mezzo alla miseria. E se provassimo a scrivere un nuovo capoverso esistenziale? Coraggio Italiani del Mondial ereditieri! Punto e a capo. E adesso faccia-molo africanamente.

Il sentimento nero ricorda quelli amori adolescenziali, lontani anni luce dalla rou-tine euro-cupidesca, che di amore non sa nemmeno più.

L’Africa ha un cuore pulsante, emoziona-to, fremente di fronte alla sua prima volta.

Ci dovrebbe impartire ripetizioni di “educazione sentimentale”, per dirlo alla Flaubert. Il viver europeo misconosce il longevo sentimento in favore della fuggitiva emozione.

Forse il progresso ci ha fatto regredire. Speriamo che questo Mondiale dia qualche risposta ai nostri punti interrogativi, affinché tutto non si riveli il “sogno di una notte di mezza estate”. L’Africa parte dal Sudafrica, l’Italia riparte da Città del Capo. Scriviamo mondialmente questo nuovo capoverso.

Perché giocare a calcio non sia solo un ludico passatempo, ma si riveli per tutti un farmaco a base “di Buona Speranza”.

Page 20: I-VIII 4 10-11 · Sicuramente ne hanno diritto. Qualunque associazione che ag-greghi e porti valore aggiunto alla città deve poter operare in tran-quillità e con le risorse necessarie,

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