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FRANCO BENUCCI I Tituli dipinti della Sala Guariento (Memoria presentata dal s.e. Antonio Rigon nell’adunanza del 19 febbraio 2011) 1. Introduzione 1.1. Nel gennaio del 2010 – a oltre due anni dalla conclusione dei lavori di pulitura e restauro dei superstiti affreschi trecenteschi che decorano la parete occidentale della sala delle adunanze dell’Accade- mia Galileiana – la presidenza dell’Accademia ha richiesto, tramite Antonio Rigon, socio effettivo dell’Accademia stessa, l’intervento del gruppo di ricerca interdipartimentale in epigrafia medievale dell’Uni- versità di Padova, 1 per la lettura e l’interpretazione di quanto rimane dei tituli dipinti che dovevano in origine accompagnare, con funzio- ni di didascalie, tutti gli episodi dell’Antico Testamento affrescati da Guariento di Arpo sulle pareti della cappella destinata agli ospiti d’o- nore della ‘reggia’ Carrarese, nei primi anni ’50 del XIV sec. (e con ogni probabilità in occasione del passaggio per Padova, nel 1354-55, dell’imperatore Carlo IV diretto a Roma per l’incoronazione). 2 Dopo un primo sopralluogo collettivo in data 19 gennaio 2010, le successive operazioni di rilevazione, lettura e analisi dei testi sono state svolte da chi scrive con la preziosa, competente e sempre disponibile assistenza tecnica e fotografica di Antonio Zanonato, alla cui scrupo- losa professionalità si deve anche la scoperta di un importante titulus didascalico posto in posizione non canonica all’interno di una delle scene affrescate, fino ad allora sfuggito all’attenzione di tutti. ( 1 ) Al gruppo di ricerca partecipano la prof.ssa Nicoletta Giovè Marchioli, il dott. Donato Gallo e la dott.ssa Giulia Foladore (Dipartimento di Storia), il dott. Franco Benucci e il dott. Antonio Zanonato (Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comu- nicative e dello Spettacolo) e la prof. Cristina Stefani (Dipartimento di Geoscienze), quest’ultima non coinvolta nei lavori di rilevazione epigrafica presso l’Accademia. ( 2 ) Su questi e altri aspetti storici, e per ulteriori rimandi bibliografici, cfr. Flores d’Arcais 1974: 25; Hueck 1993: 63-7; Hueck 1994: 83.

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I Tituli dipinti della Sala Guariento

(Memoria presentata dal s.e. Antonio Rigon nell’adunanza del 19 febbraio 2011)

1. introduzione

1.1. nel gennaio del 2010 – a oltre due anni dalla conclusione dei lavori di pulitura e restauro dei superstiti affreschi trecenteschi che decorano la parete occidentale della sala delle adunanze dell’accade-mia galileiana – la presidenza dell’accademia ha richiesto, tramite antonio rigon, socio effettivo dell’accademia stessa, l’intervento del gruppo di ricerca interdipartimentale in epigrafia medievale dell’uni-versità di padova,1 per la lettura e l’interpretazione di quanto rimane dei tituli dipinti che dovevano in origine accompagnare, con funzio-ni di didascalie, tutti gli episodi dell’antico testamento affrescati da guariento di arpo sulle pareti della cappella destinata agli ospiti d’o-nore della ‘reggia’ Carrarese, nei primi anni ’50 del XiV sec. (e con ogni probabilità in occasione del passaggio per padova, nel 1354-55, dell’imperatore Carlo iV diretto a roma per l’incoronazione).2

dopo un primo sopralluogo collettivo in data 19 gennaio 2010, le successive operazioni di rilevazione, lettura e analisi dei testi sono state svolte da chi scrive con la preziosa, competente e sempre disponibile assistenza tecnica e fotografica di antonio Zanonato, alla cui scrupo-losa professionalità si deve anche la scoperta di un importante titulus didascalico posto in posizione non canonica all’interno di una delle scene affrescate, fino ad allora sfuggito all’attenzione di tutti.

(1) al gruppo di ricerca partecipano la prof.ssa nicoletta giovè Marchioli, il dott. donato gallo e la dott.ssa giulia Foladore (dipartimento di storia), il dott. Franco Benucci e il dott. antonio Zanonato (dipartimento di discipline linguistiche, Comu-nicative e dello spettacolo) e la prof. Cristina stefani (dipartimento di geoscienze), quest’ultima non coinvolta nei lavori di rilevazione epigrafica presso l’accademia.

(2) su questi e altri aspetti storici, e per ulteriori rimandi bibliografici, cfr. Flores d’arcais 1974: 25; Hueck 1993: 63-7; Hueck 1994: 83.

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al termine della campagna di rilevazione, mentre si è lieti di pre-sentare il risultato del lavoro – che come si vedrà è stato foriero di significative novità per l’interpretazione di alcuni degli episodi raffi-gurati e di interessanti riflessioni relative al ciclo nel suo complesso3 – rimane il rammarico di non essere stati coinvolti nell’esame del ci-clo stesso e nello studio della sua componente grafica fin dalle prime fasi delle operazioni di pulitura degli affreschi, quando sarebbe stato possibile operare in maniera più distesa e a stretto contatto con i re-stauratori, cogliendo così tutte quelle tracce e quei frammenti testua-li – ora scomparsi e solo in parte documentati dalle foto precedenti all’intervento in questione – che avrebbero permesso una più com-pleta e puntuale ricostruzione dei tituli didascalici, e contribuendo eventualmente alla loro conservazione.

1.2. Come è noto, le scene bibliche raffigurate da guariento sulla parete occidentale della cappella Carrarese corrono senza soluzione di continuità entro due fasce sovrapposte, alte circa 130 cm. e sormonta-te ognuna da una cornice alta circa 20 cm. a finte modanature agget-tanti, nel cui nastro centrale, alto 5,5 cm., trovano posto la maggior parte delle accennate iscrizioni didascaliche, in caratteri gotici alti in media 3 cm. le scene di storia sacra raffigurate si susseguono crono-logicamente da sinistra a destra dell’osservatore, cioè da sud a nord, secondo un verso di lettura coincidente con quello dei tituli epigrafici. tra le scene del registro superiore, tutte tratte dal libro della genesi, e quelle del registro inferiore, tratte invece dai libri dei re, di daniele

(3) la potenziale rilevanza dei tituli dipinti ai fini della corretta interpretazione delle scene bibliche rappresentate sulla parete era stata rilevata già da d’arcais 1962: 7 (“un fregio ornamentale in cui erano scritti i nomi dei personaggi che erano stati effigiati sotto”) che tuttavia, di fronte alle pessime condizioni di conservazione in cui versava allora l’intero ciclo affrescato, aveva dovuto rinunciare a una loro lettura che superasse le “alcune lettere gotiche […] ancora leggibili ad un attento esame” (16 n. 1). anche nei decenni successivi, nonostante le ripetute campagne di pulitura e restauro del ciclo pittorico, le relative iscrizioni didascaliche erano sempre state ignorate e liquidate al più come “alcune parole, quasi sempre illeggibili, a lettere gotiche, che descrivono gli episodi sottostanti” (così Flores d’arcais 1974: 69, quasi letteralmente ripresa da Frasson s.d.: 21-2; cfr. tuttavia tintori 1964-65: 61, 70: “sotto la coloritura falsa delle cornici si è trovato spesso uno scritto con la descrizione della scena. […] nelle cornici orizzontali era scritta la leggenda delle storie rappresentate”, dove forse quell’era, inteso dal restauratore quale descrizione dei risultati del suo intervento e interpretato invece quale attestazione di uno stato pregresso e irrimediabilmente perduto, ha scoraggiato ogni successivo sforzo di lettura e interpretazione dei tituli).

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e di giuditta,4 va segnalato un forte scarto narrativo (corrispondente alle vicende del popolo ebraico esposte nella rimanente parte del pen-tateuco e nei libri di giosuè, dei giudici e di rut), dovuto alla quasi totale scomparsa degli affreschi in origine presenti sulle altre pareti della cappella, e in particolare sulla parete est demolita nel 1779 per unirla al locale adiacente e adattarla così a sala per le adunanze accade-miche. in due distinte zone della scena centrale del registro superiore della parete affrescata sono presenti altrettanti cartigli didascalici di diverse caratteristiche e dimensioni, come si avrà modo di ribadire, mentre i due frammenti di affresco (Colloquio del Creatore con Adamo ed Eva nell’Eden e Giuseppe interpreta i sogni del Faraone) a suo tempo staccati dagli altri muri della cappella (si tratta di scene tratte anch’esse dal libro della genesi, ma da collocare rispettivamente prima e dopo l’intera sequenza del registro superiore della parete ovest, quindi ori-ginariamente situate in zone o addirittura su muri diversi del luogo sacro) e ora ricollocati sull’attuale parete orientale della sala, non pre-sentano alcuna traccia di iscrizione.

i due nastri iscritti – entrambi interrotti e danneggiati, al pari dei corrispondenti registri figurativi, dall’asimmetrico allargamento dei vani delle finestre operato a fine ’7005 – sono nettamente differenziati sia per le rispettive caratteristiche paleografiche che per le loro attuali condizioni di conservazione e di leggibilità, assai diverse ma comun-que problematiche. il titulus superiore, che presenta in gran parte un

(4) Come si vede, si tratta sempre di episodi tratti propriamente dai libri storici dell’antico testamento e non già da “i libri dei profeti”, come voleva la critica tradizio-nale (cfr. d’arcais 1962: 7, 16 n. 2, che per l’identificazione dei soggetti iconografici rimanda alle ipotesi originariamente formulate, nel 1856, da Menin 1863: 468-73, dalle quali si distaccherà parzialmente solo in Flores d’arcais 1974: 69). anche le scene tratte dal libro di daniele si riferiscono in realtà alla parte storica di quel libro (capp. 1-6, 13-14) e non a quella strettamente profetica (capp. 7-12).

(5) sulle vicende edilizie seguite all’assegnazione dei locali all’accademia nel 1779, v. sotto n. 27 e cfr. d’arcais 1962: 16 n. 3 e Hueck 1993: 65-7, con ulteriori rimandi bibliografici. Facendo riferimento alle presumibili posizioni e dimensioni delle aperture originarie (probabilmente delle bifore, larghe in totale non più di 125 cm. ognuna), tuttora indicate nella zoccolatura basale della parete affrescata da due serie di “tre finte nicchie in prospettiva” collocate a un livello inferiore a quello delle rimanenti “finte […] arcatelle gotiche” che la caratterizzano (cfr. Flores d’arcais 1974: 27, 69), la finestra meridionale (il cui infisso attuale misura 171 cm. di larghezza) è stata allargata quasi simmetricamente su entrambi i lati di quella antica, con uno scasso che nel complesso ha interessato i quattro affreschi (2+2) collocati ai suoi lati e le relative didascalie iscritte per circa 45 cm. a sinistra e circa 35 cm. a destra, mentre quella settentrionale è stata nettamente spostata verso destra (nord) interessando così per circa un metro solo le sce-

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buon contrasto cromatico tra il blu-nero del campo e il bianco-giallo dei caratteri alfabetici, è stato infatti ampiamente manomesso e fram-mentato sia nella sua estensione longitudinale – per l’inserimento dei nuovi infissi (a partire dal 1779) e di vari travi da soffitto (in una fase forse ancora precedente “di ‘ricostruzione’ o adattamento della cappel-la”: cfr. Flores d’arcais 1974: 70) – sia in quella verticale che si pre-senta, soprattutto alle estremità, fortemente ribassata (fino a mostrare pochi millimetri della base di alcune lettere): con ogni probabilità, in epoca imprecisabile (o forse in più epoche) esso ha anche subito una qualche azione di dilavamento per infiltrazione dal tetto, che ha pro-vocato la successiva ridipintura dell’area iscritta,6 con la conseguente realizzazione di una sorta di ‘palinsesto’ epigrafico, in vari punti del quale i frammenti (o le ombre) dei vari segni alfabetici sovrapposti, spesso di diverso modulo e dimensione, non sono più distinguibili né tanto meno riordinabili o integrabili in parole di senso compiuto e in costrutti coerenti con le immagini sottostanti, che potranno quindi

ne e i tituli didascalici collocati da quel lato e lasciando invece pressoché integri fino al loro margine originario, salvi naturalmente i danni pregressi, quelli posti alla sua sinistra (sud: cfr. tintori 1964-65: 61-3 con chiarissimo schema forometrico purtroppo privo di indicazioni dimensionali). osserviamo qui in via incidentale che il centro prospettico della sequenza di finte architetture sullo zoccolo della parete coincide con il centro della serie di finte nicchie corrispondente alla finestra a nord, a 3,29 m. dalla parete nord e 7,65 m. da quella sud; supponendo che tale vistosa asimmetria (le due sezioni prospet-tiche stanno tra loro in un rapporto di 1 : 2,33) non sia casuale, ma corrisponda invece a una partizione significativa dell’originaria architettura reale della cappella, ciò sembra costituire un ulteriore indizio a favore della correttezza di quanto ipotizzato da i. Hueck circa la collocazione dell’altare sul lato nord della cappella e circa l’originaria disposizione delle tavole di guariento raffiguranti le schiere angeliche alla sommità delle pareti della cappella stessa: la posizione del centro prospettico, a 3,29 m. dalla parete d’altare, poteva infatti corrispondere al punto (o alla struttura) di separazione tra la zona presbiteriale e l’aula e di fatto corrisponde, in proiezione verticale, al proposto confine tra le serie di tavole dedicate a diversi cori angelici (troni e dominazioni sulla parete ovest, potestà e Virtù sulla parete est: cfr. Hueck 1994: 86, 95, con lo schema isometrico in fig. 4).

(6) un intervento di ridipintura degli affreschi, e verosimilmente anche della fascia iscritta superiore, ebbe luogo già tra l’11 luglio e il 19 novembre del 1795: ciò è testi-moniato dalle Notizie giornaliere dell’abate gennari, che ricorda come nella prima data, “dietro una relazione data dal signor conte stratico, la parte di rinfrescare le pitture di guariento nella sala accademica […] fu presa con pienezza di voti”, e nella seconda ancora simone stratico relazionò agli accademici sulle stesse pitture, appena “ristorate dall’egregio pennello del signor [luca] Bridda pittor veronese” (cfr. gennari 1982-84: 845, 862; ringrazio donato gallo per la segnalazione della notizia). tintori 1964-65: 72 segnala tuttavia come “una parte di queste ridipinture [da lui rimosse nel corso del restauro] era molto antica, probabilmente cinquecentesca”.

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solo essere ipotizzati sulla base del contesto e delle dimensioni delle lacune. la scrittura ora dominante in questo registro è una maiuscola gotica assai pesante e grossolana, probabilmente frutto di tardiva imi-tazione, di modulo tendenzialmente quadrato (larghezza media delle lettere singole 2,5 ÷ 3 cm., M e nessi fino a 4 cm., altezza media 3 cm.), ma non mancano affioramenti di caratteri (o di tratti) più pic-coli e/o allineati a un livello leggermente più altro degli altri, nonché un isolato e macroscopico caso di errata ricostruzione di una F gotica in forma di e capitale.

il titulus inferiore si presenta invece in un miglior stato di con-servazione per quanto riguarda la sua consistenza materiale (mancano infatti solo i tratti interessati dagli scassi per le modifiche forometriche del 1779), al punto di presentare ancora l’originale colorito brunastro del fondo e la quasi totalità dei motivi a finto mosaico bianco-rosso (e in origine nero) posti a separare i singoli brani epigrafici. proprio il permanere dello strato pittorico originario, non interessato nel corso dei secoli da ridipinture e rifacimenti tardivi, rende tuttavia estrema-mente difficile la lettura dei testi didascalici nelle normali condizioni di luce e di distanza dal nastro iscritto: i singoli caratteri appaiono infatti oggi quasi come l’ombra di se stessi, in un colorito a tratti biancastro ma per lo più solo leggermente sottotono rispetto al bruno del campo, corrispondente forse allo strato di preparazione per l’applicazione di una foglia (o vernice) d’oro che nel XiV sec. doveva far fortemente risaltare le parole sullo sfondo scuro ma poi è progressivamente caduta fino ad annullare quasi del tutto il contrasto cromatico necessario alla lettura. la scrittura del registro inferiore, in gran parte riconoscibile solo a distanza ravvicinata e con opportuna illuminazione (lampada a mano), è una maiuscola gotica molto elegante e slanciata, anch’essa certamente originale e coeva alla realizzazione degli affreschi, di mo-dulo rettangolare (larghezza media delle lettere singole 2 ÷ 2,5 cm., M e nessi fino a 3,5 cm., altezza media 3 cm.).

in entrambi i registri, oltre al locale affiorare di linee rettrici trac-ciate in rosso sul campo, si riscontra una libera alternanza di u e di V (senza distinzione per le rispettive posizioni in inizio, interno o fine di parola), una relativa varietà nella foggia di X e un uso relativamente raro delle abbreviature (sussistono solo un caso di et in forma di 7 e tre casi di nasali finali o interne omesse e segnalate con tratto soprascritto, mentre va ipotizzata la caduta in lacuna di qualche altra segnalazione di nasale, di un’abbreviatura per compendio e forse di altri nessi e note tachigrafiche); sono invece frequenti (ma non sistematici) i nessi con a, o e u, come verrà puntualmente segnalato in sede di trascrizione.

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1.3. a parte vanno considerati i due cartigli già accennati, inseriti nella raffigurazione centrale del registro superiore. il primo, sovrappo-sto ai monti che fanno da sfondo alla scena rappresentata, si presenta come un rettangolo (in forma leggermente trapezoidale) di 46 x 9 cm, sul quale sono segnate, con linee rettrici incise e ben visibili, due righe di scrittura – la prima alta 2,5 cm. e la seconda alta 3 cm. – poste a 1 cm. di distanza dai margini del cartiglio e intervallate da uno spazio in-terlineare di 1,5 cm.: il campo del cartiglio è bianco, delimitato sopra e sotto da una bordura rossa, e su di esso erano stati tracciati in nero i ca-ratteri alfabetici, in una maiuscola gotica di modulo rettangolare (lar-ghezza media delle lettere superstiti 2 ÷ 2,5 cm., altezza 2,5 ÷ 3 cm.), certo originaria ma ormai priva di particolari connotazioni grafiche. il cartiglio, presumibilmente realizzato a secco al di sopra dell’originaria stesura del colore, è stato infatti interessato da forti cadute di materia pittorica, purtroppo aggravate dalle campagne di pulitura successive ai restauri tintori del 1964-65 (nel corso dei quali esso è stato rinvenuto sotto agli strati di ridipintura e riportato alla vista: cfr. tintori 1964-65: 71), al punto che molte lettere sono ora parzialmente riconoscibili solo in negativo per i contorni delle zone risparmiate dalla cromia circostante (caduta completamente l’intera stratigrafia corrisponden-te ai grafemi, fino all’affiorare del pigmento ocra corrispondente allo sfondo montuoso) o viceversa per l’affiorare, in particolari condizioni conservative, dello strato preparatorio (bianco in campo nero). anche in questo caso si registra oggi un’unica abbreviatura (nota tachigrafica per et, ma in origine dovevano esservi almeno due segnalazioni so-prascritte, probabilmente di nasale finale e di r in interno di parola), mentre sono del tutto assenti i nessi e si riscontra la presenza esclusiva di V (5 occorrenze, tutte in interno di parola).

il secondo, uno stretto nastro curvilineo di 57 x 2,5 cm. disposto lungo un margine della roccia in primo piano della stessa scena, è invece quasi perfettamente conservato (salvo una leggera consunzione del tratto iniziale, già riscontrabile nelle foto precedenti al restauro tintori del 1964-65 e forse provocata da una qualche precedente azio-ne meccanica, e il non preciso delineamento del margine finale): sul campo d’azzurro, steso in diverse delicate sfumature di tono, risaltano in un brillante oro, solo qua e là interessato da locali cadute di pig-mento che lasciano trasparire lo strato preparatorio nero, le lettere, vergate in una elegante e minuta maiuscola gotica di modulo rettan-golare (larghezza media delle lettere 1,5 cm., M 2 cm., altezza media 2 cm.). pur nella sua brevità, questo testo (inizialmente osservato da antonio Zanonato nel corso della rilevazione fotografica) presenta al centro ben due abbreviature con segnalazione soprascritta delle lettere

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omesse, tra loro adiacenti e relativamente poco leggibili, e all’inizio un nesso o+r, anch’esso poco visibile a causa dell’accennata consunzione del cartiglio di quel tratto: anche di ciò verrà data più puntuale illu-strazione in sede di trascrizione. l’alternanza di u e di V si riscontra anche in questo testo, regolarizzata però, come u in iniziale di parola e V al suo interno, mentre vi compare un’unica X, di forma ‘canonica’.

nella trascrizione dei singoli segmenti testuali abbiamo adottato i seguenti criteri grafici: in maiuscoletto le trascrizioni vere e proprie (diplomatiche: si indicano con punto sottoscritto le lettere incomplete o di malagevole lettura) e le integrazioni ritenute certe, indicate tra paren-tesi quadre, in normale carattere tondo le integrazioni ipotetiche (seguite nei casi più speculativi anche da un punto interrogativo ?), in corsivo gli scioglimenti e le citazioni testuali che prescindano dall’aspetto epigra-fico, in normale MaiusColo le citazioni di singoli grafemi, nessi o brevi sequenze non in contesto di trascrizione. le lacune sono indicate con parentesi quadre [ ] racchiudenti le rispettive dimensioni espresse in cm., ovvero le integrazioni certe o ipotizzate; gli scioglimenti di tutte le abbreviature sono indicati tra parentesi tonde ( ); i pochi casi di emenda-mento testuale tra uncini ‹ ›; le citazioni di forme o segmenti ipotizzati o ricostruiti sono precedute da asterisco *.

2. il registro superiore

2.1. iniziando dal registro superiore, sopra il primo riquadro della sequenza la cornice iscritta si presenta in uno stato assai frastagliato e frammentario: nessuna traccia grafica è rilevabile in corrispondenza della prima scena (Benedizione di Noè: gen. 9: 1-11),7 mentre al di sopra del tabernaculum in cui è ambientato l’episodio dell’Ebbrezza di Noè (gen. 9: 20-27), dopo 13 cm. di motivo a finto mosaico emer-gente dalla lacuna e 2 cm. di spazio vuoto, si leggono oggi solo alcuni

(7) Va notato che nella scena affrescata, oltre a noè, ai suoi tre figli e alle rispettive quattro mogli (delle quali per la verità se ne vedono oggi solo tre: la quarta trovava probabilmente posto nella lacuna marginale alle spalle della donna più anziana del gruppo) – “otto indivi-dui unico avanzo della specie umana” dopo il diluvio, tutti in attento e ossequiente ascolto del “nume sospeso in aria” (così Menin 1863: 469) – sono presenti anche quattro fanciulli: tre inseriti tra noè e il gruppo delle donne, il quarto in primo piano a sinistra, affettuosa-mente trattenuto dalla donna più anziana, moglie di noè: si tratta con ogni probabilità dei figli di Cam – l’unico dei figli di noè che il testo biblico qualifica come ‘padre’ già all’uscita dall’arca e l’unico che ebbe solo quattro figli – Cus, Mesraim, Fut e Canaan, quest’ultimo evidentemente il più giovane, accudito dalla nonna (cfr. gen. 9: 18-19, 22, 10: 6).

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il confronto con la gran parte dei rimanenti tituli didascalici della sala permette di riconoscere nell’incipit dell’iscrizione il deittico hic e di integrare quindi la prima lacuna con l’ansa di H (nella forma mi-nuscola tipica dell’epigrafia in caratteri gotici) e i e la seconda lacuna con uno spazio vuoto. un’attenta osservazione della documentazio-ne fotografica successiva al restauro tintori del 1964-65 (cfr. Flores d’arcais 1974: fig. 67) mostra che la terza (e penultima) asta verticale della serie era in origine una r, di cui erano allora perfettamente rico-noscibili parte dell’occhiello e del tratto obliquo, oggi perduti e cor-rispondenti allo spazio ora libero: la terza lacuna doveva quindi con-tenere una n, restituendo così il termine i[n]ebria[tus], perfettamente atteso in base al contesto figurativo e al dettato biblico (coepitque Noe agricola plantare vineam; bibensque vinum inebriatus est et nudatus in tabernaculo suo, gen. 9: 20-21). la breve iscrizione (44 cm. comples-sivi di intonaco affrescato, compresi i 13+2 cm. iniziali: quindi 29 cm. effettivamente iscritti, lacune comprese) è perciò ricostruibile come segue: .h�[i]c� i�[n]e�br�ia�[tvs iacet? noe].

2.2. superata la prima finestra, la fascia affrescata prosegue con un grande scomparto in cui sono rappresentati in narrazione continua i se-

frammenti alfabetici, inframmezzati da altre lacune. la sequenza gra-fica, cui fa seguito un’ampia lacuna che giunge fino all’infisso della finestra, presenta nell’ordine un punto, un’asta verticale, una lacuna di 3,5 cm., la parte inferiore di una lettera rotonda, un’altra lacuna di 3,5 cm., la base di un’asta verticale, una terza lacuna di 3,5 cm., una e (mancante dell’ansa sinistra), una B, un’asta verticale, uno spazio libero di 1,5 cm., il gruppo ia (mancante della parte superiore); in sintesi, la situazione attualmente riscontrabile è la seguente: .i[ 3,5 ]c�[ 3,5 ]i�[ 3,5 ]e�bi ia�[.

Fig.1

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guenti episodi biblici, complessivamente identificabili come ‘storie di abramo’: Colloquio di Abramo con gli angeli (gen. 18: 1-33), Distruzione di Sodoma (gen. 19: 24-25, 27-28), Fuga di lot (gen. 19: 16-23, 26), Sacrificio di isacco (gen. 22: 1-14). lo spazio murario compreso tra le due finestre moderne misura 383 cm. di larghezza, cui corrisponde (tolti gli scassi laterali operati per l’inserimento degli infissi) una superficie af-frescata larga mediamente 340 cm. e sovrastata da una più ridotta falsa cornice modanata, entro cui si snoda il nastro epigrafico contenente una lunga iscrizione didascalica, anch’essa probabilmente redatta in origine senza soluzione di continuità, ma oggi spesso interrotta da lacune e ridi-pinture di varia estensione e quindi assai frammentaria, a tratti incom-prensibile. i vari spezzoni di intonaco iscritto coprono complessivamente, lacune comprese, una larghezza di soli 315,5 cm. e contengono almeno due unità testuali, articolate come segue.

Fig. 2

Fig. 3

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dopo la lacuna iniziale, in corrispondenza dei tre angeli davanti a cui sta abramo inginocchiato, il testo inizia con un primo enunciato incompleto: ]t�r�es angelos tr�a�[, cui segue una lacuna (foro di trave) di 13,5 cm. e quindi, ormai sopra il primo angelo in volo su sodoma, ]s� 7 unv a�doravit e�[, una nuova lacuna di 6 cm. (ridipintura o caduta di colore, con qualche traccia), ]q�v�[, una zona ridipinta lunga 18 cm. con tracce grafiche sovrapposte e assai confuse, ]s�o�d�[, una lacuna (risega e caduta di intonaco) di 10,5 cm., ]c�onbvritur cvm onibvs ī�[, ancora una lacuna (caduta di colore) di 5 cm, e infine la flebile traccia di ]s�, che giunge all’estremità destra del secondo angelo in volo su sodoma. a soli 2 cm. da quella s, senza alcun segno di separazione, il testo continua, sopra il gruppo in fuga con lot, con un secondo enunciato: abram avlt[, cui seguono una lacuna (caduta di colore) di 3 cm., ]s�a�c�riei�[, una nuova lacuna (foro di trave) di 32,5 cm. e, ormai sopra la scena del mancato sacrificio di isacco, 31 cm. in cui l’intonaco della falsa cornice è assai ridotto in altezza e non conserva alcuna traccia grafica.

Fig. 4

2.2.1. in sintesi, e dividendo fin d’ora per comodità i due enun-ciati, la fascia iscritta si presenta oggi come segue:

]t�r�es angelos tr�a�[ 13,5 ]s� 7 unv a�doravit e�[ 6 ]q�v�[ 18 ]s�o�d�[ 10,5 ]c�onbvritur cvm onibvs ī�[ 5 ]s�

dal punto di vista paleografico, questa prima sezione presenta due nessi (a+n in angelos, u+r in conburitur) e, come già evidenziato, la nota tachigrafica 7 per et e la segnalazione con tratto soprascritto di M finale in unū e di una nasale interna in ī[…]s. tutti i caratteri in prossimità delle lacune (e alcuni altri) appaiono variamente consunti e incompleti, ma comunque riconoscibili: in particolare, di r a a che precedono la prima lacuna mancano le parti superiori, della s che la

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segue resta solo la metà destra, della e che precede la seconda lacu-na resta solo la sagoma circolare, il tratto obliquo della Q è appena accennato, della d che precede la quarta lacuna si riconosce appena la sagoma circolare, della C che la segue manca la metà sinistra, la Ī e la s che circondano la quinta lacuna sono assai flebili e visibili a occhio nudo solo da distanza ravvicinata. all’inizio della lacuna di 6 cm. sembra di poter riconoscere oggi la traccia di una lettera circola-re, verosimilmente o, che precede uno spazio vuoto ma più ampio di quanto necessario a contenere una singola lettera: un’impressione confermata dall’esame della documentazione fotografica allegata alla relazione finale del restauro tintori (1964-65), conservata presso l’ar-chivio dell’accademia. nessuna traccia alfabetica sembra invece indi-viduabile nella lacuna finale di 5 cm.

Quanto alla lacuna maggiore (18 cm.), tra le varie e confuse trac-ce che vi si osservano, sembra oggi di poter riconoscere in posizione iniziale la sagoma di una lettera circolare, giusto al centro la sequenza di una t e di un’altra lettera circolare (quest’ultima ripetutamente ri-dipinta in dimensioni e con allineamenti basali diversi), e infine, solo 2 cm. più in là e a meno di 3 cm. dall’inizio della sequenza sod, la sottile traccia scura della metà inferiore di una C: quest’ultimo carat-tere, oltre che per il colore imputabile forse al trasparire dello strato preparatorio, differisce da tutti gli altri per il diverso allineamento ba-sale e per una morfologia più stretta. l’attento esame delle foto tintori del 1965 conferma sostanzialmente quanto sopra e permette inoltre di identificare più univocamente come e le due lettere circolari e di individuare tra la prima e e la traccia di t anche la traccia di una n ora non più riconoscibile.

alla luce di quanto finora esposto e del dettato dei testi biblici di riferimento (gen. 18: 1-33; 19: 24-25, 27-28), il primo enunciato può dunque essere integrato e sciolto come segue. per quanto riguar-da lo scioglimento della prima lacuna (transeuntes: per il termine cfr. gen. 18: 3, 5), in considerazione delle sue dimensioni (13,5 cm.) e di quanto è visibile, sembra più verosimile ipotizzare, invece che un possibile nesso *a+n caduto parzialmente in lacuna, l’omissione di entrambe le nasali presenti, la prima segnata in modo non più visibile al di sopra della a (*trāseūtes). per quanto concerne invece lo scio-glimento proposto per l’ultima lacuna (inpiis: per il termine cfr. gen. 18: 23, 25), con la nasale in forma non assimilata (n anziché M), esso è esemplato sulla precedente occorrenza (conburitur) e ritenuto proba-bile in base alla relativa frequenza di casi analoghi in tutta l’epigrafia medievale, ma nulla impedirebbe la scelta contraria.

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[abram vidit? ]tres angelos tra[(n)seu(n)te]s (et) unv(m) adoravit e[o lo]qv[entem ]sod[oma ]conbvritur cvm onibvs i(n)[pii]s

in questa ricostruzione del testo iscritto, la seconda porzione dell’enunciato (Sodoma conburitur ecc.) si configura naturalmente come ‘discorso diretto’ dell’angelo rimasto a colloquio con abramo dopo la partenza degli altri due per sodoma (in realtà lo stesso Jahvè: converteruntque se inde viri et abierunt Sodomam; Abraham vero adhuc stabat coram Domino, gen. 18: 22), retto grammaticalmente dal parti-cipio loquentem.8 Va ancora segnalato che le integrazioni qui proposte per la lacuna maggiore e per quella subito precedente (eo loquentem, appunto: per il termine, riferito all’angelo, cfr. gen. 18: 33; per la gra-fia proposta, con o alto e incluso nell’ansa di l, anch’essa non priva di riscontri epigrafici, un esempio sicuro si ha qui nel titulus relativo ad altro affresco del registro inferiore) si basano su quanto già osserva-to sopra relativamente alle tracce alfabetiche tuttora, o un tempo, ivi riscontrabili, assumendo che questo fosse lo stato originario del testo, come predisposto da guariento o dai suoi collaboratori: solo in un secondo momento, quando – a seguito delle infiltrazioni (?) e delle diffuse cadute di colore che tormentarono la cornice superiore – il termine non fu più comprensibile (come non lo è nemmeno oggi alla semplice osservazione diretta), essa dovette essere completamente rico-perta di nuovo intonaco o pigmento, creando un nuovo senso ai due spezzoni di testo così ottenuti (e non più grammaticalmente collegati) tramite l’inserimento, dopo un eventuale separatore grafico (falso mo-saico, hedera distinguens o altro) e in corrispondenza della parte finale del termine obliterato, del deittico hic, tipico introduttore di molti dei tituli didascalici del ciclo pittorico (*…et unum adoravit xxxx Hic Sodoma conburitur…), di cui ora resta solo parte del grafema finale, in posizione del tutto incompatibile col resto del termine integrato.9

(8) l’apparente incongruenza del presente conburitur con la situazione narrativa del testo biblico, dove la distruzione di sodoma è semplicemente annunciata (e ‘contrattata’ da abramo in considerazione dei pochi giusti che potevano trovarvisi) e non messa im-mediatamente in atto (ci si aspetterebbe quindi il futuro comburetur), sembra del tutto superabile per il fatto che nella scena affrescata la distruzione della città è invece effetti-vamente compresente, in una visione sinottica, al colloquio angelico di abramo. si noti invece, dal punto di vista stilistico-letterario, la presenza dell’assonanza transeuntes-lo-quentem che lega strettamente i due primi cola (presumibilmente dodecasillabi) del testo.

(9) l’interruzione così creata tra i due spezzoni di testo misurava 32 cm., di cui solo gli ultimi 8 circa occupati dal deittico hic e dal successivo spazio interverbale: il separatore grafico poteva così misurare fino a 20 cm. circa. in alternativa, un nuovo collegamento grammaticale tra le due parti, in termini di ulteriore coordinazione, potrebbe essere stato

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2.2.2. Venendo ora al secondo enunciato della stessa porzione di cornice iscritta – che ricordiamo seguire immediatamente al primo, senza alcuna separazione – esso si presenta oggi come segue: abram avlt[ 3 ]s �a �c �riei �[. dal punto di vista paleografico vanno qui osser-vati la presenza del nesso a+B in Abram e il pessimo stato di conser-vazione della sequenza saC, i cui caratteri sono appena riconoscibili a visione ravvicinata (di s resta l’ansa superiore e la ‘grazia’ terminale di quella inferiore; di a è chiaramente riconoscibile solo la metà superiore, peraltro facilmente equivocabile con s; di C resta la metà destra e l’ombra dell’ingombro complessivo di quella sinistra, men-tre al centro appare incongruamente la traccia di quello che potrebbe essere il tratto mediano di una e gotica); della i finale resta solo la parte inferiore prima della lacuna obliqua, mentre la precedente e, capitale e in corpo maggiore degli altri caratteri, è chiaramente il prodotto di una inavvertita (e reiterata) ridipintura di un preceden-te grafema gotico ora non più identificabile: solo l’esame delle foto tintori del 1965 permette di riconoscere le linee originarie della lettera sottostante, una F, non ancora privata del tratto discendente e con una ‘grazia’ basale già allora appesantita nel ductus ma non ancora trasformata in tratto quasi rettilineo come invece è ora. tutta la parte finale di questa sezione testuale deve comunque essere stata interessata nel tempo da svariate cadute di colore e ridipinture, come mostrano sia l’affiorare di un tratto curvilineo (in apparenza il resto della metà sinistra di una lettera gotica tonda) prima della a di avlt e in apparente connessione con essa, sia la piccola lacuna di 3 cm. tra gli ultimi due termini.

alla luce di tutto ciò, e tenendo presente la narrazione biblica di riferimento per l’ultima scena affrescata in questa parte della parete (il mancato sacrificio di isacco, con l’angelo che trattiene il braccio di abramo, già levato in aria col coltello in pugno, e gli indica la vittima sostitutiva – nell’affresco più una pecora, pacificamente brucante sul vi-cino monte, che l’atteso ariete impigliato con le corna nei rovi: cfr. gen, 22: 1-14, e particolarmente 9-13), il titulus didascalico può essere sciolto ed emendato come segue: abram avlt[(im)o ]sacri‹f›i[cio retinet? an-gelus?]. gli oltre 63 cm. di lacuna che fanno seguito agli ultimi caratteri sussistenti sono più che sufficienti a contenere l’integrazione finale ipo-tizzata (o eventualmente altra analoga, fino a un massimo di 25 caratteri

realizzato salvando e ‘riciclando’ la sequenza qve, tuttora in buona parte visibile, tramite la preposizione di un at ora non più visibile (*…et unum adoravit atque hic - oppure sic - So-doma conburitur…): in questo modo i due intervalli prima e dopo atque avrebbero avuto dimensioni più contenute (circa 7-8 cm. ognuno) e potevano eventualmente restare liberi.

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e spazi). per quanto riguarda invece l’integrazione e lo scioglimento della lacuna interna, va sottolineato che il termine (a ultimo, inteso ovviamen-te nell’accezione di ‘estremo’), sebbene non presente nel richiamato te-sto biblico, ne rende bene il significato complessivo e come tale è stato spesso introdotto dagli esegeti tesi a dare all’episodio un’interpretazione ‘tipologica’, di prefigurazione del futuro sacrificio di Cristo sulla croce.10 la sequenza grafica che supponiamo effettivamente presente nello stato originario del nastro iscritto doveva essere *avlto, con l’uso della norma-le abbreviatura di ultimo, ben confacente alle dimensioni della lacuna; la forma complessiva presenta anche l’univerbazione grafica della pre-posizione e del primo elemento del suo complemento, con un tipico esempio di grafia sintattica, assai frequente nei testi medievali (non solo epigrafici), che costituisce un forte indizio della presenza di un fenome-no di cliticizzazione (sicuramente fonetica, ma quasi certamente anche sintattica) all’interno di molti sintagmi e gruppi funzionali (cfr. Benucci 2008: 310).11

2.3 seguendo lo sviluppo testuale della cornice superiore, abbia-mo superato la scena della fuga di lot dalla distruzione di sodoma, che non ha riscontro in quel registro iscritto: le didascalie relative al gruppo in fuga con lot trovano infatti posto all’interno della scena stessa, nei due cartigli sopra descritti, il primo dei quali – situato poco al di sopra delle teste dei fuggitivi e sovrapposto ai monti che fanno da sfondo e quinta alla scena – presenta un testo articolato su due righe.

(10) il concetto dialettico (c.d. allegorico o ‘tipologico’) di promessa (prefigurazio-ne) e compimento (attualizzazione), tipico dell’esegesi biblica (nel rapporto tra antico e nuovo testamento), e conseguentemente della predicazione, di tradizione medievale, era largamente applicato, almeno fino alla prima età moderna, anche nelle arti figurative (per un primo riferimento cfr. Hirdt 1999, dedicato all’analisi della celebre e per molti versi enigmatica Allegoria Sacra di giovanni Bellini (1501-04): passim e spec. 468-70; per l’interpretazione tipologica del sacrificio di isacco, cfr. Kirschbaum 1968-76: i.33 (s.v. Abraham, di e. lucchesi palli).

(11) tali grafie univerbate, largamente presenti nelle iscrizioni e nei testi redatti sia in latino che in volgare e quindi indici di una comune sensibilità sintattica degli utenti delle due lingue, sembrano confermare l’analisi delle preposizioni e dei complementatori latini come elementi proclitici, inseparabili dai loro complementi (cfr. salvi 1996: 13-8): la rilevanza sintattica di tali grafie emerge da esempi come Siquis per me introierit salvabitur (io. 10: 9, testo epigrafico del 1442 sul portale meridionale della chiesa padovana dei ss. Filippo e giacomo agli eremitani), dove la preposizione e il complementatore (in grafia univerbata) manifestamente non rientrano nel computo della ‘seconda posizione’ (posizione Wackernagel, riferita alle parole fonologiche) occupata dal pronome debole.

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la prima riga inizia con una lunga lacuna (caduta di colore) di 27,5 cm. – entro cui l’elaborazione fotografica permette di riconoscere le tracce di una s e di una g, poste rispettivamente a circa 8 cm. e circa 12 cm. dall’inizio – dopo la quale si legge con fatica e quasi esclusiva-mente in negativo, per il leggero contrasto cromatico tra il bianco del campo e le poche tracce del nero originario dei grafemi, f�vgit�, a cui sembra seguire un’altra lacuna di 9 cm., suddivisa in due parti diversa-mente caratterizzate dal punto di vista conservativo: a un primo tratto, in cui il cartiglio è del tutto caduto fino a far comparire il colore scuro dello sfondo montuoso, fa seguito una seconda sezione più simile al precedente tratto iscritto, dove resta solo il bianco del campo. solo l’e-laborazione fotografica fa oggi emergere nel primo tratto della lacuna la sagoma (in bianco sul fondo scuro e quindi forse riferibile allo strato preparatorio) di una C, seguita da quella (bianca solo all’apice destro e per il resto nera) di una V, e nella seconda sezione l’ombra tenue di una sbiadita M gotica, grigia sul campo bianco, che giunge fino a circa 2 cm. dal margine destro del cartiglio completando così la sequenza c�v�m�. tracce della C e della M, oggi praticamente impercettibili ad occhio nudo, sono invece riscontrabili anche all’attento esame delle foto tintori del 1965 (cfr. Flores d’arcais 1974: fig. 69) e di quelle pubblicate in Frasson s.d.: figg. 21, 25, 26.

Fig. 5

nella seconda riga, dopo un tratto iniziale di oltre 9 cm. di quasi totale caduta di colore, in cui si riscontrano solo vaghe e irriconosci-bili tracce grafiche, compaiono in negativo – nei contorni delle zone risparmiate dal bianco del campo o caratterizzate dalla caduta di tutta la stratigrafia pittorica fino all’affiorare della sottostante cromia ocra dello sfondo montagnoso – le tracce e sagome frammentarie di alcuni

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grafemi, ora apparentemente riconducibili a una sequenza come i�i�i�v�s�-�i�t�, seguita da un vuoto di 3 cm.: ancora una volta, il confronto con la citata documentazione fotografica permette di riconoscere in tali trac-ce gli ultimi resti di un originario testo ]i�b�v�s� 7� f�i�l�i�, assai rovinato dal passare dei secoli e ora definitivamente compromesso dai più recenti interventi. a ciò fanno immediatamente seguito la sequenza abbastan-za leggibile a�b�vs, una lacuna trapezoidale di 5 cm. (corrispondente al primo tratto, di totale caduta del cartiglio, della lacuna finale della prima riga), un’asta diagonale in sbarra (resto di V) corrispondente al margine destro della lacuna e infine is•, seguito da uno spazio vuoto di 0,5 cm. riassumendo, alla luce di tutte le osservazioni fatte e del confronto con il contesto figurativo e con il dettato biblico, il testo del primo cartiglio può essere ragionevolmente ricostruito come segue:

[ad ]s�[e]g�[or loht ]f�vgit� c�v�m�[gene(r)]i�b�v�s� 7� f�i�[li]a�b�vs [s]v�is•

e sciolto quindi come [ad ]S[e]g[or loht ]fugit cum / [gene(r)]ibus (et) fi[li]abus [s]uis, dove va osservata, dal punto di vista paleografico, solo la presenza della piccola nota tachigrafica 7 per et. per quanto riguarda invece le ipotesi di integrazione delle lacune iniziali va segnalato che l’ortografia di loht si basa sulla successiva attestazione certa (v. sot-to), mentre la considerazione delle effettive dimensioni di tali lacune e dell’esigenza di garantire un adeguato margine sinistro a entrambe le righe iscritte spinge a limitare il numero dei caratteri originariamente presenti nel cartiglio: ipotizziamo quindi per Segor un’originaria grafia con nesso *o+r (per la costruzione cfr. gen. 19: 20-22: civitas haec iuxta, ad quam possum fugere […] nomen urbis illius Segor) e per gene(r)ibus, come indicato, una realizzazione con omissione e segnalazione soprascritta di r (*geneibvs).

dal punto di vista dei contenuti è invece degno di nota il fatto che il testo didascalico così integrato è del tutto coerente con la sotto-stante rappresentazione pittorica, in cui il gruppo dei fuggitivi, ripreso nell’atto di imboccare una stretta gola montuosa, appare composto da lot (il più anziano del gruppo, in primo piano, con in spalla un bastone a cui sono appesi cesto e borraccia) e da altre quattro persone: due ragazze (le figlie) alle sue spalle e due giovani uomini (i generi, il primo dei quali porta in spalla un sacco rigonfio) raffigurati in prospettiva accanto a lui (chiude il gruppo la moglie di lot, su cui torneremo tra breve, con il busto e lo sguardo rivolti indietro verso sodoma e perciò già trasformata in statua di sale giusta il racconto biblico); immagine e didascalia sono in-

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vece in disaccordo con la narrazione biblica contenuta in gen 19: 12-30, secondo la quale di tutti gli abitanti di sodoma poterono mettersi in sal-vo, dapprima nel villaggio di segor e poi in una caverna sulla montagna, solo lot et duae filiae eius, dato che i (futuri) generi, messi sull’avviso da lot stesso, su invito degli angeli, la sera precedente alla distruzione della città, non presero sul serio l’invito del suocero a fuggire con lui (visus est eis quasi ludens loqui, gen. 19: 14) e restarono quindi in città.

da tale allontanamento dalla lettera del testo biblico – del tutto arbitrario e per molti aspetti sorprendente nel contesto di un ciclo pittorico per il resto assai fedele al dettato veterotestamentario12 – de-riva così una “nichtkanonische darstellung” di lot “in der Begleitung anderer Mitglieder seiner Familie [i.e. oltre alle figlie e alla moglie] auf der Flucht”, confermata anche apertis verbis dal titulus didascalico, che non sembra trovare alcun parallelo nelle precedenti, coeve o di poco successive rappresentazioni artistiche occidentali (né, in particolare, in quelle padovane),13 rinviando piuttosto al più ampio contesto della cul-tura figurativa (e testuale) di matrice bizantina, nel cui ambito essa resta comunque “eine ausnahme”: sembra infatti significativo, per la ricerca delle possibili fonti di questa versione ‘moralizzata’ della fuga di lot e degli intendimenti didattico-ideologici sottesi al ciclo nel suo complesso, il fatto che gli unici tre confronti proposti per questo aspetto da un at-tendibile e ben documentato repertorio iconografico come Kirschbaum 1968-76: iii.108-9, siano tutti riconducibili alla cristianità orientale e a

(12) la notizia che i generi di lot avessero accolto la possibilità di salvezza loro offerta non è infatti desumibile neanche dall’apocrifo libro dei Giubilei 16: 7-9, dove l’intera vi-cenda è brevemente rievocata per bocca degli angeli (cfr. sacchi 1981: 291-2). il ‘movente’ di tale manipolazione della fonte scritturale sembra peraltro ben riconoscibile nell’intento ‘moralizzatore’ ed edificante di evitare, con l’eliminarne la cause, anche solo l’indiretta evo-cazione del duplice incesto conseguente alla fuga delle due ragazze col solo padre e al loro desiderio di assicurargli comunque ulteriore discendenza (cfr. gen. 19: 31-38, spec. 31-32, 36: “pater noster senex est, et nullos virorum remansit in terra, qui possit ingredi ad nos iuxta morem universae terrae. Veni, inebriemus patrem nostrum vino dormiamusque cum eo, ut servare possimus ex patre nostro semen. […] Conceperunt ergo duae filiae lot de patre suo”), pesantemente condannato anche nel richiamato testo apocrifo.

(13) sia nel ciclo affrescato verso il 1377-78 da giusto de’ Menabuoi nel tamburo del Battistero della Cattedrale padovana (cfr. ad es. Bellinati 1989: 53-4, 140 fig. 170) che nella corrispondente miniatura della Bibbia padovana “dell’ultimo trecento” (cfr. Fole-na-Mellini 1962: 8, tav. 22), entrambe riconducibili allo stesso ambiente della corte Carrarese cui va ascritto il ciclo di guariento qui considerato, lot è infatti accompagnato nella sua fuga solo dalle due figlie, conformemente al dettato biblico, di cui la seconda fonte citata non risparmia neppure la traduzione “in un energico volgare padovano” (cfr. Folena-Mellini 1962: ix) e la puntuale rappresentazione delle conseguenze incestuose.

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una tradizione risalente quanto meno al Vi sec. e sviluppatasi in ambito siriaco, a stretto contatto con la cultura esegetica ebraica.14

(14) si tratta delle raffigurazioni contenute nella c.d. Wiener Genesis (ÖnB, Cod. Theol. graec. 31, f. 5r, del Vi sec.), nell’Ottateuco della scuola evangelica di smirne (codice a.1, f. 32r), distrutto durante la guerra greco-turca del 1922, e in quello del Vat. gr. 746 (f. 76r), entrambi copie di pieno Xii sec. di un archetipo probabilmente antiocheno e verosimilmen-te anch’esso di Vi sec. - tutti pure contenenti anche la raffigurazione del successivo duplice incesto: cfr. Kirschbaum 1968-76: iii.107-12 (s.v. lot, di C.M. Kauffmann), spec. 108-10; Weitzmann-Bernabò 1999: i.7-8, 310, 322, 337-41, ii.figg. 275-6. particolarmente degno di nota sembra il fatto che le più antiche notizie del codice della Wiener Genesis, anch’esso di origine siro-palestinese, risalgano proprio al XiV sec. e documentino come a quell’epoca esso si trovasse “in italien, wahrscheinlich in Venedig”, città in cui guariento e/o i suoi committenti poterono certamente aver avuto occasione di vederlo; significativo è anche il fatto che, in quel codice, il passaggio testuale relativo all’intero episodio, selettivo rispetto all’originale biblico, ometta di ricordare come i generi di lot non avessero preso seriamente l’invito del suocero a fuggire con lui dalla città, ponendo così le basi per la ve-rosimiglianza della ricordata raffigurazione, a riguardo della quale sembra almeno legittimo chiedersi “ob hier jüdische legenden die Bildfindung beeinflussten”, come in altri casi (e per le stesse raffigurazioni contenute nelle due citate versioni dell’Ottateuco) pare accertato (cfr. Zimmermann 2003: 47, 54, 66, 101-6, 141, 190, 194-5, abb. 9-10; Weitzmann-Bernabò 1999: i.8, 80, 309-10, 321-2).

Fig. 6

2.4. alle spalle del gruppo familiare di lot, in fuga attraverso i monti, è raffigurata la moglie, voltasi indietro a guardare la distruzio-ne di sodoma, contravvenendo all’esplicito divieto dell’angelo (noli respicere post tergum […] sed in monte salvum te fac, ne pereas, gen. 19: 17), e perciò immediatamente trasformata in una statua di sale: la didascalia di questa parte della scena è contenuta nel cartiglio azzurro

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che segue il margine curvilineo della quinta rocciosa in primo piano. essa è redatta in caratteri dorati, di lettura quasi ovunque immediata (a parte la già segnalata leggera consunzione dei grafemi iniziali e di quelli centrali) e recita come segue:

u�x�o�r loht uer�sa e� i� statvam salis

Fig. 7

il margine sinistro del testo misura solo 0,5 cm., mentre quello destro (precedente alla leggera sfrangiatura finale del nastro iscritto) giunge a 3 cm.; dal punto di vista paleografico, oltre alla regolare alter-nanza di u in inizio parola e V in posizione interna, va qui richiamata la presenza del nesso o+r all’inizio (in uxor) e di due abbreviature al centro: la prima segnalata da un tratto ondulato, come indicato so-pra, e la seconda da un tratto in origine verosimilmente rettilineo (il grafema interessato, una *Ī, appare oggi privo di titulus e leggermen-te consunto, ma comunque leggibile grazie al trasparire dello strato preparatorio scuro). il testo, che riprende quasi alla lettera il versetto biblico corrispondente all’episodio (gen. 19: 26), può quindi essere sciolto senza difficoltà, con la sola integrazione del titulus mancante, come uxor loht versa e(st) i[(n)] statuam salis.15

(15) dal punto di vista iconografico sembra invece degno di nota il fatto che anche la sventurata moglie di lot è qui rappresentata “als eine schattengleiche menschliche Figur

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2.5. superata la seconda finestra e la fascia di scasso alla sua destra, il registro superiore riprende con un ultimo riquadro affrescato, complessi-vamente dedicato alla parte iniziale delle ‘storie di giuseppe’, che possia-mo ritenere mutilato per quasi un metro sul lato sinistro dalla modifica forometrica nel 1779: la scena inizia quindi con la metà destra di un tabernaculum (analogo a quello delle ‘storie di noè’ all’opposta estremità della parete), entro cui si vede una figura di anziano, aureolato e seduto sul suo letto con gli occhi apparentemente chiusi e le mani in grembo, di fronte a cui emergono dallo scasso solo la mano destra – con il pollice e l’indice tesi e le altre dita leggermente ripiegate – e parti della veste rossa di un secondo personaggio di proporzioni minori, posto di fronte al pri-mo. a destra di questa struttura architettonica è poi raffigurata, in nar-razione continua, la vicenda di Giuseppe alla ricerca dei fratelli (gen. 37: 12-17), i fratelli estraggono Giuseppe dalla cisterna e lo vendono ai mercanti ismaeliti (gen. 37: 18-28) e, in primo piano, la veste di Giuseppe spor-cata col sangue del capro ucciso (gen. 37: 31-32). la frammentaria scena iniziale, sopra descritta, è stata variamente identificata come “il vecchio giacobbe siede in sua casa […] abbattuto da tetri presentimenti” (così Menin 1983: 471, e similmente Frasson s.d.: 31: “la figura pensierosa di giacobbe”), Giuseppe informa il padre sulla condotta dei fratelli (così dubbiosamente tintori 1964-65: 63); Beniamino partecipa a Giacobbe la morte di Giuseppe (Flores d’arcais 1974: 69), ovvero semplicemente ignorata come episodio a sè stante, e implicitamente ricompresa sotto l’etichetta riassuntiva di “storie di giuseppe” (d’arcais 1962: 7), anche laddove tali ‘storie’ sono per il resto partitamente analizzate e descritte (Hueck 1993: 68).

Mentre sembra incontestabile, per il fatto stesso della sua colloca-zione spaziale, l’esistenza di un collegamento narrativo tra tale scena e le susseguenti ‘storie di giuseppe’, e quindi l’identificazione dell’an-ziano aureolato come giacobbe, di cui giuseppe era il figlio prediletto (israel [i.e. iacob] autem diligebat ioseph super omnes filios suos, eo quod in senectute genuisset eum, gen. 37: 3), non riteniamo corrette le tito-lazioni proposte per la scena stessa, che fanno quasi tutte riferimento all’agnizione da parte di giacobbe, per presentimento o per esplicita

[…] in blassem grau”, secondo l’antico modello orientale risalente all’Ottateuco (verosi-milmente già nel suo archetipo antiocheno) e alla Wiener Genesis (v. n. 14), anziché “in wörtlicher Wiedergabe als eine säule […] aus der ein Haupt hervorragt”, secondo il più aggiornato modello sviluppatosi in occidente “erst seit dem 14. Jh.” (cfr. Kirschbaum 1968-76: iii.109, Weitzmann-Bernabò 1999: ii.figg. 274-6). la stessa scelta iconogra-fica è del resto presente anche nelle altre, pur tardive, attestazioni padovane del Battistero e della Bibbia miniata.

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comunicazione, della (presunta) morte di giuseppe. anche a prescin-dere dal fatto che il racconto biblico non specifica chi rechi al padre la falsa notizia della morte del figlio (i fratelli vi sono semplicemente descritti come mittentes qui ferrent ad patrem et dicerent, gen. 37: 32) e che Beniamino non svolge nessun ruolo specifico nella vicenda (non così invece nei successivi capitoli gen. 42-46), non pare possibile che la conclusione dell’episodio della vendita di giuseppe sia qui posta prima dell’intera ‘storia’, né sembra di riconoscere nella scena rappre-sentata i caratteri iconografici corrispondenti a tale conclusione (cum agnovisset pater, […] scissis […] vestibus, indutus est cilicio lugens filium suum multo tempore. Congregatis autem cunctis liberis eius, ut lenirent dolorem patris, noluit consolationem accipere […]et flevit super eo pater eius, gen. 37: 33-35). poco accettabile, per motivi in certo senso op-posti, sembra anche l’ipotesi interpretativa avanzata da tintori 1964-65: 63, che fa riferimento a un oscuro episodio della vicenda di giu-seppe, appena accennato dal testo biblico (la delazione al padre della condotta immorale di alcuni dei fratellastri: cfr. gen. 37: 2): sebbene tale episodio, sui cui torneremo brevemente a n. 17, costituisse la cau-sa remota dell’insorgere dell’odio dei fratelli nei suoi confronti, esso è a nostro avviso troppo precoce rispetto agli altri eventi rappresentati e agli stessi dettagli iconografici qui riconoscibili.

riteniamo invece che la scena del tabernaculum si riferisca alla premessa immediata di tale vicenda, cioè al momento in cui giuseppe racconta i propri sogni al padre e ai fratelli, provocando così l’invidia e l’odio di questi ultimi: quod cum patri suo et fratribus retulisset […] invidebant igitur ei fratres sui; pater vero rem tacitus considerabat […] quae causa maioris odii seminarium fuit, gen. 37: 5, 10-11. Ce ne fanno convinti, oltre all’atteggiamento di attento e silenzioso ascolto da parte dell’anziano giacobbe, il gesto della mano emergente dal-la lacuna – del tutto analogo (salvo la diversa prospettiva) a quello dell’affresco staccato in cui Giuseppe interpreta i sogni del Faraone – e il dettaglio della veste rossa, identica a quella indossata e poi tolta a giuseppe nelle scene successive ed evidentemente coincidente con la tunica polymita che giacobbe aveva fatto per il figlio prediletto e che poi riconobbe, benché sporca di sangue, come a lui appartenente (cfr. gen. 37: 3, 33).16 nello stato originario della parete affrescata, la cor-

(16) si noti anche che la scena della narrazione dei sogni è presente, benché con diversa iconografia, quale antefatto di quella della vendita di giuseppe, anche nel ciclo affrescato da giusto de’ Menabuoi nel Battistero padovano (cfr. Bellinati 1989: 55-6 fig. 33), nonché nella pur compendiosa ma assai meno selettiva Bibbia padovana (cfr. Folena-Mellini 1962: 16, tavv. 55-7).

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retta identificazione dell’episodio sarebbe stata certamente facilitata dalla presenza del gruppo degli undici fratelli invidiosi all’estremità sinistra del tabernaculum di giacobbe, nello spazio ora occupato dalla finestra moderna, e dal testo didascalico che doveva correre al di sopra di tutta la scena, del quale restano ora solo pochi caratteri.

nella cornice superiore, all’emergere dalla lacuna e incuneato al di sotto di una parziale caduta di intonaco, si legge infatti, pur con qualche difficoltà, c�e� seguito da uno spazio di circa 2 cm., da sex e quindi da un ulteriore spazio vuoto di 7,5 cm., oltre il quale il testo riprende con la didascalia relativa alla vendita di giuseppe da parte dei fratelli (v. sotto). nel breve frammento testuale ]c�e� sex, lungo in totale 14,5 cm., ci pare di poter riconoscere, con la semplice integrazione di un tratto orizzontale al di sopra della prima e (segnalazione caduta in lacuna di una nasale fi-nale omessa: *Ē), la parte finale del numerale decem (et) sex, riferito all’età di giuseppe all’epoca dei fatti (cfr. gen. 37: 2: ioseph, cum decem et sex esset annorum, pascebat gregem cum fratribus suis adhuc puer):17 il titulus didascalico in questione potrà quindi essere sciolto e integrato, in via lar-gamente ipotetica, come [hic? narrat? somnia? sua? iosep annor(um)? de]ce[(m)] sex (dove l’ipotizzata ortografia iosep è esemplata sulla successiva occorrenza). oltre alla foggia di X in forma di ‘doppio sette’ decussato - il primo retroverso e circoscritto al secondo - va qui osservato che, mentre l’estensione dell’ipotizzata integrazione iniziale è del tutto compatibile con quella della lacuna provocata nel 1779 dall’apertura della nuova fi-nestra, l’intonaco superstite non sembra presentare ora alcuna traccia o residuo di un’eventuale, e attesa, nota tachigrafica 7 a collegare i due elementi del numerale.

2.6. a 7,5 cm. dal precedente frammento, il nastro iscritto prose-gue quasi integro e relativamente ben leggibile per oltre 30 cm., oltre i quali il contrasto cromatico tra il campo e i grafemi cala progressi-vamente, in parallelo al diminuire dell’altezza della fascia di intonaco superstite: questa raggiunge il suo minimo (a 43,5 cm. dall’inizio del

(17) Così (o in alcune edizioni sedecim) il testo della tradizionale Vulgata preconci-liare: l’attuale Nova Vulgata riporta invece, insieme ad altre variazioni, decem et septem. Benché direttamente riferita, nell’originale latino, all’oscuro episodio in cui giuseppe riferisce al padre la condotta dei fratellastri (v. sopra nel testo) - che nel racconto biblico precede i suoi due sogni e lo stesso confezionamento della tunica polymita da parte di giacobbe - tale indicazione di età era comunemente posta in relazione anche alle sue visioni oniriche, come risulta dal testo della Bibbia padovana: “come Joseph, fiolo de Jacob, habiando sexe anni, vete in visione, dormando, …” (genesi, ccxvi: cfr. Folena-Mellini 1962: 16).

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Fig.

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nuovo testo) al di sopra della quinta rocciosa che separa la scena della partenza di giuseppe dalla casa di giacobbe dal gruppo dei fratelli che lo estraggono nudo dalla cisterna e prosegue assai ribassata, per altri 11 cm. circa, al di sopra delle teste di questi ultimi, per poi riprende-re progressivamente quota, con andamento molto frastagliato e con tracce grafiche difficilmente leggibili a causa delle probabili ripetute ridipinture dell’intonaco, fino all’altezza del primo del gruppo (ve-rosimilmente giuda, il promotore della vendita di giuseppe, rappre-sentato nell’atto di cedere il fratello al mercante ismaelita), a 71,5 cm. dall’inizio del nuovo testo, e proseguire infine per altri 35 cm. in modo più uniforme e con tracce grafiche all’inizio più riconoscibili, fino a una lacuna di circa 15 cm. del tutto privi di intonaco affrescato (foro di trave?), oltre la quale la falsa cornice affrescata riprende, ormai quasi interamente anepigrafe e inizialmente assai ribassata, per altri 15 cm. fino allo spigolo della parete nord.

pur con tutti i limiti qui descritti, in questa porzione finale di cornice superiore si possono leggere (o riconoscere) vari frammenti testuali, abbastanza facilmente ricomponibili e integrabili: nei primi 43,5 cm si leggono più o meno agevolmente hic io�sep capitur a� f�r�a� e il pedice di un’asta verticale, cui fanno seguito 11 cm. segnati dalle tracce indistinte delle porzioni inferiori di alcuni altri caratteri, quindi ancora 7 cm. di tracce grafiche confuse e indistinte, la riconoscibile sagoma di una lettera rotonda con traversa orizzontale quale e o s (peraltro stranamente espansa, forse a causa di una ridipintura), 3 cm. con poche e labili tracce grafiche, la sagoma di un’altra lettera tonda come C o e e altri 1,5 cm. vuoti. segue poi una sequenza alfabeti-ca continua di circa 11,5 cm., assai sbiadita ma riconoscibile come c�i�s�ter�, una lacuna di 2,5 cm., la traccia di una a e altri 20 cm. assai confusi, in cui le lacune per caduta di colore si alternano alle tracce indistinguibili di altri caratteri più volte ridipinti e scialbati, che giun-gono fino alla grande lacuna di 15 cm., dovuta forse al foro di trave. in sintesi, quest’ultimo titulus didascalico si presenta oggi come segue:

hic io�sep capitur a� f�r�a�i�[ 11+7 ]e�/s�[ 3 ]c�/e�[ 1,5 ]c�i�s�ter�[ 2,5 ]a�[ 20+15+15 ]

risolvendo la prima alternativa in favore di s e la seconda in favo-re di e, la prima parte è facilmente integrabile come hic iosep capitur a frat[ribus sui]s [d]e cister[n]a; mentre per la lunga (e composita) lacuna finale si potrà solo ipotizzare, sulla base del testo biblico di riferimento (gen. 37: 28), qualcosa come *[et venditur ismaelitis]. dal punto di vista paleografico, va qui osservata solo la presenza dei nessi a+p e

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u+r (in capitur), mentre l’ipotizzata integrazione finale dovrà verosi-milmente prevedere, per essere compatibile con l’estensione comples-siva della lacuna (50 cm., spazi e margini compresi), la presenza della nota tachigrafica *7 per *et e di un ulteriore nesso *u+r in *venditur. dal punto di vista linguistico merita segnalazione la grafia iosep, la cui terminazione rende evidentemente l’esito fonetico volgare del nome, diversamente da quanto avviene nella stessa Bibbia padovana, dove è sistematicamente presente Joseph (v. ad es. n. 17 e cfr. Folena-Melli-ni 1962: 16-17, tavv. 55-58).

3. il registro inferiore

3.1. terminata così, per quanto oggi possibile, la lettura delle di-dascalie del registro superiore, l’attenzione si sposta a quelle del registro inferiore, di comprensione più piana e immediata ma non per questo meno interessanti delle precedenti. riprendendo dall’estremità meridio-nale della parete affrescata, la cornice iscritta sovrastante al primo riqua-dro affrescato della fascia inferiore si presenta divisa in due porzioni, in analogia alla scena dipinta, dal motivo a finto mosaico: nel primo tratto, dopo un segmento pseudomusivo di 4,5 cm. direttamente emergente dalla lacuna e un margine vuoto di circa 4 cm., si legge, su un’estensione totale di 58 cm. cui fa seguito un secondo margine di 4 cm.: h�ic da�u�it abscidit capvt go�l�i�e�, dove sono da osservare, sotto il profilo paleogra-fico, la presenza dei nessi a+u (in Dauit), a+B (in abscidit) e a+p (in caput), e sotto quello linguistico, la forma Dauit, con assordimento (neu-tralizzazione) dell’occlusiva finale.

il testo didascalico fornisce così la definitiva conferma all’ipo-tesi interpretativa già formulata da Hueck 1993: 66, 69, secondo la quale il grande “soldato che vibra l’asta”, di cui resta oggi solo la parte superiore del corpo, non è il semplice residuo di una “com-posizione, ora distrutta, [che] mostra colla sua azione il furore della milizia caldea quando smantellò dai fondamenti le mura di gerusa-lemme” (così Menin 1863: 471-2, rifacendosi a ier. 52: 14), cioè un generico “episodi[o] della guerra babilonese” (così d’arcais 1962: 7), né l’iconograficamente incongruo “Joab che uccide assalonne” (così dubbiosamente tintori 1964-65: 63, ma cfr. 2reg. 18: 14-15: ioab […] tulit ergo tres lanceas in manu sua et infixit eas in corde Absalom, cum adhuc palpitaret haerens in quercu; et cucurrerunt decem iuvenes armigeri ioab et percutientes interfecerunt eum), né tanto meno una non meglio identificata “storia biblica” raffigurante un qualsiasi “guerriero

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racchiuso nel contorno dello scudo” (così Flores d’arcais 1974: 28, 29, 69, fig. 71; Frasson s.d.: 34), ma appunto il gigante golia (altitu-dine sex cubitorum et palmi, oltre 3 m.) – rivestito di corazza ed elmo di rame e armato di scudo e lancia secondo il dettato biblico (1reg. 17: 4-7) – “der zu stürzen scheint” per il colpo di fionda scoccatogli in fronte dal giovane david (forse rappresentato in origine sull’adiacente parete sud, nella zona ora occupata dai resti di una cinquecentesca figura di san paolo).

Va tuttavia osservato che se l’affresco, almeno per quanto ne re-sta, rappresenta con realismo la parte centrale del notissimo episodio della guerra di israele contro i Filistei, narrata in 1reg. 17: 41-50 (si noti l’evidente impronta della pietra sulla fronte del gigante), il testo didascalico ne riassume la meno nota conclusione (Prevaluit David adversum Philistaeum in funda et in lapide; percussumque Philistaeum interfecit. Cumque gladium non haberet in manu, David cucurrit et stetit supra Philistaeum, et tulit gladium eius et eduxit eum de vagina sua et interfecit eum praeciditque caput eius, 1reg. 17: 50-51), con quella che appare oggi di fatto come una forma di narrazione integrata e com-plementare tra la parte verbale, forse in origine solo accompagnatoria della scena della decapitazione (che poteva essere collocata nella parte inferiore del riquadro affrescato, ai piedi della quinta rocciosa, ma è ora del tutto perduta), e la (residua) parte figurativa: vedremo nel se-guito altri casi in cui tale integrazione narrativa tra parola e immagini, qui solo ipotizzabile e soggetta al dubbio, è invece certamente ascri-vibile allo stato originario della parete affrescata e quindi agli intenti comunicativi dell’artista e/o del committente.

Fig. 9

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3.2. anche la successiva scena dello stesso riquadro – raffigurante un soldato che afferra con la mano sinistra un bambino tenuto in braccio da una donna rivolta verso un trono, mutilato dall’apertura della finestra settecentesca, davanti al quale è prostrata un’altra figu-ra femminile – ha avuto nel corso del tempo svariate interpretazioni: “una delle tante infelici espulse dalla patria terra per recarsi a lagrimare sotto i mesti salici delle riviere babilonesi” (Menin 1863: 472, citan-do ier. 52: 15), “una guardia del Faraone ferma Jochebed col figlio Mosè” (Flores d’arcais 1974: 69, seguita da Frasson s.d.: 34-5, con riferimento al racconto di es. 2: 1-10), “una parte del patetico «giu-dizio di salomone»” (gasparotto 1974: 43 – ma già così tintori 1964-65: 63, 66 – ripresa poi e sostenuta, sulla base di considerazioni iconografiche, di logica narrativa e di probabile sottesa intenzionalità ideologica, da Hueck 1993: 66, 69, 71-3; il riferimento biblico va qui a 3reg. 3: 16-28). anche in questo caso, la lettura del titulus didasca-lico suggella la correttezza di quest’ultima ipotesi interpretativa, con-fermando altresì la coerente consequenzialità dell’intera serie di scene affrescate nel registro inferiore – tutte dedicate alla storia del popolo ebreo nel periodo dei re e della conseguente cattività babilonese – ed evitando in particolare l’anacronistico (e narrativamente illogico) in-serimento in tale contesto di un episodio tratto invece dall’inizio del libro dell’esodo.

dopo un segmento di finto mosaico lungo 28,5 cm., che separa le due didascalie presenti in questo tratto di cornice, e dopo un mar-gine di 4 cm. occupato da una sorta di croce decussata, accompagnata sopra e sotto da due bisanti, ha infatti inizio un nuovo enunciato che giunge fino al limite della fascia di scasso determinata dall’inserimento del moderno infisso, per un’estensione complessiva di 57 cm. iscrit-ti. il testo, leggibile con difficoltà progressivamente crescente a causa dello scarsissimo contrasto cromatico tra il campo e i grafemi e delle manomissioni subite dal tratto finale del nastro iscritto , si presenta come segue: hic ivdicivm� s�a�l�o�m�o�n�i�s� d�e� m�v�l�i�[, dove l’ultimo termine è facilmente integrabile in m�v�l�i�[eribvs]. dal punto di vista paleogra-fico, va segnalata da un lato la presenza del nesso a+l, seguito da o alto e incluso nell’ansa di l (in Salomonis), e dall’altro il fatto che in de resta solo la parte superiore dei caratteri e in mvli sono rispettiva-mente riconoscibili solo parte dell’ansa sinistra e dell’asta verticale di M, il tratto obliquo destro di V, traccia dell’asta verticale e della grazia finale di l e traccia di i.

il testo così integrato, che come si è detto va riferito a quanto nar-rato in 3reg. 3: 16-28, non trova tuttavia alcuna rispondenza letterale nel racconto biblico vero e proprio: esso riprende invece l’incipit del ti-

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toletto riassuntivo con cui il passaggio in questione era introdotto nel-la più celebre opera esegetica medievale dedicata ai libri dei re, ovvero il Commentarium in libros Regum di rabano Mauro, risalente all’anno 834, che titola appunto Judicium Salomonis de mulieribus que de infan-tibus disceptabant (lo si veda in Migne 1864: 126). Va qui segnalato

Fig. 10

che l’estensione della lacuna prodotta dalla modifica forometrica del 1779, pari a circa 45 cm. (v. n. 5), non avrebbe permesso l’inserimento dell’intero titoletto rabaniano, nemmeno in caso di massiccio ricorso a nessi e abbreviature. Malgrado la genericità del titulus didascalico, la coerenza tra il testo biblico e l’immagine affrescata sembra garantita, oltre che dalla tematica generale e dall’impostazione iconografica della scena, anche dal dettaglio, ora appena riconoscibile, della postura del soldato, che doveva reggere nella mano destra una spada (realizzata forse in stucco ricoperto di lamina metallica), ora scomparsa ma di cui rimane evidente traccia sulla sua spalla e accanto alla testa, in perfetta aderenza al dettato di 3reg. 3: 24-25: dixit ergo rex: “Afferte mihi gla-dium!”. Cumque attulissent gladium coram rege: “Dividite, inquit, in-fantem vivum in duas partes, et date dimidiam partem uni et dimidiam partem alteri”.

3.3. superata la finestra e la relativa fascia di scasso, la superficie affrescata riprende con l’immagine isolata di un carro di fuoco librato in cielo al di sopra di una quinta montuosa e sorretto da due angeli ad ali spiegate. descritto tradizionalmente come “due angeli con una ruota in mano” e considerato quale raffigurazione de “la parte più

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semplice [di] una visione di ezechiello” (si tratta dei due episodi ana-loghi, riferiti in ez. 1: 2-28; 10: 1-22, in cui al profeta apparve il tetra-morfo circondato da quattro ruote infuocate e ricoperte di occhi, che reggeva il trono dell’altissimo: cfr. Menin 1863: 472, che cita espli-citamente il secondo episodio; d’arcais 1962: 7; Flores d’arcais 1974: 69), il dettaglio è stato più di recente reinterpretato come unico frammento superstite del “rapimento di elia in cielo” (così dubitativa-mente tintori 1964-65: 63, e più assertivamente Frasson s.d.: 35, 38 fig. 33), con riferimento a quanto narrato in 4reg. 2: 1, 11-12: cum levare vellet Dominus Eliam per turbinem in caelum, ibant Elias et Eliseus de Galgalis [ad iordanem …]. Cumque pergerent et incedentes sermocinarentur, ecce currus igneus et equi ignei diviserunt utrumque; et ascendit Elias per turbinem in caelum. Eliseus autem videbat et clamabat: “Pater mi, pater mi, currus israel et auriga eius!”. Et non vidit eum am-plius. una terza possibilità interpretativa, finora non considerata dalla critica, potrebbe far riferimento all’episodio della guerra del re di siria contro israele narrato in 4reg. 6: 8-23, quando il servo di eliseo, dopo aver scorto il potente esercito nemico che con carri e cavalli circondava la città di dotan per catturare il profeta, ascoltato consigliere di Joram re d’israele, per intercessione di eliseo stesso ebbe anche la confortante visione dell’armata celeste posta a sua difesa: ecce mons plenus equorum et curruum igneorum in circuitu Elisei, 4reg. 6: 17.

al di sopra della fascia affrescata, e in analogia con questa, anche la falsa cornice iscritta riprende con un frammento di didascalia lungo circa 25 cm., parte finale del testo che doveva iniziare subito dopo la finestra originale con una sequenza grafica finita ora in lacuna per circa 35 cm. (v. n. 5): all’emergere da quest’ultima, i primi 8 cm., assai mano-messi e rovinati, presentano confuse tracce grafiche in cui, grazie all’e-laborazione fotografica, sembra di poter riconoscere, allontanandosi dal margine sinistro, l’ansa destra di una u seguita dalla più certa sagoma doppio-ansata di una M. seguono uno spazio vuoto di 1,5 cm., la paro-la i�gneo� ben leggibile in chiaroscuro nonostante la perdita di contrasto cromatico dell’intero nastro iscritto e la strana sfocatura della o finale (quasi uno sdoppiamento del tratto, indizio forse di un’antica ridipin-tura) e un ulteriore spazio di 6 cm. che presenta all’inizio alcune tracce grafiche poco chiare – riconducibili forse al ductus di una r in nesso con o precedente – e nell’ultimo tratto contiene già i solchi preparato-ri dell’immediatamente successivo segmento a finto mosaico, lungo 24 cm., che divide dal testo seguente. in sintesi, il frammento epigrafico si presenta come segue: ]-u�?m� i�gneo�r�? == Va da sè che ogni ipotesi di in-tegrazione del testo, oltre ad assumere la correttezza della nostra lettura e ad essere compatibile con l’una o l’altra interpretazione della scena

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sottostante, in sè e nel contesto figurativo generale, dovrà esserlo anche con la ridotta estensione della lacuna precedente.

iniziando dunque dall’ipotesi tradizionale, che riconosce nel carro di fuoco il particolare di “una visione di ezechiello”, al di là di ogni considerazione storico-esegetica sulla possibile collocazione cronologi-ca dell’evento rispetto a quelli narrati nelle scene successive, ci pare che essa sia poco confacente a quanto ancora sussiste del testo pittorico, sia sul piano iconografico che su quello epigrafico-linguistico: dal primo punto di vista, noteremo semplicemente che il carro di fuoco - oltre a essere nettamente riconoscibile come tale e non come una serie di

Fig. 11

ruote infuocate contenute le une nelle altre (cfr. invece aspectus earum similitudo una illis quattuor, quasi sit rota in medio rotae, ez. 1: 16; 10: 10) – è qui sostenuto da due angeli e non dal ben noto tetramor-fo ‘apocalittico’ (similitudo autem vultus eorum: facies hominis et facies leonis a dextris ipsorum quattuor, facies autem bovis a sinistris ipsorum quattuor et facies aquilae ipsorum quattuor […] rota una super terram iuxta singula animalia, ez. 1: 10, 15; 10: 9, 14, 16), in modo che esso, collocato in posizione obliqua, e gli angeli stessi occupano la parte su-periore dell’affresco, senza alcun margine per collocare il trono di dio che dovrebbe invece esserne sorretto (et super firmamentum, quod erat imminens capiti eorum, quasi aspectus lapidis sapphiri similitudo throni; et super similitudinem throni similitudo quasi aspectus hominis desuper.

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[…] Haec visio similitudinis gloriae Domini, ez. 1: 26-28; e poco più implicitamente ez. 10: 18-20). dal punto di vista linguistico, invece, ammesso che la visione descritta dal profeta potesse essere semplifi-cata nell’immagine di un carro di fuoco, questo dovrebbe comparire nel testo didascalico all’accusativo, dando cioè luogo a qualcosa come *[hic Ezechiel videt cur]rum igneum, il che è chiaramente incompati-bile sia con l’evidenza epigrafica (che presenta certamente igneo) che con l’estensione della lacuna, capace al più di 17 caratteri e/o spazi interverbali di contro ai 22 qui necessari (riducibili forse a 21 ipotiz-zando una grafia abbreviata come *cūrum: solo la rinuncia al deittico *hic potrebbe rendere tale ipotesi d’integrazione dimensionalmente, ma non grammaticalmente, compatibile).

più adeguata, sul piano sia iconografico che linguistico, po-trebbe apparire l’interpretazione dell’immagine come resto del “ra-pimento di elia in cielo”, episodio ben collocato all’interno della sequenza narrativa tratta dai libri dei re (4reg. 2: 1, 11-12), suppo-nendo che la figura del profeta asceso in cielo potesse trovare posto a sinistra degli angeli nella parte anteriore del carro, oggi perduta al pari dei cavalli di fuoco che dovevano trainarlo (ne resterebbe forse traccia nel lembo di veste ancora visibile tra l’angelo di sinistra e il margine della lacuna): in tal caso (sorvolando sulla mancanza, al-meno testuale, del turbine descritto dalla Bibbia e sullo ‘scarto’ della possibile r finale) la forma igneo, attributo di un perduto ablativo *curru, sarebbe del tutto attesa. Meno probabile, per il confronto con la sintassi lineare delle altre didascalie, appare però l’artificiosa costruzione a tmesi che bisognerebbe dare alla frase per renderla compatibile con la rimanente evidenza epigrafica (del tipo *[cu(r)ru asce(n)dit Elias i(n) ce]lum igneo) e del tutto impossibile sarebbe inserire in soli 35 cm. di lacuna i ben 26 caratteri e spazi di tale te-sto (riducibili a 23 ipotizzando le abbreviature per omissione sopra indicate).

più confacente sotto tutti i punti di vista sembra allora la terza ipotesi interpretativa sopra accennata (resto della visione del servo di eliseo, secondo 4reg. 6: 17, tratta appunto anch’essa dalla narrazione storica dei libri dei re), anche in questo caso ipotizzando che nella parte di affresco perduta si trovassero, oltre ai cavalli di fuoco trainanti il carro superstite e al relativo auriga (cui andrebbe allora assegnato l’osservato lembo di veste a sinistra degli angeli), almeno un altro ana-logo carro igneo, visto forse in prospettiva frontale e collocato anch’es-so al di sopra di una montagna, e in basso tra le due quinte rocciose la città di dotan assediata dai siri. in questa ipotesi, la necessaria inte-grazione del titulus didascalico sarebbe direttamente tratta dal testo bi-

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blico, senza alcuna manipolazione interpretativa, e con la semplice ap-plicazione di alcune normali abbreviature per omissione rientrerebbe perfettamente nell’estensione della lacuna iniziale, utilizzando inoltre appieno e in modo grammaticalmente corretto la parte di iscrizione superstite: *[hic mo(n)s ple(n)us cur]rum igneor(um).18

Fermo restando che, in qualunque interpretazione della scena af-frescata, la citazione iconografica di un carro di fuoco (o più di uno) posto grossomodo al centro della parete della parte di cappella proba-bilmente destinata ai fedeli (v. n. 5) costituiva una chiara allusione, sub specie araldica, alla casa da Carrara, ci pare che l’ipotesi interpretativa qui formulata – che pone in rilievo la figura del profeta eliseo, con-sigliere del re, come unto e protetto del signore e perciò in grado di orientare il sovrano al retto comportamento e di opporsi con successo alle mire dei nemici – sia ben adeguata, a differenza delle precedenti, anche a inserirsi nel programma didattico-ideologico dell’intero ciclo di affreschi (o quanto meno della sua fascia inferiore) come ricostruito da Hueck 1993, teso da un lato a esortare l’imperatore Carlo iV all’e-sercizio del potere nel rispetto della giustizia e dall’altro ad accreditare Francesco il Vecchio da Carrara come suo saggio vicario, consigliere e rappresentante negli affari italiani.19

3.4. le altre due scene del grande comparto affrescato compreso tra le due finestre sono tratte dal ciclo delle ‘storie di daniele’: si tratta rispet-tivamente di i compagni di Daniele rifiutano di adorare la statua d’oro eretta da Nabucodonosor (dan. 3: 1-18) e l’angelo salva dalla fornace i compagni di Daniele (dan. 3: 19-24, 46-50, 91-97): protagonisti della narrazione per immagini sono da un lato i tre giovani ebrei anania, Misaele e azaria – esuli con daniele dal regno di giuda e a Babilonia chiamati rispettiva-

(18) si noti al riguardo che la grafia currum per curruum è attestata già in Virgilio (Aen. 6, 653), autore certamente noto nei circoli dotti della padova carrarese. in alterna-tiva, è anche possibile ipotizzare una grafia quale *[cu(r)r]uum, con omissione (e segnala-zione soprascritta) di una r, che permetterebbe di rientrare comunque nel computo dei 17 caratteri e spazi entro la lacuna. anche l’abbreviatura del genitivo plurale igneor(um), peraltro consueta, sarebbe evitabile ipotizzando che il testo iscritto occupasse in origine l’intero spazio precedente al segmento separatore a finto mosaico, sovrapponendosi pe-raltro, almeno con gran parte della M finale, ai solchi preparatori del segmento stesso.

(19) la posizione di rilievo occupata dal carro di fuoco al centro della parete occidentale dell’aula della cappella poteva trovare riscontro e conferma della sua valenza simbolica e ide-ologica nella corrispettiva presenza, sulla perduta parete orientale, della porta di comunica-zione tra la cappella stessa e gli appartamenti degli ospiti della ‘reggia’ Carrarese, con buona probabilità sormontata in origine dall’affresco in cui Giuseppe interpreta i sogni del Faraone, che è stato interpretato a ragion veduta come trasposizione allegorica del ruolo rivendicato

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mente sidrac, Misac e abdenago – e dall’altra il re nabucodonosor con gli uomini della sua corte e del suo esercito. nella prima scena, tre digni-tari di corte sono raffigurati in ginocchio e in atteggiamento di preghiera di fronte a una struttura architettonica che racchiude un piedestallo su cui doveva erigersi il grande idolo eretto dal sovrano20 mentre quest’ulti-mo, stando alle loro spalle, lo indica con la mano sinistra e punta la destra verso i tre giovani ebrei, posti sul lato del tempietto e additati anche da un quarto dignitario, che fanno con la mano un chiaro gesto di rifiuto dell’azione idolatra.21 nella seconda scena – conservatasi sostanzialmen-te integra, salvo una piccola porzione della parte superiore, fino al suo originario margine destro, direttamente limitrofo alla fascia di scasso dovuta alla modifica forometrica del 1779 – il re e due dei suoi dignitari, dall’alto di una quinta rocciosa, contemplano stupiti il portento dei tre giovani che, scortati da un angelo, escono illesi dalla fornace rovente in cui erano stati gettati, mentre le fiamme travolgono il manipolo di soldati e funzionari (una quindicina di persone in tutto) che era stato incaricato di eseguire la condanna.22

al di sopra della fascia affrescata, la sequenza didascalica ripren-de – dopo il segmento a finto mosaico e dopo una sorta di signum crucis in forma di giglio posto al centro di un margine di 6 cm. – con un’iscrizione abbastanza ben leggibile nonostante lo scarso con-

da Francesco i da Carrara come vicario e saggio consigliere dell’imperatore Carlo iV (cfr. Hueck 1993: 71; Hueck 1994: 95).

(20) si noti che sul piedestallo, e in tutto l’affresco, non vi è oggi alcuna traccia dell’idolo, probabilmente realizzato all’origine quasi tridimensionalmente con un’applicazione di stuc-co dorato (poi interamente caduta, analogamente a quanto avvenuto in questa stessa scena per la corona di nabucodonosor, in quella del Giudizio di Salomone per la spada del soldato e in quella di Davide e Golia per l’impugnatura della lancia del gigante filisteo).

(21) sono così condensati in un’unica scena i fatti narrati in dan. 3: 3-4, 8-9, 12-18: congregati sunt satrapae, magistratus et iudices, duces et tyranni et optimates […]. Stabant autem in cospectu statuae, quam posuerat Nabuchodonosor, et praeco clamabat valenter: […] “Cadentes adorate statuam auream quam constituit Nabuchodonosor rex”. […] Statimque in ipso tempore accedentes viri Chaldaei accusaverunt iudaeos dixeruntque Nabuchodonosor regi: […] “Viri isti contempserunt, rex, decretum tuum: deos tuos non colunt et statuam auream, quam erexisti, non adorant”. […] tunc Nabuchodonosor […] praecepit ut adducerentur Sidrach, Misach et Abdenago, qui confestim adducti sunt in conspectu regis. Pronuntiansque Nabuchodonosor rex ait eis:“Verene, Sidrach, Misach et Abdenago, deos meos non colitis et statuam auream, quam constitui, non adoratis? Nunc ergo si estis parati […] prosternite vos et adorate statuam, quam feci”. […]Respondentes Sidrach, Misach et Abdenago dixerunt regi: […] “Notum sit tibi, rex, quia deos tuos non colimus et statuam auream, quam erexisti, non adoramus”.

(22) la scena condensa anche in questo caso vari passi del racconto biblico: fornax au-tem succensa erat nimis, porro viros illos, qui miserant Sidrach, Misach et Abdenago, interfecit

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trasto cromatico tra i grafemi e il campo, la mancanza (ab origine) di un carattere a un terzo circa del testo e le leggere difficoltà poste dalla consunzione di alcuni altri, a cui fanno seguito un ulteriore margine di 6 cm., occupato al centro da una sorta di croce decussata accompagnata da due bisanti, e un nuovo segmento a finto mosaico di 10,5 cm. il testo iscritto, lungo nel complesso 158,5 cm., si pre-senta come segue:

hic nabvchodonasor rex� fe�i�t statvam auream altitvdine cubito�r�vm� s�exagint�a�

dal punto di vista paleografico sono qui da osservare la presenza dei nessi a+B (in Nabuchodonasor), u+r (di modulo assai stretto, in auream), a+l (in altitudinem) e u+B (in cubitorum), la diversa foggia delle due X (in forma ‘canonica’ quella di rex, a ‘doppio sette’ curvili-neo e avvolto a spirale quella di sexaginta) e la mancanza di un carat-tere in feit, facilmente emendabile in fe‹c›it, per una dimenticanza evi-

flamma ignis. […] Et non cessabant […] ministri regis succendere fornacem naphta et stuppa et pice et malleolis, et effundebatur flamma super fornacem […] et erupit et incendit quos repperit iuxta fornacem de Chaldaeis. Angelus autem Domini descendit cum Azaria et sociis eius in for-nacem et excussit flammam ignis de fornace et fecit medium fornacis quasi ventum roris flantem; et non tetigit eos omnino ignis neque contristavit nec quidquam molestiae intulit. […] tunc Nabuchodonosor rex obstupuit et surrexit propere, et ait optimatibus suis: […] “Nonne tres viros misimus in medium ignis compeditos? […] Ecce ego video viros quattuor solutos et ambulantes in medio ignis, et nihil corruptionis in eis est, et species quarti similis filio Dei”. tunc accessit Nabuchodonosor ad ostium fornacis ignis ardentis et ait: “Sidrach, Misach et Abdenago, servi Dei excelsi, egredimini et venite”. Statimque egressi sunt Sidrach, Misach et Abdenago de medio ignis. […] Et potentes regis contemplabantur viros illos, quoniam nihil potestatis habuisset ignis in corporibus eorum (dan. 3: 22, 46-50, 91-94).

Fig. 12

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dentemente dovuta alla quasi totale identità formale tra C ed e nella maiuscola gotica. dal punto di vista contenutistico, il titulus didasca-lico si limita a riprendere testualmente il dettato iniziale di dan. 3:1 (Nabuchodonosor rex fecit statuam auream altitudine cubitorum sexa-ginta, latitudine cubitorum sex; et statuit eam in campo Dura provinciae Babylonis) e costituisce quindi la narrazione dell’antefatto della scena sotto raffigurata, con un nuovo esempio, questa volta certo e ab origi-ne, di quella forma di integrazione tra parola e immagine che avevamo già avuto modo di ipotizzare a proposito della scena di Davide e Golia.

superato il citato segmento a finto mosaico, e dopo un ulteriore margine di 3,5 cm. occupato da un’altra croce decussata accompagna-ta da bisanti, un nuovo enunciato, lungo nel complesso 102,5 cm. e abbastanza leggibile benché assai consunto, poco contrastato rispetto al campo e incompleto alla fine a causa del danneggiamento provocato dall’inserimento dell’infisso moderno, si pone come didascalia della seconda scena raffigurata:

hic nabvcodon�a�s�o�r� prec�i�pit poni tres pveros ī forna�[

dal punto di vista paleografico vanno qui segnalate la presenza dei nessi a+B e o+r (in Nabucodonasor) e la segnalazione di nasale omessa in Ī (i(n)), mentre la lacuna finale (dopo a di cui restano poche trac-ce appena riconoscibili) è facilmente integrabile con gli ultimi caratteri del termine forna[ce] (o anche, con un’ulteriore omissione di nasale, forna[ce(m)]: pono ammette infatti entrambe le reggenze di Caso). il titulus didascalico riassume in questo caso, volgendolo al tempo pre-sente, il dettato di dan. 3: 19-20 (tunc Nabuchodonosor repletus est fu-rore, et […] praecepit, ut succenderetur fornax septuplum quam succendi consueverat, et viris fortissimis de exercitu suo iussit, ut ligatis pedibus

Fig. 13

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Fig. 14

Sidrach, Misach et Abdenago, mitterent eos in fornacem ignis ardentis), ponendosi quindi ri del termine forna[ce] (o anche, con un’ulteriore omissione di nasale, forna[ce(m)]: pono ammette infatti entrambe le reggenze di Caso). il titulus didascalico riassume in questo caso, vol-gendolo al tempo presente, il dettato di dan. 3: 19-20 (tunc Nabu-chodonosor repletus est furore, et […] praecepit, ut succenderetur fornax septuplum quam succendi consueverat, et viris fortissimis de exercitu suo iussit, ut ligatis pedibus Sidrach, Misach et Abdenago, mitterent eos in fornacem ignis ardentis), ponendosi quindi come mediazione narrati-va tra le due scene affrescate, in un ulteriore esempio di integrazione ab origine tra parola e immagini. dal punto di vista linguistico, va infine osservato che le due attestazioni del nome del re nabucodono-sor – benché tra loro alternanti, sul piano meramente grafico, per la presenza o meno di h23 – si presentano entrambe nella tipica forma medievale Nabuc(h)odonasor, con dissimilazione della vocale postoni-ca ([o] > [a]) a interrompere la serie continua di quattro [o].

un’ultima considerazione riguarda invece la titolazione tradizio-nalmente attribuita alla sequenza scenica nel suo complesso (“il fat-to dei tre giovanetti”: Menin 1863: 472; “storia dei tre Fanciulli”: Flores d’arcais 1974: fig. 72; Frasson s.d.: fig. 34) o alle singole parti che la costituiscono (“i tre Fanciulli gettati nella fornace”24 e “i tre Fanciulli salvati dall’angelo”: d’arcais 1962: 7, 13, 17; Flores d’arcais 1974: 69, tav. X, fig. 74; “i tre fanciulli rifiutano di adorare l’idolo” e “i tre fanciulli salvati dall’angelo”: tintori 1964-65: 60, 63,

(23) la seconda occorrenza era già stata in parte riconosciuta da d’arcais 1962: 16 n. 1, che vi leggeva però hic nabucco. sull’alternanza grafica tra ch e c davanti a vocale posteriore, assai frequente nella scripta padovana del XiV sec., con prevalenza ora dell’u-na e ora dell’altra forma, cfr. tomasin 2004: 85-6, con ulteriori rimandi bibliografici.

(24) Questa dizione è inesatta anche quanto al soggetto, dato che “la vibrazione del rosso dietro ai tre Fanciulli” (d’arcais 1962: 15) nella prima scena non si riferisce alle

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73, 75; Frasson s.d.: 40, fig. 35; “die drei Jünglinge im Feuerofen”: Hueck 1993: 68, 73): se è vero che l’uso del termine pueros, presente anche nell’iscrizione didascalica, è legittimato dal suo ripetuto occor-rere nel testo biblico riferito a daniele e ai suoi compagni al momento della cattura da parte di nabucodonosor (cfr. dan. 1: 4 pueros, 13 pue-rorum, 15 e 17 pueris, peraltro meglio specificato in dan. 1: 10 come adulescentibus, evidentemente nell’accezione latina di ‘giovani uomi-ni’), va anche notato che nella narrazione degli eventi qui in esame, avvenuti l’anno successivo (cfr. dan. 2: 1), essi sono sempre designati come viri/viros (cfr. dan. 3: 12, 21, 23, 91, 92, 94). Che non si trattas-se di “fanciulli” o “giovanetti” ma piuttosto di ‘giovani adulti’, maturi e nel pieno delle loro facoltà, è confermato anche dal fatto che il testo biblico specifica ripetutamente che i tre erano stati investiti dal re di funzioni magistratuali nel distretto di Babilonia, subordinati a daniele stesso, fatto governatore generale del regno e capo dei magistrati locali, residente alla corte reale (tunc rex Danielem in sublime extulit et mu-nera multa et magna dedit ei et constituit eum principem super omnes provincias Babylonis et praefectum magistratuum super cunctos sapientes Babylonis. Daniel autem postulavit a rege et constituit super opera pro-vinciae Babylonis Sidrach, Misach et Abdenago; ipse autem Daniel erat in foribus regis: dan. 2: 48-49, cfr. anche dan. 3: 12, 97): per la tito-lazione delle scene in parola sarà quindi più corretto far riferimento ai ‘compagni di daniele’, come nei titoletti riassuntivi di molte edizioni della Bibbia, piuttosto che alla loro giovane età, e il termine pueros andrà quindi inteso, come spesso nel testo biblico, nell’accezione di ‘schiavi, servi’ (qui ‘servi di corte’).

la rappresentazione delle ‘storie di daniele’ non si esaurisce del resto con i due episodi qui esaminati, ma proseguiva oltre la finestra originaria della cappella con una terza scena, ora in gran parte perduta e per lo più ignorata dalla critica storico-artistica,25 ma correttamente individuata da Hueck 1993: 73 come “daniel in der löwengrube”. la scena, di cui resta solo l’estremità destra – con un re e un cortigiano affacciati sull’orlo di una fossa in cui è pacificamente seduto un leone

fiamme della fornace ma alle venature della specchiatura marmorea rappresentata sul lato del tempietto in cui doveva trovarsi l’idolo dorato eretto da nabucodonosor. si noti che Hueck 1993 non prende alcuna posizione sulla possibile titolazione della prima scena.

(25) Fa eccezione Menin 1863: 473 che, date le pessime condizioni di conservazio-ne e visibilità in cui versavano all’epoca gli affreschi in generale e questo frammento in particolare, ipotizzava trattarsi di una rappresentazione dell’esito finale di un episodio di “pericolo estremo del popolo d’israello minacciato dall’armi di sennacheribbo”, quando il re assiro fu volto in fuga da “l’angelo sterminatore che vita e trono conserva al trepidan-

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ormai privo del muso e della branca anteriore destra26 – mentre è an-dato perso nello squarcio della nuova finestra circa un metro lineare di ulteriore superficie affrescata, non è attualmente accompagnata da nessuna iscrizione didascalica: all’emergere dalla fascia di scasso, la falsa cornice al di sopra del riquadro affrescato presenta infatti solo un segmento a finto mosaico lungo ben 44 cm., fino al limitare di questa prima scena, cui fanno seguito altri 12 cm. originariamen-te decorati con lo stesso motivo e successivamente erasi.

3.5. segue, al di là della quinta rocciosa che delimita il lacus leonum, la ben nota scena Giuditta taglia il capo a Oloferne, ambien-tata entro un elegante padiglione posto in primo piano davanti a un accampamento militare e sullo sfondo della visione di una città me-dievale, murata e turrita, intesa quale rappresentazione della biblica

te ezechia” (con riferimento a quanto narrato in 4reg. 18-19, e particolarmente a 4reg. 19: 35-36): un’ipotesi debolmente sostenibile sul piano tematico per la vaga analogia con la successiva scena di Giuditta e Oloferne, ma evidentemente fuori luogo sul piano della successione stori-ca degli eventi narrati dalla Bibbia. tintori 1964-65: 63 titola invece il frammento Oloferne accoglie Giuditta nell’accampamento, ipotesi evidentemente dettata dalla contiguità delle due scene, ma del tutto priva di argomentazioni a sostegno, priva altresì di riscontro nel testo biblico quanto all’iconografia specifica (cfr. iudt. 10: 19-20: videns itaque Holofernem iudith sedentem in conopeo, quod erat ex purpura et auro et sma-ragdo et lapidibus pretiosis intextum, et cum in faciem eius intendisset adoravit eum proster-nens se super terram, et levaverunt illam servi Holofernis iubente domino suo; anche in questo caso la Nova Vulgata postconciliare ha radicalmente, e poco comprensibilmente, mutato la descrizione della scena e delle azioni dei suoi protagonisti) e generata forse dall’errata identificazione di oloferne nei panni del personaggio coronato (quale non era, trattan-dosi semplicemente di un generale al servizio del re nabucodonosor: v. sotto nel testo).

(26) l’etichetta Daniele nella fossa dei leoni copre in realtà due episodi biblici analoghi ma distinti, narrati rispettivamente in dan. 6: 10-27 (di cui è comprimario il re dario Medo, di discussa storicità e cronologia) e nel deuterocanonico dan. 14: 27-42 (in cui interviene invece Cyrus Perses): a differenza di quanto implicitamente suggerito da Hueck 1993: 73 - che parla di “nebukadnezar und darius” quali possibili modelli comportamentali proposti a Carlo iV - riteniamo che l’episodio rappresentato dall’artista sia probabilmente il secondo, a cui la residua iconografia sembra meglio adattarsi, senza sostanziale pregiudizio per i ve-rosimili intendimenti didattico-ideologici del ciclo pittorico: cfr. venit ergo [Cyrus] rex die septimo, ut lugeret Danielem; et venit ad lacum et introspexit, et ecce Daniel sedens in medio leo-num, dan. 14: 39, rispetto a [Darius] rex primo diluculo consurgens, festinus ad lacum leonum perrexit; appropinquansque lacui Danielem voce lacrymabili inclamavit, dan. 6: 19-20 (così il testo della tradizionale Vulgata preconciliare: incomprensibili e apparentemente immotivate sono invece le variazioni apportate dall’attuale Nova Vulgata a questi come ad altri dei passi biblici citati nel presente saggio: v. sopra nn. 17 e 25).

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Betulia. l’episodio, pur tratto dal libro di giuditta (iudt. 13: 1-12), ha logica collocazione al seguito dei precedenti, tratti invece dai capitoli storici del libro di daniele, poiché oloferne era il princeps militiae del re assiro nabucodonosor (cfr. iudt. 2: 4).

l’iscrizione didascalica, assai consunta e di difficile lettura, inizia – per quanto ne resta oggi – a 7 cm. dalla fine del citato tratto di finto mosaico eraso (quindi a 19 cm. dal termine del segmento pseudomu-sivo sussistente), con la breve sequenza i�c� o� (con spazio interverbale di 2,5 cm., in corrispondenza di un evidente cambio cromatico del campo), seguita da un tratto di 9,5 cm. che presenta all’inizio solo vaghe tracce grafiche, oltre il quale il testo riprende con c�a�p�i�t�e�, un lungo spazio interverbale (5 cm. vuoti), e quindi olofernem�, redatto in caratteri leggermente più larghi del resto (9 caratteri di cui una M in 21 cm. totali, rispetto ai 19 cm. teoricamente sufficienti e agli 11 cm. per 6 caratteri di cui una i del termine precedente) e seguito a sua volta da uno spazio di 5,5 cm. occupato da segni non alfabetici assai rovinati (verosimilmente una hedera distinguens o altro analogo riempitivo grafico) e infine da un nuovo segmento a finto mosaico di 51,5 cm., che giunge fino a pochi centimetri dal termine della parete affrescata. l’iscrizione, caratterizzata dalla presenza del nesso a+p (in capite) e lunga oggi nel complesso 53,5 cm. senza contare i margini iniziale e finale, si presenta quindi come segue:

]i �c � o �[ 9,5 ]c �a �p �i �t �e � o l o f e r n e m�

la lacuna iniziale – corrispondente a parte dell’attuale margine sinistro, nel quale sono presenti forti tracce di segni grafici mecca-nicamente erasi – è facilmente integrabile con una H, iniziale del deittico hic, tipico introduttore di molti dei tituli didascalici del ci-clo: considerate le dimensioni medie delle altre H iniziali del regi-stro inferiore, tale integrazione porta ad aumentare a circa 56 cm. la lunghezza originaria dell’iscrizione (lo spazio occupato da [h]ic passerebbe allora dagli effettivi 3 cm. agli ipotetici 5,5 cm. circa) e a ridurre conseguentemente a circa 4,5 cm. il margine sinistro, suc-cessivo ai 12 cm. di segmento a finto mosaico eraso. più complesso e delicato è invece integrare la lacuna interna tenendo conto da un lato della presenza di o iniziale e dall’altro dell’esigenza di dare un senso compiuto al testo, completandolo con i due elementi attual-mente mancanti – soggetto (necessariamente iudith) e verbo – che difficilmente potrebbero coesistere in quei 9,5 cm., capaci al più di 5 caratteri e/o spazi interverbali.

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in considerazione dei vincoli di natura semantica che limitano di molto le possibili ipotesi sul verbo mancante, della presenza di o ini-ziale e della costruzione generale della frase – che presenta Olofernem all’accusativo e capite all’ablativo – il candidato ottimale per l’integra-zione del predicato sembra essere la forma o[rbat], i cui quattro ca-ratteri mancanti sembrerebbero non incompatibili, quanto al ductus, con le confuse tracce grafiche sussistenti nella prima parte della lacuna e potrebbero rientrare senza forzature – tanto più se la r fosse stata realizzata in nesso con la o iniziale – nei 9,5 cm. disponibili, lasciando anche almeno 1,5-2 cm. per lo spazio interverbale. la frase così rico-struita, [h]i�c� o�[rbat ]c�a�p�i�t�e� olofernem � ‘qui priva del capo olo-ferne’, con il relativo margine iniziale e la hedera distinguens (?) finale, perfettamente compatibile con gli spazi disponibili e con i resti grafici (parole complete, caratteri sciolti e tracce) attualmente sussistenti in quest’ultima porzione del nastro iscritto, occuperebbe sostanzialmente tutto l’intervallo compreso tra i due segmenti a finto mosaico (pari complessivamente a 66 cm., calcolati tra la fine del tratto eraso e l’ini-zio del lungo segmento finale), ma manca evidentemente del soggetto, inferibile dal contesto solo a posteriori e in base a preconoscenze bibli-che non richiamate da altre scene del ciclo.

a nostro avviso, tale sequenza corrisponde alla stesura originale del testo didascalico, avvenuta in presenza di entrambi i segmenti a finto mosaico nella loro interezza: in questa ipotesi, la mancanza del soggetto andrà attribuita a un’occasionale distrazione (interruzione e

Fig. 15

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ripresa del lavoro, o altro) del collaboratore di guariento incaricato di dipingere i singoli tituli negli spazi della falsa cornice appositamente risparmiati. tra i due segmenti pseudomusivi, lo spazio per il nome dell’eroina biblica di fatto non mancava, ma l’addetto alle iscrizio-ni deve essersi reso conto dell’omissione compiuta quando era ormai giunto all’ultima parola del breve testo (Olofernem), trovandosi un’ec-cedenza di spazio di circa 10,5 cm. (sufficiente a contenere i 5 caratte-ri, di cui due i, di ivdit e il relativo spazio interverbale, che però non erano più inseribili in questa posizione) e decidendo quindi di ‘con-sumarla’ allargando a dismisura lo spazio vuoto tra capite e Olofernem (5 cm. contro i normali 2-2,5 cm.), allargando altresì la realizzazione grafica di Olofernem (v. sopra) e occupando infine i 5,5 cm. residui con il riempitivo grafico sopra accennato.

a questo punto lo spazio per inserire nel luogo dovuto il soggetto sarebbe stato recuperato con l’erasione degli ultimi 12 cm. del seg-mento pseudomusivo che separava questa didascalia da quella relativa a Daniele nella fossa dei leoni e coprendo di nuovo intonaco e nuovo pigmento tale spazio e il deittico iniziale, anch’esso in parte eraso (5,5 cm. + 4,5 cm. di margine sinistro = 10 cm.: si rammenti il cambio cro-matico del campo proprio in corrispondenza dello spazio tra i�c� e o�[): i 22 cm. così recuperati (10 + 12) erano sicuramente più che sufficienti per inserirvi la nuova versione del deittico hic seguito da ivdit e dal relativo spazio interverbale (8 caratteri di cui tre i e una H iniziale + uno spazio = circa 16-16,5 cm.), lasciando anche abbondante margine a sinistra della iscrizione così ritoccata (equilibrato col margine finale e forse occupato anch’esso da qualche riempitivo grafico). la sparizione del nuovo incipit dell’iscrizione e la ricomparsa dei tratti iniziali erasi e della residua sequenza i�c� (così come l’attuale lacuna di 9,5 cm.) an-dranno allora imputate alle varie operazioni di pulizia e restauro delle superfici affrescate (e iscritte) succedutesi almeno dal 1795 (v. sopra n. 6) ai nostri giorni. riassumendo, il vero e proprio palinsesto epigrafico che riteniamo di poter ricostruire per questo testo didascalico presen-terebbe le fasi seguenti (indichiamo con == i segmenti a finto mosaico, con //// le erasioni e con \\\\ le ridipinture):

testo previsto per l’iscrizione: *hic iudit orbat capite Olofernemtesto realizzato in prima battuta: ========== hic orbat capite olofernem & ======cancellazione del tratto iniziale: =====//////////\\\ orbat capite olofernem & ======riscrittura del tratto iniziale: === & hic ivdit orbat capite olofernem & ======stato attuale dopo le puliture: ====[ 12 + 7 ]i�c� o�[ 9,5 ]c�a�p�i�t�e� olofernem� & ======testo con integrazione delle lacune: [h]i�c� o�[rbat ]c�a�p�i�t�e� olofernem�

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si noti che il testo così ipoteticamente ricostruito non è una cita-zione esatta del passo biblico cui la scena si riferisce, che riporta invece et abscidit caput eius (iudt. 12: 10): esso fa tuttavia perfetto pendant all’iscrizione relativa alla scena di David e Golia, all’estremità opposta della stessa fascia affrescata, con una interessante variatio stilistica, gio-cata sia sul piano lessicale (qui orbat per il biblico abscidit, lì abscidit in luogo del biblico praecidit di 1reg. 17: 51) che su quello sintattico (qui iudit orbat capite Olofernem, lì Dauit abscidit caput Golie) con un figura forse definibile come ‘diafora semichiastica’.

3.6. giunti così allo spigolo nord-occidentale della parete affresca-ta, alcuni degli elementi marginali della decorazione pittorica (quali le archeggiature di base, la quinta rocciosa che delimita la scena, ecc.), tuttora sussistenti allo stato frammentario anche nel primissimo tratto della parete nord, mostrano che il ciclo doveva in origine continuare su tale parete, quanto meno ai lati dell’altare che con tutta probabi-lità vi si trovava (v. sopra n. 5): già l. tintori, nel dattiloscritto della relazione finale dei restauri da lui eseguiti nel 1964-65, conservato in parte inedito presso l’archivio dell’accademia, sottolineava infatti (tav. 33) come “su[lla parete] a nord è stato possibile recuperare dei fram-menti che documentano come questa parete avesse la stessa decorazio-ne di quella con le finestre”, accompagnando tale affermazione con la documentazione fotografica del tratto murario adiacente alla scena di Giuditta e Oloferne, corrispondente alla nicchia allora ricavata in quel-la che lo stesso tintori (1964-65: 61) ritiene essere “una foderatura di mattoni, forse fatta nel settecento, [che] occultava […] resti dell’af-fresco originale. in questo angolo le rocce e il cielo e la cornice con la leggenda si svolgevano senza interruzioni”. dalle immagini inedite del restauro tintori, oltre all’accennata continuità della decorazione a fresco, si rileva infatti anche la presenza di un brano iscritto compreso entro una falsa cornice architettonica, già allora assai frammentario e ora praticamente del tutto scomparso, che iniziava a pochi cm. dallo spigolo murario, emergendo da una fascia verticale scura che sembra delimitare a sinistra lo spazio riservato all’immagine.

di tale testo, redatto in accurati caratteri gotici di altezza appa-rentemente superiore a quella delle iscrizioni considerate finora e con cromatismo invertito rispetto ai precedenti (nero in campo chiaro), la foto permette di leggere con sufficiente chiarezza (malgrado le legge-re lacune da cadute di colore del margine superiore) ]raitu, seguito dall’occhiello superiore di una r o B (meno probabilmente di una p) in nesso con u (*u+r, *u+B o eventualmente *u+p) e da una lacu-na obliqua di ridotte dimensioni oltre la quale ricompaiono le parti

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superiori di alcuni caratteri che sembra di poter riconoscere come e�t�, e, dopo un’altra piccola lacuna, f�e�n�d�[: nel complesso dunque ]rai-tur�/b�[ ]e�t�[ ]f�e�n�d�[, dove la lacuna iniziale non sembra lasciare spazio per più di un carattere (in questa posizione sarebbero ammesse tutte le vocali, le occlusive e le fricative labiodentali; forse possibili anche due caratteri se uno fosse una i, il che aumenterebbe naturalmente le possibilità combinatorie) e quelle interne sembrano corrispondere per estensione al mero spazio interverbale.

attualmente, di tutta la sequenza sussistono solo le labili tracce di un paio di caratteri (riconducibili forse a ]r�a�[), che iniziano a 5,5 cm. dallo spigolo e coprono nel complesso un’area larga 7 cm. e alta pure 5,5 cm. che insiste, a onor del vero, su uno strato di intonaco che sem-bra essere sovrapposto a quello su cui sono raffigurati i resti di quinta rocciosa, e quindi non originario. allo stato attuale, non riteniamo di poter proporre alcuna integrazione né plausibile interpretazione di tale

Fig. 16

sequenza grafica (a titolo di ipotesi, non va forse esclusa la possibilità che sopra ai primi caratteri si trovasse in origine la segnalazione di un’H o di una nasale interna omessa, perduta già nel 1965 ma sciogli-bile ad es. come ]ra(h/n)itur/b, con preferenza per la lettura con H e r finale, che restituirebbe una forma di passivo: *[t]ra(h)itur), né quindi alcuna ipotesi di identificazione della scena affrescata di cui essa po-teva costituire la didascalia, ma ci è sembrato comunque importante attirare l’attenzione su questo dato poco noto, e finora inedito, relativo alla reale estensione del nastro iscritto come si presentava 46 anni fa.

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4. i graffiti

in conclusione del presente saggio, riteniamo utile soffermarci bre-vemente anche sui numerosi episodi di ‘graffitismo spontaneo’ da cui sono stati interessati nel corso dei secoli l’estrema fascia inferiore delle scene affrescate, nonché i profili del finto listello che la delimita in basso e delle finte archeggiature prospettiche ancora sottostanti. tali episodi, che presi in se stessi e in generale si configurano naturalmente come atti di vandalismo, presentano infatti in alcuni casi un interesse storico più o meno rilevante. tralasciando le numerose (e ripetute) annotazioni an-troponimiche (‘firme di visitatori’?) che costellano i vari profili pseudo-architettonici della zoccolatura basale, la nostra attenzione si appunterà su alcuni dei graffiti presenti nella parte inferiore degli affreschi figura-tivi compresi tra le due finestre e all’estremo sinistro dei sottostanti finti profili architettonici, che trascriveremo con semplice criterio diplomati-co-imitativo integrato da opportune note paleografiche.

tenendo presente che dopo la ‘dedizione’ di padova alla serenis-sima (1405) e fino all’assegnazione dei locali all’accademia (1779), con la conversione della ‘reggia’ Carrarese in palazzo prefettizio – sede del Capitanio veneziano e dell’amministrazione fiscale della città e del territorio – la cappella affrescata da guariento venne meno alle sue originarie funzioni di luogo di culto destinato agli ospiti d’onore della signoria cittadina per diventare “chiesetta […] ad uso del capitanio”,27

frequentata cioè solo da quel magistrato e verosimilmente da qualche funzionario della sua corte, che possiamo ritenere a priori apparte-nente ai ranghi dell’amministrazione della repubblica, si vedrà come le notizie e i commenti graffiti sugli affreschi di guariento, utilizzati come vera e propria ‘lavagna’ per annotazioni di cronaca e di attualità politica, rappresentano una singolare ‘voce dall’interno’ dell’apparato periferico dello stato veneto.

(27) Cfr. la testimonianza di gennari 1982-84: 194, alla data del 23 novembre 1780: “l’accademia ripigliò i suoi esercizi e poiché, per l’assenza dell’eccellentissimo signor ca-pitano, non si poté dar principio dalla sessione pubblica, si cominciò da una privata che si tenne nella sala a tal fine preparata co’ denari dell’accademia. essa fu fabbricata della camera de’ ricovrati e della chiesa contigua, e un tempo serviva ad uso del capitanio, la quale fu donata dall’eccellentissimo senato all’accademia in un con parte della loggia che le stava davanti e d’un andito vicino. […] siccome l’accennata chiesetta era tutta dipinta dal nostro guariento, così furono conservati alcuni pezzi di esse pitture e tutte quelle che in tavola ne adornavano il soffitto” (si tratta qui delle ben note raffigurazioni dei diversi ordini angelici, ora in gran parte conservate presso il Museo Civico padovano: cfr. al riguardo Flores d’arcais 1974: 65-69; Hueck 1994).

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presumibilmente promananti dalla componente militare della corte capitaniale sono due piccoli graffiti collocati rispettivamente al centro del comparto figurativo, in corrispondenza della quinta roccio-sa che separa le due scene relative ai compagni di daniele, e alla sua estremità destra, sotto al muro di sostegno della fornace (li si veda, abbastanza chiaramente, già in Flores d’arcais 1974: fig. 74; Hueck 1993: 68 fig. 7): il primo, articolato su due righe per complessivi 7 x h.14 cm., riporta AV paX, mentre il secondo (10 x h.6 cm.) presenta una sigla W tra due rami di palma decussati e sormontati da una coro-na a 11 punte perlate, da intendersi assai probabilmente quali simbolo di vittoria (cfr. Hall 1983: 313; Chisesi 2000: 349). È difficile stabi-lire una datazione di tali brevi campioni scrittori – redatti il primo in una generica maiuscola prossima a una capitale (p con occhiello stret-to e allungato, a con traversa rettilinea e seconda asta curvilinea, X con diagonale ascendente leggermente curvilinea, abbreviatura di viva in forma di V e a intrecciate come sopra rappresentato) e il secondo in forma leggermente più compiuta (W con tratti incrociati e asimmetri-ci) – e quindi ipotizzare uno o più possibili riferimenti storici per gli episodi di pacificazione e di vittoria qui ricordati, ma è quanto meno suggestivo pensare alle celebrazioni e festeggiamenti che dovettero ac-compagnare rispettivamente la notizia della sottoscrizione del trattato di Bologna (23 dicembre 1529) e della conseguente pacificazione ge-nerale dell’italia – che, se da un lato sancì la definitiva supremazia spa-gnola nella penisola, dall’altro segnò anche la (apparente) cessazione delle dirette minacce asburgiche contro l’indipendenza e la sovranità dello stato marciano, iniziate oltre vent’anni prima con le note vicende belliche e diplomatiche legate alla lega di Cambrai – e quella della (a torto ritenuta epocale) vittoria di lepanto contro il turco, avvenuta come è noto il 7 ottobre 1571, nel giorno di s. giustina, santa alla cui intercessione tale vittoria fu attribuita (si ricordi infatti che l’arma ab-baziale di s. giustina, notissima a padova allora più di oggi, presenta appunto due rami di palma posti in decusse e incrociati con pugnale e corona, simboli della presunta regalità e della santità martiriale della titolare: su tali aspetti cfr. da ultimo niero 2004).

Ben altra evidenza testuale e documentaria offre il grande graffi-to, articolato su cinque righe e su una superficie complessiva di 38 x h.30 cm., che occupa l’angolo inferiore sinistro dello stesso comparto figurativo, entro l’apparente cavità aperta nella quinta rocciosa posta tra la scena del carro di fuoco e la prima di quelle riferite ai compagni di daniele (il graffito, appena intuibile nelle foto successive al restauro

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del 1964-65, cfr. Flores d’arcais 1974: fig. 72, è stato riportato a piena visibilità dall’ultimo intervento di pulitura). il testo, precisa-mente datato al 1533 e redatto in una corsiva ricca di abbreviature e assai commista di caratteri in forma maiuscola, non priva di retaggi grafici quattrocenteschi (nessi, lettere inscritte e soprascritte, a a tra-versa spezzata, ecc.), si presenta come segue:

Fig. 17

Fig. 18

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trascrizione diplomatica scioglimento note paleografiche

i553El MACO Cap° Mo zuan Alouixe Sor AzoMorete ADİ.İİ. MARzO

1553

el Ma(gnifi)co Cap(itani)oM(esser) Zuan

alouixe sora(n)zo

morete adi 11

marzo

1 in forma di i non puntatoe arrotondata; nesso M+a

a traversa spezzata e co soprascritto: M

co-; nesso C+a

e p con o soprascritto: Cap°; z con tratto di base obliquo; nesso a+n: an

a e a a traversa spezzata; x con diagonale ascendente molto allungata sotto il

rigo (fino a toccare r di r. 4); r con tratto ascendente

soprascritto (anticipa la nasale omessa); z con tratto

di base obliquom in forma maiuscola; a a traversa spezzata; 1 in

forma di İ puntatinesso tutto in forma

maiuscola m+a a traversa spezzata+r: M-r; z con tratto di base obliquo

la notizia della morte in carica del Capitanio Zuan alvise so-ranzo,28 qui evidentemente annotata ‘in diretta’ da uno dei funzionari della corte prefettizia, trova riscontro in quanto dichiarato dal podestà dell’epoca, Marc’antonio grimani, nella sua relazione di fine manda-to presentata al senato veneto in data 8 marzo 1554: “Mi par de dover dir anchora che per quel pocho di tempo ch’io steti Vice Capitanio per la morte del quondam Clarissimo soranzo bona memoria, non

(28) si noti la forma del perfetto morete, analogica su stete, caratteristica della tradi-zione veneta e pavana medievale e di primo ’500: cfr. tomasin 2004: 187, con ulteriori rimandi bibliografici relativi a forme come plasete, (pre)vete, criti, a cui vanno aggiunti almeno il nasete - ripetutamente attestato ad es. nel ms. Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Correr 314, f. 38r, in un’annotazione, estranea al contenuto del codice, datata 7 ottobre 1534 - e, per diretto confronto lessicale, il costrutto quando’l morete de peste, tratto da documentazione archivistica ferrarese del 1510 (si riferisce alla morte, nel 1505, del musicista fiammingo Jacob obrecht, “già cantore” del duca ercole i d’este), riportato da Cittadella 1864: 717.

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manchaj dell’officio che me aspettava” (tagliaferri 1973-79: iV.36); al tempo stesso essa offre un importante dettaglio alla cronologia dei rettori cittadini stabilita da a. gloria su base documentaria, dove si rileva che gian’alvise soranzo29 fu “Capitano dall’11 settembre 1552 al 10 marzo circa 1553”, mentre il podestà grimani, in carica come tale dal 6 novembre 1552 al 4 marzo 1554, “fu anche Vice-Capitano dal 10 marzo circa al 16 aprile del 1553”, quando subentrò nella carica capitaniale Melchiore Michiel (cfr. gloria 1861: errata corrige a p. 18, [4]). l’annotazione dell’anonimo graffitaro conferma ora il motivo dell’improvvisa uscita di scena del Capitanio soranzo, senza diretto

Fig. 19

(29) secondo quanto riportato dagli Arbori Barbaro (Vii: 57, 60-1), si tratta di Zuane alvise de “li soranzi […] detti dal Baston”, del ramo “da santa trenita”, nato nel 1495 (al momento della morte aveva dunque 58 anni), quarto figlio di Bene(de)tto e Bene(de)tta donà di luca q. ludovico, che nel 1513 sposò Cecilia Boldù di Francesco q. alvise e fu poi anche Consigliere dogale. dalla moglie, “non transduta” in casa, ebbe comunque Francesco, nato nel 1514 e morto nel 1563, che seguì una carriera politico-diplomatica svolta princi-palmente nello Stato da mar e in Sorìa.

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(30) dal punto di vista paleografico si segnala qui il W a tratti simmetrici e incrociati (caduto parzialmente in lacuna: restano gli ultimi due tratti a destra e gli apici dei primi due), la R con occhiello chiuso e allungato e tratto diagonale unito all’ansa, la E arroton-data, la M a quattro tratti simmetrici curvilinei, la O stretta e lunga, la N con diagonale unita a un terzo delle due aste (inclinate) e la A con apice arrotondato e traversa rettilinea

(31) dal punto di vista paleografico vanno qui segnalate le İ puntate e la a con traver-sa spezzata, nonché il ductus nettamente corsivo di tutte le e (la seconda in corpo mag-giore) e le c, di g e di p (alte sul rigo), della sequenza an e di tutti i caratteri in esponente.

passaggio delle consegne al successore e con temporanea reggenza della carica affidata al collega grimani, e ne fissa la data esatta.

tra la fascia di scasso provocata dalla modifica forometrica del 1779 e l’ultima riga del graffito relativo a Zuan alvise soranzo (non a caso spostata in avanti rispetto all’allineamento delle altre righe), si rileva un’altra annotazione, redatta in una maiuscola tendente alla capitale e di modulo irregolare (22 x h.5÷2,5 cm.), presumibilmente di primissimo ’500, e verosimilmente anch’essa espressione degli am-bienti militari legati alla corte prefettizia. nel breve testo, W � CREMONA,30 va infatti probabilmente ravvisata l’eco delle alterne vicende belliche e diplomatiche legate al possesso della città lombarda che si sussegui-rono tra la conquista veneziana del 10 settembre 1499, successiva al trattato di Blois e alla fuga di ludovico il Moro, la riconquista france-se seguita alla giornata di agnadello (14 maggio-16 giugno 1509), e i successivi sviluppi politico-diplomatici della guerra cambraica, fino alla definitiva pacificazione del 1529 (v. sopra).

più problematiche, ma anch’esse storicamente interessanti, sono invece altre due annotazioni, graffite sulle finte membrature architet-toniche immediatamente sottostanti alle precedenti. nei primi 28 cm. del finto listello, alto 3 cm., che delimita in basso le scene affrescate, all’emergere dalla lacuna provocata dall’inserimento dell’infisso mo-derno, si incontra un primo brano, inciso in una grafia mista di capi-tale e di minuscola corsiva, leggibilissimo ma purtroppo incompleto, che ricorda l’[ill.mo?] e ecc.mo sig.r Alvise pisani.31 sebbene ormai privo di datazione e di esplicita indicazione di carica, irrimediabilmente per-dute nello scasso per l’apertura della nuova finestra, riteniamo assai probabile che l’annotazione riguardi quell’alvise pisani di almorò, del ramo di s. stefano, l’unico esponente di Cà pisani di questo nome ad aver ricoperto la carica di Capitanio di padova (dall’11 agosto 1686 al 18 dicembre 1687, quasi in contemporanea al mandato podestarile di angelo diedo: cfr. gloria 1861: 34), eletto poi nel 1691 procuratore di san Marco de ultra, che era ricordato da varie iscrizioni celebrative

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un tempo collocate nel palazzo prefettizio e dal monumento tuttora esistente nel sottarco di porta altinate (sul personaggio e le vicende re-lative al monumento, cfr. Benucci 2002-03; Benucci 2007: 302-5).

ancora più problematica è infine la seconda annotazione, incisa im-

(32) dal punto di vista paleografico segnaliamo qui gli 1 in forma di i, l’8 aperto in alto, la F con traversa minore divaricata in basso, la V nettamente corsiva e curvilinea, la d con asta ondeggiante e il ductus angoloso dell’ultima n.

Fig. 20

mediatamente sotto alla precedente, lungo 26,5 cm. del profilo (alto 2 cm.) della prima finta archeggiatura emergente dalla lacuna, dove si leg-ge, in una elegante corsiva a tratti poco evidente, i�68i Fran�co Vendr�am�ini, senza alcuna ulteriore indicazione.32 il problema posto da tale graffito si riferisce all’identità del personaggio ricordato, poiché nessun Francesco Vendramin fu mai Capitanio di padova, né nel 1681 (quando si avvicen-darono nella carica, il 28 marzo di quell’anno, un giovanni pisani e un lorenzo soranzo: cfr. gloria 1861: 33) né in altri anni, e sarà quindi necessario ipotizzare, in attesa di approfondita verifica documentaria, che si trattasse di qualche ufficiale minore della corte prefettizia, tutt’al più dell’inquisitore sopra dazi.

secondo quanto risulta dall’esame degli Arbori Barbaro (Vii: 208), dovrebbe verosimilmente trattarsi di Francesco dei Vendramin “detti Cocucchia, […] dai Carmeni”, figlio di Zaccaria (1629-1678)

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i tituli dipinti della sala guariento 157

e di Caterina Molin di alessandro, nato il 3 dicembre 1659 e sposato nel 1682 con Moceniga Mocenigo di alvise iV q. alvise iii, che fu poi Capitanio di Verona nel 1698-1700 (anche Vicepodestà nel 1698-1699) e di Brescia nel 1712-1714 e morì in data imprecisata. il fatto che nel 1681 egli avesse solo 22 anni e fosse quindi ancora legalmente minorenne, se potrebbe non costituire problema – trattandosi di un giovane patrizio orfano di padre e presumibilmente già affrancatosi da qualsiasi tutore e assurto al ruolo di capo famiglia (come suggerisce anche il matrimonio contratto l’anno successivo) – per l’assunzione di cariche pubbliche di rilievo secondario, sconsiglia tuttavia di ipo-tizzare che egli fosse già Camerlengo, trattandosi in questo caso dei responsabili locali dell’amministrazione fiscale e ordinari reggenti del Capitaniato in assenza del magistrato titolare. la motivazione del graf-fito potrebbe del resto essere consistita proprio nell’eccezionalità del caso, legata alla giovane età dell’interessato.33

(33) Questo Francesco Vendramin fu nipote di terzo grado dell’omonimo cardinale, patriarca di Venezia dal 1605 al 1619; per le date dei due reggimenti capitaniali, cfr. tagliaferri 1973-79: iX.lxxxiii, Xi.liv. Molto minori sembrano invece le probabilità che potesse trattarsi dell’omonimo Francesco dei Vendramin “da santa Fosca”, figlio di andrea (1628-1684) e della cugina Zanetta q. Zuane q. Ferigo, dei Vendramin “da san lunardo”, nato il 18 ottobre 1659 e morto anch’egli in data imprecisata, che gli Arbori Barbaro (Vii: 200) riferiscono essere stato generale ai Bandi e “gobbo”. pur essendo praticamente coetaneo del precedente, nel 1681 egli non era infatti orfano né affrancato, né perciò assurto anzitempo alla maggior età e alle connesse ‘capacità’ politiche, risultan-do invece ancora minorenne e soggetto alla tutela materna al momento della morte del padre (su tali vicende familiari, connesse a quella del veneziano “famoso teatro Vendra-mino” di s. luca, cfr. Mangini 1974: 48-55, 110).

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appendiCe

tavola riassuntiva dei tituli dipinti, riferiti alle singole scene affrescate

Criteri di trascrizione: in maiuscoletto le trascrizioni vere e pro-prie (si indicano con punto sottoscritto le lettere incomplete o di ma-lagevole lettura) e le integrazioni ritenute certe, indicate tra parentesi quadre, in normale carattere tondo le integrazioni ipotetiche (seguite nei casi più speculativi anche da un punto interrogativo ?). le lacune sono indicate con parentesi quadre [ ] racchiudenti le integrazioni certe o ipotizzate; gli scioglimenti di tutte le abbreviature sono indicati tra parentesi tonde ( ); i pochi casi di emendamento testuale tra un-cini ‹ ›. per ulteriori dettagli e per la discussione puntuale dei singoli aspetti si rinvia alla lettura del saggio.

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FranCo BenuCCi162

graffiti (se ne da una semplice trascrizione con scioglimento delle ab-breviature e integrazione delle lacune)

riferimento testo incisoa. AV / paX

b. W tra rami di palma decussati e sormontati da corona a 11 punte perlate

c. i553 / El Ma(gnifi)co Cap(itani)o M(esser) zuan / Alouixe Sora(n)zo / morete adi İİ / marzo

d. W CREMONA

e. [ill(ustrissi)mo?] e ecc(ellentissi)mo sig(no)r Alvise pisanif. i�68i Fran�(ces)co Vendr�am�ini