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1 I testi del Convivio L’EVOLUZIONE DELL’UNIVERSO E DELLA VITA IN UNA PROSPETTIVA CRISTIANA UN PO’ DA AGGIORNARE di Filippo Liverziani S O M M A R I O 1. Necessità di una revisione teologica dell’idea di creazione 2. Come la moderna cosmologia descrive l’origine dell’universo 3. La resistenza della materia e l’entropia 4. Entropia e sintropia 5. L’origine della vita 6. Necessità di una critica del determinismo per poter giustificare in suo luogo un più ragionevole vitalismo 7. È, d’altra parte, necessaria anche una critica del finalismo radicale 8. Creazione non è “colpo di bacchetta magica”, ma lungo laborioso processo e strenua lotta contro ogni forza antievolutiva 9. Nondimeno il processo creativo-evolutivo, coronato dall’avvento dell’uomo, avrà il suo compimento con la finale vittoria del regno di Dio 1. Necessità di una revisione teologica dell’idea di creazione Io credo profondamente, non solo, ma sono abbastanza convinto anche sul piano razionale, che sia ben d’origine divina quella rivelazione, detta ebraico-cristiana, che ha nella Bibbia la sua fondamentale espressione scritta. Ritengo, però, che un’interpretazione letterale di quei testi sia insostenibile. Tale appare ogni giorno di più. Certo bisogna guardarsi dal dissolvere il contenuto delle Scritture in una interpretazione “spirituale” fin troppo vaga e generica. Sarebbe uno

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I testi del Convivio

L’EVOLUZIONE DELL’UNIVERSO E DELLA VITA

IN UNA PROSPETTIVA CRISTIANA UN PO’ DA AGGIORNARE

di Filippo Liverziani

S O M M A R I O

1. Necessità di una revisione teologica dell’idea di creazione 2. Come la moderna cosmologia descrive l’origine dell’universo 3. La resistenza della materia e l’entropia 4. Entropia e sintropia 5. L’origine della vita 6. Necessità di una critica del determinismo per poter giustificare in suo luogo un più ragionevole vitalismo 7. È, d’altra parte, necessaria anche una critica del finalismo radicale 8. Creazione non è “colpo di bacchetta magica”, ma lungo laborioso processo e strenua lotta contro ogni forza antievolutiva 9. Nondimeno il processo creativo-evolutivo, coronato dall’avvento dell’uomo, avrà il suo compimento con la finale vittoria del regno di Dio 1. Necessità di una revisione teologica dell’idea di creazione

Io credo profondamente, non solo, ma sono abbastanza convinto anche

sul piano razionale, che sia ben d’origine divina quella rivelazione, detta ebraico-cristiana, che ha nella Bibbia la sua fondamentale espressione scritta. Ritengo, però, che un’interpretazione letterale di quei testi sia insostenibile. Tale appare ogni giorno di più.

Certo bisogna guardarsi dal dissolvere il contenuto delle Scritture in una interpretazione “spirituale” fin troppo vaga e generica. Sarebbe uno

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svuotare quello che rappresenta, invece, per noi un ancoraggio assai concreto. Va evitato, d’altra parte, qualsiasi fondamentalismo.

È fin troppo noto il caso Galileo, al quale fu proibito di insegnare che la Terra gira intorno al Sole immobile per la semplice ragione che Giosuè l’aveva fatto prodigiosamente fermare per avere tutto il tempo necessario a sconfiggere gli amorrei e i loro alleati nella battaglia di Gabaon e a sfruttare la vittoria fino in fondo (Gios. 10, 12-14): segno, allora, che il Sole veramente si muoveva intorno al nostro pianeta!

Che il Sole giri intorno alla Terra non ci crede più nessuno, ma c’è ancora qualcuno profondamente persuaso che l’universo esista da circa seimila anni. La ragione è che tale sua età si deduce chiaramente da calcoli applicati – sempre con la più stretta adesione alla lettera! – alla serie delle generazioni e delle vicende menzionate dall’Antico Testamento.

Il testo biblico poteva, in qualche misura, esprimere la cosmologia degli antichi ebrei, ma questo non lo accredita minimamente come fonte di informazioni cosmologiche sicura per noi di questo secolo.

Perloppiù scritti in uno stile poetico ricco di immagini, i libri della Bibbia vanno apprezzati soprattutto ed essenzialmente per il loro contenuto religioso.

L’Antico Testamento ci rappresenta Dio stesso con tratti potenti, i quali comunque rimangono, per certi aspetti, accentuatamente antropomorfici. Sono immagini da non prendere, certo, alla lettera, ma nemmeno da scartare, al fine di non gettar via, con l’acqua sporca della tinozza, il famoso bambino che c’è dentro.

Conviene, piuttosto, imparare a guardare attraverso quelle immagini. Solo così ci metteremo in grado di cogliere quelle più profonde verità, che esse esprimono in maniera così forte e viva e nondimeno pur sempre inadeguata.

Fra l’altro è bene che ci facciamo, del processo creativo, un’idea più consona a quello che può essere un concetto della Divinità più rigoroso.

Tante volte noi immaginiamo il Creatore dell’universo in termini fin troppo simili a quelli di un artefice umano, che elabora un progetto, ci riflette sopra, lo corregge, ne attua la stesura definitiva, poi raccoglie i materiali idonei, li lavora, li compone, incollando, inchiodando, avvitando, ed ecco il prodotto finito.

Un lavoro così articolato si esplicherebbe in una successione di momenti temporali. Ma un Dio che prima facesse questo e poi quest’altro apparirebbe ancora fin troppo umano.

E nemmeno si può dire che Dio voglia la creazione così com’è in atto nella situazione presente. Si è detto che non c’è, in Lui, alcuna successione di momenti. Va, ora, aggiunta la precisazione: così come non

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si dà, in Dio, alcun divenire, nemmeno può darsi in Lui alcuna molteplicità di atti pur contemporanei.

Creare questo e poi quest’altro dopo avere elaborato ed emendato un progetto costituirebbe un divenire incompatibile con la divina immutabilità. D’altronde, anche creare questo “e” quest’altro sarebbe incompatibile con la divina semplicità.

La creazione scaturisce tutta insieme da un unico atto infinito di Colui che è solo amore e donazione di sé medesimo senza limiti.

Da che derivano le creature singole e le situazioni individuate? Direi: sono la risultante di un rapporto di forze, ben complesso in continuo cambiamento e sviluppo.

Vi agisce la Forza creatrice divina col suo unico atto di estrinsecazione infinita; ma vi agiscono, insieme, l’intreccio in continuo svolgimento di tutte le possibili forze e controforze poste in essere dagli innumerevoli esistenti, che sono emersi via via nel corso del complesso, laborioso e travagliato processo della universale creazione.

Così ciascuna realtà e situazione di questo mondo è la risultante di un parallelogramma di forze, o, meglio, di un poligono di forze che concorrono in molteplicità e varietà estreme.

Tra le forze in gioco c’è sempre, ad ogni momento, il concorso di ciascun nuovo essere che prende forma a propria volta. L’essere creato, l’essere creatura non è mai condizione di totale passività. La creatura collabora sempre, in qualche modo, alla creazione propria: in qualche misura, la creatura stessa si auto-crea.

Quanto a Dio, Egli non “crea”, non “vuole”, non “decide”, non “inventa” quella determinata realtà, non la “programma” nel suo essere

singolo, in tutta la sua struttura e in quel che dovrà fare nelle tali e tali

circostanze. Non riesco proprio a immaginare un Dio infinitamente buono che in

maniera specifica “programmi” – o anche, semplicemente, “permetta” – le tante cose terribili di cui la storia degli uomini è piena e di cui

l’evoluzione della natura pone decisamente le premesse. Non riesco proprio a immaginare un Dio infinitamente buono che

decida di creare piante carnivore a foglie agenti come una sorta di carta moschicida, le quali immobilizzano il malcapitato insetto che ci si è posato sopra e poi lentamente ci si chiudono e se lo digeriscono vivo com’è (cfr. M. Wilkins, I segreti delle piante, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1989, p. 140).

O che sempre un tal Dio decida di creare animali che “brucano” altri animali, o li “grattugiano”, o comunque se li divorano vivi a poco a poco, o li invischiano in una ragnatela per conservarceli come provvista di cibo, o li paralizzano e poi vi depositano le proprie larve perché nel corso del loro sviluppo si sostentino di carne sempre fresca (cfr. p. es. R. B. Clark,

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“Nutrimento e modi di nutrizione”, ne Gli invertebrati, di aa. vv., Garzanti, Milano 1982, pp. 128-134, 181; V. B. Wigglesworth, La vita

degli insetti, stessa ed., 1982, pp. 124, 165-166, 226-227, 355). O ancora animali come quegli insetti la cui femmina si sceglie un

maschio, gli trafigge la testa col suo apparato boccale e se ne succhia il corpo per intero, nel corso dell’accoppiamento, aggiungendo al tutto una sinistra nota sadomasochistica (Wigglesworth, p. 119).

Tralascio gli uragani, i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le epidemie, le malattie più atroci, le indicibili sofferenze inferteci non dalla malvagità degli uomini (fin troppo sovente chiamata in causa da profeti ed altre anime religiose), ma proprio da Madre Natura in esclusiva. Voluto, programmato da Dio, caso per caso, anche tutto questo?

Ho sempre avuto un’estrema avversione per ogni forma di bestemmia, pur involontaria. Nel respingere l’idea di un Sommo Tormentatore della Creazione, preferisco di gran lunga pensare a un Dio Tutto e Solo Bene, che voglia e promuova tutta insieme una creazione universale perfetta, infinitamente ricca di ogni bene e bellezza, realizzantesi al punto suo più alto, dove anche ciascun singolo si attui al massimo delle sue possibilità.

Vedo e sento Dio come un’infinita esplosione di bene, da cui derivano creature autonome e concreanti. In una tale prospettiva, la Forza divina fonda, sostiene e promuove il tutto, ma i singoli accadimenti e le singole forme in cui la creazione si concreta sono posti in essere, via via, dal concorso delle stesse creature.

E ciascuna creatura può evolvere positivamente accogliendo e veicolando l’Energia divina, ma può anche deviare e agire in senso negativo provocando i ben noti guasti.

Dio continua, comunque, a darsi in misura infinita. Ed è questa sua infinità che dovrà, in ultimo, prevalere, perché il divino Regno possa estendersi alla creazione intera rendendola perfetta.

È, se non erro, proprio in questo senso che va intesa l’onnipotenza di Dio.

Quanto al regno di Dio, è da notare che la sua logica appare l’esatto opposto della logica di guerra continua e crudele tra gli egoismi delle varie specie, che governa la natura. Quale migliore argomento a sostegno delle divine parole del Vangelo “Il mio regno non è di questo mondo”?

Precisamente il regno di Dio è la fine di una situazione generalizzata così orrenda. “Venga il tuo regno” è l’invocazione che la spietata legge della natura venga superata una volta per tutte.

Sì, “venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”: la volontà di Dio è che alfine la legge dell’amore trionfi sulla legge dell’egoismo, della violenza e della sopraffazione e inauguri una realtà decisamente nuova e diversa.

Come pensare che Dio si contraddica volendo, insieme, l’una e l’altra legge, due leggi così opposte?

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Tutto questo ci conferma di quanto sia giusto attribuire alla Divinità un unico atto creativo datore di solo bene in misura infinita: un unico infinito atto di amore e di donazione di sé, teso alla creazione di una realtà perfetta.

2. Come la moderna cosmologia descrive l’origine dell’universo

Il divino Atto creativo infinito ed uno pare, sotto certi aspetti,

assimilabile a quel big bang che, nella visione di tanti odierni cosmologi, pone in essere l’universo. Il big bang si presenta, oggi, come una spiegazione scientifica accreditata sia dalla deduzione matematica, sia dall’esperienza. Anche proprio da esperimenti di laboratorio, che in qualche misura appaiono in grado di riprodurre le condizioni di certi fenomeni primordiali.

“L’osservazione di galassie lontane”, scrive Stephen Hawking, “ci indica che si stanno allontanando da noi, che l’universo è in espansione. Ciò implica che le galassie devono essere state molto più vicine fra loro in passato. Allora sorge un interrogativo: c’è stato un tempo nel passato in cui tutte le galassie erano una sopra l’altra e la densità dell’universo era infinita?”

Precisa Paul Davies: “Il primo istante del ‘big bang’, in cui lo spazio è infinitamente contratto, costituisce un confine o margine dove il tempo cessa di esistere. In fisica questo confine si chiama singolarità (P. D., Dio

e la nuova fisica, 2ª ed., Mondadori, Milano, 1986, p. 35). “Da una singolarità ‘nuda’ può, a quanto sembra, uscire qualsiasi cosa

senza una causa fisica che preceda l’effetto”, dice ancora Davies, e aggiunge: “Taluni cosmologi ritengono che l’universo sia uscito da una singolarità cosiffatta senza una causa: se sono nel giusto, allora la singolarità è l’interfaccia tra il naturale e il soprannaturale” (op. cit., commento alla figura 8, p. 85).

L’impiego di particolari tecniche matematiche ha consentito a Stephen Hawking e Roger Penrose di concludere che, se la teoria della relatività generale è corretta, “in passato deve essere esistito uno stato di densità infinita… Questo stato di densità infinita è chiamato la singolarità del big bang. Sarebbe l’inizio dell’universo” (S. H., curatore, Come leggere S. H.,

Dal big bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano 1992, p. 104). Christopher Isham rileva che “normalmente in fisica, dove si hanno

idee convenzionali di causalità e determinismo, se si ha lo stato di un tempo particolare è possibile calcolare solo lo stato di qualche tempo successivo. Ecco che cosa si intende per causalità…” Invece “nella

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relatività generale, dal modo in cui spazio e tempo entrano nelle formule nasce la possibilità di parlare della creazione del tempo stesso”.

Soggiunge, però, il fisico teorico inglese: “Il guaio è che quando spazio e tempo dovrebbero ‘avere origine’ secondo la teoria classica, quel punto preciso è in sé una singolarità nella matematica: la matematica viene meno e non è possibile usarla per formulare una teoria della creazione” (In Come leggere…, pp. 157-158).

D’altronde così Hawking ricorda la sostanza di un discorso di papa Giovanni Paolo II ai partecipanti ad un convegno di cosmologia in Vaticano: “Ci disse che era giusto studiare l’evoluzione dell’universo dopo il big bang, ma che non dovevamo indagare sul big bang in sé, perché quello era il momento della creazione ed era perciò l’opera di Dio” (ivi, p. 149).

È più probabile che il papa abbia escluso che “il big bang in sé” sia oggetto di studio appropriato per matematici e fisici come tali, mentre è ben certo che, nella prospettiva del suo stesso magistero, la creazione rimane tema più che legittimo per ricerche teologiche e filosofiche. È un altro e diverso livello di speculazione, cui si accede in virtù di un diverso tipo di esperienza e sensibilità.

La scienza può, comunque, pervenire molto vicino a quel punto. È significativa l’idea, espressa da alcuni ricercatori e studiosi, che sia possibile ripercorrere all’indietro la storia dell’universo fino ad un centomillesimo di miliardesimo di secondo dal suo primissimo inizio (P. Davies, L’universo che fugge, Mondadori, Milano 1979, pp. 49-50).

Quel nucleo originario dell’universo, costituito non ancora da atomi, né da nuclei, né da elettroni, ma da semplici quanti di energia, era in uno stato di concentrazione estrema, incredibile.

Più o meno, in media, il diametro di un atomo può essere di un centimilionesimo di centimetro. Esso può racchiudere un nucleo, il cui diametro misuri, a propria volta, circa un miliardesimo di centimetro. Ebbene si può dire che alla conclusione di quell’era quantistica, di durata infinitesimale, l’intero universo da noi conosciuto fosse compresso in uno spazio analogo a quello che oggi normalmente occupa un singolo nucleo atomico.

La densità e insieme il calore di quel nucleo originario dell’universo erano al di sopra di ogni nostra capacità di immaginarli. Quindi l’universo non poteva altrimenti consistere che in un fluido, destinato ad espandersi solo via via che si fosse venuto a raffreddare.

“Nell’istante del big bang”, dice Hawking, “si pensa che l’universo avesse dimensioni zero, e che fosse quindi infinitamente caldo” (S.H., Dal

big bang ai buchi neri – Breve storia del tempo, Rizzoli, 4ª ed., Milano 1992, p. 138).

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Un fenomeno che conferma come l’universo sia emerso dal big bang in uno stato di altissima temperatura e densità è così riassunto da Livio Gratton: “La cosa interessante è che una memoria di questo stato iniziale è conservata nell’universo attuale sotto forma di una radiazione elettromagnetica ‘fossile’, che si trova dappertutto, nello spazio interstellare e probabilmente anche in quello intergalattico.

“Questa radiazione, che corrisponde attualmente a una temperatura di 3 gradi assoluti [della scala Kelvin, corrispondenti a 273 gradi sotto zero della scala centigrada], fu scoperta qualche anno fa da un gruppo di ingegneri della compagnia ‘Bell Telephone’ [da ricordare i nomi di Arno Penzias e Robert Wilson] e confermata poi da altri ricercatori. Essa è completamente isotropa, cioè giunge a noi con la stessa intensità da tutte le direzioni… Si ritiene sia stata emessa nei primi istanti dell’esistenza dell’universo.

“Può sembrare strano che una radiazione corrispondente a una temperatura così bassa… possa essere il residuo di uno stato iniziale di altissima temperatura, dell’ordine di migliaia di miliardi di gradi. Ma la cosa diviene comprensibile se si pensa che il fenomeno dell’espansione implica un raffreddamento dell’universo” (L. G., Relatività, cosmologia,

metafisica, Boringhieri, Torino 1968, p. 201; S. Weinberg, I primi tre

minuti, Mondadori, Milano 1980, pp. 56-90). Centomila anni dopo il big bang il calore del fluido si sarebbe potuto

valutare migliaia e migliaia di gradi. A tali temperature non poteva ancora esistere una materia né allo stato solido, né al liquido e nemmeno al gassoso. L’unico stato in cui poteva trovarsi era quello che i fisici chiamano “plasma”.

Questa fase è chiamata “l’era del plasma”. Si estende dalla fine del primo secondo dal big bang ai centomila anni.

All’inizio dell’era del plasma, cioè allo scoccare del primo secondo dal big bang, la temperatura poteva ammontare a circa dieci miliardi di gradi. A quelle condizioni estreme il calore, essendo una forma di energia, può creare materia. Ma una creazione di materia in una situazione del genere comporta la creazione di una quantità eguale di antimateria. È così che dall’immensa energia che si sprigiona nel corso del big bang vengono poste in essere quantità immense di materia e di antimateria.

Che cos’è l’antimateria? Si può definirla un insieme di particelle di massa eguale, ma di carica opposta.

La materia nello stadio iniziale era formata dai protoni e dagli elettroni, l’antimateria dagli antiprotoni e da quegli anti-elettroni che sono comunemente chiamati positroni.

Protoni e neutroni sono formati, a loro volta, di quark, ossia di particelle ancor più elementari. Lo stesso quark ha il suo antiquark. Sia il protone che il neutrone singolo sono costituiti da tre quark. La natura dei

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quark è distinta in sei generi, chiamati “sapori”, dai nomi un po’ singolari: “su”, “giù”, “strano”, “incantato”, “fondo” e “cima”. Un protone contiene due quark su e un quark giù, un neutrone due quark giù e uno su.

Si può dire che, a meno di un microsecondo (un milionesimo di secondo) dall’origine dell’universo, protoni e antiprotoni vi fossero presenti in quantità quasi uguali, con leggera prevalenza dei protoni: ad ogni miliardo di antiprotoni venivano a corrispondere un miliardo di protoni più uno. Un’analoga prevalenza delle particelle positive si ha nella dimensione più elementare dei quark: i quark superano di numero gli antiquark.

Quanto agli elettroni, questi erano strettamente associati ai fotoni, particelle di luce, manifestazione corpuscolare di onde elettromagnetiche. Il fotone che si sia imbattuto in un elettrone se ne può avvalere come di un veicolo per diffondersi. Ma, all’incirca nell’epoca in cui l’universo compie un milione di anni, l’assai maggiore estensione da esso raggiunta “consente agli elettroni e ai fotoni di liberarsi dalla reciproca assillante interazione. Solo a questo punto gli elettroni possono collocarsi in orbita attorno ai nuclei atomici, formando i primi atomi (in prevalenza di idrogeno e di elio), mentre i numerosissimi fotoni possono finalmente portare il loro messaggio luminoso, o più in generale elettromagnetico, per tutto l’universo, senza scontrarsi troppo frequentemente con elettroni o altre particelle materiali” (Mario Cavedon, La nuova storia

dell’universo, Fenice 2000, Milano 1994, p. 83). Fino ad allora l’universo era stato pervaso da una densa caligine. Ma, a

tutte le particelle esistenti di materia messe insieme, i fotoni stanno nella proporzione di un miliardo ad uno; e questo ci aiuta a immaginare con quale intensità il passaggio dei fotoni illuminasse l’universo all’improvviso: un vero fiat lux! È una luce che si venne, poi, ad attenuare, assorbita dalle persistenti nebbie di idrogeno e di elio.

Il costituirsi degli atomi è preceduto dal formarsi dei loro nuclei (nucleogenesi). Questo era possibile solo quando la temperatura fosse calata al disotto di un miliardo di gradi. È solo a questa condizione che protoni e neutroni possono iniziare a formare nuclei abbastanza saldi, da non potere essere immediatamente disgregati dall’urto con altre particelle. Ed è così che quasi tutti i neutroni potettero entrare a costituire nuclei di elio. I protoni rimasti liberi entrarono, invece, a formare i nuclei degli atomi di idrogeno.

Riprendendo a seguire il processo di abbassamento della temperatura dell’universo, perveniamo al punto in cui essa è scesa verso i tremila gradi Kelvin. Dire 3.000° K è come dire 3.000° della scala centigrada meno i 273 che corrispondono allo zero di questa, dove fonde il ghiaccio. È una temperatura sufficientemente “bassa” perché nuclei ed elettroni si possano

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associare formando gli atomi (Weinberg, p. 77). Con l’associarsi degli atomi nelle molecole si può dire costituita la materia.

Osserva Davies che “quando una regione dell’universo accumula materia, il suo effetto gravitazionale aumenta, ed essa attrae più materia in modo ancora più rapido; il processo tende perciò naturalmente ad assumere proporzioni sempre maggiori” (D., L’universo che fugge, cit., p. 57).

Steven Weinberg rileva che secondo un’opinione accettata pressocché universalmente l’espansione dell’universo “non è dovuta a una sorta di repulsione cosmica”, ma, come si è già visto, “è solo l’effetto delle velocità residue derivanti da un’esplosione verificatasi in passato”. Sono velocità che vanno gradualmente rallentando sotto l’influsso della gravitazione (W., p. 55).

La gravitazione influisce, non domina. Se prevalesse, l’espansione dell’universo verrebbe meno per cedere il luogo ad una generale contrazione, al riavvicinarsi delle galassie l’una all’altra e infine, al limite, al collasso di ciascuna stella, che verrebbe ad implodere, a cadere in se medesima, ponendo in essere un buco nero.

Ora, dice Hawking, “se sommiamo la massa di tutte le stelle che possiamo vedere nella nostra Galassia e in altre galassie, il totale che otteniamo è di meno di un centesimo della quantità che si richiede per arrestare l’espansione dell’universo” (H., p. 63).

È vero che, al di là di quel che si vede, rimane tanta “materia oscura”. Si designa con questo termine tutta la materia che dovrebbe esistere (se ne deduce l’esistenza, per esempio, considerando il moto delle stelle periferiche nelle galassie), ma non si vede.

Ad ogni modo, se pur sommiamo tutta la possibile materia oscura, “otteniamo solo un decimo circa della quantità di materia che si richiederebbe per arrestare l’espansione” (ivi).

Tornando ai primi atomi apparsi nell’universo, si può calcolare che fossero di elio per il sette per cento circa, e quasi tutti gli altri di idrogeno.

Elio e idrogeno vengono a formare dense nubi in continua espansione. La materia gassosa si fraziona come in tante isole: quelle che chiamiamo le protogalassie. E ciascuna di queste, ruotando intorno a se medesima, si addensa. La tendenza ad un sempre maggiore frazionamento in nuclei, ciascuno ruotante e gravitante a sé, genera le prime stelle dall’equilibrio instabile, destinate perloppiù a vita breve.

La nostra galassia comprende cento miliardi di stelle, tra cui il Sole. Ma, come osserva Hawking, “noi oggi sappiamo che la nostra galassia è solo una delle centinaia di milioni di galassie che possiamo osservare con i moderni telescopi (contenenti ciascuna qualche centinaio di milioni di stelle)…

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“Noi viviamo in una galassia – che chiamiamo semplicemente la Galassia – che ha un diametro di circa centomila anni-luce e che è impegnata in un lento movimento di rotazione; le stelle contenute nelle sue braccia di spirale orbitano attorno al suo centro, con un periodo di varie centinaia di milioni di anni.

“Il Sole è soltanto una comune stella gialla, di dimensioni medie, in prossimità del bordo interno di un braccio di spirale” (H., p. 53).

Come si forma una stella? Un’enorme sfera di gas idrogeno si contrae in se medesima. Ne consegue un graduale aumento della temperatura nella zona centrale. In circa cento milioni di anni la temperatura sale a vari milioni di gradi. La contrazione si arresta, il globo assume un volume costante. Dal processo di fusione nucleare che vi ha luogo irradia energia in modo regolare e continuo.

Quanto al nostro Sole, pare che esso abbia preso il suo avvio da una sfera di gas migliaia di volte maggiore rispetto alle sue dimensioni attuali, il cui volume corrispondeva all’incirca allo spazio occupato oggi dall’intero sistema planetario. Alla contrazione corrispondeva una rotazione di energia tale che, scrive Davies, “le regioni equatoriali del Protosole si disgregarono e proiettarono un disco di materiale, un po’ come le scintille lanciate tutto attorno da una girandola… Da questo disco rotante si formarono a quanto pare i pianeti” (D., L’universo che fugge, p. 68). Più alla periferia vennero a prendere forma pianeti leggeri ma di maggiori dimensioni; più verso il centro, pianeti costituiti da elementi più pesanti concentrati in dimensioni minori.

Ma riprendiamo la descrizione di Davies: “Il disco che circondava il Sole conteneva ogni sorta di materiali, i quali andarono lentamente condensandosi in planetoidi. Il gas, le polveri, le rocce e i detriti furono catturati in vortici turbolenti e dettero origine ad agglomerazioni di materiali sotto l’azione dell’attrazione di gravità. Gradualmente questi piccoli frammenti si fusero in corpi maggiori, che a loro volta si unirono formando i pianeti” (D., p. 69).

Rileva Pierre Teilhard de Chardin che la presenza dei pianeti nell’universo è un fatto estremamente raro e del tutto casuale. Solo le stelle visibili col telescopio sono, dice Teilhard nel 1945, quindicimila per dieci alla sesta potenza. Nel sistema di Laplace ogni stella, o quasi, doveva avere i suoi bravi pianeti, mentre, nel secolo XX, si ritiene piuttosto che la probabilità di avere pianeti sia di uno a centomila, secondo James Jeans, se non di uno a vari milioni, secondo la stima di Arthur Eddington.

Facendo propria un’ipotesi già accolta con favore da tanti astronomi, Teilhard immagina che abbia avuto luogo un grosso incidente fortuito: un’altra stella avrebbe potuto sfiorare il nostro Sole alla distanza minore di tre diametri e, agendo su di esso con la propria forza di attrazione, gli

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avrebbe strappato un lungo filamento fusiforme; questo, poi, si sarebbe frammentato in una sorta di rosario di globi separati, ruotanti attorno al Sole ad una serie di immense distanze.

“La formazione dei pianeti”, osserva Gratton, “e la loro evoluzione sono ancora oggetto di ipotesi assai vaghe… I dati che possediamo sui pianeti sono ancora piuttosto scarsi e si riferiscono ai pochi pianeti studiati appartenenti al nostro sistema solare” (G., p. 146). Mi pare che fino al giorno d’oggi se ne possa dire ben poco di più.

Ad ogni modo, quale che sia il valore dell’ipotesi fatta propria da Teilhard de Chardin, “noi rimaniamo confusi dinanzi alla rarità e all’Improbabilità di astri simili a questo che ci porta” (Oeuvres de P. T. de

Ch., VI, Éditions du Seuil, Paris, p. 142 e più in gen. 130-142). 3. La resistenza della materia e l’entropia

Prima di affrontare i temi della vita e della sua origine, giova fermare l’attenzione su certi caratteri che la materia, proprio come tale, presenta. In primo luogo è da notare che la materia, formata da energia, è definibile come energia concentrata e condensata.

La quantità di materia contenuta in un corpo, diciamo il suo grado di materialità, è quella che viene chiamata la sua massa. Più un corpo ha massa, più è – come, appunto, si dice – massiccio, più è denso, più è pesante, più è inerte, più si muove con difficoltà, più la sua velocità è limitata.

Quegli stessi meccanismi che operano a trasformare una pura energia in materia tendono, al limite, e sia pure in tempi lunghissimi, a distruggere la materia stessa.

L’energia del big bang pone l’universo in essere e gli dà sussistenza e vita. Ha, così, origine la materia attraverso un processo di condensazione, per cui ciascun corpo – quale che ne siano le dimensioni – acquista sempre maggiore densità e consistenza nella misura in cui gravita su se stesso.

Ora l’inerzia della materia frena la forza creativa di quello “slancio vitale” – come lo chiama Henri Bergson – che è all’origine e al fondamento di tutto. Si può dire, così, che lo stesso big bang vede sempre più ridotto il suo impulso espansivo.

Ecco, allora, che la gravitazione agisce in antitesi alla forza di espansione del big bang. Quando superasse certi limiti, potrebbe venire a connotarsi come una forza involutiva.

Se nessun’altra forza la bilanciasse, la gravitazione porterebbe ciascun corpo a cadere su se stesso, a implodere (che è il contrario dell’esplodere, cioè dell’espandersi). Via via che diviene sempre più denso, massiccio,

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inerte, via via che accentua la propria materialità, ciascun corpo aumenta anche il proprio disordine, perde energia e calore, fino a raggiungere, al limite, la propria “morte termica”. Il traguardo ultimo di un tale processo involutivo della materia ne è la disintegrazione.

Finirebbero per collassare gli stessi atomi: crollando ciascuno al proprio interno, si ridurrebbero a puri neutroni.

A questa tendenza a cadere, al limite, nella materialità bruta, opaca, informe vien dato il nome di entropia.

Ma altro è la materialità bruta, amorfa, degradata, entropica, altro è la materia come tale, che, come tra un momento si vedrà, è sinonimo di creatura.

Fin troppo sovente si è identificata la materia con la fisicità (per così chiamarla) contrapponendola allo spirito, così come un san Tommaso d’Aquino contrappone il corpo all’anima, un Cartesio la res cogitans alla res extensa.

Io sarei più per tornare ad una tradizione precedente, dove la sensibilità e mentalità primitivo-arcaica si continua e svolge e approfondisce, in forme pur diverse, nella maniera di vedere e sentire degli indù e degli ebrei della Bibbia: la materia non è pura estensione inerte, è bensì viva e animata; mentre lo stesso spirito può avere una sua “corporeità” ancorché “sottile”.

Perciò direi che puro Spirito è soltanto Dio, mentre non c’è creatura che non sia, in qualche modo, materiale. Direi: la materia è quel che individua la creatura, che la fa consistere in sé, che la rende diversa da ogni altra e sempre diversa anche da sé col divenire attraverso il tempo.

Creaturalità è materialità per definizione. Dio crea l’altro, il diverso da sé, per amore. Perciò la differenza e la molteplicità costituiscono la ricchezza dell’esistere. Dio certamente vuole che ciascuna creatura consista in sé, voglia distinguersi, voglia affermare la propria autonomia, sia compresa della propria dignità, ami se medesima ordinatamente, cioè infinitamente come lo stesso Dio la ama.

Fin qui la creatura si mantiene nella propria legge. Ne esce quando volge le spalle al Dio che la crea, quando si contiene come se Dio non ci fosse per nulla, quando fa di se stessa il proprio Dio e, finalizzandosi a se medesima, si auto-assolutizza.

Parafrasando l’apostolo Paolo (Rom. 6, 23), si potrebbe dire che tale è il “peccato” che, nelle dimensioni e nei termini della fisica, ha il suo “salario” nella “morte” dell’entropia.

Quanto alla materia in sé, non può non dirsi positiva. Essa è “buona” come tutto ciò che scaturisce dal divino Atto creativo. Un bell’esempio della positività della materia come tale lo troviamo nell’arte.

Suoni e colori sono materia, che la spiritualità dell’artista foggia e compone, esprimendosi proprio in quella materia: legno, ottone, fili

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metallici, o vernici e porcherie varie maleodoranti. Quali mezzi più brutamente materiali è possibile concepire?

Eppure il godimento estetico di un’opera si ha in presa diretta solo scomodandosi – facendo magari lunghi viaggi – per recarsi di persona dove quei materiali vengono digitati, soffiati e sbattuti ad arte da abili persone presenti sul luogo, o dove quelle “schifezze” sono state spalmate su una tela o su una parete intonacata.

Esaltiamo, dunque, lo Spirito senza omettere di ringraziare anche Sorella Materia, che si presta a fare il suo dovere ed alla fine, plasmata, abbellita, promossa a pura armonia, trasfigurata dallo Spirito, ne diviene parte integrante.

Nell’imperfetta condizione presente, un’entropia controllata può anche assolvere una sua funzione. Per fare un solo esempio, non è forse la gravitazione che mantiene unito e compatto il nostro pianeta nell’equilibrio generale di tutte le forze di gravitazione agenti nell’intero universo? Il brutto è quando l’entropia si mette a… strafare.

Al finale avvento del regno dei cieli, ogni materia sarà spiritualizzata in modo pieno e perfetto, ogni entropia verrà meno. 4. Entropia e sintropia

Che cos’è che impedisce la distruzione dell’universo, che cos’è che mantiene l’universo in vita e, anzi, lo fa evolvere? È la forza stessa del big bang iniziale.

Si può ipotizzare che tale impulso iniziale venga controbilanciato e, in questo senso, neutralizzato, in parte e contingentemente, dalle controforze entropiche.

E si può, ancora, pensare che quello slancio positivo si continui nel tempo, non solo, ma riveli possibilità di grado sempre più alto, per dar vita, man mano che se ne presentino le occasioni propizie, a forme di esistenza qualitativamente superiori in maniera crescente.

All’entropia viene, così, a contrapporsi quella che tanti designano col termine di entropia negativa. Luigi Fantappiè, avendone svolto brillantemente il concetto, preferisce chiamarla sintropia: denominazione meno macchinosa che anche a me piace di più.

Paul Davies osserva che, in opposizione alla seconda legge della termodinamica che stabilisce un costante aumento del disordine, “l’origine e l’evoluzione della vita costituiscono un esempio classico di ordine in aumento”. E ritiene che “non vi sarebbe ordine affatto se l’universo non fosse nato con una considerevole riserva di entropia negativa”, alias di sintropia (P. D., Dio e la nuova fisica, cit., pp. 96 e 231).

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Pare abbastanza evidente che l’universo, per ordinarsi, per vivere, per progredire, per ascendere alle espressioni più alte dell’essere e del valore, ha bisogno di alimentarsi a una riserva di sintropia. E non è detto che debba trattarsi di una riserva limitata. Mi sentirei di esprimerla, più che con l’immagine di una cisterna, con quella di una sorgente inesauribile.

Davies ad un certo punto si chiede se la realtà, nell’universo, di una riserva di entropia negativa non dimostri l’esistenza di un Dio creatore (ivi, p. 231).

Certo, volendo ampliare ed approfondire il discorso, potremmo identificare questo iniziale impulso con la stessa energia creativa, che pone in essere l’universo dal nulla e ne promuove l’evoluzione ad ogni stadio, attraverso forme sempre più complesse e tese al meglio, per un continuo superamento, verso la meta ultima di una totale perfezione.

Nell’identificare il big bang con lo stesso agire creativo di una Divinità, noi travalichiamo, chiaramente, i limiti dell’astronomia e della fisica, per porre il discorso cosmologico in una prospettiva religiosa.

In una visione religiosa si possono chiaramente distinguere forze positive e forze negative, identificando le prime con quanto prolunga la creatività divina e le seconde con quanto l’avversa, ostacolandola in tutte le maniere: in altre parole, chiamando le prime il Bene, le opposte il Male.

Quanto al Male, si è già accennato che non è affatto necessario definire così la materia in quanto materia. Negativa è la materia solo in quanto si degrada, si rende inerte e opaca, si finalizza a sé fino a implodere in se medesima.

A tale tendenza si oppone quella della Forza creativa, che tende non a sopprimere la materia, ma a spiritualizzarla. Così l’Energia creativa tende a riscattare la materia dalla sua degradazione, perché essa possa realizzarsi, proprio in quanto materia, secondo le sue migliori possibilità, che sono poi le possibilità stesse infinite di Dio.

Questa antitesi tra l’espansione creativa – diciamo sintropica – dello spirito e l’entropia della materia è chiaramente illustrata da Henri Bergson. Nella sua classica opera L’evoluzione creatrice il grande pensatore francese parla di una materia che resiste all’organizzazione. Nota che si rivela, nella materia, una sorta di inerzia, di resistenza la quale assume l’aspetto di un insieme di controforze. Tali controforze della materialità frenano lo “slancio vitale”, ne limitano la potenza, lo imprigionano.

Ecco l’idea di “un peso che cade”, di “una tensione che si interrompe”, di “una cosa che si disfa”, di “un gesto creatore che si disfa”, di “una realtà che si fa attraverso quella che si disfa” (H. B., L’évolution créatrice, 118ª ed., Presses Universitaires de France, Paris 1966, c. III, p. 246 e 248).

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Bergson propone anche l’immagine di un getto di vapore che sale, ma poi si condensa in tante goccioline che ricadono, mentre lo slancio creatore del getto si continua nella direzione originaria (ivi).

L’evoluzione dell’universo si continua attraverso quell’evoluzione della vita, che prende forma sul nostro pianeta.

5. L’origine della vita Come origina la vita? Secondo Emanuele Padoa, dai fenomeni fisico-

chimici della materia a quelli biologici si passa senza alcuna soluzione di continuità. Egli scrive che “dal punto di vista fisicochimico, molecolare, le strutture viventi ci si presentano, essenzialmente, come una associazione di proteine, che sono polimeri di aminoacidi, o, come anche si dice, catene polipeptidiche; e di acidi nucleici, polimeri di mononucleotidi, o catene polinucleotidiche” (Padoa, Storia della vita

sulla Terra, Feltrinelli, 3ª ed., Milano 1978, p. 15). Luigi Fantappiè e Giuseppe Arcidiacono rilevano che, all’opposto, “i

fenomeni della Vita, che potrebbero essere di tipo sintropico, non è stato possibile ridurli a puri fenomeni fisico-chimici” (G. A., Fantappiè e gli

universi, Il Fuoco, Roma 1986, p. 76). Così, poi, sviluppano quello che è, nel merito, il loro pensiero: fin

“nelle prime fasi di sviluppo dei viventi si ha una netta prevalenza dei fenomeni sintropici e quindi un continuo aumento dei processi di differenziazione della materia, che si organizza in tessuti ed organi. Tale estrema differenziazione all’interno delle molecole delle proteine ha una probabilità di formazione, dal punto di vista termodinamico [cioè dell’entropia], di 10 alla potenza di -600 circa ed è quindi praticamente impossibile”. Ne consegue che hanno natura sintropica non solo i fenomeni vitali in genere, ma la formazione stessa di una proteina (A., p. 86).

Sono fenomeni impossibili a spiegarsi in un contesto puramente fisico-chimico, di una causalità meramente entropica: “…La formazione di una singola molecola proteica ha una probabilità così piccola da risultare impossibile, anche se consideriamo un periodo dell’ordine dell’età dell’Universo. A maggior ragione diventa del tutto impossibile la formazione dei viventi, anche i più semplici, rimanendo entro lo schema causale” cioè nell’ambito della spiegazione deterministica (pp. 88-89).

Presupposto perché la vita possa trarre origine e svilupparsi, è che si formi un ambiente cosmico adeguato, che la possa ospitare: è che, cioè, il pianeta Terra assuma consistenza nelle condizioni favorevoli.

Nel 1953 Stanley Miller e Harold Urey, dell’università di Chicago, simularono in una pozza d’acqua le possibili condizioni della Terra di

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miliardi di anni fa e dopo alcuni giorni trovarono che vi si erano formate sostanze importanti per la vita.

“Si tratta di un risultato senza dubbio incoraggiante”, commenta Paul Davies, “ma che non ci autorizza affatto a concludere che un ‘brodo’ cosiffatto possa, lasciato a se stesso, generare spontaneamente la vita soltanto provando ogni combinazione chimica possibile anche per milioni e milioni di anni. Basta un semplice calcolo statistico per dimostrare che il DNA – la complessa molecola che reca impresso il codice genetico – ha scarsissime – o, meglio, infinitesimali – probabilità di costituirsi spontaneamente. Le combinazioni possibili sono così numerose che le probabilità di imbroccare per caso quella giusta sono praticamente zero” (D., Dio e la nuova fisica, p. 102).

Già, quando si è parlato dell’origine del sistema planetario, si sono visti i rilievi di Teilhard de Chardin. Ma ora, affrontando il tema della vita più in senso stretto, si può ricordare in proposito un dibattito che ha avuto luogo tra il filosofo Jean Guitton e due uomini di scienza, i fratelli Grichka e Igor Bogdanov ed è riportato in un volume dal titolo Dio e la

scienza (Bompiani, Milano 1997). Il tema è formulato nella domanda: “Quanto è probabile che, in una qualsiasi parte dell’universo, venga a generarsi, per puro caso, il fenomeno della vita?”

Guitton osserva che nell’evoluzione del cosmo la vita deve aprirsi un ben difficile varco tra mille ostacoli prima di potere emergere. Lo spazio vuoto è incredibilmente freddo. La sua temperatura scende a meno 273 gradi e in quell’istante il vivente anche più semplice rimarrebbe congelato. D’altra parte, all’estremo opposto, la materia delle stelle è così rovente che nessun vivente potrebbe resistervi. Nell’universo ci sono, infine, radiazioni e bombardamenti cosmici continui. Così l’universo “è la Siberia, è il Sahara, è Verdun”; esso “è come il freddo esteso all’infinito, il caldo esteso all’infinito, i bombardamenti ripetuti”.

Dal canto suo, Grichka Bogdanov muove da un esempio molto concreto. Egli premette che una cellula vivente è composta da una ventina di aminoacidi, i quali vengono a formare una catena compatta. Dice inoltre che, a propria volta, la funzione di questi aminoacidi dipende da circa duemila specifici enzimi. Ora, secondo i calcoli dei biologi, “la probabilità che un migliaio di enzimi differenti si raggruppino in modo ordinato fino a formare una cellula vivente (nel corso di un’evoluzione di diversi miliardi di anni) è dell’ordine di 10 alla millesima potenza contro uno”. Jean Guitton commenta: “È come dire che questa probabilità è nulla”.

E a questo punto Igor Bogdanov cita un’affermazione di Francis Crick, che ha conseguito il premio Nobel con la scoperta del DNA: “Un uomo qualsiasi, con tutto il bagaglio di conoscenze oggi a nostra disposizione, potrebbe affermare solo che l’origine della vita sembra allo stato presente

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appartenere all’ordine del miracolo, tante sono le condizioni che dovrebbero trovarsi riunite per poterla realizzare”.

Una volta formate, le primissime cellule dovevano riprodursi. Ora, dice Guitton, “il problema è... di sapere che cosa sia successo a questo stadio: come hanno fatto queste primissime cellule a inventare gli innumerevoli stratagemmi che hanno portato a questo prodigio: la riproduzione?”

La riproduzione delle cellule si effettua attraverso la trascrizione del famoso DNA in un RNA a singolo filamento. Ciascun filamento è una molecola composta di tanti nucleotidi di quattro tipi, di quattro sostanze diverse chiamate adenina, timina, guanina, citina, che in varia maniera si avvicendano.

Ecco, allora, un esempio che adduce Grischka Bogdanov. Lo riporto con le sue stesse parole: “Affinché la formazione dei nucleotidi portasse ‘per caso’ all’elaborazione di una molecola di RNA utilizzabile, sarebbe necessario che la natura moltiplicasse i tentativi a casaccio nello spazio di anni 10 alla quindicesima potenza, ossia per un tempo centomila volte più esteso dell’età complessiva del nostro universo”.

Grischka Bogdanov ci offre, poi un altro esempio: se l’oceano primitivo avesse posto in essere tutte le varianti suscettibili di venire elaborate ‘per caso’ a partire da una sola molecola contenente qualche centinaio di atomi, saremmo giunti alla costruzione di possibili varianti in numero maggiore di 10 alla ottantesima potenza. Ora è fuor di dubbio che gli stessi atomi contenuti nell’intero universo sono in numero minore.

Questa improbabilità estrema che il fenomeno della vita possa prodursi per caso, questo suo carattere “miracoloso” fa sì che sia ancor più improbabile che la vita pervenga per puro caso ad esprimersi in date forme precise: per esempio evolvendo fino a generare esseri umanoidi simili a quelli umani della terra e magari con gli stessi lineamenti, con i medesimi comportamenti e addirittura con vestiti di taglio analogo secondo l’idea che ci siamo fatti di una moda futuribile ricalcata un poco sulla presente.

Se registrabili in maniera obiettiva, gli UFO vanno certamente studiati come fenomeni. Come darne ragione? Non certo con una spiegazione casualistica la cui probabilità sia ridotta a misura infinitesimale: non certo con una ipotesi la cui probabilità infinitesimale confini con l’assoluta improbabilità. Ammesso che quei fenomeni si diano, bisognerà cercarne una spiegazione alternativa, psicologica o forse parapsicologica. Non mi addentro, qui, in un discorso che sarebbe fuori tema.

Tornando ad Emanuele Padoa, è chiaro che egli vede, al problema dell’origine della vita, una soluzione più facile in termini casualistici, deterministici e fisico-chimici. Della vita stessa cerca, poi, di spiegare l’evoluzione col mero principio della selezione naturale di Charles

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Darwin. Ai suoi occhi, tal genere di spiegazione è quella che meglio si accorda con le istanze di un puro metodo scientifico.

Padoa aderisce a tutta una tradizione, che, fin dal primo nascere della scienza moderna, persegue l’ideale di una spiegazione deterministica dei fenomeni, “senza evocare vitalismi e potenze arcane” (P., p. 334), senza scomodare entità metafisiche.

Bisogna ammettere che l’adozione di un tale postulato – che ogni accadimento di qualsiasi natura si possa spiegare, in ultima analisi, in termini fisici e chimici, anzi in termini meccanicistici – si è rivelata estremamente feconda in questi ultimi secoli. Essa ha fatto compiere alle scienze passi da gigante in un tempo relativamente brevissimo.

Senonché il meccanicismo si applica assai meglio alle scienze astronomiche, fisiche e chimiche – che sono state le prime a decollare – di quanto non si riveli idoneo ad una spiegazione soddisfacente dei fenomeni della vita. Meno ancora si dimostra atto a spiegare i fenomeni umani, dove la spontaneità emerge a consapevolezza e diviene libertà.

A partire dalla fine del secolo XIX ha preso forma tutto un movimento di critica della scienza, che ha posto ogni determinismo rigido, ogni spiegazione meccanicistica, seriamente in crisi.

Prescindendo da quel che è stato osservato nel merito degli stessi fenomeni fisici, posso qui riassumere, in pochissime parole, le conclusioni relative ai fenomeni della vita.

È stato posto in luce il fatto che i fenomeni biologici suggeriscono la realtà, in ogni essere vivente, di un intimo principio vitale che ne organizza la crescita, la nutrizione, la riproduzione e – soprattutto negli animali – il movimento, in maniera autonoma. Questo principio organizzante modella ciascun organo, assegnandogli – per così dire – una particolare funzione ai fini vitali dell’organismo intero.

Tutto questo appare abbastanza evidente, ma lo scienziato determinista non demorde: il suo ideale è di spiegare ogni fatto in termini meccanicistici; ed egli si sente come in dovere di procedere, malgrado tutto, in questa direzione.

“Così, e solo così”, afferma Padoa, “con mentalità naturalistica e storicistica, sostenuta dall’esigenza del metodo scientifico, si può superare quello che altrimenti ci appare uno stridente contrasto tra tale metodo decisamente deterministico, e una realtà biologica dove i fenomeni si

rivelano vistosamente finalistici, coi denti per masticare e gli occhi per vedere” (Padoa, p. 334, corsivi miei).

Si ha, qui, la netta impressione di trovarsi di fronte a chi sostiene ad oltranza una sua linea, malgrado ogni apparenza contraria. Un partito preso, ma anche, diciamolo, un’impresa disperata!

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6. Necessità di una critica del determinismo per poter giustificare in suo luogo un più ragionevole vitalismo

I darwinisti hanno, certo, ragione di sottolineare l’influsso

dell’ambiente e della lotta per sopravvivere sulla modificazione degli organismi, ma, a quanto pare, strafanno quando vogliono ridurre tutto a quella formula. È assai dubbio che l’intera evoluzione possa attribuirsi a quei fattori esterni, escludendo qualsiasi forza che operi dall’intimo di ciascun essere vivente.

In molti casi l’evoluzione procede in direzioni ben determinate, con precisione e continuità. Non è che vada ora avanti ora indietro, come ci si dovrebbe attendere se essa fosse attribuibile a modificazioni dell’ambiente o alla lotta per la vita.

Questa, che viene chiamata l’ortogenesi, è fenomeno spiegabile solo ammettendo che l’evoluzione sia dovuta in massima parte a fattori insiti nell’organismo che si evolve. Piero Leonardi esemplifica ricordando il progressivo sviluppo delle corna (o protuberanze ossee) nei rinoceronti e nei titanoteri (famiglia estinta di perissodattili) e la riduzione delle dita nella serie dei cavalli americani (P. L., L’evoluzione biologica e l’origine

dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1945, pp. 42 e 44). Bergson aveva proposto tre esempi particolarmente significativi. Uno è

quello dello scarabeo sitaris. Un altro insetto, una sorta di ape, l’antòfora scava gallerie sotterranee, nel cui profondo dimora. Il sitaris depone le uova all’entrata di una di queste gallerie.

Da ciascun uovo emerge una larva, la quale dopo lunga attesa percepisce che da lì sta per uscire un’antòfora maschio. Si attacca addosso a quell’insetto e lo segue nel volo nuziale, che gli consente di passare alla femmina. Attende, poi, che la femmina dell’antòfora deponga le proprie uova.

Così la larva salta su un uovo e se ne serve come di una base che le eviti di affondare nel miele. Divora l’uovo in pochi giorni e si installa nel suo guscio. Ciò gli consente di galleggiare sul miele e di nutrirsene. Si trasforma, così, in ninfa e alfine in insetto compiuto e adulto.

Osserva Bergson che tutto procede come se il sitaris fosse ben consapevole che la sua larva sa tutto quel che dovrà fare nel corso della propria odissea (B., c. II, p. 147; cfr. Wigglesworth, op. cit., pp. 102-103).

Vorrei, qui, aprire una parentesi, per dare cenno ad un possibile paragone con fenomeni non tanto diversi, che possono occorrere nello stesso regno vegetale. In quest’ambito, scrive Malcolm Wilkins, “nessun’altra funzione ha visto l’ingegneria botanica rivelarsi più delicata, precisa e geniale di quanto sia stata nel risolvere il problema vitale di assicurare l’impollinazione dei fiori. Trappole, trabocchetti, leve e molle

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sono impiegati per raccogliere il polline dal corpo degli insetti visitatori e per rimandare ogni inconsapevole ‘galeotto’ per la sua strada abbondantemente cosparso di polline” (Wilkins, I segreti delle piante, cit., p. 142; cfr. Wigglesworth, La vita degli insetti, cit., pp. 265-275).

È il caso dello stylidium. Ma ancor più curioso è l’esempio della dracaea, detta orchidea a martello: “Una parte del fiore contraffà l’odore della vespa femmina e, quando la vespa maschio arriva e tenta di accoppiarsi, i suoi movimenti liberano una leva, mantenuta sotto tensione, che catapulta l’insetto nel fiore. Da qui la vespa risale piuttosto frastornata e con i sacchi di polline saldamente aderenti al dorso” (Wilkins, p. 143).

Tornando a Bergson, un secondo esempio che il filosofo francese propone a sostegno dell’iniziativa autonoma che viene dall’intimo dell’essere vivente è quello di un altro insetto, il gastrophilus, altresì chiamato l’estro del cavallo. Questi depone le uova sulle zampe o sulle spalle del quadrupede che l’ospita, come se sapesse che l’equino, leccandosi, trasferirà la larva nel proprio stomaco, dove essa si svilupperà, per poi passare attraverso il tubo digerente ed essere infine evacuata (cfr. Wigglesworth, pp. 124 e 339).

Un terzo esempio bergsoniano è quello, alquanto crudele come già si accennava, dell’imenottero paralizzatore. Questo depone le uova nel corpo di un altro insetto – ragno, scarabeo o grillo – dopo che gli ha perforato particolari centri nervosi al fine di paralizzarlo senza ucciderlo. Così la vittima fornirà cibo fresco alla larva per tutto il tempo in cui ne avrà bisogno (cfr. Wigglesworth, pp. 124-125, 165-166, 226-227, 355).

A ribadire che è impossibile ridurre i fenomeni biologici a quelli fisici e chimici, il medesimo autore ricorda come l’occhio dei vertebrati si formi gradualmente attraverso l’evoluzione: “...Bisognerà, qui, supporre”, commenta Bergson, “che la fisico-chimica dell’organismo sia tale, che l’influenza della luce gli abbia fatto costruire una serie progressiva di apparecchi visivi, tutti estremamente complessi, e nondimeno tutti capaci di vedere, e di vedere sempre meglio”. E si chiede, a questo punto: “Che cosa direbbe di più, per caratterizzare questa fisico-chimica tutta speciale, il partigiano più risoluto della finalità?” (B., c. I, p. 75).

Bergson distingue una duplice maniera di agire, da parte dell’uomo e da parte della vita: l’uomo opera mediante strumenti, che si costruisce attraverso una serie di tentativi e di perfezionamenti guidati dall’intelligenza; la vita, invece, risolve i suoi problemi e crea i suoi strumenti ed evolve e ne crea di sempre meglio elaborati e adeguati in virtù di una ispirazione ben diversa: qui la guida è l’istinto.

In una tale prospettiva, se l’opera umana può definirsi di fabbricazione, l’agire della vita appare definibile come organizzazione. È tutta una terminologia bergsoniana.

Fabbricare è concepire un progetto, rivederlo, eventualmente

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modificarlo, e poi metterlo in opera costruendo i pezzi ad uno ad uno per poi montarli, e a lavoro ultimato collaudare il tutto, e, se qualcosa non va, apportare le debite correzioni e ricollaudare. Il fabbricare si articola in tutta una serie di operazioni parcellizzate.

L’organizzare, invece, è un’azione, per così dire, simultanea: “detto, fatto”; anzi, meglio ancora, “pensato, fatto!” Per Bergson “l’atto di organizzazione ha qualcosa di esplosivo” (B., c. I, p. 93).

Beninteso anche la vita procede per tentativi: si cerca a fatica una via e, se la trova sbarrata, ne cerca un’altra. Lo fa, però, non attraverso una successione di atti parcellizzati, ma per un’azione globale.

Si potrebbe svolgere un parallelo con quella che i parapsicologi, e ancor meglio i cultori della metapsichica intesa in un più senso tradizionale, ottocentesco, chiamano l’ideoplastia.

Il termine indica un principio che regola una vasta categoria di fenomeni: materializzazioni, soprattutto, ma non solo quelle; guarigioni prodigiose, stigmate e dermografismo, trasfigurazione, profumazione, luminosità, incombustibilità, invulnerabilità, levitazione, apporti e asporti, moltiplicazione del cibo, dominio degli elementi… insomma una complessa e varia azione plasmante che la psiche di un soggetto può esercitare direttamente sul corpo proprio, sul corpo altrui e sull’ambiente circostante.

L’ideoplastia si può così definire, in termini generali: un’idea si esprime attraverso un’azione plasmante. Si può dire che la vita, nel suo lavoro di “organizzazione”, agisce in maniera ideoplastica. Di analoga natura ideoplastica appare l’agire creativo divino.

Di natura ideoplastica appaiono le stesse mutazioni, cioè quelle brusche modificazioni del carattere di una specie che la fanno meglio sopravvivere ed evolvere.

Un classico esempio di mutazione, certamente attribuibile ad un’azione ideoplastica, è dato dal mimetismo. È un fenomeno che a certi animali consente di difendersi dai predatori adattando la colorazione o addirittura la forma del corpo all’ambiente, oppure assumendo un aspetto somigliante a quello di animali meno esposti a quei pericoli.

La perfezione che può essere raggiunta dal mimetismo ha dell’incredibile. Spiega Sir Vincent Wigglesworth: “Farfalle, bruchi, insetti-foglia… che assumono l’aspetto di foglie, non solo riproducono la colorazione e le nervature centrali e laterali delle foglie su cui normalmente si posano, ma anche le eventuali intaccature dei margini come se la foglia che imitano fosse rosicchiata da un bruco, o zone trasparenti come se fossero bucate. Anche altri difetti delle foglie, come macchie prodotte da funghi, possono sempre accuratamente essere imitati sia nella forma sia nel colore. In altri casi la copia della foglia può sembrare ricoperta di escrementi di uccelli. Nell’imitazione di una foglia

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morta, poi, le ali degli insetti spesso si presentano spiegazzate o arrotolate con i bordi sfrangiati in modo irregolare. Sovente essi simulano rami morti e ramoscelli spezzati…” (W., p. 157).

Ci sono, poi, insetti indifesi, i quali assumono l’aspetto di specie diverse che per difesa sono munite di veleno o emanano odori repellenti; ci sono insetti appetibili come cibo, che si mimetizzano da specie non commestibili, disgustose (W., 172-175, 274).

Scrive in proposito Lucien Cuénot che “la somiglianza mimetica non è certamente edificata dalla selezione graduale di piccole variazioni, producenti inizialmente una vaga analogia con una specie ben difesa, poi una somiglianza di più in più precisa: c’è, in proposito, una ragione perentoria, e cioè che l’analogia iniziale non avrebbe ingannato i predatori, agenti selettivi” (L. C., La Genèse des espèces animales, 3ª ed., 1932, cit. da Leonardi, p. 76).

Per onestà e… par condicio non posso trascurare di riferire come Wigglesworth replichi a qualsiasi obiezione del genere: il fenomeno del mimetismo non esclude affatto la possibilità che imitazioni tanto accurate siano prodotte da una selezione naturale che agisca su tante piccole variazioni occorse per caso: “Non è affatto necessario”, aggiunge l’entomologo inglese nel suo dichiarato darwinismo, “che una certa caratteristica fornisca una difesa assoluta e infallibile (o qualcosa di simile) perché la selezione naturale possa favorirne la sopravvivenza. Se esiste una probabilità su mille che un piccolo miglioramento ereditario nella sua struttura conduca alla sopravvivenza dell’individuo che lo possiede, ciò è sufficiente ad assicurare la diffusione di quel vantaggio nella popolazione” (W., p. 158).

Mi permetterei, a questo punto, di osservare che quegli stessi fenomeni di ideoplastia che qui sono del tutto ignorati, agiscono sovente proprio ad effetto immediato e globale, secondo il preciso schema dell’organizzazione bergsoniana.

Mi chiedo a che cosa possa essere dovuto, se non ad un’azione ideoplastica, la ricostituzione della coda della lucertola. Questa, allorché un nemico l’afferri per la coda, al fine di porsi in salvo può abbandonarla. Così la coda si viene a spezzare non tra una vertebra e l’altra, ma a metà di una di esse. Muscoli e pelle, dopo avere espulso i frammenti ossei, chiudono la ferita. E il moncone rigenera la parte mancante, anche se la coda nuova risulterà più corta e le scaglie più piccole (V. Lanka e Z. Vit, Rettili e Anfibi, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1986, p. 210).

Vorrei, ora, pregare lo scienziato di mentalità positivistica di sospendere, almeno per qualche momento, le proprie abitudini mentali, idiosincrasie e ripulse, per dedicare un po’ di attenzione a certi fenomeni chiamati paranormali: consideri le materializzazioni, che hanno luogo nelle sedute medianiche; o l’apparizione e sparizione delle stigmate, e

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consimili dermografismi; o, ancora, i fenomeni paramistici o semplicemente parapsichici, già accennati, di trasfigurazione, luminosità, profumazione, incombustibilità, levitazione, allungamento del corpo; o, infine, quanto avviene in una guarigione prodigiosa, che la si voglia considerare “miracolosa” o semplicemente “paranormale”.

Un’ampia documentazione sistematica di questi fatti si può trovare nel libro I miracoli della volontà di Edmond Duchâtel e René Warcollier, Casa Editrice Europa, Verona 1947. E anche nel volume La mente plasma

la materia, ne è autonoma e le sopravvive, che costituisce il numero 23 dei Quaderni della Speranza editi dal Convivio (Roma 2000) e curati da chi scrive.

L’operare autonomo di un principio vitale, diciamo pure di uno psichismo, e il suo diretto agire sulla stessa materia corporea, è un fatto indiscutibile che trova la sua conferma nello studio incrociato di una varietà innumerevole di fenomeni.

Il vitalismo riceve un pieno supporto nella parapsicologia, le cui risultanze non si possono più ignorare. È impossibile ridurre tutto questo a puri schemi deterministici. Ed è antiscientifico, se è vero che la scienza deve adeguarsi alla realtà sperimentale senza pregiudizi, non imponendo a priori un suo metodo ad ogni costo, ma adattando i metodi, via via, a tutto quel che può emergere da esperienze anche nuove e insospettate.

7. È, d’altra parte, necessaria anche una critica del finalismo radicale

“Evoluzione significa sempre progresso?” si chiede Padoa. Certo, si

risponde, l’evoluzione autentica è sviluppo in tante direzioni diverse. L’evoluzione si ha quando gli esseri viventi si strutturano in forme sempre più complesse, per affrontare sempre più complesse condizioni ecologiche e sfruttarle più efficacemente (Padoa, p. 331).

Il paleontologo dell’università di Firenze propone alcuni esempi di progresso. I vertebrati emergono dalle acque per invadere le terre emerse, e questo impone loro tanti nuovi problemi, che essi risolvono aumentando la loro complessità anatomica e funzionale.

Così, nello svincolarsi completamente dall’acqua, i rettili han dovuto avvolgere l’embrione in un involucro semipermeabile contenente liquido amniotico. Inoltre, per assorbire ossigeno dall’aria, si sono dotati di muscoli respiratori intercostali con presenza di molti vasi sanguigni.

Si può notare, per inciso, che, essendo i primi animali ad uscire dall’acqua, gli anfibi sono i primi ad avere arti pari per potersi muovere nella terraferma. E anche una pelle sottile, importante per la respirazione cutanea, perché abbondantemente irrorata da vasi sanguigni, che ricevono

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l’ossigeno assorbito sia dall’acqua che dall’aria. Poi gli ossicini per l’udito e gli occhi con palpebre e ghiandole e canali lacrimali. Infine il cosiddetto organo di Jacobson, che funziona così: sporgendosi al di fuori della bocca, la lingua raccoglie odori dall’ambiente e quindi, ritirandosi, li comunica al palato, dove appunto hanno preso forma recettori olfattivi.

Dal canto loro i rettili hanno pure quattro zampe, salvo che si atrofizzino nell’evoluzione ulteriore di varie specie fino alla completa scomparsa nei serpenti. Essi dispongono per la prima volta di veri e propri reni, di una pelle asciutta e forte che salva il corpo dalla disidratazione, di uno scheletro quasi interamente osseo che ben delimita regione cervicale e gabbia toracica, di un cranio completamente osseo. Dal cervello dei rettili si dipartono dodici nervi cranici. Nell’occhio del rettile, l’accomodamento della vista avviene mediante le variazioni della forma del cristallino. La respirazione per branchie è del tutto superata. La stessa fecondazione ha luogo secondo modalità incomparabilmente più perfezionate che negli anfibi (V. Lanka e Z. Vít, Rettili e Anfibi, cit., pp. 5-14 e 212-216).

Tornando a Padoa, questi poi rileva che uccelli e mammiferi si son dovuti rendere più indipendenti dalle vicissitudini climatiche. Prima di loro nella scala evolutiva, gli anfibi sono eterotermi: la loro temperatura corporea dipende dalla temperatura dell’ambiente esterno. Per contro uccelli e mammiferi han dovuto mettere a punto l’omeotermia, una temperatura più accettabile di quella ambientale, sviluppando, fra l’altro, un rivestimento cutaneo e complessi meccanismi per la regolazione vasomotoria (Padoa, p. 331).

Si sono, poi, venuti a stabilire autentici rapporti di collaborazione tra gli organismi più diversi: ad esempio, tra piante ed animali erbivori per diffondere i semi; o tra piante a fiori e insetti impollinatori. Finalmente l’acme evolutivo si realizza con l’ultimo venuto, l’uomo (Padoa, pp. 331-332).

Per Davies la vita è un insieme di fenomeni di ordine e complessità crescenti. Ma egli nota che già prima che la vita si manifesti si danno, nella stessa natura inorganica, strutture di una complessità che in qualche modo prelude a quella delle forme viventi.

Propone, come esempio, la formazione dei cristalli. Ma anche il generarsi dei vortici in un fluido, i quali possono assumere forme a spirale anche molto elaborate, quanto decorative. L’astronomia ci offre fenomeni come gli anelli di Saturno; o, ancora, la strana configurazione che assume la superficie di Giove, come se la sua atmosfera in qualche modo si autorganizzasse.

Si può fermare l’attenzione, osserva sempre Davies, su altri due fatti, di ordine più generale: la materia risulta distribuita uniformemente in ogni parte del cosmo; l’universo si espande ovunque alla medesima velocità.

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Tirando le somme: “Se si opta per lo scenario del ‘big bang’, sembrerebbe inevitabile concludere che l’universo è esploso in modo improbabilmente ordinato: una creazione casuale avrebbe comportato, con tutta probabilità e praticamente con certezza, un universo completamente disordinato” (D., Dio e la nuova fisica, p. 235).

Davies conclude che, tutto considerato, “si può argomentare che le coincidenze numeriche stanno a testimoniare dell’esistenza di un’intenzione, di un progetto, di un disegno; in tal caso la delicata armonia tra i valori delle costanti, indispensabile affinché le varie branche della fisica possano concordare così felicemente, può attribuirsi a Dio” (ivi, p. 262).

Tutto questo non deve ingannarci al punto da indurci a pensare che, ai fini evolutivi, ogni fenomeno, ogni condizione, ogni specie, ogni singolo esistente sia stato preordinato e programmato da un piano provvidenziale onnicomprensivo. Non meno del meccanicismo radicale, Bergson critica il finalismo radicale. Egli propone una terza via, una soluzione intermedia, che nella sostanza ben corrisponde a quello che, come si vedrà, sarà anche la conclusione del presente saggio.

Invero non tutto è evoluzione: ci sono anche frequenti regressi. Nota Leonardi che, se nella maggior parte dei casi l’evoluzione è progressiva, non mancano esempi eloquentissimi di evoluzione regressiva. Aggiunge che tra le forme variabili ve ne sono molte che, arrivate ad un certo stadio evolutivo, si stabilizzano al livello raggiunto e non procedono più oltre (L., 91-92).

Osserva Padoa che oggi, dopo un’evoluzione durata un centinaio di milioni di anni, la maggioranza dei mammiferi ha raggiunto forme armoniche. Però negli stadi iniziali sono comparse anche molte forme male aggiustate, che non sono sopravvissute alla selezione naturale (P., p. 271).

Può accadere che, nello svolgersi di un phylum evolutivo, un carattere che progressivamente si è andato affermando adattandosi meglio, alla fine si esasperi, col risultato di diventare dannoso, o, come si dice, disgenico, ipertelico (P., p. 321).

Esempi di ipertelia, sovente citati, che il medesimo autore menziona sono quelli di due specie estinte: cervi dalle corna di enorme ampiezza (Megaloceros), e le “tigri dai denti a sciabola” (Smilodon) dotate di canini superiori lunghissimi. Si possono trovare altri buoni esempi, nelle specie preistoriche, in particolare tra i dinosauri, i mammiferi sdentati e i rinocerontidi: tutti animali condannati all’estinzione dalla mole raggiunta, invero eccessiva (P., pp. 249, 288, 321).

“Un carattere che da adattativo divenga disgenico rappresenta”, osserva Padoa, “un fenomeno inspiegabile in termini di finalismo, ma sembra fornire ancora una prova eccellente di evoluzione ineluttabile per cieche

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cause interne. Gli ortoevoluzionisti parlano allora di ipertelia, come di un’evoluzione che va oltre il segno, quasi non si possa arrestare al punto giusto” (Padoa, p. 323).

“Le vecchie idee”, scrive Robert Clark, “secondo le quali l’evoluzione è un processo inevitabilmente progressivo, devono essere riesaminate: modificazioni strutturali inizialmente favorevoli si sono rivelate come passi falsi a più lunga scadenza.

“L’evoluzione dei gasteropodi, per esempio, sembra dedicata in gran parte a superare gli effetti dovuti alla torsione della massa viscerale sul piede”. Si tratta della torsione cui è dovuta la struttura elicoidale della conchiglia del gasteropodo. Il caso più evidente e noto è quello della chiocciola.

Un altro esempio addotto da Clark riguarda gli echinodermi. Per farsi capire dal profano: le stelle di mare, e innumerevoli altre specie marine di invertebrati. Ebbene “gli echinodermi attuali sono particolarmente interessanti per essere ritornati a condurre vita libera dopo essere riusciti ad adattarsi a una esistenza sedentaria” (C., “Strutture e adattamento” ne Gli invertebrati, di aa. vv., tr. it., Garzanti, Milano 1982, p. 79).

Bergson aveva rilevato che, invero, una tendenza a deviare dalla direzione evolutiva è presente in ciascuna specie vivente. Se ciascuna specie agisse in tale direzione in modo esclusivo, tenderebbe a evolvere di continuo verso forme superiori di vita. Però il più spesso questo movimento evolutivo devia e si arresta. Così “quello che non doveva essere altro che un luogo di passaggio è divenuto il termine” (B., c. II, p. 130).

Lo slancio vitale che percorre tutte le specie dal basso all’alto verso sempre maggiori altezze e mete ulteriori è tutto un solo sforzo immenso di portata universale. Ma è una tensione che il più spesso devia, fino ad assumere la direzione contraria.

Come si spiega un tale dietro front? Ci sono forze che, opponendosi allo slancio ascensionale, a volte lo paralizzano. Altre volte, invece, l’impulso è distratto dal tendere oltre proprio da quel che esso realizza nell’atto di prendere una data forma. Qui lo slancio vitale viene come assorbito dalla forma che è intento ad assumere e in certo modo vi rimane ipnotizzato come su uno specchio.

È un moto involutivo che noi umani possiamo sperimentare in noi medesimi. Non è difficile notare come la nostra stessa libertà crei abitudini, che poi rischieranno di soffocarla, ove essa non tenda costantemente a rinnovarsi, a superarsi.

Così, conclude Bergson, “il pensiero più vivo si raggelerà nella formula che l’esprime. La parola si rivolta contro l’idea. La lettera uccide lo spirito. E il nostro più ardente entusiasmo, allorché si esteriorizza nell’azione, si raggela a volte così naturalmente in freddo calcolo

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d’interesse o di vanità; ed è così facile che l’uno adotti la forma dell’altro, che noi potremmo confonderli assieme, dubitare della nostra sincerità, negare la bontà e l’amore, se non sapessimo che la morte conserva per qualche tempo l’aspetto del vivente” (c. II, p. 128). 8. Creazione non è “colpo di bacchetta magica” ma lungo laborioso processo e strenua lotta contro ogni forza antievolutiva

Solo per formulare il titolo in più brevi parole, vi si è detto che la creazione non è colpo di bacchetta magica. Ora, però, conviene mettere subito da parte i maghi con le loro bacchette, poiché l’idea del creare divino è stata espressa tradizionalmente in maniera assai più appropriata con la parola fiat: Fiat lux! Et lux fuit (Gen. 1, 3).

Ora però, a questo punto, per quanto parola e idea siano convalidate da una tradizione antica e venerabile, è necessario precisare che la creazione non è, propriamente, un fiat in quel senso. Non è un semplice atto di imperio, dal quale ogni cosa scaturisca, all’istante, così come è programmata da un piano divino.

Ben diversamente, la creazione è un processo cui concorrono, e in seno al quale contrastano, tante forze diverse e a volte opposte: è un processo lungo, laborioso, difficile, proprio a motivo dei contrasti che deve superare via via prima di poter vedere la propria attuazione compiuta.

Nella prospettiva di Bergson, che si rivela qui di interesse particolarissimo, la controforza della materialità contrasta la forza della vita, ma senza neutralizzarla mai del tutto: poiché la vita preme con tutta la sua creatività, con tutta la sua inventività, e ottiene sempre qualcosa di più, a poco a poco, malgrado tutto. Attraverso un lungo travaglio – che comporta il superamento di ostacoli, arresti, regressioni, accidenti d’ogni genere – la vita migliora via via le sue posizioni (B., c. III, p. 250).

Tante volte gli ostacoli che la materialità bruta oppone alle forze della vita vanno opportunamente aggirati: e “la vita pare esserci riuscita a forza di umiltà, facendosi molto piccola e molto insinuante, procedendo per vie traverse con le forze fisiche e chimiche, accettando di compiere con esse una parte del cammino...” (c. II, pp. 99-100).

In mezzo agli ostacoli opposti dalla materialità, attraverso la sua resistenza, opacità e inerzia, la vita si traccia un cammino con grande fatica. E il senso di tutto questo lavorio è ben reso nel brano bergsoniano che segue: “La vita in generale è la mobilità stessa; le manifestazioni particolari della vita non accettano tale mobilità che a malincuore e segnano su di essa un costante ritardo.

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“L’evoluzione in generale tende il più possibile ad attuarsi in linea retta; ciascuna evoluzione speciale è un processo circolare. Come i mulinelli di polvere sollevati dal vento che passa, i viventi ruotano su se medesimi, sospesi al gran soffio della vita. Sono, dunque, relativamente stabili, e contraffanno l’immobilità al punto che noi vediamo in essi delle cose più che dei progressi, dimenticando che la stessa permanenza della loro forma altro non è che il disegno di un movimento. Nondimeno a volte si materializza ai nostri occhi, in una fuggevole apparizione, il soffio invisibile che li porta.

“Noi riceviamo questa improvvisa illuminazione dinanzi a certe forme di un amore materno così sorprendente, così commovente, che si esprime anche nella maggior parte degli animali e si può rilevare perfino nella sollecitudine della pianta per il suo seme.

“Quest’amore, nel quale c’è chi ha scorto il grande mistero della vita, è tale, forse, da svelarne il segreto. Esso ci mostra ciascuna generazione protesa verso quella che la seguirà. Ci lascia intravedere che l’essere vivente è soprattutto un luogo di passaggio, e che l’essenziale della vita consiste nel movimento che la trasmette” (B., c. II, pp. 128-129).

Come si è visto finora, lo slancio vitale da cui ha origine e svolgimento l’universo appare limitato da altre forze, che agiscono anche in direzione opposta. Lo slancio creativo è la forza fondamentale che muove da una posizione di partenza assoluta, ma si fa relativa. Come si diceva fin dall’inizio, la creazione, che è posta in essere a poco a poco, appare definibile, in termini fisici, come la risultante di un parallelogramma di forze. O, meglio, di un poligono di forze, invero assai complesso.

La Forza creativa, lo slancio vitale bergsoniano, appare una di queste forze in gioco. Le sue possibilità sono limitate, per il momento. Ma la situazione è destinata a divenire via via più favorevole man mano che l’evoluzione si realizza.

Quella che è, in atto, la limitatezza della Forza creativa sembra comportare una relativa impotenza. Si tratta, comunque, di una condizione temporanea. Non è, quindi, per nulla da escludere che a poco a poco lo slancio vitale possa pervenire a trionfare di tutto, per alfine attuare la creazione in pieno fino alla sua compiutezza perfettiva. In linea di principio nulla esclude che uno slancio vitale così concepito possa, in ultima analisi, venire assimilato alla manifestazione di un Assoluto, di un Dio.

Un tal Dio, infinito, onnipotente in sé, potrebbe essere limitato e, al limite, crocifisso nella sua manifestazione terrena, cosmica e storica. La situazione contingente attuale vedrebbe la kénosis (cioè lo “svuotamento”, lo spogliamento) di questo Dio nella sua condizione incarnata nel mondo. Il peccato delle creature può, al limite, perfino uccidere la presenza del Dio incarnato, destinato comunque a risorgere e a trionfare all’ultimo.

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È nel finale trionfo del Dio incarnato che consiste la sua onnipotenza: la quale invece, riferita alla sfera della finitezza e della temporalità, per il momento appare onnipotenza solo in potenza (se si può dir così), non ancora in atto.

Viene, qui, spontaneo il raffronto tra due prospettive che, a questo punto, rimangono certo di natura e livello diversi, ma cominciano a rivelarsi compatibili e integrabili.

Si tratta, da un lato, della visione filosofica bergsoniana, e, in maniera più specifica, di come Bergson ricostruisce la genesi, dallo stesso slancio vitale, del moto involutivo che lo raffrena e combatte.

Il secondo termine è la visione religiosa che si esprime nella Bibbia: e, più in dettaglio, di come la tradizione ebraico-cristiana caratterizza il peccato originale.

In entrambe le prospettive è sempre lo spirito che si materializza, quando al di là del conveniente si concentra in sé e nel suo “particulare”.

Profondamente vero e giusto appare, in una tale prospettiva, il detto di Gesù: “Chi vuol salvare la sua vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per causa mia [cioè per una esigenza superiore, per un imperativo divino] la salverà” (Lc. 9, 24).

Bergson non ha ambizioni teologiche, e nemmeno metafisiche nel senso stretto. Il suo discorso può rivelarsi, nondimeno, compatibile con una certa teologia o metafisica. Può ad essa corrispondere, in certo modo, come un frammento ad un altro di un medesimo disegno. Al limite, le può fornire elementi a conferma.

Di fatto Bergson offre spunti di estremo interesse per un discorso che altri possano portare avanti, ovviamente a nome proprio, fino ad esiti metafisico-teologici di cui si è già data una prima idea.

Muovendo da Bergson e svolgendo la sua tematica al di là dei limiti in cui egli stesso l’ha intesa circoscrivere, potremmo svolgere queste ipotesi che seguono.

Io sono ben convinto che lo slancio vitale di cui parla Bergson, chiarito e approfondito al meglio nel suo concetto, sia identificabile con quell’azione stessa di Dio, attraverso lo spazio e il tempo, che porta avanti la creazione dell’universo fino al suo “punto omega”, fino al suo compimento perfettivo.

In contrasto con questa direttrice evolutiva verrebbero a prendere consistenza controforze, tendenti, invece, a realizzare ciascun essere o specie in quanto fine a sé. Ora, lo si è ben visto, Bergson ci dà un’idea abbastanza chiara di come un tale processo pare attuarsi, almeno nelle sue linee più essenziali.

Alla fenomenologia di Bergson noi siamo ben liberi di applicare una nostra interpretazione, dicevamo, di livello metafisico-teologico. Possiamo chiederci da dove tragga origine, in linea di principio, questo

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ripiegarsi di un essere su di sé. Possiamo anche stabilire un raffronto tra un tale ripiegamento su di sé e quel peccato, che è definibile come il finalizzarsi della creatura a sé, non più a Dio, ed è altresì definibile come una tendenza a vivere di sé e per sé quasi che Dio non esistesse.

Se questa è l’essenza del peccato, la morte è il suo “salario”, come dice Paolo (Rom. 6, 23; cfr. Giac. 1, 15), dal momento che il peccato isola l’individuo da quel Dio che è la Sorgente del suo essere e lo condanna all’aridità e, al limite, alla morte. Ci può anche essere un vivere come già morti: ne riecheggia l’idea lo stesso Bergson quando, nel brano citato poco più sopra, accenna a una “morte che conserva per qualche tempo ancora l’aspetto del vivente”.

Ci si può chiedere, allora, se un atteggiamento di peccato non stia alla base, oltre che della cristallizzazione delle tante diverse forme di vita, anche della cristallizzazione dello spirito nella materia.

Ma possiamo davvero far derivare ogni male dal peccato originale degli uomini? Come già si accennava, nell’evoluzione della vita gli uomini sono veramente gli ultimi arrivati.

Consideriamo, ora, la lotta per la sopravvivenza, che impegna i viventi da milioni e milioni di anni.

Consideriamo i contrasti, le innumerevoli astuzie, la lotta spietata, al limite la ferocia, la crudeltà con cui la singola specie si difende e cerca di sopraffare le altre.

Fermiamo l’attenzione su come ciascuna specie tende a moltiplicarsi, a diffondersi fino a stabilire una sorta di imperialismo.

Riflettiamo, ancora, su come ciascuna specie, che è posta in essere dall’evoluzione, a un certo punto paia come dimenticare le finalità evolutive e si finalizzi a sé, a quel che essa è in atto: vi rileveremo quella che si può definire, in certo modo, una tendenza ad auto-assolutizzarsi.

Se accediamo all’idea di definire tutto questo in termini di peccato e di male, possiamo concludere che il peccato e il male esistevano già da un bel pezzo prima dell’avvento dell’uomo. Esistevano, almeno, come tendenza: irrefrenabile, invero, perché necessitata da tutta una generale condizione di vita.

Può essere giusto far risalire molti mali al peccato dell’uomo, a motivo della grande responsabilità che gli è attribuita nella sua qualità di amministratore della creazione. Si pensi ai formidabili guasti ecologici che possono derivare dallo sfruttamento senza limiti delle risorse della Terra. Possono perfino condurre alla distruzione del pianeta. Sono attribuibili, in ultima analisi, ad un atteggiamento umano di rapacità, di avidità, di egoismo senza limiti, dunque di peccato. Il concetto paolino, poco fa richiamato, che salario del peccato è la stessa morte trova qui la sua conferma più tangibile.

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All’origine di tutto questo si potrebbe collocare un atteggiamento di peccato adottato, prima ancora che dagli uomini, da esseri che li precedono: da esseri, anche questi, necessariamente spirituali.

In vari suoi passaggi (p. es. Is. 14, 12-15; Ez. 28, 2; 28, 12-18; 31, 9-14; Sap. 1, 13-14; 2, 23-24; Gv. 8, 42-47; Ef. 6, 11-12; 2 Pt. 2, 4; 1 Gv. 3, 8; Ap. 12, 7-9; 20, 13) la Bibbia suggerisce, in maniera più o meno diretta o indiretta, ma con sufficiente forza, che il peccato dei primi uomini è preceduto da un peccato commesso da angeli, cioè da esseri puramente spirituali, la cui creazione, ammesso che si verificasse, ovviamente non potrebbe non precedere quella del mondo della materia quale oggi si presenta in atto.

Abbiamo considerato quella tendenza alla materialità, che in certo modo si oppone alla forza creativa-evolutiva. È quanto può indurci a stabilire un’equazione tra la tendenza ad assolutizzare la materialità e la tendenza ad assolutizzare se stessi, cioè il peccato.

Assolutizzare la materia è cosa ben diversa dal semplice porla in essere. Così l’assolutizzazione di se medesimo, il fare di se medesimo un idolo, un falso assoluto, è cosa ben diversa.

Di materia è formato qualsiasi esistente. Si sono definiti gli angeli “esseri puramente spirituali”, ma chiamarli così non è del tutto esatto e rigoroso. A pieno rigore, puro spirito è solo Dio. Lo stesso angelo è, a suo modo, formato di materia, per quanto sottile.

La materialità è positiva. La creazione è sempre, in qualche maniera, a qualche livello, creazione di materia. La creazione, come tale, pone in essere tanti singoli, diversi l’uno dall’altro. Una tale molteplicità è ricchezza. Ciascun singolo è, poi, chiamato a realizzarsi al massimo delle proprie possibilità.

È, invece, negativa l’assolutizzazione della materia: è negativa la materializzazione fine a se medesima, attuata senza remora né freno.

Così come è negativa non certo l’individualità, ma la sua inflazione. Nell’individuo è negativo il suo porre se medesimo, la propria natura empirica, al centro. Dell’individuo empirico è negativo il suo farsi fine a sé.

Dal punto di vista religioso si può parlare, qui, di un atteggiamento di peccato. È un peccato il cui “salario” è la morte, come più volte si è accennato, in quanto comporta un distacco dalla Sorgente della vita.

Dal canto suo la cosmologia ci fa vedere come un eccessivo ed esclusivo concentrarsi della materia in sé porti alla sua implosione, quindi alla “morte” della materia stessa.

Passando al complesso fenomeno della vita, si possono rilevare i tanti e diversi casi di specie viventi, che, per un eccessivo concentrarsi e finalizzarsi in se medesime, cessano di evolvere e si condannano, anzi, a rimanere tagliate fuori da ogni evoluzione.

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Quando si parla di materialità, bisogna discernere, di questa parola, due distinti significati.

C’è una materialità che appartiene e conviene alla creatura come tale. Ne è il principio di individuazione. È quella materialità che fa, di ciascuna creatura, un individuo; e ciascuna creatura fa singolare, irripetibile, diversa da qualsiasi altra.

C’è, poi, quella materialità che tende a realizzarsi in eccesso, oltre ogni limite. Meglio che di materialità tout court, converrebbe qui parlare di materialità bruta, refrattaria, degradata, inerte, priva d’anima.

Può darsi che all’auto-assolutizzarsi di tanti esistenti (comportante quelle conseguenze negative) corrisponda, sul piano dell’invisibile, l’auto-assolutizzarsi delle forze angeliche. Può darsi che derivino proprio da qui le forze che operano in direzione antievolutiva, anti-creativa.

Si è visto come, in concreto, la forza creativa sia temporaneamente neutralizzata da quelle energie negative, sì che essa porta avanti l’evoluzione solo per gradi superando man mano ogni difficoltà attraverso una lunga fatica.

Ciò significa che la Divinità stessa – non, beninteso, nella sua assolutezza, ma nella sua manifestazione – è come prigioniera, è crocifissa dalle forze antievolutive, diciamo pure demoniache, del Male.

Ciò significa che Dio stesso, in quanto si manifesta nell’universo, in quanto vi si incarna, è relativamente impotente. Come si diceva, Dio è onnipotente solo in potenza, non in atto. La vittoria finale è sua, ma in atto Egli è impegnato in una dura guerra, stretto da forze avverse, crocifisso dalle sue stesse creature. Riusciamo noi, almeno qualche volta, a ricordare che il cristianesimo è la religione apparentemente assurda e scandalosa di un Dio crocifisso?

9. Nondimeno il processo creativo-evolutivo coronato dall’avvento dell’uomo avrà il suo compimento con la finale vittoria del regno di Dio

Dire che Dio è onnipotente significa affermare che Egli, infinito,

trionferà alfine di ogni ostacolo. “Le porte degli inferi non prevarranno” (Mt. 16, 18), in ultima analisi, per quanto nella situazione attuale il regno di Dio non sia di questo mondo, ma solo presente in germe.

Il regno di Dio è come un granello di senapa: è un germe che diverrà, sì, alla fine, una grande pianta immensa onnivadente, ma oggi è ancora alle prime fasi di crescenza e di sviluppo (cfr. Mt. 13, 31-32).

Si è visto come l’evoluzione procede. Non è, certo, lo spettacolo di un Dio il quale realizzi tutto quel che vuole quando vuole a suo totale

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piacimento. Malgrado l’infinito amore che possa nutrire per la sua creazione e in particolare per gli uomini, nessun Dio interviene a lenire gli orrori, i mali intollerabili di cui l’esistenza è piena.

Non si tratta solo dei mali che gli uomini procurano a se medesimi, diciamo per colpa loro. Si tratta anche, in gran parte, delle sofferenze che ci infligge la natura stessa con i suoi uragani e terremoti, con le sue inondazioni, con le sue eruzioni vulcaniche, col diffondersi delle più crudeli malattie.

È vero che ci sono i cosiddetti miracoli. Il loro chiaro significato è di anticipare quella che sarà la condizione ultima del mondo e degli uomini, allorché Dio sarà “tutto in tutti” in una creazione compiutamente rigenerata, che avrà raggiunto, in quel finale esito, la sua totale perfezione.

Si dice che, nel compiere i miracoli, Dio sospenda le leggi della natura. Appaiono come sospese, propriamente, le leggi della fisica, della chimica, della biologia quali vigono nelle situazioni diciamo “normali” e “ordinarie”.

Ma sospese in che senso, in che maniera? Intervengono, qui, fenomeni paranormali, che operano sullo stesso piano fisico, ma agiscono da un ambito più sottile, più sostanziale e fondamentale. Così facendo non aboliscono affatto, nemmeno temporaneamente, le leggi della natura, poiché il paranormale fa parte della natura anch’esso, ad una maggiore profondità. Quindi sospendere il corso ordinario dei fenomeni va inteso come un agire su di esso da una dimensione interiore.

Il miracolo è manifestazione di grande potenza, non c’è dubbio, ma non precisamente di onnipotenza. È, sì, un segno della divina onnipotenza che dominerà alla fine; ma ne è un segno limitato, una primizia o caparra assai relativa. Di fatto, se lo si osserva con attenzione e con adeguata conoscenza dei fenomeni paranormali, il miracolo pare, con tutta evidenza, svolgersi nella stessa linea di quei fenomeni e secondo le loro leggi.

Non tutto può avvenire in un miracolo: nessuna gamba è mai rispuntata ad un uomo né in tutta la Bibbia né a Lourdes. Si sono, comunque, verificati fatti veramente prodigiosi, però sempre nell’ambito delle leggi che la parapsicologia è chiamata a studiare con ogni debita attenzione.

Per quanto mirabile, nel miracolo lo stesso prodigio opera per gradi: e se pur va oltre le possibilità del normale e dell’ordinario, si tratta di un “oltre” relativo.

Così nell’evoluzione possono verificarsi, all’improvviso, “mutazioni” di entità ragguardevole, ma pur sempre limitata: sicché si può dire che l’evoluzione stessa procede per gradi, con grande e continuo sforzo e travaglio.

Se, come si dice, “la natura non fa salti”, qualcosa di simile può certamente dirsi dell’evoluzione.

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Allorché ci troviamo dinanzi ad uno di quei piccoli salti – se posso così chiamarli – che sono le mutazioni e i miracoli, e prima ancora le trasformazioni da cui trae origine la vita, come possiamo interpretarle? a che dobbiamo attribuirle?

Escluderei un nuovo intervento speciale di Dio, dal momento che l’agire divino si esplica tutto e solo in un medesimo atto eterno senza divenire né mutamenti.

Direi piuttosto che, ogni volta che la natura apre a Dio una nuova finestra, offre nuovi spazi alla luce divina, alla divina energia creatrice, consentendole di operare sempre al meglio. Così il donarsi divino, che è di per sé infinito, si può estrinsecare nel mondo delle realtà finite in forme sì, ancora limitate per forza di cose, ma sempre più alte. Si ha, così, ogni volta, una nuova “sintesi”.

La si ha dapprima al puro livello chimico, ma poi, man mano che si sale di grado nell’evoluzione, la si ha a livelli biologici sempre più complessi, articolati, sofisticati.

La si ha, finalmente, ai livelli spirituali: intellettuali, di conoscenza, di creatività artistica, di moralità, di socialità, di impegno religioso e relazione diretta e viva con la Divinità fino alle vette più sublimi del misticismo.

Il miracolo stesso opera per vie graduali nei binari della paranormalità senza superarne i limiti, si è detto. Certi apologeti spiegano questo fatto con la “discrezione di Dio”.

Dicono che, pur onnipotente, Egli è sommamente discreto. Potrebbe risolvere in ogni momento qualsiasi problema e liberare gli uomini da qualsiasi male e fargli dono di qualsiasi bene, ma si astiene dall’intervenire, perché vuole rispettare fino in fondo la libertà delle sue creature.

Se però si vede bene, tutta questa divina discrezione consente il perdurare, su questa terra, di situazioni negative sempre più incancrenite e intollerabili, dove la nostra libertà rimane veramente l’ultima cosa di cui si possa parlare, la più assente e remota. Verrebbe, allora da esclamare: “Fosse veramente Dio un po’ meno discreto!”

Nessuna legge umana può, invero, giustificare con la discrezione certe omissioni di soccorso, che per il nostro codice sono e rimangono autentici crimini.

Ma, si dice, Dio è misterioso, le sue vie non sono le nostre, quel che per noi è male può essere per Lui bene. È una cortina di mistero che può confortare tante anime, forse, ma certo vela ogni cosa, al punto da togliere senso a qualsiasi nostro ragionamento. A questo punto non c’è più nulla da dire, e si può passare oltre.

Pare che Dio non operi alcun miracolo al di fuori dei limiti della reale esistenza, o magari diciamo – in termini più dinamici – al di fuori dei suoi

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binari: cioè al di fuori delle possibilità concrete che la condizione di fatto ha, via via, di scorrere verso il meglio, di evolvere.

Non ci si può, quindi, aspettare da Dio che, in un qualsiasi momento, sospenda la condizione in cui si trovano le cose in atto, per farci quella tale grazia da noi particolarmente richiesta.

Egli non è onnipotente nel senso che possa fare e disfare quel che vuole in ogni fase dello svolgimento della sua creazione.

La fede nell’onnipotenza di Dio, che è motivata dal senso e dalla considerazione della sua infinità, è certezza che alla fine Dio trionferà di ogni ostacolo e di ogni forza avversa per compiere la sua creazione, per dilatare il suo regno ad ogni livello dell’esistenza fino agli ultimi confini dell’universo, per fondare una realtà in tutto nuova, per rendere le sue creature perfette e pienamente felici.

Noi non dobbiamo disperare del finale trionfo del bene, ma neanche nutrire una fede infantilmente assurda in un Dio che stia a nostra continua disposizione a darci tutto quel che gli domandiamo.

Dio stesso è crocifisso dalle sue creature che hanno deviato: e noi uomini siamo chiamati ad essere i suoi cooperatori, non solo, ma i suoi samaritani.

Noi avremo tutto allorché il processo creativo sarà giunto al suo “punto omega”, al suo glorioso epilogo, ma dobbiamo essere ben consapevoli che il raggiungimento di questo traguardo ultimo dipenderà anche, in qualche misura, dalla nostra collaborazione efficace.

Questo non vuol dire affatto che noi non dobbiamo affidarci a Dio, alla sua grazia, al suo aiuto. Dio si dona a noi in misura infinita, e noi possiamo ricevere da Lui ogni volta che a Lui ci apriamo.

Ci conviene, quindi, mantenerci verso Dio in un atteggiamento di invocazione, di apertura, di affidamento costante e perseverante. Sarà quell’atteggiamento che creerà, a poco a poco, sempre nuovi spazi per Dio in noi stessi favorendo nel nostro intimo sempre nuove sintesi, mutazioni e tramutazioni.

“Sintesi” e “mutazioni” sono termini che attingo dal discorso dell’evoluzione biologica svolto in pagine precedenti. Si tratta, qui, ora, di nuove sintesi e mutazioni, cioè di trasformazioni ragguardevoli, di livello spirituale, cioè di un livello più alto e consono alla natura umana.

Ad una trasformazione che l’uomo attui sul piano spirituale corrisponde certamente una trasformazione sul piano fisico, biologico. In ogni caso la psiche agisce sul fisico e lo plasma. Questo soprattutto si ha quando la psiche è a propria volta rinnovata e trasformata dall’azione invisibile del divino Spirito.

È a questo punto che possono scattare i fenomeni paramistici (cfr. H. Thurston, Dei fenomeni fisici del misticismo, Edizioni Paoline, Alba 1956; V. Vezzani, Mistica e metapsichica, S. E. I., Torino 1958).

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Considerata in una certa ottica, la fenomenologia religiosa ci mostra un’azione che muove proprio dallo Spirito, il quale inabita nell’interiorità dell’uomo, essendo a lui più intimo di quanto egli stesso non possa avere di più intimo in sé. È affacciandosi all’uomo dalla sua stessa profondità che lo Spirito rinnova e trasforma e rigenera e “deifica” l’anima umana rendendola “santa”.

Una tale azione dello Spirito, del pneuma, può pervenire o meno ad esercitarsi sullo stesso corpo fisico, per la mediazione della psiche: passando, cioè, attraverso l’anima rigenerata dalla grazia.

Ed ecco i fenomeni paramistici, che noi possiamo distinguere in quattro categorie.

In una prima categoria possiamo comprendere i fenomeni dove la

psiche, rigenerata dal pneuma, conosce: ad esempio la ierognosi (cioè l’esperienza del sacro, la percezione delle realtà sante), i vari doni di sapienza e di scienza, varie forme di ispirazione anche artistica, la penetrazione dei cuori.

Una seconda categoria può comprendere i fenomeni, dove la psiche

rigenerata dallo Spirito si rivela autonoma dal corpo: dalle esperienze fuori del corpo fino alla vera e propria bilocazione.

Segue una terza categoria, dove la psiche rigenerata dallo Spirito, con vera azione plasmante, agisce sul corpo proprio: stigmate e dermografismo, luminosità, odore di santità, incombustibilità e invulnerabilità, inedia, veglia prolungata, levitazione.

Ecco, infine, una quarta categoria, dove la psiche rigenerata agisce, con azione plasmante, sui corpi altrui (guarigioni) o sull’ambiente

(moltiplicazione del cibo, provocazione o allontanamento della pioggia) anche esercitando un certo amoroso dominio sugli animali e sulla natura

in genere. Lo Spirito opera efficacemente su ogni piano. I Vangeli esprimono con

la massima chiarezza l’idea che lo Spirito divino, operando ai livelli più alti, non produce una pura e semplice tramutazione interiore, ma incide sull’essere dell’uomo e sulla condizione umana in pieno e a tutti i livelli.

Giova, qui, ricordare, dai Vangeli stessi, un particolare episodio. Venuto a sapere delle opere di Gesù, Giovanni il Battista, dal carcere dove è stato rinchiuso da Erode, invia al Cristo due discepoli per domandargli: “Sei tu che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?”

Gesù non risponde né sì, né no, e nemmeno oppone discorsi teorici di alcun genere. Ai due inviati di Giovanni indica puri e semplici fatti, a testimonianza che è stata immessa nel mondo una vita nuova e rinnovatrice, trasformatrice a tutti i livelli, operante nella maniera più concreta ed effettuale: “Andate”, dice loro, “a riferire a Giovanni quel che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i

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lebbrosi sono mondati, ai poveri è annunciata la buona novella...” (Mt. 11, 2-6).

Nella prospettiva cristiana la trasformazione totale degli uomini e dell’intera creazione ad ogni livello è l’evento ultimo, è l’evento escatologico promesso per quando sarà il totale avvento del regno di Dio, per quando sarà il totale trionfo della volontà divina “come in cielo, così in terra”.

Di questo finale evento risolutivo i fenomeni paramistici rappresentano l’anticipazione: essi appaiono la prefigurazione vivente di quella che negli ultimi giorni dovrà essere la condizione gloriosa dei risorti.

Il presente saggio, che perviene qui alla sua conclusione, ha centrato l’attenzione su tre punti:

1) sulla creazione, chiedendosi come sia possibile concepirla nella maniera teologicamente più corretta;

2) sull’origine dell’universo, ponendosi il problema del se e come le teorie della moderna cosmologia siano conciliabili con una dottrina teologica cristiana aggiornata;

3) sull’evoluzione della vita, chiedendosi ancora se e come questa si possa accordare con le dette prospettive sia teologiche, sia cosmologiche.

Creazione divina, origine dell’universo, evoluzione della vita costituiscono un grandioso quadro unitario. Anche se qui mi concentro su questi tre punti, non posso tralasciare almeno un cenno a quanto si pone a continuazione e compimento dell’evoluzione della vita. Si può dire, invero, che l’evoluzione della vita trova il suo coronamento nell’evoluzione dell’uomo.

I dati della paleontologia suggeriscono con chiarezza che l’uomo, pur fatto spiritualmente a immagine e somiglianza di Dio in virtù di una illuminazione interiore, deriva dalle scimmie o dalle loro antenate proscimmie per quanto attiene alla struttura del suo organismo corporeo.

La linea evolutiva pare scandirsi nel passaggio dallo stadio di un antenato, che noi abbiamo in comune con le scimmie antropomorfe, allo stadio in cui la nostra specie umana si caratterizza propriamente come tale. Per J. S. Weiner, fasi essenziali sarebbero quelle del Dryopithecus, del Ramapithecus, dell’Australopithecus, dell’Homo erectus, dell’Homo

sapiens, finalmente di questo sapiens moderno che è l’unica specie ominide vivente (cfr. J. S. W., L’origine dell’uomo, tr. it., Garzanti, Milano 1982, pp. 16 e 22, più in gen. 25-131).

Raffaele De Marinis fa precedere l’Homo erectus dall’Homo habilis. Definisce questo “il primo incontestabile uomo” in quanto “rivela l’esistenza di una intelligenza capace di pensiero cosciente”. E precisa: “La prova è fornita tanto dalle dimensioni del cervello quanto dalle testimonianze archeologiche, che rivelano la fabbricazione di strumenti artificiali e la trasmissione delle relative cognizioni tecniche ai propri

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discendenti con la formazione di una tradizione culturale” (Gli sviluppi

della paleoantropologia nell’ultimo decennio, Appendice II alla trad. ital. del libro di Weiner, p. 308).

L’evoluzione, prima nelle scimmie antenate e poi nelle successive edizioni dell’uomo, si è realizzata attraverso tante piccole mutazioni graduali, alcune delle quali sono le seguenti.

Il volume della scatola cranica è via via aumentato mentre il cervello si sviluppava ed articolava in maniere più idonee ad assolvere nuove funzioni più complesse.

Unghie piatte sono venute a sostituirsi agli artigli. I polpastrelli hanno aumentato la loro sensibilità tattile.

Contemporaneamente alla diminuzione dell’importanza dell’olfatto, gli occhi sono divenuti più grandi e si sono spostati in avanti, migliorando l’acutezza visiva e, con questa, rendendo più estesa la capacità di percezione in genere. In contemporanea si è venuto ad affinare l’udito.

Una visione panoramica, che ha reso gli ominidi più atti a scrutare l’ambiente, a individuare cibo e nemici, a valutare le situazioni, è stata favorita dalla stazione eretta. E questa, a sua volta, ha consentito alle mani di meglio manipolare il cibo e usare armi e strumenti di vario genere e insomma di sviluppare sempre più importanti funzioni specifiche.

L’evoluzione è stata anche favorita dal fatto che, riducendosi le selve per effetto di mutamenti del clima, i più antichi ominidi si siano sentiti sollecitati non solo a scendere dagli alberi per vivere sul suolo della foresta, ma ad uscirne per stabilirsi nelle savane. Qui l’insufficienza degli alimenti vegetali avrebbe indotto gli ominidi a cacciare gli animali per nutrirsi della loro carne (cfr. A. H. Schultz, I primati, Garzanti, Milano 1974, pp. 301-314; Weiner, pp. 25-93).

Gli straordinari progressi dell’uomo primitivo si attuano via via che egli si costruisce armi e suppellettili e strumenti elementari ma sempre più adeguati. Passano attraverso l’uso del fuoco, l’affinamento della capacità di osservare e di pensare astrattamente ricordando e collegando e prevedendo, lo sviluppo della comunicazione verbale e di un linguaggio sempre più articolato, l’organizzazione della caccia e della difesa, le onoranze ai morti, le varietà dell’esperienza religiosa, le più ingenue espressioni della creazione artistica.

La vita economica, all’inizio ristretta alla caccia e alla raccolta dei frutti, si arricchisce dell’allevamento del bestiame, dell’agricoltura, del commercio, di un artigianato sempre più sofisticato che nei secoli più vicini a noi cede quasi tutto il suo spazio all’industria.

L’invenzione della scrittura pone le premesse per il passaggio dell’uomo dalla sua preistoria a quella che appunto viene chiamata la sua storia scritta. È storia di infiniti contrasti e guerre, ma anche di sviluppo delle arti, della filosofia, della ricerca spirituale, delle scienze e delle

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tecnologie, dell’organizzazione sociale e politica, del diritto, di ogni forma di umanesimo.

Si realizza, così, al massimo grado il regno dell’uomo. Teilhard de Chardin rileva che, attraverso le tappe dell’Ominizzazione l’uomo prende sempre maggiore coscienza del proprio impegno, che non è più di “subire” l’evoluzione, ma di “farla ripartire” consapevolmente (Oeuvres, V, p. 264).

Consapevolezza: “Vicino che sia agli altri grandi primati… l’Uomo si distingue psichicamente da tutti gli altri animali per il fatto assolutamente nuovo che egli non soltanto sa, ma sa di sapere. In lui la coscienza, per la prima volta sulla Terra, si è ripiegata in se medesima fino a divenire pensiero” (Oeuvres, VI, p. 381).

Ecco, allora, che prende forma sulla Terra quella che Teilhard de Chardin chiama la Noosfera: sfera di vita riflessa, nuovo strato che si viene ad aggiungere alla Biosfera (o sfera di vita ancora irriflessa) e certamente la supera, per quanto vi trovi fondamento e nutrimento (Oeuvres, V, pp. 199-231).

A questo punto, però, prende forma il drammatico interrogativo: l’intera evoluzione dell’universo, della vita e dell’uomo va verso una fine che interamente li annulli? In tal caso, quale significato avrebbe se non il senso del provvisorio, dell’effimero? Solo un Dio può conferire all’esistenza un senso assoluto. Ma un Dio che non si disinteressi della sua creazione, non l’abbandoni a metà, bensì al contrario vi si immerga, per animarla e trasformarla fino in fondo, per farla evolvere, per renderla in ultimo perfetta.

Solo in tal caso è possibile dire, con Teilhard, che, “dando, a noi, accesso a qualcosa che sfugge alla morte totale, l’evoluzione è la mano di Dio che ci riconduce a lui” (Oeuvres, V, p. 280).

Al traguardo finale, al Punto Omega dell’evoluzione, noi umani sperimenteremo al vivo di potere attuare tra noi stessi una perfetta unione d’amore solo nell’atto in cui amiamo Dio e in Lui ci perdiamo (Oeuvres, I, p. 304).

È, così, l’esperienza religiosa che ci suggerisce, in maniera sempre più chiara e forte, che c’è per l’uomo stesso una meta ulteriore: la deificazione, ossia il conseguimento di una vita divina. Si tratta di porre in essere una nuova famiglia e specie di uomini santi e deificati, di cui Gesù Cristo è il primogenito (Rom. 8, 29): uomini destinati a crescere fino alla statura del Cristo stesso (Col. 2, 18-19; Ef. 4, 15-16).

Gli uomini non possono salire a quel livello con le loro sole forze. È, qui, necessario che Dio, proprio Lui in persona, si incarni tra gli uomini e stabilisca un intimo rapporto con essi per trasformarli, per purificarli da ogni tendenza negativa, per infondere in loro la sua stessa vita divina,

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infinita, assoluta: per dar loro quella che i Vangeli chiamano la “vita eterna”.

La deificazione si integra con l’umanesimo. Quel Dio che si dona infinitamente alle sue creature è l’Onnisciente, l’Onnipotente, il sommo Artista della creazione. Quindi ogni forma di conoscenza tende, al limite, all’onniscienza divina; ogni tecnologia aspira all’onnipotenza; ogni forma di poesia e di arte mira alla somma creatività.

Così gli uomini cooperano alla loro deificazione sia al livello religioso e mistico, sia al livello umanistico. E cooperano a quella trasformazione dell’universo che ne compie la creazione.

Si pone, qui, il problema: come potranno gli uomini, pur “deificati”, trasformare l’universo intero agendo, dalla terra, fino alle distanze più astronomiche, sterminate, incommensurabili?

Bisogna tener conto che, nell’universo, ogni punto contiene anche tutti gli altri: quindi in ogni punto prossimo a noi sono contenuti anche tutti i punti più distanti, perfino quelli siti a distanze astronomiche ed oltre.

Se noi fotografiamo qualcosa mediante una tecnica olografica, e se poi tagliamo la pellicola in pezzettini, potremo notare che ciascuna particella conterrà non una parte dell’ologramma, bensì l’intero.

In altre parole, possiamo dire che ciascuna parte dell’ologramma contiene il tutto. Ora non solo ogni pellicola o frammento di essa ha tale proprietà, ma ogni punto dell’universo contiene l’universo intero. L’intera profonda assoluta realtà delle cose è olografica. Il tutto, la totalità degli esseri è un ologramma.

Una tale idea dell’universo come qualcosa di simile ad un ologramma è implicita in ogni autentica esperienza religiosa e mistica.

Riceve, poi, conferma nelle ricerche volte ad approfondire la natura del paranormale specialmente attraverso uno studio di quei fenomeni dove spazio e tempo appaiono trascesi: telepatia e chiaroveggenza nel presente, nel passato e nel futuro.

Ampia convalida riceve, infine, dalla nuova fisica, dove, per riassumere il concetto con le parole di Fritjof Capra, “l’universo è visto come una rete dinamica di eventi interconnessi” (F. C., Il Tao della fisica, 4ª ed., gli Adelphi, Milano 1990, p. 330).

Capra considera in modo particolare gli adroni, cioè le particelle subatomiche a interazione forte (le più note sono i protoni e i neutroni). La loro immagine è spesso riassunta nella frase provocatoria “Ogni particella è composta da tutte le altre particelle”. Ciò non vuol dire che ciascuna “contenga” tutte le altre nel senso statico. Vuol dire piuttosto, in termini più dinamici, che ciascun adrone “coinvolge” tutti gli altri e ne è coinvolto. Così l’intero insieme di adroni genera se stesso, ovvero si tira su reggendosi, per così dire, ai ‘tiranti dei propri stivali’”, da cui il termine di “teoria bootstrap degli adroni” (pp. 342-343).

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“Nel buddhismo Mahayana una nozione molto simile viene applicata all’universo nel suo complesso”, osserva ancora Capra (p. 343). In una tale prospettiva, “ogni oggetto del mondo non è semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto, e in effetti è ogni altra cosa” (ivi, cit. da C. Eliot).

Con la teoria olografica si compie decisamente un passo avanti. La si può riassumere in una frase come queste: “L’intera, profonda, assoluta realtà delle cose è olografica”; “L’intero, profondo, assoluto essere degli esistenti è un ologramma”.

Che il cervello umano sia strutturato come un ologramma è la scoperta del neurochirurgo Karl Pribram. Nell’ambito della fisica quantistica, sviluppando e approfondendo quanto risultava alle ricerche di Niels Bohr, David Bohm ha esteso il principio all’intero universo, che appare un immenso ologramma anch’esso (cfr. K. Pribram, Languages of the brain, Wadsworth Publishing, Monterey, California, 1977; M. Born, La sintesi

einsteiniana, tr. it., Boringhieri, Torino 1969; D. Bohm, Wholeness and

the implicate order, Routledge and Kegan Paul, London 1980; M. Talbot, Tutto è uno – L’ipotesi della scienza olografica, URRA, Milano 1997 (titolo originale: The olographic universe).

Capra svolge un raffronto significativo tra le prospettive aperte dalla fisica quantistica e le esperienze mistico-religiose (del libro cit. vedi specialm. i capitoli 10, 11 e 18).

Per ciò che riguarda queste esperienze spirituali, tra l’Induismo devozionale e quello delle Upanishad del Vedanta e dello Yoga, tra il Taoismo e il Buddhismo del Mahayana e dello Zen, tra il misticismo ebraico-cristiano e quello islamico, c’è l’imbarazzo della scelta.

Per concentrare l’attenzione su questo motivo olistico, suggerirei la lettura dei saggi di fenomenologia religiosa di Mircea Eliade, e in particolare del X capitolo del Trattato di storia delle religioni e del I de Il sacro e il profano (Boringhieri, Torino 1954 e 1967).

Quanto al paranormale, ho accennato in modo speciale alle esperienze di telepatia e di chiaroveggenza nel presente, nel passato e nel futuro. La letteratura è vastissima e qui vorrei quasi a limitarmi a ricordare – è il vero caso di dirlo poiché trattasi di autore ingiustamente dimenticato – le casistiche ragionate e criticamente approfondite che si trovano nei libri di Ernesto Bozzano intitolati Dei fenomeni di telestesia (Europa, Verona 1942), Luci nel futuro – I fenomeni premonitori (2 volumi, Europa, Verona 1947), Guerre e profezie (Europa, Verona 1948).

Esperienze di chiaroveggenza nel passato sono riferite ne L’anima delle

cose, di William Denton (Armenia, Milano 1984) e ne I misteri della

psicometria o chiaroveggenza nel passato, di Gustav Pagenstecher (Europa, Verona, 1946). Per la chiaroveggenza nel futuro un interessante

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complemento è offerto da Il futuro è presente – Il significato della

precognizione di Arthur Osborn (Astrolabio, Roma 1972). Questa coincidenza in termini spaziali fa sì che i punti più

immensamente lontani siano talmente a portata di mano, che noi possiamo conoscere tutto quel che c’è ed anche agire su tutto quel che vi si dà.

Se un esempio della nostra facoltà, almeno potenziale, di conoscere quel che è sito a lontananze anche sterminate in maniera indipendente dalla distanza ci è dato dai fenomeni di telepatia e di telestesia o chiaroveggenza nel presente, un esempio della nostra facoltà, almeno potenziale, di agire a distanza ci è dato dai fenomeni di psicocinesi, dove la mente muove la materia in maniera diretta, senza mediazione alcuna di braccia, mani e strumenti (oltre ai citati libri di Duchâtel e Warcollier, di Thurston, di Vezzani, cfr., ancora di Bozzano, Pensiero e volontà forze

plasticizzanti e organizzanti, Editrice Luce e Ombra, Verona 1967). Si può considerare una forma di psicocinesi lo stesso fenomeno delle

guarigioni, che possono essere operate anche a distanza: famose quelle di Padre Pio. Non va ignorato il poltergeist, sorta di psicocinesi esercitata da un soggetto che in genere nemmeno sospetta di provocare quei fenomeni (su psicocinesi e poltergeist cfr. gli articoli di P. Cassoli sui Quaderni di

parapsicologia, XXI, n. 2, pp. 99-132; e anche il libro da lui scritto in collaborazione con G. Iannuzzo, Ricerca sulla pranoterapia e sui

guaritori, Red., Como 1983). Per quanto limitati appaiano i risultati delle sperimentazioni finora

compiute, noi possiamo già trovare in questi fenomeni una conferma, almeno in linea di principio, della possibilità che la mente non solo conosca ma anche agisca a distanza a prescindere dalla distanza stessa.

Un discorso analogo si può svolgere a proposito di quegli eventi che accadono a distanza di tempo da noi. Un sensitivo può avere visioni di eventi passati; e anche di eventi futuri, con quella ricchezza di particolari che ci porta ad escludere siano stati indovinati a caso o previsti con semplici ragionamenti.

Tutti questi fenomeni suggeriscono con chiarezza che sia lo spazio, sia il tempo sono qualcosa di relativo. Sotto un certo aspetto spazio e tempo risultano aboliti.

Come tutti i punti dello spazio (compresi quelli siti alle distanze più vertiginose) sono compresenti in ogni punto più vicino a noi, così tutti gli attimi successivi del tempo sono compresenti nell’attimo che ora viviamo.

Come gli spazi finiti e relativi null’altro sono che espressioni dell’infinito, così i successivi tempi null’altro sono che espressioni dell’eternità, di un eterno presente.

C’è un dualismo, insomma, nell’universo: c’è come una doppia polarità: da un lato la materia, ovvero la dimensione del finito e del temporale, del relativo, del cosmo, dell’insieme delle creature ciascuna

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nel suo essere a sé; dal lato opposto la dimensione dell’infinito, dell’eterno, dell’assoluto, di Dio.

Questa dimensione divina è principio della dimensione mondana. La dimensione divina conferisce alla stessa dimensione mondana una consistenza propria. La crea come distinta da sé, come relativamente consistente ed autonoma. Quindi la trascende, le è “altra”. Ciascuna delle due dimensioni è, rispetto all’altra, diversa. Ma la più consistente delle due è la dimensione divina.

È questa sua incomparabilmente maggiore consistenza che assicura alla dimensione divina la vittoria finale. Delle forze negative, materializzanti, correnti verso la distruzione, delle “porte dell’inferno” è detto che “non prevarranno” (Mt. 16, 18). Mentre invece, in conformità all’invocazione del Padre Nostro, il nome del Signore sarà santificato, verrà il suo regno, sarà compiutamente fatta la sua volontà come in cielo così in terra (6, 9-10).

Così, tra sintropia ed entropia, non sarà questa a vincere. L’entropia appare, piuttosto, una forza di opposizione. Mentre la forza creante è la sintropia. Alfine debellata, l’entropia non potrà più ostacolare il processo evolutivo. A quel punto, purificate da ogni scoria di negatività, le stesse produzioni dell’entropia potranno venire assunte quale materiale per quella suprema sintesi conclusiva che sarà il compimento della creazione.