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G R A N D A N G O L O

S T O R I A

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LA SECONDA GUERRA MONDIALE

a cura di Brunello Mantelli

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Indice

Grandangolo StoriaVol. 37 – La Seconda guerra mondiale © 2015 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Media, Milano

È vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica,microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata dall’editore.Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.Edizione speciale per Corriere della Sera pubblicata su licenza di Out of Nowhere S.r.l.Il presente volume deve essere venduto esclusivamente in abbinamento al quotidiano Corriere della Sera

LE GRANDI COLLANE DEL CORRIERE DELLA SERADirettore responsabile: Luciano FontanaRCS MediaGroup S.p.A. Divisione MediaVia Solferino 28, 20121 MilanoSede legale: via Rizzoli 8, 20132 MilanoReg. Trib. N. 179 del 15/03/2006ISSN 1828-0501 Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa SacchiEditor: Martina Tonfoni, Fabrizia Spina Focus e pagine scelte a cura di Brunello MantelliIdeazione e introduzioni di Giorgio RivieccioConcept e realizzazione: Out of Nowhere SrlImpaginazione: Marco Pennisi & C. SrlBiografie a cura di Laura PulejoRedazione: Flavia Fiocchi

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La sconfitta dell’Occidente 7

PANORAMA

Lo scenario 13Il protagonista 31Altri personaggi 41I numeri 50

FOCUS

a cura di Brunello MantelliGli eventi 55Società, cultura, istituzioni 113Bilancio ed eredità 129Luci e ombre 138

APPROFONDIMENTI

Pagine scelte 142Leggere, vedere, visitare 153

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LA SCONFITTA DELL’OCCIDENTE

I cinquanta milioni di morti causati, solo in Europa, dal-la Seconda guerra mondiale sono il suggello – infuocato e plumbeo – di un’era dell’Occidente durata secoli, se non millenni, e giunta a una svolta. Una svolta anticipata già agli inizi del secolo, quando per la prima volta una sola nazione, la Germania, iniziò a lavorare per conquistare l’egemonia nel Continente (che all’epoca coincideva se-manticamente con il mondo): un progetto che fino a quel momento nessun Paese aveva mai osato intraprendere. Fu un canovaccio ripetuto nel 1939 con l’intenzione di crea-re un “nuovo ordine” in Europa e “germanizzarla”, allon-tanando o sopprimendo con ogni mezzo chi, per nascita, etnia, religione, condizioni psicofisiche, non corrispondes-se all’archetipo di una perfezione inesistente scaturita da menti corrose da deliri di onnipotenza.

Il bilancio diviene infatti ancora più drammatico se si pensa che la maggioranza di questi cinquanta milio-

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ni di persone era costituita da civili (nella Prima guerra mondiale, in questo senso anticipatrice di tale situazione, i civili uccisi furono inferiori ai morti in battaglia). La guerra guerreggiata ne è stato solo un aspetto: il conflitto ha messo in luce gli abissi in cui può precipitare la crudeltà umana, l’annullamento di ogni diritto naturale dell’uomo, e non solo di quello – fondamentale e intangibile – alla vita, dissoltosi negli stermini di massa: la “pulizia etnica” compiuta tanto dalla Germania di Hitler quanto dalla Russia di Stalin non causò solo milioni di morti, ma molti altri milioni di profughi. Per giungere all’epilogo delle due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, responsabili dell’annientamento di 280.000 civili attraverso una morte sconosciuta, in parte subitanea, in parte seguita a lunghe agonie e alla devastazione del corpo causata dalle radiazioni. Anche questo fu un evento destinato ad aprire una nuova era nella storia del mondo: la guerra a distanza, la guerra istantanea che rende possi-bile raggiungere in poco tempo qualsiasi parte della Terra e nella quale nessuno può più dirsi al sicuro.

Non è stata una bella eredità quella che l’Occidente ha lasciato ai suoi abitanti quando si spensero gli ultimi focolai di fiamme qua e là in Eurasia: millenni di civiltà, culture, Diritto, incapaci di avere impedito eventi del genere. È stata la grande sconfitta del mondo occidentale, inflitta non da quegli “altri” con cui nella sua storia si è misurato il più delle volte conflittualmente, ma da parte di se stesso.

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L’autoaggressione dell’Occidente avrebbe trasformato profondamente anche la sua geopolitica. Apparentemente, quasi nulla cambiò per quanto riguardava i confini delle sue nazioni, caso unico di una guerra di simile vastità che lasci sostanzialmente inalterate le carte geografiche. A cam-biare fu il ruolo degli Stati che entro tali confini si trova-vano: nel giro di sei anni, le potenze che per secoli avevano avuto in mano i destini del mondo – Inghilterra, Fran-cia e Germania – furono drasticamente ridimensionate. I nuovi detentori del potere furono le due nazioni, Usa e Urss, che fino a poco prima erano rimaste ai margini dei grandi eventi, più occupate a rafforzarsi internamente che a intervenire nei giochi geopolitici dell’Europa. Da quel momento, nessun europeo, dell’Ovest e dell’Est, si sarebbe più potuto sentire padrone a casa propria.

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PANORAMA

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La spiaggia di Omaha Beach all’indomani dello sbarco in Normandia del D-Day. Dalle navi statunitensi sbarcano i camion con i rifornimenti. 7-10 giugno 1944.

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LO SCENARIO

L a Prima guerra mondiale aveva messo in evidenza che la Germania poteva essere, comunque, la mag-

giore potenza europea; il Trattato di Versailles l’aveva for-temente indebolita ma non piegata nelle sue aspirazioni di dominio. La fine della fragile Repubblica di Weimar, l’arrivo di Hitler e il progressivo annacquamento delle condizioni del Trattato erano tutti segnali che, in breve, gli eredi di Bismarck avrebbero rialzato la testa.

Come afferma lo storico inglese Norman Davies, «è sempre più evidente che i due conflitti abbiano fat-to parte di un unico processo dinamico: le due guer-re mondiali furono due atti consecutivi di un unico dramma […]. Di fatto l’epoca della guerra aperta e generale fu in qualche modo confinata a quei 30 an-ni insanguinati. Cominciò e finì, in modo del tut-to appropriato, nella capitale tedesca, Berlino. Ebbe inizio il 1° agosto 1914, nella cancelleria imperiale,

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con la dichiarazione di guerra del Kaiser alla Russia. Finì l’8 maggio 1945 nel quartier generale sovietico a Berlino-Karlshorst, dove il terzo e ultimo trattato di capitolazione della Germania siglò la resa incondizio-nata del paese».*

Tuttavia, questa escalation avvenne – se non nell’in-differenza – in una scarsa consapevolezza delle altre na-zioni europee: la Russia era concentrata sui problemi interni conseguenti alla Rivoluzione; l’Inghilterra si era richiusa nel suo isolamento; la Francia tentò deboli al-leanze con deboli Paesi – Polonia, Cecoslovacchia, Ro-mania – per arginare una futura espansione tedesca a Est (come effettivamente avvenne). Gli stessi Stati Uni-ti, dopo il loro intervento cruciale nella Grande Guer-ra, erano tornati ai propri affari, anche per fronteggiare la crisi economica iniziata nel 1929.* N. Davies, Storia d’Europa, Bruno Mondadori, Milano 2001

Parata di truppe tedesche a Varsavia dopo l’invasione della Polonia. Settembre 1939.

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Lo storico francese Edmond Vermeil, liberale e poi attivo nella Resistenza francese, già negli anni Trenta del secolo aveva messo in guardia dalla minaccia di un prossimo tentativo di dominazione razzista tede-sca dell’intero Continente. E, a guerra finita, avreb-be scritto: «Dal 1870 al 1915 nella storia tedesca c’è una costante d’idee e di fatti così insistente che non si può nutrire alcun dubbio sulla volontà dominatri-ce della Germania. Le due guerre mondiali non sono state determinate da motivi contingenti o da questioni economiche, sociali e politiche, ma da una mentali-tà di dominio profondamente radicata, sentita e te-stimoniata da tutta la cultura, filosofia, arte, lettera-tura e religione del popolo tedesco. Non si possono considerare “accidenti” il costante e sempre vivo credo pangermanista, l’inesorabile militarismo prussiano e la tenacissima presunzione di superiorità di razza, il culto

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della forza, l’autocrazia e la ragion di Stato che sono note sostanziali e permanenti da Bismarck a Hitler». Concludendo:

“HITLER FU CONDOTTO ALLA GUERRA DAL

PANGERMANESIMO, DAL MILITARISMO, E

DALL’ANTISEMITISMO, CHE SONO ANTERIORI

AL 1939; NELL’ULTIMA GUERRA LA GERMANIA

MANIFESTÒ AL MONDO IL SUO MODO DI

PENSARE DI PRIMA, MA CON MOLTA PIÙ

BRUTALITÀ DI PRIMA E SENZA L’ABILE

PREPARAZIONE PRECEDENTE.*”Che fosse questa la causa primaria della guerra, oggi è una convinzione che trova concordi gli storici dopo gli anni di polemiche su questo tema all’indomani della fi-* E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956

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ne delle ostilità, mentre per esempio si discute ancora sull’inevitabilità o meno del Primo conflitto mondiale. Sta di fatto che, come affermava lo storico francese delle relazioni internazionali Pierre Renouvin, fino all’ultimo momento la guerra si sarebbe potuta evitare «se il gover-no tedesco l’avesse voluto».

Ma anche i futuri Alleati anti-Asse ebbero una non piccola responsabilità nel favorire il programma hitle-riano. Tra le tante vicende che fecero da prodromi al conflitto, la più significativa è probabilmente la Con-ferenza di Monaco del settembre 1938, che in sostanza dette il via libera al Führer per annettersi il territorio dei Sudeti, all’epoca parte della Cecoslovacchia. Le potenze europee, l’Inghilterra di Neville Chamberlain, la Fran-cia di Édouard Daladier, l’Italia di Benito Mussolini, organizzarono in fretta e furia l’incontro con Hitler (fu Chamberlain a pregare Mussolini di fare da interme-

Adolf Hitler davanti alla Torre Eiffel dopo la conquista di Parigi. 23 giugno 1940.

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diario con il Führer), sperando di “comprarselo” con la concessione di un territorio che in realtà era di uno Sta-to sovrano terzo (né la Cecoslovacchia né l’Urss furono invitate alla Conferenza), così da tenerlo a bada per im-pedirgli future conquiste.

Chamberlain e Daladier furono acclamati dalle ri-spettive popolazioni per aver garantito, così, “la pace in Europa”. Soprattutto Chamberlain, che sarebbe rimasto famoso per la sua politica compromissoria di concilia-zione a tutti i costi con la Germania, tornò a Londra orgoglioso e, dopo aver riferito gli esiti della Conferenza alla Corona britannica, pronunciò un discorso rimasto storico. Rifacendosi a quanto aveva detto il suo lon-tano predecessore Benjamin Disraeli all’indomani del proprio ritorno da Berlino, dopo il famoso Trattato del 1878 che dette un nuovo ordine all’Europa rendendola però fortemente instabile (tanto da essere considerato

Un bombardiere statunitense B-17 durante il primo grande raid dell’Air Force Usa sulla Germania. Il raid distrusse gran parte

degli stabilimenti aeronautici Focke-Wulf di Marienburg. 9 ottobre 1943.

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uno dei precursori degli eventi che poi sarebbero sfocia-ti nella Prima guerra mondiale), affermò:

“MIEI CARI AMICI, QUESTA È LA SECONDA

VOLTA NELLA NOSTRA STORIA IN CUI SI TORNA

DALLA GERMANIA A DOWNING STREET

CON UNA PACE ONOREVOLE.

CREDO CHE SIA UNA PACE PER LA NOSTRA EPOCA.

[…] ORA VI RACCOMANDO DI TORNARE A CASA

E ANDARE A DORMIRE TRANQUILLAMENTE

NEI VOSTRI LETTI.*”L’Inghilterra così si addormentò tranquilla ed esatta-mente un anno dopo Hitler invase la Polonia dando ini-zio alla Seconda guerra mondiale. Poi, come sappiamo, Chamberlain si sarebbe dimesso nel 1940, dopo l’in-* N. Chamberlain, discorso del 30 settembre 1938, trad. a cura della redazione

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vasione tedesca della Norvegia, sostituito da Winston Churchill che invece di «sonni tranquilli» promise «san-gue, sudore e lacrime» agli inglesi, ma vinse la guerra.

In realtà, la “passività” di Inghilterra e Francia non de-ve addebitarsi soltanto alla miopia dei suoi leader: i due Paesi non avevano alcuna intenzione di lanciarsi in una nuova guerra mondiale, sia per la secolare inimicizia che li divideva, sia per problemi interni, sia per un sentimento ambivalente nei confronti dei fascismi e del nazismo (in Francia soprattutto da parte della classe dirigente, in In-ghilterra anche da parte della popolazione).

Come osserva lo storico francese Marc Ferro, «il patto Hitler-Stalin [Patto Molotov-Ribbentrop – ndr] dell’a-gosto 1939, “Waterloo” della diplomazia franco-britan-nica, aveva avuto solo l’effetto secondario di riconciliare fra loro quei francesi che, sull’orlo della guerra civile do-po il 1934 e il Fronte popolare, avevano ora il pretesto di

La tragica ritirata dal Don degli alpini dell’Armir (Armata italiana in Russia) che tra il luglio 1942 e marzo 1943 operò sul Fronte orientale,

in appoggio alle forze tedesche della Wehrmacht impegnate sul fronte di Stalingrado. I caduti italiani della Campagna di Russia furono 74.800

(un quarto di tutte le perdite della guerra), la maggior parte morti in combattimento o nella tragica ritirata.

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combattere insieme il comunismo e il nazismo. Tuttavia […] il sentimento anti-inglese gareggiava con il timore del bolscevismo e con l’odio contro ebrei e massoni. In Inghilterra esisteva una forte tradizione antibolscevica […] ma questo antibolscevismo non era controbilancia-to, come in Francia, da un antifascismo militante, cosic-ché nel Paese non regnava un’atmosfera da guerra civile. L’Inghilterra benestante era per la pace».*

Lo stesso Patto Ribbentrop-Molotov benedetto da Stalin, che giunse inatteso e lacerò l’opinione pubblica europea, e soprattutto i partiti di sinistra, ha avuto e ha tuttora alcune letture differenti. Quella che trova con-cordi molti storici, e che si rifà alla stessa visione dell’ac-cordo che tradizionalmente ha dato l’Unione Sovietica, fatta propria da Palmiro Togliatti (nonché ribadita da Vladimir Putin in tempi recentissimi: «del resto doveva-* M. Ferro, La Seconda Guerra Mondiale. Problemi aperti, Giunti, Firenze 1993

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mo difenderci») è la motivazione tattica. Lo storico Ser-gio Romano ricorda a questo proposito che «l’Urss era circondata da potenze che consideravano il comunismo una potenziale minaccia, e non era allora in condizione di combattere. Per due ragioni. In primo luogo perché Stalin, durante le purghe del 1937, aveva quasi inte-ramente incarcerato e soppresso il vertice dell’Armata Rossa. In secondo luogo perché era scoppiata qualche giorno prima, sulla frontiera della Mongolia, una picco-la guerra tra l’Urss e il Giappone. Se fosse stata coinvolta nel conflitto europeo, l’Urss avrebbe dovuto battersi su due fronti in condizioni di grande debolezza».*

Altre letture pongono invece l’accento sulla volon-tà imperialista di Stalin e considerano il Patto Molotov- Ribbentrop l’anticamera di una futura spartizione del l’Est Europa tra le due potenze. Come osserva lo stesso Romano, * S. Romano, Hitler e Stalin, le affinità elettive di due dittatori, Corriere della Sera, 11 aprile 2005

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“ STALIN NON SI LIMITÒ A PROTEGGERE

IL PROPRIO PAESE. APPROFITTÒ DELLA

GUERRA TEDESCA PER IMPADRONIRSI DI UN

TERZO DELLA POLONIA, DI UNA PROVINCIA

ROMENA, DI UN PEZZO DI FINLANDIA E DI TRE

REPUBBLICHE SOVRANE DEL BALTICO.*”Questa lettura del Patto viene così commentata dagli storici Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin: «I carteggi diplomatici franco-britannici della turbolenta seconda metà del 1939 mostrano le Cancellerie europee dispo-ste a giocare su ogni tavolo, in assoluta libertà, rispetto all’ingessata visione della lotta fascismo-antifascismo».**

Peraltro, anche Lev Trockij, il teorico della «rivolu-

* S. Romano, Hitler e Stalin, le affinità elettive di due dittatori, cit.** E. Di Rienzo, E. Gin, Le potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica 1939-1945, Rubbettino,

Soveria Mannelli 2013

Partigiani del distaccamento Buranello sfilano a Sestri Ponente nel 1945.

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zione permanente», nella seconda metà degli anni Tren-ta del secolo, durante l’esilio che si sarebbe concluso nel 1940 con il suo assassinio da parte dei sicari di Stalin, affermava: «Solo degli idioti possono pensare che gli antagonismi imperialistici mondiali siano determinati da una contrapposizione inconciliabile tra democrazia e fascismo». Aggiungendo:

“DI FATTO, LE CRICCHE DIRIGENTI DI TUTTI

I PAESI CONSIDERANO LA DEMOCRAZIA, LA

DITTATURA MILITARE, IL FASCISMO ECCETERA,

COME STRUMENTI E METODI DIVERSI PER

SUBORDINARE I LORO POPOLI AI FINI

IMPERIALISTICI.*”Fatto sta che la Seconda guerra mondiale trasformò com-* L.Trockij, Guerra e Rivoluzione, Mondadori, Milano 1973

Churchill, Roosevelt e Stalin alla Conferenza di Jalta (4-11 febbraio 1945), nella quali i vincitori della Guerra divisero l’Europa in due aree di influenza,

statunitense e sovietica.

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pletamente le relazioni internazionali dividendo il mon-do in due parti, ognuna regolata da due diversi modelli politico-sociali, se non si vuole dire ideologici, con una trasformazione irreversibile. Le nazioni protagoniste del-la Grande Guerra, Inghilterra, Francia e Germania – ma anche gli altri Paesi europei che avevano fatto la storia dell’Occidente –, risultarono fortemente ridimensionate, perché sovrastate dai due giganti Usa e Urss – uno occi-dentale ma non europeo, l’altro europeo ma non occi-dentale – e ricostruite con indirizzi che giungevano in sostanza da questi ultimi. Fu questa la vera cesura che fece sprofondare nel passato tutta la storia dell’Occiden-te, dai suoi inizi fino alla vigilia della Conferenza di Jalta.

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MONDO PENSIERO LETTERATURA E ARTI SCIENZA ED ESPLORAZIONI

1922 Dopo la Marcia su Roma, Benito Mus-solini diviene primo ministro. Nel 1925 assumerà il potere assoluto dando ini-zio alla dittatura fascista.Si forma l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), il primo Stato comunista ufficiale della storia.

1929 La crisi di Wall Street innesca la Grande Depressione negli Stati Uniti.

1930 Il Mahatma Gandhi dà inizio ufficial-mente in India al movimento di disob-bedienza civile contro la dominazione britannica. Verrà assassinato nel 1948.

1931 Il Giappone invade la Manciuria

1933 Adolf Hitler diviene cancelliere della Germania. L’anno successivo si auto-proclama presidente del Reich e Führer. Ha inizio la dittatura nazionalsocialista e la promulgazione delle prime leggi razziali contro gli ebrei.

1935 L’Italia invade l’Etiopia.

1936 Inizio della Guerra Civile Spagnola con una rivolta militare contro la Repubbli-ca. La guerra si concluderà nel 1939 con l’istituzione della dittatura da parte del generale Francisco Franco.

1938 La Germania annette l’Austria.Sono promulgate in Italia le prime leg-gi razziali.Patto di Monaco: Gran Bretagna e Francia approvano l'invasione della Germania del territorio dei Sudeti (Cecoslovacchia)

1939 La Germania e l’Italia stringono il Patto d’Acciaio. La Germania e l’Unione Sovie-tica firmano il Patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop. L’invasione nazista

1921 Viene pubblicato il Tractatus logico- philosophicus del filosofo e logico au-striaco Ludwig Wittgenstein, il quale so-stiene che le proposizioni della filosofia tradizionale, non riconducibili né alle pro-posizioni elementari di significato empi-rico, né a quelle logico-matematiche, sono pseudo-proposizioni “senza senso”. Pertanto la filosofia non è una dottrina ma soltanto un’attività chiarificatrice.

1923 Si forma la cosiddetta Scuola di Fran-coforte, di impronta filosofica e socio-logica neomarxista, che comprende i filosofi influenzati dall’ambiente del-l’Istituto per la ricerca sociale della città tedesca. Fra i suoi esponenti, Horkhei-mer, Adorno, Habermas, Pollock.Il filosofo e critico letterario ungherese György Lukács pubblica il saggio Storia e coscienza di classe, testo fondamen-tale della teoria marxista, in cui vengo-no sviluppati i concetti di alienazione, reificazione e prassi.

1924 Il filosofo e scienziato tedesco Moritz Schlick, esponente del positivismo logi-co, fonda il Circolo di Vienna, del quale faranno parte filosofi e logici come Ru-dolf Carnap, Otto Neurath e occasional-mente Kurt Gödel e Hans Reichenbach. Il circolo resterà attivo fino al 1936, anno in cui Schlick sarà assassinato da uno studente di estrema destra.

1927 Esce Essere e tempo del filosofo te-desco Martin Heidegger, considerato il “manifesto della filosofia dell’esi-stenza” o esistenzialismo, per il quale il problema dell’essere passa neces-sariamente attraverso lo studio di quell’ente che è l’uomo.

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MONDO PENSIERO LETTERATURA E ARTI SCIENZA ED ESPLORAZIONI

1922 L’irlandese James Joyce pubblica Ulysses, romanzo che si allontana da ogni convenzione formale e logica per lasciare libero il flusso del pensiero e che influirà profondamente sulla lette-ratura del Novecento.Esce La terra desolata, di Thomas Stearns Eliot, rappresentazione della vita quotidiana come epica degradata, di un’umanità fatta di eroi urbani privi di qualunque ideale.

1923 Italo Svevo pubblica La coscienza di Zeno, romanzo che smembra l’unità cronologica del racconto, descrive l’assurdità della vita e si inquadra nella confluenza del pensiero negativo e antipositivista di Schopenhauer, di Nietzsche e di Freud.

1924 Viene eseguita la Rapsodia in blu di George Gershwin, primo esempio di unione della classicità musicale con elementi del jazz e del blues.

1927 Esce il film Metropolis dell’austriaco Fritz Lang, tra le opere simbolo del cinema espressionista, ed è universal-mente riconosciuto come modello di gran parte del cinema di fantascienza.

1929 Viene diffuso il Manifesto del Surrea-lismo di André Breton, che dà vita a questa corrente artistica che avrà i massimi esponenti in Salvador Dalí, Max Ernst, René Magritte, Man Ray.

1932 Viene pubblicato il libro Il mondo nuo-vo dello scrittore britannico Aldous Huxley. Il testo anticipa temi quali lo sviluppo delle tecnologie della ripro-duzione, l’eugenetica e il controllo

1926 L’inglese John Logie Baird presenta il primo apparecchio televisivo, perfezio-nato e utilizzabile alla fine del decennio.

1927 Viene proiettato in pubblico negli Sta-ti Uniti The jazz singer (Il cantante di jazz), primo film interamente sonoro della storia.

1927 Il belga Georges Lemaître elabora la teoria del Big Bang, secondo cui l’univer-so sarebbe nato da un «superatomo», un concentrato di materia ed energia che esplodendo avrebbe originato le galassie e dato origine all’espansione dell’universo.Lo statunitense Charles Lindbergh com-pie il primo volo solitario New York-Parigi senza scalo.

1928 L’inglese Alexander Fleming scopre la penicillina.

1930 Vola a Ciampino (Roma) il primo elicot-tero, progettato dall’ingegnere Corradi-no D’Ascanio.

1931 Viene realizzata negli Stati Uniti la prima chitarra elettrica, che entrerà in commercio nel 1947, rivoluzionando la scena musicale del mondo e permet-tendo la nascita della musica rock.

1932 James Chadwick scopre il neutrone, Harold Urey il deuterio, Carl David An-derson scopre il positrone (elettrone positivo), primo esempio di antimateria.

1935 L’inglese Sir Robert Alexander Watson-Watt inventa il radar.

1937 Negli Stati Uniti esplode l’Hindenburg,

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della Polonia innesca la Seconda guerra mondiale, con la Dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Francia e Gran Bretagna e l’invasione della Polonia orientale da parte di truppe sovietiche.

1940 A giugno, l’Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, schieran-dosi a fianco della Germania.Tra agosto e settembre si svolge la Battaglia d’InghilterraA settembre, Italia, Germania e Giap-pone sottoscrivono il Patto tripartito, detto anche Asse Roma-Berlino-Tokyo.

1941 A giugno la Germania lancia la sua of-fensiva contro la Russia. A dicembre il Giappone attacca la base Usa di Pearl Harbor e gli Stati Uniti entrano in guerra.

1942 Ondata di vittorie alleate nelle Midway, a Stalingrado e El Alamein.

1943 L’Italia si arrende agli Alleati.

1944 Sbarco in Normandia e liberazione del-la Francia.

1945 Finisce in Europa la Seconda guerra mondiale. La Germania accetta la resa incondizionata. A Jalta i tre vincitori, Churchill, Roosevelt e Stalin, dividono l’Europa in due aree di influenza. Mus-solini viene giustiziato. Hitler si suicida. In Estremo Oriente gli Usa lanciano le prime bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki portando alla resa del Giap-pone. La Conferenza di Potsdam divide l’Europa nel blocco occidentale e quello orientale.

1931 Il matematico austriaco Kurt Gödel pubblica il teorema di incompletez-za sintattica, destinato a scuotere le fondamenta della matematica. Gödel dimostra infatti l’impossibilità di costruire un sistema matematico in grado di offrire una certezza globale: la matematica è nel vero soltanto se è considerata incompleta.

1942 Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive le Tesi sul concetto di storia nelle quali espone un modello marxista di storia che sapesse reggere alle cata-strofi del XX secolo, quale fulcro teorico di resistenza per la lotta a venire.

1943 Lo scrittore e filosofo francese Jean-Paul Sartre pubblica L’essere e il nulla, testo che riprende la fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heideg-ger per un’analisi pessimistica dell’e-sistenza umana, segnata dall’angoscia dovuta alla sua presunta totale libertà, che si rivela in realtà come una libertà falsa, basata sul nulla.

1947 Il filosofo tedesco Max Horkheimer pubblica Eclisse della ragione, testo che rappresenta una spietata critica della società contemporanea occiden-tale, riassunta nella “logica del do-minio”, nella quale fa rientrare anche l’esperienza rivoluzionaria.

1951 Esce Minima Moralia del filosofo e mu-sicologo tedesco Theodor Adorno, che manifesta intuizioni inquietanti sulle tendenze generali della società tardo-in-dustriale, che precipita verso l’inumanità.

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mentale, usati per forgiare un nuovo modello di società, nella quale l’uomo perde ogni connotazione individuale, come in una specie di limbo.

1937 Esce il film Biancaneve e i sette nani di Walt Disney. È il primo lungometraggio di animazione e segnerà l’avvio di un gene-re che trasformerà alcuni canoni dell’in-trattenimento per bambini (e adulti).

1939 Il presidente americano Franklin Dela-no Roosevelt inaugura il primo servizio al mondo, regolare e definitivo, di tra-smissioni televisive. Nasce un nuovo mezzo di comunicazione che influirà profondamente sui linguaggi e sui connotati socioculturali del mondo.

1947 Lo scrittore tedesco Thomas Mann pubblica Doktor Faustus, considerato la summa della sua opera, che è stata rivolta in massima parte alla crisi dello spirito e della nazione germanica, tra la razionalità e la fiducia nel progres-so e la dissoluzione sociale e politica dell’ex Impero tedesco.

1949 Esce 1984 dello scrittore britannico George Orwell, romanzo che descri-ve con satirica amarezza l’abisso dei regimi totalitari, tanto da far nascere l’aggettivo “orwelliano”.

decretando la fine dell’èra dei velivoli «più leggeri dell’aria».

1938 I tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann scoprono la fissione dell’atomo. È l’al-ba dell’èra nucleare che porterà alla pila atomica e alla bomba atomica.

1939 Albert Einstein scrive al presidente americano Franklin Delano Roosevelt la lettera in cui lo informa che in Ger-mania potrebbe essere realizzata la bomba atomica. Gli Stati Uniti avviano così il Progetto Manhattan che condur-rà al primo ordigno nucleare.Vola in Germania il primo aereo a rea-zione, un Heinkel 178.

1942 A Chicago entra in funzione la pila ato-mica di Fermi.Lancio delle V2: dall’isoletta di Pee-nemünde sul Baltico l’ingegnere te-desco Wernher von Braun fa volare la V2, primo razzo a propellente liquido pilotato automaticamente, che però non modificherà la sorti del conflitto. Dalla V2 von Braun svilupperà i razzi dei programmi spaziali americani che culmineranno con lo sbarco dell’uomo sulla Luna (1969).

1946 Fabbricato in Usa l’Eniac, il primo cal-colatore elettronico (computer).

1947 Gli americani Walter Brattain e John Bardeen realizzano il primo transistor, che apre l’epoca della miniaturizzazio-ne dell’elettronica e della portatilità de-gli apparecchi, dalle radio ai computer.

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Albert Speer, 1933.

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IL PROTAGONISTA

Albert Speer, architetto e uomo politico tedesco. Ami-co personale di Hitler, principale ispiratore degli ambi-ziosi progetti architettonici e urbanistici del Terzo Reich nonché della complessa liturgia politica che ne informa-va adunate e cerimonie ufficiali, fu tra i pochi gerarchi che a Norimberga ammisero le colpe della Germania nazista, scampando così al patibolo.

Nato nel 1905 a Mannheim, nel Baden-Württemberg, da una facoltosa famiglia di architetti, benché più incline alla matematica, fu persuaso dal padre a non abbandona-re la tradizione familiare. A sua volta, intraprese dunque gli studi di architettura a Karlsruhe, poi al politecnico di Monaco e infine, nel 1925, al politecnico di Berlino-Charlottenburg, dove appena laureato divenne assistente.

Intanto, nell’agosto del 1928, incurante della disap-provazione materna, aveva sposato l’amata Margarete Weber, fedele compagna che gli avrebbe dato sei figli e cui avrebbe in seguito dedicato i propri diari di prigionia.

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La vita di Speer giunse a una svolta quando, sul fi-nire del 1930, assistette casualmente a una conferenza tenuta agli studenti del Politecnico da un Hitler calmo e civile, in rassicuranti abiti borghesi quasi «volesse sot-tolineare la moderazione e il buon senso». Ricordando nelle sue Memorie lo stupore provato nel trovarlo così diverso dalle caricature che se ne facevano all’epoca – e riflettendo su ciò che a quel tempo ancora non cono-sceva e che solo più tardi avrebbe imparato su Hitler – Speer osserva «che egli sapeva sempre conformarsi, per calcolo o per istinto, all’ambiente che lo circondava». Fu allora che venne conquistato dalla sua oratoria:

“MI SENTIVO TRASCINATO DALL’ENTUSIASMO

STESSO DA CUI ERA CONTINUAMENTE SORRETTO

IL DISCORSO, UN ENTUSIASMO COSÌ INTENSO

CHE MI SEMBRAVA DI POTERLO TOCCARE. ESSO

DEMOLIVA OGNI RISERVA, OGNI SCETTICISMO,

E FACEVA AMMUTOLIRE GLI AVVERSARI,

CREANDO, IN CERTI MOMENTI, L’IMPRESSIONE

DI UN’UNANIMITÀ CHE NON ESISTEVA.*”Tutt’altra impressione ebbe nell’ascoltare, alcune set-timane dopo, gli eccessi di Goebbels al palazzo dello Sport. Eppure, forse a seguito del violento intervento con cui la polizia disperse i manifestanti, o forse per ef-

* Tutte le citazioni, tranne dove espressamente indicato, sono da A. Speer, Memorie del Terzo Reich, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1995

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fetto dell’appassionato discorso di Hitler, pochi giorni dopo s’iscrisse al Partito. «Nessuna drammaticità nella mia decisione: né allora né poi mi sentii membro di un partito politico. E in verità non avevo scelto la NSDAP. Mi ero semplicemente messo al fianco di Hitler». Iniziò a partecipare alle sfilate delle SA (le Sturmabteilungen, cioè i reparti d’assalto) perché gli trasmettevano sensa-zione di ordine e fiducia in quei tempi così incerti.

Grazie a un giovane dirigente, Karl Hanke, futuro de-putato, poi viceministro della Propaganda e infine ufficia-le della Wehrmacht, ebbe avvio la sua prima collaborazio-ne come architetto con la risistemazione di una sede del Partito. Ma, a seguito della Grande Depressione econo-mica, gli stipendi dei docenti furono ridotti severamente e decise di lasciare il Politecnico per tornare con la moglie a Mannheim, dove aprì un proprio studio di architettura.

Fu nel 1933, anno dell’ascesa al potere del Führer, che Hanke, divenuto capo organizzativo della circoscrizione politico-amministrativa, gli chiese di tornare a Berlino. Goebbels lo incaricò di ristrutturare il palazzo del mini-stero della Propaganda, opera del grande Karl Friedrich Schinkel, e rimase talmente soddisfatto del risultato che Speer fu chiamato nel luglio dello stesso anno per gli allestimenti del raduno del Partito a Norimberga. Hitler si ricordò di lui quando ebbe bisogno di affiancare un architetto a Paul Troost, direttore dei lavori di rinnova-mento della Cancelleria del Reich a Berlino.

La sua carriera spiccò il volo quando, in seguito

La vita di Speer giunse a una svolta quando, sul fi-nire del 1930, assistette casualmente a una conferenza tenuta agli studenti del Politecnico da un Hitler calmo e civile, in rassicuranti abiti borghesi quasi «volesse sot-tolineare la moderazione e il buon senso». Ricordando nelle sue Memorie lo stupore provato nel trovarlo così diverso dalle caricature che se ne facevano all’epoca – e riflettendo su ciò che a quel tempo ancora non cono-sceva e che solo più tardi avrebbe imparato su Hitler – Speer osserva «che egli sapeva sempre conformarsi, per calcolo o per istinto, all’ambiente che lo circondava». Fu allora che venne conquistato dalla sua oratoria:

“MI SENTIVO TRASCINATO DALL’ENTUSIASMO

STESSO DA CUI ERA CONTINUAMENTE SORRETTO

IL DISCORSO, UN ENTUSIASMO COSÌ INTENSO

CHE MI SEMBRAVA DI POTERLO TOCCARE. ESSO

DEMOLIVA OGNI RISERVA, OGNI SCETTICISMO,

E FACEVA AMMUTOLIRE GLI AVVERSARI,

CREANDO, IN CERTI MOMENTI, L’IMPRESSIONE

DI UN’UNANIMITÀ CHE NON ESISTEVA.*”Tutt’altra impressione ebbe nell’ascoltare, alcune set-timane dopo, gli eccessi di Goebbels al palazzo dello Sport. Eppure, forse a seguito del violento intervento con cui la polizia disperse i manifestanti, o forse per ef-

* Tutte le citazioni, tranne dove espressamente indicato, sono da A. Speer, Memorie del Terzo Reich, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1995

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all’improvvisa morte di Troost (1934), lo sostituì, appe-na ventinovenne, nel ruolo di architetto-capo del Parti-to. Spettò a lui realizzare la nuova tribuna in pietra in sostituzione di quella in legno allo Zeppelinfeld di No-rimberga, il campo dove avveniva il raduno annuale del Partito. Per la sua spettacolare scenografia si ispirò all’A-ra di Pergamo –  ricostruita e inaugurata poco tempo prima a Berlino – le cui dimensioni ingrandì enorme-mente per accogliere fino a 240.000 persone. La sfilata in notturna, proposta da Speer per nascondere lo scarso physique du rôle dei «gerarchetti» che vi partecipavano, fu illuminata dai fasci di luce verticale di 130 riflettori di contraerea: la “cattedrale di luce” immortalata nel fil-mato Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl.

Le ambiziose visioni di Hitler sembravano piena-mente incarnarsi nello stile maestoso del suo architetto, deciso a innalzare edifici che testimoniassero la grandez-za del Terzo Reich per migliaia di anni. Il Führer, che in gioventù aveva sognato di diventare un artista, nutriva una vera ammirazione per la geniale creatività di Speer e ben presto tra i due si instaurò un rapporto particolare, privilegiato. In apertura della sua deposizione al Proces-so di Norimberga, Speer espose il proprio percorso di vita dichiarando:

“ SONO ENTRATO IN STRETTO CONTATTO

CON HITLER A CAUSA DELLA PASSIONE

CHE AVEVA PER L’ARCHITETTURA.

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HO FATTO PARTE D’UNA CERCHIA CHE

COMPRENDEVA ALTRI ARTISTI E IL GRUPPO

DEI PERSONALI COLLABORATORI.

SE HITLER FOSSE STATO CAPACE DI AVERE

AMICI, IO SAREI STATO SICURAMENTE UNO

DEI SUOI AMICI PIÙ STRETTI.*”Il dittatore, del resto, non celava la propria predilezione per il giovane professionista; passava con lui ore e ore al tavolo da disegno a discutere idee e progetti, lo riceveva in privato in qualsiasi momento e manifestava familiarità nei suoi confronti anche in pubblico; da lui amava farsi ac-compagnare alle mostre d’arte e in ogni simile occorrenza.

Dopo aver progettato lo Stadio per le Olimpiadi del 1936, Speer – nominato nel 1937 ispettore generale per l’edilizia a Berlino – fu incaricato della ristrutturazione urbanistica della città, futura capitale del mondo nei folli piani di onnipotenza del Führer. Ancora una volta die-de corpo ai sogni di grandezza di Hitler, disegnando una città monumentale, con palazzi alti come grattacieli e un immenso viale per le parate al centro, lungo più di cin-que chilometri e largo 120 metri, ai cui estremi doveva-no campeggiare un arco di trionfo alto 120 metri e una cupola di 250 metri di diametro. Per realizzare l’utopico progetto, che rimase sulla carta a causa dello scoppio della guerra, furono requisiti e demoliti circa cinquantamila tra

* A. Speer, in G.M. Gilbert, Norimberga, riportato da J. Fest, Speer. Una biografia, Garzanti, Milano 2000

all’improvvisa morte di Troost (1934), lo sostituì, appe-na ventinovenne, nel ruolo di architetto-capo del Parti-to. Spettò a lui realizzare la nuova tribuna in pietra in sostituzione di quella in legno allo Zeppelinfeld di No-rimberga, il campo dove avveniva il raduno annuale del Partito. Per la sua spettacolare scenografia si ispirò all’A-ra di Pergamo –  ricostruita e inaugurata poco tempo prima a Berlino – le cui dimensioni ingrandì enorme-mente per accogliere fino a 240.000 persone. La sfilata in notturna, proposta da Speer per nascondere lo scarso physique du rôle dei «gerarchetti» che vi partecipavano, fu illuminata dai fasci di luce verticale di 130 riflettori di contraerea: la “cattedrale di luce” immortalata nel fil-mato Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl.

Le ambiziose visioni di Hitler sembravano piena-mente incarnarsi nello stile maestoso del suo architetto, deciso a innalzare edifici che testimoniassero la grandez-za del Terzo Reich per migliaia di anni. Il Führer, che in gioventù aveva sognato di diventare un artista, nutriva una vera ammirazione per la geniale creatività di Speer e ben presto tra i due si instaurò un rapporto particolare, privilegiato. In apertura della sua deposizione al Proces-so di Norimberga, Speer espose il proprio percorso di vita dichiarando:

“ SONO ENTRATO IN STRETTO CONTATTO

CON HITLER A CAUSA DELLA PASSIONE

CHE AVEVA PER L’ARCHITETTURA.

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appartamenti e vani commerciali del centro della città, con un protervo sventramento che assieme agli edifici fece tabula rasa di tutto il tessuto sociale, in barba alle obiezio-ni dello stesso sindaco nazista di Berlino, Julius Lippert, e dei suoi uffici. Speer non solo aveva assecondato la visione megalomane del Führer, ma lo aveva superato andando, come egli stesso afferma nelle sue Memorie, «molto al di là del concetto hitleriano di colossale, se non altro dal punto di vista dell’estensione della pianificazione urbanistica». Hitler pensava agli edifici, Speer all’intera città, senza darsi cura delle ripercussioni che ciò procurava agli esseri umani: «Mi sentivo l’architetto di Hitler. Gli avvenimenti politici non mi riguardavano». Eppure, persino il padre era inorridito di fronte ai deliranti plastici della città:

“ANCHE MIO PADRE VENNE A VEDERE I LAVORI

DEL FIGLIO DIVENUTO CELEBRE. DAVANTI AI

MODELLI SCROLLÒ LE SPALLE E DISSE «SIETE

DIVENTATI COMPLETAMENTE PAZZI!»”Sempre nel 1937, disegnò il padiglione tedesco per l’E-sposizione universale di Parigi, che fu premiato insieme a quello sovietico ideato da Boris Iofan, e nel 1938 iniziò la costruzione della nuova Cancelleria del Reich, desti-nata a essere distrutta dall’Armata Rossa (1945). Speer la completò in meno di un anno, secondo i desideri di Hitler. Intanto la sua influenza cresceva. Nel 1942, dopo la misteriosa morte in un incidente aereo, di Fritz Todt,

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ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica, ac-cettò di subentrargli nella carica, benché fosse privo di vocazione politica, e divenne inoltre ispettore generale per la viabilità e per le risorse idriche e l’energia.

Considerato fino ad allora soltanto un artista, diede prova di straordinarie abilità organizzative oltre che di uno zelo spietato. Per velocizzare il processo produttivo ridusse al minimo la burocrazia e con 14 milioni di lavo-ratori coatti alle proprie dipendenze, reclutati nei campi di concentramento o rastrellati per le strade d’Europa, in due anni e mezzo riuscì a triplicare le forniture di armi e munizioni, malgrado i danni causati dai bom-bardamenti alleati. Proprio per evitare le distruzioni, del resto, le fabbriche di armamenti furono in molti casi trasferite in miniere e siti segreti, con gli operai-schiavi costretti a lavorare in condizioni disumane.

Ma nonostante l’impegno profuso, la Germania non poteva competere con la produzione bellica degli Alleati e, all’inizio del 1944, lo stesso Speer iniziò a compren-dere che la situazione era disperata. Forse logorato dal-la consapevolezza dell’imminente sconfitta, si ammalò gravemente ma con grande sorpresa di tutti si riprese e tornò al suo lavoro.

Nel 1945 fu uno dei pochi gerarchi a opporsi alla strategia della “terra bruciata”, ultima pazzia di Hitler, che ordinò ai suoi uomini di distruggere durante la riti-rata tutto quanto potesse essere utilizzabile dal nemico. Ben consapevole che la guerra era perduta, l’architetto

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disubbidì e negli ultimi giorni del conflitto pensò persi-no di assassinare il Führer immettendo gas nervino negli impianti di aerazione del bunker sotto la Cancelleria di Berlino che lui stesso aveva progettato. Malgrado ciò, poco prima che Hitler si suicidasse volle incontrarlo e gli confessò di aver sabotato i suoi ordini, ma il ditta-tore, conscio della fine vicina, lo lasciò andare. Speer raggiunse allora Flensburg, sede del governo fantoccio del grand’ammiraglio Karl Dönitz, nelle cui vicinanze fu arrestato alla fine della guerra.

Processato a Norimberga insieme a molti altri gerar-chi del regime, di fronte all’accusa di essersi servito di manodopera in stato di schiavitù si dichiarò colpevole, asserendo in sua difesa che fosse l’unico modo per far fronte alle esigenze belliche. Ammise inoltre le proprie responsabilità per il suo ruolo nel governo nazista, di cui riconobbe i crimini, ma dichiarò di non essere a cono-scenza dei piani di sterminio degli ebrei. Sfuggì così al patibolo e fu condannato a venti anni di reclusione, che scontò nel carcere berlinese di Spandau. Liberato nell’ot-tobre 1966 insieme al capo della Gioventù hitleriana, Baldur von Schirach, si stabilì a Heidelberg, dove visse ritirato i suoi ultimi anni, tormentato dai rimorsi e dal sospetto dei tanti che nutrivano dubbi sulla sua sincerità.

Pubblicò diverse opere autobiografiche, tra cui le Memorie del Terzo Reich (1969), scritte durante la pri-gionia, che ottennero un notevole successo editoriale, e collaborò di frequente con storici e giornalisti impegnati

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in ricerche sulla Germania nazista. In una dichiarazione del 1977 in cui definiva il Processo di Norimberga e la propria condanna «complessivamente corretti» scrisse:

“ RITENGO TUTTORA GIUSTO ASSUMERMI

LA RESPONSABILITÀ E QUINDI ANCHE LA COLPA DI QUEI CRIMINI […] COMMESSI SOLO

DOPO IL MIO INGRESSO NEL GOVERNO DI

HITLER […]. GUARDO TUTTORA ALLA SUPINA

ACCETTAZIONE DELLA PERSECUZIONE DEGLI

EBREI E AL MASSACRO DI MILIONI DI LORO

COME ALLA MIA MAGGIORE COLPA.*”Albert Speer morì il 1° settembre 1981, colto da un ictus mentre era a Londra per partecipare a un programma della BBC. Di lui scrisse lo storico Sebastian Haffner: Speer «non è un nazista vistoso e pittoresco [ma] l’uomo medio di successo, ben vestito, beneducato, non corrotto […]: il tecnico puro, l’uomo dalle brillanti attitudini che, a prescindere dalle radici sociali e senza disporre d’un suo patrimonio, non ha altro obiettivo che quello di far stra-da nel mondo […]. Questo è il loro tempo. Degli Hitler e degli Himmler potremo anche sbarazzarcene. Ma gli Speer, qualunque cosa possa loro individualmente acca-dere, rimarranno ancora a lungo fra di noi».**

* A. Speer, in J. Fest, Speer. Una biografia, cit.** Ibidem

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ALTRI PERSONAGGI

William Henry Beveridge, economista e uomo politico inglese (1879-1963). Nato a Rangpur (Bengala) da un funzionario coloniale, si laureò in Legge a Oxford (1903) ma rinunciò alla carriera forense per dedicarsi allo stu-dio e alla soluzione di problemi sociali legati alla disoc-cupazione. Accettò allora l’incarico di vicedirettore del Toynbee Hall, centro filantropico nel povero East End di Londra, e curò poi per il Morning Post una rubrica sulle politiche sociali. Avvicinatosi ai coniugi Sidney e Beatrice Webb, esponenti di spicco della Fabian Society e del riformismo socialista inglese, entrò in contatto con Winston Churchill (1908), che lo volle come consulen-te alla Camera di Commercio e, ispirato dai suoi scritti, istituì un sistema di agenzie di collocamento nazionali, le Labour Exchanges di cui fu in seguito direttore. Divenne segretario permanente al Ministry of Food, dove si distinse tra i fautori del razionamento e del controllo dei prezzi.

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Nel 1919 lasciò la carriera amministrativa per dirige-re la London School of Economics (fino al 1937) e poi l’University College di Oxford, ma rimise le sue compe-tenze al servizio del governo durante la Seconda guerra mondiale, quando ideò il celebre Piano Beveridge (1942), un innovativo sistema di sicurezza sociale preludente al Welfare State, che entrò in vigore nel 1948. Deputa-to liberale, perse le elezioni del 1945 e, creato barone, entrò alla Camera dei Lord. Tra le sue opere: Unem-ployment (1930); Full employment in a free society (1944).

George Catlett Marshall, uomo politico e generale statu-nitense (1880-1959). Nato a Uniontown (Pennsylvania) da un mercante di carbone, si laureò al Virginia Military Institute di Lexington e iniziò la sua carriera nelle forze armate come sottotenente di fanteria nelle Filippine. Du-rante la Grande Guerra prestò servizio in Francia (1917-1918) e fu in seguito aiutante di campo del generale John J. Pershing; trascorse poi alcuni anni in Cina e rivestì va-ri incarichi presso le scuole militari, tra cui la prestigiosa scuola di fanteria di Fort Benning (Georgia), di cui fu vice-comandante. Chiamato a dirigere la Sezione per i piani di guerra (1938), divenne infine capo di Stato Maggiore generale (1939-45). Si impegnò allora a riorganizzare e po-tenziare l’esercito, rinnovandone gli armamenti e sempli-ficando la burocrazia militare, opera che gli valse l’appel-lativo di “organizzatore della vittoria” da parte del primo ministro inglese Winston Churchill. Durante la Seconda

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guerra mondiale sostenne la necessità dello sbarco in Nor-mandia, in contrasto con la strategia mediterranea degli inglesi, e si mise in luce per la sua abilità diplomatica nelle conferenze di Casablanca (1943), Jalta e Potsdam (1945). Fu poi inviato in Cina dal presidente Harry S. Truman (1945) per un vano tentativo di mediazione tra Chiang Kai-shek e Mao Tse-Tung. Segretario di Stato (1947-49), lanciò l’European Recovery Program, più noto come Piano Marshall, il programma di aiuti per la ricostruzione dell’e-conomia europea prostrata dalla guerra, per cui si meritò il Premio Nobel per la pace (1953). Dimessosi per motivi di salute, fu ancora segretario alla Difesa nel 1950-51.

Isoroku Yamamoto, ammiraglio giapponese (1884-1943). Originario di Nagaoka, appena un anno dopo es-sere uscito dall’Accademia navale di Yetajuna prese parte alla storica Battaglia di Tsushima (Stretto di Corea), che segnò la vittoria nipponica nella Guerra russo-giapponese (1904-05). Nel 1916 si laureò con tutti gli onori al col-legio navale di Stato Maggiore di Tsukiji e fu adottato dall’influente famiglia Yamamoto, di cui acquisì il nome; il suo vero padre infatti era Sadayoshi Takano, che l’aveva avuto all’età di 56 anni e lo aveva perciò chiamato Iso-roku, ossia “cinquantasei”. Promosso tenente comandan-te, studiò inglese a Harvard e insegnò al collegio navale di Stato Maggiore nipponico prima di essere inviato alla scuola di volo di Kasumigaura. Divenne dunque capita-no e tornò negli Stati Uniti quale addetto navale presso

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l’ambasciata nipponica di Washington (1926-28). Al suo rientro in patria ottenne il comando della portaerei Akagi e fu delegato alla Conferenza navale di Londra (1935); continuò poi la sua ascesa nei ranghi della marina mili-tare fino a ricoprire il ruolo di viceministro della Marina (1936), che sfruttò per promuovere un piano di riarmo navale imperniato sulla dotazione di efficienti portaerei da combattimento. Comandante in capo della flotta im-periale (1939), progettò e diresse l’attacco aeronavale alla flotta americana di Pearl Harbor (1941), che sancì l’inizio della guerra nel Pacifico. Guidò l’espansione giapponese nell’Asia Sudorientale e comandò le forze impegnate nel-la Battaglia di Midway (1942), risoltasi in un disastro per le sue portaerei. Morì abbattuto da un caccia americano che intercettò il suo aereo in volo sulle isole Salomone.

Ferruccio Parri, uomo politico italiano (1890-1981). Nato a Pinerolo e laureatosi in Lettere a Torino, prese parte alla Prima guerra mondiale come ufficiale di fante-ria, meritandosi tre medaglie al valore. Fu tra i primi anti-fascisti che si opposero attivamente al regime e nel 1927 organizzò con Carlo Rosselli e Sandro Pertini la fuga all’estero del leader socialista Filippo Turati. Condannato al confino e liberato nel 1933, riprese la lotta clandestina quale membro di Giustizia e Libertà e contribuì alla fon-dazione del Partito d’Azione (1942). Dopo l’8 settembre 1943 ebbe un ruolo di primo piano nell’organizzazione della Resistenza partigiana, dirigendo insieme a Raffaele

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Cadorna e Luigi Longo l’attività militare del Corpo vo-lontari della libertà per l’Alta Italia; divenuto consultore nazionale dopo la sconfitta dei nazifascisti, fu il primo presidente del consiglio dell’Italia liberata (19 giugno- 22 novembre 1945). Lasciò poi il Partito d’Azione (mar-zo 1946) e diede vita con Ugo La Malfa e altri al Partito della democrazia repubblicana – per il quale fu deputato alla Costituente – confluito in seguito nel Pri. Senatore di diritto nella prima legislatura (1948-53), aderì al movi-mento di Unità popolare (1953) ma rimase indipendente quando questo si unì al Psi. Di nuovo senatore (1958), a vita dal 1963, fondò e diresse fino alla morte la rivista Astrolabio, che mirava a creare un punto di incontro tra le diverse “anime” della sinistra; nel 1968 divenne infine presidente del gruppo della Sinistra indipendente, acco-standosi al Pci. Negli anni Settanta si ritirò gradualmente dalla politica attiva, ma rimase presidente della Federa-zione italiana associazioni partigiane (Fiap), da lui fonda-ta (1949). Morì a Roma all’età di 91 anni.

Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria inglese (1892-1984). Soprannominato Bomber Harris o The Butcher (il Macellaio), durante la Seconda guerra mondiale inaugurò la strategia dei bombardamenti a tappeto sui centri urbani tedeschi. Nato a Cheltenham, si trasferì in Rhodesia (l’o-dierno Zimbabwe) nel 1909 e, allo scoppio della Grande Guerra, partecipò alla campagna nell’Africa tedesca del Sudovest (Namibia) con il 1° Reggimento rhodesiano.

l’ambasciata nipponica di Washington (1926-28). Al suo rientro in patria ottenne il comando della portaerei Akagi e fu delegato alla Conferenza navale di Londra (1935); continuò poi la sua ascesa nei ranghi della marina mili-tare fino a ricoprire il ruolo di viceministro della Marina (1936), che sfruttò per promuovere un piano di riarmo navale imperniato sulla dotazione di efficienti portaerei da combattimento. Comandante in capo della flotta im-periale (1939), progettò e diresse l’attacco aeronavale alla flotta americana di Pearl Harbor (1941), che sancì l’inizio della guerra nel Pacifico. Guidò l’espansione giapponese nell’Asia Sudorientale e comandò le forze impegnate nel-la Battaglia di Midway (1942), risoltasi in un disastro per le sue portaerei. Morì abbattuto da un caccia americano che intercettò il suo aereo in volo sulle isole Salomone.

Ferruccio Parri, uomo politico italiano (1890-1981). Nato a Pinerolo e laureatosi in Lettere a Torino, prese parte alla Prima guerra mondiale come ufficiale di fante-ria, meritandosi tre medaglie al valore. Fu tra i primi anti-fascisti che si opposero attivamente al regime e nel 1927 organizzò con Carlo Rosselli e Sandro Pertini la fuga all’estero del leader socialista Filippo Turati. Condannato al confino e liberato nel 1933, riprese la lotta clandestina quale membro di Giustizia e Libertà e contribuì alla fon-dazione del Partito d’Azione (1942). Dopo l’8 settembre 1943 ebbe un ruolo di primo piano nell’organizzazione della Resistenza partigiana, dirigendo insieme a Raffaele

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L’anno dopo (1915) tornò in Inghilterra, dove entrò nei Royal Flying Corps, antesignani della Royal Air Force (Raf), e, ottenuto il brevetto di pilota, diresse varie squadriglie di caccia in Francia e in Inghilterra. Fu poi ingaggiato dal-la Raf quale comandante di squadriglia e svolse incarichi in Irak, India, Gran Bretagna, Palestina e Transgiordania (anni ’20 e ’30), per poi assumere il ruolo di vicedirettore della Pianificazione (1934-37) al ministero dell’Aeronau-tica. Promosso Air Commodore (1937), pari al grado di generale di brigata, divenne vicemaresciallo dell’Aviazio-ne (1939), maresciallo (1941) e comandante in capo del Bomber Command della Raf (1942). Sviluppò allora la tattica dei bombardamenti di saturazione su vasta scala, volti a colpire direttamente le popolazioni per abbatterne il morale e la resistenza. Ne derivò la distruzione quasi totale di molte città tedesche, tra cui Amburgo (1943), con 40.000 morti, e Dresda (1945), con 200.000 civili uccisi. Nel dopoguerra numerose voci di biasimo si leva-rono contro i suoi metodi e Harris, sdegnato, si trasferì in Sudafrica (1946-53), dove diresse la South African Marine Corporation. Rientrato in patria, fu insignito del titolo di baronetto (1953) e si ritirò a Goring-on-Thames.

Georgij Konstantinovič Žukov, generale sovietico (1896-1974). Nato a Strelkova (Russia orientale) da un ciabattino e una contadina, durante la Grande Guerra militò nella cavalleria, meritando sul campo la promozio-ne a sergente e la croce di San Giorgio, alta onorificenza

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della Russia zarista. Allo scoppio della guerra civile si ar-ruolò volontario nell’Armata Rossa e aderì al Partito co-munista (1919), avviando una rapida carriera che, già nel 1922, lo vide al comando di uno squadrone della 1a Ar-mata di cavalleria, corpo d’élite. Assistente ispettore di ca-valleria dell’Armata Rossa (1930), continuò la sua ascesa nei ranghi militari, sfuggendo all’epurazione dei quadri dell’esercito attuata da Stalin negli anni Trenta. Diresse con successo la controffensiva contro i giapponesi al con-fine con la Manciuria (1939) e durante il secondo con-flitto mondiale acquisì fama leggendaria di “generale che non ha mai perso una battaglia”. Comandante d’Armata e poi capo di Stato Maggiore generale (1941), coordinò la difesa di Leningrado (1941-44) e arrestò l’avanzata te-desca su Mosca (1941), per poi ottenere la storica vittoria di Stalingrado (1942-43) e guidare infine il contrattacco (1943-44). Caduta Varsavia, entrò trionfalmente a Ber-lino alla testa delle sue armate (1945) e divenne coman-dante delle truppe russe d’occupazione nella Germania orientale (1946), ma fu poi relegato nell’ombra da Sta-lin, che ne temeva il formidabile prestigio. Alla morte di questi, entrò nel Comitato generale del Pcus (1953-56) e nel Presidium (1957) e fu, infine, ministro della Difesa (1955-57), ma dovette ritirarsi per i dissidi insorti con il nuovo leader sovietico Nikita Sergeevič Chruščëv.

Jean Moulin, funzionario governativo francese (1899-1943), eroe della Resistenza. Figlio di un professore di

L’anno dopo (1915) tornò in Inghilterra, dove entrò nei Royal Flying Corps, antesignani della Royal Air Force (Raf), e, ottenuto il brevetto di pilota, diresse varie squadriglie di caccia in Francia e in Inghilterra. Fu poi ingaggiato dal-la Raf quale comandante di squadriglia e svolse incarichi in Irak, India, Gran Bretagna, Palestina e Transgiordania (anni ’20 e ’30), per poi assumere il ruolo di vicedirettore della Pianificazione (1934-37) al ministero dell’Aeronau-tica. Promosso Air Commodore (1937), pari al grado di generale di brigata, divenne vicemaresciallo dell’Aviazio-ne (1939), maresciallo (1941) e comandante in capo del Bomber Command della Raf (1942). Sviluppò allora la tattica dei bombardamenti di saturazione su vasta scala, volti a colpire direttamente le popolazioni per abbatterne il morale e la resistenza. Ne derivò la distruzione quasi totale di molte città tedesche, tra cui Amburgo (1943), con 40.000 morti, e Dresda (1945), con 200.000 civili uccisi. Nel dopoguerra numerose voci di biasimo si leva-rono contro i suoi metodi e Harris, sdegnato, si trasferì in Sudafrica (1946-53), dove diresse la South African Marine Corporation. Rientrato in patria, fu insignito del titolo di baronetto (1953) e si ritirò a Goring-on-Thames.

Georgij Konstantinovič Žukov, generale sovietico (1896-1974). Nato a Strelkova (Russia orientale) da un ciabattino e una contadina, durante la Grande Guerra militò nella cavalleria, meritando sul campo la promozio-ne a sergente e la croce di San Giorgio, alta onorificenza

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storia legato al Partito radical-socialista, servì brevemen-te nell’esercito sul finire della Prima guerra mondiale (1918) e, compiuti gli studi di Legge a Montpellier, intraprese la carriera amministrativa. Nel 1925 conob-be il giovane Pierre Cot, militante radical-socialista e futuro deputato della Savoia (1928-40) che, asceso al governo in veste di ministro dell’Aviazione (1933-34 e 1936-38), lo volle al suo fianco come capo di gabinetto; da tale posizione, Moulin sostenne i repubblicani nel-la Guerra Civile spagnola, inviando aerei e piloti, pur senza ottenere i risultati sperati. Entrato poi nell’ammi-nistrazione prefettizia, a 38 anni divenne il più giovane prefetto della Francia (nell’Aveyron) e nel 1940 assun-se la prefettura dell’Eure-et-Loir, con sede a Chartres. Quando nel giugno i tedeschi invasero la città, si rifiutò di firmare un documento che denunciava presunte atro-cità commesse dall’esercito francese e tentò il suicidio tagliandosi la gola. Tuttavia sopravvisse e maturò la de-cisione di unirsi alla Resistenza. Destituito dal governo di Vichy, riparò a Londra ma tornò in patria nel gen-naio 1942 quale rappresentante del generale Charles De Gaulle nella cosiddetta zona libera. Qui promosse il coordinamento dei vari movimenti della Resistenza, cui diede unità operativa con la fondazione del Conseil national de la Résistance (maggio 1943), di cui fu il pri-mo presidente. Arrestato dalla Gestapo appena un mese dopo vicino a Lione, morì tra atroci torture ma non tradì i compagni.

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Marek Edelman, uomo politico polacco e attivista del-la Resistenza (1919-2009). Nato in una famiglia ebraica di Varsavia, aderì giovanissimo al Bund, l’Unione dei la-voratori ebrei di Russia, Lituania e Polonia, di impronta socialista, e negli anni dell’occupazione tedesca militò nel gruppo di resistenza fondato dal movimento; quando poi sorse la ŻOB – Żydowska Organizacja Bojowa, Organiz-zazione ebraica di combattimento (1942) – guidata da Mordechaj Anielewicz, si unì a essa, assumendo il co-mando delle squadre di combattimento del Bund.

Come vicecomandante della ŻOB, si distinse per il suo coraggio durante l’eroica insurrezione del ghetto di Varsavia, messa in atto da un pugno di ebrei che con po-che decine di armi tenne in scacco le truppe naziste per quasi un mese (19 aprile-16 maggio 1943). Fuggito il 10 maggio 1943, si nascose nella zona ariana della città e con i superstiti della ŻOB prese parte alla sanguinosa rivolta di Varsavia (agosto-ottobre 1944). Nel dopoguerra com-pletò gli studi e divenne medico ma non rinunciò alla sua militanza socialista anticomunista, finendo più volte in carcere. Quando nacque Solidarność (1980), ne fu uno dei consiglieri, fino a partecipare ai cosiddetti negoziati della Tavola rotonda (1989) tra il sindacato e la giunta militare del generale Wojciech Jaruzelski, che aprirono la transi-zione pacifica dal comunismo alla democrazia. Deputato alla Dieta (1989-93), fu insignito dell’ordine dell’Aquila, la massima onorificenza polacca (1998). Tra le sue opere: Il guardiano (1998); C’era l’amore nel ghetto (2009).

storia legato al Partito radical-socialista, servì brevemen-te nell’esercito sul finire della Prima guerra mondiale (1918) e, compiuti gli studi di Legge a Montpellier, intraprese la carriera amministrativa. Nel 1925 conob-be il giovane Pierre Cot, militante radical-socialista e futuro deputato della Savoia (1928-40) che, asceso al governo in veste di ministro dell’Aviazione (1933-34 e 1936-38), lo volle al suo fianco come capo di gabinetto; da tale posizione, Moulin sostenne i repubblicani nel-la Guerra Civile spagnola, inviando aerei e piloti, pur senza ottenere i risultati sperati. Entrato poi nell’ammi-nistrazione prefettizia, a 38 anni divenne il più giovane prefetto della Francia (nell’Aveyron) e nel 1940 assun-se la prefettura dell’Eure-et-Loir, con sede a Chartres. Quando nel giugno i tedeschi invasero la città, si rifiutò di firmare un documento che denunciava presunte atro-cità commesse dall’esercito francese e tentò il suicidio tagliandosi la gola. Tuttavia sopravvisse e maturò la de-cisione di unirsi alla Resistenza. Destituito dal governo di Vichy, riparò a Londra ma tornò in patria nel gen-naio 1942 quale rappresentante del generale Charles De Gaulle nella cosiddetta zona libera. Qui promosse il coordinamento dei vari movimenti della Resistenza, cui diede unità operativa con la fondazione del Conseil national de la Résistance (maggio 1943), di cui fu il pri-mo presidente. Arrestato dalla Gestapo appena un mese dopo vicino a Lione, morì tra atroci torture ma non tradì i compagni.

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I NUMERI

FORZE MILITARI IN CAMPO

Asse 18.860.000 di cui:Germania 10.300.000 (esercito 7.500.000, aviazione 2.000.000, marina 800.000)Giappone 4.360.000 (esercito 3.610.000, aviazione 400.000, marina 350.000)Italia 4.200.000 (esercito 4.065.000, aviazione 60.000, marina 75.000)

Alleati 39.574.000 di cui:Urss 13.550.000 (esercito 13.000.000, aviazione 500.000, marina 500.000)Stati Uniti 14.000.000 (esercito 8.300.000, aviazione 2.400.000, marina 3.700.000)Gran Bretagna 4.700.000 (esercito 2.900.000, aviazione 1.000.000, marina 800.000)Commonwealth 4.700.000 (esercito 3.075.000, aviazione 258.000, marina 95.000)

Francia 2.830.000 (esercito 2.500.000, aviazione 150.000, marina 180.000)Canada 1.100.000 (esercito 755.000, aviazione 250.000, marina 95.000)

PRODUZIONE BELLICA

Aerei:Stati Uniti 300.000 Gran Bretagna e Commonwealth 115.000Germania 112.000 Urss 100.000 Giappone 63.000

Carri armati:Stati Uniti 88.000 Gran Bretagna e Commonwealth 30.000Germania 46.000 Urss 90.000

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PERDITE UMANE COMPLESSIVE DELLA GUERRA*(compresa guerra sino-giapponese)

Militari: 22.000.000 civili: 48.000.000 Totale: 70.000.000

Asse 18.860.000 di cui:Germania 7.600.000 (militari 5.500.000, civili 2.100.000)Giappone 2.630.000 (militari 1.930.000, civili 700.000)Italia 443.000 (militari 313.000, civili 130.000)

Principali Alleati di cui:Urss 23.000.000 (militari 10.400.000, civili 12.600.000)Stati Uniti 413.000 (militari 405.000, civili 8.000)Gran Bretagna 365.500 (militari 272.000, civili 93.500)Francia 560.500 (militari 210.000, civili 350.000)

Guerra sino-giapponese:perdite cinesimilitari 4.000.000 civili 15.500.000 totale 19.600.000

PERDITE AEREI

Aviazione Usa: in Europa 18.100 in Asia e nel Pacifico 4.200Raf 35.500 Luftwaffe 79.000

* Fonte: Joseph V. O’Brien, Dipartimento di Storia – John Jay College of Criminal Justice, New York, NY, Usa

I NUMERI

FORZE MILITARI IN CAMPO

Asse 18.860.000 di cui:Germania 10.300.000 (esercito 7.500.000, aviazione 2.000.000, marina 800.000)Giappone 4.360.000 (esercito 3.610.000, aviazione 400.000, marina 350.000)Italia 4.200.000 (esercito 4.065.000, aviazione 60.000, marina 75.000)

Alleati 39.574.000 di cui:Urss 13.550.000 (esercito 13.000.000, aviazione: 500.000, marina: 500.000)Stati Uniti 14.000.000 (esercito 8.300.000, aviazione 2.400.000, marina 3.700.000)Gran Bretagna 4.700.000 (esercito 2.900.000, aviazione 1.000.000, marina 800.000)Commonwealth 4.700.000 (esercito 3.075.000, aviazione 258.000, marina 95.000)

Francia 2.830.000 (esercito 2.500.000, aviazione 150.000, marina 180.000)Canada 1.100.000 (esercito 755.000, aviazione 250.000, marina 95.000)

PRODUZIONE BELLICA

Aerei:Stati Uniti 300.000 Gran Bretagna e Commonwealth 115.000Germania 112.000 Urss 100.000 Giappone 63.000

Carri armati:Stati Uniti 88.000 Gran Bretagna e Commonwealth 30.000Germania 46.000 Urss 90.000

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GLI EVENTI

Q uando è effettivamente iniziata la Seconda guer-ra mondiale? La data canonica, registrata su tutti i

manuali scolastici, è il 1º settembre 1939, giorno in cui le forze armate tedesche, la Wehrmacht, attaccarono lo Sta-to polacco, e tuttavia ne sono pensabili altre, precedenti, se tra le cause principali del conflitto consideriamo la crisi, fattasi acuta negli anni Trenta, dell’ordine – sicuramente asimmetrico e diseguale – nato dalla Grande Guerra e formalizzato nei trattati di pace che la conclusero, nonché la drammatica incapacità a farvi fronte dell’istituzione so-vranazionale pensata alla scopo di risolvere pacificamente i contrasti tra gli Stati, la Società delle Nazioni (SdN). Questa, fortemente voluta dall’allora presidente degli Stati Uniti d’America Thomas Woodrow Wilson sulla base di proposte avanzate nel corso della guerra da intel-lettuali, studiosi e politici ed inserita nel testo del Trattato di Versailles, sarebbe poi nata nel gennaio 1920, ma senza

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la partecipazione statunitense, bloccata dall’opposizione di una parte del Senato all’articolo X della carta istitutiva dell’SdN, che prevedeva l’intervento automatico a difesa di uno Stato membro vittima di un’aggressione esterna. Per effetto dello stallo gli Usa non avrebbero sottoscritto nemmeno i trattati a suo tempo definiti a Parigi con la Germania, l’Austria residuale e l’Ungheria, regolando i propri rapporti con i tre Stati mitteleuropei tramite spe-cifici patti bilaterali siglati nel 1921.

Il primo degli episodi che possono essere considerati come l’avvio del processo che avrebbe portato alla guer-ra mondiale è il cosiddetto “incidente di Mukden” (per i cinesi) o “incidente manciuriano” (per i giapponesi), avvenuto nel 1931: un attentato ai binari della ferrovia mancese meridionale organizzato dai giapponesi stessi, che ne avevano acquisito il controllo in precedenza, for-nì il pretesto al governo ed alle forze armate del Sol Le-vante per invadere la regione staccandola dalla Cina; essa fu eretta l’anno successivo in Stato vassallo sotto il nome di Manchukuo. In tal modo si veniva a concretizzare il caso previsto dall’articolo X prima citato, ma l’unica rea-zione della SdN fu la costituzione di una commissione d’indagine il cui esito fu una mozione di condanna del Giappone, il quale dal canto suo reagì uscendo dall’or-ganizzazione internazionale.

Quella di Tokyo sarebbe stata la prima di una serie di secessioni che avrebbero ulte-

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riormente indebolita la SdN, a cominciare dalla pressoché contemporanea uscita della Germania (che vi era stata ammessa solo nel 1926 in quanto considerata responsabile del-la Grande Guerra) pochi mesi dopo la salita al potere di Adolf Hitler.

Se la contesa tra Cina repubblicana e Giappone impe-riale ed espansionista era avvenuta fuori dallo spazio euroatlantico, zona al tempo egemonica, la successiva crisi militare avrebbe visto come Stato aggressore una potenza europea: l’Italia monarchico-fascista. Il 3 ot-tobre 1935, infatti, il Regio Esercito entra in forze in Etiopia con l’obiettivo di occuparla integralmente; il 9 maggio 1936 l’Etiopia fu ufficialmente annessa. No-nostante la scomparsa dalla carta geografica di uno dei suoi Stati fondatori, la SdN non riuscì ad andare oltre l’approvazione di sanzioni economiche, parziali perché escludevano materie prime strategiche come il petrolio ed il carbone, nonché per la decisione di non applicarle presa sia da Stati non facenti parte delle Società, come gli Usa, o da essa già usciti, come la Germania, sia da Stati membri che si erano astenuti o che, pur avendo votato a favore, poi non interruppero i rapporti com-merciali con l’Italia.

Nel frattempo, il 7 marzo precedente, altra data cruciale, truppe tedesche erano entrate in Renania, territorio che, secondo il Trattato di Versailles, avrebbe

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dovuto rimanere smilitarizzato. L’operazione, denomi-nata in codice “Winterübung” (esercitazione inverna-le), avvenne in un contesto internazionale dominato dall’aggressione italiana all’Etiopia; la reazione sotto tono della SdN all’iniziativa mussoliniana confermò il gruppo dirigente del regime nazionalsocialista della sua praticabilità.

Le reazioni franco-britanniche all’entrata in Rena-nia di unità della Wehrmacht si sarebbero limitate al-le proteste verbali. Di lì a poco, il 17 luglio del 1936 – anno drammatico per il mutamento nei rapporti di forza tra le potenze a cui avrebbe dato luogo – avrebbe avuto inizio la Guerra Civile spagnola. Nata come re-golamento dei conti interno tra le forze conservatrici coagulatesi attorno al gruppo di generali golpisti – tra cui sarebbe poi emersa la leadership di Francisco Fran-co – ed il composito schieramento delle sinistre che facevano riferimento al governo legittimo di Fronte popolare, era destinata a trasformarsi in un confronto fortemente simbolico e per molti versi anche materiale tra fascismo ed antifascismo. Ciò avvenne in seguito all’appoggio dato ai golpisti da Italia e Germania, non-ché dal Portogallo salazarista, e al sostegno fornito alle autorità repubblicane – oltre che dall’Unione Sovietica e dal Messico – da un vasto movimento internazionale di solidarietà da cui sarebbero nate le Brigate volonta-rie internazionali. Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti avrebbero invece scelto la linea del “non intervento”.

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Il rosario di eventi sgranatosi dal 18 settem-bre 1931 al 17 luglio di cinque anni dopo fe-ce emergere con chiarezza lo schieramento delle potenze ostili all’“ordine di Versailles” e miranti a mandarlo in mille pezzi; ne face-vano parte con funzioni di apripista il Giap-pone, l’Italia e la Germania nazionalsociali-sta autodefinentesi Terzo Reich, i tre Stati che avremmo poi visto, di lì a qualche anno, combattere assieme legati tra loro da una complessa rete pattizia.

Il 7 luglio dell’anno seguente, 1937, il conflitto sino-giapponese, da decenni latente ed acutizzatosi dopo i fatti del 1931, riprese con violenza; le forze armate nip-poniche estesero ampiamente il territorio cinese sotto il proprio controllo, occupando nei mesi successivi Pechi-no, Shanghai, e l’allora capitale Nanchino, che fu tea-tro di terrificanti violenze compiute dall’esercito del Sol Levante. I combattimenti tra le parti belligeranti sareb-bero cessati solo con la resa delle truppe giapponesi av-venuta il 9 settembre 1945, una settimana esatta dopo la conclusione ufficiale della Seconda guerra mondiale.

L’ultimo episodio suscettibile di essere considerato come reale inizio di un conflitto generalizzato avvenne il 30 settembre 1938 a Monaco, dove i capi dei gover-ni britannico, Neville Chamberlain, francese, Édouard Daladier, tedesco, Adolf Hitler, italiano, Benito Mus-

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solini, sottoscrissero l’intesa che di fatto autorizzava la Germania ad annettersi la regione cecoslovacca dei Su-deti, abitata in prevalenza da tedeschi. La Wehrmacht l’avrebbe materialmente occupata all’inizio dell’ottobre successivo. Protocolli aggiuntivi al patto prevedevano la regolazione tramite accordi bilaterali delle contese su alcuni distretti di confine che opponevano la Cecoslo-vacchia rispettivamente a Polonia ed Ungheria; la prima già il 2 settembre inglobò la Zaolzie e poi un’ulteriore fetta di territorio cecoslovacco; la seconda, sulla base di una mediazione italogermanica (francesi e britannici si chiamarono fuori), si impadronì inizialmente di diverse strisce confinarie, a cui nel marzo 1939, in seguito al-la dissoluzione per mano tedesca della Cecoslovacchia residuale, si sarebbe aggiunta l’Ucraina transcarpatica.

L’accordo di Monaco fu una tappa chiave della strada verso la guerra generalizzata, segnando l’eclissi definitiva della SdN.

Venne sostanzialmente meno la possibilità di costruire un’intesa che, in funzione antitedesca (antinazista), ri-proponesse lo schieramento che nella Grande Guerra aveva avuto ragione degli Imperi centrali, opzione per-seguita dal gruppo dirigente moscovita in particolare dopo il 1933, con l’instaurarsi della dittatura hitleriana in Germania.

Imboccata con decisione, alla metà degli anni Venti,

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la strada del “socialismo in un Paese solo” dopo che già in precedenza erano state avviate strette relazioni politiche, economiche e militari con la Repubblica di Weimar sulla base della comune esclusione quali “Stati paria” dalla comunità internazionale, all’inizio del de-cennio successivo l’Urss venne infatti riconosciuta uffi-cialmente da numerose potenze e, nel 1934, entrò nella SdN, stringendo nello stesso periodo patti di non ag-gressione e poi di alleanza anche militare con la Francia e la stessa Cecoslovacchia.

Personaggio chiave di questa politica era stato il commissario del popolo agli Affari esteri Maxim Maximovič Litvinov, le cui posizioni risultarono però a quel punto pesantemente indebolite; non solo infatti l’Urss, come la Cecoslovacchia, non era stata invitata a Monaco, ma l’offerta moscovita di intervenire mili-tarmente in difesa di Praga si scontrò da un lato con la non disponibilità francese ad onorare il patto a suo tempo stretto con lo Stato mitteleuropeo, dall’altro con il rifiuto opposto da Polonia ed Ungheria a concedere a truppe sovietiche il passaggio sui propri territori, lo-ro necessario per potersi schierare a difesa dell’Alleato. Se si considera che la visione del mondo dominante a Mosca prevedeva l’inevitabilità della guerra quale necessario portato, sulla scorta delle analisi leniniane, dello sviluppo capitalistico, si può comprendere come i timori circa l’esistenza di una volontà politica franco-britannica mirante a scagliare il Terzo Reich contro

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l’Urss si fossero ingigantiti vista la sorte imposta alla Cecoslovacchia.

Il 3 maggio 1939 Litvinov sarebbe stato sostituito al commissariato del popolo agli Affari esteri da Vjačeslav Michajlovič Molotov, da tempo fautore di un avvicina-mento alla Germania in nome di una Realpolitik che mettesse al primo posto gli interessi dello Stato sovieti-co, sottraendolo ad un possibile attacco tedesco che lo avrebbe visto isolato.

Dalla svolta, il cui significato fu immediata-mente colto dai diplomatici dell’ambasciata tedesca, sarebbe scaturito il Patto di non aggressione germano-sovietico, firmato il 24 agosto al Cremlino dallo stesso Molotov e dal suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop.

All’intesa era allegato un protocollo segreto che defini-va le sfere d’influenza reciproche nell’area centro ed est- europea, oltreché nello spazio baltico. Data la sostan-ziale identificazione che si era creata negli anni prece-denti tra movimento comunista internazionale, coor-dinato dal Komintern (l’Internazionale comunista) e Urss, il patto, in sé e per sé una scelta razionale dal punto di vista della ragion di Stato sovietica, sarebbe stato presentato ai partiti comunisti come perfettamen-te conforme agli interessi della classe operaia mondiale,

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cosa che non avrebbe mancato di provocare un diffuso senso di sconforto nello schieramento antifascista in-ternazionale, nonché gravi fratture al suo interno che si sarebbero ricomposte solo dopo il 22 giugno 1941.

Col senno di poi ci si è spesso stupiti della passività mostrata da Francia e Regno Unito nei confronti dell’a-perta aggressività mostrata in quegli anni dalla Ger-mania nazionalsocialista, tramite la cosiddetta politica dell’“appeasement” (pacificazione, accomodamento), e tuttavia, sebbene rivelatasi miope, quell’opzione aveva, almeno dal punto di vista delle classi dirigenti dei due Paesi, un suo puntuale senso. Va considerato, prima di tutto, che quantunque alleati nella Grande Guerra, i due Stati tornarono ad avere, nel ventennio interbellico, gli stessi interessi divergenti che si erano manifestati nell’an-teguerra, puntando Londra a ricostruire un equilibrio tra le potenze europee medie e grandi che le permettesse di fungere da ago della bilancia, ed invece inseguendo Parigi un vecchio sogno egemonico sul Continente se-condo schemi che si possono far risalire a Napoleone e, prima di lui, a Luigi XIV. In secondo luogo, le loro élite dirigenti erano assai esitanti, ancorché per motivi di-versi, ad accettare di impegnarsi in un nuovo conflitto; quelle britanniche erano perfettamente coscienti di aver sì vinto sul campo di battaglia ma al prezzo della perdi-ta irrimediabile di una posizione egemonica in ambito economico e finanziario che era durata molti anni: nel 1914 il Regno Unito era potenza creditrice, nel 1919 era

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diventata potenza debitrice. Una nuova guerra, per forza di cose non breve né limitata, avrebbe significato andare incontro alla perdita dell’Impero.

Le radici dell’analogo atteggiamento francese erano le stesse che sarebbero state alla base della «strana disfat-ta», come il grande storico Marc Bloch avrebbe defini-to il collasso verificatosi nell’estate 1940: il timore del comunismo che avrebbe potuto giovarsi di uno scontro con la Germania nazista per forza di cose condotto in alleanza con l’Urss, l’attrazione esercitata dal modello politico fascista nelle sue diverse incarnazioni su settori non trascurabili dell’intelligencija e della politica, il pe-so della Francia conservatrice.

La Germania nazionalsocialista puntava alla costruzione di quel “grande spazio econo-mico” a guida tedesca che l’andamento del-le operazioni belliche nell’Europa Centro- orientale dal 1914 al 1918 aveva fatto bale-nare come realizzabile, con la radicale dif-ferenza che il piano aveva assunto, accanto alla dimensione economico-militare domi-nante vent’anni prima, valenze fortemente ideologiche dai chiari toni razzisti.

Dal “grande spazio economico” si era passati allo “spa-zio vitale”, al cui interno si presupponeva la costruzione di una gerarchia verticale di popoli-razza.

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L’Italia aveva dovuto, per il primo decennio postbel-lico, fare i conti con la netta sproporzione tra le proprie aspirazioni egemoniche rivolte verso lo spazio mediter-raneo, danubiano-balcanico, e coloniale-africano ed i propri mezzi materiali. Da ciò aveva avuto origine l’o-scillazione di Roma tra l’appoggio ad ogni spinta anti-Versailles e la ricerca di buoni rapporti con Londra, che dell’ordine di Versailles si presentava come la garante principe. L’arrivo al potere di Hitler ed il conseguente rovesciarsi della democratica Repubblica di Weimar nel dittatoriale Terzo Reich, debitore in molti campi, sia materiali sia simbolici, del primigenio regime fascista, avevano rappresentato per Mussolini ed il suo entou-rage il materializzarsi della leva, a lungo bramata, che avrebbe permesso loro di scardinare l’ordine scaturito dai Trattati di pace del 1919-1920.

Qui sta una delle radici, non l’unica ma nep-pure la meno importante, del movimento centripeto che avrebbe portato Roma e Ber-lino verso alleanze sempre più strette.

La serie ininterrotta di vittorie militari ottenute dall’Im-pero giapponese successivamente all’avvio di moderniz-zazione ed industrializzazione accelerate nella seconda metà del XIX secolo (Prima guerra sino-giapponese 1894-95; Guerra russo-giapponese 1904-1905; Prima guerra mondiale) aveva rafforzato le aspirazioni di im-

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portanti circoli intellettuali e gruppi di pressione che, in nome della dottrina del panasiatismo, ritenevano neces-saria un politica di espansione nella terraferma asiatica. Con l’andar del tempo il maggior ostacolo alla realizza-zione di quell’obiettivo iniziò ad essere individuato da quei settori dell’élite nella presenza sempre più visibile degli Usa nell’area del Pacifico. Contemporaneamente la fragile democrazia parlamentare affermatasi all’inizio del XX secolo perse progressivamente terreno di fronte alle correnti nazionaliste che promossero la trasformazione del Giappone in una dittatura militare dotata però di una propria ideologia, lo “spirito nazionale giapponese” (kokutai), una mescolanza di razzismo, ultranazionali-smo, espansionismo, lealtà assoluta verso il potere impe-riale considerato d’origine divina. Si andava definendo, intanto, il progetto della “Grande sfera di prosperità co-mune dell’Asia Orientale”, affine a quanto andava negli stessi anni prendendo forma a Berlino ed a Roma, con cui Tokio stava entrando in una forte relazione sia per la comune aspirazione revisionistica, sia per l’anticomuni-smo che era elemento costitutivo delle rispettive visioni del mondo. Un elemento particolarmente enfatizzato dalla propaganda nipponica fu l’idea dell’“Asia agli asia-tici”, una sorta di “dottrina Monroe” nelle intenzioni destinata a far presa sui movimenti anticolonialisti che si erano sviluppati e si stavano sviluppando nei possedi-menti britannici, francesi, olandesi dell’area.

Nel periodo interbellico prevalse negli Stati Uniti

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una forte e radicata spinta isolazionista che, nonostante nella seconda metà degli anni Trenta si fossero manife-state le tendenze aggressive cui si è in precedenza accen-nato da parte di Germania, Giappone ed Italia, avreb-be trovato espressione in quattro successive leggi sulla neutralità (Neutrality Acts, 1935, 1936, 1937, 1939) ed il connesso divieto di intervenire in qualunque modo, anche tramite rifornimenti, nei conflitti in corso votate a maggioranza dal Congresso. La cosa però non avrebbe impedito all’allora presidente Franklin Delano Roose-velt di avviare in segreto, nel 1937, la costruzione di una flotta di sommergibili d’altura in grado, se neces-sario, di bloccare il traffico marittimo giapponese. Dal 1938, inoltre, un programma di riarmo sarebbe stato, sia pur lentamente, avviato alla luce del sole. Nel luglio 1939 Washington dichiarò che il trattato commerciale con Tokio, risalente al 1911, avrebbe perso la propria validità dal gennaio successivo; esattamente un anno dopo, proibì l’esportazione di materiali strategicamente rilevanti, tra cui benzina avio, macchine utensili, ferro e acciaio, verso il Giappone, che non aveva allo stato altre possibilità di procuraseli.

L’INIZIO DELLA GUERRA

Era questa la situazione internazionale quando il primo settembre 1939 la Wehrmacht entrò in forze in Polonia

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senza che alle autorità di Varsavia fosse stata presentata, come d’uso sino ad allora, alcuna dichiarazione di guer-ra. L’attacco fu condotto su tre direttrici convergenti su Varsavia, una delle quali prese le mosse dalla Slovacchia, dal marzo 1939 Stato indipendente e vassallo del Ter-zo Reich. Il piano difensivo predisposto dalle autorità polacche prevedeva di concentrare le proprie forze im-mediatamente alle spalle del confine occidentale, nelle cui regioni erano collocate le maggiori concentrazioni produttive ed industriali del Paese, necessarie per il pro-seguimento della guerra, e faceva gran conto sull’inter-vento al proprio fianco di Francia e Gran Bretagna, sul-la base della garanzia accordata a Varsavia il 31 marzo.

Il 3 settembre 1939 Londra e Parigi dichiararono ef-fettivamente guerra a Berlino, decisione che però fu priva di effetti pratici immediati: né alla Polonia sotto attacco giunsero aiuti, né lungo il confine franco-tedesco ci fu-rono significativi attacchi. L’inazione franco-britannica e l’evolvere rapido degli eventi sul terreno indussero la Romania, sebbene legata alla Polonia da un trattato di alleanza, a dichiararsi, il 6 settembre 1939, neutrale, iso-lando così vieppiù Varsavia. Nelle due settimane succes-sive gran parte dell’apparato militare polacco fu messo fuori combattimento e vaste estensioni delle regioni cen-trali ed occidentali del Paese occupate, compresi molti importanti centri urbani. Le operazioni avevano assun-to inaspettatamente carattere di guerra di movimento, smentendo le aspettative comuni delle cancellerie fran-

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cese e britannica, del governo di Varsavia e delle stesse autorità moscovite che si aspettavano scenari da Grande Guerra con il connesso stabilizzarsi del fronte su campi trincerati e perciò contavano su tempi relativamente più lunghi per agire gli uni, per resistere il secondo, per inter-venire, giusto il patto appena siglato con Berlino, le terze.

Vista la situazione, Mosca si affrettò a chiudere il conflitto di frontiera che da alcuni mesi vedeva contrap-poste proprie, consistenti, truppe in appoggio alle forze armate dell’alleata Mongolia Esterna, che nel 1924 si era costituita in una Repubblica popolare dopo la presa del potere, tre anni prima, da parte del Partito popolare mongolo. La vicenda avrebbe avuto un peso nella scelta delle autorità giapponesi di concentrarsi sulla penetra-zione verso sudovest in territorio cinese, tralasciando la direttrice settentrionale che avrebbe comportato nuovi scontri con l’Urss.

Appena quarantott’ore dopo, il 17 settembre, l’Arma-ta Rossa, liberata dal rischio di una guerra su due fronti, varcava il confine orientale della Polonia. Grosso modo, l’avanzata delle truppe sovietiche si fermò, come pre-scritto dal protocollo segreto allegato al Patto Molotov- Ribbentrop, alla linea Curzon, così chiamata dal nome del ministro degli Esteri britannico George Nathaniel Curzon, che l’aveva proposta nell’ambito della Confe-renza di Pace di Parigi quale confine tra il rinato Stato polacco e la Russia sovietica sulla base di considerazioni di natura linguistica e nazionale.

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Solo grazie al conflitto polacco-sovietico durato dal 1919 al 1921 Varsavia aveva potuto spostare il confine orientale 250 chilometri più ad est.

Entro la fine del settembre 1939 lo Stato polac-co avrebbe cessato di esistere; il governo e una parte delle forze armate avrebbero trovato rifugio nei Paesi confinanti, dove sarebbero stati internati. Le due parti in cui il Paese era stato diviso ed occupato conobbero sorti parimenti drammatiche ma tra loro diverse: i ter-ritori sotto occupazione tedesca furono in parte annes-si, ricostituendo così quella continuità territoriale del Reich guglielmino che il Trattato di Versailles aveva spezzato, in parte assoggettati ad un regime di tipo co-loniale. In ambedue le aree, comunque, vennero ap-plicate dalle autorità tedesche politiche violentemente oppressive sia nei confronti degli ebrei, che vennero rinchiusi in quartieri trasformati in ghetti, sia verso il resto dei polacchi, destinati nei piani della dirigenza nazionalsocialista ad essere ridotti alla condizione di iloti, cui fornire solo una minima istruzione di base utile ad obbedire. Di conseguenza vennero chiuse uni-versità e scuole superiori, mentre l’intelligencija, dai professori universitari ai maestri, dai sacerdoti ai gior-nalisti venne sistematicamente perseguitata e spesso fisicamente eliminata.

Nelle regioni orientali occupate dall’Urss la politica di sovietizzazione forzata e di “socializzazione” dei mez-zi di produzione colpì in modo prevalente la minoranza

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polacca, il cui status sociale era spesso più elevato, e fu condotta con mezzi assai brutali, tra cui spiccarono deportazioni di massa verso la Siberia o l’Asia centrale e fucilazioni su vasta scala.

Non necessariamente, tuttavia, i rapporti tra la Ger-mania nazionalsocialista e la Polonia governata dai mi-litari dovevano sfociare in un conflitto bellico. Per pa-recchio tempo Berlino cercò di trovare in Varsavia un alleato contro l’Urss. Poi le cose andarono diversamente.

Ha inizio a quel punto la “strana guerra” (drôle de guerre), un periodo di alcuni me-si durante il quale di fatto non si combatte, sebbene Germania da un lato, Francia e Gran Bretagna dall’altro siano reciprocamente in armi, e le profferte di pace avanzate ad ot-tobre da Berlino siano state seccamente re-spinte da Londra e Parigi.

Dal canto loro i principali alleati del Terzo Reich, Giap-pone ed Italia, stavano per il momento a guardare: il primo, pur essendosi nel 1935 legato a Berlino trami-te il Patto anticomintern, cui due anni dopo avrebbe aderito pure Roma, era impegnato con alterne vicende nella campagna in Cina, la seconda aveva optato per la “non belligeranza”. Sebbene a partire dal 1934 avesse intrecciato la propria economia con quella germanica tramite un regime di scambi bilanciati (clearing) e due

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anni dopo avesse rafforzato la cooperazione bilaterale tramite quell’insieme di accordi a cui Mussolini avreb-be dato la fortunata definizione di Asse Roma-Berlino, l’Italia fece tale scelta in considerazione sia del consumo di armamenti provocato dalla Campagna di Etiopia sia dei tempi previsti dal suo gruppo dirigente per la pre-parazione di un conflitto che spostasse a proprio favore gli equilibri tra le potenze, visto come auspicabile non prima del 1942.

Se la decisione tedesca di avviare nel settembre 1939 una campagna militare suscettibile, con forte probabi-lità, di innescare una guerra di ampie dimensioni colse di sorpresa Mussolini ed il suo entourage, essa aveva pe-rò solide motivazioni, se non costrizioni, da ricercare nella sfera della politica economica e nella politica del commercio estero messa in atto dal Terzo Reich. La crisi mondiale del 1929, infatti, oltre a colpire molto duramente l’economia tedesca, aveva provocato la fran-tumazione del mercato mondiale in segmenti separati; la Germania, non autosufficiente nel settore alimentare ed il cui apparato industriale era essenzialmente di tra-sformazione, non poteva fare a meno del commercio estero. Per superare la stasi produttiva interna si fece ricorso dopo il 1933 al finanziamento statale in deficit. A ciò si aggiunse l’esigenza per il gruppo dirigente na-zionalsocialista di essere sempre in grado, anche in caso di una futura e prevista guerra, di produrre “e burro e cannoni”, cosa che fece avviare una politica aggressiva

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verso l’esterno, sfociata dal 1938 in una serie di con-quiste territoriali. Da questo punto di vista l’annessione dell’Austria, poi dei Sudeti, la successiva trasformazione della Boemia e della Moravia in un protettorato e la se-guente occupazione della parte centro-occidentale della Polonia vanno anche viste come un modo per mettere le mani sulle riserve valutarie, sulle scorte di materie prime, sugli apparati produttivi industriali e sulla pro-duzione agroalimentare dei territori invasi.

Mentre ad Occidente tutto sembrava fermo, qualcosa si stava muovendo invece ad Oriente.

Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 1939, l’Urss chiese ultimativamente a Lituania, Lettonia ed Esto-nia di concederle basi militari, motivando la richiesta con esigenze di sicurezza del proprio territorio. I tre Stati baltici erano diventati indipendenti nel 1918, in seguito alla crisi dell’Impero zarista culminata nella Rivoluzione d’Ottobre; stretti tra Germania, Unione Sovietica e Polonia, per motivi essenzialmente geopo-litici si legarono strettamente alla Gran Bretagna, che dopo la Grande Guerra aveva ripreso la propria tradi-zionale politica mirante ad ottenere un equilibrio tra le varie potenze europee.

Ma date le circostanze non poterono fare altro che cedere alla pressione sovietica.

Diversa fu l’evoluzione delle cose in Finlandia, in-

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dipendente dal 1917, a cui già nel 1938 Mosca aveva avanzato proposte di rettifica territoriale allo scopo di migliorare le difese di Leningrado; ripresentate all’ini-zio di ottobre 1939 sotto la forma dello scambio di ter-ritori, esse furono sostanzialmente respinte da Helsinki. A novembre ebbe inizio il conflitto armato; sebbene originato da motivi prettamente strategico-militari, il gruppo dirigente sovietico cercò di attribuirgli un co-lore politico rivoluzionario dando vita ad un governo popolare finlandese guidato dall’esponente comunista Otto Kuusinen. L’aggressione valse all’Urss l’espulsione dalla SdN, votata il 14 dicembre 1939. Fu l’ultima sua azione di qualche importanza. Nonostante l’Armata Rossa disponesse di forze preponderanti per numero di armamenti, la strenua difesa finlandese riuscì a tenerla in scacco per oltre quattro mesi, infliggendole pesanti perdite. Solo verso la fine dell’inverno una rinnovata offensiva sovietica e il rifiuto degli altri tre Paesi scan-dinavi (Danimarca, Norvegia e Svezia) di permettere il passaggio sui propri territori di contingenti franco-britannici, che Londra e Parigi intendevano mandare in appoggio ai finlandesi, costrinse Helsinki ad accettare le rettifiche di confine volute da Mosca, ratificate nel Trattato di Mosca del marzo 1940. La “guerra d’inver-no”, come è usualmente definita, ed il suo andamento non positivo per l’Urss ebbero conseguenze non trascu-rabili sull’immediato futuro, contribuendo a convince-re sia le cancellerie occidentali sia la dirigenza tedesca

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sulla natura di “gigante dai piedi di argilla” dell’Unione Sovietica, il cui apparato militare era parso scarsamente motivato e mal guidato, presumibilmente, si riteneva, per effetto della violenta epurazione che aveva colpito, in diverse forme, quasi quarantamila quadri militari tra il 1937 ed il 1938, decapitando l’Armata Rossa.

Analogamente, ancorché non si fosse realizzato, il progetto franco-britannico, mirante a sostenere la Fin-landia con un proprio corpo di spedizione nella regione scandinava, mise in allarme Berlino inducendola a met-tere in sicurezza quell’area prima di avviare una offensi-va ad occidente. Non si dimentichi infatti che nel Nord della Svezia, Stato neutrale ed in sé strategicamente non così importante perché le sue coste si affacciano in gran parte sul mar Baltico, sono collocate le importantissi-me miniere di ferro di Kiruna, cruciali per l’economia di guerra tedesca che continuò ad importare in gran-de quantità il minerale per tutto il corso del conflitto; la possibilità che, sia pur in violazione della neutralità svedese, esse passassero sotto controllo britannico non poteva ovviamente essere accettata dalla Germania.

Non per caso il 9 aprile 1940 la Wehrmacht attaccò Danimarca e Norvegia, l’una porta del Baltico, l’altra fi-nestra sull’Atlantico; mentre le forze armate danesi non opposero praticamente alcuna resistenza, permettendo agli invasori di controllare tutto il Paese in meno di una settimana, quelle norvegesi continuarono a combatte-re in modo organizzato sino al 10 giugno, ed anche

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successivamente attraverso azioni di guerriglia condotte da piccoli gruppi. Diverse anche le scelte dei sovrani: Haakon VII di Norvegia si trasferì con i suoi ministri in Gran Bretagna, dove venne istituito un governo norvegese in esilio, mentre Cristiano X di Danimarca rimase a Copenhagen. Per inciso i due erano fratelli. In seguito all’azione tedesca il mar Baltico passò sotto controllo germanico; i restanti Stati scandinavi, Svezia e Finlandia, rimasti neutrali, erano di fatto sotto costante minaccia ed obbligati ad accettare le richieste, all’inizio principalmente economiche, poi anche riguardanti ser-vitù militari come transiti di truppe, di Berlino.

La reazione franco-britannica puntò a prendere il controllo del porto di Narvik, nel Nord della Norvegia, collegato alla miniere svedesi di Kiruna da una linea fer-roviaria, attraverso l’azione congiunta di marina, avia-zione e fanteria ma, dopo averne cacciato i tedeschi il 28 maggio, le truppe alleate furono costrette a ritirarsi in se-guito all’attacco sferrato dalla Wehrmacht ad occidente.

Pressoché in contemporanea, il 10 maggio prece-dente, truppe britanniche erano sbarcate a Reykjavík, capitale dell’Islanda, imponendo al governo locale la propria presenza in funzione antigermanica, nonostan-te le autorità dell’Isola, al tempo regno autonomo in unione personale con la Danimarca, avessero dichiara-to la propria neutralità; dopo l’entrata nel conflitto de-gli Usa, alla fine del 1941, nell’Isola oceanica si sarebbe installato anche un presidio statunitense.

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La dimensione globale che la guerra stava assumendo fece infatti prevalere ovunque le esigenze strategico-militari su ogni altra considerazione.

Nello stesso giorno, denso di svolte, a Londra Winston Churchill avrebbe sostituito Neville Chamberlain alla testa del governo, e la Wehrmacht avrebbe lanciato un attacco avvolgente contro la Francia (in codice Fall Rot, Operazione Rosso) attraverso Belgio e Paesi Bassi (in codice Fall Gelb, Operazione Giallo), Stati neutrali che vennero coinvolti per motivi banalmente geografici. La campagna, che vide l’abbondante impiego da parte te-desca di mezzi corazzati ed aerei, assunse quasi subito, sebbene ciò non fosse stato pianificato a tavolino, il ca-rattere di una rapida guerra di movimento.

I Paesi Bassi cedettero le armi dopo appena quattro giorni, il Belgio si arrese il 28 maggio; nei giorni se-guenti le unità tedesche si spinsero verso il canale della Manica, intrappolando in una gigantesca sacca gran parte del corpo di spedizione britannico e un consi-stente numero di unità francesi. Il 4 giugno i reparti della Wehrmacht raggiunsero la costa. Oltre 300.000 militari alleati poterono mettersi in salvo da Dunker-que diretti in Gran Bretagna, altre decine di migliaia caddero prigionieri. A quel punto i reparti tedeschi mossero verso sud-est, intrappolando le restanti forze francesi schierate alle spalle della Linea Maginot.

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Il 14 giugno occuparono Parigi, nei giorni successivi conclusero l’accerchiamento.

La Francia era debellata.

A governo ed assemblea nazionale, trasferitisi a Bor-deaux, non restavano che due possibilità: continuare la lotta dai territori francesi del Nordafrica o adattarsi ad un armistizio. Dopo convulse discussioni che coin-volsero tanto Londra quanto Parigi, il governo britan-nico propose l’immediata formazione di una Unione franco-britannica; il progetto piacque al primo ministro francese, Paul Reynaud, ed al suo sottosegretario alla Guerra, il generale Charles De Gaulle, riparato in Gran Bretagna con i reparti francesi postisi in salvo dalla sac-ca di Dunkerque, ma si scontrò con l’opposizione della maggioranza del gabinetto. Reynaud si dimise lasciando la carica di primo ministro all’anziano maresciallo Phi-lippe Pétain, eroe della Grande Guerra, il quale decise di trattare con la Germania; l’Armistizio fu firmato il 22 giugno ed entrò in vigore tre giorni dopo.

L’ITALIA ENTRA IN GUERRA

Il 10 giugno anche l’Italia, ponendo fine al-la propria non belligeranza, entrò in guerra, iniziando immediatamente un’offensiva sulle

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Alpi occidentali, alla quale le truppe francesi schierate a difesa del confine reagirono, no-nostante la catastrofe incombente, con ina-spettata durezza.

La campagna durò tuttavia pochi giorni; già il 24 a Ro-ma sarebbe stato firmato il cessate il fuoco. Molto è sta-to scritto sulla non belligeranza, sulle sue motivazioni e sui suoi possibili sbocchi; si è sostenuto che essa avrebbe potuto protrarsi nel tempo e che solo il repentino crol-lo della Francia di fronte alle colonne corazzate tede-sche abbia determinato Mussolini ed i suoi gerarchi ad abbandonarla decidendo di entrare in guerra. In realtà Roma si lega mani e piedi a Berlino ben prima dell’e-state 1940: in seguito all’annuncio, dato da Londra il 1° febbraio, che la Royal Navy avrebbe sequestrato tutte le merci tedesche o dirette in Germania anche se trasportate da naviglio neutrale, bloccando per-ciò l’80 per cento delle forniture di carbone tedesco all’Italia, che viaggiavano per mare, prevalentemente via Rotterdam, e quindi mettendo in crisi il Paese, le autorità italiane reagiscono chiedendo all’Alleato ger-manico di garantire la copertura di tutto il fabbiso-gno dell’Italia, circa un milione di tonnellate al mese, con la clausola che il trasporto avvenisse per ferrovia. Contemporaneamente rifiutano sdegnosamente la proposta britannica di sostituire con proprio carbone la percentuale finita sotto embargo, che Londra aveva

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avanzato nella ovvia speranza di trasformare la non belligeranza in neutralità.

Berlino si dichiara disponibile, rimarcando che il conseguente onere, pesantissimo, era giustificato in primis da motivi politici, al fine cioè di rendere l’Italia totalmente indipendente dalla Gran Bretagna. All’ini-zio di marzo 1940 l’accordo è sottoscritto. Con esso le possibilità di autonomia dell’Italia scendono a zero. Nonostante ciò, nei mesi seguenti la Germania dosa col bilancino i rifornimenti, in modo che l’Alleato italico percepisca costantemente sul collo la gelida stretta della scarsità. D’altro canto, la conquista della Polonia pri-ma, della Francia, del Belgio e del Lussemburgo dopo (con i ricchi bacini carboniferi di cui essi dispongono) contribuiscono a rendere più rigida la dipendenza ita-liana dai flussi il cui ritmo è deciso a Berlino.

La prosecuzione della non belligeranza, cioè, era da questo punto di vista possibile solo se l’Italia mussoli-niana si adattava a svolgere un ruolo meramente gre-gario del Terzo Reich, per di più con la prospettiva di non guadagnarci un bel nulla in caso di vittoria finale hitleriana. L’unica alternativa radicale, va sottolineato, era il rovesciamento drastico delle alleanze, prospetti-va incompatibile con la permanenza al potere di quel gruppo dirigente in quel contesto storico preciso.

L’entrata in guerra dell’Italia apre nuovi fronti di guerra, proprio nel momento in cui

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sul continente europeo stanno cessando i combattimenti:

il Mediterraneo, da quel momento solcato da flotte ostili, la sua sponda meridionale ed il corno d’Africa, dove iniziano a fronteggiarsi reparti di fanteria italiani e britannici, con da entrambi i lati truppe coloniali. Le sorti della Francia sconfitta sono paradigmatiche di quanto succederà ad altri Paesi occupati dalle forze dell’Asse: l’Alsazia Lorena torna a far parte della Ger-mania; larga parte del territorio, comprendente Parigi con quasi tutto il Nord-ovest e le zone prospicienti l’Oceano, viene sottoposta ad un amministrazione militare germanica; i distretti carboniferi dell’estremo Nord vengono staccati dal resto della Francia e con-giunti col Belgio sotto un’altra amministrazione mili-tare tedesca, mentre sul resto i vincitori consentono ri-manga la sovranità francese, incarnata però non più in una République, ma in un État dai tratti decisamente autoritari e fascistizzanti, con a capo Pétain e capitale la città termale di Vichy.

Negli stessi giorni in cui quest’ultimo chiedeva l’ar-mistizio al Terzo Reich, però, a Londra Charles De Gaulle lanciava il suo appello ai francesi invitandoli a resistere ed a unirsi alle forze francesi libere. All’epoca la Francia possedeva un grande impero coloniale, che si estendeva dall’Africa araba e nera, al Vicino Orien-te, all’Indocina; in termini formali le amministrazioni

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coloniali dipendevano dal governo di Vichy, ma la sua presa su di esse era tutt’altro che sicura, cosa che la-sciava spazio agli sforzi gaullisti. Ampi possedimenti coloniali li avevano anche Belgio e Paesi Bassi; se la sorte delle metropoli fu analoga a quella della Francia di Vichy, quella delle Colonie fu varia: l’amministra-zione belga del Congo si mise infatti pressoché subito a disposizione della Gran Bretagna, mentre i territori dipendenti dall’Olanda, localizzati in parte significati-va in Asia, avrebbero dovuto in seguito fare i conti con il progetto egemonico giapponese.

Trattandosi di due monarchie, i loro sovrani fecero scelte analoghe e parallele a quelle dei reali di Norve-gia e Danimarca: Guglielmina d’Olanda si rifugiò a Londra, e costituì in terra britannica un governo in esilio; Leopoldo III del Belgio preferì rimanere in pa-tria nonostante il suo governo avesse deciso di rifu-giarsi prima a Parigi e poi a Londra.

A contrastare le potenze dell’Asse, ed in pri-mo luogo la Germania, era rimasta la sola Gran Bretagna, da cui pure dipendeva un si-stema imperiale di dominions e colonie di impressionante dimensione ed estensione; non solo, ma Londra era divenuta la sede di governi in esilio dei Paesi occupati dalle armi tedesche: Polonia, Norvegia, Francia, Paesi Bassi, Belgio, mantenendo così in vi-

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ta, almeno sul piano simbolico, l’idea di una coalizione antifascista plurinazionale.

Nei confronti del Regno Unito, però, i progetti nazio-nalsocialisti erano più complessi rispetto a quelli riser-vati agli Stati continentali; l’obiettivo di fondo rimane-va costringere Londra ad accettare il fatto compiuto, cioè il dominio tedesco sul continente europeo, stipu-lando una pace di compromesso.

La successiva mossa militare del Terzo Reich, l’at-tacco all’Isola noto come Battaglia d’Inghilterra, aveva infatti quello scopo, da raggiungere prima di tutto at-traverso il dominio dell’aria. Avviate all’inizio di luglio 1940, le operazioni della Luftwaffe, che si sarebbero protratte sino all’ottobre successivo e che potevano giovarsi, a quel punto, di basi di partenza collocate in Francia, Belgio e Paesi Bassi, si proponevano tre obiet-tivi: la conquista della supremazia aerea, da perseguire tramite la messa fuori combattimento della Royal Air Force (Raf ); l’indebolimento dell’apparato produtti-vo britannico attraverso bombardamenti distruttivi sui suoi centri industriali, lo spargimento del terrore tra la popolazione civile mediante attacchi terroristici sulle città, secondo una modalità teorizzata come in grado di avere un peso decisivo sugli esiti dei con-flitti del tempo dall’ufficiale superiore italiano Giulio Douhet, che l’aveva esposta nel 1921 nel suo volume Il dominio dell’aria.

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In stretta connessione con l’offensiva aerea, il grup-po dirigente nazionalsocialista avviò i preparativi per un’eventuale sbarco, sotto il nome in codice di Opera-zione Otaria (Seelöwe). L’operazione Otaria non avreb-be però mai avuto luogo, non essendo state Luftwaffe e Kriegsmarine, che partecipavano alla campagna anti-britannica puntando a bloccare le vie di comunicazione marine di Londra, in grado né di debellare la Raf, né di interrompere in modo decisivo le linee di rifornimento del Regno Unito; nonostante un costo umano tutt’altro che irrilevante, in particolare tra i civili (circa 40.000 morti), le perdite britanniche in velivoli e piloti furono non poco inferiori a quelle tedesche.

Va tenuto presente che le squadre aeree della Luft-waffe avevano pagato un prezzo consistente nelle cam-pagne appena concluse in Europa Occidentale, grazie in particolare all’attività della contraerea dei Paesi Bas-si, che era riuscita a mettere fuori combattimento oltre 500 aerei tedeschi, quantità consistente che perciò sa-rebbe venuta a mancare nell’immediatamente seguente Battaglia d’Inghilterra. Se di un suo lascito duraturo si può parlare, questo riguarda semmai la pratica del bombardamento terroristico sulle aree urbane, anche prive di rilevanza militare, allo scopo di spezzare il mo-rale dei civili. Douhet aveva effettivamente fatto scuola, e gli attacchi indiscriminati della Luftwaffe nell’estate del 1940 sarebbero divenuti un modello anche per le forze aeree dei nemici del Terzo Reich.

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Le aspettative di Berlino circa la possibilità che Lon-dra si adattasse ad una pace separata non mancavano di basi consistenti; una parte del gabinetto di Guerra britannico, a cominciare dal ministro degli Esteri, Lord Halifax (Edward Frederick Lindley Wood), convinto fautore dell’appeasement, non disdegnava l’opportunità di uscire dal conflitto attraverso un accordo con la Ger-mania nazionalsocialista che, in cambio del riconosci-mento dell’egemonia di Berlino in Europa, permettesse al Regno Unito la conservazione dell’Impero colonia-le, tanto più che la recente entrata in guerra dell’Italia costituiva per quest’ultimo una ulteriore minaccia. Lo scontro interno al governo fu però vinto da Churchill e dai suoi fautori; di lì a qualche mese Halifax fu sollevato dall’incarico ministeriale ed inviato quale ambasciatore a Washington, la capitale degli Usa il cui presidente, Franklin Delano Roosevelt, pur dovendo fare i conti con una forte opzione neutralista ed isolazionista, mag-gioritaria sia nella pubblica opinione sia al Congresso, stava iniziando a rivedere la propria politica estera in senso progressivamente filobritannico. Nel frattempo, la radicalità della scelta churchilliana di continuazione della guerra si era espressa anche nell’attacco distrutti-vo alla flotta francese, all’ancora nel porto algerino di Mers-el-Kebir, portato da una squadra navale britanni-ca il 3 luglio 1940.

La decisione, che non mancò di scavare un solco tra i due Paesi, rafforzando almeno temporaneamente il

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consenso della disorientata opinione pubblica francese al governo Pétain, fu presa nel timore che le navi da battaglia francesi cadessero in mano tedesca, mettendo così a gravissimo rischio la Mediterranean Fleet che già doveva fare i conti con la Marina militare italiana, sulla carta potenzialmente superiore.

La mancata debellatio o comunque uscita dal conflitto per via negoziale del Regno Unito rappresentò sicuramente un punto di svolta decisivo nel suo andamento – sebbene ciò sia sfuggito alla quasi totalità dei commen-tatori coevi – costringendo in seguito il Ter-zo Reich ed i suoi alleati a dividere significa-tivamente le loro forze.

ATTACCO ALL’URSS

Proprio mentre infuriava lo scontro nei cieli britannici, infatti, il complesso rapporto tra Germania ed Unione Sovietica stava per entrare definitivamente in crisi; at-traverso un articolato processo decisionale ai vertici del Terzo Reich prese forma, tra l’inizio di giugno e la fine di luglio 1940, un piano di attacco generalizzato contro l’Urss: Hitler era tornato a dare la priorità all’Orien-te quale luogo in cui trovare il desiato “spazio vitale” (Lebensraum).

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Il 31 luglio il Führer espresse ai membri del comando della Wehrmacht la propria deci-sione di muovere guerra all’Unione Sovietica prima che fosse risolta la partita con il Re-gno Unito, motivandola con la necessità di togliere a Londra l’ultimo potenziale suppor-to continentale al proprio rifiuto di intavola-re trattative di pace.

Secondo il punto di vista hitleriano, Mosca avrebbe do-vuto essere schiacciata tramite un attacco in forze con-dotto da almeno 120 divisioni (il che significa, a ranghi completi, oltre 1.800.000 uomini) in una sorta di guer-ra lampo (Blitzkrieg) della durata di quattro sei settima-ne. I vertici della Wehrmacht fecero presente che un as-salto del genere, da condurre su di un fronte vastissimo, dal mar Baltico al Mar Nero, richiedeva come minimo quattro mesi di preparazione, quindi l’offensiva non poteva aver luogo precedentemente alla primavera del 1941. Immediata conseguenza del cambio di rotta fu l’interruzione del programma di costruzione di arma-menti finalizzato alla Battaglia d’Inghilterra, che preve-deva di concentrare le risorse su aviazione e marina, e la sua sostituzione con una direttiva che invece dava la priorità all’esercito.

La preferenza accordata dal gruppo dirigente del Terzo Reich a campagne militari brevi condotte dopo aver accumulato vasti stock di armamenti ad hoc, sal-

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vo poi, ad offensiva ancora in corso, spostare materie prime, fonti di energia e manodopera sulle produzioni necessarie alla campagna successivamente programma-ta, va ricondotta in larga parte al radicato timore di un possibile ripetersi della crisi del 9 novembre 1918. Questa aveva portato al collasso del Kaiserreich, alla ri-voluzione ed alla nascita dell’odiata, ai loro occhi, Re-pubblica detta di Weimar. L’Impero guglielmino non era infatti crollato sotto l’urto di catastrofiche sconfit-te militari, bensì, principalmente, per il dissolversi del fronte interno a causa del secco peggioramento del te-nore di vita della popolazione, causato in primo luogo dal blocco navale britannico verso gli Imperi centrali.

Qui sta inoltre una delle radici della decisio-ne di Hitler e dei suoi paladini, come sono stati definiti dalla storiografia, di puntare ad Oriente; avendo cessato la Germania, sul fi-nire dell’Ottocento, di essere autosufficiente per quanto riguardava le derrate alimentari, la soluzione definitiva del problema andava cercata nelle “terre nere” dell’Ucraina allora sovietica.

Analogamente, mettere le mani sulle riserve petrolifere dell’Azerbaigian avrebbe reso il Terzo Reich, già ricco in proprio di carbone e per di più impadronitosi nel me-si precedenti dei distretti carboniferi polacchi, belgi e

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francesi, del tutto indipendente sotto l’aspetto dell’ap-provvigionamento energetico.

Nello stesso arco di tempo in cui si apriva concre-tamente la prospettiva di un nuovo ed esteso fronte ad Oriente, una serie di strutture scientifiche e di ricerca che facevano capo ai vertici dell’apparato SS elaborava-no il cosiddetto Generalplan “Ost” (Piano generale per la riorganizzazione dello spazio orientale) che prevede-va un pesante intervento sulla composizione demogra-fica dei territori occupati, prima quelli polacchi, e poi i sovietici, finalizzato alla loro germanizzazione, da con-durre attraverso deportazioni di massa ed eliminazioni pianificate della popolazione considerata in eccesso che fosse colà residente. La presenza ebraica, storicamente consistente in quelle aree, andava ovviamente “rimossa” in toto, ma con essa anche parte notevole degli abitan-ti di lingua e cultura slava. Unito al virulento antibol-scevismo che faceva parte integrante della visione del mondo dei fascismi, di cui il nazionalsocialismo non rappresenta altro che una versione estremamente radi-cale, fu questo complesso di obiettivi a far assumere alla successiva Operazione Barbarossa il carattere di guerra di annientamento.

Dal canto loro, nella seconda metà di giugno 1940, truppe sovietiche avevano occupato i tre Paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia), già messi sotto tutela nel settembre precedente. Se da un punto di vista stretta-mente strategico-militare questa mossa del Cremlino,

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come anche la precedente guerra d’inverno contro la Finlandia, aveva un suo ben chiaro senso, mirando a consolidare le spalle di un possibile fronte di guerra dell’Urss nei confronti della Germania, altra questione fu, anche in questo caso, il travestimento della ragion di Stato moscovita con la causa e gli interessi del mo-vimento operaio e comunista mondiale, in modo da portare avanti con rapidità la “bolscevizzazione” dei tre Stati divenuti nuovi membri dell’Unione Sovietica.

LA GUERRA IN AFRICA E NEI BALCANI

Come già ricordato, l’entrata in guerra dell’Italia aprì un nuovo fronte nell’Africa Settentrionale ed orientale; da un punto di vista strategico sarebbe stato cruciale per l’Italia il Fronte dell’Africa Settentrionale; la rapida conquista dell’Egitto e del canale di Suez avrebbe per-messo di mettere sotto controllo il Mediterraneo pri-vando la flotta britannica della sua base di Alessandria e riducendo praticamente a zero l’importanza di Malta, di cui del resto gli stessi comandi inglesi avevano pre-visto la caduta nei primi mesi di guerra. Alla Mediter-ranean Fleet sarebbe così rimasta solo la disponibilità di Gibilterra.

Non solo, nella misura in cui a Mussolini ed ai suoi gerarchi premeva condurre una guerra “parallela” ed au-tonoma rispetto a quella della Germania hitleriana, pro-

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prio il Nordafrica rappresentava l’opportunità migliore. È questo il senso di importanti scelte della dirigenza del regime, quali il rifiuto opposto, nell’aprile 1940, alla proposta tedesca di partecipare all’imminente offensi-va contro la Francia trasferendo una propria armata sul Reno, e la non accettazione dell’offerta di Hitler, avan-zata nell’agosto dello stesso anno e ripetuta più volte nelle settimane seguenti, di mettere a disposizione uni-tà corazzate tedesche per le operazioni contro l’Egitto. Unicamente nella Battaglia d’Inghilterra ci sarebbe stata una certa partecipazione italiana, tramite l’invio, tra set-tembre ed ottobre 1940, in supporto alla Luftwaffe di un Corpo aereo italiano (Cai), forte di 178 aeroplani da bombardamento, da caccia e di appoggio.

Il 19 agosto 1940 Mussolini in persona scrisse al generale Rodolfo Graziani, governatore e comandante delle truppe italiane della Libia, di prepararsi ad attac-care le forze britanniche in Egitto. Sulla carta la spro-porzione delle forze era enorme e decisamente a favore degli italiani: Graziani aveva ai suoi ordini oltre cento-cinquantamila uomini, a cui il comandante supremo inglese in Egitto, il generale Archibald Wavell, poteva opporne solo trentamila, tra reparti metropolitani e co-loniali. È vero che Wavell aveva a disposizione carri ar-mati pesanti, che mancavano a Graziani, tuttavia il lo-ro numero era limitato (una cinquantina), mentre per quanto riguardava i mezzi corazzati medi e leggeri era-no gli italiani ad essere quantitativamente in vantaggio.

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L’11 settembre successivo iniziarono le ostilità; co-lonne italiane varcarono il confine tra Libia ed Egitto ed avanzarono, praticamente senza incontrare resisten-za, poiché gli inglesi, consci della propria inferiorità, si erano ritirati su linee più arretrate, sino all’oasi di Sidi el Barrani, dove Graziani ordinò di assestarsi fortifican-do il terreno ed apprestandosi alla difensiva. Gli italiani erano così riusciti a costituire una testa di ponte in terri-torio egiziano, sicuramente fastidiosa per i loro avversari ma di per sé non decisiva, se non nell’ipotesi di prose-guire l’avanzata. Nulla invece si verificò fino ai primi di dicembre, e quando qualcosa di nuovo accadde fu per iniziativa dei britannici. Il 9, infatti, cominciò una con-troffensiva dei reparti di Wavell, che aveva inizialmente un obiettivo limitato: la riduzione del territorio sotto controllo italiano. Lo schieramento difensivo italiano a Sidi el Barrani crollò invece di schianto, lasciando agli attaccanti via libera verso il territorio libico. In poche settimane i britannici presero le piazzeforti di Tobruk e Bardia, ed occuparono, il 6 febbraio 1941, la capitale della Cirenaica, Bengasi. Le dimensioni della catastrofe sono rese ancor più evidenti dall’altissimo numero di prigionieri caduti in mano britannica: oltre centomila.

Esito non diverso, anzi se possibile ancora più catastrofico, lo ebbero i progetti aggres-sivi del regime, portati avanti nello stesso periodo, verso i Balcani.

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Tanto la Grecia quanto la Jugoslavia costituivano da tempo un obiettivo dell’espansionismo fascista, ma nell’estate del 1940 Roma dovette fare i conti con la vo-lontà tedesca di non turbare l’equilibrio nell’area, in cui Berlino puntava semmai a conseguire l’egemonia attra-verso la penetrazione economica e l’influenza politica. Ciò non impedì tuttavia alle autorità italiane di svilup-pare svariati piani militari offensivi verso Atene, la cui messa in pratica però fu più volte rinviata, su pressione di Berlino, finché, il 12 ottobre 1940, Mussolini non fu informato dell’entrata di truppe tedesche in Romania allo scopo di mettere in sicurezza i campi petroliferi di Ploesti, cosa che lo decise a porre nuovamente quelle ipotesi all’ordine del giorno per motivi sia di prestigio sia di riequilibrio dei rapporti di forza interni all’Asse, ordinando di attaccare la Grecia dalla testa di ponte al-banese, già sotto controllo italiano dal 1939.

Il piano strategico, per altro, si limitava a prevedere l’occupazione dell’Epiro da parte di tre divisioni, valu-tando che a quel punto Atene avrebbe chiesto l’armi-stizio. Il 28 ottobre 1940 gli italiani passarono il con-fine; quattro giorni dopo ebbe inizio la controffensiva greca, che costrinse i reparti del Regio Esercito ad una ritirata tanto precipitosa quanto inaspettata. Le truppe elleniche penetrarono profondamente in Albania, oc-cupando circa un terzo del suo territorio e costringen-do gli italiani sulla difensiva; questi ultimi riuscirono a stabilizzare il fronte solo a dicembre inoltrato, trasfor-

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mando però quella che doveva essere una passeggiata militare contro un esercito dall’efficienza mediocre in una replica della guerra di trincea sull’Isonzo e sul Car-so del 1915-1918.

L’impatto sull’opinione pubblica mondiale, ed in particolare su quella dei Paesi belligeranti, fu enorme; per la prima volta una campagna di guerra condotta da forze dell’Asse non si risolveva in una travolgente avanzata ma veniva spezzata e per poco non si risolveva in una rotta; l’Italia, inoltre, si rivelava come il pun-to debole dello schieramento nazifascista, come il suo “ventre molle”, come ebbero occasione di rilevare non solo i britannici, ma anche alti funzionari del governo di Berlino.

Con ogni probabilità l’emergere della fragi-lità italiana, del cui apparato militare tanto alleati quanto avversari avevano largamente sopravvalutato efficienza e capacità operati-va, costituì un ulteriore punto di svolta all’in-terno del conflitto.

Per tutto l’inverno 1940-1941 il Fronte greco-albanese rimase fermo; perché la situazione si sbloccasse fu ne-cessario, il 6 aprile 1941, l’intervento tedesco, che ter-minò di appiccare il fuoco all’intera penisola balcanica. Per Berlino era una decisione ormai non più rinviabi-le, dopo che, tra il 29 ottobre ed il 3 novembre 1940,

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unità britanniche avevano occupato Creta e preso terra nei pressi della capitale ellenica, e il 27 marzo 1941 un colpo di Stato militare aveva rovesciato il governo jugoslavo che due giorni prima aveva accettato, sotto le pressioni tedesche, di aderire all’Asse. Ungheria e Bul-garia si unirono all’attacco contro Atene e Belgrado, che furono costrette a cedere le armi; il corpo di spedi-zione britannico si ritirò a Creta, occupata dai tedeschi soltanto alla fine del maggio successivo.

Intanto, erano sbarcati in Tripolitania i primi re-parti dell’Afrika Korps, inviato da Hitler in soccorso. Si trattava di un corpo di spedizione non particolar-mente numeroso, ma completamente meccanizzato. Fu allora possibile fermare l’avanzata britannica e poi, il 30 marzo 1941, passare alla controffensiva rioccu-pando la Cirenaica e spingendosi oltre il confine fino a Sollum. Le forze italogermaniche erano però troppo esigue per un’offensiva in grande stile verso l’Egitto che avrebbe effettivamente costituito una seria minac-cia per lo schieramento britannico in Medio Oriente, tanto più che il 1° aprile un colpo di Stato aveva porta-to al potere in Irak esponenti arabi favorevoli all’Asse.

Né l’Italia, vista la sua debolezza militare, né la Germania, che aveva impegnato gran parte delle sue risorse nella preparazione dell’attacco all’Urss, furono però in grado di soccorrere i potenziali alleati irakeni, i quali non poterono fare altro che cedere le armi di fronte al contrattacco del British Army. Intanto, i bri-

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tannici erano passati all’offensiva nel Corno d’Africa; nell’arco di appena quattro mesi, dal 19 gennaio al 18 maggio 1941, Eritrea, Somalia, Etiopia vennero occupate.

L’Impero italiano, per la cui conquista era stata necessaria una guerra appena sei anni prima, non esisteva più.

Nei mesi precedenti il piano di attacco tedesco all’Urss aveva preso forma definitiva; la campagna in prepa-razione era lì descritta come di esecuzione rapida, da condurre attraverso l’impiego in grande stile di mezzi corazzati in modo da occupare rapidamente gran par-te del territorio europeo dell’Urss. Si prevedeva altresì la partecipazione fin dall’inizio degli eserciti rumeno e finlandese.

Il giorno successivo all’attacco all’Urss, 23 giugno 1942, un documento riservato steso dall’Ufficio del Piano quadriennale, guidato da Hermann Göring, espresse a chiare let-tere il senso delle misure che si intendeva intraprendere, spiegando che nel terzo an-no di guerra non solo la Wehrmacht ma an-che la popolazione civile tedesca avrebbe dovuto essere nutrita con i cereali prelevati nelle aree occupate dell’Urss, cosa che pre-

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sumibilmente avrebbe provocato, fu scrit-to, la morte per fame di decine di milioni di persone.

Che, di fronte ad un’offensiva su vasta scala della Wehr-macht, l’Armata Rossa e con essa lo Stato guidato da Josif Stalin fossero destinati a crollare in pochi mesi era, come si è rilevato, convinzione diffusa anche nelle can-cellerie occidentali; le aspettative in tal senso di Berlino risultano confermate dalla richiesta che l’ambasciata te-desca presso il Quirinale trasmette alle autorità italiane nello stesso mese di dicembre 1940: il governo del Ter-zo Reich chiede all’Alleato mediterraneo oltre 250.000 lavoratori industriali qualificati, che si sarebbero dovuti recare oltre il Brennero con contratti di lavoro seme-strali. Roma accetta e l’arruolamento ha inizio dai pri-mi mesi del 1941.

Negli stessi mesi non poco stava mutando dall’al-tra parte dell’oceano Atlantico: nel settembre 1940 gli Usa introducono la leva obbligatoria; il 29 dicembre successivo il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, appena rieletto per la terza volta, dichiara in un importante discorso radiofonico che gli Stati Uniti sono «l’arsenale della democrazia», promettendo per-ciò sostegno sia al Regno Unito, unica potenza ancora combattente contro le forze nazifasciste, sia alla Cina, faticosamente impegnata nel tener testa all’espansioni-smo nipponico. Nel marzo successivo, Washington si

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impegnava a fornire alla Gran Bretagna, alla Cina, alle forze degaulliste della Francia Libera rifornimenti in armamenti, materie prime, carburante, derrate alimen-tari e tutto quello che fosse utile alla loro condotta della guerra, rinviando alla fine delle ostilità il pagamento di quanto messo a disposizione.

Pur restando formalmente potenza non bel-ligerante, con questa disposizione gli Stati Uniti posero di fatto fine alla propria prece-dente neutralità.

Preparato con cura nei mesi precedenti, l’assalto tede-sco all’Urss, l’Operazione Barbarossa, sarebbe scattato il 22 giugno 1941 su un fronte lungo 2130 chilome-tri, dal mar Baltico al Mar Nero. A confrontarsi furono da un lato circa 3.500.000 uomini sotto le bandiere dell’Asse, dall’altro i circa 3 milioni di effettivi dell’Ar-mata Rossa. Assai squilibrati invece i rapporti di forza a favore dei sovietici per quanto riguardava carri armati, aerei e cannoni con rapporti rispettivamente di tre ad uno, oltre due ad uno e circa due ad uno.

Nonostante l’asimmetria, l’avanzata di tedeschi ed alleati nelle tre direzioni previste, Leningrado, Mosca, il bacino del Donec, apparve per alcuni mesi inarre-stabile: all’inizio di dicembre la città voluta da Pietro il Grande era sotto assedio, vi sarebbe rimasta per 900 giorni; le avanguardie tedesche erano a pochi chilometri

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dalla Capitale; il medio corso del Donec era stato rag-giunto; unità della Wehrmacht erano vicine all’estremi-tà orientale del mar d’Azov. L’Ucraina, la Bielorussia, i Paesi baltici, la Crimea, le aree più occidentali della stessa Russia erano state occupate dagli invasori. Oltre 3 milioni di militari sovietici erano caduti prigionieri; di loro più di 2 milioni sarebbero morti nei campi di prigionia della Wehrmacht, in stragrande maggioranza di fame, entro il febbraio 1942.

A provocare la strage conversero più fattori: il ca-rattere di guerra di annientamento nei confronti di un nemico stigmatizzato quale slavo, asiatico, bolscevico ed in larga misura ebraico o influenzato dall’ebraismo che venne conferito ab origine all’Operazione Barbaros-sa dai decisori politici del Terzo Reich; la volontà espli-cita di trarre dalle terre orientali le risorse alimentari necessarie per reggere lo sforzo bellico, cosa che rendeva inconcepibile “sprecare” parte di quelle risorse per nu-trire proprio i prigionieri di guerra sovietici; la pervi-cace convinzione che la campagna potesse concludersi entro l’autunno o poco più oltre, con la conseguente smobilitazione dei richiamati, il che fece al momento apparire irrilevante l’eventuale uso dei prigionieri di guerra sovietici quale manodopera coatta.

Il gruppo dirigente staliniano, preso inizialmente di sorpresa dalla vastità dell’azione tedesca, ordinò al-le proprie truppe di contrattaccare immediatamente, cosa che portò ad una serie di disfatte sul campo. Nel-

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le settimane successive, tuttavia, sebbene a prezzo di altissime perdite umane, in termini di caduti, feriti e prigionieri, e territoriali, la resistenza strenua dei repar-ti dell’Armata Rossa costrinse gli ufficiali comandanti delle grandi unità della Wehrmacht a rendersi conto che la Campagna d’Oriente non sarebbe stata una pas-seggiata, a rallentare il proprio procedere ed a riflettere sulla propria sottovalutazione della tenuta dello Stato sovietico e del suo apparato militare.

Appena due mesi dopo l’inizio dell’offensiva, la Wehrmacht avvertì il Führer dell’impossibilità di concludere entro l’anno, come inizialmente previsto, l’Operazione Barbarossa, cosa che avrebbe trovato qualche settimana dopo una indiscutibile conferma nell’esito della Battaglia di Mosca. All’offensiva te-desca in direzione della Capitale, sviluppatasi dal 30 settembre al 5 dicembre, avrebbe fatto seguito una pesante controffensiva sovietica che, per la prima vol-ta in modo così evidente, costrinse la Wehrmacht ad arretrare, attestandosi su una linea difensiva spostata assai più ad occidente della città. Il significato più profondo della vittoria sovietica nello scontro stava, però, nell’aver fatto definitivamente tramontare l’i-potesi nazionalsocialista di una guerra lampo. Hitler ed i suoi paladini dovettero a questo punto adattarsi ad una non prevista guerra d’usura, che li avrebbe costretti a decisivi mutamenti nella condotta del con-flitto e a una radicale riorganizzazione della produ-

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zione di armamenti. Contemporaneamente iniziò il potenziamento del ministero delle Armi e Munizio-ni, destinato a diventare la chiave di volta dell’eco-nomia di guerra e della sua pianificazione, che dopo la morte in un incidente aereo, l’8 febbraio 1942, di Fritz Todt, suo primo responsabile, fu affidato ad Albert Speer.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che proprio la Battaglia di Mosca abbia costituito un cru-ciale punto di svolta, costituendo per lo schieramento di potenze egemonizzato dal-la Germania l’inizio della fine.

L’ENTRATA IN GUERRA DEGLI STATI UNITI

Proprio mentre lo scontro era al suo apice, il 7 dicem-bre 1941, la guerra divenne definitivamente mondiale attraverso l’apertura di un altro gigantesco fronte, que-sta volta sull’Oceano Pacifico, tramite l’attacco aero-navale sferrato dal Giappone contro il porto militare statunitense di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii. Tra il 1940 ed il 1941 i rapporti, già tesi in precedenza per la penetrazione giapponese in territorio cinese, co-nobbero una fase di ulteriore peggioramento a causa del tentativo nipponico di approfittare dello stato di crisi in cui versavano potenze coloniali quali la Francia

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ed i Paesi Bassi, sconfitte ed occupate dalla Germania, per mettere sotto controllo l’Indocina francese e le In-die orientali neerlandesi, puntando successivamente ai possedimenti della Gran Bretagna, impegnata allo spa-simo nella lotta al Terzo Reich, quali la Malesia, sotto sovranità britannica, e in prospettiva l’India, ed alle Filippine, che erano all’epoca una sorta di protettorato statunitense.

Nel luglio 1941 la decisione di Washington di bloc-care le forniture di petrolio al Giappone, essenziali per l’economia del Paese e per il mantenimento dell’effi-cienza delle sue forze armate, aprì una convulsa trat-tativa bilaterale conclusa da un nulla di fatto, mentre il gruppo dirigente nipponico continuava i preparativi per mettere in sicurezza, tramite un esteso attacco mi-litare, le basi materiali della “Grande sfera di prosperità comune della Asia Orientale”. Obiettivo del piano era mettere fuori gioco, attraverso successivi colpi aerona-vali, la flotta statunitense del Pacifico.

Anche il Giappone, come la Germania nei confron-ti del Regno Unito, puntava strategicamente in tempi futuri ad una pace di compromesso con Washington basata sull’accettazione del fatto compiuto e sulla divi-sione delle sfere d’influenza.

L’Operazione Barbarossa prima, l’attacco giapponese alla Hawaii dopo, oltre ad esten-dere enormemente il teatro delle operazioni,

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provocarono la fine dell’isolamento britanni-co e l’avvio nei mesi successivi della Grande alleanza antifascista che avrebbe sostanzial-mente legato, sia pur non senza contrasti e divergenze di vedute anche assai consistenti, Londra, Mosca e Washington sino al 1945.

Dato il potenziale produttivo dei tre Paesi e le forme di collaborazione anche economica oltre che militare che essi furono in grado di costruire, il tempo lavorava a loro favore.

Tuttavia, nell’inverno 1941-1942 la situazione appa-riva per i nemici dell’Asse niente affatto rosea: il Terzo Reich e, sia pure con un ruolo minore, l’Italia erano padroni di quasi tutta l’Europa Continentale e di una parte significativa dell’Africa Settentrionale, mentre il Giappone dominava il Pacifico occidentale ed il Mar Cinese Meridionale. Il peso della guerra guerreggiata sulla terraferma era a quel punto sostenuto pressoché dalla sola Unione Sovietica, che si ritrovava per di più le unità nemiche profondamente incuneate nel proprio territorio.

L’apertura di un secondo fronte terrestre, che met-tesse Germania ed Italia nella sgradevole situazione di dover dividere le proprie forze combattenti, avrebbe preso corpo solo quasi tre anni dopo, con lo sbarco in Normandia attuato il 6 giugno 1944, ma la cui pianifi-cazione iniziò un anno prima.

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LA BATTAGLIA DI STALINGRADO

Nel frattempo il 1942 aveva visto una nuova spinta offensiva della Wehrmacht, rafforzata da un cospicuo schieramento di forze italiano, nel quadrante meri-dionale sovietico in direzione dei campi petroliferi del Caucaso. L’avanzata si spinse sino a Stalingrado, im-portantissimo centro industriale e nodo strategico di comunicazione, scontrandosi, a partire dal 17 luglio, con le unità sovietiche schierate a protezione. Dopo una lunga fase, durata sino alla metà di novembre, di combattimenti nella città casa per casa, fu avviata da parte sovietica una serie di operazioni nella cui con-duzione ebbero un ruolo decisivo i reparti corazzati, e che portò all’accerchiamento della 6a Armata tedesca, che si sarebbe poi arresa il 2 febbraio successivo, ed al-la rotta delle truppe rumene, italiane ed ungheresi, che erano state collocate a difesa delle lunghissime linee di collegamento tra l’Armata e le retrovie.

La Battaglia di Stalingrado divenne famosa per le sue caratteristiche e per il suo valore simbolico: da quel 2 febbraio 1943 la linea del fronte avrebbe cessato di muoversi verso est.

Il colpo definitivo alle velleità nazionalsocialiste di spazzare via dalla carta geografica la Russia sovietica lo avrebbe poi dato la Battaglia di Kursk (580 chilometri

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a sud di Mosca), dove era presente un saliente sovie-tico che si incuneava profondamente nelle linee tede-sche. Avviatosi il 5 luglio 1943, il combattimento ebbe termine il 14 successivo; i tedeschi dovettero ritirarsi, mentre i sovietici riuscirono a mantenere il controllo del saliente e della zona circostante. In Oriente, come avrebbero cominciato a capire non pochi alti ufficiali della Wehrmacht, la guerra era persa.

Esito analogo si era nel frattempo profilato sul Fronte nordafricano, dove nell’autunno del 1942 si era definitivamente consumata la sconfitta delle forze dell’Asse. Dopo la riconquista della Cirenaica e l’oc-cupazione di Sollum (marzo-aprile 1941) da parte delle forze italogermaniche, il fronte era rimasto so-stanzialmente immobile fino al novembre del 1941, quando unità britanniche passarono all’offensiva, pe-netrando profondamente in Cirenaica ma senza riu-scire a disorganizzare i reparti dell’Asse, che, il 28 di-cembre, fermarono l’avanzata nemica sul confine con la Tripolitania e, dopo un primo contrattacco attuato con successo alla fine di gennaio 1942, il 26 maggio successivo sfondarono le linee inglesi. Un mese dopo, l’importante base di Tobruk cadde in mani italiane e tedesche; sembrava loro aperta la strada verso Alessan-dria, ed inoltre appariva vicino l’isolamento di Malta, destinata, nei piani dell’Asse, ad essere presa attra-verso un’azione aeronavale. In tal modo si sarebbero poste le premesse per espellere i britannici dal Medi-

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terraneo; era però essenziale che tutto avvenisse molto in fretta, prima cioè che le forze nemiche stanziate in Egitto potessero giovarsi del supporto statunitense, ed approfittando altresí dello spostamento di parte della Mediterranean Fleet britannica nell’Oceano Pacifico per far fronte all’espansionismo giapponese, cosa che di per sé favoriva l’iniziativa italogermanica nell’Afri-ca del Nord.

Convinto di poter facilmente arrivare al Cairo, il Comando delle forze dell’Asse (dalla primavera del 1941 di fatto nelle mani del generale tedesco Erwin Rommel) decide di avanzare in Egitto; il 30 giugno 1942 viene raggiunta la depressione di El Alamein, che dista appena cento chilometri da Alessandria. A quel punto, però, la spinta offensiva si esaurisce, per la riorganizzazione dei britannici e per la carenza da parte italogermanica di rinforzi e rifornimenti ade-guati. Nonostante gli attacchi condotti da italiani e tedeschi da luglio a settembre 1942, costati moltissi-mo in caduti, feriti, e prigionieri, la linea del fronte rimane immobile fino al 23 ottobre seguente, quando l’iniziativa ritorna agli inglesi. Dopo una settimana di combattimenti, i reparti dell’Asse sono costretti ad una frettolosa ritirata che li riporterà, un mese dopo, sulle posizioni di partenza.

Ma c’è una novità: tra il 7 e l’8 novembre 1942 una forza d’invasione mista angloamericana ha preso terra in Marocco ed in Algeria, colonie francesi; per le unità

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italiane e tedesche che operano in Nordafrica sussiste ora il concreto rischio di essere prese tra due fuochi. Berlino trasferisce immediatamente le proprie unità in Tunisia, per garantirsene il controllo; nei mesi suc-cessivi gli sforzi dell’Asse si concentrano sul tentativo di farne un’imprendibile testa di ponte, mentre viene progressivamente abbandonata la Tripolitania: alla fine di gennaio 1943 tutto quanto il territorio libico è in mani britanniche.

Per l’Italia la situazione è a dir poco disperante: non solo non si è affatto riusciti a sottrarre il Mediterra-neo al controllo degli inglesi, ma ora lo stesso territorio metropolitano è sottoposto alla minaccia aerea degli Alleati, che possono usufruire degli aeroporti francesi in Marocco ed in Algeria, nonché delle stesse installa-zioni costruite dagli italiani in Libia. È chiaro, inoltre, che l’arroccamento tunisino non potrà essere tenuto a lungo; una volta che esso sia caduto, verrà all’ordine del giorno uno sbarco angloamericano nell’Italia meri-dionale, il “ventre molle” dell’Asse.

L’11 maggio 1943 i reparti superstiti dell’Asse in Africa del Nord cessano di combattere. All’inizio di giugno l’isola fortificata di Pantelleria, baluardo della Sicilia, è investita da un uragano di fuoco. Nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943 truppe angloamericane prendono terra in Sicilia; il 24 luglio su tutta intera l’Isola sventolano l’Union Jack e la bandiera a stelle e strisce.

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Il giorno dopo a Roma cade il regime monar-chico-fascista, aprendo la strada al governo militare di Pietro Badoglio ed alla successiva occupazione tedesca, coadiuvata da un ri-nato fascismo che si proclama, questa volta, repubblicano.

L’AVANZATA FINALE DEGLI ALLEATI

Nel Pacifico, intanto, i rapporti di forza si erano al-terati irrimediabilmente a favore degli statunitensi e delle forze del Commonwealth britannico loro alleate già dal giugno 1942, in seguito allo scontro aerona-vale delle Midway, avvenuto tra il 4 ed il 6 del mese. Pensata dal Comando supremo della Marina nippo-nica come l’ideale continuazione dell’attacco a Pearl Harbor, la manovra offensiva che sarebbe sfociata nel-la battaglia avrebbe dovuto portare all’annientamen-to della residua capacità militare della flotta d’altura statunitense; in realtà, terminò con la distruzione di quattro grandi portaerei nipponiche, oltre a naviglio minore e a parecchi velivoli da caccia e da bombarda-mento. Pesanti furono anche le perdite americane, ma a risultarne irrimediabilmente danneggiata fu la ca-pacità di proiezione di potenza che era fondamentale per Tokio e per la realizzazione dei suoi piani egemo-nici. Da allora in poi le si prospettava solo una lunga

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guerra di resistenza, senza alcuna possibilità di uscirne vincitrice.

Fu di conseguenza non arduo per Washington in un certo qual modo incapsulare il conflitto nel Pacifico, dando la priorità alla situazione europea ed al conse-guente contrasto di Germania ed Italia. Una volta con-clusa quella partita ci si sarebbe nuovamente occupati del Sol Levante. Sarebbe a quel punto giunta l’ora dei bombardamenti atomici di Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945).

Lo Sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e quello successivo in Provenza (15 agosto 1944) posero le pre-messe per la rapida liberazione della Francia, dove Charles De Gaulle, capo riconosciuto della Francia Libera, giun-to a Parigi il 26 agosto, appena 24 ore dopo la presa di possesso della città da parte delle truppe corazzate ai suoi ordini, avrebbe costituito un nuovo governo espressione della Resistenza, ma anche per l’attacco finale al territorio metropolitano tedesco, finora vulnerabile solo dall’aria.

Reparti dell’Armata Rossa, reduci dalla riconquista di Ucraina e Bielorussia, sarebbero penetrati in Prussia orientale e avrebbero raggiunto il corso dell’Oder, che distava poche decine di chilometri da Berlino, all’inizio di gennaio 1945; dal canto loro reparti statunitensi pas-sarono il Reno a Remagen due mesi dopo.

L’8 maggio 1945 quel che restava del governo tedesco si arrende, accettando di firmare la

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resa incondizionata, secondo la formula deci-sa, su proposta di Franklin Delano Roosevelt, alla conferenza tripartita tenuta a Casablanca nel gennaio 1943.

Inizialmente pensata come da applicarsi anche al Giap-pone, arresosi formalmente il 2 settembre successivo, e all’Italia, dove il conflitto aveva avuto termine nell’ul-tima settimana di aprile dopo che per venti mesi larga parte del Paese era divenuta un campo di battaglia, la formula cara al presidente degli Stati Uniti fu però ap-plicata in questi due ultimi casi con modalità assai più moderate rispetto a quelle utilizzate nei confronti della Germania.

Secondo gli studi disponibili ed in base ai differenti parametri di cui i loro autori si sono serviti, il numero di esseri umani che persero la vita nella Seconda guerra mondiale è calcolato tra i 50 e gli 80 milioni; il numero dei civili risulta essere stato più o meno il doppio di quello dei militari. Oltre 26 milioni erano cittadini so-vietici, circa 10 milioni i militari, e oltre 16 milioni i ci-vili (il calcolo è per forza di cose approssimativo a causa dei mutamenti territoriali intervenuti dopo il 1945).

In tutto perì pressoché il 13,7% della popolazione registrata in Urss nell’ultimo anno di pace, il 1940, (ma la percentuale superò il 25% in Bielorussia e il 16% in Ucraina) a fronte di una percentuale di circa l’8,5% per la Germania, quota analoga a quella jugoslava; di poco

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più del 3% in Cina; del 2,5% in Finlandia; dell’1,5% circa per la Francia (però nell’Indocina allora francese si raggiunse approssimativamente il 6%), rispettiva-mente dello 0,9% e 0,3% per Regno Unito e Usa.

L’Italia perse poco più dell’1% della popolazione. So-lo la Polonia, considerata nei confini del 1939, ebbe, con il 17%, perdite umane maggiori di quelle sovietiche.

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SOCIETÀ, CULTURA, ISTITUZIONI

L e politiche di occupazione condotte dalle potenze dell’Asse e del Tripartito e dai loro alleati minori

si caratterizzarono per una fortissima carica ideologica: non si voleva soltanto espandere il proprio spazio attra-verso conquiste territoriali, ma altresì intervenire pesan-temente sulla struttura demografica dei territori occu-pati, spostando popolazioni, modificando il loro peso reciproco nelle aree miste, eliminando gruppi giudicati indesiderabili se non francamente deleteri, primo tra tutti – ma non unico – quello ebraico, giudicato corpo ontologicamente estraneo a prescindere dal grado di as-similazione ed integrazione che si era verificato sia pure in misura diversa da Paese a Paese nel periodo successivo alla Rivoluzione francese.

Proprio i principi fondativi di quest’ultima, che nel corso del XIX secolo e nei decenni successivi, con par-ticolare accentuazione dopo la Grande Guerra, si erano

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trasfusi nelle costituzioni formali e materiali degli Stati, erano l’opposto della visione del mondo fascista; autori-tà contro libertà; gerarchia contro eguaglianza; asimme-tria contro fratellanza. Un esempio lampante dell’oppo-sizione antitetico-polare tra la prima e la seconda terna concettuale salta agli occhi se solo si prende in mano una delle monete coniate tra il 1940 ed il 1944 a Vichy: scomparsa la dizione République Française, sostituita da un neutro (presuntamente tanto virile quanto autori-tario) État Français; cancellata la ben nota triade liber-té, égalité, fraternité, al suo posto compare il trinomio, dal sapore clericale, conservatore e nazionalista travail, famille, patrie; espulsa dal recto l’immagine femminile della Marianne, simbolo inequivocabilmente repubbli-cano e potenzialmente sovversivo dell’ordine patriarca-le, a pro’ di una celtica ascia bipenne.

Assieme alle colonne della Wehrmacht, delle Re-gie Forze armate, del Dai-Nippon Teikoku Rikugun (esercito dell’Impero del Grande Giappone) ed alle portaerei della Dai-Nippon Teikoku Kaigun (marina dell’Impero del Grande Giappone) viaggiavano infatti progetti di riorganizzazione per linee razziali e gerar-chiche del consesso umano convergenti, sebbene non sempre identici. Questi non potevano non esercitare un impatto spesso devastante sulle società degli Stati occupati, già traumatizzate pesantemente dalle sconfit-te incassate in tempi brevissimi e con esiti anche uma-namente disastrosi in termini di perdite umane, avvii

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ai campi di prigionia militare di migliaia di giovani in divisa, fughe precipitose di civili, donne, bambini, an-ziani, uomini esonerati dall’arruolamento davanti agli invasori trionfanti.

Il risultato fu la crisi delle certezze, già in precedenza traballanti, sulla solidità e sulla stessa ragionevolezza degli assetti democra-ticoparlamentari che i Trattati di pace con-clusivi della Grande Guerra avevano creduto di poter fondare o consolidare nella nuova Europa uscita dal conflitto.

Messe sempre più in discussione dal progressivo esten-dersi sul Continente di regimi autoritari ispirati dal modello politico fascista, le democrazie europee in-terbelliche temono altresì il comunismo così come si era organizzato nell’Urss, una sorta di Giano bifronte da un lato Stato tra Stati, dall’altro centrale del mo-vimento comunista internazionale tramite il Komin-tern, e comunque percepito da intellettuali, politici e movimenti di orientamento conservatore come, tutto sommato, assai più pericoloso dei fascismi. La demoralizzazione conseguente alla sconfitta sul cam-po ed alla successiva occupazione militare, unita alla capacità dimostrata dai regimi fascisti, diventati forza occupante, di aderire alle faglie presenti nelle società occupate, crea un campo di tensione dove tra i poli

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idealtipici contrapposti, rappresentati da resistenza e collaborazione, si colloca una gamma estremamente variegata di posizioni e di atteggiamenti oscillanti, il cui progressivo ricollocarsi nel corso del tempo è stret-tamente in rapporto con l’andamento del conflitto. Schierarsi con la Resistenza nel 1940 è assai diverso dall’assumere siffatta posizione nel 1944; lo stesso vale per la collaborazione.

I COLLABORAZIONISMI

Per comprendere e valutare la natura e le modalità con cui si manifestarono, nei diversi Stati occupati dalle forze dell’Asse, atteggiamenti, comportamenti ed atti-vità politiche collaborazioniste, occorre tener preventi-vamente conto che la possibilità d’azione del collabo-razionismo era rigidamente predeterminata dalla forma di occupazione di volta in volta scelta dalla potenza fa-scista occupante.

La collaborazione poté svilupparsi solo là dove l’occupante le concesse uno spazio più o meno grande in base alle sue scelte poli-tiche di fondo. Tali scelte furono sempre in stretto rapporto con i progetti e le ipotesi di riorganizzazione dei futuri ambiti egemoni-ci, in cui si intrecciarono saldamente le due

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logiche che guidavano il loro agire: conse-guire il predominio economico, gerarchiz-zare la società per linee razziali.

Schematizzando, per quanto riguarda il Terzo Reich possiamo distinguere differenti modelli di gestione dei territori occupati e non annessi o ridotti alla condizio-ne di protettorato (Boemia e Moravia) o di colonia in senso stretto (Generalgouvernement): l’organizzazione di una rete di controllo amministrativa, militare, economi-ca e di polizia che lasciasse però sussistere un simulacro di governo nazionale semiautonomo (Francia, a parte il territorio amministrato dagli italiani, Belgio, Paesi Bas-si, Danimarca, Norvegia, Croazia, dopo l’8 settembre 1943 l’Italia, e dall’estate 1944 l’Ungheria), o l’ammi-nistrazione militare diretta (territori greci non occupati dall’Italia, Serbia, territori occupati dell’Urss: Ucraina, Bielorussia, Paesi baltici, Caucaso, regioni della Rus-sia cadute in mano germanica). All’interno di questa tipologia occorre poi introdurre ulteriori distinzioni, da ricondurre o all’applicazione del principio della ge-rarchizzazione razzista, o a scelte politiche di opportu-nità da parte delle autorità d’occupazione; per quanto riguarda i polacchi, per esempio, venne loro attribuito uno status nella scala razziale talmente basso da ridurre pressoché a zero la possibilità che si strutturassero forze autoctone disposte alla collaborazione politica.

Nell’ambito della prima alternativa, talvolta gli oc-

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cupanti preferirono appoggiarsi ai gruppi conservatori indigeni affidandogli la gestione dell’amministrazione e degli apparati pubblici del Paese conquistato, come accadde in Belgio, nei Paesi Bassi, in Francia ed in par-te anche in Danimarca, che costituisce però un caso particolarissimo poiché vennero lasciati sussistere legal-mente – anche sotto l’occupazione – il parlamento ed i principali partiti politici, escluso quello comunista. In altri casi conferirono il potere politico (pur con rigide limitazioni) a forze ideologicamente affini al fascismo ed al nazionalsocialismo, come in Norvegia, Croazia e in seguito in Italia e in Ungheria. Al di là di questa pur importante differenza, gli Stati qui richiamati vennero comunque sottoposti, senza eccezione alcuna, ad una triplice struttura di controllo germanica, costituita da una rappresentanza politica del Reich, una delegazione della Wehrmacht, un’istanza superiore della SS e della polizia, a cui era in particolare demandata la lotta con-tro i movimenti di resistenza.

All’estremo dello spettro collaborazionista troviamo gli alfieri e vessilliferi del collaborazionismo ideologico: i membri dei gruppi e partiti modellati sul PNF o sul-la NSDAP e che ad essi si rifacevano per ideologie e programmi. In una vasta palude contigua, ma ad essi non riconducibile, si collocavano tutti coloro che as-sunsero atteggiamenti intermedi, ovviamente assai di-versificati l’uno dall’altro: si andava infatti dal compro-messo accettato in mancanza di migliori alternative, alla

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collaborazione non ideologica ma invece motivata da consonanze puramente politiche con l’occupante o da interessi materiali, od ancora dalla convinzione che so-lo tramite e con l’appoggio dell’invasore fosse possibile la realizzazione di quegli obiettivi politici, economici, sociali che apparivano desiderabili. Si collaborava con il Terzo Reich e con il suo junior partner fascista mus-soliniano per micronazionalismo, ma anche in nome di un europeismo nostalgico delle gerarchie tradizionali, clerico-reazionario ed antisemita. Ne sortì un miscuglio composito, confuso e contraddittorio ma assai facile da plasmare, nelle forme desiderate, da parte delle istan-ze d’occupazione e delle gerarchie supreme del Terzo Reich, le quali riveleranno una luciferina abilità nel servirsi, giocandole spesso l’una contro l’altra, delle sue varie componenti.

Così, per esempio, nelle zone occupate dell’Urss ver-ranno di volta in volta attizzati i nazionalismi dei popoli non russi, esaltate le reciproche differenze linguistiche, culturali e religiose, ma non si mancherà di solleticare il nazionalismo grande-russo nostalgico dello zarismo e lo si utilizzerà in chiave antibolscevica. Analogamente nei Balcani, si punterà a scagliare croati contro serbi, ed entrambi contro i musulmani di Bosnia, a cui si of-frirà d’altro canto una pelosa protezione. È una partita sanguinaria a cui parteciperanno fino in fondo anche le autorità d’occupazione politiche e militari italiane operanti in Slovenia, Dalmazia, in territorio croato, in

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Montenegro e nel Kossovo. Solo la relativa debolezza del suo apparato militare, e di conseguenza l’esiguità sostanziale dei territori occupati dall’Italia, ne limitò la possibilità di attivare istanze collaborazioniste, che furo-no tuttavia presenti.

Maggiore rilevanza ebbe il tentativo, condotto in comune da Germania ed Italia, e consonante in que-sto caso con le politiche portate avanti dal Giappone, di sollevare le popolazioni arabe contro le potenze co-loniali britannica e francese. Oltre all’arruolamento di volontari di origine algerina, tunisina e marocchina nel Maghreb, le potenze dell’Asse riuscirono ad accattivar-si la simpatia dell’importante uomo politico irakeno, più volte presidente del consiglio dei ministri, Rašid ’Ali al-Kailani, e dell’influente notabile di origine gero-solimitana e convinto militante nazionalista panarabo Muhammad Amin al-Husaini, nominato nel 1921 dai britannici Gran Muftì di Gerusalemme. Entrambi uni-vano alla spinta antibritannica un forte sentimento an-tiebraico, accresciutosi con lo sviluppo dell’immigrazio-ne sionista in Palestina. Dopo il fallimento della rivolta indipendentista dell’aprile 1941, in quel contesto neces-sariamente contro il Regno Unito e a favore dell’Asse, di cui venne apertamente sollecitato il sostegno, entrambi trovarono rifugio a Berlino, da dove svolsero un’attiva propaganda indirizzata al mondo arabo ed islamico a favore dell’Asse.

Con assai maggiore intensità la carta dell’anticolo-

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nialismo, sotto lo slogan “l’Asia agli asiatici”, fu gioca-ta dal Giappone quale ad un tempo giustificazione del proprio espansionismo e tentativo di trarre dalla propria parte i movimenti di liberazione che, in varie forme, si stavano strutturando nell’Asia Sudorientale. Il caso forse più significativo fu quello, in India, di Subhas Chandra Bose, esponente di primo piano e leader dell’ala sini-stra del Partito del Congresso. Rifugiatosi a Berlino nel 1940, Chandra Bose avrebbe raggiunto nel 1943 l’isola di Sumatra, allora in mano nipponica, dove organizzò un’Armata nazionale indiana posta sotto il comando dell’autoproclamatosi governo provvisorio dell’India li-bera, guidato da egli stesso.

Le forze del governo provvisorio non furono però mai in grado di contrastare seriamente il dominio bri-tannico sulla Penisola; dal canto suo la maggioranza del Partito del Congresso, sotto la guida indiscussa di Mo-handas Karamchand Gandhi, aveva preso da tempo le distanze da Chandra Bose, schierandosi con l’Alleanza antifascista anche se parte costitutiva di essa era la po-tenza coloniale britannica. Ciò non di meno, la figura di Chandra Bose resta per l’autocoscienza storica e l’o-pinione pubblica indiana odierna assai controversa ed oggetto di dibattito.

Ancora più complessa fu la situazione birmana, do-ve i movimenti di opposizione al dominio coloniale di Londra inizialmente si schierarono in maggioranza a favore dei giapponesi, i quali occuparono il Paese nel

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1942, dando vita ad un esercito per l’indipendenza del Paese e tentando di formare un governo provvisorio che prefigurasse un libero Stato birmano. Le scelte dei ver-tici nipponici furono però diverse, preferendo appog-giarsi su forze maggiormente conservatrici, scontentan-do così la leadership nazionalista che finì nel 1944 per cambiare campo passando dalla parte della coalizione antifascista.

In Indocina, territorio coloniale francese e quindi sottoposto formalmente al governo di Vichy, le autorità nipponiche, che già di fatto controllavano la Penisola dopo la disfatta della République nell’estate 1940, cer-carono solo nel marzo 1945, dopo la completa libera-zione della Francia in seguito allo sbarco alleato in Nor-mandia, di dar formale vita a tre Stati vassalli, rispetti-vamente l’Impero del Vietnam ed i regni di Cambogia e Laos, destinati a durare solo pochi mesi.

Assai più protratta nel tempo fu invece l’occupa-zione nipponica nelle Indie orientali neerlandesi (l’at-tuale Indonesia), iniziata nel marzo 1942 e protrattasi sino alla fine del conflitto. Accolti come liberatori dalla maggioranza della popolazione indonesiana, i giappo-nesi attuarono una politica dalle molte facce, mirando da un lato ad aprire agli autoctoni l’amministrazione e la burocrazia, fino ad allora in mano esclusivamente agli olandesi, che vennero internati in campi di concen-tramento, dall’altro esercitando però sulla popolazione indigena forme assai dure di asservimento, dall’ar-

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ruolamento forzato di manodopera alla prostituzione coatta di numerose giovani donne nei bordelli militari nipponici. Nei fatti, tuttavia, lo smantellamento delle strutture coloniali olandesi, lo spazio d’azione, seppure subalterno, accordato agli esponenti nazionalisti locali, e l’addestramento militare a cui le autorità nipponi-che sottoposero reparti volontari autoctoni nell’ottica di servirsene come truppe ausiliarie diedero grande impulso al movimento indipendentista, che nell’im-mediato dopoguerra sarebbe riuscito ad affrancarsi dal dominio coloniale.

Nelle Filippine, all’epoca una sorta di protettorato statunitense avviato però verso l’indipendenza, le prof-ferte degli occupanti, sbarcati subito dopo l’attacco a Pearl Harbor, produssero invece risultati maggiormen-te divaricati: nonostante la parziale trasmissione dei poteri ad un Consiglio di Stato formato da autocto-ni e poi, nell’ottobre 1943, la proclamazione di una Repubblica filippina indipendente, unicamente settori consistenti delle élite e una parte non maggioritaria della popolazione accettarono di collaborare, mentre fin dalle prime settimane di occupazione fu rilevante l’attività di resistenza portata avanti sia da unità dell’e-sercito regolare passate alla guerra di guerriglia, sia da reparti partigiani di vario orientamento, appoggiati al-cuni direttamente dagli Usa; altri, come gli Huk, di tendenza comunista; altri ancora, come le formazioni Moro, di matrice islamica. La struttura fisica delle Fi-

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lippine, un arcipelago, favoriva del resto la frammenta-zione del movimento antigiapponese.

In sintesi, come era d’altro canto avvenuto anche nell’Europa occupata, il tentativo nip-ponico di inserirsi in linee di frattura già esi-stenti (in questo caso prevalentemente tra colonizzati e colonizzatori) si scontrò con la volontà di Tokio di costruire la propria sfera egemonica sulla base di una gerarchia di po-poli, favorendo così implicitamente il costi-tuirsi delle resistenze organizzate.

Vero rimane, tuttavia, che la complessa, e non di rado drammatica, esperienza di occupazione vissuta dai po-poli dei Paesi coinvolti dalle campagne del Sol Levante avrebbe finito col rafforzare le correnti indipendentiste, contribuendo in tal modo al collasso postbellico del do-minio coloniale nell’area, non differentemente d’altron-de dall’appello che la Gran Bretagna fu costretta a fare alla mobilitazione delle popolazioni di colonie e domi-nions, chiamate a combattere il blocco fascista in nome della libertà.

Come si è notato in precedenza, nei Paesi occupati dalle forze dell’Asse di frequente ai gruppi ideologica-mente più affini alle case madri fascista e nazionalsocia-lista viene riservato un ruolo prevalentemente di propa-ganda ed agitazione, mentre si preferisce affidare a forze

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conservatrici le quote di potere non gestite direttamente dall’occupante. La conseguente frustrazione, trasmessa-ci da molte fonti, che non tarda a diffondersi tra partiti e formazioni apertamente fasciste o fascistizzanti trova tre vie di sfogo: la crociata antibolscevica, veste che il regime nazionalsocialista dà all’Operazione Barbarossa, la persecuzione antiebraica, la lotta all’ultimo sangue contro le insorgenze partigiane.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il Terzo Reich puntò a costruire un’armata di volontari provenienti da tutti i Paesi d’Europa caduti sotto il suo controllo; occorre anche in questo caso fare una distinzione tra ciò che accadde nell’Europa Occidentale e lo svolgersi degli eventi nell’area meridionale ed orientale del Con-tinente. Nella prima l’arruolamento di volontari avven-ne prevalentemente sotto la spinta di motivazioni po-litico-ideologiche (l’anticomunismo in primo luogo); nelle seconde ad ingrossare le file della Waffen SS o dei reparti ausiliari della Wehrmacht fu essenzialmente un aggressivo nazionalismo antirusso (e, talvolta, la volon-tà di sottrarsi con l’arruolamento alle tremende con-dizioni dei campi di prigionia nazionalsocialisti). La persecuzione antiebraica era consustanziale al regime nazionalsocialista che la fa diventare legge dello Stato subito dopo la salita al potere, appesantendola col pas-sare del tempo; a partire dal 1938 essa avrebbe fatto un salto di qualità a livello continentale per l’introduzione di norme antiebraiche nel corpus legislativo di altri Sta-

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ti (Bulgaria, Italia, Polonia, Romania, Slovacchia, Un-gheria) sulla base di scelte del tutto autonome da quelle precedenti tedesche dei rispettivi regimi, tutti fascisti o fascistizzanti.

Con lo scoppio della guerra, nel 1939, e poi con l’apertura del Fronte orientale, nel 1941, si sarebbero create le condizioni perché dall’originario programma di emigrazione forzata si passasse all’eliminazione fisica del-le comunità ebraiche presenti nello spazio sottoposto al controllo, diretto od indiretto, del Terzo Reich. Da oltre 5 milioni ad oltre 6 milioni il totale delle vittime.

Ovunque fossero rimasti in funzione brandelli delle isti-tuzioni preesistenti all’occupazione ed anche dove fosse stato concesso di insediarsi a governi collaborazionisti gli apparati dello Stato, le polizie in primo luogo, ma anche le milizie, a cui partiti e raggruppamenti ideolo-gicamente vicini a fascisti e nazionalsocialisti diedero vi-ta, svolsero un ruolo centrale nello schedare, rastrellare e concentrare gli ebrei, consegnandoli nelle mani degli apparati che stavano realizzando la “soluzione finale del problema ebraico”, cioè l’attuazione della Shoah, irrea-lizzabile senza la zelante partecipazione delle burocrazie dei Paesi occupati, dai poliziotti ai commissari, dagli ufficiali d’anagrafe ai direttori ministeriali e l’attivo so-

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stegno delle organizzazioni politiche che vedevano nel PNF e nella NSDAP modelli da imitare.

Non solo, era frequente che le strutture dell’ammini-strazione pubblica controllata dai collaborazionisti non si limitassero a rispondere positivamente a richieste e pressioni antiebraiche provenienti dagli uffici tedeschi, ma prendessero esse stesse in prima persona iniziative persecutorie, come accadde a Vichy e, qualche anno più tardi, a Salò.

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BILANCIO ED EREDITÀ

N onostante i colossali sconvolgimenti intervenuti nel corso del conflitto ed i drammatici lutti da es-

so provocati, primo tra tutti la distruzione di una parte significativa dell’ebraismo europeo e la parallela scom-parsa di quel tessuto di comunità ebraiche che per seco-li avevano caratterizzato in particolare la parte centrale ed orientale del Vecchio Continente, la mappa politica d’Europa conobbe variazioni assai minori di quelle in-tervenute dopo la Grande Guerra: la Polonia venne re-spinta verso Occidente, inglobando ad Ovest i territori orientali della Germania prebellica e perdendo ad Est terre che sarebbero diventate ucraine, bielorusse, litua-ne; la Germania, ridimensionata ad Oriente, dopo un periodo di sospensione della propria statualità, unico ca-so di applicazione integrale del concetto di «resa incon-dizionata», risparmiato invece ad Italia e Giappone, fu scissa, nel 1949, in due Stati. A parte ciò, se si escludono

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rettifiche di confine di non eccessiva entità, tutto restò, dal punto di vista della geografia politica, come prima, e così sarebbe rimasto fino al biennio 1989-1991.

Va però detto che, come ha sottolineato lo storico britannico a lungo docente negli Usa Tony Judt,

“ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA

MONDIALE SI REINVENTARONO E

RIDISEGNARONO I CONFINI, MENTRE I POPOLI

FURONO IN GENERE LASCIATI DOVE SI

TROVAVANO. DOPO IL 1945, INVECE, ACCADDE

IL CONTRARIO: CON UNA SOLA IMPORTANTE

ECCEZIONE, LE FRONTIERE RIMASERO

SOSTANZIALMENTE INALTERATE, MENTRE

FURONO SPOSTATE LE PERSONE.”

«Tra gli strateghi occidentali dominava la convinzione che la Società delle Nazioni e le clausole sulle minoranze del Trattato di Versailles si fossero rivelate un fallimento e sarebbe stato un errore cercare di risuscitarle: per que-sto motivo accettarono di buon grado i trasferimenti. Se non era possibile garantire una adeguata protezione internazionale alle minoranze dell’Europa centrale ed orientale, allora era meglio che fossero trasferite in luo-ghi dove sarebbero state più accette. L’espressione “puli-zia etnica” non era stata ancora coniata, ma era già una realtà concreta e non suscitava affatto disapprovazione od imbarazzo. A parte qualche eccezione, il risultato fu

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rettifiche di confine di non eccessiva entità, tutto restò, dal punto di vista della geografia politica, come prima, e così sarebbe rimasto fino al biennio 1989-1991.

Va però detto che, come ha sottolineato lo storico britannico a lungo docente negli Usa Tony Judt,

“ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA

MONDIALE SI REINVENTARONO E

RIDISEGNARONO I CONFINI, MENTRE I POPOLI

FURONO IN GENERE LASCIATI DOVE SI

TROVAVANO. DOPO IL 1945, INVECE, ACCADDE

IL CONTRARIO: CON UNA SOLA IMPORTANTE

ECCEZIONE, LE FRONTIERE RIMASERO

SOSTANZIALMENTE INALTERATE, MENTRE

FURONO SPOSTATE LE PERSONE.”

«Tra gli strateghi occidentali dominava la convinzione che la Società delle Nazioni e le clausole sulle minoranze del Trattato di Versailles si fossero rivelate un fallimento e sarebbe stato un errore cercare di risuscitarle: per que-sto motivo accettarono di buon grado i trasferimenti. Se non era possibile garantire una adeguata protezione internazionale alle minoranze dell’Europa centrale ed orientale, allora era meglio che fossero trasferite in luo-ghi dove sarebbero state più accette. L’espressione “puli-zia etnica” non era stata ancora coniata, ma era già una realtà concreta e non suscitava affatto disapprovazione od imbarazzo. A parte qualche eccezione, il risultato fu

la creazione di un’Europa di Stati-nazione più etnica-mente omogenei che in precedenza».*

Il collasso di molte statualità preesistenti, in partico-lare quelle che avevano subito nei due decenni preceden-ti una torsione identificatoria verso il modello politico fascista, non si sarebbe tradotto, dopo la conclusione delle ostilità, in crisi potenzialmente rivoluzionarie. Da un lato mancavano le parole per dirlo, posto che tan-to il lessico quanto le speranze in un rinnovamento per via rivoluzionaria erano stati per così dire “sequestrati” dal comunismo realizzato come esso si presentava, in-carnato nell’Urss e nei partiti comunisti che a Mosca facevano (e non potevano non fare) riferimento, sia pur con diversi e differenti gradi di autonomia; dall’altro, il vuoto fu rapidamente riempito, nell’Est come nell’O-vest del Vecchio Continente, dalle proiezioni militari dei due “grandi ordinatori”, le superpotenze che hanno avuto in dote dalla Seconda guerra mondiale l’egemonia planetaria, gli Usa e l’Urss.

E non si trattò solo di una presenza militare, data la crisi alimentare che si era abbattuta sull’Europa intera negli ultimi mesi del conflitto e nel periodo immedia-tamente successivo, aggravata per di più dagli enormi spostamenti di popolazione. Rifacendoci nuovamente a Tony Judt, «il problema di nutrire, vestire, alloggiare e confortare la disperata popolazione civile (nonché i mi-lioni di soldati prigionieri delle ex potenze dell’Asse) era * T. Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi, Mondadori, Milano 2007

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complicato e moltiplicato dalla crisi dei profughi, che aveva una portata senza precedenti. Quasi tutte le ope-razioni iniziali di assistenza ai profughi e rifugiati furono svolte dagli eserciti alleati. Soltanto l’esercito possedeva risorse e capacità organizzative per gestire i bisogni di un numero di persone equivalente a quello di una nazione di media grandezza. Una volta messo in piedi il sistema di campi di accoglienza, la responsabilità per la cura e l’e-ventuale rimpatrio o reinsediamento di milioni di profu-ghi fu assunta in misura sempre maggiore dall’UNRRA [acronimo per United Nations Relief and Rehabilitation Administration, struttura fondata il 9 novembre 1943 a Washington dai rappresentati di 44 Stati tra quelli che in seguito avrebbero dato vita all’Onu – ndr].

Nel momento del suo massimo impegno (settem-bre 1945) i civili liberati appartenenti all’Onu (ossia ad esclusione dei cittadini degli ex Paesi dell’Asse assistiti o rimpatriati dall’UNRRA e da altre agenzie alleate) erano 6.795.000, ai quali vanno aggiunti altri 7 milioni sotto l’autorità sovietica, nonché parecchi milioni di tedeschi».

Non per caso, del resto, il proponente del piano per il rilancio economico dell’Europa, noto come piano Marshall, fu George C. Marshall, nel 1947 segretario di Stato a Washington, ma dal 1939 al 1945 capo di Stato Maggiore dell’esercito statunitense.

Nel corso del conflitto, ed in particolare nella sua ultima fase, furono assai diffuse le prospettive di un ge-nerale rinnovamento, orizzonte ben presente all’interno

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dei movimenti di Resistenza che si erano sviluppati in tutte le aree del mondo occupate dalle armi dell’Asse e dei suoi alleati minori e che ne fondava le capacità di mobilitazione, al di là di quali fossero i loro riferimenti politici, ideali e morali. Tuttavia, spiega con chiarezza lo storico britannico da decenni docente in Italia David W. Elwood, «nel 1945 la questione del rinnovamento politico aveva ormai cambiato aspetto, in confronto ai presupposti prevalenti durante gli anni centrali del con-flitto. Il motivo di questo venne spiegato da Stalin in una famosa dichiarazione resa a una delegazione di co-munisti jugoslavi in visita in Russia all’inizio del 1945: “Questa guerra non è come in passato: chiunque oc-cupa un territorio vi impone il proprio sistema socia-le. Ognuno impone il proprio sistema nella misura in cui il suo esercito ha il potere di farlo. Non può essere altrimenti”. Dunque gli alleati non erano più soltanto responsabili della “liberazione” dei territori che si tro-vavano sul percorso della propria avanzata militare: da allora in poi non sarebbe stato tanto facile distinguere tra liberazione e occupazione; alla fine della guerra era ormai chiaro che i concetti di democrazia portati dagli eserciti erano ridotti a due, e che i popoli liberati sa-rebbero stati obbligati a adottare la versione sostenuta dalla potenza o dalle potenze cui erano debitori per la loro salvezza. Nell’Occidente le classiche formulazioni del liberalismo parlamentare e della sovranità popolare avrebbero chiaramente riportato in auge un modello,

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sia pure profondamente modificato nei suoi metodi e nei suoi obiettivi, di tradizionale collaborazione di clas-se, basato sul consenso e sulla legalità. Nelle zone libera-te dall’Armata Rossa, la democrazia sarebbe stata quella incarnata dalle forze antifasciste che avevano guidato la lotta contro il nemico».*

Va precisato, a questo proposito, che l’opzione stali-niana, oggettivamente condivisa anche se meno esplici-tamente dagli altri partner della Grande alleanza antifa-scista, partiva dall’assunzione dell’irreversibilità di una trasformazione delle relazioni internazionali che pro-prio lo sviluppo dei maggiori fascismi europei e dell’im-perialmilitarismo giapponese aveva avviato.

Ben lungi dall’essere la mera riproposizione delle po-litiche di alleanza precedenti la Grande Guerra, tanto il Nuovo Ordine Europeo propugnato dalla Germania, quanto la Grande sfera di prosperità comune dell’Asia Orientale portata avanti dal Giappone, quanto il Nuovo Ordine Mediterraneo a cui aspirava l’Italia conteneva-no in sé un’idea di aree egemoniche organizzate poli-ticamente, culturalmente, demograficamente in modo omogeneo.

Appare perciò lecito sostenere che l’egemo-nismo bipolare sovietico-statunitense è in qualche misura figlio di quelle aspirazioni a

* D.W. Elwood, L’Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955, il Mulino, Bologna 1994

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cui il conflitto aveva posto fine, ancorché es-so si sia servito di strumenti, metodi, forme di dominio del tutto diverse e di gran lunga meno distruttive.

Ovviamente a determinare un bipolarismo che non avrebbe lasciato spazio, quantomeno in Europa, ad alcu-na “terza via”, come gli eventi avrebbero implacabilmen-te dimostrato nei decenni successivi, avrebbero concorso anche elementi che provenivano dal passato, in partico-lare dagli sviluppi intercorsi nel periodo di “guerra dopo la guerra” successivo al Primo conflitto mondiale, quali, per esempio, la concezione della “politica di sicurezza” fatta propria dal gruppo dirigente staliniano. A Mosca, infatti, ha scritto lo storico dell’Europa Orientale Silvio Pons, «si affermò una visione delle “sfere d’influenza” quali sfere di dominio e quale unico strumento regola-tivo dei rapporti di potenza, ora definito non solo dagli interessi geopolitici ma dai “modelli” politici e sociali. Si formò compiutamente una concezione della sicurezza imperniata sulle acquisizioni territoriali».*

D’altro canto a Washington si verificò la contesa per l’egemonia sulla cerchia dei massimi decisori politici tra due diversi paradigmi, il primo dei quali, di conio più recente e definito “di Jalta”, vedeva nell’Urss una gran-de potenza che aspirava ad avere una sua propria sfera d’influenza all’interno del sistema delle relazioni inter-* S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941, Einaudi, Torino 1995

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nazionali così come si era recentemente assestato, men-tre il secondo, risalente agli anni Venti e detto “di Riga”, la considerava non come una potenza tradizionale, ma piuttosto come un’entità mirante sempre e comunque alla rivoluzione mondiale, di conseguenza non interes-sata a coesistere pacificamente con altri Stati, pervasa da un’ideologia messianica di dominio globale, da perse-guire attraverso un riarmo senza fine.

Mentre il paradigma di Jalta, frutto di un approccio non ideologico di natura realpo-litisch, aveva rappresentato la linea preva-lente sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, con l’avvento al potere del suo successore, Harry Truman, si sarebbe impo-sto il paradigma di Riga.

Il fatto che esiti tellurici indotti dal conflitto paragona-bili a quelli verificatisi dopo la Grande Guerra non po-tessero verificarsi per la superiore presenza ordinatrice delle superpotenze non può tuttavia nascondere che lo scenario postbellico fosse caratterizzato dalla necessità di ricostruire ex novo entità statuali che, anche quando non geograficamente mutate, avevano subito drammatiche amputazioni demografiche, distruzioni culturali, azze-ramenti dei tradizionali assetti politici ed istituzionali.

La ricostruzione fu guidata dall’alto e quindi – in qualche misura, anche se con modalità ben diverse da

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blocco a blocco – eterodiretta, ed i nuovi gruppi diri-genti che se ne dovettero fare carico si trovarono a fare i conti con modalità di gestione dei conflitti preesistenti e di ricerca del consenso diverse da quelle precedente-mente usuali.

Ne sarebbe sortito il cosiddetto “equilibrio del terro-re”, a lungo oggetto di deprecazione ma capace, nono-stante tutto, di garantire al Nord del mondo la pace e al suo Sud, cui pur non risparmiò gli orrori della guerra, i percorsi già avviati verso la formazione di Stati indi-pendenti, nonché a tutti gli esseri umani un periodo di progressivo miglioramento, sebbene in nuce asimmetri-co, delle condizioni di vita mai in precedenza vissuto, in simili dimensioni, dall’umanità.

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MONDO

IM

MA

TE

RIA

LE

LUCI E OMBRE

•“NUOVO ORDINE

MONDIALE”HITLERIANO

•RAZZISMO

•PROFUGHI

•PATTO

TRIPARTITO

•MASSACRIDI CIVILI

•VIOLENZE

CONTRO I CIVILI

•GENOCIDI

DI “NON ARIANI”

•UCCISIONIDI MASSA

•OLOCAUSTO

•PATTO

DI MONACO

•BOMBA

ATOMICA

•POLITICA

DELL’“APPEASEMENT”

•CONFERENZADI POTSDAM

•CAMPI

DI STERMINIO

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MONDO

IM

MA

TE

RIA

LE

MONDO MATERIALE

•“NUOVO ORDINE

MONDIALE”HITLERIANO

•LIBERAZIONEDELL’ITALIA

•PATTO

RIBBENTROP-MOLOTOV

•PATTO

TRIPARTITO

•MASSACRIDI CIVILI

•PATTO

DI MONACO

•SOTTOVALUTAZIONE

DEL REGIMEHITLERIANO•

POLITICADELL’“APPEASEMENT”

•CONFERENZADI POTSDAM

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APPROFONDIMENTI

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APPROFONDIMENTI

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COMMENT I

L’origine del sistema del clearing, attraverso cui la Germania nazio-nalsocialista riuscì nel corso della guerra a drenare risorse non solo dai Paesi occupati e sottomessi, come qui sottolinea in particolare Milward, ma anche da quelli alleati (Italia compresa, ben prima dell’8 settembre 1943), va ricercata negli anni successivi alla Grande Crisi del 1929, allorché l’economia tedesca si trovò a dover fare i conti con una radicale carenza di valuta che le impediva di acquistare fonti di energia, materie prime e derrate alimentari. La soluzione, proposta e messa in atto da Hjalmar Schacht, dal 1933 presidente della Reichsbank e dal 1934 mi-nistro dell’economia, fu il bilateralismo, fondato sul principio “compra solo da chi acquista i tuoi prodotti, e vendi solo a colui le cui merci tu acquisti”. Invece di un quadruplice flusso orizzontale di merci e denaro nelle due direzioni, si ottenne che solo le merci oltrepassassero la frontiera, mentre il denaro rimaneva nei confini nazionali: chi acquistava versava il corrispettivo in una cassa di compensazione istituita dallo Stato, che provvedeva a retribuire chi vendeva. Presupposto indispensabile era la fissazione di un rigido rapporto di cambio tra le due valute coinvolte. Il meccanismo richiedeva che il valore dell’import fosse sostanzialmente uguale a quello dell’export; se in un Paese coinvolti l’ import superava invece l’export, creando contabilmente una passività, ne venivano con-seguenze sgradevoli per l’altro, formalmente in attivo ma impossibilitato a retribuire i propri esportatori. In tempo di pace erano possibili aggiu-stamenti, ma con lo scoppio della guerra la Germania poté far valere il suo peso politico, militare ed economico costringendo i partner, tutti in attivo, a continue anticipazioni di cassa. Da un lato quindi si procurò merci senza pagarle, dall’altro spostò inflazione oltre frontiera.

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COM M ENT I PAGINE SCELTE

L’origine del sistema del clearing, attraverso cui la Germania nazio-nalsocialista riuscì nel corso della guerra a drenare risorse non solo dai Paesi occupati e sottomessi, come qui sottolinea in particolare Milward, ma anche da quelli alleati (Italia compresa, ben prima dell’8 settembre 1943), va ricercata negli anni successivi alla Grande Crisi del 1929, allorché l’economia tedesca si trovò a dover fare i conti con una radicale carenza di valuta che le impediva di acquistare fonti di energia, materie prime e derrate alimentari. La soluzione, proposta e messa in atto da Hjalmar Schacht, dal 1933 presidente della Reichsbank e dal 1934 mi-nistro dell’economia, fu il bilateralismo, fondato sul principio “compra solo da chi acquista i tuoi prodotti, e vendi solo a colui le cui merci tu acquisti”. Invece di un quadruplice flusso orizzontale di merci e denaro nelle due direzioni, si ottenne che solo le merci oltrepassassero la frontiera, mentre il denaro rimaneva nei confini nazionali: chi acquistava versava il corrispettivo in una cassa di compensazione istituita dallo Stato, che provvedeva a retribuire chi vendeva. Presupposto indispensabile era la fissazione di un rigido rapporto di cambio tra le due valute coinvolte. Il meccanismo richiedeva che il valore dell’import fosse sostanzialmente uguale a quello dell’export; se in un Paese coinvolti l’ import superava invece l’export, creando contabilmente una passività, ne venivano con-seguenze sgradevoli per l’altro, formalmente in attivo ma impossibilitato a retribuire i propri esportatori. In tempo di pace erano possibili aggiu-stamenti, ma con lo scoppio della guerra la Germania poté far valere il suo peso politico, militare ed economico costringendo i partner, tutti in attivo, a continue anticipazioni di cassa. Da un lato quindi si procurò merci senza pagarle, dall’altro spostò inflazione oltre frontiera.

LO SFRUTTAMENTO ECONOMICO TEDESCO TANTO DEI PAESI OCCUPATI QUANTO DEI PROPRI ALLEATI

Lo sfruttamento dei territori conquistati dalla Germania fu regolato dalla strategia tedesca. Fintantoché la strategia si basò sull’idea di una guerra lampo, lo sfruttamento […] fu una questione di breve termine. Esso consisté principalmente nell’accaparramento delle riserve di pro-dotti di carattere strategico e nell’assicurarsi la possibilità d’impiego di particolari beni o impianti in grado di offrire un sostegno immediato allo sforzo bellico tedesco. Quando al principio del 1942 la strategia mutò e si accettò la certezza di una lunga guerra, cambiò anche il modo di considerare il problema dello sfruttamento […]. Gli occupanti te-deschi da allora concentrarono il proprio interesse sull’organizzazione di un sistema di consistenti e continui contributi da parte dei territori occupati […]. In ciascuno dei primi quattro anni di guerra l’aumento dei contributi esterni al prodotto totale disponibile della Germania fu di fatto maggiore dell’aumento del contributo interno. Questo tradizionale metodo d’imposizione dei contributi di occupazione fu tuttavia accompagnato da un più sofisticato sistema di sfruttamento. I contributi furono pagati per mezzo del meccanismo di clearing (com-pensazione) creato per regolare gli scambi tra la Germania e i territori occupati. Ciascun Paese fu obbligato a negoziare con la Germania, da posizioni di netta inferiorità, un accordo bilaterale […]. La bilan-cia commerciale fu regolata da un sistema di clearing, mentre ciascun Paese versava ai propri esportatori il corrispettivo dei crediti aperti a proprio favore. In sostanza, in tutti i territori occupati la Germania go-dette di un potere d’acquisto illimitato, tanto più che non ci fu alcun sistema per costringerla a porre un freno al proprio indebitamento.

Alan S. Milward “Guerra, economia e società 1939-1945” trad. di Guido Abbattista, Etas Libri, Milano 1983

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COMMENT I

Solo una rapida vittoria tedesca sul Fronte orientale apertosi nel giugno 1941 avrebbe forse potuto imprimere un diverso andamento al conflitto, poiché i tempi lunghi resero invece possibile alla coalizione antifascista mettere in campo la propria superiorità in risorse e capacità produttive. Come ha scritto Adam Tooze, ne Il prezzo dello sterminio. Ascesa e ca-duta dell’economia nazista, in riferimento al triennio 1942-1944 – un periodo cioè in cui gli schieramenti erano già stati definiti e il conflitto aveva assunto, dopo la Battaglia di Mosca e l’attacco a Pearl Harbor, quelle dimensioni di guerra d’usura, totale e geograficamente mondiale richiamate da Overy – il rapporto tra produzione di fucili da parte degli Alleati e dell’Asse era di 2,7 a favore dei primi; saliva a ben 15,6 per quanto riguardava le pistole automatiche; era a 3,2 per le mitragliatrici, a 3,1 sui cannoni, a 5,3 circa i mortai, a 4,7 sui carri armati, a 2,6 a proposito degli aerei militari, a 5,5 in riferimento alle navi da guerra. Più in generale, il Pil complessivo degli Alleati era nel 1941 2,4 volte maggiore di quello dell’Asse, e sarebbe salito a 3,1 volte nel 1944. La produzione d’acciaio, che già nel 1939 era per i componenti futuri della coalizione antifascista 2,9 volte quella dei membri dell’Asse belligeranti o meno, nel 1944 aveva raggiunto 3,5 volte. Ancora più impressionante il confronto tra la produzione di armamenti della sola Unione Sovietica e della Germania nel periodo: oltre il 50% in più di fucili, quasi 8 volte superiore il numero di pistole automatiche, quasi una volta e mezza quel-lo di mitragliatrici e cannoni, più del quadruplo i mortai, più del doppio i carri armati, il 30 per cento in più di aerei. Solo nella cantieristica la Germania predominò con 703 navi a fronte di appena 5, ma, date le caratteristiche del Fronte orientale, ciò fu irrilevante.

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COM M ENT I PAGINE SCELTE

PERCHÉ GLI ALLEATI VINSERO LA GUERRA

Poiché risorse colossali furono mobilitate su distanze enormi, al punto che il campo di battaglia fu mondiale in un senso veramente letterale, per gli alleati non si trattava di vincere la guerra in qualche area deli-mitata: essa doveva essere vinta in ogni teatro e in ogni dimensione, in terra come in mare e nei cieli. Ciò fece del raggiungimento della vitto-ria un’impresa assai costosa, imponente e, soprattutto, lenta. La guer-ra impose un prezzo esorbitante agli stati belligeranti delle due parti, ciascuna delle quali impiegò in battaglia un terzo (o più) delle proprie forze umane e convertì i due terzi dell’economia in modo da rifornire una prima linea insaziabile di risorse. Si trattava di un modo di fare la guerra su una scala che l’Ottocento non avrebbe potuto nemmeno immaginare, […] che trasse la propria giustificazione dalla disperata visione darwiniana del mondo propagandata dai profeti di sventura degli anni Trenta. Tutti gli stati, fascisti, comunisti o democratici, condividevano l’assunto comune ma spaventoso che la guerra dovesse essere «totale», […] che aveva per posta la sopravvivenza. L’esito del-la guerra dipese dall’efficace mobilitazione delle risorse economiche, scientifiche e morali della nazione almeno tanto quanto dai combatti-menti stessi: questa spiegazione può non essere altrettanto affascinante di quella che si basa sulla pura e semplice efficacia dei combattimenti, ma rende giustizia al fatto che fu una guerra combattuta anche dai civili oltre che dai soldati. Il successo alleato nelle lunghe campagne di logoramento può essere spiegato in maniera convincente solo tenendo conto del ruolo della produzione e delle innovazioni tecnologiche.

Richard Overy “La strada della vittoria. Perché gli alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale” trad. di N. Rainò, il Mulino, Bologna 2002

Solo una rapida vittoria tedesca sul Fronte orientale apertosi nel giugno 1941 avrebbe forse potuto imprimere un diverso andamento al conflitto, poiché i tempi lunghi resero invece possibile alla coalizione antifascista mettere in campo la propria superiorità in risorse e capacità produttive. Come ha scritto Adam Tooze, ne Il prezzo dello sterminio. Ascesa e ca-duta dell’economia nazista, in riferimento al triennio 1942-1944 – un periodo cioè in cui gli schieramenti erano già stati definiti e il conflitto aveva assunto, dopo la Battaglia di Mosca e l’attacco a Pearl Harbor, quelle dimensioni di guerra d’usura, totale e geograficamente mondiale richiamate da Overy – il rapporto tra produzione di fucili da parte degli Alleati e dell’Asse era di 2,7 a favore dei primi; saliva a ben 15,6 per quanto riguardava le pistole automatiche; era a 3,2 per le mitragliatrici, a 3,1 sui cannoni, a 5,3 circa i mortai, a 4,7 sui carri armati, a 2,6 a proposito degli aerei militari, a 5,5 in riferimento alle navi da guerra. Più in generale, il Pil complessivo degli Alleati era nel 1941 2,4 volte maggiore di quello dell’Asse, e sarebbe salito a 3,1 volte nel 1944. La produzione d’acciaio, che già nel 1939 era per i componenti futuri della coalizione antifascista 2,9 volte quella dei membri dell’Asse belligeranti o meno, nel 1944 aveva raggiunto 3,5 volte. Ancora più impressionante il confronto tra la produzione di armamenti della sola Unione Sovietica e della Germania nel periodo: oltre il 50% in più di fucili, quasi 8 volte superiore il numero di pistole automatiche, quasi una volta e mezza quel-lo di mitragliatrici e cannoni, più del quadruplo i mortai, più del doppio i carri armati, il 30 per cento in più di aerei. Solo nella cantieristica la Germania predominò con 703 navi a fronte di appena 5, ma, date le caratteristiche del Fronte orientale, ciò fu irrilevante.

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COMMENT I

Il 23 luglio 1941 l’articolo di fondo della Pravda, dell’intellettuale e giornalista Emel’jan Michajlovič Jaroslavskij, portava come titolo: La grande guerra patriottica del popolo sovietico, che richiamava esplici-tamente la “Guerra patriottica”, definizione con cui era nota la campa-gna di Russia del 1812, conclusasi con la ritirata della Grande Armée, che avrebbe innescato il crollo del sistema imperiale napoleonico; il ter-mine sarebbe stato ripreso dallo stesso Stalin nel suo primo discorso ra-diofonico ai popoli dell’Urss il 3 luglio successivo. Nel testo non compare mai il termine “socialismo”, mentre la parola “patria” ricorre ben dodici volte. Analogamente, nell’orazione che egli avrebbe tenuto il 6 novembre successivo la “patria” viene nominata nove volte, ed il socialismo solo tre, due delle quali però in riferimento al nazionalsocialismo di cui vie-ne contestato il carattere “socialista”. Il giorno successivo, 7 novembre, nell’usuale discorso di saluto alla rivista militare sulla Piazza Rossa, Stalin non fa alcun cenno al “socialismo” e, oltre ad evocare per tre vol-te la “patria”, cita quali ispiratori della resistenza antitedesca “le figure ardimentose dei nostri grandi antenati”, nell’ordine Aleksandr Jaroslavič Něvský, signore di Novgorod, santo per la Chiesa ortodossa russa; Dmitrij Ivanovič Donský, principe di Mosca, anch’egli sugli altari; Kuzma Minin e Dmitrij Michajlovič Požarskij mercante il primo, principe il secondo, che combatterono nella guerra tra Polonia e Moscovia all’inizio del XVII secolo; Aleksandr Vasiljevič Suvorov e Michail Illarionovič Kutuzov, en-trambi generali zaristi. Palese la scelta da parte di Stalin e dell’intero gruppo dirigente sovietico di appellarsi prima di tutto al patriottismo, in particolare russo. Una scommessa che si rivelò vincente.

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COM M ENT I PAGINE SCELTE

L’«ECCEZIONALE IMPRESA» DELL’URSS

Forse non sarà vero che l’«eccezionale impresa non svanirà mai dalla memoria di una umanità riconoscente», come era stato insegnato a generazioni di cittadini sovietici, ma lo sforzo bellico sovietico resta ancora un’impresa ineguagliata, storica e mondiale nel vero senso del-la parola. Stalin aveva ragione quando diceva che la guerra era «un esame per l’intero sistema sovietico» e sapeva, forse meglio di chiun-que altro, che lo Stato era arrivato ad un passo dal fallire la prova. Le probabilità che l’Urss battesse la Germania hitleriana erano molto scarse ancor prima che il conflitto scoppiasse, e dopo i primi mesi si ridussero ulteriormente. All’estero l’immagine tradizionale dell’Urss era quella di un sistema reso inerte da una burocrazia soffocante e da una feroce repressione. Contro questo Paese si erano schierate le forze armate più pericolose del mondo, che avevano già conquistato gran parte dell’Europa in soli diciotto mesi. L’Urss ottenne la vittoria no-nostante le quasi unanimi aspettative contrarie. Questo fatto impone agli storici una difficile quadratura del cerchio: l’Unione Sovietica aveva mille ragioni per essere sconfitta, ma vinse in modo trionfante e completo. Naturalmente l’Urss non era sola: senza la suddivisione delle energie tedesche imposta dalla campagna di bombardamenti aerei o dalle operazioni nel teatro mediterraneo, il risultato avrebbe potuto essere meno sicuro, forse molto diverso. Tuttavia, fu sul fronte orientale che le forze tedesche subirono il grosso dei danni (l’80% dei caduti in battaglia) e fu sempre sul fronte orientale che si concentrò il peso schiacciante della Wehrmacht fino al 1944.

Richard Overy “Russia in guerra 1941-1945” trad. di P. Modola, Il Saggiatore, Milano 2000

Il 23 luglio 1941 l’articolo di fondo della Pravda, dell’intellettuale e giornalista Emel’jan Michajlovič Jaroslavskij, portava come titolo: La grande guerra patriottica del popolo sovietico, che richiamava esplici-tamente la “Guerra patriottica”, definizione con cui era nota la campa-gna di Russia del 1812, conclusasi con la ritirata della Grande Armée, che avrebbe innescato il crollo del sistema imperiale napoleonico; il ter-mine sarebbe stato ripreso dallo stesso Stalin nel suo primo discorso ra-diofonico ai popoli dell’Urss il 3 luglio successivo. Nel testo non compare mai il termine “socialismo”, mentre la parola “patria” ricorre ben dodici volte. Analogamente, nell’orazione che egli avrebbe tenuto il 6 novembre successivo la “patria” viene nominata nove volte, ed il socialismo solo tre, due delle quali però in riferimento al nazionalsocialismo di cui vie-ne contestato il carattere “socialista”. Il giorno successivo, 7 novembre, nell’usuale discorso di saluto alla rivista militare sulla Piazza Rossa, Stalin non fa alcun cenno al “socialismo” e, oltre ad evocare per tre vol-te la “patria”, cita quali ispiratori della resistenza antitedesca “le figure ardimentose dei nostri grandi antenati”, nell’ordine Aleksandr Jaroslavič Něvský, signore di Novgorod, santo per la Chiesa ortodossa russa; Dmitrij Ivanovič Donský, principe di Mosca, anch’egli sugli altari; Kuzma Minin e Dmitrij Michajlovič Požarskij mercante il primo, principe il secondo, che combatterono nella guerra tra Polonia e Moscovia all’inizio del XVII secolo; Aleksandr Vasiljevič Suvorov e Michail Illarionovič Kutuzov, en-trambi generali zaristi. Palese la scelta da parte di Stalin e dell’intero gruppo dirigente sovietico di appellarsi prima di tutto al patriottismo, in particolare russo. Una scommessa che si rivelò vincente.

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COMMENT I

È diffusa la lettura della Seconda guerra mondiale come termine di una “guerra civile europea”, o “seconda Guerra dei Trent’anni”, iniziata nella Grande Guerra. Secondo alcuni, tra cui Eric John Hobsbawm, il punto di partenza andrebbe collocato nell’agosto 1914, quando cioè l’Europa precipitò nel baratro, secondo altri, tra cui Ernst Nolte, la data corretta è invece il 1917, anno della rivoluzione bolscevica, che avrebbe pro-vocato il costituirsi di uno Stato il cui fine esplicito era la rivoluzione comunista mondiale. Diverse, se non divergenti, nell’impostazione, que-ste ottiche concordano nel ritenere il ventennio interbellico 1919-1939 una fase intermedia e di conseguenza nel sottovalutare il peso della crisi del Ventinove, ancorché senza i suoi catastrofici effetti ben difficilmente la NSDAP sarebbe riuscita a sfondare elettoralmente in Germania ed Hitler a diventare cancelliere. Diner richiama invece una prospettiva differente, dove sarebbe stata semmai l’opzione dell’ “unconditional sur-render” cara a F.D. Roosevelt a trasformare la Seconda guerra mondiale in una “guerra civile”, cioè in un conflitto in cui una delle due parti deve scomparire. L’opzione rooseveltiana dovette scontrarsi, nel momento in cui fu enunciata, con i generali statunitensi Marshall ed Eisenhower, con Winston Churchill, e con Josif Stalin, i quali ritenevano che la formula avrebbe rischiato di prolungare la guerra indebolendo le forze interne alla Germania che stavano prendendo posizione contro la politica di Hitler. Essa tuttavia prevalse; la sua genesi ed il suo successo sono da ricondurre all’autorappresentazione dominante negli Usa, come ricorda lo stesso Diner: «nella Prima guerra mondiale gli americani intervennero per rendere il mondo “safe for democracy”. La Seconda guerra mondiale fu per loro una “crusade for freedom”».

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COM M ENT I PAGINE SCELTE

LA NECESSARIA «RESA INCONDIZIONATA»

Nel gennaio del 1943 Roosevelt e Churchill annunciarono alla con-ferenza di Casablanca lo unconditional surrender, la «resa incondizio-nata». Si escludeva la possibilità di trattare con il nemico, pretenden-do che le potenze dell’Asse si arrendessero senza condizioni. Durante una conferenza stampa i signori della guerra fornirono la spiegazione dell’espressione «resa incondizionata». Il presidente americano illustrò la tradizione che stava alla base dello unconditional surrender. Parlò di Ulysses S. (U.S.) Grant – “unconditional surrender Grant” – il capo su-premo delle armate del Nord durante la guerra civile americana, eletto in seguito presidente degli Stati Uniti, l’uomo che aveva imposto al Sud la resa incondizionata. La resa incondizionata è una forma di sottomis-sione a cui si assiste generalmente alla fine delle guerre civili. Queste guerre escludono un compromesso che permetta ad entrambe le parti in causa di continuare ad esistere, e ciò con la stessa logica che vieta la presenza contemporanea di due governi in un unico stato. Un’unica comunità sociale non può avere più di una fazione che eserciti i poteri dello stato e del governo. Il partito sconfitto deve abbandonare le sue rivendicazioni oppure soccombere. In una guerra civile le rivalità si acuiscono sino alla sconfitta totale, anzi fino all’annientamento di uno degli avversari. Generalmente le guerre civili sono caratterizzate da un antagonismo tra contenuti di fede, valori, e diverse forme ideologiche, e tale antagonismo può contribuire ad accendere e a legittimare la vio-lenza; l’intensità di tale violenza è dovuta però esclusivamente a quella costellazione che esclude a priori qualsiasi compromesso.

Dan Diner “Raccontare il Novecento. Una storia politica” trad. di F. Reinders, Garzanti, Milano 2001

È diffusa la lettura della Seconda guerra mondiale come termine di una “guerra civile europea”, o “seconda Guerra dei Trent’Anni”, iniziata nella Grande Guerra. Secondo alcuni, tra cui Eric John Hobsbawm, il punto di partenza andrebbe collocato nell’agosto 1914, quando cioè l’Europa precipitò nel baratro, secondo altri, tra cui Ernst Nolte, la data corretta è invece il 1917, anno della rivoluzione bolscevica, che avrebbe pro-vocato il costituirsi di uno Stato il cui fine esplicito era la rivoluzione comunista mondiale. Diverse, se non divergenti, nell’impostazione, que-ste ottiche concordano nel ritenere il ventennio interbellico 1919-1939 una fase intermedia e di conseguenza nel sottovalutare il peso della crisi del Ventinove, ancorché senza i suoi catastrofici effetti ben difficilmente la NSDAP sarebbe riuscita a sfondare elettoralmente in Germania ed Hitler a diventare cancelliere. Diner richiama invece una prospettiva differente, dove sarebbe stata semmai l’opzione dell’ “unconditional sur-render” cara a F.D. Roosevelt a trasformare la Seconda guerra mondiale in una “guerra civile”, cioè in un conflitto in cui una delle due parti deve scomparire. L’opzione rooseveltiana dovette scontrarsi, nel momento in cui fu enunciata, con i generali statunitensi Marshall ed Eisenhower, con Winston Churchill, e con Josif Stalin, i quali ritenevano che la formula avrebbe rischiato di prolungare la guerra indebolendo le forze interne alla Germania che stavano prendendo posizione contro la politica di Hitler. Essa tuttavia prevalse; la sua genesi ed il suo successo sono da ricondurre all’autorappresentazione dominante negli Usa, come ricorda lo stesso Diner: «nella Prima guerra mondiale gli americani intervennero per rendere il mondo “safe for democracy”. La Seconda guerra mondiale fu per loro una “crusade for freedom”».

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COMMENT I

Sebbene l’orientamento originale di F.D. Roosevelt fosse ritenere che gli Stati Uniti avessero un ruolo da giocare su scala mondiale, sulla falsariga di quanto avevano sostenuto Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, da un lato le condizioni di dura crisi economica in cui gli Usa versavano allorché nel 1932 egli fu eletto per la prima volta presidente, dall’altro la presenza, sia nell’opinione pubblica, sia all’interno del Congresso e senza distinzione tra i due partiti che vi erano rappresentati, di un forte orien-tamento isolazionista lo costrinsero per anni a concentrarsi sulla politica interna e procedere con i piedi di piombo nello scacchiere internazio-nale. Significativo tuttavia il ristabilimento, nel 1933, delle relazioni diplomatiche con l’Urss, interrotte dal dicembre 1917 in seguito alla rivoluzione bolscevica. Frutto di colloqui tra Roosevelt e il commissario del popolo agli Affari esteri sovietico Maxim Maximovič Litvinov, agli occhi del presidente statunitense l’intesa aveva un duplice valore: porre un ulteriore limite all’espansione imperiale del Giappone in Asia Orien-tale, preoccupante per gli Stati Uniti il cui baricentro strategico iniziava a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico, ed aprire il grande mercato sovietico al commercio statunitense. Anche nessuno di questi scopi fu allora rag-giunto, l’idea rooseveltiana di trovare nell’Unione Sovietica un partner importante aveva preso forma. Essa avrebbe fatto decisivi passi in avanti nel giugno 1941, quando, lo stesso giorno in cui fu lanciata dai tedeschi l’Operazione Barbarossa, gli Stati Uniti estesero all’Unione Sovietica i rifornimenti inizialmente previsti per il Regno Unito, la Francia Libera degaullista e la Repubblica di Cina dalla legge “Affitti e prestiti”, del marzo precedente. L’embargo sul Giappone posto nel luglio successivo fu perciò un rischio calcolato.

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COM M ENT I PAGINE SCELTE

LA CENTRALITÀ DEL PACIFICO PER F.D. ROOSEVELT

La risposta di Roosevelt all’occupazione dell’Indocina meridionale da parte del Giappone, i cui vertici ritenevano di avere già allora, a prescindere dalla Cina, le spalle al sicuro a causa dell’impegno della Russia nella guerra contro la Germania portava in sé l’imminente scatenamento di una guerra nel Pacifico. Il 26 luglio 1941 Roosevelt annunciò il blocco dei beni giapponesi negli Usa e rese nota inoltre la costituzione di un alto comando in Estremo Oriente. Lo stesso giorno la Gran Bretagna ed i suoi dominions ruppero i rapporti com-merciali col Giappone. Il 28 luglio le Indie olandesi si associarono alla misura di embargo. Le forniture di stagno, caucciù e petrolio al Giappone vennero sospese da parte di tutti questi Paesi. L’impe-ro perciò, per la sua totale dipendenza dall’importazione di petrolio, si trovò di fatto di fronte all’alternativa della capitolazione politica all’America o di prendere con la forza le materie prime in Asia Sud-orientale, scatenando un attacco contro gli Usa e i suoi alleati. A pre-scindere da tutto il resto, le misure di embargo avevano conseguenze catastrofiche anche per la guerra contro la Cina. Poiché nel governo giapponese era convinzione comune che il conflitto con la Cina do-veva essere concluso solo con una completa vittoria, questa minaccia alla conduzione della guerra in Cina rappresentò un fattore essenziale per la linea di congiunzione del conflitto cino-giapponese in atto dal 1931 e della guerra del Pacifico del 1941. Alla fine del 1941 era stata per così dire innescata una «spoletta a tempo» che prevedibilmente a breve tempo avrebbe fatto scattare la decisione di attaccare gli Usa.

Andreas Hillgruber “La distruzione dell’Europa. La Germania e l’epoca delle guerre mondiali (1914-1945)” trad. di G. Mandarino, il Mulino, Bologna 1991

Sebbene l’orientamento originale di F.D. Roosevelt fosse ritenere che gli Stati Uniti avessero un ruolo da giocare su scala mondiale, sulla falsariga di quanto avevano sostenuto Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, da un lato le condizioni di dura crisi economica in cui gli Usa versavano allorché nel 1932 egli fu eletto per la prima volta presidente, dall’altro la presenza, sia nell’opinione pubblica, sia all’interno del Congresso e senza distinzione tra i due partiti che vi erano rappresentati, di un forte orien-tamento isolazionista lo costrinsero per anni a concentrarsi sulla politica interna e procedere con i piedi di piombo nello scacchiere internazio-nale. Significativo tuttavia il ristabilimento, nel 1933, delle relazioni diplomatiche con l’Urss, interrotte dal dicembre 1917 in seguito alla rivoluzione bolscevica. Frutto di colloqui tra Roosevelt e il commissario del popolo agli Affari esteri sovietico Maxim Maximovič Litvinov, agli occhi del presidente statunitense l’intesa aveva un duplice valore: porre un ulteriore limite all’espansione imperiale del Giappone in Asia Orien-tale, preoccupante per gli Stati Uniti il cui baricentro strategico iniziava a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico, ed aprire il grande mercato sovietico al commercio statunitense. Anche nessuno di questi scopi fu allora rag-giunto, l’idea rooseveltiana di trovare nell’Unione Sovietica un partner importante aveva preso forma. Essa avrebbe fatto decisivi passi in avanti nel giugno 1941, quando, lo stesso giorno in cui fu lanciata dai tedeschi l’Operazione Barbarossa, gli Stati Uniti estesero all’Unione Sovietica i rifornimenti inizialmente previsti per il Regno Unito, la Francia Libera degaullista e la Repubblica di Cina dalla legge “Affitti e prestiti”, del marzo precedente. L’embargo sul Giappone posto nel luglio successivo fu perciò un rischio calcolato.

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LEGGERE, VEDERE, VISITARE

BIBLIOGRAFIA

TESTI PRIMARI

La banalità del maledi H. Arendt, Feltrinelli, Milano 2013

Alle origini del welfare state Il rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenzialidi W.H. Beveridge, Franco Angeli, Milano 2010

La libertà solidale. Scritti 1942-1945di W.H. Beveridge, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma 2010

Dialoghi con Albert Speerdi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2008

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I taccuini di Norimbergadi L. Goldensohn, a cura di R. Gellately, trad. di P. Budinich, Il Saggiatore, Milano 2008

Memorie del Terzo Reichdi A. Speer, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1996

SAGGI

Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941di S. Pons, Einaudi, Torino 1995

Il fascismo giapponesedi F. Gatti, Cafoscarina, Venezia 1997

Stalingradodi A. Beevor, Bur, Milano 2000

Il prezzo dello sterminio Ascesa e caduta dell’economia nazistadi A. Tooze, Garzanti, Milano 2008

Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944)di M. Berg, Einaudi, Torino 2009

Guerra assoluta La Russia sovietica nella seconda guerra mondialedi C. Bellamy, Einaudi, Torino 2010

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Russia in guerra 1941-1945di R.J. Overy, trad. di P. Modola, Il saggiatore, Milano 2011

La strada della vittoria Perché gli alleati hanno vinto la seconda guerra mondialedi R.J. Overy, trad. di N. Rainò,il Mulino, Bologna 2011

Il ghetto di Varsavia lottadi M. Edelman, Giuntina, Firenze 2012

STORIA

Storia militare della seconda guerra mondialedi B.H. Liddell Hart, Mondadori, Milano 1970

Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico 1937-1945di A. Santoni, STEM-Mucchi, Modena 1977-1979

Fronte orientale Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945)di O. Bartov, il Mulino, Bologna 2003

Storia della 2ª guerra mondiale Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenzedi A. Hillgruber, trad. E. Grillo, Laterza, Roma-Bari 2004

La seconda guerra mondiale I sei anni che hanno cambiato la storiadi A. Beevor, Rizzoli, Milano 2013

I taccuini di Norimbergadi L. Goldensohn, a cura di R. Gellately, trad. di P. Budinich, Il Saggiatore, Milano 2008

Memorie del Terzo Reichdi A. Speer, trad. di E. e Q. Maffi, Mondadori, Milano 1996

SAGGI

Stalin e la guerra inevitabile 1936-1941di S. Pons, Einaudi, Torino 1995

Il fascismo giapponesedi F. Gatti, Cafoscarina, Venezia 1997

Stalingradodi A. Beevor, Bur, Milano 2000

Il prezzo dello sterminio Ascesa e caduta dell’economia nazistadi A. Tooze, Garzanti, Milano 2008

Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944)di M. Berg, Einaudi, Torino 2009

Guerra assoluta La Russia sovietica nella seconda guerra mondialedi C. Bellamy, Einaudi, Torino 2010

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Una guerra al tramonto (1944-1945) Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli alleati in Europadi R. Atkinson, Mondadori, Milano 2015

Controstoria della seconda guerra mondialedi E. Bauer, Edizioni Res Gestae, Milano 2015

GERMANIA

Hitler. Una biografiadi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2005

Hitler e l’enigma del consensodi I. Kershaw, trad. di N. Antonacci, Laterza, Roma-Bari 2007

La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reichdi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2007

Operazione Valchiriadi I. Kershaw, trad. di A. Catania, A. Silvestri, Bompiani, Milano 2009

Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidiodi E. Husson, Einaudi, Torino 2010

Il Terzo Reich al potere. 1933-1939di R.J. Evans, Mondadori, Milano 2011

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Il volto del Terzo Reich Profilo degli uomini chiave della Germania nazistadi J.C. Fest, Ugo Mursia Editore, Milano 2011

La fine del Terzo Reich. Germania 1944-45di I. Kershaw, Bompiani, Milano 2013

ITALIA

Il nuovo ordine mediterraneo Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-1943)di D. Rodogno, Bollati Boringhieri, Torino 2003

La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italianodi L. Polese Remaggi, il Mulino, Bologna 2004

La Resistenza in Italia. Storia e criticadi S. Peli, Einaudi, Torino 2004

Una nazione allo sbando. 8 settembre 1943di E. Aga-Rossi, il Mulino, Bologna 2006

Le guerre italiane 1935-1943 Dall’Impero d’Etiopia alla disfattadi G. Rochat, Einaudi, Torino 2008

La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945di E. Di Nolfo, M. Serra, Laterza, Roma-Bari 2010

Una guerra al tramonto (1944-1945) Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli alleati in Europadi R. Atkinson, Mondadori, Milano 2015

Controstoria della seconda guerra mondialedi E. Bauer, Edizioni Res Gestae, Milano 2015

GERMANIA

Hitler. Una biografiadi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2005

Hitler e l’enigma del consensodi I. Kershaw, trad. di N. Antonacci, Laterza, Roma-Bari 2007

La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reichdi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2007

Operazione Valchiriadi I. Kershaw, trad. di A. Catania, A. Silvestri, Bompiani, Milano 2009

Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidiodi E. Husson, Einaudi, Torino 2010

Il Terzo Reich al potere. 1933-1939di R.J. Evans, Mondadori, Milano 2011

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EUROPA

L’Europa ricostruita Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955di D.W. Elwood, trad. di M. Innocenti, il Mulino, Bologna1994

L’Europa nazista Il progetto di un nuovo ordine europeo 1939-1945di E. Collotti, Giunti, Firenze 2002

Il sogno del “grande spazio” Le politiche d’occupazione nell’Europa nazistadi G. Corni, Laterza, Roma-Bari 2005

Dopoguerra Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggidi T. Judt, trad. di A. Piccato, Mondadori, Milano 2007

La guerra dell’ombra. La Resistenza in Europadi H. Michel, Ugo Mursia Editore, Milano 2010

La seconda guerra mondiale in Europadi S.P. MacKenzie, il Mulino, Bologna 2011

Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalindi T. Snyder, trad. di L. Lanza, S. Mancini, P. Vicentini, Rizzoli, Milano 2011

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BIOGRAFIE

Speer. Una biografiadi J.C. Fest, Garzanti, Milano 2004

In lotta con la verità. La vita e i segreti di Albert Speerdi G. Sereny, Bur, Milano 2009

Un segreto ricomporsi Albert Speer, dalla memoria individuale alla storiadi P. Lombardi, Le Lettere, Firenze 2013

Albert Speer e Marcello Piacentini L’architettura del totalitarismo negli anni Trentadi S. Scarrocchia, Skira, Milano 2013

FILM

Roma città aperta, di Roberto Rossellini, Italia 1945

I dannati di Varsavia, di Andrzej Wajda, Polonia 1957

Il ponte sul fiume Kwai, di David Lean, Usa 1957

La ciociara, di Vittorio De Sica, Italia 1960

Il giorno più lungo, di Ken Annakin, Usa 1962

La grande fuga, di John Sturges, Usa 1963

Quella sporca dozzina, di Robert Aldrich, Usa 1967

Patton, generale d’acciaio, Usa 1970

Tora! Tora! Tora!, di Richard Fleischer, Usa 1970

EUROPA

L’Europa ricostruita Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955di D.W. Elwood, trad. di M. Innocenti, il Mulino, Bologna1994

L’Europa nazista Il progetto di un nuovo ordine europeo 1939-1945di E. Collotti, Giunti, Firenze 2002

Il sogno del “grande spazio” Le politiche d’occupazione nell’Europa nazistadi G. Corni, Laterza, Roma-Bari 2005

Dopoguerra Come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggidi T. Judt, trad. di A. Piccato, Mondadori, Milano 2007

La guerra dell’ombra. La Resistenza in Europadi H. Michel, Ugo Mursia Editore, Milano 2010

La seconda guerra mondiale in Europadi S.P. MacKenzie, il Mulino, Bologna 2011

Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalindi T. Snyder, trad. di L. Lanza, S. Mancini, P. Vicentini, Rizzoli, Milano 2011

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La croce di ferro, di Sam Peckinpah, Uk, Germania 1977

Schindler’s List, di Steven Spielberg, Usa 1993

La sottile linea rossa, di Terrence Malick, Usa 1998

Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, Usa 1998

Il nemico alle porte, di Jean-Jacques Annaud, Germania, Uk, Irlanda 2000

U-571, di Jonathan Mostow, Usa 2000

El Alamein – La linea del fuoco, di Enzo Monteleone, Italia 2002

Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, Usa 2006

Lettere da Iwo Jima, di Clint Eastwood, Usa 2006

Operazione Valchiria, di Bryan Singer, Usa, Germania 2008

Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino, Usa, Germania 2009

Fury, di David Ayer, Usa 2014

WEB

www.anpi.ithttp://avalon.law.yale.edu/subject_menus/wwii.asp www.bbc.co.uk/history/worldwars/wwtwowww.ildday.itwww.instoria.it/home/politica_alleata_italia_seconda_guerra_mondiale_I.htmwww.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/albert-speer/1194/default.aspxwww.ushmm.org/itwww.kingsacademy.com/mhodges/03_The-World-since-1900/07_World-War-Two/07_World-War-Two.htmhttp://digilander.libero.it/secondaguerra

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LUOGHI DI INTERESSE

LA LINEA MAGINOT E LE SPIAGGE DEL D-DAY

In Francia sono oggi visitabili alcuni tratti della Linea Maginot, l’imponente sistema di fortificazioni costruito negli anni Trenta lungo il confine franco-tedesco e considerato inespugnabile, ma ri-velatosi vano poiché le truppe d’invasione tedesche si limitarono ad aggirarlo (1940), passando attraverso il Belgio. In Lorena vi è una dozzina di siti aperti al pubblico, tra cui il più imponente ba-luardo della linea difensiva, il Fort du Hackenberg, posto 30 km a nordest di Metz e capace di accogliere fino a mille soldati. Al forte erano connessi ben 10 km di tunnel sotterranei, destinati a garan-tirgli l’autosufficienza per un periodo di tre mesi; la visita guidata, della durata di due ore, si svolge a bordo di un trenino elettrico che conduce i turisti lungo una galleria sotterranea di 4 km. Si ri-cordano inoltre il Fort de Guertrange, vicino Thionville, e il Fort du Simserhof, nel comune di Siersthal, una delle più importanti postazioni di artiglieria della Linea Maginot. Nella parte alsaziana si consiglia invece una visita al Musée de la ligne Maginot di Schoe-nenbourg, circa 45 km a nord di Strasburgo, una fortezza ritenuta indistruttibile, servita da 3 km di gallerie a 30 m sotto terra. Al suo interno si possono osservare gli equipaggiamenti caratteristici della Linea Maginot con le cucine, una centrale elettrica, un’infermeria e le caserme, dove potevano soggiornare fino a 650 uomini. Degni di nota anche il Forte del forno di calce (Fort du Four à Chaux) di Lembach e il Museo del rifugio (Musée de l’Abri) di Hatten, poco più a sud, che offre un’interessante ricostruzione della vita quotidia-

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na nei bunker e ricrea lo scenario di una delle più violente battaglie fra mezzi corazzati della Seconda guerra mondiale, avvenuta proprio qui. L’esposizione comprende inoltre una serie di veicoli militari e armamenti. Da non perdere infine il Mémoriale de l’Alsace-Moselle, situa-to a Schirmeck, a poca distanza dal campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, l’unico creato sul suolo francese. Un coinvol-gente allestimento scenografico interattivo ripercorre la drammatica storia dell’Alsazia e della Mosella – i cui abitanti hanno cambiato nazionalità per ben quattro volte in 75 anni – dal 1870 fino alla riconciliazione franco-tedesca, soffermandosi in particolare sul pe-riodo della Seconda guerra mondiale e dell’annessione. In luogo del campo di concentramento di Struthof, risalente al 1941, sorge oggi il Museo del Memoriale Nazionale della Deportazione di Stru-thof, a ricordo dei 52.000 prigionieri che qui furono costretti al la-voro forzato, molti dei quali vi morirono di fame e di stenti. La visita inizia negli spazi espositivi del Centro Europeo del Resistente De-portato, dove si conserva ancora la Kartoffelkeller, la “cantina delle patate”, un deposito seminterrato costruito dai deportati del campo.Sono molti i turisti che ogni anno si recano sul litorale a nord della Normandia per scoprire i luoghi che fecero da sfondo alla più impo-nente offensiva militare della storia, in codice Operation Overlord, il grande sbarco in Normandia (6 giugno 1944), che segnò il principio della liberazione dell’Europa e, nelle parole di W. Churchill, «l’inizio della fine della guerra». La sanguinosa battaglia durò 76 giorni e si risolse in un vero e proprio massacro: gli Alleati persero 210.000 uomini, mentre i tedeschi registrarono 200.000 morti e altrettan-ti prigionieri; morirono inoltre 14.000 civili francesi. Il magnifico

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tratto di costa detto Côte de Nacre, ossia “di madreperla”, è letteral-mente disseminato di campi di battaglia, buche lasciate dai bombar-damenti, musei e cimiteri di guerra, a testimonianza del duro prezzo pagato per la liberazione dell’Europa dal giogo nazista. Il più grande è il Normandy American Cemetery and Memorial, sopra Omaha Beach, fondato sul finire degli anni Quaranta per i caduti americani, mentre 18 cimiteri militari del Commonwealth sorgono lungo la linea di avanzata delle forze britanniche e canadesi, il più importante dei quali è situato a Bayeux. La gran parte dei soldati alleati approdò sugli 80 km di spiagge a nord di Bayeux, i cui nomi in codice – da ovest a est – erano Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword Beach. Tappe obbligate per una rico-struzione dettagliata degli eventi del D-Day sono il Mémorial de Caen, uno dei principali centri europei della memoria, sorto in una città che fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamen-ti dell’estate 1944, e il Musée Mémorial Bataille de Normandie di Bayeaux, che con i suoi 2300 mq di superficie illustra con cura lo svolgimento delle operazioni dal momento dello sbarco fino alla loro conclusione, il 29 agosto 1944. Altri luoghi memorabili sono Quinéville con il suo Mémorial de la Liberté retrouvée, proprio di fronte alla cosiddetta Utah Beach, e Pointe du Hoc (Cricqueville–en–Bessin), piccolo promontorio sede di una roccaforte tedesca che fu conquistata a caro prezzo dai Rangers del colonnello J. E. Rudder, decimati durante l’assalto. Le battaglie più cruente avvennero lungo i 7 km della costa nei pres-si di Vierville-sur-Mer, Saint-Laurent-sur-Mer e Colleville-sur-Mer, nota ai veterani americani con il nome di Bloody Omaha; da vedere il Musée D-Day Omaha (Vierville-sur-Mer) con reperti originali e ri-

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costruzioni di situazioni reali in tempo di guerra e il Musée Mémo-rial Omaha Beach (Saint-Laurent-sur-Mer), che espone una ricca collezione di uniformi, armi, oggetti personali, veicoli e fotografie. A Longues-sur-Mer si conservano invece le uniche armi di gros-so calibro rimaste in Normandia, un’imponente batteria tedesca di cannoni che costituiva parte integrante del Vallo atlantico nazista. Si ricorda poi Arromanches, uno dei luoghi simbolo dello sbarco, dove si trovano ancora i resti di uno dei due porti prefabbricati utilizzati dagli Alleati e l’interessante Musée du Débarquement. A Ver-sur-Mer, infine, il Musée America Gold Beach illustra la minuziosa pre-parazione dello sbarco da parte dell’Intelligence britannica mentre il Centre Juno Beach (Courseulles-sur-Mer), unico museo canadese della zona, accoglie una notevole mostra multimediale imperniata sul ruolo rivestito dal Canada nel D-Day.

NORIMBERGA

Seconda città della Baviera per dimensioni, già fiorente in epoca medievale, Norimberga fu prescelta da A. Hitler quale città dei congressi del Terzo Reich e il suo nome rievoca tuttora nella me-moria collettiva l’immagine inquietante delle parate militari naziste. Le colossali adunate presso il Reichsparteitagsgelände (Comples-so per i Raduni del Partito nazista) facevano parte di una strate-gia di propaganda delineata fin dal 1927 per accrescere i consensi intorno al nazismo, che aveva un forte seguito a Norimberga, ma fu nel 1933 che Hitler decise di allestire uno spazio apposito per le manifestazioni del Partito a Luitpoldhain, una zona periferica a

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sudest della città. Qui, a circa 4 km dal centro, sorgono ancora alcu-ne delle imponenti strutture architettoniche – in parte incompiute – realizzate da A. Speer e sfuggite ai bombardamenti degli Alleati, che nel 1945 distrussero buona parte del complesso. Tra questi vi è la vasta spianata dello Zeppelinfeld, dove, di fronte a una tribuna di 350 m, la Zeppelintribüne, aveva luogo la gran parte dei raduni e delle sfilate nazionalsocialiste; oggi accoglie invece manifestazioni sportive e concerti rock. Seguendo poi la Große Straße, che con i suoi 60 m di larghezza taglia in due l’area, si giunge al Märzfeld (Campo di Marte), posto 2 km più a sud, allora adibito alle eser-citazioni militari. L’odierno lago artificiale Silbersee, a ovest della Große Straße, si trova invece proprio dove avrebbe dovuto innalzarsi il Deutsches Stadion, che secondo il progetto era destinato a ospi-tare oltre 400.000 spettatori; tuttavia i lavori di costruzione si ar-restarono allo scavo iniziale e la buca fu colmata in seguito dalle acque della falda. Si ricorda poi la Luitpoldarena, posta al margine nordoccidentale del complesso, un tempo impiegata per le parate delle SS e oggi trasformata in un parco pubblico. Poco distante si trova infine la Kongresshalle (Sala dei Congressi), costruita solo in parte, che nelle ambizioni di A. Speer avrebbe dovuto raggiungere proporzioni superiori al Colosseo. L’ala nord dell’edificio è ora sede del Dokumentationszentrum, un centro di documentazione sul nazismo che ripercorre attraverso fotografie, documenti e filmati l’a-scesa al potere di Hitler, gli anni del regime e il crollo della Germania nazionalsocialista. In particolare, la sala 6 è dedicata a Norimberga e al suo ruolo quale sede del quartier generale del Partito, mentre nella sala 7 un film illustra i monumentali progetti architettonici ideati da A. Speer per il Reichsparteitagsgelände; nella sala 8 si scopre infine

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come buona parte dei materiali edili venisse realizzata dai prigionieri dei campi di concentramento, costretti a lavorare in disumane con-dizioni di schiavitù.Dalla parte opposta della città, a circa 2 km dall’Altstadt, sorge il Palazzo di Giustizia, l’attuale Landgericht Nürnberg-Fürth (Bären-schanzstraße 72), dove nel 1945-46 si tennero i processi di 24 gerar-chi nazisti, ritenuti i principali responsabili degli orrori del regime, 19 dei quali furono condannati a morte per crimini contro la pace e l’umanità. Oltre alla Schwurgerichtssaal 600, la Sala 600 della Corte d’Assise dove operò il Tribunale Militare Internazionale, dal 2010 è aperta al pubblico una mostra permanente chiamata Me-morium Nürnberger Prozesse, che con l’ausilio di filmati storici e registrazioni audio offre una vivida rievocazione del Processo di Norimberga, rimarcandone il grande valore esemplare nell’ambito della giustizia internazionale.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2016

a cura di RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Media

presso Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)

Printed in Italy

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