i sogni perduti delle sorelle brontË -...

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SYRIE JAMES I SOGNI PERDUTI DELLE SORELLE BRONTË Traduzione di ROBERTA SCARABELLI piemme

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syrie James

i sogni perduti delle sorelle

brontËTraduzione di

RobeRta ScaRabelli

piemme

titolo originale: The Secret Diaries of Charlotte Brontë © 2009 by syrie James all rights reserved.

Questo romanzo è un’opera di fantasia. personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autrice o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

i edizione 2010

© 2010 - edizioni piemme spa 20145 milano - Via tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

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Prefazione dell’autrice

Caro lettore,prova a immaginare, se ti va, una grande scoperta che ha scatenato un enorme entusiasmo nel mondo letterario: al-cuni scritti, rimasti sepolti e dimenticati per più di un se-colo nello scantinato di una sperduta fattoria britannica, sono stati ufficialmente riconosciuti come i diari autentici di Charlotte brontë. Che cosa rivelerebbero?

tutti hanno segreti. Charlotte brontë – una donna pas-sionale che ha scritto alcune delle opere di narrativa più ro-mantiche e immortali della letteratura inglese – non fa certo eccezione. possiamo apprendere molto su Charlotte brontë dalle sue biografie e dalla corrispondenza che si è conser-vata; ma, come tutti i membri della sua famiglia, Charlotte aveva un lato profondamente riservato che non condivide-va nemmeno con gli amici più cari e i parenti.

Quali intimi segreti conservava dentro di sé Charlot-te brontë? Quali erano i suoi pensieri e i sentimenti più reconditi, i ricordi più privati? Che rapporti aveva con il fratello e le sorelle, anche loro artisti ispirati e di talento? Come ha potuto la figlia di un anonimo parroco di campa-gna, la quale ha trascorso quasi tutta la vita in un remoto villaggio dello yorkshire, arrivare a scrivere Jane Eyre, uno dei romanzi più amati al mondo? e, cosa forse ancora più importante, Charlotte conobbe mai il vero amore?

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Cercando le risposte a queste domande, ho intrapreso uno studio meticoloso della vita di Charlotte. mi ha parti-colarmente affascinato un aspetto molto interessante della sua storia, di rado analizzato: la lunga e burrascosa rela-zione con arthur bell nicholls, coadiutore del padre. È risaputo che Charlotte brontë ricevette quattro proposte di matrimonio, compresa quella del reverendo nicholls. nonostante ciò, egli rimane una figura oscura nelle biogra-fie della brontë, a cui di solito si fa riferimento solo di sfug-gita verso la fine della trattazione, e senza scendere troppo nei dettagli. eppure è un dato di fatto che il reverendo nicholls visse per otto anni accanto alla famiglia brontë e si innamorò perdutamente e segretamente di Charlotte molto tempo prima di trovare il coraggio di dichiararsi.

Charlotte ha mai ricambiato l’affetto del reverendo nicholls? l’ha davvero sposato? Come direbbe la stessa Charlotte, questo è il nodo cruciale della storia: mi piace pensare che l’esplorare i propri sentimenti riguardo a que-sto vero e proprio dilemma sia stato il motivo originale che l’ha spinta a tenere un diario.

la storia che leggerai è vera. la vita di Charlotte è così affascinante che sono riuscita a narrarla basandomi qua-si esclusivamente sui fatti; sono ricorsa a congetture so-lo quando le ritenevo necessarie per accentuare conflitti drammatici o colmare lacune biografiche, e ho aggiunto per chiarezza note e commenti selezionati. anche se alcu-ni giudicheranno il dipanarsi della narrazione più simile a uno degli amati romanzi di Charlotte che a un diario tradizionale, io credo che lei l’avrebbe scritto così, perché questo era lo stile – e la forma – in cui si sentiva maggior-mente a proprio agio.

ecco, dunque, con il massimo rispetto e la più grande ammirazione per la donna che li ha ispirati, i diari di Char-lotte brontë.

syrie James

libro primo

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Ho ricevuto una proposta di matrimonio.mi è giunta due mesi fa e ha gettato la mia intera fami-

glia, anzi, l’intero villaggio nel panico. Chi è quest’uomo che osa chiedere la mia mano? perché mio padre è così nettamente contrario a lui? perché metà degli abitanti di Haworth sono decisi a linciarlo... o a sparargli? dal mo-mento in cui si è dichiarato, ho passato notti e notti inson-ni, riflettendo sulla miriade di eventi che hanno portato a questo tumulto. Come diavolo ha fatto, mi domando, a sfuggirmi così di mano la situazione?

Ho scritto delle gioie dell’amore. a lungo, nel mio cuo-re, ho sognato di legarmi intimamente a un uomo; ogni Jane, credo, merita il suo rochester... o no? eppure, da tempo avevo perso ogni speranza di provare quell’espe-rienza in vita mia. al suo posto mi sono dedicata alla mia professione e ora che l’ho trovata dovrei abbandonarla? È possibile che una donna si doni completamente sia a un lavoro sia a un uomo? possono la sua mente e il suo spirito coesistere in pace? Così dev’essere, perché la vera felicità, ne sono sicura, non la si può raggiungere in altro modo.

da molto tempo è mia abitudine, nei periodi di grande gioia o di difficoltà emotive, rifugiarmi nel conforto del-la mia immaginazione. lì, in prosa o in poesia, ho dato sfogo ai pensieri e ai sentimenti più segreti, protetta dal

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velo della finzione letteraria. in queste pagine, invece, de-sidero intraprendere una strada completamente diversa. Qui desidero aprire la mia anima, per rivelare certe verità che finora ho confidato solo ad alcuni fra i miei più intimi amici... e altre che non ho mai osato sussurrare ad anima viva. poiché oggi mi trovo a dover affrontare un profondo dilemma.

oserò sfidare papà e incorrere nella collera di tutti quelli che conosco, accettando questa proposta? e, cosa ancora più importante, voglio davvero accettarla? amo veramen-te quest’uomo e desidero diventare sua moglie? non mi piaceva nemmeno, la prima volta che ci siamo incontrati; ma da allora sono successe molte cose.

mi sembra che ogni esperienza vissuta e ogni persona amata abbiano contribuito in modo essenziale a creare la donna che sono oggi. se una pennellata avesse sfiorato la tela in una maniera differente, o vi avesse schizzato un co-lore più scuro o più chiaro, io ora sarei una persona molto diversa. e così mi rivolgo alla penna e al foglio in cerca di risposte; forse in tal modo potrò sforzarmi di dare un senso a ciò che mi ha condotto a questo momento, e giungere a comprendere i miei sentimenti; e forse anche quel che la provvidenza, nella sua bontà e saggezza, ha in serbo per me.

tuttavia, una storia non può cominciare dalla metà né dalla fine. no, per raccontarla come si deve occorre che io torni indietro a quel momento in cui tutto è cominciato: il giorno burrascoso di quasi otto anni fa quando un visita-tore inatteso giunse alla porta della canonica.

il 21 aprile 1845 era una giornata cupa e così fredda da gelare le ossa.

Fui svegliata all’alba dal fragore dei tuoni; poco dopo, dal cielo grigio e denso di nuvole si riversò un’acqua tor-renziale. per tutta la mattina la pioggia batté contro i ve-tri delle finestre della canonica, scrosciò sul tetto e nelle

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grondaie, infradiciò le lapidi stipate del vicino cimitero e danzò sul lastricato del vicolo attiguo per poi concentrarsi in rivoletti che scorrevano in un flusso costante oltre la chiesa, verso l’acciottolato della ripida strada principale del paese.

nella cucina della canonica, però, l’atmosfera era cal-da e accogliente, piena della fragranza del pane appena sfornato e del calore di un bel fuoco. era lunedì, giorno in cui si accendeva il forno, e secondo mia sorella emily era una fortuna che coincidesse anche con il mio compleanno. avevo sempre preferito ricordare queste ricorrenze in mo-do tranquillo, con il minor trambusto possibile, ma emily insistette, visto che compivo ventinove anni, affinché tro-vassimo il tempo per una festicciola in famiglia.

«È il tuo ultimo anno di un decennio importante» disse mia sorella mentre lavorava con mano esperta l’impasto per il pane in mezzo al tavolo infarinato. in forno c’erano già due pagnotte, in una terrina altro impasto stava lievi-tando sotto un panno e io mi preparavo a fare una crostata. «Come minimo dobbiamo dare risalto all’avvenimento con una torta.»

«non vedo per quale motivo» replicai, pesando la fa-rina per l’impasto di base. «senza anne e branwell, non sembrerà neanche una festa.»

«non possiamo certo tralasciare tutti i nostri diverti-menti durante la loro assenza, Charlotte» disse emily con aria solenne. «siamo tenuti ad apprezzare la vita e a goder-cela, finché possiamo.»

emily era più giovane di me di due anni e la più alta della famiglia, a parte papà. aveva una personalità com-plessa, con un carattere dagli aspetti duplici e discordanti: introspettiva, meditabonda e melanconica per quanto con-cerneva il significato dell’esistenza; solare e gioiosa se con-templava i numerosi piaceri e le bellezze che la natura può offrire. Finché viveva a casa, circondata dalla sua brughie-

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ra, emily era felice e prendeva la vita con leggerezza; a dif-ferenza di me, raramente era in tensione. amava perdersi nei propri pensieri, o nelle pagine di un libro, o in qualsiasi altra occupazione, e in questo io ero pienamente d’accor-do con lei. a emily non importava l’opinione degli altri e non le interessavano le mode; benché da parecchio tempo si usassero corpetti attillati e dalla vita stretta con ampie sottogonne, lei preferiva ancora portare abiti antiquati e informi e le sottogonne strette che le aderivano alle gambe e non donavano particolarmente al suo fisico magro. ma, dal momento che di rado si avventurava fuori, tranne che per passeggiare nella brughiera, la cosa non aveva molta importanza.

Con la sua corporatura esile, la carnagione pallida e i capelli scuri raccolti senza troppa cura con un pettine spa-gnolo, emily mi ricordava un vigoroso alberello: sottile e aggraziato, eppure ostinato; resistente alla solitudine e agli effetti del vento e della pioggia. in presenza di sconosciuti, emily si ritraeva in se stessa, seria e silenziosa; ma in com-pagnia dei familiari la sua natura sensibile ed esuberante trovava piena espressione. le volevo bene come alla vita stessa.

«da quanto tempo non ci riuniamo tutti insieme per il tuo compleanno?» proseguì emily.

«non riesco nemmeno a ricordarmi l’ultima volta» ri-sposi con rammarico.

e in effetti era passato parecchio tempo da quando io e tutti i miei fratelli ci eravamo ritrovati sotto lo stesso tetto, a parte qualche breve settimana a natale e nelle vacan-ze estive. durante gli ultimi cinque anni anne, la minore delle nostre sorelle, era stata a servizio come istitutrice presso la famiglia robinson, a thorp green Hall, vicino a york. tre anni prima, nostro fratello branwell, più giova-ne di me di quattordici mesi, aveva raggiunto anne come precettore del figlio maggiore. negli anni ancora prece-

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denti, io ero stata a lungo lontana da casa per frequentare la scuola, prima come allieva, poi come insegnante, e in se-guito avevo ottenuto io stessa un incarico come istitutrice. poi c’erano stati i due anni in belgio: un soggiorno che si era rivelato l’esperienza più intensa e stimolante di tutta la mia esistenza, tanto da cambiarmi la vita e spezzarmi il cuore.

«ti farò una torta speziata, e niente proteste» disse emily. «dopo cena ci siederemo davanti al fuoco e ci rac-conteremo delle storie. magari tabby e papà si uniranno a noi.»

tabby era la nostra anziana domestica, una donna brava e fidata dello yorkshire che stava con noi fin dalla nostra infanzia. in quegli anni, se era di buonumore, tabby ave-va preso l’abitudine di portare il tavolo da stiro davanti al focolare del tinello e ci consentiva di accoccolarci attorno. mentre lei stirava lenzuola e sottovesti o pieghettava il bordo della sua berretta da notte, alimentava la nostra avi-da attenzione con storie d’amore e d’avventura tratte dalle fiabe e dalle ballate antiche... o, come scoprii in seguito, dalle pagine dei suoi romanzi preferiti, come per esempio Pamela1. in altre occasioni, le nostre serate presso il foco-lare erano state ravvivate dalle eccitanti interpretazioni che faceva papà delle storie di fantasmi e delle vecchie leggen-de del posto.

Quella sera, però, non sapevamo se papà avrebbe deci-so di partecipare.

dalla finestra della cucina lanciai un’occhiata alla bru-ghiera. le cime delle colline in lontananza erano coperte da banchi sfilacciati di nuvole, cariche di pioggia. «tempo fantastico per un compleanno. almeno si addice al mio umore: cupo e tetro, con bufere turbolente che non accen-nano a smorzarsi.»

«sembra di sentir parlare me» ribatté emily mentre amalgamava gli ingredienti della torta. «non perdere la

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speranza. se viviamo alla giornata, può darsi che ogni cosa alla fine si sistemi.»

«e come?» sospirai. «la vista di papà diventa più debo-le ogni giorno che passa.»

mio padre era un immigrato irlandese che, grazie alla perseveranza e all’istruzione, si era elevato ben al di sopra della condizione sociale della sua famiglia, povera e anal-fabeta. Quando l’addetto all’anagrafe del st John’s College di Cambridge non era riuscito a capire come si scriveva il cognome di papà, a causa del suo marcato accento irlan-dese, l’aveva scritto a modo suo cambiandolo da brunty al più interessante brontë, dalla parola greca che significa “tuono”.

papà, un uomo buono, gentile, vivace e intelligentissimo, era molto colto e si interessava di letteratura, arte, musica e scienza assai più di quanto fosse richiesto dal suo ruolo di pastore di una piccola parrocchia nello yorkshire. gli piaceva scrivere e aveva pubblicato parecchie poesie e testi religiosi, oltre a numerosi articoli; essendo un sacerdote impegnato, era molto coinvolto nelle faccende della co-munità. tuttavia, quel giorno, era anche profondamente preoccupato, perché all’età di sessantotto anni, dopo una vita intera dedicata a servire fedelmente la Chiesa, il nostro adorato padre stava diventando cieco.

«ormai tocca a me occuparmi di tutte le cose che pa-pà deve leggere e scrivere» dissi. «temo che presto non riuscirà nemmeno più a seguire gli impegni essenziali del-la parrocchia. Cosa faremo se perderà completamente la vista? non solamente dovrà rinunciare ai suoi modesti piaceri della vita e accettare di dipendere completamente da noi... una circostanza che, come sai, lui paventa moltis-simo... ma sarà anche di sicuro costretto a lasciare il suo incarico. oltre al suo reddito, perderemo quindi anche la nostra casa2.»

«in qualsiasi altra famiglia spetterebbe al figlio maschio

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venire incontro alle necessità finanziarie,» osservò emily scuotendo il capo «ma nostro fratello non è mai stato ca-pace di conservare a lungo un lavoro.»

«in effetti il suo incarico di precettore a thorp green è quello in cui ha resistito di più» aggiunsi io stendendo l’impasto. «sembra che lì goda di grande stima, eppure i suoi guadagni sono appena sufficienti a coprire le spese che deve sostenere. dobbiamo farcene una ragione, emily: se la salute di papà dovesse peggiorare, l’intero peso della gestione della casa ricadrà sulle nostre spalle.»

Forse io sentivo il peso di questa responsabilità più intensamente dei miei fratelli perché ero la maggiore... un ruolo acquisito in seguito a lutti e tragedie, e non per successione di nascita. mia madre, della quale ho solo un vaghissimo ricordo, aveva dato alla luce sei figli in quasi altrettanti anni, ed era morta quando io ne avevo cinque. le mie amate sorelle maggiori, maria ed elizabeth, era-no morte ancora bambine. io, mio fratello e le mie sorel-le minori, educati da nostro padre e cresciuti da una zia materna severa e metodica che era venuta ad abitare da noi, ci eravamo chiusi in un mondo incantevole di libri e di fantasia; vagavamo per la brughiera, disegnavamo e dipingevamo, leggevamo e scrivevamo in modo ossessivo, e tutti ambivamo a venire pubblicati, un giorno. benché non avessimo mai abbandonato il sogno di diventare scrit-tori, lo avevamo da tempo accantonato: eravamo costretti a guadagnarci da vivere.

solo due professioni erano consentite a me e alle mie sorelle – insegnare e prestare servizio come istitutrici –, entrambe occupazioni soggette a vincoli e servitù che io disprezzavo. per qualche tempo avevo creduto che l’al-ternativa migliore fosse aprire una scuola nostra. in virtù di questo obiettivo – per approfondire la conoscenza del francese e del tedesco, al fine di aumentare le nostre possi-bilità di attirare allievi – tre anni prima io ed emily erava-

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mo andate a bruxelles; io poi ero rimasta lì un altro anno, da sola. al mio ritorno, avevo cercato di avviare una scuola presso la canonica di Haworth; ma, nonostante tutti gli sforzi, non un solo genitore era stato disposto a mandare il figlio in una località così remota e desolata.

non potevo dargli torto. Haworth non era che un pic-colo borgo sperduto nello yorkshire settentrionale. in tut-ta la parrocchia non c’era una sola famiglia istruita oltre alla nostra. la regione era ricoperta dalla neve in inverno e spazzata da un vento freddo e impietoso per tre stagioni all’anno. non c’era la ferrovia; Keighley, la città più vicina, si trovava a quattro miglia giù, nella valle. intorno alla ca-nonica si stendevano i silenziosi, vasti e infiniti pendii della brughiera, battuti dal vento. non tutti gli occhi riuscivano a cogliere la bellezza che io e i miei fratelli trovavamo in quel paesaggio immenso, aspro e desolato. per noi, la bru-ghiera era sempre stata una specie di paradiso, un posto in cui evadere per consentire alla nostra immaginazione di correre libera e sfrenata.

la canonica sorgeva sulla cresta di una ripida collina dal profilo frastagliato; era un edificio simmetrico a due piani di pietra grigia, costruito alla fine del settecento. la casa si affacciava su un piccolo prato spelacchiato che un basso muro di pietra divideva dall’affollato cimitero infestato da erbacce; oltre il cimitero vi era la chiesa. noi non eravamo giardinieri appassionati; poiché il clima non incoraggiava la vegetazione –, a parte il muschio che copriva le pietre e il terreno umidi – le uniche piante che avevamo erano al-cuni arbusti da frutto, qualche rovo e lillà infestanti lungo il nostro vialetto di ghiaia.

se il giardino poteva essere trascurato, la casa non lo era. tutto veniva tenuto con amore e scrupolosamente pu-lito: dai vetri scintillanti delle finestre con i riquadri in stile georgiano agli immacolati pavimenti in arenaria, che oltre alla cucina si estendevano in tutte le stanze del pianter-

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reno. le pareti prive di tappezzeria erano dipinte di un bel color tortora; a causa della fobia di papà per gli incen-di – e della pericolosa combinazione di bambini, candele e stoffa – avevamo sempre avuto imposte interne invece delle tende e solo piccoli tappeti in tinello e nel salottino (lo studio di papà). tutte le nostre stanze, al primo piano e al pianterreno, erano piccole ma ben proporzionate, e i mobili scarsi ma robusti: varie poltrone e un divano con le sedute imbottite di crine, tavoli di mogano e qualche libreria piena dei classici che avevamo apprezzato sin da bambini. la canonica non era affatto una casa sfarzosa, ma era la più grande di Haworth e, in quanto tale, godeva di una certa distinzione; noi non avevamo bisogno né de-sideravamo di più: amavamo teneramente ogni suo angolo e ogni sua nicchia.

«ed eccoci qui, da sette mesi senza un curato a Haworth ad assistere papà,» dissi «se non si conta il reverendo Jo-seph grant di oxenhope, troppo impegnato con la sua nuova scuola per essere davvero d’aiuto.»

«papà non deve incontrare domani un potenziale candi-dato al posto di curato?»

«sì.» poiché da qualche mese mi occupavo io della cor-rispondenza di mio padre, sapevo qualcosa del gentiluomo in questione. «È un certo reverendo nicholls dall’irlanda. Ha risposto all’inserzione di papà sulla “ecclesiastical ga-zette”.»

«Forse andrà bene.»«la speranza è l’ultima a morire. un valido aiuto per-

metterà a papà di guadagnare un po’ di tempo, in modo che noi possiamo decidere sul da farsi.»

«non ci sono più i curati di una volta» borbottò tabby, la nostra domestica dai capelli bianchi, nel suo forte accen-to dello yorkshire, mentre entrava zoppicando in cucina con un cesto di mele dalla dispensa. «Quelli di oggi sono così pieni di arie e altezzosi che mettono tutti sotto i piedi.

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in questa casa io sono solo una serva, e così non sono de-gna della loro cortesia; e loro sono sempre lì a parlare male delle abitudini dello yorkshire e della gente dello yorkshi-re. e il modo in cui ti piombano dal cielo in canonica per il tè o per la cena, senza nemmeno scusarsi. solo per creare problemi alle povere donne di casa.»

«a me non dispiacerebbe neanche tanto,» intervenni io «se almeno sembrassero soddisfatti di quello che viene lo-ro servito; invece sono sempre lì a lamentarsi.»

«i vecchi parroci valgono più di tutti quei giovanotti appena usciti dalla scuola messi insieme» disse tabby con un sospiro, mentre si lasciava cadere su una sedia vicino al tavolo e cominciava a sbucciare le mele. «Conoscono le buone maniere e sono gentili sia con chi sta in alto sia con chi sta in basso.»

«tabby,» dissi io d’un tratto, lanciando un’occhiata al-l’orologio sulla mensola del camino «è già arrivata la po-sta?»

«sì, e non c’era niente per te, bambina.»«ne sei sicura?»«Ho anch’io gli occhi, no? e poi, chi ti deve scrivere?

non hai appena ricevuto una lettera della tua amica ellen, neanche due giorni fa?»

«Certo.»emily mi rivolse uno sguardo tagliente. «non mi dirai

che stai ancora sperando in una lettera da bruxelles?» mi sentii avvampare in viso e un velo di sudore mi im-

perlò la fronte; pensai fra me che era colpa del calore del fuoco e non aveva niente a che vedere con il commento di emily, o con l’intensità del suo sguardo indagatore. «no, ovvio che no» mentii. mi asciugai la fronte con un angolo del grembiule. Così facendo, gli occhiali mi si sporcarono di farina, e dovetti toglierli per dar loro una pulitina.

in verità, conservavo cinque preziose lettere da bruxel-les, nascoste nel cassetto inferiore del mio comò: erano di

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un uomo ed erano state lette e rilette così spesso che ri-schiavano di sbriciolarsi per l’usura. non vedevo l’ora di riceverne ancora, ma era passato più di un anno dall’ulti-ma, e la lettera tanto attesa non arrivava mai.

sentivo su di me gli occhi di emily; di tutti i membri della famiglia, era lei quella che mi conosceva meglio... e non le sfuggiva mai nulla. prima che potesse aggiungere qualcosa, però, il campanello della porta d’ingresso suonò.

«Chi potrà mai essere con questo tempo da lupi?» chie-se tabby.

a quel trillo i due cani, che erano rimasti sdraiati da-vanti al fuoco tutti soddisfatti, balzarono in piedi. Flossy, il nostro King Charles spaniel bianco e nero, dal pelo mor-bido come seta e il carattere docile, si limitò a sbarrare gli occhi con pacato interesse. il cane di emily, Keeper, un grosso mastino dalla testa nera, che sembrava un leone, abbaiò forte e si lanciò verso la porta della cucina; veloce come un lampo, emily lo afferrò per il collare d’ottone e lo tenne indietro.

«Keeper, zitto!» esclamò. «spero proprio che non siano il reverendo grant o il reverendo bradley che arrivano per il tè. oggi non sono dell’umore adatto per servire i curati della zona.»

«È troppo presto per il tè» le feci notare io.Keeper continuava ad abbaiare furiosamente ed emily

dovette usare tutta la sua forza per trattenerlo. «andrò a rinchiuderlo nella mia stanza» disse lei alla fine, uscendo di corsa dalla cucina e affrettandosi a salire le scale.

Conoscevo l’avversione di emily per i forestieri tanto da sapere che non sarebbe tornata con altrettanta premura. dato che tabby era vecchia e zoppa, e martha brown, la ragazzina che di solito si sobbarcava i lavori più pesanti, era andata a casa per una settimana per via di un ginoc-chio che le faceva male, spettava a me andare ad aprire la porta.

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accaldata e stanca dopo un’intera mattinata trascorsa in cucina, non ebbi il tempo di curarmi del mio aspetto e mi limitai a darmi un’occhiata di sfuggita nello specchio in corridoio. non mi era mai piaciuto guardare la mia im-magine: ero minuta e piccola di statura, e trovavo sempre deludente il pallido volto insignificante che vi vedevo ri-flesso. in quel momento, un rapido sguardo mi rammen-tò, con mio ulteriore sgomento, che indossavo l’abito più vecchio del mio intero guardaroba; avevo un fazzoletto in testa e il grembiule era macchiato di farina, come le mani e la fronte. me la pulii rapidamente con il grembiule, riu-scendo, se possibile, a peggiorare le cose.

il campanello suonò di nuovo. seguita dal ticchettio delle unghie di Flossy sul pavimento di pietra, mi affrettai lungo il corridoio, arrivai alla porta di ingresso e la aprii.

pioggia e vento irruppero in casa con una folata gelida. in piedi sui gradini, di fronte a me, c’era un giovane che doveva essere vicino alla trentina, con cappotto e cappello neri; tentava di ripararsi sotto un ombrello anch’esso nero che, con sua grande costernazione, all’improvviso fu rivol-tato da una raffica di vento. privato di quella parziale pro-tezione, assomigliava a un grosso ratto bagnato fradicio. gli sforzi affannosi di raddrizzare l’ombrello e ripararsi gli occhi dalla pioggia battente rendevano difficile vederne i lineamenti, una circostanza che si aggravò quando, scor-gendomi, lui immediatamente si tolse il cappello, riceven-do in cambio una sferzata ancora più violenta dalla furia degli elementi.

«È in casa il vostro padrone?» l’accento celtico di quel-la voce intensa e profonda, che sbandierava subito le ori-gini irlandesi del giovane, era ulteriormente complicato da un tocco di scozzese.

«il mio padrone?» ripetei indignata, un’emozione su-bito seguita dall’umiliazione. mi aveva preso per una do-mestica! «se vi riferite al reverendo patrick brontë, posso

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dirvi che è sicuramente in casa, signore, ed è mio padre. Vi prego di scusare il mio aspetto. di solito non accolgo i visitatori coperta di farina dalla testa ai piedi. ma oggi è il giorno in cui si fa il pane.»

il giovane non parve per nulla turbato dal suo abba-glio (forse perché continuava a essere sferzato dalla piog-gia gelida) e si limitò a dire, socchiudendo gli occhi: «Vi chiedo scusa. sono arthur bell nicholls. Ho intrattenuto uno scambio epistolare con vostro padre a proposito della posizione di curato. non ero atteso prima di domani ma, dato che sono arrivato a Keighley con un giorno di antici-po, ho pensato di fargli una breve visita».

«ah, sì, il reverendo nicholls. prego, venite dentro» lo invitai educatamente, facendomi da parte per lasciarlo en-trare nell’ingresso, cosa che lui si affrettò a fare. Quando ebbi richiuso la porta, lasciando fuori l’ululare del vento e la pioggia, gli sorrisi guardandolo da sotto in su e com-mentai: «È davvero una tempesta spaventosa, non crede-te? mi aspetto di vedere arrivare da un momento all’altro una processione di animali lungo il vialetto, a due a due».

Credevo che lui mi sorridesse, o mi rispondesse con analoga leggerezza, invece continuò a fissarmi, immobile come una statua, cappello e ombrello in mano, sgocciolan-do sul pavimento. adesso che si trovava al riparo riuscii a notare che era un uomo dalla corporatura robusta e dalla carnagione scura, con un volto attraente dai lineamenti marcati, il naso piuttosto grosso ma ben fatto, la bocca decisa e i capelli folti e nerissimi che, bagnati com’erano, gli rimanevano incollati alla testa in ciocche grondanti. era alto almeno sei piedi e mi superava di quasi tutta la te-sta. ricordavo dalla sua lettera che aveva ventisette anni, quasi due meno di me; sarebbe parso perfino più giova-ne, pensai, se non fosse stato per quei lunghi favoriti neri, accuratamente regolati, che incorniciavano il viso altri-menti glabro. gli occhi erano miti e intelligenti; in quel

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momento, però, lui distolse lo sguardo e lo volse intorno timidamente, quasi fosse deciso a osservare qualsiasi cosa tranne me.

«immagino,» provai di nuovo «che in irlanda voi siate abituati a questo genere di acquazzoni.»

lui annuì, fissando il pavimento, e non rispose nulla; a quanto pareva, la sua dichiarazione sulla soglia doveva rimanere l’unico tentativo di conversazione. Flossy si era messo ai piedi del nuovo arrivato e lo guardava dal basso con occhi incuriositi e speranzosi. il reverendo nicholls, benché fosse fradicio e chiaramente infreddolito, sorrise al cane e si chinò per accarezzargli dolcemente la testa.

pulendo meglio che potevo le mani infarinate nel grem-biule, gli chiesi: «Volete darmi il cappello e il cappotto, signore?».

lui sembrò esitare ma, senza dire nulla, se li tolse e me li porse, non prima di avermi dato l’ombrello gocciolante.

mi accorsi che le sue scarpe erano inzuppate e piene di fango. «non mi dite che siete venuto fin qui a piedi da Keighley con questo tempo, reverendo nicholls?»

lui annuì. «mi spiace per il vostro pavimento. Ho cer-cato di grattare via tutto il fango che potevo, prima di suo-nare il campanello.»

aveva parlato! due frasi complete, per quanto brevi! la considerai una piccola vittoria. «Questa pietra è abituata alle impronte di fango, ve l’assicuro. Volete scaldarvi da-vanti al fuoco della cucina, reverendo nicholls, mentre vi prendo una salvietta?»

lui parve allarmarsi. «in cucina? no, grazie.»rimasi sconcertata dal tono stupito con cui aveva pro-

nunciato la parola “cucina”. implicava, alle mie orecchie, una ripugnanza intrinseca per la vera essenza di quel luo-go: come se lui considerasse troppo disdicevole abbassarsi a entrare in una stanza solitamente associata al sesso fem-minile. la mia indignazione crebbe. «mi dispiace che nella

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sala da pranzo non ci sia un caminetto,» ribattei stizzita «altrimenti vi avrei proposto di attendere lì. ma la cucina è molto calda e accogliente. sareste a vostro agio ad asciu-garvi là per qualche minuto, senza nessuno che vi disturbi, a parte me e la nostra domestica. poi vi accompagnerò nel-lo studio di mio padre.»

«preferirei vedere vostro padre adesso, se posso» si af-frettò a replicare lui. «di certo la sua stanza avrà un cami-netto. e gradirei una salvietta.»

“bene,” pensai mentre andavo a prendere quanto aveva richiesto “ecco qui un irlandese altezzoso e arrogante.” il nostro precedente curato, il tanto disprezzato reverendo smith, mi sembrava in confronto un vero tesoro. tornai qualche istante dopo con una salvietta. senza dire una pa-rola, il reverendo nicholls si asciugò i capelli e la faccia, poi la usò per pulirsi le scarpe; infine, mi restituì la salviet-ta fradicia e sporca.

impaziente di liberarmi di lui, mi diressi verso la porta dello studio di papà dicendogli: «dato che negli ultimi tempi ho curato io stessa la corrispondenza di mio padre, credo di avervi già avvertito: la sua vista è molto inde-bolita. riuscirà a vedervi, ma l’immagine sarà sfocata. i medici dicono che è destinato a diventare completamente cieco».

l’unica reazione del reverendo nicholls fu un cenno del capo solenne, accompagnato da un «sì, mi ricordo».

bussai alla porta dello studio, aspettai la risposta di pa-pà, poi entrai e annunciai il reverendo nicholls. papà si alzò dalla poltrona vicina al fuoco e salutò il nuovo venu-to con un sorriso sorpreso. mio padre era un uomo alto, magro ma vigoroso, e il suo volto un tempo bello ora era segnato dall’età. portava occhiali con la montatura di me-tallo simili ai miei, sfoggiava il suo abito nero da pastore sette giorni alla settimana, e la sua folta capigliatura bianca era dello stesso colore del grande foulard candido che si

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avvolgeva sempre intorno al collo, tanto da nasconderlo completamente, per scongiurare la possibilità di prendersi un raffreddore.

il reverendo nicholls attraversò la stanza e gli strinse la mano. li lasciai insieme e corsi di sopra per darmi una sistemata, mortificata per avere accolto così trasandata un forestiero. mi tolsi il fazzoletto e mi assicurai che i capel-li castani fossero in ordine, raccolti e appuntati con cura. poi mi cambiai e indossai un abito pulito grigio argento di seta, naturalmente. infatti, da quando eravamo venuti a stare a Haworth, papà aveva celebrato i funerali di un gran numero di bambini i cui vestiti avevano preso fuoco, poiché si erano avvicinati troppo al focolare; da allora evi-tava di utilizzare il cotone e il lino, e insisteva perché noi indossassimo solo abiti di lana o di seta, che si incendia-no con minore facilità. abbigliata di tutto punto nel mio vestito da quacchera, mi sentii più comoda e a mio agio. “può darsi,” pensai “che mi manchi il dono della bellezza, però almeno non sarò più imbarazzata davanti al nostro visitatore per come sono vestita.”

Quando tornai in cucina, emily si era già rimessa a la-vorare, e io recitai, per lei e per tabby, la scenetta che si era verificata all’ingresso. «“la cucina?”» dissi cercando di imitare la voce e lo sdegno del reverendo nicholls. «“no, grazie.” Come se lui non si sarebbe mai degnato di metter piede in una stanza frequentata solitamente da donne.»

emily rise. «sembra proprio un vero mostro» osservò tabby.«speriamo in un colloquio breve, così fra poco ci libe-

reremo di lui» dissi.Quando mi avvicinai allo studio con il vassoio del tè,

sentii, attraverso la porta socchiusa, le voci profonde dei due irlandesi che conversavano nella stanza. l’accento cel-tico del reverendo nicholls era molto pronunciato, reso più originale da quell’intrigante tocco di scozzese. papà

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aveva cercato di perdere il suo accento fin dal giorno in cui aveva iniziato il college, ma la sua parlata era tuttora con-trassegnata da una cadenza irlandese che si era trasmessa a tutti i suoi figli, me compresa. i due uomini stavano chiac-chierando animatamente e d’un tratto scoppiarono in una sonora risata... circostanza che mi sorprese, dal momento che ero riuscita a strappare solo poche sillabe al reverendo nicholls, e nemmeno un sorriso.

stavo giusto per entrare quando, senza volerlo, udii papà che diceva: «gliel’ho detto: limitatevi all’uncinetto. imparate a fare camicie, abiti e torte, e un giorno o l’altro diventerete donne in gamba. non che mi abbiano dato ret-ta».

al che il reverendo nicholls replicò: «sono d’accordo. le donne danno il meglio di sé nelle occupazioni che dio ha assegnato loro, signor brontë: quando cuciono o stanno in cucina. Voi siete davvero molto fortunato ad avere due figlie zitelle che si prendono cura della vostra casa».

Fui travolta da un’improvvisa ondata di rabbia e indigna-zione, tanto che stavo quasi per far cadere il vassoio. ero perfettamente al corrente delle idee di papà a proposito del-le donne; io e le mie sorelle avevamo trascorso tutta la vita a discutere con lui su questo argomento, cercando, senza successo, di convincerlo che le donne avevano capacità in-tellettuali pari a quelle degli uomini e si doveva consentire loro di allargare le proprie ali oltre la porta della cucina. lui aveva ceduto nella pratica – permettendo alla fine che noi studiassimo la storia e i classici insieme a nostro fratello – ma non nella teoria, restando fermamente convinto che il nostro apprendere il latino e il greco, leggendo Virgilio e omero, fosse un’assoluta perdita di tempo.

potevo scusare, sebbene non perdonare, un simile at-teggiamento bigotto da parte di papà, un anziano di ses-santotto anni, accecato non solo nel corpo ma anche nella mente dalle convinzioni degli uomini della sua generazione.

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ma da parte di un giovane uomo con un’educazione uni-versitaria come il reverendo nicholls – che oltretutto aspi-rava a una posizione che gli avrebbe richiesto di lavorare a stretto contatto con persone di ogni genere ed età – ci si sarebbe aspettati una mente più aperta e un pensiero più libero!

Furibonda, mi appoggiai con la schiena alla porta, spin-gendola per aprirla completamente, ed entrai decisa nello studio. i due gentiluomini erano seduti vicini davanti al camino. il fuoco aveva fatto miracoli: il reverendo nicholls si era asciugato, e i suoi capelli scuri, ora con una scrimi-natura laterale sulla fronte ampia, erano lisci e folti, con una sana lucentezza. sul suo grembo era sdraiato il nostro gatto tigrato, tom; il reverendo nicholls stava sorriden-do e accarezzava con aria distratta l’animale, che faceva le fusa soddisfatto. l’espressione raggiante sul volto del gentiluomo, però, svanì appena mi avvicinai; si sedette più dritto, facendo scappare il gatto. era evidente che a quell’uomo non piacevo. non che me ne importasse, visto che con quel suo ultimo commento aveva perso qualunque rispetto avessi mai nutrito nei suoi confronti.

«papà, vi ho portato il tè.» appoggiai il vassoio sul ta-volino accanto al nostro ospite. «non voglio disturbarvi, quindi ti affiderò alle abili mani del reverendo nicholls.»

«oh, Charlotte! rimani e versacelo tu. Come prendete il tè, reverendo nicholls?»

«in qualsiasi modo mi venga servito» rispose lui. pa-pà rise. poi il reverendo nicholls aggiunse bruscamente: «due zollette di zucchero, per favore, e una fetta di pane imburrata».

la mia anima femminile si ribellò sentendo quel tono di comando; se avessi seguito il mio istinto, avrei taglia-to la fetta di pane e l’avrei tirata contro quella sua faccia arrogante. tuttavia mi trattenni e feci come mi era stato ordinato. lui ebbe almeno la decenza di ringraziarmi. la-

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sciai lì il vassoio e tornai di corsa in cucina dove, insieme a emily e tabby, trascorsi quasi tutta l’ora seguente a inveire contro le assurdità degli uomini dalle vedute ristrette.

«essere chiamata “zitella” a ventinove anni... e da un uomo che si considera troppo superiore per mettere piede nella nostra cucina!» esclamai in tono sprezzante. «e poi, un attimo dopo, si aspetta che lo serva e gli imburri la sua fetta di pane... È davvero troppo da sopportare!»

«anche a me ha dato della zitella,» disse emily con una scrollata di spalle «e non mi ha mai nemmeno vista. non avrei pensato che ti importasse, però. Hai sempre detto che non ti saresti mai sposata.»

«sì, ma per scelta. Ho ricevuto due proposte e le ho ri-fiutate. la parola “zitella” fa venire in mente una vecchia vergine decrepita, che nessuno ha mai amato né deside-rato.»

«adesso chi fa la superiore?» intervenne la vedova tab-by, schioccando la lingua. «non direi proprio che due pro-poste per posta sono qualcosa di cui vantarsi.»

«dimostra che ho dei principi. mi sposerò solo se ci sa-rà affetto reciproco, e con un uomo che non solo ami e ri-spetti me, ma che rispetti anche le donne in generale.» mi lasciai cadere sulla sedia a dondolo vicino al fuoco, molto seccata. «gli uomini citano sempre la donna virtuosa di salomone, come un modello per il “nostro sesso”. bene, lei era una che produceva: confezionava belle tuniche di lino e cinture, e le vendeva! era una contadina e un’ammi-nistratrice: acquistava campi e piantava vigne3! eppure è concesso oggi alle donne di imitare il suo esempio?»

«a noi no» rispose emily.«non ci è concesso nessun impiego che non siano i la-

vori di casa e il cucito, nessuna distrazione che non sia un inutile “fare visite”, e non abbiamo alcuna speranza in tutta la nostra vita di diventare qualcosa di meglio. gli uomini si aspettano che ci accontentiamo di un simile de-

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stino noioso e privo di scopo, sempre uguale, giorno dopo giorno, e oltretutto senza lamentarci, come se non avessi-mo neppure un briciolo di capacità di fare altro. allora vi chiedo: potrebbero gli uomini vivere così? non si annoie-rebbero a morte?»

«gli uomini non hanno la minima idea delle difficoltà che affrontano le donne nella loro vita» disse tabby, scuo-tendo il capo sconsolata.

«e anche se ce l’avessero,» convenne emily «non fareb-bero niente per cambiare le cose.»

Quando alla fine chiusi, con un sospiro di sollievo, la porta d’ingresso alle spalle del reverendo nicholls, andai subito nello studio di papà e gli dissi: «spero che sarà l’ul-tima volta che vedremo quel gentiluomo».

«al contrario» ribatté lui. «l’ho assunto.»«l’hai assunto? papà! non puoi parlare sul serio.»«È il miglior candidato che io abbia esaminato da anni.

mi ricorda William Weightman.»«Come fai a dire una cosa simile? non gli assomiglia af-

fatto!» il signor Weightman, il primissimo curato di papà, era stato amato da tutta la comunità, e da mia sorella anne in particolare. purtroppo tre anni prima aveva contratto il colera mentre faceva visita ai malati ed era morto. «il signor Weightman era piacevole, affascinante e affabile. e aveva un meraviglioso senso dell’umorismo.»

«anche il reverendo nicholls ha un eccellente senso dell’umorismo.»

«non ne ho visto traccia... tranne, forse, a discapito del-le donne. È meschino, maleducato e arrogante, papà, e fin troppo riservato.»

«riservato? ma cosa dici? insomma, mi fanno male le orecchie a furia di ascoltarlo. non riesco a ricordarmi l’ul-tima volta che ho avuto una conversazione così piacevole e simpatica con un uomo.»

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«a me ha rivolto a malapena due frasi.»«Forse si sente a disagio a parlare con donne che cono-

sce da poco.»«se è così, come se la caverà nella comunità?»«mi aspetto che se la cavi benissimo. molti lo hanno

raccomandato, come ben sai, e adesso capisco il perché. si è laureato l’anno scorso al trinity College. È un brav’uo-mo, con la testa sulle spalle. abbiamo molto in comune, Charlotte. te lo immagini? È nato nella contea di antrim, nel nord dell’irlanda, a circa cinquanta miglia da dove so-no cresciuto io. Veniamo entrambi da famiglie numerose; i nostri padri erano tutti e due poveri agricoltori, e sia io sia lui siamo stati aiutati dai sacerdoti del posto per andare all’università.»

«tutte queste somiglianze sono una bella cosa, papà, ma lo renderanno un buon curato? È così giovane.»

«Certo che è giovane! ragazza mia, non ci si può aspet-tare che ti mandino un curato con esperienza per novanta sterline l’anno. non è stato ancora ordinato, quindi do-vremo aspettare un altro mesetto perché possa prendere servizio.»

«ancora un mese? Ci sono così tante cose da fare. ti puoi permettere di aspettare così a lungo, papà?»

lui sorrise. «Confido che il reverendo nicholls varrà l’attesa.»