I sistemi aerei a pilotaggio remoto

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Poste italiane spa • spedizione in abbonamento postale 70% Roma • AUT. MP-AT/C/RM/AUT.14/2008 ISSN 2421-1273 www.poliziapenitenziaria.it ANNO XXVIII NUMERO 290 GENNAIO 2021 SOCIETÀ GIUSTIZIA & SICUREZZA SPECIALE I sistemi aerei a pilotaggio remoto

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ANNO XXVIII NUMERO 290 GENNAIO 2021

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Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 3

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Direttore responsabile: Donato Capece [email protected] Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis [email protected] Capo redattore: Roberto Martinelli [email protected] Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

In copertina: Un drone in volo pilotato da un poliziotto penitenziario

ATTUALITÀ Bodycam anche alla Polizia Municipale di Ravenna: quando ai Baschi Azzurri? - di Roberto Martinelli CRIMINOLOGIA Considerazioni criminologiche sul delitto di rissa fra giovani nell’attuale periodo di pandemia di Roberto Thomas CUCINA E DINTORNI Cookies gluten free - di Fulvia Di Cristanziano CRIMINI E CRIMINALI Andrea Matteucci, il serial killer di Villenueve di Pasquale Salemme MONDO PENITENZIARIO L’abito non fa il monaco di Francesco Campobasso L’ANGOLO DELLE MERAVIGLIE Venezia, i luoghi della paura ai tempi della Serenissima - di Antonio Montuori COME SCRIVEVAMO Castiadas, il riscatto delle coscienze di Gino Lai

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Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo

di Polizia Penitenziaria

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Edizioni SG&S

L’EDITORIALE Ma chi difende i difensori? di Donato Capece IL PULPITO Quando anche il servizio pubblico della RAI deriva nel sensazionalismo di Giovanni Battista de Blasis IL COMMENTO Tutelare l’immagine della Polizia Penitenziaria contro la disinformazione di Roberto Martinelli CINEMA DIETRO LE SBARRE Trappola infernale - a cura di G. B. de Blasis L’OSSERVATORIO POLITICO Realizzare i progetti per non perdere le risorse di Giovanni Battista Durante CONTEST FOTOGRAFICO La vincitrice di questo mese è Roberta (1.359 voti) SPECIALE DRONI I droni, Sistemi Aerei a Pilotaggio Remoto a cura di G. B. de Blasis

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Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 • fax 06.39733669 e-mail: [email protected] web: www.poliziapenitenziaria.it Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2020 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati) Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994 Cod. ISSN: 2421-1273 • ISSN web : 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: Gennaio 2021 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

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el momento in cui mi appresto a scrivere questo edi-toriale, non so quali siano le sorti del governo gial-lorosso guidato da Giuseppe Conte e se il Ministro della Giustizia è poi riuscito ad andare in Parlamento a leggere l’annuale Relazione sullo stato della giu-

stizia (sul cui voto politico peserebbero le molte contraddi-zioni e le incertezze politiche sulla stabilità di questo Conte bis).

Duole constatare, e non è la prima volta, che le sorti di un Dicastero difficile e delicato come quello della giustizia pos-sono tranquillamente passare in secondo piano rispetto al mantenimento degli equilibri politici. Per chi dice di reggere e guidare le sorti del Paese, insomma, sembra più importante spodestare l’inquilino di via Arenula piuttosto che trovare so-luzioni alle endemiche criticità del settore. Questa non è una difesa d’ufficio di Alfonso Bonafede, non è mio compito difenderlo ed, anzi, avrei molto da dire sulla sua conduzione del Ministero, ma una semplice constatazione che è sotto gli occhi di tutti. Gli interessi primari delle varie ed eterogenee coalizioni po-litiche hanno la predominanza rispetto alla risoluzione dei problemi ‘partitici’. E questa è una ragione che va oltre gli schieramenti e le coa-lizioni. Destra, sinistra, centro non conta il colore: la situazione è sempre la stessa.

I ministri ed i sottosegretari cambiano, ma i problemi restano e si aggravano. Non faccio l’elenco delle cose che non vanno o che non hanno trovato soluzione politica in questi decenni: le sappiamo e le sapete tutti. Mi limito ad osservare quel che è accaduto a metà gennaio nel carcere di Varese, dove si è sfiorata la tragedia per la folle protesta di un gruppo di detenuti contro la Polizia Peniten-ziaria, per una situazione esplosiva. Si è vissuta nel carcere di Varese una situazione di altissima tensione e sembra che il battibecco tra un detenuto ed un po-liziotto sia stato il pretestino per una vera e propria rivolta. Come in quelle dello scorso marzo, i numerosi protagonisti dei disordini si sono rifiutati di rientrare nelle proprie celle e hanno devastato buona parte del Reparto detentivo (teleca-mere, luci, arredi ecc.ecc), impedendo al personale di Polizia Penitenziaria di avvicinarsi all’interno. Dopo innumerevoli tentativi di persuasione andati a vuoto, dopo numerosi episodi di minacce, di tentativi di aggressione agli Agenti mediante il lancio di qualsiasi tipo di oggetto e per evitare che i disordini coinvolgessero altri reparti, sono accorsi anche appartenenti alle Forze di Polizia in supporto al POCO personale di Polizia Penitenziaria operante che è riu-scito, comunque, a ristabilire l’ordine e la sicurezza all’interno del carcere, pur se rimasto comunque inagibile e senza luce. Abbiamo da subito chiesto fortemente che vengano accertate responsabilità su quanto accaduto e di conoscere i motivi sulla mancata considerazione del grido di aiuto richiesto alle Autorità, in particolare che il numero di personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso il carcere di Varese fosse no-tevolmente incrementato visto l’ulteriore depauperamento a seguito di pensionamenti e avanzamenti di ruolo. I gravi episodi avvenuti nel carcere di Varese, che non hanno avuto un tragico epilogo solo grazie all’attenzione ed alla prontezza del personale di Polizia Penitenziaria, hanno ripor-tato drammaticamente d’attualità la grave situazione peni-tenziaria. Ma il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Ammini- strazione Penitenziaria poco e nulla hanno fatto per porre so-luzione alle troppe problematiche che caratterizzano la quo-tidianità professionale dei poliziotti penitenziari: non si può continuare a tergiversare! La politica litiga e gli appartenenti al Corpo di Polizia Peni-tenziaria continuano a non avere strumenti per difendersi in servizio, continuano a fronteggiare i costanti eventi critici fa-voriti dalla folle sorveglianza dinamica che non si capisce per-ché non viene sospesa e continuano ad essere messi sulla graticola con presunte accuse di tortura fisica e psicologica. Sì, perché qualsiasi cosa faccia un poliziotto penitenziario per contrastare la violenza fisica o verbale di un detenuto, c’è sempre qualcuno che grida al comportamento disumano e de-gradante. Perché questo è un paese nel quale ci sono più controllori che controllati e nessuno che difende i difensori.

Donato Capece Direttore Responsabile

Segretario Generale del Sappe

[email protected]

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Ma chi difende i difensori?

Nella foto: l’ingresso

del carcere di Varese

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe [email protected]

i miei tempi del liceo, primi anni Settanta quando si andava avanti con occupazioni, collettivi e as-semblee, girava una storiella

molto simpatica che rendeva l’idea di come si comportavano i mezzi di informa-zione e di quanta propaganda politica ci fosse in giro. La storiella era questa. «Un leone scappato da un circo entrò dentro un supermercato. Nel panico ge-nerale spuntò un uomo che invece di scappare saltò in groppa all’animale e, con grande fatica e parecchie ferite, riu-scì a strangolarlo. Arrivarono i giornalisti che, per poter raccontare l’atto di eroi-smo, cominciarono ad intervistarlo. Tra le altre cose, il giornalista de L’Unità (organo ufficiale del Partito Comunista) gli chiese di che fede politica fosse. L’uomo rispose che alle ultime elezioni aveva votato per la destra. L’indomani L’Unità titolò: “Picchiatore fascista assale leone indifeso”.» La storiella era, ovviamente, metaforica e avrebbe potuto essere raccontata anche viceversa, col giornalista de Il Giornale d’Italia (organo del Movimento Sociale Italiano) e il titolo che citava “picchiatore comunista”. Il messaggio sarebbe rimasto comunque lo stesso: le notizie veicolate dai mass media sono inevitabilmente filtrate da chi le racconta, secondo la propria visione soggettiva. Tutta questa premessa per arrivare a ra-gionare sulla trasmissione Report di RAI 3, andata in onda il 18 gennaio scorso, che ha presentato uno speciale sul car-cere e sulla Polizia Penitenziaria. In buona sostanza, è stato trasmesso un reportage che ha fotografato tutti gli epi-sodi critici accaduti (o denunciati) negli ultimi tempi aventi ad oggetto presunti maltrattamenti ai detenuti. Nel calderone mediatico è stato messo di tutto anche (e

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Quando anche il servizio pubblico della RAI deriva nel sensazionalismo

soprattutto) vicende in corso di accerta-mento sia disciplinare che penale. Inevitabilmente, ne è venuto fuori un ri-tratto della Polizia Penitenziaria che sem-bra la Stasi della Germania dell’Est. A ciò si aggiunga che l’intervista di Ca-pece (alla quale ho assistito personal-mente), durata quasi un’ora, è stata sistemata in post-produzione e ridotta a pochi minuti, ovviamente scelti a discre-zione della redazione del programma. E già fin qui ce n’è abbastanza per trarre conclusioni. Onde sgombrare il campo da ogni equi-voco, è bene chiarire subito che, per quel che ci riguarda, non siamo abituati a di-fendere ad occhi chiusi anche coloro che commettono abusi, soprusi, sopraffazioni o violenze gratuite. Noi rifiutiamo, e respingiamo al mittente, tutti quei teoremi che tentano di far pas-sare il messaggio che l’intero Corpo di Po-lizia Penitenziaria sia composto da uomini e donne che maltrattano i detenuti. Questo non è accettabile e chi lo sostiene è in malafede. Il Corpo è un’istituzione sana ed attende al suo mandato costituzionale nel pieno ri-spetto della legge. Tuttavia, anche la Polizia Penitenziaria è composta di uomini e donne e, di conse-guenza, al suo interno si possono trovare tutti i pregi ed i difetti, i vizi e le virtù, degli esseri umani. È innegabile che anche da noi esiste il po-liziotto buono e quello cattivo, quello pa-ziente e quello impaziente, quello comprensivo e quello insofferente … e così via. Del resto, è altrettanto innegabile che esistano anche i dottori buoni e quelli cat-tivi, gli insegnanti buoni e quelli cattivi, i politici buoni e quelli cattivi, così come ci sono i detenuti buoni e quelli cattivi, quelli pentiti e quelli irriducibili. E pur tuttavia, non abbiamo mai voluto giustificare, e tantomeno accettare, com-

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portamenti disumani o degradanti. Quello che, invece, contestiamo dura-mente è l’attacco all’Istituzione; quando, cioè, vengono costruiti teoremi che so-stengono che l’intero Corpo di Polizia Pe-nitenziaria è corrotto e che tutti i poliziotti penitenziari sono aguzzini e tor-turatori.

Le trasmissioni come l’ultima puntata di Report veicolano proprio questo messag-gio … e, purtroppo, vengono viste da tan-tissime persone che, non conoscendo affatto la realtà penitenziaria, prendono per buono quello che viene raccontato. Nessuno di noi ha intenzione di difendere comportamenti sbagliati. Viceversa, è anche – e soprattutto – nostro interesse emarginare le mele marce, se vengono in-dividuate, per restituire onore e dignità al nostro Corpo e dimostrare che si tratta di una Istituzione integra ed onorevole. Purtroppo, la verità è che noi siamo soli a difenderci contro un numero infinito di “controllori” (non tutti in buona fede): ma-gistratura di sorveglianza, avvocati, pa-renti dei detenuti, garanti comunali, provinciali, regionali e nazionali, associa-zioni, volontariato, giornalisti, politici, consiglieri regionali, parlamentari … e chi più ne ha, più ne metta. La RAI, però, è un servizio pubblico e come tale non dovrebbe perseguire tesi precostituite. Perché, altrimenti, chi difenderà i difen-sori? Soprattutto quando le accuse (e ca-pita spesso) sono infondate … l

Nella foto: il conduttore della trasmissione televisiva “Report”

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ome è ampiamente noto, nel programma di Rai3 Re-port, condotto da Sigfrido Ranucci e andato in onda lo scorso lunedì 18 gennaio, Bernardo Iovene ha firmato un'inchiesta sull'universo penitenziario. L'argomento era

scomodo, impopolare, divisivo: ha infatti trattato il tema delle carceri italiane al tempo del Covid 19. Attraverso, fatti, dati e testimonianze raccolte girando tra le carceri italiane, tutto ciò però condito da un punto di vista dietrologico. Lo ha scritto, con l’abituale chiarezza, Gianni de Blasis in un suo editoriale apparso nella versione web della nostra Rivista. Nel giornalismo sensazionalista non fa notizia il cane che morde l’uomo ma solo l’uomo che morde il cane.

Sigfrido Ranucci della RAI, conduttore di Report, ha confer-mato questa regola con la puntata del 18 gennaio, parlando di carcere. Che la stampa cavalchi la notizia e, qualche volta, la “crei” non è una novità ma rincorrere la notizia, ingigantendo i fatti fino a farli diventare un caso, a nostro avviso non è certo Giornalismo con la “G” maiuscola. Il carcere è un luogo oscuro, dove esistono innumerevoli pro-blemi … lo abbiamo detto, lo diciamo e lo continueremo a dire. I mass media, però, hanno la memoria corta e del carcere non ne vogliono sapere se non quando si tratta di emergenze da spettacolarizzare. E pur tuttavia, spenti i riflettori sulla notizia, chi resta in car-cere (recluso o poliziotto) rimane sempre a fare i conti con i suoi problemi e con la sua emergenza quotidiana. E alla memoria corta della stampa si aggiunge il disinteresse della società e delle istituzioni… almeno fino al prossimo caso eclatante. Nel frattempo, si continueranno ad ignorare tutti gli schiaffi presi dalla Polizia Penitenziaria (il cane che morde

l’uomo) fino alla prossima volta che un detenuto denuncerà di essere stato “torturato” (l’uomo che morde il cane) e il carcere continuerà a rimanere un luogo buio, sospeso nel limbo delle coscienze e nascosto nell’oblio della memoria. E il lupo sarà sempre cattivo se ascoltiamo soltanto Cappuccetto Rosso. Ed è sui social network, in cui gli utenti posso dire tutto ciò che vogliono, che spesso si diffondono le false informazioni. E non ci riferiamo solamente ai temi penitenziari: pensiamo alla pandemia e al Covid 19. Con la pandemia di coronavirus abbiamo assistito a un aumento di teorie del complotto dannose e fuorvianti, diffuse principal-mente online.

Per far fronte a questa tendenza, la Commissione europea e l'UNESCO stanno pubblicando una serie di dieci infografiche didattiche per aiutare i cittadini a individuare, smentire e con-trastare le teorie del complotto. Come è noto, la locuzione teoria del complotto indica una teoria che attribuisce la causa prima di un evento o di una catena di eventi a un complotto o una cospirazione. Questo tipo di rico-struzione sovverte spesso il senso comune o la verità comune-mente accettata. Si tratta di una definizione che ha origine nella cultura ameri-cana, poi diffusasi, negli anni, in varie parti del mondo; con essa si fa riferimento a un'ampia classe di costruzioni ipotetiche in cui la fantasia ha un ruolo dominante. Queste teorie, di solito, attribuiscono la causa di un evento al-l'azione di cospiratori, offrendo spesso una ricostruzione arte-fatta degli avvenimenti, con accuse, alle istituzioni preposte, di occultamento della verità e di insabbiamento delle indagini. La nascita del fenomeno ha uno stretto rapporto con la cultura

Roberto Martinelli Capo Redattore

Segretario Generale Aggiunto del Sappe

[email protected]

Tutelare l’immagine della Polizia Penitenziaria contro la disinformazione

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Nelle foto: sopra e a destra

Il Presidente della Repubblica

Sergio Mattarella

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di massa, quel tipo di realizzazioni da industria culturale che si offrono a un pubblico molto ampio proprio per la loro facile e immediata fruibilità come prodotti di disimpegnato intratteni-mento. Una recente indagine di Newsguard (azienda americana che censisce e analizza siti di informazione stabilendone il grado di affidabilità) in collaborazione con l’inglese Institute for Stra-tegic Dialogue ha infatti puntato il dito contro i colossi del Web che avrebbero favorito la diffusione del movimento cospirazio-nista e super complottista di QAnon durante l'estate. La ricerca è basata sull'analisi di oltre 200mila post in un periodo di cin-que mesi per individuare quella che viene chiamata la “catena del complotto” che avrebbe portato ad una sistematica disin-formazione: false affermazioni sulla gravità del Covid-19, cam-pagne contro mascherine e lockdown, teorie infondate e stravaganti sulle origini dell’emergenza sanitaria. E questo no-nostante Facebook e Twitter hanno lanciato potenti campagne contro le fake-news… Tornando alla puntata di Report, il giornalista che se n’è occu-pato, Bernardo Iovene, ha in premessa sottolineato il fatto che "la Polizia Penitenziaria nell'ultimo anno è stata messa a dura prova. Durante le rivolte nel periodo del primo lockdown, le pro-teste hanno riguardato 21 carceri, ci sono stati 107 feriti tra gli agenti e 69 tra i detenuti, ci sono state anche 13 persone detenute morte, e danni ingenti alle strutture carcerarie per quasi 10 milioni di euro, e ci sarebbero stati purtroppo anche abusi: atti di violenza gratuita sui detenuti". Non dirò una parola di più su questa puntata: si può ritrovare on line e ognuno può fare le sue considerazioni. Certo è, tanto per dire, che ridurre a pochi secondi l’intervista durata molto e molto più tempo a Donato Capece, segretario generale del SAPPE, fa molto riflettere, così come le ben più loquaci dichiarazioni di familiari di detenuti (taluni con il viso oscurato: ma perché poi?) e di Garanti vari (anche quelli con lunghi trascorsi carcerari), i sospetti sulle morti delle rivolte e su presunte torture. Gravi accuse rispetto alla quali è utile affidarsi al lavoro del-l’unica Autorità legittimata: la magistratura, rispetto alla quale riponiamo la nostra assoluta fiducia. Ma la puntata di Report, incentrata sull’operato della Polizia Penitenziaria, non è piaciuta solo a noi: basta leggere quel che ha dichiarato l’ex Sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone: “Un messaggio fazioso, senza contraltare, finalizzato a delegit-timare l’attività quotidiana di migliaia di servitori dello Stato che operano negli Istituti penitenziari in condizioni di grande difficoltà, quando non di pericolo personale, per garantire la si-curezza della collettività nazionale e l’osservanza delle leggi nelle carceri”. “Non contestiamo la libertà degli autori e dei giornalisti della trasmissione Report di esprimere il loro personale giudizio, pur non condividendolo”, ha aggiunto. “Critichiamo, al contrario, che una trasmissione del servizio televisivo pubblico, che do-vrebbe essere pluralista, non abbia dato spazio a una vera in-formazione, esaustiva e completa, ascoltando tutte le parti in causa. La nostra solidarietà va quindi al Corpo di Polizia peni-

tenziaria rappresentato in modo pregiudiziale e univoco. Ab-biamo sollecitato a più riprese l’amministrazione della Giustizia e il ministro Alfonso Bonafede a fornire gli agenti di bodycam e di taser, per avere finalmente le prove oggettive delle ag-gressioni da parte dei detenuti e dall’altro per potersi difendere senza avvicinarsi agli aggressori. Oggi chiediamo a Bonafede e ai vertici DAP di tutelare la Polizia penitenziaria nei confronti di chi la infanga pretestuosamente, anche in sede di Commis-sione di vigilanza Rai”, ha concluso Morrone. Una riflessione va fatta, questa sì, sui temi della comunicazione e dell’immagine del Corpo di Polizia Penitenziaria nel contesto sociale, rispetto ai quali ci siamo occupati e ci occupiamo per permettere all’opinione pubblica di avere elementi oggettivi di valutazione circa i compiti e il ruolo delle donne e degli uomini della Polizia nel difficile contesto penitenziario. Qualificati esperti di comunicazione hanno messo chiaramente in evidenza come l’ascolto attivo, la trasparenza, l’integrità, l’apertura verso la stampa sono – dovrebbero essere, anche per il Corpo di Polizia Penitenziaria… - valori essenziali ed ele-menti portanti dell’attività di comunicazione, sia con l’ambiente esterno sia con quello interno.

La cultura della Polizia Penitenziaria, così come quella della Polizia di Stato, è formata dall’insieme dei valori, credenze e linguaggi che sostengono il suo mandato. L’assoluta traspa-renza dell’immagine diventa il punto centrale della politica di comunicazione in quanto crea le migliori condizioni di visibilità dell’istituzione da parte dei cittadini che, a loro volta, saranno stimolati ad avere più fiducia e ad aprirsi. La gente, spesso, sa poco di quel che succede in carcere; que-sto perché è indotta ad approcciarsi ad esso, alle tematiche penitenziarie più in generale, solamente in occasione di eventi drammatici (suicidi, evasioni, presenza in carcere di detenuti eccellenti in particolare) che sono poi quelli che trovano mag-giore evidenza sugli organi di informazione. E se poco la gente del carcere, ancor più approssimativa è la conoscenza del no-stro lavoro, quello del poliziotto penitenziario, perché se il car-cere è – come esso è - un ambiente chiuso, ancor più difficile è venire a sapere quel che fanno le donne e gli uomini con il Basco Azzurro. s

Nella foto: comunicare per via telematica

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La trasparenza è invece la condizione ottimale di visibilità nei due sensi, dall’interno all’esterno e viceversa, ed è quindi ancora più incomprensibile constatare come verso essa l’Amministra-zione della Giustizia – e quella Penitenziaria, in particolare – dedichi poche risorse e poca attenzione. Penso ai suicidi in cella sventati dai nostri Agenti: Quanti sanno che nel solo anno 2020 sono stati 1.478, ossia più o meno 4 al giorno? O che gli atti di autolesionismo, che avrebbero potuto avere nefaste conse-guenze se l’intervento dei poliziotti penitenziari non fosse stato tempestivo, sono stati – solo l’anno appena concluso! - 11.343, ossia ben 31 ogni giorno? E non parliamo dei tempestivi inter-venti in caso di incendi (dove l’intervento risolutivo dei poliziotti ha scongiurato vere e proprie tragedie), ai malori, alle risse, alle colluttazioni, ai rinvenimenti di droga, alla individuazione ed al sequestro di telefoni cellulari ed armi tra le sbarre… Ebbene, mai - quasi mai - queste notizie vengono veicolate agli organi di informazione, come invece dovrebbero, attraverso i canali istituzionali. E’ il Sindacato che si sostituisce all’Amministra-zione in quest’opera di comunicazione ed informa-zione: è il Sindacato che diffonde i numeri di queste tragedie e della operatività degli apparenti al Corpo di Polizia Penitenzia-ria. Il carcere deve essere una “casa di vetro”, un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da na-scondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamen-tale – ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente – con profes-sionalità, abnegazione e umanità - dalle donne e dagli uomini della Polizia Pe-nitenziaria. Ecco perché, a mio avviso, assume ancor più importanza la necessità di una efficace comunica-zione istituzionale a fronte di un approccio alle questioni peni-tenziarie che, da più di qualcuno, è spesso condizionato da un eccesso di pregiudizio e sensazionalismo, per cui il bene è sem-pre e solo da una parte (non quello della Polizia Penitenziaria) e il male dall’altra. E’ sbagliato, come sbagliata sarebbe anche una impostazione esattamente opposta. Si può e si deve parlare di Polizia Peni-tenziaria, di carcere e di quel che in esso avviene con semplicità, chiarezza, precisione, concisione, concretezza, personalità. E’ proprio il silenzio ad alimentare disinformazione ciò spinge i giornalisti a rivolgersi ad altre fonti o a ripiegare su temi minori, collaterali, ma più sensazionalisti, fondati su dicerie e specula-zioni provenienti da fonti meno affidabili. Il silenzio può inoltre essere interpretato come intenzione di na-scondere una colpa e, in ogni caso, condiziona la percezione del pubblico e della stampa. Verità e giustizia devono sempre prevalere, per il bene dell’ono-rabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria e coloro che ne fanno

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Nell’immagine lo stemma araldico

del Corpo di Polizia Penitenziaria

parte, perché nulla dev’esserci da nascondere. Ma sono le aule di Giustizia le uniche sedi deputate ad ac-certare anomalie, irregolarità, violazioni o reati. Non i salotti tv, le conferenze stampa (anche se in luoghi autorevoli, come talune Sale del Parlamento, spesso usate per conferenze stampa), le colonne di quotidiani e settimanali… Alla luce di tutto ciò, è sconcertante constatare come i com-petenti uffici del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria continuino sistematica-mente a non fornire alcun riscontro alle molte note sindacali tese ad avere chiarimenti circa le procedure assunte in re-lazione alla definizione dell’interpello nazionale per l’incarico di “Referente per la Comunicazione del Corpo di Polizia Pe-nitenziaria”, diramato dalla Direzione Generale del Personale e delle Risorse del Dipartimento dell’Amministrazione Peni-tenziaria con nota del 17 gennaio 2019 n. 0017196.U. Un incarico prestigioso ed importante, che avrebbe dovuto

occuparsi proprio di comunicazione istituzio-nale ed immagine del Corpo di Polizia Peniten-ziaria nel contesto sociale, fungendo anche da

anello di congiunzione tra l’Istituzione e gli Organi di Informazione. La selezione dei

vari aspiranti all’incarico durò diversi mesi, tra colloqui e prove pratiche che si sono tenuti presso l'Ufficio Stampa del Ministero della Giusti-zia, in via Arenula, a Roma, ma non se n’è saputo mai nulla. Nessun atto ufficiale, nessuna gra-duatoria finale con voti dei curri-

cula dei candidati e delle varie prove a cui sono stati sottoposti. Nulla di nulla. E nessun riscontro è

mai stato fornito a chi - in osser-vanza delle elementari regole di traspa-

renza amministrativa e in adesione ai tratti della fiducia, del prestigio, del rispetto e della autorevolezza del sistema giustizia, spesso citati proprio dal Ministro Guarda-sigilli e contenuti nella Relazione al Parlamento sull'ammi-nistrazione della Giustizia dello scorso anno – ha chiesto notizie nel merito. Il Ministero della Giustizia è ben saldo nelle mani di Alfonso Bonafede, autorevole esponente del Movimento Cinque Stelle il cui leader, il comico genovese Beppe Grillo, il 10 febbraio 2013, nell’esaltare il principio della trasparenza, affermò: “Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno. Sco-priremo tutti gli inciuci, gli inciucetti e gli inciucioni...”. In-tanto, sull’esito dell’interpello di “Referente per la Comunicazione del Corpo di Polizia Penitenziaria” non si è saputo più nulla, nonostante l’importanza che esso può avere proprio alla luce delle considerazioni qui esposte in materia di comunicazione. Ed allora a tornarci in mente è un’altra frase: “Fate quel che dico io, ma non fate quel che faccio io”. A buon intenditor… l

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Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

erso la fine degli anni ottanta del secolo scorso, il giornalista ca-nadese Victor Malarek venne a sapere dell’arresto di Daniel

Léger, un tossicodipendente venticin-quenne che stava scontando una pena di cento anni in una prigione thailandese. Malarek è un giornalista investigativo che lavora per il quotidiano The Globe and Mail e si imbatte in questo strano caso dopo un'indagine congiunta delle autorità canadesi e thailandesi, nella quale Léger viene identificato come la mente di un traffico di droga internazionale. Maralek si appassiona al caso quando si scontra con la reticenza delle autorità ca-nadesi, che lo spinge ad approfondire le circostanze della vicenda. Propone quindi l’inchiesta al proprio edi-tore che, se pur riluttante,accetta e lo au-torizza a recarsi in Thailandia. La seconda parte del film presenta Daniel Léger, che risulta essere poco più che un povero tossicodipendente che ha ingenua-mente accettato un lavoro con lo spaccia-tore Glen Picker. Picker recluta l'ingenuo Léger con l'intenzione di incastrarlo in cambio di soldi dalla divisione narcotici della polizia canadese. Per far questo, fa credere che Léger sia uno dei principali spacciatori thailandesi in grado di orga-nizzare un importante carico di eroina da contrabbandare in Canada.

Regia: Daniel Roby Altri titoli: Most Wanted, Target Number One Sceneggiatura: Daniel Roby Fotografia: Ronald Plante Montaggio: Yvann Thibaudeau Musiche: Eloi Painchaud, Jorane, Jean-Philippe Goncalves Scenografia: Scott Moulton Costumi: Véronique Marchessault Produzione: Caramel Films, Highland Film Group Goldrush Entertainment Distribuzione: Universal Studios Personaggi e interpreti: Daniel Léger: Antoine Olivier Pilon Victor Malarek: Josh Hartnett Frank Cooper: Stephen McHattie Glen Picker: Jim Gaffigan Al Cooper: Cory Lipman Norm: Don McKellar Mary: Rose-Marie Perreault Anna Malarek: Amanda Crew Denise: Nadia Verrucci Don More: Mark Camacho James Boulder: Raphael Grosz-Harvey Denis Fountain: Robert Crooks Jim Raiven: Frank Schorpion Arthur: J.C. MacKenzie Robert McDonald: Harry Standjofski Louise: Dawn Lambing Randy Brown: Pierre LeBlanc John Woodbridge: Alan Fawcett Dubé: Max Laferriere Daniel's Mother: Linda Sorgini Genere: Drammatico Durata: 125 minuti, Origine: Canada, 2020

a cura di Giovanni Battista de Blasis [email protected]

Trappola infernale

V

La polizia canadese, che ha bisogno di un sequestro di droga per dimostrare la pro-pria efficienza, cade nella trappola di Pic-ker e, per di più, l'investigatore capo Frank Cooper commette un grave errore scam-biando Léger per un altro delinquente con una storia criminale di spessore. A tal punto, viene organizzata una opera-zione congiunta tra la polizia canadese e quella thailandese che porta all’arresto dei fornitori di droga, compreso Léger. Léger sostiene la sua innocenza, ma viene lo stesso condannato a morte finché non è costretto a dichiararsi colpevole per commutare la condanna in cento anni di carcere. Malarek incontra e intervista Léger, scoprendo l’inganno. Tornato in Canada pubblica tutta la storia ma poi, attaccato da tutte le parti, finisce col perdere il lavoro ed essere lasciato dalla moglie. Fortunatamente il suo articolo finisce per essere letto dalla commissione affari in-terni della polizia che prende in mano le indagini facendo liberare Léger. l

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10 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

ul Corriere della Sera del 20 gennaio 2020 è stata pubbli-cata una bellissima vignetta di Giannelli, con Conte che pedala

sulla bici, mentre trasporta Zingaretti seduto dietro e Crimi davanti. Conte che dice “Avanti con la teoria della relatività! Sono l’Einstein della politica italiana.” Evidente l’allusione alla maggioranza re-lativa conquistata al Senato il giorno prima.

Certo, nessuno avrebbe mai immaginato che un oscuro professore di diritto civile, che non si era mai occupato di politica in vita sua, sarebbe riuscito a mettere insieme, nel Conte uno la Lega e il M5S, nel Conte due tutta la sinistra, più Renzi e il M5S; quest’ultima, evidentemente, una composizione più omogenea della prima. Infine, ad ottenere la maggio-ranza relativa, imbarcando alcuni depu-tati e senatori, dopo una trattativa da prima Repubblica che ha visto al centro Clemente Mastella, fino allo scontro con Carlo Calenda. Un’abilità non comune, quella di Cinte, anche se da più parti considerata deprecabile; dipende dai punti di vista. Al Senato Conte ha ottenuto 156 voti fa-vorevoli, tre dei quali dai senatori a vita, 140 contrari e 16 astenuti del gruppo di Italia Viva. Renzi, per non spaccare il suo gruppo, diviso tra favorevoli e contrari

Nelle foto: sopra

Giuseppe Conte

a destra la vignetta di Giannelli

alla fiducia, ha optato per l’astensione; una scelta dettata, forse, dal fatto che anche lui non vorrebbe far cadere il go-verno e arrivare alle elezioni, visti gli scarsissimi consensi del suo partito e la certezza che vincerebbe il centro destra. Per avere la maggioranza assoluta il go-verno avrebbe dovuto ottenere 161 voti al Senato. L’allusione alla maggioranza relativa e alla teoria della relatività, è al-quanto appropriata, atteso che per Conte tutto sembra relativo, finalizzato solo a restare al potere. Va bene tutto, qualsiasi coalizione, qualsiasi voto, pur di restare a Palazzo Chigi. Appropriata fino a un certo punto, ovviamente, vista la sproporzione tra i due personaggi: da una parte Albert Einstein, colui che par-lava con Dio, che è riuscito a teorizzare l’invisibile, rivelando e risolvendo mate-maticamente enigmi inimmaginabili a qualsiasi mente umana; verità che hanno trovato conferme in oltre cento anni di studi successivi. Dall’altra Conte, che con i suoi collaboratori non riesce nean-che a scrivere un DPCM che duri più di una settimana. Ma tant’è, questo ab-biamo oggi, e questo dobbiamo tenerci. E’ probabile che il governo riesca a du-rare. I 16 renziani che si sono astenuti, o parte di essi, nelle commissioni po-trebbero anche sostenere le proposte del governo e, quindi, consentirgli di an-dare avanti, almeno fino alla prossima elezione del Presidente della Repubblica che avverrà il prossimo anno. D’altra parte, non sarà facile andare a votare, visto che da luglio inizia il seme-stre bianco, quello, cioè, che precede proprio l’elezione del Presidente e du-rante il quale non è possibile indire le elezioni. Se consideriamo che la maggior parte dei parlamentari che adesso for-mano e sostengono la maggioranza non verrebbero più rieletti, sia per il taglio dei parlamentari, sia per il forte calo di

consensi dei partiti dei quale fanno parte, soprattutto il M5S, diventa scon-tato che faranno di tutto per restare ag-grappati alla loro poltrona. Tanti si chiedono se un governo così de-bole riuscirà comunque ad andare avanti. Questo nessuno lo può sapere, bisogna vederlo alla prova dei fatti che non saranno di scarso rilievo. Ci sono in ballo questioni importantis-sime che, almeno ufficialmente, hanno

innescato la miccia che ha dato origine alla rottura con Renzi il quale, oltre al MES che Conte non vorrebbe per asse-condare i Cinque Stelle, ha contestato al governo e allo stesso Conte le modalità di utilizzo del Recovery Fund, ossia il contenuto del Recovery Plan. Vediamo di cosa si tratta. Lo scorso luglio l’Unione Europea ha ap-provato il programma straordinario Next Generation EU, noto come  Recovery Fund, un fondo speciale per finanziare la ripresa economica nei prossimi anni, at-traverso l’emissione di titoli europei che serviranno a sostenere progetti e ri-forme strutturali, stabilite da piani di ri-forme e investimento, Recovery Plan, in ognuno dei 27 stati membri dell’Ue. La somma programmata, complessiva-mente, è di 750 miliardi di euro, compo-sta da 390 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 360 miliardi di prestiti,

Giovanni Battista Durante

Segretario Generale Aggiunto del Sappe

[email protected]

Realizzare i progetti per non perdere le risorseS

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Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 11

suddivisi in base alle diverse necessità degli Stati membri più colpiti dalla pan-demia. L’Italia è tra i maggiori benefi-ciari. Per accedere ai fondi, gli Stati membri devono presentare i Recovery Plan alla  commissione europea, entro aprile 2021. Le condizioni da rispettare vengono stabilite durante l’approvazione dei piani. Se non vengono rispettati gli impegni presi nei piani di attuazione, l’erogazione dei fondi potrebbe essere sospesa o bloccata. All’Italia spettano 83 miliardi di sovven-zioni e 127 miliardi di prestiti, ma il to-tale delle risorse a cui è possibile attingere è superiore. L’erogazione delle sovvenzioni è concentrata nel periodo 2021-2023 ed i prestiti dovrebbero es-sere erogati entro il 2026. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 2020 il Consi-glio dei ministri ha approvato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ovvero il Recovery Plan italiano. Il piano finale punta a investire 223 miliardi di euro, una capacità di spesa aumentata ulteriormente rispetto alle prime bozze che facevano riferimento solo ai 196 mi-liardi del Recovery Fund in senso stretto, ai quali sono stati aggiunti i fondi di coe-sione e sviluppo e i 13 miliardi del Re-actEu, per un totale, appunto, di  223 miliardi. I fondi del Pnrr ,a loro volta, sono stati integrati con altri  7 miliardi  di fondi strutturali e 80 miliardi di risorse pro-grammate per il periodo 2021-26 dal bilancio nazionale, per un totale di 310 miliardi. Un Recovery Plan ambizioso, il più grande programma di spesa nella storia italiana recente, che metterà alla prova la capacità italiana di utilizzare appieno i fondi strutturali. Già dai numeri si comprende la portata straordinaria degli investimenti. Sarà necessario presentare progetti adeguati e credibili, affinché l’Europa confermi gli stanziamenti previsti. Sarà in grado questo governo di portare avanti gli impegni assunti? E’ un interrogativo che avrà presto una risposta. Ma ciò che conta non è tanto la risposta all’interrogativo, quanto la realizzazione dei progetti, per non per-dere le risorse, una eventualità da scon-giurare in ogni modo. l

Partecipa alla gara. Invia una foto

Le foto degli altri partecipanti sono state registrate nell’archivio foto, ognuna nella categoria scelta dall’utente che l’ha inviata. Intanto è in fase di con-clusione la gara per il mese di gennaio 2021 e a breve inizierà quella di feb-braio 2021. Invia le tue foto e condividile con i tuoi amici. Ricorda che è possibile votare una volta al giorno per ogni foto. Cosa aspetti? Regolamento completo su: www.poliziapenitenziaria.it

Si è conclusa la gara del mese di dicembre 2020 con la vittoria di Roberta, in servizio presso la C.C. di Como, con 1.359 like.“Devi amare ciò che fai per volerlo fare ogni giorno”

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l termine drone deriva, molto proba-bilmente, dal rumore del ronzare delle api. Tuttavia, si tratta di una definizione

impropria perché, in realtà, questi og-getti volanti si chiamano Sistemi Aerei a Pilotaggio Remoto e, per il Codice della navigazione, sono aeromobili con tanto di comandante responsabile ai co-mandi. Spesso le dimensioni, il peso e le dota-zioni fanno la differenza tra giocattoli, droni per uso dilettantistico e droni per uso professionale. Le dimensioni contano fino a un certo punto perchè anche i piccoli droni pos-sono fare riprese di ottima qualità (fino a 4K) ed eseguire missioni utili secondo il tipo di sensore installato a bordo. Dunque, un aeromobile a pilotaggio re-moto è un apparecchio volante caratte-rizzato dall'assenza del pilota a bordo. Il suo volo è controllato da un computer a bordo del mezzo aereo oppure tramite il controllo remoto di un navigatore o pi-lota, da terra o in altre posizioni. I droni sono definiti anche con altri acro-nimi, molti dei quali in lingua inglese: oltre a RPA (Remotely piloted aircraft) possono essere indicati come UAV (Un-manned aerial vehicle), RPV (Remotely piloted vehicle), ROA (Remotely opera-ted aircraft) o UVS (Unmanned vehicle system). La definizione di aeromobile evidenzia che, indipendentemente dalla posizione del pilota, le operazioni devono rispettare le regole e le procedure degli aerei con pilota ed equipaggio a bordo. Il loro utilizzo è ormai consolidato per usi militari ed è crescente per applicazioni civili, ad esempio in operazioni di preven-zione e intervento in emergenza incendi, per usi di sicurezza non militari, per sor-veglianza di oleodotti, con finalità di te-lerilevamento e ricerca e, più in generale,

12 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

I

in tutti i casi in cui tali sistemi possano consentire l'esecuzione di missioni ddd, "noiose, sporche e pericolose" (dull, dirty and dangerous), quasi sempre con costi economici ed etici inferiori rispetto ai mezzi aerei tradizionali. A differenza degli aerei tradizionali, gli APR possono essere utilizzati in situa-zioni di pericolo per la vita umana e nelle aree inaccessibili o impervie, volando a bassa quota. Per questo motivo possono trovare impiego durante le fasi di moni-toraggio di aree colpite da calamità na-turali o da avvenimenti particolari (terremoti, esondazioni, incidenti stradali ecc.). Ad esempio, nel terremoto in Giappone del 2011, che ha colpito la centrale nu-cleare di Fukushima, quando furono uti-lizzati droni per monitorare i reattori dopo le esplosioni. Un ulteriore vantaggio che deriva dall'uso degli APR per scopi civili è il contenuto costo di acquisizione e di esercizio di tali sistemi, rispetto ai tradizionali sistemi di ripresa aerea utilizzati fino ad ora, oltre ovviamente la facilità di utilizzo e la loro versatilità.

Il pilota remoto che intende utilizzare un mezzo APR deve aver completato un corso di formazione online ed aver supe-rato un esame.

Antiaerea per contrastare

le consegne con i droni in carcere

ai detenuti

Il Triveneto ha sperimentato un

sistema per il “rilevamento e l’inibizione

di aeromobili a pilotaggio remoto”

I droni, Sistemi Aerei a Pilotaggio Remoto

a cura di Giovanni Battista

de Blasis [email protected]

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Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 13

Il panorama normativo in materia è ete-rogeneo ed è composto dalla normativa internazionale, da quella comunitaria e da quella nazionale. Il rapporto tra queste fonti è di tipo gerarchico quindi quanto disposto da una fonte normativa inferiore soccombe in presenza di disposizioni normative di una fonte superiore. L'ICAO - International Civil Aviation Or-ganization - riconosce molte categorie di aeromobili con pilota a bordo (manned) o senza (unmanned), dando a tutte lo sta-tus di “aeromobile”. Per questo motivo, anche un APR è quindi un aeromobile e i concetti norma-tivi non subiscono alterazioni di principio circa il mezzo, il pilota e l'operatore (val-gono le stesse responsabilità e certifica-zioni, come certificato di immatricolazione, certificato di aerona-vigabilità, licenza di pilota, licenza di operatore). Gli APR di peso inferiore ai 150 kg sono di pertinenza delle singole autorità aero-nautiche nazionali, l'ENAC (Ente Nazio-nale Aviazione Civile) in Italia, come stabilito nei regolamenti europei. L'ENAC si occupa della normativa per l'utilizzo dei droni in Italia. Il regolamento attuale, EDIZIONE 3 EMENDAMENTO 1 del 14 luglio 2020, ha

introdotto importanti novità rispetto alla normativa precedente: 1) Per un utilizzo ricreativo o professio-

nale (ma limitatamente alle operazioni specializzate non critiche) è sufficiente superare un esame online presso il sito

ilevare e intercettare droni in grado di effettuare ‘conse-gne illegali’ ai detenuti. E’ per questo obiettivo che in Tri-veneto  si sta sperimentando, esattamente nel carcere di Rovigo, un sistema per il “rilevamento e

l’inibizione di aeromobili a pilotaggio remoto”. Il contrasto a questo tipo di ‘recapiti vietati’ nelle strutture peni-tenziarie – che avvengono attraverso sistemi aerei senza equi-paggi – è dallo scorso anno una  priorità  delle organizzazioni internazionali per la cooperazione di polizia e la lotta al crimine. Per individuare contromisure all’utilizzo sempre più frequente dei droni nelle carceri, l’INTERPOL (International Criminal Police Or-ganization) ha pubblicato, nel gennaio 2019, una nota diretta al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP). E, per avviare le azioni di prevenzione suggerite a livello interna-zionale, dopo aver seguito un corso di addestramento, tre unità di Polizia Penitenziaria hanno ottenuto un “attestato di pilota di Aeromobili a Pilotaggio Remoto”. Le unità in servizio presso il Provveditorato di Padova, che inizie-ranno a breve l’esercitazione pratica, sono abilitate a effettuare ispe-zioni, riprese in modalità remota e ricostruzione di ambienti in 3D. Nei mesi di marzo e aprile, poi, inizierà la sperimentazione sul campo, in collaborazione con esperti di droni e intelligenza artificiale.

Nei giorni scorsi nel carcere di Rovigo, i partecipanti al progetto si sono confrontati sulla pianificazione del test e sull’utilizzo delle attrezzature. Diverse aziende specializzate hanno inoltre proposto soluzioni in-novative, da sperimentare in concreto, che potrebbero contribuire al miglioramento della sicurezza penitenziaria.

s

R

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14 • Polizia Penitenziaria n. 284 • GIUGNO 2020

elle carceri italiane, quotidia-namente, gli operatori peni-

tenziari si confrontano con manifestazioni di aggressività,

messe in atto da una popolazione dete-nuta che, nel corso degli ultimi decenni, ha

N

Nella foto: drone sorvola

una recinzione

web di ENAC; 2) Per un utilizzo di tipo professionale (per operazioni specializzate critiche), dopo aver superato l'esame online di cui al punto precedente, è necessario iscri-versi a una scuola volo riconosciuta da ENAC e sostenere un ulteriore esame sia

"Il Sappe lo diceva già ad ottobre del 2018" Taranto, cade un drone nel carcere: trasportava telefoni cellulari e droga

urtroppo le denunce del SAPPE - Sindacato Autonomo Polizia Peniten-ziaria  sulla drammatica situazione del carcere di Taranto, dovuta al so-vraffollamento ed alla gravissima carenza di poliziotti  trovano riscontri sempre più evidenti e pericolosi.

Peccato che alle denunce del SAPPE il vertici del DAP  se ne fottono altamente, ignorando volutamente  che si è’ arrivati al capolinea. Non bastavano gli eventi critici: aggressioni, autolesionismo, suicidi e tentati suicidi, pazzi con licenza di uccidere ecc.ecc. Eppure lo abbiamo denunciato da diverso tempo che la  tecnologia si è messa al servizio  della malavita per  cui far entrare materiale vietato, è diventata  la cosa più  facile e meno rischiosa per i detenuti consci che  la sicurezza  del carcere è  scesa a livelli molto pericolosi. Infatti  ci è stato riferito che nella giornata di ieri sera intorno alle 22 circa,  utilizzando un drone, hanno tentato di far entrare dei mini telefonini  e dei wurstel infarciti di droga  direttamente in una stanza  del terzo piano all’interno del carcere. L’ingegnoso piano prevedeva anche il diversivo di fuochi artificiali fatti esplodere

all’esterno del carcere,  mentre il piccolo drone veniva guidato  nel posto giusto, attraverso la fiammella di un accendino che il detenuto  aveva acceso dalla finestra della propria cella. Sfortunatamente per il detenuto l’apparecchio prima di arrivare  a destinazione è incappato in dei fili ed è caduto permettendo all’unico agente di servizio al piano (tre sezioni e circa 200 de-tenuti) di accorrere e dare l’allarme. Da tempo il SAPPE  chiede interventi concreti anche contro questo fenomeno che non è   pre-

sente non solo  a Taranto, ma anche in altre carceri della Regione a partire da Bari, chiedendo all’amministrazione di correre ai ripari, ma inutilmente. Non sap-piamo  se questo sia stato il primo tentativo  a Taranto, poiché a seguito della carenza di poliziotti  il muro di cinta è pressochè  sguarnito, e  l’unico  agente  che viene utilizzato per la ronda, il più delle volte deve fare anche altre  cose. A questo punto il SAPPE si chiede cosa deve succedere ancora affinchè i vertici del DAP il Ministro della Giustizia si sveglino  e prendano provvedimenti? Più volte il SAPPE è stato tacciato di provocare  allarmismo, ma dire le cose come stanno denunciando quanto avviene giornalmente nel carcere di Taranto come nelle altre carceri pugliesi,( colpevolmente sguarniti,) è allarmismo?  o è un estremo  grido di allarme che  purtroppo  viene  lanciato nel vuoto  vista  l’in-differenza di istituzioni e DAP? Nei giorni scorsi il SAPPE aveva chiesto l’intervento della magistratura  nei con-fronti di chi ha voluto questa situazione, parliamo del ministro Orlando e dei ver-tici del DAP, qualcuno dei quali è ancora insediato sulla sua poltrona, ora si chiede che il prefetto , convochi con urgenza un comitato sull’ordine e sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto, poiché la  pericolosa situazione del carcere sta  degenerando sempre di più, per cui  non è più una “cosa loro” dei vertici del DAP, ma un problema di sicurezza per la città di Taranto. Federico Pilagatti, Segretario nazionale SAPPE per la Puglia

e carceri godono di una prote-zione contro il sorvolo di droni e aeroplani piuttosto grande, anche diversi chilometri di dia-

metro. Che succede se dobbiamo fare una operazione specializzata in città, ma quel che dobbiamo riprendere ri-cade nella zona P di un carcere? Lo abbiamo chiesto al Ministero di Grazia e Giustizia. Può sembrare strano avere la neces-sità di farci autorizzare un volo all’in-terno dello spazio aereo “P”, dunque proibito, che sovrasta un carcere. Ma in realtà è una cosa che capita di frequente, visto che molte carceri “storiche” – pensiamo a San Vittore a Milano o Regina Coeli a Roma –  sono in zone semicentrali se non centrali delle nostre città, e il loro spazio aereo riservato è molto grande. Quindi non è per nulla detto che sia il carcere il nostro obiettivo, ma per esempio una chiesa dove si tiene un matrimonio a diversi isolati di di-stanza, o una manifestazione – tipo la Stramilano – che passa per quartieri non distanti dalla casa circondariale. E senza averlo minimamente previsto ci troviamo in zona P. Le zone P sono regolate dalla circo-lare ATM-03B di Enac, ma per quanto riguarda le carceri non è Enac a con-cedere o negare il permesso: per le carceri, le domande devono essere ri-volte in bollo esclusivamente al Mini-stero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Segreteria di Sicurezza UE/S Largo Luigi DAGA n. 2 - 00164 Roma Tel. 06 66591371, e-mail: [email protected] almeno 15 giorni prima del volo.

LP

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Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 15

teorico che pratico. Peraltro, una porzione significativa dello spazio aereo è vietata all’uso dei droni. Queste aree sono denominate no-fly zone. Le no-fly zone sono definite dalle autorità nazionali per motivi di sicurezza e ragioni ambientali.

La richiesta di autorizzazione al sorvolo di un carcere Sappiamo che non sempre i permessi vengono accordati.  Alla precisa do-manda, il Ministero della Giustizia per bocca del Vice Capo del Dipartimento Stampa Marco Del Gaudio  ci ha confer-mato che “L’Amministrazione è orientata a favorire l’effettuazione di lavori aerei qualora essi siano connessi ad un pub-blico interesse“.  Pubblico interesse. Questo è un passaggio importante. E spiega perché a Milano, nell’area P di San Vittore,  siano state autorizzata senza problemi le riprese della Strami-lano – che è un evento pubblico di grande interesse per la città – mentre siano stati negati i permessi per delle riprese di ma-trimoni sul sagrato di chiese urbane al-l’interno della stessa area P. Il motivo è chiaro, le riprese matrimoniali sono di norma un evento assolutamente privato e privo di alcun interesse pubblico, a meno che non si tratti di una specie di Royal Wedding dove possa essere invo-cato il diritto di cronaca da parte di un drone journalist; ma deve trattarsi di per-sonaggi pubblici di spicco e le riprese de-vono essere fatte – appunto – per ragioni di cronaca e non per il book privato dei vip che convolano. Accogliere o rigettare una richiesta di volo in area P avviene dunque dopo un attento processo di valutazione, e di con-seguenza Del Gaudio consiglia: “per l’ido-nea valutazione della richiesta, è necessario allegare ogni possibile docu-mentazione che specifichi il lavoro da eseguire, l’esatta posizione e l’identifica-

zione dell’operatore, il committente e tutto ciò che è ritenuto suscettibile di va-lutazione”. Ricevuta la richiesta, il Ministero la va-luta e decide “previa eventuale, con-giunta valutazione con l’istituto penitenziario interessato” dice ancora Del Gaudio. Riteniamo di non sbagliare se consigliamo di fare una telefonata al carcere vicino al quale vogliamo volare per sondare il suo parere prima di far partire la procedura con il Ministero. Come per tutti i permessi aeronautici, nel nulla osta possono esserci prescri-zioni specifiche, ci dice ancora Del gau-dio. Ciò significa che il carcere può stabilire delle condizioni, tipo cosa non deve essere ripreso, la quota massima e l’effettiva distanza dalle mura del carcere e così via, a seconda delle specifiche ne-cessità. Solo per SAPR, niente aeromodelli La circolare Enac parla chiaro: le deroghe per le zone P possono essere concesse esclusivamente per il lavoro aereo, mai, per nessun motivo, per diporto. Quindi le possono chiedere i piloti di SAPR con at-testato o gli operatori di trecentini rico-nosciuti da Enac. E mai gli aeromodellisti, anche se magari il carcere sorge in una zona rurale  che  se non fosse per la prigione sarebbe tranquillamente volabile con le regole dell’aeromodellismo. Come per esempio il carcere  di San Gimignano (qui a fianco), che sorge ta le colline vicino al parco naturale di Castelvecchio.

Area P di San Vittore a Milano: da Castello Sforzesco alla vecchia Fiera ai Navigli

Area P di Poggioreale a Napoli : arriva quasi al mare

Area P di Regina Coeli a Roma: da San Pietro all’isola Tiberina al Gianicolo, più area P del Vaticano

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Volare con il drone vicino alle carceri: ecco come fare (e quando si può fare)

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16 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

Alcune no-fly zone sono permanenti, come aeroporti, carceri, strutture nu-cleari o basi militari. Altre possono es-sere temporanee e sono spesso legate a questioni di sicurezza. Per questo motivo, le no-fly zone sono soggette ad aggiornamenti periodici. I sistemi anti-droni Anche il mercato dei sistemi anti-droni è protagonista di una crescita costante, sull’onda delle crescenti preoccupazioni che riguardano principalmente la sicu-rezza di strutture come aeroporti e scali commerciali in genere, ma anche carceri, impianti industriali di importanza critica o edifici governativi.

E se da un lato sembra che le proposte delle aziende che studiano soluzioni anti-droni si concentrino soprattutto sugli strumenti in grado di bloccarli, respin-gerli o abbatterli, c’è altrettanto impe-gno nella ricerca di sistemi per individuare i velivoli che oltrepassano il confine di uno spazio aereo non autoriz-zato. Se però i droni sono gli oggetti privi di volontà che potrebbero trovarsi dove non dovrebbero, il problema principale è rap-presentato dai loro piloti, a volte respon-sabili inconsapevoli ma sempre più spesso deliberatamente incuranti dei re-golamenti, se non persino criminali in toto. Per questo motivo dei ricercatori israeliani stanno lavorando ad una tec-

Nelle foto: immagini di droni

nologia che mira, attraverso l’intelli-genza artificiale, ad individuare subito anche la posizione del pilota. Al momento l’algoritmo che hanno svi-

luppato è in grado di localizzare il pilota con una precisione superiore all’ottanta

per cento e stanno cercando di capire se lo stesso è capace anche di fornire indi-cazioni sul livello di esperienza del pilota. A quanto pare non c’è bisogno di com-plicate analisi di triangolazione radio e antenne di localizzazione, ma tutto pog-gia su una rete neurale “addestrata” at-traverso il controllo di decine e decine di simulazioni di droni in volo in un deter-minato spazio aereo, dati ai quali si ag-giungono informazioni come la posizione del pilota (in questo caso nota) e le pe-culiarità delle immediate vicinanze del territorio (presenza di foreste, edifici, etc). La rete neurale è così in grado, in base ai movimenti del drone evidenziati da un radar (ad esempio quello di un aero-porto) di scommettere sulla posizione in cui si trova il pilota, sfruttando da un lato un calcolo di probabilità sulla base di moltissime situazioni simili già osser-vate, dall’altro delle costanti che proprio i test con le reti neurali ricorrenti hanno evidenziato. l

Page 17: I sistemi aerei a pilotaggio remoto

Roberto Martinelli [email protected] Bodycam anche alla Polizia Municipale

di Ravenna: quando ai Baschi Azzurri?

Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 17

xon, leader globale nelle tecno-logie connesse per le forze dell’ordine, ha annunciato nei giorni scorsi che la Polizia Mu-

nicipale di Ravenna è la prima in Italia a usare sul campo Axon Body 3, la video-camera indossabile che registra video di qualità superiore e offre funzionalità di streaming live e attivazione automatica per aiutare gli agenti a concentrarsi sulle missioni. La Polizia Municipale di Ravenna è anche la prima in Europa a implementare il software Axon Respond for Devices, che offre consapevolezza della situazione in tempo reale. Insieme ad Axon Body 3 e Axon Respond for Devices, il Comune di Ravenna ha acquistato inoltre le licenze per Axon Evidence, la piattaforma per la gestione delle prove digitali che sempli-fica i processi e consente agli agenti di dedicare più tempo alle attività sul campo. Grazie ad Axon Evidence, la Polizia Mu-nicipale di Ravenna potrà dunque gestire e condividere le prove digitali in modo più efficiente grazie all’accesso a tool come “redazione”, “codifica” e “trascri-zione”, con un conseguente risparmio di tempo e costi di intervento. Alcune delle sfide che le forze dell’ordine devono affrontare oggi riguardano la poca visibilità di ciò che accade sul campo in tempo reale, la difficoltà nel condividere le corrette informazioni con altri team, e la difficoltà nel creare e ge-stire efficacemente unità e avvenimenti. Facendo leva sulle capacità integrate della videocamera Axon Body 3, Axon Respond for Devices risponde a queste sfide consentendo ai supervisori delle forze dell’ordine di utilizzare la geoloca-lizzazione e il live streaming per ottenere visibilità in tempo reale in situazioni in evoluzione e chiamare ulteriori risorse e rinforzi in base alle necessità.

Nelle foto: il sistema di video-camera indossabile della Axon

“L’impiego sistematico delle Bodycam – innovazione assoluta nell’amministra-zione italiana della Giustizia e della Pub-blica Sicurezza – ha trovato l’importante sostegno del Procuratore della Repub-blica e del Prefetto e riscosso ampia ap-provazione tra i cittadini,” ha dichiarato Andrea Giacomini, Comandante del Corpo di Polizia Locale del Comune di Ravenna.

“La loro sperimentazione, conclusasi re-centemente, ha messo in evidenza rile-vantissimi vantaggi rispetto alla capacità di prevenire comportamenti illeciti e di produrre affidabili referti a beneficio delle Autorità preposte a giudicare fatti”. “I 15 operatori del mio reparto hanno for-nito ottimi feed back sull’utilizzo delle Bodycam Axon, mettendoci così nelle condizioni di approcciarci al meglio al-l’utilizzo sul campo delle nuovissime AB3, dotate di una tecnologia a dir poco futuristica per i nostri normali contesti operativi”, afferma il Commissario Ste-fano Bravi, Capo Ufficio Polizia Giudizia-ria e Pronto Intervento. “La Polizia Municipale di Ravenna è pio-niera nell’utilizzo delle videocamere in-dossabili connesse e di una tecnologia innovativa per le forze di polizia (muni-cipale) italiana, e siamo entusiasti di col-

laborare con loro”, ha dichiarato Loris Angeloni, Managing Director di Axon Italia. “ Questa è una grande opportunità per il Comando di Ravenna che può così sfrut-tare appieno la potenza della rete Axon utilizzando le videocamere indossabili, che garantiscono maggiore trasparenza, e un software basato su cloud, che con-tribuirà ad aumentare l’efficienza e a ri-

durre i costi, a beneficio dell’intera comunità”. Il nostro auspicio è che presto anche la Polizia Penitenziaria possa avvalersi di analoghe tecnologie, molto utili per i ser-vizi operativi quotidianamente assolti dalle donne e dagli uomini del Corpo.

A

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18 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

l delitto di rissa, previsto nell’art. 588 del codice penale, consiste nel fatto che tre o più persone usino, l’uno contro l’altro, violenza fisica

con intento offensivo. La norma prevede un’ipotesi semplice (punita con la sanzione di una multa di 304 euro ) e una aggravata (sanzionata con pena della detenzione da tre mesi a cinque anni) se durante la rissa, o subito dopo e in conseguenza della stessa, av-viene che un partecipante abbia ripor-tato una lesione personale o sia stato ucciso.

La Corte Suprema di Cassazione ha pre-cisato che : “il reato di rissa è configu-rabile anche nel caso in cui i partecipanti non siano stati coinvolti tutti contemporaneamente nella collut-tazione e l’azione si sia sviluppata in varie fasi e si sia frazionata in distinti episodi, tra i quali non vi sia stata alcuna apprezzabile soluzione di continuità, es-sendosi tutti seguiti in rapida succes-sione, in modo da saldarsi in un’unica sequenza di eventi.” ( Cass. 23 febbraio 2011 n. 7012 ) . Purtroppo è un delitto abbastanza fre-quente soprattutto nei luoghi dove vi

sono grossi assembramenti di persone , come ad esempio nelle discoteche, in cui la sua causa scatenante può essere indotta anche dall’uso di alcol o di stu-pefacenti da parte degli avventori del lo-cale. Grande scalpore nei mass media e sui social ha suscitato la notizia che nel po-meriggio di sabato 5 dicembre scorso, nella piazza del Pincio, a Roma, oltre trecento di giovani, quasi tutti minorenni di entrambi i sessi, senza mascherine di protezione, abbiano dato vita ad una maxi rissa per futili motivi, che non

avuto più gravi conseguenze per l’inter-vento tempestivo delle forze dell’ordine. La particolarità del fatto criminoso sta nel grande numero dei rissanti, datisi appuntamento tramite i social, dalla cir-costanza che quasi tutti erano di età mi-nore e dal luogo in cui l’evento si è verificato, e cioè il centralissimo belve-dere del Pincio, che domina la bellissima piazza del Popolo, il cui attuale aspetto architettonico e urbanistico venne rivi-sto, nell’ottocento, dal grande architetto romano Giuseppe Valadier. Successivamente, il 9 gennaio di que-st’anno , si è replicato il fenomeno della

rissa di massa a Parma, dove nella cen-trale piazza della Pace, si sono affron-tati, a pugni e calci, più di cinquanta giovanissimi senza mascherine, che si sono dispersi velocemente all’arrivo delle sirene della polizia, mentre il giorno prima, a Gallarate , in provincia di Varese, circa cento giovani, con ba-stoni e catene, si aggredivano non solo fra di loro, ma anche con alcuni passanti che tentavano di calmarli . A proposito di tali fatti, riprendendo un mio recente, articolo su questa rivista (1), mi sembra che la principale causa di

questi eventi, da stigmatizzare seria-mente, sia stata la generale fragilità psicologica di tanti giovanissimi a se-guito del lockdown per l’epidemia di co-rona virus, che li ha costretti a lunghi periodi di isolamento da parenti e amici e, soprattutto, dalla mancanza quoti-diana della frequenza scolastica, sosti-tuita dalla cosiddetta didattica a distanza . Certamente l’uso dei social e della pre-citata didattica telematica, da un lato, ha evitato una eliminazione completa dei rapporti umani extra familiari ma, dal-l’altro, essendo per la sua struttura un

Roberto Thomas già Magistrato minorile

Direttore del Corso di perfezionamento in Criminologia minorile,

Psicologia giuridica e sociale presso

LUMSA Università di Roma [email protected]

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Considerazioni criminologiche sul delitto di rissa fra giovani nell’attuale periodo di pandemia

Nelle foto: sopra

la maxi rissa del 5 dicembre 2020

a Roma

a destra cartello di protesta

degli studenti

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Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021 • 19

utilizzo privo del contatto fisico fra gli utenti, ha influito assai negativamente sull’equilibrio psicologico e sociale dei giovani, in particolare sulla loro emoti-vità, mortificando la loro naturale esu-beranza, con il conseguente rischio di ribellione a tale stato di disagio, pur giustificato per la difesa dal virus mor-tale, con incontri di gruppo che negano, in certo senso, la stessa esistenza del-l’attuale pericolosa pandemia – circo-stanza questa evidenziata dal mancato uso della mascherina protettiva e del di-stanziamento sociale - e, soprattutto, in taluni casi, dall’esplodere di una violenza purtroppo concepita inconsciamente come “esorcizzante” per un ritorno ad una normalità anche se negativa. Pertanto il delitto di rissa costituisce una delle principali cartine di tornasole per registrare il disagio e la rabbia dei nostri giovani che privat , se pur neces-sariamente, della loro quotidianità, or-ganizzano multipli incontri con il tam tam dei social nelle piazze delle città dove spesso si scontrano violentemente fra di loro non per cause specifiche (quali , ad esempio, quelle politiche o re-lative a rivalità sentimentali), ma sem-plicemente per il gusto di un gioco sadico e cioè di esercitare la violenza per la violenza . La ripetizione di questi fatti collettivi di violenza, diffusa in tutta Italia a mac-chia di leopardo, ha prodotto un grande allarme sociale che si esplicita nei pre-occupati servizi giornalistici della tele-visione e dei giornali, tanto che il quotidiano Avvenire dello scorso 10 gennaio ha intitolato il suo principale ar-ticolo d’apertura della prima pagina “Malessere giovane” relativo al “disagio diffuso e risse di gruppo che si moltipli-cano”. Per prevenire questo particolare disagio, e canalizzarlo verso forme più mature di normalità, occorre assolutamente privi-legiare al massimo la frequentazione scolastica in presenza, pur se in sicu-rezza, anche con l’obbligo di tamponi “ra-pidi” per il personale insegnante e impiegatizio, e per tutti gli studenti, al-meno a cadenza settimanale, oltre all’ob-bligo di vaccinazione prioritario per i docenti.

Nella foto: la protesta degli studenti davanti al Ministero della Pubblica Istruzione a Roma

Invero, come è noto, la scuola non è solo palestra di nozioni culturale, ma soprat-tutto luogo di incontri e di socializza-zione educativa per i giovani. Certamente la possibilità di mantenere, attraverso le piattaforme video, il con-tatto educativo giornaliero con la scuola è stato indispensabile a contenere, al-meno in parte, i gravi danni del lock-down. Però bisogna considerare che circa il 25% degli studenti (quelli delle famiglie più povere, spesso abitanti al sud Italia, ovvero immigrate straniere, e di quasi tutti i disabili a cui necessita la relazione diretta e reale, e non virtuale, con l’inse-gnante di sostegno) non ha avuto la pos-sibilità del precitato contatto scolastico, per difetto di un autonomo dispositivo informatico ovvero per mancanza della relativa connessione telematica sul ter-ritorio su cui si trovava la loro abita-zione.

La povertà educativa conseguente al blocco delle lezioni in presenza ha co-stretto uno su quattro dei minorenni stu-denti ad una sostanziale esclusione sociale, incrementando la già prece-dente mortificazione subita a causa della penalizzante povertà economica : una disuguaglianza in più rispetto ai coetanei più fortunati di loro. Comunque anche gli studenti che hanno avuto la possibilità di un collegamento quotidiano con la propria scuola - dopo i primissimi giorni in cui siffatta connes-sione virtuale è apparsa come una asso-luta novità che li incuriosiva moltissimo,

quasi fosse una vacanza imprevista – hanno vissuto l’assenza dei compagni di scuola e degli insegnanti come uno stato di privazione oppressiva, a cui rea-gire anche, inconsciamente, con com-portamenti aggressivi che possono realizzarsi nella commissione di reati, come abbiamo visto per le maxi risse avvenute in tante parti d’Italia. Tante è vero ciò che, dopo la fine delle festività natalizie, si sono avute nume-rose manifestazioni pacifiche di tanti studenti che, stanchi della “DAD” ( cioè la didattica a distanza, propria dell’uti-lizzo del computer ) volevano tornare al tradizionale sistema d’insegnamento scolastico ancora impedito dalla chiu-sura delle scuole oltre il 7 gennaio, data della prevista riapertura, per l’attuale situazione pandemica e anche per i con-trasti sulla valutazione dei rischi della stessa fra il Governo e le singole Re-gioni.

Le incertezze di date circa la loro riaper-tura, giustamente non comprese dai giovani e dalle loro famiglie oltre che da molti insegnanti, sono state la molla della grande manifestazione degli stu-denti romani, tutti muniti di regolare mascherina e rispettosi dell’ordine pub-blico, davanti al Ministero della Pubblica Istruzione in data 11 gennaio 2020, di-mostrando grande senso di responsabi-lità e amore per l’istruzione scolastica su cui basare il loro futuro. Però, nonostante la precitata lodevole iniziativa, pur sempre rimane il grave rischio, che si addensa potenzialmente s

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o scorso 8 gennaio è scomparso Giuseppe Martinelli, papà di Ro-berto. La Redazione di Polizia Pe-nitenziaria desidera esprimere il

proprio cordoglio pubblicando l’elogio fu-nebre letto dal nostro Caporedattore al funerale del padre. «Pochi istanti solamente per ringraziare tutti voi: parenti, amici, colleghi. La vostra presenza, qui oggi, le tante te-lefonate e i messaggi ci fanno capire quanto sono stati e sono rispettati ed amati nostro papà e la nostra famiglia. Ora che è salito alla casa del Padre, rin-graziamo Dio per avere permesso di averlo tra noi così da permettergli di ve-derci crescere e realizzarci, di consoli-dare il suo amore con la mamma (quest'anno sarebbero stati sessant'anni di matrimonio), di vedere nascere e cre-scere i suoi nipoti Carlotta e Stefano. Papà è stato un uomo buono, buono dav-vero, marito e padre esemplare, che aveva la famiglia al primo posto dei va-lori morali e ideali: famiglia e lavoro! Amava la compagnia e l'allegria, e lo vo-gliamo ricordare proprio così, con il suo

sorriso. Grazie a chi, in particolare in que-sto ultimo periodo, c'è stato sempre vi-cino con la preghiera e con la presenza fisica. Purtroppo in questo periodo non possiamo abbracciarci e baciarci. Lo facciamo idealmente ora, uno per uno. Vogliamo infine ringraziare tutti coloro che hanno raccolto il nostro desiderio di destinare alla comunità di Sant'Egidio di Genova, così impegnata in questo difficile momento nell'aiutare le famiglie in diffi-coltà, i proventi per l'acquisto di fiori ed altro. Sappiamo che anche papà avrebbe voluto così. Grazie a tutti. Ciao Papà. Mamma,Tommy e Robi»

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su tutti i giovanissimi - causato dalle li-mitazioni alla loro quotidianità per le giuste restrizioni e chiusure imposte dal Governo al fine di limitare la diffusione della pandemia- di possibili ricadute ne-gative sui loro futuri comportamenti per le ulteriori fragilità acquisite in questo periodo pandemico. Per evitarlo occorrerà al più presto ria-prire gli edifici scolastici e accompa-gnare i nostri ragazzi a recuperare il tempo perduto in una nuova prospettiva di “rinascita”, che spero possa essere migliore del periodo antecedente al con-tagio, attraverso un serio intervento da parte dello Stato nell’investire nel di-ritto all’istruzione, sostenendo adegua-tamente i nuclei familiari più disagiati, mediante un progetto politico di ampio respiro che dovrebbe prevedere il coin-

volgimento di tutte le associazioni di vo-lontariato e del terzo settore, e di tutte le altre forze sociali. Insomma occorrerà un gigantesco inve-stimento nella famiglia e nella scuola per vincere le sempre nuove disugua-glianze che crescono nel campo giova-nile, al fine di garantire un futuro diverso, una nuova normalità per i gio-vani e le loro famiglie, improntato ad equità e solidarietà, come sottolinea il rapporto “The future we want” (Il futuro che noi vogliamo), presentato dal Comi-tato italiano dell’Unicef, il 20 novembre 2020, in occasione della Giornata mon-diale dell’infanzia e dell’adolescenza. (1) Roberto Thomas “L’incremento della devianza psicologica e sociale minorile dovuta al corona virus”, Rivista “Polizia Penitenziaria SG&S” n.285, luglio-agosto 2020, pagg. 20 e ss.

Nella foto: studenti contro

la didattica a distanza

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Addio a Ettore Tomassi e Valentino Di Bartolomeo Dirigenti della Polizia Penitenziaria

CAMPOBASSO

Lutto in casa Martinelli

GENOVA

n triste e incomprensibile destino ha accomunato nella morte Ettore Tomassi e Valentino Di Bartolomeo, entrambi dirigenti della Polizia Penitenziaria. I due sfortunati colleghi, ritratti insieme in questa fotografia, sono stati colpiti dal coronavirus che,

aggravato da altre patologie, non gli ha lasciato scampo. Tomassi e Di Bartolomeo provenivano tutti e due da Campobasso, il primo come coman-dante del carcere ed il secondo per nascita.

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Fulvia Di Cristanziano Assistente Capo Coord. di Polizia Penitenziaria [email protected]

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CUCINA DINTORNI

uesta è una ricetta che ho elabo-rato per chi è celiaco, le dosi sono per un esercito, ma non ci sono problemi dato che questi bi-

scotti si mantengono a lungo se conser-vati in scatole di latta o a chiusura ermetica. La maggior parte dei dolci senza glutine sono molto cari, in alcuni casi il loro prezzo è dovuto al costo della materia prima eccellente di cui son composti, ma molto spesso si tratta di mera specula-zione, dato che il primo ingrediente, ossia quello in percentuale più presente, si ri-vela essere zucchero. Con queste dosi si ottengono oltre quat-tro chili di cookies, ora andiamo a vedere come prepararli. Lavorate il burro con lo zucchero, aggiun-gete successivamente le uova, i tuorli, la vaniglia, amalgamate, versate il cioccolato tagliato a pezzi, me-scolate affinché tutto sia av-volto dalla soluzione burrosa. Aggiungere gli ingredienti sec-chi setacciati, ossia la farina di mais, la fecola, il lievito, il bi-carbonato, non dimenticate di aggiungere il pizzico di sale, impa-state fino a quando non otterrete un composto omogeneo. PREPARAZIONE E COTTURA Traferite la frolla sul piano di lavoro leg-germente infarinato, quando tutti gli in-gredienti saranno distribuiti uniforme-

Sono pronti quando assumono un bel co-lore biscottato, prima di trasferirli fateli intiepidire qualche istante in quanto ap-pena sfornati risultano friabilissimi si rapprenderanno man mano che si raf-freddano.

mente, formate dei cilindri dal diametro di 4/5 centimetri, adagiateli su un piatto, e far riposare in frigorifero 6 ore coperti da carta stagnola. Quando i filoncini si saranno rassodati portare il forno a una di temperatura di 170°C, tagliarli in fette da 1 cm e cuo-cere in modalità ventilata per 12/15 mi-nuti, se l’impasto sarà troppo molle perderanno la loro forma diventando piatti.

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COOKIES GLUTEN FREE Ingredienti: 600 gr burro temperatura ambiente 1 kg farina fumetto (farina di mais per dolci) 600 gr zucchero semolato 450 gr cioccolato a scaglie (se usate le gocce, vi scomunico...) 3 uova 3 tuorli 250 gr fecola di mais o patate 1 bustina lievito per dolci 10 gr bicarbonato 3 pizzichi di sale 5 cucchiaini estratto di vaniglia

LA RICETTA

Nelle foto: cookies gluten free

Cookies gluten free

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22 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

l rapporto madre-figlio, in partico-lare la capacità di instaurare un le-game e il senso di protezione o stabilità che ne deriva, determina il

meccanismo principale dello sviluppo dell’aggressività estrema. Più le madri adottano metodi educativi ispirati all’empatia e alla rispondenza, minore risulta lo sviluppo dell’aggressi-vità nei figli.

I figli di madri che si sentono spesso fru-state o irritate nei confronti dei figli, con-siderati peraltro un pesante fardello, sono caratterizzati da una spiccata ag-gressività (1). Esemplare in questo senso è il caso di Andrea Matteucci, nato a Torino il 24 aprile del 1962 e reo confesso di quattro omicidi tra il 1980 e il 1995. Il padre ha numerosi precedenti penali per furto e ricettazione e dopo pochi

Nella foto: Andrea Matteucci

mesi dalla nascita del figlio sparisce nel nulla lasciando la moglie e il neonato nella miseria più totale. La madre, Maria Pandiscia, originaria di Ascoli Satriano, un piccolo paese in pro-vincia di Foggia, ha anch’essa avuto a che fare con la giustizia quando era mino-renne per aver aggredito una rivale in amore e, successivamente, condannata a due anni di reclusione per aver ferito a colpi di pistola l’allora fidanzato perché voleva lasciarla. La donna dopo l’abbandono del marito e senza alcun sostentamento per se e per il figlio decide di affidare il piccolo An-drea ad una zia a Foggia. Il bambino con la zia, che ritiene essere sua madre, cresce in un contesto sereno e felice, sino a quando la madre, all’età di cinque anni, non si presenta a casa della parente per riprenderlo con se. Il bambino non sa chi è quella donna, ma è costretto suo malgrado, in lacrime, a seguirla ad Aosta. Di li a poco il bambino sarà messo in un istituto religioso dove rimane fino all’età di nove anni. Il pomeriggio, dopo la scuola, torna a casa, ma la madre lo tratta male e so-prattutto lo umilia in continuazione in quanto nel figlio vede il suo ex-marito: lo chiama coniglio e lo accusa di essere uguale al padre. Inoltre, la madre fa la prostituta e riceve i clienti nella propria abitazione, dove la sera è presente anche il figlio e quindi questi, anche a causa delle dimensioni della casa, è costretto ad assistere alle “performance” della donna. A questa spiacevole situazione si aggiun-gono anche i racconti che la madre in-culca al figlio in cui si vanta di avere ucciso e ferito due suoi clienti, nonché di aver ammazzato il cane dei vicini. Il ragazzino disturbato dai racconti, dalle continue umiliazioni e soprattutto dalla

visione delle scene sessuali della madre, a cui suo malgrado è costretto ad assi-stere, inizia a maturare un trauma psi-chico insanabile che di li a qualche anno lo trasformerà in un serial killer freddo e spietato. All’età di tredici anni, insieme ad un suo coetaneo, ruba una bicicletta, ma viene subito acciuffato e riempito di botte nella piazza del quartiere dove vive e ad-ditato, davanti ad una folla inferocita, di essere un ladro. L’umiliazione subita a seguito di questa vicenda, accumulata alla situazione di disagio in cui viveva, lo fa cadere in uno stato di depressione ac-compagnato da turbe psichiche e che iniziano a far nascere nel giovane il de-siderio di uccidere. A quattordici anni tenta di rapinare la macelleria dove lavora, anche se nella circostanza gli altri dipendenti non lo prendono sul serio e dopo essersi costi-tuito, il Tribunale decide di metterlo in una comunità, a seguito del rifiuto della madre di riprenderlo nella propria abita-zione. Nella comunità rimane sino a diciotto anni e quando esce inizia a lavorare come meccanico a Quart, un comune vi-cino ad Aosta. La notte del 30 aprile del 1980, nella zona del Teatro Romano di Aosta, Andrea compie il suo primo omicidio. Un uomo lo avvicina e gli chiede se vuole appartarsi con lui. Domenico Raso è un commerciante di Aosta, sposato con due figli ed è segretamente omosessuale. Una volta in intimità, l’uomo invita An-drea a legargli le mani da dietro la schiena prima di avere un coito anale. Prima dell’amplesso il ragazzo lo colpi-sce con un pugno e l’uomo cade a terra stordito. Afferrato per i capelli dal gio-vane viene ripetutamente colpito alla schiena e poi accoltellato. Il commerciante cade a terra esanime e

Pasquale Salemme Segretario Nazionale

del Sappe [email protected]

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«Non voglio che facciamo l’amore per soldi...» Andrea Matteucci, il serial killer di Villenueve

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Andrea scappa via sporco di sangue e con una sensazione mai provata. Il giorno successivo il corpo dell’uomo viene sco-perto e l’intera Aosta è sconvolta dal bru-tale assassino avvenuto nel centro della città. A distanza di qualche mese ad Andrea Matteucci arriva la chiamata al servizio di leva. Svolge la ferma nella Folgore a Li-vorno e si congeda, a malincuore, l’anno successivo con il grado di caporalmag-giore. Purtroppo alcuni episodi poco chiari ac-caduti nel corso del servizio militare, im-pediscono al giovane di firmare per prolungare ulteriormente la ferma. Tornato al paese di lì a poco inizia una re-lazione con Daniela, di qualche anno più piccola di lui, e nel 1983 decide di spo-sarla. I due vanno a vivere prima a Saint Pierre e successivamente si trasferi-scono a Villeneuve dove nel 1987 nasce Christian. E’ una famiglia felice quella di Matteucci, peraltro lui lavora come commesso in un negozio di alimentari e l’omicidio di cui si è macchiato è solo un vago ricordo. Il lavoro di commesso non lo gratifica e quindi decide di imparare il mestiere di scalpellino. Inizia, così, dapprima a lavorare con varie ditte per poi mettersi in proprio apren-dosi una bottega ad Arvier, un paese vi-cino a dove abita. Purtroppo il lavoro non da i risultati spe-rati e i soldi per sostenere la famiglia ini-ziano a scarseggiare. A tutto ciò si aggiungono i continui dissidi con la moglie e le ingerenze dei genitori di questa nel loro rapporto che lo portano ad un nuovo stato di esaurimento. Una sera del 1992, dopo aver chiuso la bottega, decide di andare alla ricerca di una prostituta, come peraltro fa frequen-temente. Nel corso della sua “caccia”, a Brissogne incontra Daniela Zago una prostituta to-rinese con cui si apparta per fare l’amore. Terminata la prestazione sessuale la donna ha fretta di tornare a procacciare nuovi clienti, mentre l’uomo vorrebbe in-trattenersi a parlare. Dopo le rimostranze della donna, la riac-compagna nello stesso posto dove l’aveva trovata.

Il Matteucci però non è soddisfatto del-l’incontro e del successivo rapporto. Per cui ritorna dalla donna e la invita a salire nuovamente sul suo furgoncino per con-sumare una nuova prestazione sessuale. La donna si rifiuta e senza che questa riu-scisse a metabolizzare cosa le stesse ac-cadendo, l’uomo le punta la pistola alla nuca e le spara. La donna ferita e terrorizzata cade a terra e inizia a invocare aiuto. Il Matteucci si offre di accompagnarla in ospedale, ma una volta sul furgoncino, si dirige in un posto isolato e le spara nuo-vamente. La donna muore e, prima di sot-terrarla, le ruba i gioielli con l’intento di regalarli alla moglie. Dopo circa un mese, ritorna sul luogo dove aveva seppellito il corpo della donna

e la riesuma per poi farla a pezzi con un coltello e bruciarne le parti in un bidone. Successivamente disperde le ceneri in una discarica. Nell’aprile del 1992 si separa dalla mo-glie e riallaccia i rapporti con il padre, sino ad allora sconosciuto. L’uomo invita il figlio a seguirlo in Puglia per intrapren-dere affari in comune. Nella realtà il padre al sud ha un deposito dove ricetta furgoni rubati. Il ragazzo ha prestato tutti i suoi risparmi al genitore, nella prospettiva di rifarsi una vita e non potendo più sottrarsi decide di contri-buire all’attività illecita del padre. Così inizia a rubare furgoni nella provincia di

Aosta per poi portarli in Puglia dal padre. Ma questa vita non gli piace e quindi cade nuovamente in uno stato confusione e depressivo. Nell’agosto del 1994 il predatore è nuo-vamente a “caccia” : è il turno di Clara Omorei Bee, una prostituta nigeriana di 26 anni. In località Chambave incontra la ragazza e, anche in questo caso, dopo aver consumato il rapporto vorrebbe in-trattenersi ancora per parlare, ma anche questa, come la precedente, ha necessità di tornare al lavoro. Per giunta la donna si mostra scontrosa e agitata e dopo gli insulti reciproci, l’uomo estrae la pistola e la spara in testa, per poi consumare un ulteriore amplesso con il cadavere. A bordo del suo Ape Piaggio, porta la donna presso la sua abitazione a Ville-

neuve per farla a pezzi e bruciarla all’in-terno di un bidone, con le stesse modalità adottate precedentemente. Il giorno successivo getta le ceneri nella Dora Baltea. Nel successivo mese di set-tembre, nel mentre vaga con la sua Fiat Punto, incontra a Nus la prostituta di co-lore Lucy Omon. I due vanno a casa di lui e dopo un primo rapporto completo a letto e uno successivo in auto, l’uomo la riaccompagna, ma invece di dirigersi verso Nus, dove l’aveva presa, si dirotta ad Avier, dove aveva già sacrificato l’altra prostituta. Giunti nel luogo tenta di ucci-derla soffocandola dapprima con un cu-scino che aveva in auto e poi con uno

Nella foto: Andrea Matteucci scortato al processo

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seminfermo di mente. L’uomo soffre di disturbi psicopatologici di tipo depressivo, non ha controllo sugli impulsi, ha un disturbo dell’identifica-zione psico-sessuale, è un pervertito ses-suale e un necrofilo piromane che soffre di manie ossessive. Il 27 marzo del 1996 inizia il processo a carico di Andrea Matteucci innanzi alla Corte di Aosta, che si concluderà il suc-cessivo 16 aprile con la condanna a ven-totto anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdi-zione dalla patria potestà per la durata della pena e a tre anni di casa di cura. Matteucci viene giudicato colpevole di un solo delitto, quello dell’albanese Albana Dakovi e del tentato omicidio dell’altra prostituta Lucy Omon. L'11 aprile del 1996 Matteucci ritratta la sua confessione. Il 29 aprile del 1997 si apre il processo d’Appello a Torino. Il giorno successive la Corte lo condanna a trenta anni di carcere, più altri tre da scontare in una casa di cura e, pur rico-noscendolo seminfermo di mente, lo ri-tiene responsabile di tutti i delitti dei quali si era autoaccusato. Nel 2017, a cinquantaquattro anni, An-drea Matteucci, è tornato in libertà dopo aver passato gli ultimi anni in un ospe-dale psichiatrico a Reggio Emilia. Alla prossima… (1) Aggressionsmotiv und aggression-shemmung, Kornadt, Hans Joachinm, 1982.

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straccio, ma la donna riesce a scappare per poi mettersi in salvo. Nel dicembre del 1994 si fidanza con una ragazza, Anna, ma seppur la coppia sembra felice, le frustrazioni e la rabbia che si annidano nell’uomo riesplodono nella furia omicida. Nel mese di aprile 1995 viene fermato da una pattuglia della Polizia Stradale alla guida di un'auto rubata. Se la cava con l'imposizione dell'obbligo di firma a Saint-Pierre, senza carcere. Il successivo 12 maggio, si dirige verso Arnauld in cerca di una nuova preda. Incontra Albana Dakoi, una ventenne prostituta albanese. I due fanno sesso nel furgone dell’uomo e successivamente la riporta nel luogo dove l’aveva incontrata. Dopo qualche ora, la raggiunge nuovamente, ma questa volta solo per parlare. Al rifiuto della ra-gazza, le da uno schiaffo e la spinge fuori dal furgone. Una volta fermato il mezzo raggiunge la donna e con una chiave in-glese la colpisce alla testa, per poi ta-gliarle la gola con un coltello. Carica il cadavere della donna sul furgone per di-sfarsene, ma nel corso del tragitto è co-stretto a fermarsi a fare benzina. Porta la donna morta nella sua casa e, dopo circa otto ore, ha un rapporto sessuale con lei, con il preservativo. Strappa dal collo della ragazza una catenina d’oro per regalarla alla compagna. Il giorno successivo parte per la Puglia, per consegnare un furgone rubato al padre e lascia il cadavere in uno sgabuz-zino della sua casa.

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uesto libro raccoglie tutti gli articoli pubblicati sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria SG&S, nella rubrica Crimini e criminali. La mia passione per il fenomeno criminale mi spinse, anni orsono, a proporre al direttore della Rivista, Gianni de Blasis, di curare una rubrica ad hoc –

da chiamare appunto Crimini e criminali – nella quale raccontare e commentare la storia dei crimini più efferati e dei criminali più famosi assurti a protagonisti della cronaca nera. Col passare del tempo, dopo tantissimi argomenti trattati, ho ricevuto molti complimenti ed attestazioni di stima da amici e colleghi e ho anche avuto l’onore di essere citato in opere di terzi. Tutto ciò mi ha convinto, dunque, a racco-gliere in volume gli oltre cento articoli pubblicati. Gli articoli trattano il fenomeno criminale in tutte le sue sfaccettature, spaziando dai serial killer alle bande criminali, dalle stragi ai tanti delitti assurti agli onori della cronaca, compresi anche quelli dimenticati o rimasti irrisolti.

Pasquale Salemme

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Rientra a Villeneuve il successivo 17 maggio. Come oramai da prassi fa a pez-zetti il cadavere, utilizzando il solito col-tello, e lo porta ad Avier, dove una volta inseriti in un bidone gli dà fuoco. Anche in questa occasione butta le cenere nel fiume Dora Baltea. Il 26 maggio del 1995 il serial killer viene arrestato con l’accusa di essere l’assassino di Albana Dakoi. A suo carico c’è la testimonianza di un uomo che ha visto caricare il corpo senza vita della donna, prima della sua scom-parsa. Oltremodo, gli inquirenti trovano delle tracce di sangue sul furgone del Matteucci. Il giorno successivo, nel corso dell’interrogatorio, confessa l’omicidio, anche se sostiene che si sia trattato di un incidente. Le dichiarazioni dell’uomo e le contraddizioni evidenziate nel corso della deposizione, inducono gli inquirenti a rispolverare vecchi casi di prostitute scomparse nella zona. A tutto ciò si aggiunge la deposizione resa da Lucy Omon, la ragazza di colore che era riuscita a fuggire nel settembre del 1994 dalle grinfie del Matteucci. Messo alle strette confessa i quattro omicidi, gli atti di vilipendio sui cadaveri e che ha disperso le ceneri degli stessi dopo averli bruciati. Il 16 novembre del 1995, a seguito di una perizia psichiatrica, disposta dal PM Pa-squale Longarini, il criminologo e psichia-tra forense Francesco Bruno e il neuropsichiatra Anselmo Zanalda, stabi-liscono che Matteucci quando uccideva e sezionava i corpi delle sue vittime era

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Nella foto: un Comandante, Napoleone Bonaparte

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lavora all’interno del contesto organizza-tivo di categoria. Ed in tal senso si sus-seguono tutta una serie di emozioni e riflessioni. La prima reazione è duplice: delusione e disillusione verso quello che da un mo-mento all’altro si è trasformato da punto di riferimento ad estrema delusione, fa-cendo salire una rabbia verso noi stessi, così ciechi ed ingenui da esserci fidati della persona sbagliata. Quanto alla figura del ruolo apicale di un reparto penitenziario, quella del coman-dante, vorrei soffermarmi per esprimere alcune riflessioni. Già di per sé la parola “comandante” riveste da sempre un suo fascino, un baluardo importante nell’al-veo della nostra amministrazione. Sono assolutamente convinto che co-mandante non si nasce ma si diventa. L’arte di guidare gli altri consiste in abi-tudini e capacità che non si ereditano ma si acquistano con il tempo, con l’espe-rienza e con la pratica. Il primo passo per diventare un coman-dante è quello di essere un buon collabo-ratore ed acquisire le qualità fondamentali che occorrono per guidare gli uomini. Un fattore molto importante nell’etica del comando è la disponibilità verso i propri uomini. In questo contesto è fon-damentale la distinzione tra il coman-dante che intende unicamente accentuare il proprio potere ed il coman-dante che attraverso la sua attività per-segue l’obiettivo di migliorare la qualità del servizio. I compiti principali del comandante sono quelli di ideare, risolvere i problemi, ca-pire i bisogni. Il comandante deve essere un modello da trasmettere agli altri fatto di sincerità nei rapporti, di coraggio e de-terminazione nelle decisioni, di giustizia nelle valutazioni, di sana umiltà: solo in presenza di questi elementi la disponibi-

a delusione di imbattersi in per-sone che sul lungo percorso si di-mostrano diverse da come si erano presentate, è uno dei temi

che mi ha sempre manifestato soffe-renza, preso forse da una incontrollabile sensibilità, ma anche e soprattutto anco-rato a quei valori che mi hanno nel tempo arricchito con orgoglio e che preferisco a titoli, qualifiche e riconoscimenti. Nel 1997 risposi ad un’inserzione che re-clutava ex militari per il Corpo della Po-lizia Penitenziaria ed in breve tempo mi sono trovato nella lontana Verbania per il corso di formazione. Serbavi nel tuo io tutta una serie di aspettative, ti facevi prendere dai buon-temponi che si avvicendavano alla catte-dra per esaltare il tuo nuovo contesto, imprimendo il tutto sull’onestà, credibi-lità e affidabilità di uomini che, seppure impegnati in un contesto particolare quale è il carcere, rendono un servizio di altissimo livello e spessore per la causa del nostro Paese. Terminato il corso, scelsi come destina-zione Modena, facendo partire da lì il mio percorso lavorativo, la culla delle mie tantissime esperienze professionali ma anche umane. E come in tutti i contesti, l’amarezza più grande è stata quella di imbattersi spesso in delusioni di natura interperso-nale, compresa quella con soggetti che rivestivano ruoli apicali. Eh si, la delusione di conoscere vertici che si dimostrano tutt’altro che affidabili all’interno di un’Amministrazione, nel no-stro caso quello Penitenziario, non può che rappresentare per un appartenente al Corpo una fortissima delusione. Sono ventiquattro anni che tra attività professionale e sindacale ho avuto modo di conoscere diverse Autorità: Provvedi-tori, Direttori, Comandanti, non tutti in grado di trasmettere un esempio per chi

L

lità del comandante non potrà mai essere intesa come cedimento. Gli aspetti negativi del binomio capo-co-mando possono riscontrarsi nel dispoti-smo che si palesa nella scelta di pessimi collaboratori di fiducia, nell’invidia o nell’eccessiva magnanimità. Nei corsi di formazione si possono inse-gnare le norme, le tecniche operative ma è difficile infondere nei discenti l’insieme di convinzioni, atteggiamenti, sensazioni, princìpi, condotte nelle quali si esplica, ad ogni livello, l’arte del comando. Il termine “arte” potrebbe apparire esa-gerato ma per comandare non è suffi-ciente “dare ordini e farsi ubbidire” ma occorre saper coinvolgere, motivare ed indirizzare i propri uomini e garantirsene la stima incondizionata. E soprattutto, il massimo per un coman-dante è ricevere una stima incondizio-

nata dai propri uomini. Non esiste sconfitta peggiore che non essere amati e considerati dai propri uo-mini. Il comandante assegna gli obiettivi con-frontandosi con i suoi collaboratori più stretti circa le modalità per perseguirli, valuta i risultati, è responsabile della cre-scita dei propri collaboratori, fornisce in-formazioni, fornisce risorse, incoraggia e genera autostima nei propri uomini, in-fonde motivazioni. Quando non si è in grado di assicurare tutto questo, per me (e, ripeto per me!!) è, senza dubbio, alcuno un vero falli-mento. Anche la scelta oculata dei propri colla-boratori è fondamentale per chi ha re-sponsabilità di comando.

Francesco Campobasso Segretario Nazionale del Sappe [email protected]

L’abito non fa il monaco

s

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Questa selezione va inquadrata non come un processo finalizzato esclusivamente ad escludere gli inadatti ma come un processo che tende ad assegnare ad ogni individuo la mansione più adatta alle sue caratteristiche facendo attenzione anche alla soddisfazione professionale dello stesso. Questa valutazione consiste nel-l’indagare ed approfondire tutte le ri-sorse personali di un collaboratore, non solo quelle strettamente professionali ma anche quelle caratteriali e personali. Valutare con attenzione il personale di cui si dispone è assolutamente produ-cente e vantaggioso. Nella mia esperienza personale ho cono-sciuto diversi comandanti (ne conto ad oggi quattordici), tutti diversi tra loro, e

da ognuno ho avuto comunque un inse-gnamento di qualche tipo. Alcuni di loro hanno saputo trasmettermi nozioni che riesco ad esprimere in questo articolo, altri mi hanno dato la capacità di poter insegnare agli altri seguendo il loro esempio. Da altri ancora ho avuto profonde delu-sioni, ma anche da questi ho saputo trarre insegnamento, ovverosia che non c’è mai rimedio al peggio. Credo che ogni esperienza professionale, anche quelle più deludenti, lascino comunque un ba-gaglio professionale che ti aiuta ad af-frontare le problematiche future con maggiore forza. Soprattutto ti aiutano a ricordare che nella vita mai nulla può es-sere dato per scontato e che nulla è dav-vero impossibile. Quante volte ci è capitato di incontrare persone che non ci ispirano fiducia? Il nostro giudizio iniziale si basa inevita-

Nella foto: l’abito non fa

il monaco?

bilmente sul loro modo di porsi o, magari, se abbiamo occasione di avere un con-tatto più ravvicinato, le giudichiamo per il modo di esprimersi e l’atteggiamento. Ma le loro idee? La loro sensibilità? Il come veramente sono al di là dell’appa-renza? Beh, per scoprire questo abbiamo la ne-cessità di scavare molto più all’interno, di oltrepassare la buccia esteriore per tuffarci nel succo della loro reale so-stanza. Arriva da un momento all’altro, in un modo del tutto inaspettato e ci lascia at-toniti, annichiliti, incapaci di reagire. E quando tutto questo lo rilevi nel tuo co-mandante, allora tutto diventa molto tri-ste. E’ il tradimento di una persona a cui

avevamo dato la nostra fiducia incondi-zionata. L'espressione “l’abito non fa il monaco” ci invita a diffidare delle appa-renze, non di rado ingannevoli, nel giudi-care una persona, evitando quindi di esprimere valutazioni precipitose e su-perficiali sul suo conto. Spesso le persone non sono come appa-iono a prima vista, anzi molte volte sono l’opposto. Per questo motivo si dice che spesso le apparenze ingannino. L’idea chiave sulla quale si fonda questo proverbio è quella dell’apparenza e l’ap-parenza ha a che fare con la "bellezza": inconsapevolmente, giudichiamo chi ab-biamo di fronte basandoci sui suoi vestiti, "belli" oppure no, ma dimentichiamo che la bellezza è personale! Una persona che ritenevamo al di sopra di ogni sospetto, e davanti alla quale ave-vamo abbassato tutte le nostre difese aprendo il nostro cuore in modo incondi-

zionato. Ed elaborare la delusione è dif-ficile, c’è solo una domanda: “Perché?”. E si susseguono stati d’animo diversi e contrapposti, desiderio di vendetta, spe-ranza di poter recuperare tutto, ma in certe situazioni ha il sopravvento il ran-core che si associa ad un senso di vuoto. Le nostre aspettative sono deluse e più avevamo investito su di lui, più ci trove-remo vulnerabili e fragili. Avremmo potuto capire a cosa stavamo andando incontro? Forse sì. Probabilmente qualche cambiamento più o meno evidente nelle consuetudini, forse la normale evoluzione che attra-versa ogni persona, o una qualche tem-poranea urgenza emotiva che ha distratto il tuo superiore gerarchico dal rapporto di condivisione che pensavi di avere. Poco importa, la delusione di es-serti imbattuto in una persona che si è dimostrata diversa, di colpo ti porta ad essere orfano di una parte di te. Vincere la delusione, ci fornisce anche una piccola consolazione: questa soffe-renza avrà anche un risvolto positivo, la delusione ci porterà a porci delle do-mande su di noi, sulle nostre aspettative e le nostre esigenze, su cosa cerchiamo e perché, e grazie a questo processo im-pareremo a conoscere meglio noi stessi e a conquistare una consapevolezza pre-ziosa nel nostro processo di crescita per-sonale. Ed anche lo stesso significato che si rivolge al termine “amicizia”. Cos’è l’amicizia? Oggi il termine risulta inflazionato, si tende a conferirgli un si-gnificato generale e si racchiudono in questa parola gran parte dei rapporti cordiali che possono intercorrere tra due persone. Se vogliamo attribuirle il suo si-gnificato più vero e profondo, l’amicizia è la relazione fra due persone che hanno come priorità il bene dell’altro. Se cerchiamo una definizione su un di-zionario, troveremo più o meno questo: l’amicizia è reciproco affetto costante e operoso nato da una scelta che tiene conto della conformità dei valori o dei caratteri e da una prolungata consuetu-dine. E’ anche un sentimento complesso che nessuna teoria può spiegare del tutto. L’amicizia può comprendere l’amore ma l’amore non può comprendere l’amicizia

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tra le due è l’amicizia la relazione più pura e disinteressata, dunque la più ele-vata; e ciò che sta più in alto può com-prendere ciò che sta più in basso, ma non è possibile il contrario Il tradimento dell’amicizia fatica a tro-vare giustificazioni perché l’amicizia non è di per sé accomodante, è più dogma-tica dell’amore, non accetta sfumature di comodo ma solo colori primari. Se viene tradita è per sempre e raramente ciò avviene per questioni futili o superfi-ciali. I tentativi di giustificarsi hanno poco effetto perché l’amicizia non si fonda su sentimenti dichiarati, più o meno enfatizzati, ma su fatti indiscutibili che la vita valuta in modo definitivo. Per concludere, tentiamo di darci una ri-sposta: una volta che la stima verso un comandante si è dissolta, così come l’amicizia tradita, è possibile perdonare il comandante o l’amico traditore? No, se il suo tradimento è stato intenzio-nale, se non si è curato di noi e dei nostri sentimenti, se non ammette l’errore e non si scusa in modo sincero. In alcuni casi, però, il perdono è possibile. Questo può accadere quando la man-canza non era deliberatamente volta a danneggiarci, quando il pentimento è sincero. L’incrinatura nel rapporto richie-derà tempo e buona volontà da entrambe le parti per provare a ricomporsi ma re-cuperare l’amico è possibile. A patto che si sia convinti che continui a valerne la pena. L’amicizia nasce dal rispetto delle differenze, da grandi momenti di intimità, dalla capacità di mettersi a nudo, dal di-ritto di sbagliare e dal dialogo. Parlate molto, ma soprattutto, dite la ve-rità. E con i superiori gerarchici, con i propri comandanti, sarà difficile accet-tare azioni che nulla hanno a che fare con la lealtà e professionalità. Anche per chi solitamente si affida ad un nugolo di fe-delissimi per raggiungere proprie mete. Ed anche chi posto al vertice di un re-parto fatto di uomini che credono negli ideali del Corpo della Polizia Penitenzia-ria, non accetterà mai che una cospira-zione sia mossa da individui che a vario titolo vogliono fare emergere la propria individualità. E chi li capeggia, chi si pone al vertice di una simile organizza-zione, farà sempre fallire le loro missioni,

perché sanno aspettare i tempi, si fanno riconoscere, quasi ammiccano con il de-siderio che gli uomini si accorgano del loro complotto. Insomma, a loro non im-porta il bene collettivo, nella maggior parte dei casi vogliono che gli uomini sappiano che loro sono dei grandi anche se non lo sono nella realtà, e per questo mettono a rischio il proprio destino. Si bruciano. Vogliono una seconda occa-sione, contro le stesse persone che li hanno delusi, derisi, esclusi e ostacolati. Quando alla fine si sentono quasi scon-fitti, la loro ultima carta è trasformarsi in una specie di giganti che esprimono la loro individualità, le loro peculiarità e le rivelano. Neanche a dirlo, perdono sem-pre, e anche presto, nonostante la fanta-sia delle loro armi, come nei cartoni che amavo vedere da bambino di Daitarn III, che ricorreva sempre al solito trucco, l’energia solare. E per analogia mi ricordo il grande capo, Don Zauker, che in teoria dovrebbe guidare tutti telepaticamente, essendo una specie androide rudimen-tale con un cervello potentissimo, che parla per vibrazioni e ha una faccia robo-tica fissa. Il bello è che probabilmente Don Zauker non riesce a comunicare un bel niente, e che il comandante capo, Koros, è invece la vera autrice degli or-dini. Forse potrebbero anche andare d’accordo, ma evidentemente il narcisi-smo, l’istrionismo e la paranoia preval-gono sulla possibilità di un dialogo. I meganoidi ambiscono a diventare grandi per far guerra agli altri e in questo modo la causa della pace universale che dovrebbe essere il loro fine ultimo va a farsi benedire. E’ come se il loro cervello fosse diviso in una parte che vuole sem-plice- mente la serenità e in una che non può fare a meno di far scoppiare delle risse. Per contro, probabilmente Don Zauker riesce solo a rendersi conto che l’umanità gli si oppone, ma non immagina che sia perché i suoi comandanti sono dei casinisti rissosi. Così, in buona fede, egli continua a predicare una missione utopica, tradito dai suoi stessi generali che si perdono in risse spicciole e ven-dette personali, mentre l’umanità non può far altro che adeguarsi e contrastarli. Ed è proprio il caso di dirlo… l’abito non fa il monaco!! l

on Voci nel silenzio Bruno Morchio scava nel-l’intimo del suo personaggio più amato, l’inve-stigatore dei carruggi Bacci Pagano. Presente e passato si intrecciano magistral-

mente a disegnare il ritratto, lucido e spietato, non solo di alcune pagine mai dimenticate della storia del nostro paese, ma soprattutto di chi, con quei giorni, non è riu-scito a fare pace. Aprile 2020: l'Italia è immersa nel silenzio agghiacciante del coprifuoco sanitario decretato dal governo per contrastare la diffusione della pandemia. All'improvviso, il trillo del tele-fono sorprende Bacci Pagano e una telefonata inaspettata lo fa ripiombare negli anni più bui della sua esistenza: quelli trascorsi in carcere a seguito di un'ingiusta condanna per terrorismo. A cercarlo è la fi-glia di un ex brigatista, Beppe Bortoli, che l'investigatore genovese anni prima ha sca-gionato dall'accusa di omicidio. Di lì a poco, la ragazza gli fa pervenire in busta chiusa una lettera del padre, di cui ignora il contenuto, e sulla quale gli chiede di in-vestigare. E mentre la vecchia indagine riprende vita, una nuova ne scaturisce, improbabile perché condotta senza uscire di casa (o quasi). Ad aiutare Bacci, con informazioni e consigli, le voci degli amici di sempre - il vicequestore in pensione Totò Pertusiello e l'ex poli-ziotto penitenziario Virgilio Loi - e della sua nuova fiamma, la maestra elementare Giulia Corsini. Ma un silenzio ancora più inquietante lo attende: quello esalato da una memoria frammentata e confusa, po-polata dagli spettri del passato. Le losche macchinazioni di un presunto rivoluzionario che a Pagano è sempre sembrato un baro, un «uomo mediocre», l'epifania d'una breve storia d'amore con-sumata in una piantagione di Cuba, le ferite d'un pas-sato a cui neanche l'oblio può recare sollievo, porteranno l'investigatore a misurarsi con un tragico dilemma: raccontare quello che ha scoperto, e liberar-sene, o reggere fino in fondo l'insostenibile peso della verità? Erremme

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Bruno Morchio VOCI NEL SILENZIO. Dalla quarantena, Bacci Pagano e gli spettri del passato GARZANTI Edizioni pagg. 192 - euro 17,90

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Antonio Montuori [email protected]

Il mio unico piacere, perciò, era quello di pascermi di chimerici progetti per recuperare la libertà

senza la quale non volevo più vivere. Non facevo altro che pensare alla fuga per-ché, ero persuaso che ci sarei riuscito soltanto a forza di pensarci". Sono queste le parole con cui Giacomo Casanova meditava la sua fuga dalle te-mibili prigioni di Palazzo Ducale, dive-nuta oltremodo celebre perché avvolta da tra realtà e fantasia. Scopriamo il perché.

Il palazzo Ducale sorge nell’area monu-mentale della strabiliante piazza San Marco, è formato da tre grandi corpi di fabbrica che hanno inglobato e unificato le precedenti costruzioni. La sua bellezza si basa su un astuto pa-radosso estetico (e fisico), connesso al fatto che la pesante mole del corpo prin-cipale è sorretta da colonnati intarsiati apparentemente esili. Grazie ai rapporti commerciali e culturali della Serenissima, gli ingegneri veneziani avevano preso spunto sia dall’architet-tura bizantina che da quella orientale creando di fatto il “gotico veneziano”. Il palazzo per secoli è stata la sede del

Venezia, i luoghi della paura ai tempi della Serenissima

Nelle foto: sopra

il Palazzo Ducale a Venezia

a destra

le prigioni all’interno del palazzo

gusto e spaventoso, un pozzo ligneo sulle cui strette balconate si aprivano le celle dei detenuti in attesa di giudizio. Qui si mettevano in atto pratiche in ve-rità diffuse un po' ovunque in Europa, volte ad estorcere confessioni e verità a suon di atroci sofferenze. Quella più diffusa era il  metodo della corda a cui venivano legati i polsi dei de-tenuti, e pian piano tirati su e appesi nel vuoto, fino a confessione pronunciata. Ma la malvagità della pratica aveva anche una forma indiretta: non era certo

un caso che le celle dei detenuti prospet-tassero su questo profondo pozzo. L’intento dei torturatori era proprio quello di fare in modo che le urla dei mal-capitati si potessero sentire forti e chiare, così tanto da spaventare oltre-modo gli altri reclusi, e quindi accelerare la pratica della loro ammissione di col-pevolezza. Ma dove finivano poi i detenuti ritenuti colpevoli e condannati? Ma ovviamente in prigione! Già, perché nella dimora del Doge non si amministrava solo la giustizia, ma si de-tenevano anche i delinquenti, e queste strutture erano senza dubbio i luoghi più

Doge e delle sue Magistrature, ed ha se-guito dai suoi albori fino alla sua defini-tiva caduta, la multisecolare storia della gloriosa Repubblica della Serenissima. Dunque per secoli nelle sale di questo elegantissimo edificio sono state prese tutte le decisioni di carattere politico/militare e commerciale della Re-pubblica, nonché quelle inerenti alla giu-stizia. Va subito precisato che la giustizia alla Serenissima era qualcosa di molto serio. Considerata incorruttibile e asso-lutamente imparziale, si diceva che non

guardava in faccia a nessuno, in nome della più cristallina legalità.  La Repubblica, infatti, teneva un vero pugno duro verso malfattori e delin-quenti, di qualsiasi estrazione sociale questi fossero. Bastava poco perché si desse inizio ad un processo a Venezia: era, infatti, suffi-ciente una denuncia anonima fatta reca-pitare al Palazzo in forma epistolare, imbucata in particolari e scenografi-che "cassette postali"  marmoree, dalle sembianze tra l'umano ed il mostruoso. Ma la severità della giustizia veneziana si manifestava perfettamente in quella che era la sala delle torture: un luogo an-

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duri in cui trascorrere gli anni di reclu-sione. Ed ecco i luoghi della PAURA. Va precisato che la natura dei reati coin-cideva con differenti collocazioni: infatti all'interno del Palazzo vi erano due spazi: “I Pozzi” e “I Piombi”.  I Pozzi erano senza dubbio il luogo più duro in cui scontare le proprie colpe. Il nome lo devono alla loro collocazione al-l'interno della struttura, quel piano così basso che nei giorni di alta marea si al-lagava divenendo un vero e proprio pozzo. La struttura era a "cerchi concentrici" : le celle occupavano la parte centrale del piano, e tutto intorno vi girava un corri-doio in cui circolavano soltanto i custodi per la sorveglianza dei detenuti.  Questo voleva significare che le celle non avevano alcun contatto con l'esterno, prive di aria e di luce diretta: l'unica luce che vi arrivava era quella delle finestre quadrate del corridoio. 

Troppo poco per riuscire a distinguere il giorno dalla notte, il buono dal cattivo tempo. Queste erano tutte pressoché uguali: piccole, anguste e col soffitto vol-tato, ma tanto basse al punto che non tutti detenuti riuscivano ad assumere una posizione eretta. Nei Pozzi venivano rinchiusi i detenuti rei dei delitti più gravi, a da qui non sempre si usciva vivi. Per questo molti di loro cercarono di lasciare una traccia del loro passaggio, di fatto ancora oggi, è facile ritrovare durante la visita a questi spazi, iscrizioni e graffiti. Vita migliore avevano invece i detenuti rinchiusi ai Piombi: erano infatti il luogo

Va anche detto che ben presto la carceri collocate all’interno del Palazzo si rivela-rono insufficienti al numero sempre più crescente di crimini da punire con la re-clusione. Si decise quindi di costruire una struttura esclusivamente dedicata alla detenzione: sorsero così le Prigioni Nuove, primis-simo esempio in Europa di costruzione uni-funzionale avente come destinazione le carceri di Stato. La scelta cadde su uno spazio non distante dal Palazzo del Doge, quello al di là di Rio di Palazzo. L'intento era quello di creare una strut-tura dove le condizioni di detenzione fos-sero migliori, garantendo soprattutto aerazione ed illuminazione naturale, non-ché ampi spazi per i reclusi. I prigionieri arrivavano alle Prigioni Nuove dopo esse stati processati a Pa-lazzo Ducale: per questo motivo si pensò di ideare un collegamento diretto tra la

costruzione nuova e quella esistente. Il collegamento in questione non è altro che uno degli emblemi di Venezia, e cioè: il famosissimo “Ponte dei sospiri”. Si racconta che il ponte deve il suo nome ai sospiri tirati dai detenuti nel vedere per l'ultima volta il mondo esterno. Realtà o poetica leggenda? Domanda le-cita poiché in verità dalle finestre del ponte ben poco si vede della Laguna, e di sicuro vide più lacrime che sorrisi. Oggi è definito il ponte degli innamorati, ma forse sarebbe meglio dire degli inna-morati della libertà ormai perduta... Felice terra la nostra. Tesori da (ri)sco-prire. Tesori da preservare.

Nelle foto: sopra il Ponte dei sospiri a sinistra una dele cassette postatli per le denunce anonime in alto Ritratto di Giacomo Casanova

l

dove scontavano le loro pene i nobili, op-pure i rei di reati poco gravi. Queste pri-gioni erano così chiamate grazie alla loro collocazione all'interno del Palazzo: si tro-vavano infatti sotto il tetto di copertura, realizzato con delle lastre di piombo. La differenza sociale dei detenuti qui era piuttosto netta: quelli dei Piombi gode-vano di alcuni privilegi, come la possibi-lità di farsi recapitare dall'esterno quotidianamente il pasto e finanche fia-schi di buon vino. Tanti personaggi illustri furono rinchiusi in quelle celle, tra cui ricordiamo: Daniele Manin, Nicolò Tommaseo, nonché Gia-como Casanova. Quest’ultimo fu qui rin-chiuso dal 25 Luglio del 1755 sino al 31 Ottobre del 1756, accusato di vari reati, come calunnia, massoneria, brogli nel gioco d'azzardo, e sicuramente cono-scendo le sue viziose e impenitenti abi-tudini, anche di libertinaggio. I Piombi erano considerati un luogo as-solutamente sicuro e a prova di evasione, eppure nella notte del 31 Ottobre del 1756, Casanova con la sua astuzia riuscì a scappare. Egli narrò di aver eseguito, durante le settimane precedenti un foro nel soffitto della sua cella. In quella cele-bre notte lo attraversò riuscendo a rag-giungere il tetto esterno, attraversò un abbaino per potersi riportare all'interno del Palazzo, in modo da raggiungere il piano terra attraverso le scale. Con la massima calma ed estrema disinvoltura, si presentò davanti al portone d’ingresso. Il soldato di guardia non lo riconobbe, anzi lo scambiò per un visitatore rimasto rinchiuso per errore; pertanto gli aprì il portone e gli consentì tranquillamente di uscire, liberando inconsapevolmente un prigioniero. E fu così; Casanova entrato in quel Palazzo in manette vi uscì dalla porta principale, alla volta della libertà e di nuove impenitenti avventure. Verità o fantasia? Beh, chi può stabilirlo? Concediamoci un po' di sano romantici-smo e lasciamoci sedurre anche noi dalle suadenti parole del grande seduttore.

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il passo. Il pensiero dominante era quello di arrivare in condizioni fisicamente di-gnitose, nonostante la lunghissima cam-minata, per presentarmi ai nuovi superiori. Se considero che dal giorno del mio con-gedo, dopo quattro anni in guerra, erano trascorsi appena quaranta giorni e ini-ziavo un nuovo ingaggio con le stellette, non posso fare a meno di pensare che dopo tutto non aveva tutti i torti quel vecchio saggio senza nome e senza

tempo, che affermava che il povero nasce dentro una gabbia di ferro con un robusto lucchettone nello stomaco, ma privo della chiave per aprirlo. Ero soddisfatto perché convinto di aver trovato finalmente quella chiave. Iniziava così la mia carriera di Agente di Custo-dia nelle carceri. La colonia penale di Castiadas o meglio "Casa di lavoro all'aperto", all'epoca del mio arrivo ospitava circa duemila re-clusi, diverse centinaia condannati per reati militari, quasi tutti erano soldati che avevano commesso atti d'insubordi-nazione, disertato o altro, molti di questi me li ritrovavo dall'altra parte della bar-

uesti miei ricordi, sicuramente espressi in una forma letteraria e sintattica approssimativa, hanno la sola pretesa di descri-

vere esperienze vissute in un mondo sconosciuto ai più, a testimonianza dei sacrifici che il lavoro umano richiede. Sono trascorsi 55 anni, e sono ancora oggi quaranta circa, i chilometri che se-parano il mio paese, San Vito, da Castia-das, è cambiato solo lo sterrato col brecciame sostituito con l'asfalto.

Quando ripercorro in macchina, dopo tanti anni, quel tratto di strada mi tor-nano alla mente, e le rivivo, le stesse sensazioni, le ansie e le angosce, pen-sando all'incognita cui andavo incontro. I tempi erano bui e tristi, l'Italia in pezzi, gli animi divisi; rientravamo sconfitti e umiliati senza prospettive immediate di qualsiasi lavoro. Era di sabato, il 14 settembre 1945. Camminavo spedito per raggiungere la colonia penale in ore d'ufficio, ero gio-vane, avevo solo ventitrè anni le poche cose che avevo in spalla dentro un ta-scapane militare tedesco, rimediato in guerra, mi rendevano agevole e leggero

Castiadas: il riscatto delle coscienze di Gino Lai - Cav. Maresciallo Magg. Scelto degli Agenti di Custodia in congedo

ricata, essendo stati in guerra miei com-militoni. L'edificio della Centrale era una struttura stile governativo tardo otto-cento, elegante architettonicamente, lontanissimo dal rappresentare a prima vista la sua vera funzione. Quando si var-cava il primo cancello del corpo di guar-

dia, un bellissimo giardino con curatissime aiuole fiorite, apriva il cuore alle più rosee speranze. Le palazzine della direzione e dell'ospe-daletto erano prospicienti. Il penitenzia-rio vero e proprio, sovrastato da una torre merlata con orologio, costituiva la parte centrale del complesso edilizio. Il mio primo impatto con i detenuti, il giorno successivo all'assunzione in ser-vizio, fu a dir poco di grande disagio, ero sconvolto, sapevo benissimo qual'era il motivo per cui ero lì, ma non lo accet-tavo, mi stava crollando addosso quel mondo ideale che mi ero costruito da ra-gazzo, mi rendevo conto di aver sognato

30 • Polizia Penitenziaria n. 290 • GENNAIO 2021

Q

a cura di Giovanni Battista

de Blasis [email protected]

Quasi trenta anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile

Polizia Penitenziaria - Società Giustizia &

Sicurezza la dignità di

qualificata fonte storica, oltre quella di

autorevole voce di opinione.

La consapevolezza di aver acquisito questo

ruolo ci ha convinto dell’opportunità di

introdurre una rubrica - Come Scrivevamo -

che contenga una copia anastatica di un articolo di

particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro.

A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di

riprodurre la copertina, l’indice e la

vignetta del numero originale della Rivista

nel quale fu pubblicato.

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un avvenire diverso; la delusione mi fa-ceva star male, capivo di essere stato punito nella mia presunzione, avevo vo-lato troppo alto e, di punto in bianco mi trovavo scaraventato in terra, dove era stabilito da altri che io dovessi stare. La prima volta che vidi il direttore, scor-tato con deferenza dal Comandante, ri-masi favorevolmente colpito dall'aspetto austero dell'uomo, il cui tratto era quello di un vecchio ufficiale abituato alla cura del rigore formale. Il medico della Colonia Penale era un to-scano oltre i sessant'anni, alto di statura, oltre il normale, allampanato, con un grande cappellaccio in testa come quello che ricordavo di aver visto, in una foto, al poeta Giovanni Pascoli, anch'egli to-scano, se pur di adozione. Il dottor Sanguinetti, così si chiamava, dirigeva l'ospedale, era un tipo un po' strano, sicuramente con qualche pro-blema psicologico, non era sposato, camminava sempre con la faccia e lo sguardo rivolto verso la punta dei suoi stivali. Il suo abbigliamento era sempre lo stesso, sia in inverno che in estate; una pesante giacca di velluto marrone stinto dall'uso, pantaloni dello stesso panno con lo sbuffo ricadente sul ginocchio al-l'altezza dell'attaccatura dello stivale. Per recarsi a visitare gli ammalati nei di-staccamenti lontani dalla Centrale, usava il cavallo di sua proprietà, molto piccolo rispetto a lui, tant’è che quando cavalcava, i piedi, dentro le staffe, toc-cavano quasi il terreno. Era la materia-lizzazione del personaggio innamorato di Dulcinea, mirabilmente descritto dal Cervantes nel suo Don Chisciotte. Il Cappellano completava la terna evo-luta intellettualmente a garanzia delle leggi dello stato di diritto, nonché dei va-lori umani e religiosi della fede cristiana. Mi è molto difficile sottrarmi dal descri-vere la figura di Don Vito, questo vecchio magrissimo, rinsecchitosi dentro la sua tonaca lisa e malamente rabberciata, priva degli ultimi bottoni vicino al collo e senza la bianca collottola. Le sue ore più drammatiche le viveva una volta la settimana quando celebrava la messa domenicale per i detenuti e trasformava il commento delle sacre

scritture in una requisitoria feroce con-tro i reprobi, egli ormai istituzionalizza-tosi, più che il Vangelo, predicava il codice penale. I duemila problemi esistenziali, conse-guenti allo stato di coazione, si aggrava-vano con la sofferenza fisica dovuta alla malattia endemica che falcidiava senza distinzione tanto a destra che a manca. La malaria, nelle sue forme perniciose più gravi, mieteva un gran numero di vit-time sia fra i reclusi che nel personale della guarnigione e i loro familiari; so-prattutto in conseguenza della man-canza di disponibilità del chinino, scomparso a causa della guerra e sosti-tuito con un surrogato autarchico inef-ficace, detto italalchine. La sofferenza fisica e degli animi agiva in ognuno come un dolce anestetico, stemperando nel subconscio l'asprezza

del carattere a favore di una fatalistica rassegnazione. Tutto questo poteva essere considerato uno dei motivi principali che influivano beneficamente sul buon funzionamento di una comunità atipica le cui regole comportamentali erano rigorosamente stabilite e fatte rispettare fuori ogni di-scussione. La Colonia Penale poteva considerarsi alla stessa stregua di una grande azienda agricola statale il cui scopo isti-tuzionale era quello della bonifica dei terreni malsani e incolti per essere suc-cessivamente restituiti ai liberi lavora-tori. L'impiego dei detenuti, la cui pena

era previsto per legge doversi scontare con l'obbligo del lavoro faceva si che ognuno di questi, piano piano, si affezio-nasse al lavoro, assegnatogli e nello stesso tempo prendesse coscienza del-l'importanza di essere, in qualche modo, utile per il bene di se stesso e degli altri. Il patrimonio zootecnico della Colonia era costituito da circa diecimila capi di bestiame da latte e da carne, capre, pe-core, bovini, maiali, equini di razze sele-zionate ed altri animali. L'allevamento e la condizione di stalle razionali e di greggi al pascolo brado veniva affidato a detenuti già pratici nello stato di li-bertà. Nel periodo di massima produzione, circa tremila litri di latte affluivano ogni giorno nel caseificio, dove i reclusi ca-sari lo trasformavano in formaggi preli-bati, provole, burro e altre specialità.

Alle prime luci dell'alba, ogni mattina, questo formicaio operoso si snodava in lunghe processioni per recarsi autono-mamente al posto di lavoro assegnato. I capi, ortolani, vignaioli, stallieri e via dicendo, assegnavano e distribuivano i compiti ai loro compagni di pena. Tanti erano i lavori, a cominciare dagli addetti ai servizi domestici all'interno: infer-mieri, cucinieri, casermieri, scrivani, barbieri, sarti, calzolai ecc. I lavori all'esterno erano svolti in mas-sima parte da chi si era guadagnato, con la buona condotta, un rapporto di fiducia e di affidabilità e godeva di una relativa libertà di movimento.

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Nelle foto: accanto al titolo la copertina del numero di gennaio 2001 sotto la vignetta dello stesso numero nell’altra pagina vecchie immagini di Castiadas

s

CASELLI SUPERSTAREHI CAPUTO, CHI È QUEL SIGNORE VESTITO DI BIANCO CHE STRINGE LA MANO A CASELLI?

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Si trattava di centinaia di detenuti nelle officine, nelle vigne, negli orti, nelle stalle, nelle cantine, nel caseificio, negli ovili, nelle porcilaie, nei campi seminati a grano, orzo, fave e foraggi, nei frutteti o nelle squadre di muratori per la manu-tenzione ordinaria dei fabbricati, com-presi gli stradini, i boscaioli, gli allevatori del baco da seta e tanti altri mestieri altrettanto utili e dignitosi ad onore dell'operosità dell'uomo. L'agronomo e gli Agenti suoi collabora-tori dirigevano e controllavano la cor-retta esecuzione dei lavori. Uno squadrone di guardie a cavallo vigi-

lava i confini dello sterminato territorio di migliaia di ettari della Colonia e con-

Nelle foto: immagini della

ex Colonia Penale di Castiadas

trollava che ogni recluso fosse al suo posto di lavoro e ne identificava, attra-verso la carta di accredito, la validità della presenza in quel luogo. Ogni mattina, prestissimo, gli addetti al-l'aratura dei campi, prima di aggiogare i buoi all'aratro provvedevano al loro go-verno, dopodiché, a gruppi, s'incammi-navano al quotidiano lavoro. Questa macchina così bene oliata e fun-zionante lasciava stupefatti, conside-rando che ad esserne il motore propulsivo erano individui che allo stato di uomini liberi, non avevano saputo o voluto sfruttare al meglio l'operosa po-

tenzialità di cui disponevano per il pro-prio bene e per quello della società. La mercede (paga del detenuto) era sud-

divisa in decimi; sette andavano alle retribuzioni, da accreditarsi sul li-bretto di conto corrente, uno veniva accantonato per le spese di manteni-mento in carcere e due per l'opera di previdenza, assicurazione contro gli in-fortuni ecc. La grande quantità di beni prodotti col lavoro dei detenuti veniva equamente distribuita a favore del personale di vi-gilanza e delle loro famiglie, nonché dei reclusi, ai quali a prezzi puramente sim-bolici venivano vendute quantità non in-differenti, ogni settimana di razioni in natura, di carne, formaggi, latticini, frutta e ogni altro bene. Questa era la Colonia Penale di Castia-das dove, volente o nolente, ero andato a finire. Avevo dimenticato di dire, che

durante la guerra mi ero sposato e che ero padre di un bambino che non aveva ancora un anno d'età. A metà novembre successe un gravis-simo fatto di sangue nella casa penale di Alghero, un gruppo di una ventina di ergastolani, per poter evadere aveva let-teralmente sgozzato con coltelli rudi-mentali, cinque Agenti di Custodia e ne aveva feriti gravemente tre; l'episodio aveva suscitato impressione e turba-mento nella coscienza civile della gente. A dicembre mia moglie si era ammala-ta di tifo e stava malissimo, avevo chie-sto ai superiori un breve permesso per

vederla, ma mi era stato negato perché le esigenze di servizio non lo consenti-vano. La primavera del 1946 era già arrivata, il mio periodo di prova era terminato, quindi ero agente effettivo e la ferma mi vincolava per tre anni. Il Governo con un atto di clemenza, con-dono e amnistia, aveva disposto la scar-cerazione di centinaia di reclusi per reati militari e comuni, di conseguenza la po-polazione detenuta si era quasi dimez-zata; erano rimasti quelli condannati a gravi pene e i delinquenti abituali assog-gettati a misure di sicurezza detentive. Era stato necessario che in Europa e nel mondo la seconda guerra mondiale ster-minasse decine e decine di milioni di vite umane, perché il DDT Americano ar-rivasse in Sardegna e a Castiadas. Finalmente l'anofele che per secoli aveva infierito sul popolo sardo, minandone la

a fianco: il sommario del

numero di gennaio 2001

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suta durante il periodo in guerra stava esercitando una benefica influenza sul mio essere, avevo provato sulla mia pelle le sofferenze e sapevo anche che il dolore accomunava oltre ogni differenza di stato e condizione. I colleghi anziani, a noi reduci ex com-battenti, ci trattavano con rispetto e ci suggerivano molta cautela nei riguardi dei detenuti; fra di loro c'erano molti ri-chiamati in servizio a causa della neces-sità di sostituire il personale mobilitato nel periodo bellico. Ricordo con molta simpatia, questi uo-mini ormai incanutiti dall'incipiente vec-chiaia, veri maestri di vita saggi ed equilibrati che trattavano i detenuti con molto rispetto e paterna bonarietà. Essi erano l'incarnazione del buon Schil-ler reso famoso dal Pellico. Ormai eravamo nel mese di luglio, c'era già stato il referendum "Monarchia Re-pubblica" e Umberto di Savoia aveva già lasciato l'Italia per l'esilio in Portogallo, come nel 1849 il suo antenato Carlo Al-berto. Il Regolamento del Corpo preve-deva che non si potesse prestare servizio nella provincia d'origine, per cui mi venne comunicato il trasferimento alla Colonia Penale di Mamone in pro-vincia di Nuoro. Lasciavo Castiadas con rammarico ormai mi ero abituato e mi dispiaceva lasciare quel luogo che ini-zialmente mi era sembrato l'ultimo dei posti dove avrei voluto finire. Nel 1954 la Colonia Penale di Castiadas a seguito della Riforma Agraria Segni veniva inglobata e assorbita con tutto il suo territorio. Oggi non c'è più traccia dell'operosità e dei sacrifici di migliaia di poveri infelici, sono scomparsi i frutteti, gli oliveti, le vigne e quant'altro era stato creato con encomiabile abnegazione e offerto in modo sublime per il riscatto della co-scienza. Voglio ricordare quei volti scavati dalle rughe e bruciati dal sole cocente, essi aleggiano con lo spirito e centinaia a mi-gliaia sono quelli dei braccianti siciliani e calabresi, poveri e analfabeti ma mae-stri nel saper trarre dalla terra i migliori frutti, condannati in un luogo non loro a scontare le pene dei loro errori col duro lavoro.

salute e pregiudicando lo sviluppo e il progresso economico, veniva sconfitta; la malaria nella sue forme perniciose mortali era solo un tragico ricordo. Nel piccolo cimitero ad uso della Colo-nia Penale numerose le croci di bambini figli del personale; erano la testimo-nianza tragica di quanto fosse stato im-pietoso con tutti il dramma endemico della malaria. Le croci erano disposte numerosissime in file ordinate in relazione alla data del decesso e non facevano distinzione fra detenuti e personale di custodia; era un livellamento postumo rispettoso della

dignità spettante ad ogni essere umano. Non erano trascorsi molti mesi da quando avevo varcato per la prima volta quel mondo sconosciuto, eppure, nel mio cuore e nella mia mente stava av-venendo qualcosa a mia insaputa, la sensazione sgradevole che avevo pro-vato il primo giorno, osservando le facce dei detenuti, era un ricordo lon-tano, questi uomini non mi sembravano più gli stessi, i loro tratti somatici si erano ingentiliti, i loro sguardi quasi se-reni. Forse non erano loro che erano cambiati ma, probabilmente, ero io che cominciavo a saper leggere nel loro cuore e a capire le loro sofferenze. Avevo quasi paura di farmi travolgere da questi sentimenti, capivo che l'ap-proccio verbale doveva essere molto cauto per non ingenerare distorte inter-pretazioni. Sapevo anche che la mia esperienza vis- l

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di Mario Caputi e Giovanni Battista

de Blasis © 1992-2020

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Il mondo dell’appuntato Caputo

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HEI CAPUTO, CI SONO ALCUNI DRONI CHE VOLANO SUL CARCERE.

HANNO DEI CETRIOLI... SAI PER CASO DOVE LI STANNO PORTANDO?

I droni dell’appuntato Caputo

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Il libro è diviso in tre parti: Diventare Agente della Polizia Penitenziaria: compiti e organizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria; la figura e il ruolo dell'Agente; come si svolge il concorso Prova d'esame: tutte le materie previste dalla prova scritta (Lingua e letteratura italiana, Storia, Educazione Civica, Geografia, Matematica, Scienze) con cinque simulazioni. Test di personalità: come affrontare i test attitudinali, i test della personalità e il colloquio psico-attitudinale

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