I racconti del parco - Edizione 2009

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www.parcodeicollibergamo.it u Un racconto “verde” per un ambiente sempre più verde. I Racconti del Parco Prima edizione Premio letterario

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I racconti del parco - Edizione 2009

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u

Un racconto “verde” per un ambiente sempre più verde.

I Racconti del Parco Prima edizione

Premio letterario

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“Un racconto verde per un ambiente sempre più verde”.Il Parco dei Colli di Bergamo lancia la prima edizione della sua nuova iniziativa letteraria ponendo un forte accento sulle tematiche ecologiche: un’accento cromatico quanto evocativo, che comunica nel modo più chiaro la…naturale vocazione del nostro Ente. Salvaguardare l ’equilibrio tra uomo e natura è la nostra missione dal 1977, ed I Racconti del Parco rappresenta il primo passo di un percorso che ci vede sempre più impegnati nel dialogo, nell ’interazione con il territorio, nella promozione di un approccio consapevole al patrimonio ambientale, storico e naturalistico che abbiamo la fortuna di condividere. In questo senso, la valorizzazione delle diverse forme di espressione artistica e la loro declinazione in chiave di “responsabilità” diviene un prezioso strumento di formazione oltre che di comunicazione.La risposta del pubblico nei confronti del Premio è stata sorprendente prima ancora che confortante, sia per il numero degli autori coinvolti, con oltre 120 elaborati in concorso, sia per il livello qualitativo degli scritti, testimoniato efficacemente dai sedici titoli scelti per questa raccolta. Come i lettori potranno verificare, la suddivisione del Premio in differenti categorie - pensata per coinvolgere tanto gli adulti quanto i ragazzi delle Scuole Medie e Superiori - viene piacevolmente superata dalla scoperta di una sensibilità comune, di un desiderio trasversale che tinge le parole di passione e ricerca, di ironia e tradizione, accomunando tutti gli autori, indistintamente, nell ’amore per la natura, per i suoi ritmi ed i suoi riti, per le infinite storie che da sempre sa inventare e raccontare.

Il Presidente del Parco dei Colli

Gianluigi Cortinovis

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Giuria

Paolo Aresi ScrittoreBruno Bozzetto

Cartoonist Susanna Pesenti GiornalistaTiziana Sallese

GiornalistaStefania Pendezza Responsabile Ufficio Scolastico Provinciale - Educazione Ambientale

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IndIce

Categoria Adulti

Su Gea, che me la sono ricordata un giorno che avevo voglia di castagne ..... 9Primo classificato

La Cesira .................................................................................................. 13Secondo classificato

La Quercia Re .......................................................................................... 19Amarcord ................................................................................................. 27Terzo classificato ex aequo

È la natura! ............................................................................................... 33Non ne ho proprio la forza ....................................................................... 39Margì ........................................................................................................ 41Racconti segnalati

Categoria Scuole Superiori

Ricordo ..................................................................................................... 51Primo classificato Estratto del diario di una quercia ............................................................. 55Questa era la mia zona! ............................................................................ 57Ho visto .................................................................................................... 59Racconti segnalati

Categoria Scuole Medie Ciao a tutti, vi voglio raccontare... ............................................................ 63L’estate in montagna ................................................................................. 67Primo classificato ex aequo

La leggenda del Parco dei Colli ................................................................ 69Il killer ...................................................................................................... 71La vera storia del Parco dei Colli .............................................................. 77Racconti segnalati

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Categoria Adulti

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categoRIa adultIPRImo classIfIcato

Quasi venerdì diciassette.

L’alta pressione lascia spazio alle nubi basse. Pioviggina.Sarebbe bello, se non piovesse, andar per boschi, per castagne.

Ricordare l’infantile soddisfazione nell’aprire i ricci con i piedi: con il sinistro tieni il riccio fermo, ben saldo al terreno, e con il destro compi un movimento semicircolare che apra il riccio come un sipario: il suo interno è di carnoso velluto. E poi eccole, ai tuoi piedi, due gonfie castagne; ti chini, ora le puoi prendere con le mani e pungerti, regolarmente, l’indice.

Ricordare l’infantile insoddisfazione nel trovare, dopo esserti pun-to l’indice, due castagne concave, leggerissime nel loro esser vuote. Vatti a fidare delle castagne.

Poi, al gelo dell’inverno, i ricci appassirono e la tua lingua si fece meno pungente.

Ricordare l’adolescenziale stupore di quel giorno in cui andasti per castagne e tornasti con una cesta piena di more grasse, due mazze di tamburo e degli scialbi chiodini.

Su Geache me la sono ricordata

un giorno che avevo voglia di castagnedi

Giulia Greco

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categoRIa adultIPRImo classIfIcato

Tu avevi fretta di sentire l’autunno, le sue nubi basse, i suoi odori di sterpi che bruciano e di tini, ma era solo settembre.

E così tutti mangiarono more e nessuno volle cucinare i funghi e tu pensasti: “Vatti a fidare delle castagne, io credevo fosse autunno”.

Le castagne non trionfano a settembre e non soddisfano precoci voglie d’autunno.

Venne autunno, bruciarono gli sterpi ed asciugarono il tuo latte alle ginocchia.

Ricordare l’adolescenziale entusiasmo nel vestirsi male, con quegli abiti che sai di poter infangare, strappare e bagnare, e tornare nei boschi in cui vivesti infantili avventure e stupirsi di nuovo dei gialli e del silenzio.

Osservare, con ghigno disincantato, che di nuovo stai diventando pascoliano, i pensieri si avvicinano sempre più a quelli del sig. Pa-scoli Giovanni che voleva un nido e aveva due sorelle e molta sfiga.

Ma poi la terra bagnata sulle mani ne tappò i buchi e tu smettesti di perdere lo stupore.

Da bambino mangiavo i fiori di glicine. Peraltro, il grazioso ar-busto dal quale traevo godimento, affondava le proprie radici in un canale di scolo celebre per non essere tra i più salubri. M’innamorai del viola dei fiori, degli arabeschi dei rami, e il canale da verdastro divenne cristallino.

“Lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano lucci ar-gentati”.

Nell’acqua del torrente lo sguardo di una trota mi salmonò il cuore

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e il sentimento prese il sopravvento. M’innamorai del bosco.

Giunse primavera, strappai i petali ad una margherita che mi disse che il bosco m’amava.

Ricordi infantili di un adesivo con un riccio rosso che attaccasti sul baule della Ritmo di papà, di sentieri ai cui lati fiorivano primule tanto dolci da mangiare e dolci trombe che suonano con il tuo fiato bambino, e violette e anemoni e ghiande. Ricordi infantili di tuo nonno che t’insegna a riconoscere, tra le felci, i maschi dalle femmi-ne, poi costruisce una slitta con un fascio di erba secca e la slitta ti porta via, facendoti scivolare verso valle.

Chiamai fiori e piante per nome: la genziana, le borse di pastore, i denti di cane, i non ti scordar di me. Non li scordai.

Ricordi infantili che ora che sei adulto, ora che cammini in città, ti fanno mancare il fiato per la nostalgia.

Poi tagliarono i rami secchi e riprendesti a respirare normalmen-te.

Gli alberi affondano le radici nella terra e immagini che queste radici si diramino sino ai piedi del colle e, avvinghiandosi alla terra bruna, tengano il colle in piedi.

Le radici delle querce e dei castagni, da cui è nata la storia del bo-sco, sono le stesse tue radici, quelle degli uomini e delle donne che prima di te hanno percorso i sentieri.

“E tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai”Sono radici di olmi e di pruni, di bambini scalzi in cerca di legna,

partigiani e fungaioli. Radici di rami intrecciati e corpi avvinghiati

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categoRIa adultIPRImo classIfIcato

in un gesto d’amore.

T’illuminò estate, portasti alle labbra una radice e ti lasciò l’amaro in bocca.

L’alta pressione si sposta verso est, da nord-ovest giunge una per-turbazione atlantica: ho come il presentimento che pioverà e non potrò andar per castagne.

Però pensa, le castagne, che oggi mi hanno fatto ricordare di Gea.

Infine tagliarono il bosco e ti mancò persino l’ossigeno.

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categoRIa adultIsecondo classIfIcato

La Cesiradi

Loretta Fanin

Questa è una storia d’amore e comincia in Maresana agli inizi degli anni settanta.

Allora, dove il colle si distende per accogliere Monterosso, giardini ampi come parchi facevano da cornice a case di una ricchezza se-vera e non ostentata. Un muro di grosse pietre intonacate di grigio, alto e imponente li difendeva da sguardi curiosi e si apriva sulla via Valle con un cancello di ferro che ho sempre visto arrugginito e sbilenco.

Da lì partiva una scaletta di sassi che portavano impresso il ricor-do di quando il mare qui ricopriva tutto: la usavamo per salire sul colle nel modo più comodo e veloce. Ci si arrampicava per i gradini sconnessi che odoravano di umido e foglie marce fino ad incontrare il sentiero che partiva da via Calvarola e arrivava con un dislivello sempre dolce ai ripetitori della RAI.

Lì mio padre si era innamorato di un pezzo di terra, ai margini di un giardino trascurato. Aveva corteggiato i proprietari offrendo lavori di fatica in cambio della possibilità di piantar verdura in un angolo nascosto e aveva ottenuto il suo orto.

Papà era figlio di contadini, aveva l’amore per la terra nel sangue, ma di come si coltivava non ne sapeva niente.

A insegnargli i segreti di legumi e verdure fu il Barba, un uomo

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nodoso come un bastone, di scarse parole e generose bevute che coltivava una vigna ai piedi della Maresana.

Girava tra i suoi filari col fucile in spalla pronto a cogliere al volo il movimento di un fagiano, di un tordo, anche solo di un’allodola di passaggio. Allevava galline e conigli, li curava e li ingrassava per venderli ai clienti che salivano alla sua cascina in cerca di sapori genuini.

Li consegnava pronti per la padella: un lavoro pulito e molto ap-prezzato.

Insegnò al babbo a dissodare il terreno, a usare la vanga, a seminare alla giusta distanza e profondità, a ricavare semenza e tirare fili tra le canne per assicurare sostegno alle rampicanti.

Mio padre imparò la segreta relazione tra la luna e i cicli vitali della terra, si comprò un calendario di Frate Indovino e lo appese in cucina per consultarlo ogni giorno. Andò a scuola dal suo maestro, si portò i compiti a casa e ci si impegnò in solitudine, perché l’orto era una faccenda privata.

Solo con la Cesira condivise quell’amore faticoso.La Cesira era un pulcino colorato di azzurro che zia Marina aveva

comprato a una sagra paesana per placare un capriccio della piccola Marcella.

Arrivò lì a Pasqua e non fu mai timida. Da subito si creò tra lei e mio padre un rapporto speciale, di rude affetto. Lei gli andava incontro quando lui arrivava e lo seguiva ovunque becchettandogli i pantaloni.

Se camminava troppo veloce lo inseguiva correndo e spiegando le alucce.

Pareva un cagnolino, ma starnazzava e procedeva con quelle sue zampe a papera tenendosi in equilibrio con l’ondeggiare del collo.

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categoRIa adultIsecondo classIfIcato

Il babbo la accarezzava e le parlava sottovoce, forse le raccontava dei suoi figli, le prometteva di portarglieli lì, di farglieli conoscere. L’oca, accoccolata ai suoi piedi, se lo ammirava in affettuosa sotto-missione.

Cresceva guardando quell’uomo dai gesti pacati, innamorata di lui e di quel che faceva.

Aveva perso quell’azzurrino incongruo impostole alla nascita e si era fatta candida, grossa, forte e prepotente. Avanzava impettita con una baldanza dignitosa e buffa, si guardava intorno come se l’orto fosse suo e cacciava urla tremende se qualcuno si avvicinava.

Non conosceva nessuno di noi e non immaginava che l’oggetto del suo amore avesse una vita fuori da lì.

Lei lo guardava cogliere zucchine e pomodori, melanzane e pe-peroni, fagioli e piselli, metterli nel cesto di vimini, uscire da quella porta come un sole che tramonta e restava in attesa del suo risorgere l’indomani.

Chissà come sarebbe stata orgogliosa di vederlo scendere verso casa col suo trionfo di verdure al braccio, traboccante e generoso, colorato come un’opera d’arte e odoroso di erbe!

Questa era una scena che si ripeteva per noi ogni sera: il cesto in una mano, nell’altra il bastone e lui felice come un condottiero che torna da una battaglia vinta.

La Cesira non conosceva la sua doppia vita.Con lei era premuroso e aveva gesti di tenerezza appena accenna-

ta: le spezzettava il pane in bocconi delle giuste dimensioni, saliva a trovarla anche nei giorni in cui l’orto non aveva bisogno delle sue cure. Rompeva la crosticina di ghiaccio che si formava sulla ciotola dell’acqua nelle notti più fredde.

Lei restava ad aspettarlo aggirandosi fra i vialetti ben definiti,

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compiaciuta di quel rigoglio di verdi e di aromi; col suo becco giallo stanava lombrichi ben pasciuti e se li ingollava golosamente, man-giava il suo pastone preparato con cura, ingrassava a vista d’occhio e si appisolava nel capanno degli attrezzi.

Quando mio padre tornava lo accoglieva con gioiosi starnazzi e lo corteggiava maliziosamente.

Le prodezze della Cesira, che papà ci raccontava la sera, seduti a tavola, fecero di lei un personaggio avvolto di leggenda.

Una volta arrivò ad uccidere una vipera, che mio padre trovò la mattina vicino ai bidoni dell’acqua.

Potevamo immaginare la battaglia: la vipera silenziosa e infida e l’oca chiassosa ed eccitata, l’una acquattata al buio nell’umido e l’al-tra che non ammette presenza estranea.

I colpi precisi del becco a fermare lo strisciare sinuoso, a bloccare ogni via di fuga. Ci sembrò un’impresa leggendaria e sapere la Ce-sira a guardia dell’orto faceva del coltivar verdura un’attività speciale che solo papà poteva fare.

Anche il Barba ammirava la nostra oca, così bianca, impavida, grassa e orgogliosa.

A fine autunno cominciò a dire che era ora, che ci si doveva deci-dere, la Cesira diventava vecchia, non poteva passare tutto l’inverno senza rendersi utile, poi sarebbe stato troppo tardi: non c’era da pre-occuparsi, ci avrebbe pensato lui.

Così papà si arrese all’evidenza e per Natale, la Cesira tornò a casa.

La mamma la ripulì per bene, che potesse presentarsi a tavola e farle far bella figura. La preparò con cura. Ci si dedicò con arte e i risultati la premiarono.

Pranzammo.

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L’uomo che aveva tanto amato, seduto al posto d’onore, teneva lo sguardo basso, non poteva guardarla senza provare un imbarazzo ormai tardivo.

Nei piatti di contorno, le verdure che aveva visto crescere erano proposte in modo elaborato, adatto alla festa. Lei, in forma sma-gliante, reggeva il centro della scena come una consumata attrice.

I bicchieri di cristallo riflettevano il suo splendore dorato, le luci delle candele natalizie esaltavano le sue curve morbide e sode.

Fu buonissima.Solo alla fine del pasto conoscemmo il sacrificio che ci aveva per-

messo di santificare il Natale con tanta abbondanza...Marcella si esibì in uno dei suoi rari quanto violenti capricci e frustò le nostre coscienze sibilando un indignato: “Cannibali”.

Poi le cose non furono più le stesse.La solitudine che era da sempre condizione essenziale per lavorare

in sintonia con se stesso, divenne per il babbo un peso di cui non ri-usciva a liberarsi. Il suo zufolare mentre curava la terra perse allegria, sembrava il canto di un uccello in gabbia.

La primavera seguente i proprietari dell’orto gli chiesero di lasciare a loro disposizione parte del terreno per farci una piscina.

Lui perse del tutto l’entusiasmo: il suo regno era ridotto ad un fazzoletto di terra e non aveva più la compagnia dell’oca.

Ogni giorno ritardava il momento di salire in Maresana.I lavori di scavo, il passaggio delle ruspe, il rumore... tutto lo di-

sturbava, restare lì non aveva più senso.Lasciò per un pezzetto di terra più vicino a casa, ma non lo amò

mai così tanto. Lavorò con diligenza ma senza passione, e l’orticello ricambiò con risultati discreti che non lo riempivano di orgoglio.

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Poco tempo fa sono tornata a passeggiare da quelle parti.L’ambiente è sempre bello e oppone una fiera resistenza all’assedio

delle villette a schiera. Ci sono ancora i castagni e i carpini, le quer-ciole e i lecci a ricoprire le pendici del colle.

In primavera i ciliegi selvatici macchiano di un bianco tenue i bo-schi e sui sentieri formicolano i gitanti della domenica con i cani al guinzaglio.

Una siepe altissima raddoppia la barriera del muro di cinta. L’orto di papà si è arreso a nuove esigenze estetiche e ha ceduto il

posto ad un giardino. Aiuole ordinate e prato inglese dove fioriva il pisello odoroso e i pomodori si riempivano di sole.

E il suono del lavoro contadino è cancellato da un silenzio che sa di solitudine e distanza.

Penso alla Cesira: ci sarebbe ancora posto per lei? Scuoto la testa e sorrido.

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La Quercia Redi

Giulia Gritti

Sofia è seduta all’ombra della quercia, l’albero più antico, dritto e maestoso che si trova al centro del Bosco dell’Allegrezza, in una radura costeggiata da alti tronchi nodosi.

Da bambina pensava che quell’albero così vecchio fosse la rein-carnazione di un re circondato da sudditi che s’inchinavano al suo cospetto.

Ha passato l’infanzia osservando il mondo dall’alto dei rami della Quercia Re ricoperti di muschio e ne conosce ogni anfratto, ogni grinza.

Ora che è una giovane donna, si distende in grembo all’albero e si sente al sicuro nell’abbraccio dalle lunghe radici grandi come tron-chi. Sfiora con le dita le pieghe del suo abito, onde nere che prose-guono fino al terreno. L’orlo ricamato lambisce l’inizio del prato e i fiori di stoffa si sporcano di terra. I lunghi capelli castani di Sofia si insinuano nelle rughe dell’albero, ricoprono i suoi nodi, risplendono nel sole di un caldo pomeriggio di aprile. Molte primavere prima, il giorno del suo nono compleanno, si era alzato il vento e i pioppi avevano invaso l’aria come una coltre bianca, soffice, immensa. So-fia ricorda ancora l’espressione stupita sul viso del nonno che aveva esclamato: “Adesso nevica in primavera! Il tempo è proprio impaz-zito!” Poi le aveva sorriso con quello sguardo enigmatico che faceva

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arrabbiare la nonna, quando era ancora in vita, perché non riusciva mai a interpretarlo.

Sofia capì subito che il nonno era preoccupato. “Vieni con me Sofia, voglio farti vedere una cosa”. Avevano camminato senza parlare e lei era rimasta un passo die-

tro di lui, nonostante avesse voglia di mettersi a correre e a gridare. Dopo un lungo e rigido inverno era arrivata un’inaspettata vampata di caldo e, finalmente, aveva potuto uscire di casa senza cappotto. Si sentiva esplodere di felicità ma era anche irrequieta, impaziente.

“Dovremmo stare a casa oggi nonno! La mamma potrebbe arriva-re da un momento all’altro. Sai che l’ha promesso!”.

“Te l’ho già spiegato bambina devo mostrarti il mio regalo, non insistere”.

Sofia avvertì una nota triste nella voce del nonno e, per un attimo, ebbe paura che i suoi cattivi presagi si stessero per realizzare. Cercò di scacciare quella sensazione con tutte le sue forze ma non ci riuscì. Non riusciva a respirare a fondo e un piccolo tremore accompagnava il rullante nel suo petto. Era così rapita da quella sensazione che non vedeva i sassi o i cespugli del bosco che conosceva così bene. Le sue gambe si muovevano in automatico, seguendo i passi svelti del non-no, animate da una disperata speranza. Infine arrivarono al cospetto della maestosa Quercia Re, protetta dai suoi sudditi.

Sofia rimase molto delusa “Perché mi hai portata alla mia quercia nonno? sai che posso arrivarci tranquillamente da sola! Lo faccio tutti i giorni!” la voce di Sofia risuonava isterica nella calma del bo-sco.

Il nonno circondò le spalle della bambina in un abbraccio e la strinse forte a sé.

“Con calma Sofia. Ha piovuto tanto in questi giorni ed è quasi un

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paio di settimane che non vieni qui, giusto? Beh, sappi che, durante questo mese, piano piano, un picchio ha fatto il nido in questo vec-chio tronco!” La sorpresa fece tornare a sorridere Sofia che, vedendo il bel becco spuntare dall’albero, per un attimo dimenticò quello che stava succedendo. Purtroppo però vide che per terra, tra le grandi radici, giaceva un piccolo picchio che era caduto dal nido. Sembrava straziato dal dolore e gridava a squarciagola. Sofia quasi strillò. “Sta cercando la sua mamma! Dobbiamo rimetterlo nel nido!”.

Quell’uccellino non sopravvisse. Lottò per due giorni e poi si spense. Alla fine anche Sofia si ar-

rese.

Da quel giorno il nonno divenne burbero e silenzioso. Parlava ap-pena e smise di portare Sofia a fare le loro lunghe passeggiate nel bosco. Nonostante le liti con Sofia e con la nonna, non volle più sen-tire nominare la figlia scomparsa. Quando lei si ripresentò, anni più tardi, per rivedere finalmente Sofia, il nonno non disse una parola e il giorno in cui madre e figlia lasciarono la casa di Astino insieme, il nonno non riusciva nemmeno a guardare sua figlia in faccia.

Sofia tornò lì ogni estate finché non fu troppo grande e, anche allora, continuò a venire a trovare i nonni non appena aveva del tempo libero. Cercò tante volte di convincere il nonno a tornare alla Quercia Re ma lui non volle saperne nulla per molti anni.

“Il lutto è qualcosa che urla dentro di noi e che non possiamo mai controllare del tutto. Possiamo solo rinchiuderlo dentro, come un segreto, sperando che un giorno finirà per svanire”.

Sofia ha sentito dire quella frase alla nonna quando è morta la bi-snonna, ormai quasi centenaria, e non l’ha mai dimenticata. Solo ora però, che è ormai una donna, riesce a comprenderne fino in fondo il

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senso e l’estrema concretezza.Stringe le radici della Quercia Re con tutta la forza che ha. L’albero l’accoglie come un padre forte e paziente che non ha pau-

ra del dolore della figlia. Sofia chiude gli occhi e immagina i palmi delle sue mani, arrossati e lividi, stretti contro la corteccia.

Vede i vasi sanguigni e i capillari che si riempiono di sangue, sente che presto le farà così male che vorrà urlare e non le importa. Magari potesse farlo davvero. Ripensa all’ultima volta in cui è riuscita a par-lare con il nonno, prima che la malattia prendesse il sopravvento.

“Vorrei poter essere come la tua quercia. Vorrei poter restare con te per tutto il tempo necessario Sofia” i suoi occhi erano ancora ac-cesi, ancora ricolmi di sofferenza a causa della perdita che stava af-frontando. Fissavano la finestra e il suo rettangolo di cielo azzurro lontano da quel letto d’ammalato.

“Vorrai dire che vorresti accompagnarmi all’altare, eh? Ė solo que-sto che t’importa. Metterti in mostra con il tuo bel vestito nuovo e rubarmi la scena alla mia festa!”.

Sofia rideva, rideva sempre quando era nella stanza con lui in quei giorni. Lo faceva per lui, lo faceva per negare a se stessa la realtà.

“Quell’abito lo sfoggerò in un’occasione ben diversa e tu lo sai bene”.

“Smettila nonno”.“No, adesso smettila tu, piccolo fiore”.La sua voce era ferma. Non era mai stato così serio.“Va bene. Ti ascolto”.“Sofia, la vita è come il bosco che ami tanto”. “Stai già iniziando a delirare adesso?”.La voce di Sofia era incrinata, non sapeva più come stare seduta

né poteva guardarlo in viso. Quegli occhi azzurri e profondi anche

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quella volta sembravano capire, vedere, anche attraverso di lei.“Quello che conta è il senso. Ti devi sapere orientare come se

avessi una tua bussola interiore, devi capire quale sentiero converrà prendere in base alla forza del tuo fiato, alla tranquillità e alla ca-pacità di concentrazione della tua mente. Solo così puoi evitare di perderti”.

Sofia stava bagnando la mano del nonno con tutte le sue lacrime “Non posso. Non ce la faccio senza di te”.

“Invece dovrai farlo proprio per me Sofia. Sai che desidero che tu sia felice. Sarò sempre con te, se mi ricorderai io ci sarò”.

Sofia riapre gli occhi. Per un attimo le sembra di vederlo tra gli alberi che le sorride e non ha paura.

A quel punto si scuote, lascia le radici a cui era aggrappata e si guarda attorno. I ricordi e il sogno si sono confusi nella sua mente per alcuni minuti. Pensa “Chissà se stavo dormendo”.

Sofia ha letto da qualche parte che il cervello umano inizia a so-gnare anche quando si è svegli ma troppo distratti, troppo “altrove” per focalizzare quello che accade nella realtà.

“Vieni Sofia! Sta per cominciare!”.Nella sua piccola fuga ha, solo per un attimo, scordato tutto: gli

ospiti in abito scuro radunati a casa dei nonni, il giardino fiorito davanti alla villetta funestato dai fiocchi viola dei paramenti funebri. Una foto del nonno ancora forte, ancora lucido e felice che accoglie amici e parenti all’ingresso della camera ardente. L’uomo vigoroso di cui la nonna si era innamorata quando era ancora una bambina, seduce adesso - con un luminoso sorriso - chi è venuto a portargli l’estremo saluto. Il corpo nella bara ormai non ha più niente a che fare con lui e Sofia si chiede se il nonno apprezzerebbe quelle visite e quelle lacrime. Si chiede se ora è fra le braccia della nonna da

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qualche parte. Non crede in niente ma vorrebbe tanto aver ricevuto il dono della fede.

Però un dono l’ha ricevuto ed è l’amore per la natura. “Cos’altro può essere la natura se non Dio? In fondo stiamo par-

lando della stessa materia”. Era la frase preferita del nonno, tanti anni prima. La usava in ogni

occasione, anche quando era del tutto fuori contesto. Poi si era recluso nel silenzio e, con la sua voce, si era spenta anche

la sua passione per il bosco, per gli animali, per la vita. Sofia sente ancora gravare sulle sue spalle il peso di quella rinuncia. Sa che il nonno l’ha fatta quando ha capito di avere fallito come padre; quan-do ha sentito la responsabilità dell’abbandono perpetrato da altri.

Si è punito negandosi la felicità di cui poteva ancora godere nella vita.

Soltanto quando la malattia ha preso il sopravvento sulla sua men-te, quando gli ha tolto i ricordi e lo ha privato dell’uso delle gambe Sofia è riuscita portarlo di nuovo nel bosco e a fargliene respirare ancora la magia.

Quel mattino l’aria era ancora umida, bagnata dalla notte e acca-rezzata dalla rugiada dell’alba.

Sofia ha spinto la sua carrozzella lungo il percorso delle cammi-nate per i turisti, attraverso il bosco che stava appena iniziando a risvegliarsi.

Alla fine, stremata, si è inginocchiata davanti a lui, appoggiandosi ai manici della carrozzella, per poterlo guardare bene in faccia e per stringergli la mano.

Gli occhi del vecchio sembravano degli specchi pieni di buio che la luce non riusciva ad oltrepassare. Era troppo lontano per poterla ascoltare. Poi, come per magia, avvertì il calore della mano della

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nipote che stringeva la sua e che l’accarezzava. Iniziò a guardarla e a sorridere, incantato da quella visione inaspettata. Sofia iniziò a parlare e lui l’ascoltava con grande impegno “Ti ho portato qui oggi per una sorpresa. Vedi? Un altro picchio ha occupato il nido rimasto vuoto tanti anni fa. Guarda quelle belle piume colorate. Non sono meravigliose?”.

Il nonno alzò lo sguardo verso la Quercia Re. Dal nido faceva capolino una piccola testolina colorata dotata di

un bel becco nero affusolato. I suoi occhi stanchi si riempirono di lacrime che sgorgarono silenziose, senza che lui facesse niente per trattenerle.

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Amarcorddi

Guido Neri

Marco si era incaponito: giornata soleggiata, leggero favonio, un cielo azzurro come soltanto certe giornate di fine inverno sanno regalare. L’occasione ideale per il progetto prefissato da intere set-timane.

La neve si era ormai sciolta, rimaneva solo qualche mucchio nei luoghi ombreggiati a ricordarci che l’inverno era dietro l’angolo, un inverno che aveva lasciato tutti impreparati vista l’abitudine a dare per scontato che palme e ulivi fossero ormai di casa tra i nostri col-li.

Invece quell’anno era iniziato a nevicare in novembre, ed il Parco era caduto in un letargo anticipato: solo qualche temerario aveva continuato a solcare i sentieri bianchi godendo della pace e del si-lenzio che solo la neve sa regalare.

Quella mattina nel gruppo c’era trepida attesa: lo zaino era stato riposto con tutto il necessario già ad inizio settimana. Mancavano solo i viveri, recuperati all’ultimo momento approfittando dei lauti avanzi della festa di laurea di Roberto. Paolo era stato il primo ad arrivare, abituato alla puntualità da un lavoro di capostazione che lasciava poco spazio all’improvvisazione. Erano seguiti Roberto e Laura, il primo ancora sorpreso di potersi fregiare del titolo di dot-tore mentre lei si riprendeva da mesi di rinvii e dinieghi, giustificati

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dall’agognato pezzo di carta da raggiungere a suon di nottate passa-te davanti al computer.

Marco, che aveva avuto la brillante idea di questa gita, era il più impaziente di tutti ed era già in piedi dalle 5:00, neanche avesse dovuto scalare il Resegone (lui che diceva di esserci salito almeno 20 volte e chissà quante volte in realtà c’era stato…). Quando la macchina aveva ormai raggiunto la massima capienza consentita, non tanto per il numero di persone a bordo ma per zaini e scarponi ed ogni genere di attrezzatura che potesse tornare utile, il viaggio, se così vogliamo chiamarlo, era cominciato.

Non si ricorda, a onor del vero, una compagine più scalcagnata ma il sentiero prescelto era comunque facile, almeno sulla carta, e adatto anche a due neofiti come i fidanzatini ormai prossimi alle nozze. Paolo lo aveva già percorso nel bel mezzo dell’autunno, e ricordava con orgoglio le tante castagne raccolte e quei gradevoli raggi del sole di ottobre, quando il bosco si ammanta di rosso e di giallo ed il debole calore solare sembra fondersi con quelle tonalità che annunciano il prossimo lungo sonno invernale.

Marco, invece, ovviamente diceva di esserci passato in ogni sta-gione e in ogni epoca, con la neve e con la pioggia e chissà se era poi vero. I sassi sembravano però non riconoscerlo, già al primo tornan-te era inciampato e solo l’appoggio del provvidenziale bastone aveva evitato, oltre alla figuraccia, qualche conseguenza peggiore.

Il piccolo borgo di Olera, dove la macchina era stata lasciata a riposare per un’intera giornata, ora occhieggiava da dietro i rami ancora privi di foglie. Solo i camini testimoniavano di una dome-nica passata nel calore domestico, perché anche lì l’inverno si era fatto sentire e la primavera sembrava più una parola ancora priva di significato che un concreto invito ad uscire all’aria aperta.

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Arrivati alla piccola cappella votiva si voltarono all’indietro: Ro-berto e Laura, sulla ripida salita, avevano perso il gruppo ed ora annaspavano come i pesci quando gli cambi l’acqua della vasca.

Paolo e Marco ne approfittarono: il Canto Alto era ancora inne-vato, nella sua immacolata bellezza, mentre i timidi raggi di sole avevano lasciato solo delle chiazze di neve più in basso. Dietro di loro il sentiero continuava ad inerpicarsi, con pendenza più dolce, verso la Maresana. Le poche case presenti erano in silenzioso ab-bandono, solo i primi timidi cinguettii e lo scorrere dell’acqua in un verde ruscello interrompevano il silenzio del bosco. Era bello vedere la natura risvegliarsi, le prime gemme aprirsi dando nuove tonalità alle radure, e sentire il fruscio sotto il tappeto di foglie che testimo-niava nuova vita e tutto un sottobosco pronto a riprendersi gli spazi lasciati liberi dalla neve.

Quando il gruppo si fu ricompattato il sole era già alto, velato solo da qualche nube. Proseguivano in silenzio, tanto era bello sentire il rumore degli scarponi sulla terra pesante di umidità e quel leggero fruscio di rami ancora spogli.

Il bosco sembrava ammaliarli, un falco volteggiava da alcuni mi-nuti alto sull’orizzonte alla ricerca di un pasto riparatore dei rigori invernali patiti. Avevano fame anche loro ma nessuno voleva dirlo per primo, anche perché la meta non era lontana, dieci minuti di buon passo ora che la salita si era trasformata in un piacevole sen-tiero pianeggiante. Quando arrivarono al roccolo non poterono fare a meno di rimanere a bocca aperta per la sorpresa: tutto era rimasto intatto, sembrava di essere tornati indietro di 20 anni quando il Par-co era giovane, e loro erano solo dei ragazzini desiderosi di avventu-re. Rividero la staccionata verde che amavano scavalcare, il ruscello che scorreva tra i carpini ancora spogli, la casetta che aveva visto

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sicuramente tempi migliori ma che reggeva ancora dignitosamente in piedi. Solo Laura era nuova, lei cittadina che aveva scoperto sen-tieri e camminate grazie a Roberto, e per la quale la parola roccolo suonava ancora vagamente misteriosa.

Ricordarono ridendo le corse giù per il prato che aveva rubato al bosco alcuni metri di spazio, le salite sul grande castagno che domi-nava dall’alto, quasi a volerla proteggere, la casetta verde, la raggiera di piante che una volta era stata l’ultimo approdo dei tanti uccelli che la fame trasformava in preziosi condimenti ai piatti di polenta fumante.

La piccola porta era sbilanciata come allora, con i cardini che sem-bravano volerla proiettare in un’altra dimensione, mai nessuno era riuscito a capire come facesse comunque a reggersi in piedi. Dentro, ormai in stato di abbandono, il caminetto era privo di ogni segno di vita da chissà quanto tempo, solo un tizzone abbrustolito testimo-niava di un uso occasionale, magari per alleviare una fredda cammi-nata invernale.

Fuori, vicino al piccolo pozzetto ormai pieno di sterpaglie, la buca che avevano fatto venti anni prima era ormai un ammasso di rovi, di pietre, di legna marcita. L’emozione comunque faceva battere il cuore a tutti e tre e solo Laura sembrava disinteressarsi della cosa cercando nello zaino il primo panino da addentare.

Marco era stato il più rapido: aveva scostato i rovi con i guanti da lavoro, tolto un paio di pietroni e, sotto uno strato di terra ancora fredda, aveva scoperto l’angolo della cassettina che tutti si aspetta-vano di vedere.

Il bordo rosso era ormai scolorito in un tenue rosa, e la ruggine ricopriva buona parte del coperchio. Le loro mani di ragazzini ave-vano chiuso quella stessa scatola con la promessa di venire a ritro-

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varla venti anni dopo e in cuor loro nessuno credeva che fosse stato possibile ritrovarla ancora lì, invecchiata da venti anni di pioggia e neve ma ancora integra.

Anche Laura lasciò il sasso dove si era seduta e si avvicinò al grup-po dei ragazzi: vedeva nei loro volti l’emozione di adolescenti cre-sciuti troppo in fretta, le mani irrequiete che cercavano di aprire il coperchio ormai incrostato e tutt’uno con il resto della scatola. Fu Paolo a precedere gli altri due e, grazie al coltellino portatile che lo accompagnava sempre nelle camminate, scostò la terra dal bordo e, con delicatezza, inclinò il coperchio fino a farlo aprire.

Le tre biglie apparvero d’improvviso, rotolando sul fondo della scatola fino a disporsi in fila. I venti anni non le avevano minima-mente intaccate, i colori intensi erano ancora gli stessi e quasi ab-bagliavano sullo sfondo dorato della scatola. Ricordarono i canali creati nella terra, le biglie che vi scorrevano dentro e quei pomeriggi interminabili a giocare fino a quell’ultima partita quando ormai l’età li aveva allontanati verso altri orizzonti.

E poi gli anni passati ad inseguire altri traguardi, le incompren-sioni dell’adolescenza, ma al tempo stesso il ritrovarsi vicini nei mo-menti tristi quando qualcuno se ne era andato per sempre. Passarono un’ora che sembrò eterna, e quando si incamminarono nuovamente verso Olera erano rimasti pochi uccelli a cinguettare mentre il sole, già basso dietro la collina, sembrava in cuor loro che continuasse a riscaldarli come in quei lunghi pomeriggi estivi che non sarebbero più tornati.

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È la natura!di

Laura Grassi

“Piano, Don Elpidio, piano. Salga lentamente.” Il sacrestano rimbrottava così il parroco, che lo tallonava dappresso

lungo gli impervi scalini di legno che conducevano verso il tetto del campanile.

“Si vede qualcosa, Beniamino?” Domandò Don Elpidio con la voce interrotta dal fiatone, causato dallo sforzo di essere salito fin lì.

“No, però se continua a fare questo baccano, i gabbiani si spostano e non li posso vedere.” Bofonchiò scocciato il sacrestano.

“Gabbiani? Per me, sono due aironi cenerini.” Precisò il parroco.“Da quando gli aironi volano sui campanili? Don Elpidio, lei è fer-

ratissimo nella sua materia, ma qui parliamo di ornitologia e non si metta a competere con un cacciatore…..Alt! Sstt! Vedo qualcosa.”

“Cosa? Cosa?” Chiedeva con insistenza il sacerdote.“Sono entrambi bianchi con un collo lunghissimo.”“Allora sono cigni!” Azzardò il parroco.“Per cortesia, non siamo al Rischiatutto…”“Si sente un rumore strano.” Continuò Don Elpidio.“Probabilmente stanno becchettando le tegole del campanile.”

Ipotizzò Beniamino.“Santa Pace, che danno!”Dopo un lungo, inconcludente conciliabolo, i due scesero in ca-

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nonica, mentre oramai in piazza si era assiepata una folla di curiosi di ogni età ad osservare i due insoliti uccelli arroccati in prossimità della statua di San Damiano. Don Elpidio invitò il suo sacrestano a cercare senza indugio il veterinario del paese. Il Dottor Granozzi arrivò di gran fretta e decise di salire sulla scala del campanile. Si tolse il cappotto e s’inerpicò col sacrestano.

“Incredibile!” Esclamò il medico.“Vero che sono due gabbiani?” Chiese con tono compiaciuto il

sacrestano.“Ma che gabbiani! Sono due stupendi esemplari di ciconia ciconia,

volgarmente detta cicogna bianca per quelli come voi due che non distinguono un gabbiano da un tacchino.”

Granozzi ed il sacrestano ridiscesero per diffondere la notizia.“E cosa ci fanno due cicogne bianche sul mio campanile?” Sbottò

il parroco di fronte al verdetto del veterinario.“Padre, non la prenda come un fatto personale. Siamo nel Parco

del Ticino, circondati dalle risaie, e le cicogne a Marzo nidificano. È la natura.”

“D’accordo però abbiamo un grandissimo castello, pieno di mer-lature e di torri, ed in questa zona ci sono un sacco di comignoli. Perché proprio qui e perché becchettano il mio tetto?”

“Don Elpidio, è la natura…” Ribadì il veterinario a mo’ di canti-lena. “Le cicogne non stanno rovinando il tetto del campanile. È il loro verso tipico. Battono il becco, come delle nacchere, per comu-nicare fra loro. Fra l’altro stanno pure covando.” Concluse il veteri-nario, rimettendosi il cappotto.

“Quanto tempo dura la covata?”“Quattro-cinque settimane…”“Ma siamo impazziti! Settimana prossima arriva il vescovo da Pa-

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via per la visita prepasquale!”“Don Elpidio, se vuole, corro a casa a prendere la doppietta?” Intervenne Beniamino con fare belligerante.“Bravo! Sono specie protetta e così ti becchi dai tre ai sei mesi!” Il veterinario diede un buffetto sulla guancia del sacrestano e,

voltandosi, ribadì ad alta voce: “È la natura! Non potete far niente contro la natura!”.

Il sacrestano accettò a malincuore l’idea di non poter impallinare i due volatili.

Don Elpidio con a fianco il fido Beniamino si recò in piazza. Si unì ai curiosi con il naso all’insù ed improvvisò un’omelia: “Perchè fra le braccia di San Damiano? Io dico, ma con tutti i posti a di-sposizione, proprio lassù dovevano fare il nido... Cosa racconto al vescovo?”

“Si vede che con tutti i paesi del Pavese hanno capito che nei din-torni non trovavano niente di meglio…” Don Elpidio troncò il cam-panilismo di Beniamino, rifilandogli un’occhiataccia ed invitandolo a trovare una soluzione indolore.

Beniamino allora meditò di frugare nel suo solaio e di rispolverare per l’occasione la squareta, una specie di lunga canna, eredità del nonno spazzacamino. Armato di questo lungo scopettone e salito sul campanile, ingaggiò la sua personale battaglia con la cicogne, le quali non volevano saperne di sloggiare dalle braccia del Santo.

La gente in piazza osservava la scena, tifando apertamente per i due volatili e, quando una delle due cicogne afferrò con il becco il manico dell’arnese per poi gettarlo in basso, il gesto fu accolto da un’ovazione. Il parroco dovette quindi far buon viso a cattivo gioco.

Quel Sabato mattina, Don Elpidio e Beniamino, aiutati dai fedeli, approntarono tutto al meglio.

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L’oratorio e la chiesa erano tirati a lucido. Don Elpidio di tanto in tanto andava al centro della piazza per vedere se San Damiano gli avesse concesso la grazia di mandar via le due cicogne, ma queste erano sempre orgogliosamente al loro posto.

Il vescovo arrivò all’ora convenuta, fece il giro e si complimentò con Don Elpidio, che lentamente riprendeva tranquillità e colore in volto.

Prima dei saluti, il Sindaco invitò l’illustre ospite a prendere un caffè nel bar della piazza. Usciti dal locale, il segretario del prelato guardò in alto e chiese lumi su quella strana coppia di uccelli sul campanile.

“Quali?” Chiese il parroco, facendo lo gnorri. “Lassù in mezzo alle braccia del Santo.” Indicò col dito.“Oh, bella! È la prima volta che li vedo.” Disse, mentendo spudo-

ratamente davanti ai suoi parrocchiani.“Sembrano due cicogne.” Soggiunse il vescovo, sistemandosi gli

occhiali.“Le cicogne qui! Nooo…Saranno due gabbiani di passaggio…”

Proseguì Don Elpidio nel suo intento di sviare il discorso.“Passaggio, non credo. A me pare che abbiano fatto il nido.” Ribadì

il segretario.“No… ma che dice! La statua di San Damiano è un po’ sporca,

forse l’ abbiamo trascurata negli ultimi tempi.” “È chiaramente un nido!” Concluse il vescovo.“Lo faremo subito rimuovere!” Rispose Don Elpidio, mettendosi

quasi sull’ attenti.“Ma perché deve cacciarli via? Questo paese mi pare che abbia

bisogno di bambini e le cicogne portano bene. Lasci che San Da-miano si occupi di loro e quando avranno i piccoli mi chiami, perché

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voglio vederli. Del resto, è la natura.”L’alto prelato strinse la mano ai presenti e si congedò, augurando

a tutti Buona Pasqua. Con tale benedizione Don Elpidio dovette rassegnarsi ad avere in

affido una coppia di cicogne, che da quel giorno divennero ufficial-mente ospiti di San Damiano.

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Non ne ho proprio la forza

diAlessandro Pelicioli

 Sono i primi di aprile, ed è da stamane che ci nascondiamo fra questi alberi, celandoci a tutti, anche al sole.

 Dondolando, ci muoviamo fra i tanti sentieri, con calma e

tranquillità, e se solo si avesse il coraggio di chiudere gli occhi e di camminare, il fruscio del vento diverrebbe lo scroscio delle onde e si potrebbe così vivere il rollio di una barca col pensiero del mare. 

 Io dinanzi, e dietro di me, lui, il mio cane, dal pelo colore zucchero,

e dalla vecchiezza più vecchia della vecchiaia, che mi segue, e mi ha seguito nella mia vita, come un bonsai, segue nella sua crescita, il disegno di una vera quercia.

 Le traiettorie del nostro girovagare, seguono variabili di spirali, ma

costantemente ci ritroviamo nello spiazzo che s’apre al culmine della collina. E non è un caso: da quì infatti, si riesce a scorgere, fra i tanti tetti marrone ed amaranto, le rosse tegole di casa nostra. Credo sia lo stesso magnetismo, che costringe le bussole a vivere del Nord. 

 Individuare ciò che mi appartine, da una postazione lontana e di privilegio, mi da piacere perchè mi fa a sentire lontana, l’ordinarietà della mia vita, quasi fosse staccata e non necessaria, capace di esistere

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anche senza di me, in perfetta indipendenza, quasi fosse un ricordo. Tutto questo silenzio di natura, fatto di note suonate in pianissimo,

mi rende attento e m’ invoglia ad ascoltare, a porgere l’orecchio; ed è bello riscoprimi animale, sempre pronto ed obbligato dall’istinto del destino a scappare al primo rumore strano, così come a comunicare senza parole ma solo esclusivamente a gesti.

 Dentro di noi, passo dopo passo, si è svuotato il rumore, ed il battere

del cuore ha riempito anche lo spazio dell’abbaiare e del parlare.  E così è diventuo semplice il guardarsi. Semplice, ma più difficile, perchè all’incrociarsi dei nostri sguardi, i

nostri occhi rivelano di racchiudere cascate.  Nessuno dei due osa ammetterlo ma presto luì non sarà più: la

malattia lo sta mangiando dal dentro.  Così, nei momenti che seguono, io non so proprio che fare... Vorrei solo dirgli che nell’istante in cui il sonno arriverà ad

avvolgerlo, si racchiuderà su se stesso per divenire un magnifico cigno. 

 Vorrei tanto dirglielo.

Ma non ne ho proprio la forza.

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Margìdi

Stefania Petta

In pochi l’avevano vista, ma erano pronti a giurare che quella donnina che abitava nel cuore del colle della Maresana era un po’ stramba. Tanto che, per burla, avevano nominato la sua cascina la “Ca’ della Matta” proprio per via della sua inquilina, Margì. C’era-no tante dicerie sul suo conto e una volta un tizio raccontò che di Margì aveva sentito parlare da suo nonno il quale l’aveva descritta esattamente come l’aveva vista lui, con indosso una tunica con le maniche simili ad ali di farfalla, con i lunghi capelli del colore del grano maturo, che fluivano liberi fino alla cintola, e bella. La sua bellezza si era mantenuta, a detta del tizio, intatta, anche se gli anni erano trascorsi, e non sfioriva mai come i fiori che coltivava nella sua cascina. Aveva raccontato di averla vista vagare tra i boschi dove raccoglieva piante e parlava a ogni foglia che si muoveva, alle acque gorgoglianti dei ruscelli, agli uccelli e quando la gente lo accusò di avere le allucinazioni, egli assicurò che era tutto vero. Per la gente, sia chi l’aveva vista e sia chi ne aveva sentito solo parlare, Margì era un po’ picchiatella. Nessuno tuttavia sospettava chi lei fosse in realtà. Lei era una fata, la guardiana della Maresana. Lei parlava con i folletti del bosco, che vivevano celandosi sotto le foglie, dietro le radici o sotto le cappelle di funghi. Il colle della Maresana pullulava di vita, in ogni angolo. Negli stagni sguazzavano pesci, gli insetti

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ronzavano nell’aria, gli uccelli popolavano i rami degli alberi. Era un ecosistema perfettamente equilibrato e Margì vigilava affinché questo non fosse sconvolto.

“Folletto Martino, tu che vai giro di buon mattino, è tutto in or-dine?” domandava.

“Certo, Margì, meglio di così non può” rispondeva l’interpellato. “Come sei fresca acqua del ruscello. Dove vai così di fretta?” chie-

deva.“Sono acqua di montagna e allegra scendo a valle!” rispondeva

l’acqua. Di notte, gli abitanti del bosco si riunivano e facevano festa ballando al suono della musica che l’orchestra dei grilli suonava in-cessantemente. Ai tempi di questi avvenimenti il colle della Maresa-na era un vero paradiso. Con il trascorrere degli anni, ahimè, le cose cambiarono. L’uomo cominciò a distruggere utilizzando tecnologie poco compatibili con l’ambiente. Ben presto orde di comitive fe-stanti, si riversarono nei boschi, sporcando e distruggendo quell’am-biente pulito e fantastico. Una mattina mentre Margì faceva il solito giro, trovò il folletto Lagnone che appoggiato a un tronco di un albero piangeva sconsolato. Quando Margì chiese il motivo di tanta mestizia, questi rispose che il bosco era malato.

Anche il folletto Donato, il poeta che aveva il verseggiare inna-to, andava declamando “C’era una volta un bosco incantato, dove il giorno scorreva beato; c’era una volta un bosco fatato, ora c’è solo un bosco inquinato”.

Margì si rendeva conto che l’ecosistema cominciava a mostrare segni di squilibrio. Il ruscello non gorgogliava, fluiva silenzioso.

“Oh! Margì, come faccio a scendere allegro a valle se con me por-to veleni che piovono dal cielo?” Le stagioni erano impazzite e le piante non sapevano quando germogliare e alcune specie animali

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avevano problemi con il letargo. Il folletto Mattacchione, non faceva più scherzi, le api nelle arnie non facevano più il miele. Perfino i fiori della Ca’ Matta, avevano perso i loro brillanti colori. E quando la fata ne chiese il motivo, risposero che il sole aveva raggi nocivi. Margì, che ben sapeva quanto la sconsideratezza umana potesse es-sere dannosa, si preoccupava del benessere delle creature del bosco. Girava perciò per fare i sopralluoghi.

“Folletta Curiosa, tu che sbirci sotto ogni cosa, dimmi che c’è che non va?” domandava “Ci sono rifiuti ovunque, ieri vicino alla mia casa è rotolato un bicchiere di plastica e per poco non ci ha soffocati perché ha ostruito la porta d’ingresso!”.

Il malumore era dilagante! Per porre rimedio alla situazione, or-ganizzò un raduno con tutti le specie del bosco. Fu invitato anche il Gioppì, capo elfo del Canto Alto, che aveva una cotta per la fata. Il raduno si tenne di notte nel punto più remoto del bosco, per non essere spiati. Le lucciole facevano da lampioni.

“È con disappunto che proclamo lo stato d’emergenza. Molti uma-ni, ahimè, sono abituati a distruggere tutto ciò che non conoscono. Lo abbiamo visto nei nostri boschi e nei nostri prati. Sono convinti che l’ambiente che li circonda è roba di nessuno e perciò possono fare quello che vogliono!”.

Il folletto Irascibile si arrabbiò e quello Sbuffoso, sbuffò! “Il nostro compito è quello di far comprendere a questi individui

che tutto è di tutti e non di nessuno, che ogni cosa esistente ha una sua ragione di vita ed è legata a tutto il resto dell’ambiente!”.

Ci fu uno scroscio di applausi e tante parole di consenso. “E come?” domandò Perplesso, uno gnomo arrivato da più lonta-

no. Margì rispose che ognuno doveva trovare un’idea speciale per salvare l’ambiente, la migliore sarebbe stata scelta.

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“Fra tre giorni, alla stessa ora, ci troveremo ancora qui e ne discu-teremo”.

Ogni creatura vivente si isolò per pensare. I neuroni lavoravano a ritmo frenetico cercando e scartando possibili soluzioni. Nei boschi non si vedeva anima viva e tutto era avvolto in un silenzio innatu-rale. Le cicale non frinivano e perfino le foglie facevano resistenza al vento per non disturbare quella quiete “pensosa”. La Fata, che già sapeva cosa fare, finse per rispetto dei suoi piccoli amici di lavorare e per tre giorni si riposò. Il tempo sembrava essersi fermato, ma con gran sollievo di tutti giunse la sera del terzo giorno. Quando tutte le creature giunsero al luogo convenuto, lo spiazzo era illuminato a giorno. Tantissime lucciole erano arrivate da lontano richiamate dal passaparola delle compagne. C’era molta agitazione tra il popolo del bosco e quando la voce di Margì li richiamò ci volle del tempo per ottenere la loro attenzione.

“Dal lavorio delle vostre menti è nata qualche proposta interes-sante?”.

Ci fu il parapiglia, tutti cominciarono a parlare contemporanea-mente. Le voci si accavallano e le minuscole mani dei folletti erano tutte alzate. Margì sorrise, sapeva quante risorse più o meno fan-tasiose essi avevano. Erano esserini semplici che non conoscevano la complessa realtà del mondo. Il Mattacchione propose di rubare tutti i cestini del picnic e di spaventare gli umani con scherzi di ogni sorta. Il folletto Tessitore propose di erigere barriere a prote-zione del bosco utilizzando una tela resistente che avrebbe creato con l’aiuto dei ragni. Lo Scrittore si disse pronto a disseminare per l’intera Maresana cartelli con la scritta “Attenzione bosco infestato da folletti assassini”.

Parlò anche il poeta Donato, quello che aveva il verseggiare innato,

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il quale recitò una tiritera così lunga che gli altri per farlo zittire gli tirarono le more che avevano nel cestino.

Il Gioppì, che era furbo come una volpe, esclamò: “Margì, io ti conosco da tanto di quel tempo che a me non la dai a bere. So bene che tu hai già la soluzione! Su, dai sputa il rospo!”.

Un rospo permaloso che era sdraiato sopra un sasso, guardò storto il Gioppì e gli lanciò un gracidio di protesta.

“Oh! Scusa, rospo!” bofonchiò il Gioppì. Margì parlò. “Vi ringrazio per la collaborazione. Siete stati tut-

ti molto bravi e i vostri espedienti sono geniali e non saprei quale scegliere; tutti insieme, perciò, studieremo un piano più efficace e duraturo. Bisogna insegnare agli umani il rispetto per l’ambiente. Domani andrò a trovare una persona che ricopre un’alta carica. So che farà al caso nostro. Parola di fata!”.

A giorno fatto, Margì partì, quando tornò, spiegò alle impazienti creature del bosco che aveva sancito un accordo con l’alto funziona-rio. Lei avrebbe ceduto la sua cascina al Parco dei Colli.

La Ca’ della Matta sarebbe, così, divenuta il luogo dove si sarebbe-ro svolte tutte le attività legate al tema in questione.

Ci fu un “oh” generale che riecheggiò tutt’intorno. “Amici, presto, qui sul colle, arriveranno tanti bambini ai quali voi

farete da maestri per insegnare il rispetto per la natura e svelare i segreti del bosco. Avete un grande compito da svolgere. Fatevi ono-re!”.

Poco propensi a esporsi a rischi ignoti, i folletti accamparono un sacco di scuse. “Fifoni! Temete di non essere all’altezza? Ho bisogno di voi! Vorreste piantarmi in asso?”, li stuzzicò Margì che ci teneva a coinvolgerli nel progetto.

Punti nell’orgoglio, si ringalluzzirono. E sapete come finì?

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Guidati da Margì e da Gioppì, i folletti inventarono le attività più disparate, divertenti e istruttive da proporre ai bambini. Il Gioppì sposò finalmente la Margì! E la loro fama si diffuse in tutta la berga-masca. Il folletto Donato, maestro di rima baciata, contento e beato insieme ai bambini declama così: “Come è bello questo mondo, se facciamo un giro tondo. Com’è bello quest’ambiente, se pulito lo tien la gente!” .

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Categoria Scuole

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scuole suPeRIoRIPRImo classIfIcato

Ricordodi

Margherita Scalise

Mi ricordo che iniziò a piovere. Me lo spiegarono dopo, ov-viamente, cosa volesse dire, io ero appena nato. Mi ricordo che era una sensazione bellissima, l’acqua fresca che ti bagnava tutto, che ti nutriva, che ti dava un nuovo impeto di vita.

E dopo, quando era spuntato il sole, mi ricordo che per la prima volta avevo esclamato: “che bello! ”.

Era caldo, luminoso, la combinazione perfetta con quella pioggia che tanto mi faceva star bene. Mi ricordo la mia felicità, la mia in-cantata sorpresa davanti a quei miracoli. E niente, né le chiacchiere pettegole del mio vicino di prato, né il ghiaccio paralizzante della notte, mi potevano negare il mio infinito piacere verso il sole e la pioggia, verso la vita.

E così crebbi, sempre più alto, sempre più robusto. Ogni notte mi addormentavo, e ogni mattino potevo osservare dei cambiamenti su di me.

Quando veniva tanto freddo, quello che chiamavano inverno, i miei rami si protendevano al cielo, senza veste, senza foglie. Poi, pian piano, ricominciavano a coprirsi, e io guardavo compiaciuto le gemme spuntare, verdi contro il secco marrone della corteccia, si schiudevano, e arrivava il colore, il profumo, l’intensa primavera: nulla amavo di più di quel felice ricongiungimento alla vita, quando

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anche il sole diventava splendente e più caldo. Dopo ancora, era l’epoca del cielo color nontiscordardimé. Il calore si rivelava ancor più croccante, quasi feroce; ma io, per

allora, m’ero già coperto di tantissime foglie verdi, che mi trasmette-vano la voglia di essere. Ma loro erano ansiose del dopo, del futuro e a un certo punto si stufavano del verde brillante, decidevano di cambiare: le vedevo scurirsi, diventare un po’ gialle, un po’ rosse. An-che i miei amici, vedevo subivano il cambiamento delle loro foglie; e così, il bosco diventava tutto un perenne tramonto terreno, un luogo acceso dal nostro colore. Anche quell’evento, prima o poi, finiva:le foglie si lasciavano andare, l’una dopo l’altra, i rami si denudavano, il sole perdeva un po’ della sua grinta, e tutto tornava come all’inizio. Dopo uno di questi giri, ero sempre un po’ più alto, un po’ più robu-sto. Mi ricordo che era bello.

Ormai di questi giri, ne avevo fatti molti, ma provavo ancora lo stesso gusto di quando ero solo un germoglio per l’alternarsi della pioggia e del sole, per il fresco e il caldo, per i colori e i profumi.

Poi, bruscamente, tutto s’interruppe.Sentimmo da lontano un fosco brusio, come uno sciame d’api, ma

molto più forte. Gli uccelli, da lassù, scapparono: presero tutti il volo, e per qualche istante il cielo si oscurò di frenetiche ombre.

Non era un tuono. I tuoni venivano quando si preparava la pioggia, invece ora il sole splendeva felice, senza ombra di nuvola.

Mi ricordo che qualcuno alzò qualche ramo, vide cosa arrivava: un mostro sconosciuto, che ronzava sempre più forte.

Mi ricordo che qualcuno era incuriosito, altri erano impauriti.Mi ricordo che d’improvviso previdi, nell’aria, un cambiamento

definitivo.Si avvicinò, il mostro, a me per primo.

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Lo guardai, attento.E poi, ricordo il dolore.Fu bruciante, oppressivo, immane.Mi ricordo di aver fulmineamente paragonato quel dolore… alla morte.Non ci avevo mai pensato, alla morte. Ma d’un tratto capii che

era quella.Faceva troppo, troppo male per essere parte della vita.E fu così che sono finito.

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Estratto del diario di una quercia

diNicola Cavallazzi

Da quanto è qui? Devono averla lasciata stanotte: ieri non c’era. Questi umani sono proprio maleducati: ogni volta che uno di loro si siede alla mia ombra o si sdraia appoggiato alle mie radici, lascia come souvenir una lattina vuota o un fazzoletto usato. Ormai non c’è più metro quadro che non sia stato utilizzato come spazzatura almeno una volta. Non saprei dove mettere i piedi, se solo li avessi. Ma, aspetta: che giorno è oggi? Venerdì: lo vedo scritto sull’insegna. Sembra che quell’insegna luminosa avanzi ogni giorno, spinta dal gigantesco grigiore della città che si fa spazio.

Comunque: essendo oggi venerdì vuol dire che domani verrà il vecchio. Non so come si chiami e, d’altra parte, non posso nemmeno chiederglielo.

Di lui so solo che viene qui ogni sabato, si siede appoggiando la sua esile schiena al mio tronco centenario e si mette a spiluccare le fette di una mela che taglia e sbuccia con un coltellino svizzero e l’abilità di un prestigiatore. Alla fine si rimette il coltellino in una tasca e da un’altra tira fuori un sacchetto che riempie con i resti della sua mela e con le porcherie sparse sul prato intorno a me che racco-glie inchinandosi elegantemente e prendendole con due dita.

Oggi è domenica. Ieri il vecchio non si è fatto vedere.

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Sono molto preoccupato: erano anni ormai che non mancava al nostro muto appuntamento.

È il terzo sabato di fila che il vecchio non è venuto. Stasera le stelle sono oscurate da nubi cariche di pioggia e un vento gelido sferza i miei rami, portandomi via le ultime foglie secche: l’autunno sta len-tamente cedendo il passo all’inverno. Non credo che sopravviverò a lungo: le forze mi abbandonano e l’età si fa sempre più pesante. Ma temo che qualcuno possa accorgersene ed affrettare la mia caduta per procurarsi un po’ di legna da ardere.

Le mie paure sono state confermate: questa mattina sono stato svegliato da un brutto ceffo col berretto verde tutto preso ad analiz-zarmi, sopra e sotto la corteccia. Alla fine ha guardato i miei rami più alti e secchi, come per convincersi che stava facendo la cosa giu-sta, ha estratto una bomboletta e mi ha contrassegnato con una “X” rossa.

Cos’è successo dopo? Beh, oggi è Natale e ardo in un caminetto, donando calore ai miei assassini, i miei singhiozzi scambiati per al-legri scoppiettii. Il vecchio potrebbe essere ovunque, persino nella stessa casa che sto riscaldando. Ma non sta di certo assaporando il Natale, di questo ne sono sicuro. Probabilmente il suo animo arde come la mia corteccia, soffrendo per me quanto io soffro per lui. Legati dallo stesso destino.

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Quella era la mia zona!

diGiuseppe Locatelli

Non avrei lasciato a nessun altra lepre quella semplice zolla di terreno; per qualsiasi altro essere, essa non rappresenterebbe nulla di speciale, ma io la amo poiché lì ho vissuto la mia gioventù.

Ricordo ancora il torrente che scorreva armonioso, il dolce suono del canto degli uccelli, l’erba frusciante, il vento che mi arruffava il pelo, le corse con gli altri leprotti.

Nelle brevi e fredde giornate di inverno mi recavo sempre in una radura poco distante dalla mia tana: qui si trovavano gli alberi più antichi e saggi di tutto il parco.

I loro tronchi erano robusti e segnati dal tempo; nelle infinite cavi-tà dei loro rami trovavano rifugio molteplici specie di animali, quali scoiattoli picchi, ciuffolotti ed altri abitanti del bosco.

Nella radura crescevano anche fiori dai mille colori e profumi, erbe aromatiche e funghi di ogni tipo.

Il fulcro del parco era tuttavia il torrente, nel quale ogni animale si dirigeva periodicamente per dissetarsi o cercare di catturare qualche pesce.

Infatti, il piccolo corso d’acqua brulicava di pesci di ottima qualità come trote e alborelle.

Queste ultime si nascondevano sotto grossi massi. Non di rado, si poteva intravedere qualche gambero di fiume spor-

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gersi sul pelo dell’ acqua e subito ritirarsi nella sua tana con un rapi-do movimento di coda.

Lungo il corso del torrente, quindi, si potevano fare numerosi in-contri ed io mi affezionai particolarmente a quel luogo.

Ora sono adulto, dovrei abbandonare questo posto e cercarne uno nuovo, più spazioso, più assolato, più adatto alle caratteristiche di una lepre adulta.

Spesso mi trovo a ragionare in questo modo e sempre all’interno di me esiste un’unica possibilità: continuare a vivere lì.

Quella combinazione di elementi mi piace a tal punto che nem-meno il parco più affascinante potrebbe staccarmi dal mio territorio originario.

Una volta ricevetti la proposta di visitare una tenuta in Toscana e decisi di accettare l’invito.

Quando vi giunsi, mi trovai in un luogo meraviglioso: gli alberi erano molto più alti, i cespugli più fitti, gli spazi aperti più vasti di ciò che ero abituato a vedere.

Si trattava di una splendida oasi verdeggiante: di fronte a me avevo una natura quasi incontaminata.

Dolci colline si distendevano appena fuori dalla città, coltivazioni di ortaggi e cereali si presentavano a portata di mano, moltissime lepri correvano su e giù dalle piccole alture o facevano capolino dai campi frumento.

Fui seriamente tentato di fermarmi lì, ma proprio quando pensai che il trasferimento in Toscana fosse già cosa fatta, le immagini del-la mia giovinezza balenarono all’improvviso nella mia mente.

Non riuscii ad allontanarle ed eccomi qua, nel mio caro ed amato Parco dei Colli.

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Ho vistodi

Marianna Mazza

Ho visto il vento far muovere come un’onda le grandi praterie fruscianti, una marea senza spuma, frammentata e cangiante, ogni singolo stelo riluceva unico in mezzo a tutti gli altri.

Ho visto il mare, tumultuoso cristallo liquido, brulicare dei guizzi argentei dei molti pesci lì contenuti, lampi d’argento fresco e vivo.

Ho visto il cielo scuro e violaceo come il petalo di un etereo ed immenso fiore, ruggire di potenza e spazzare, con le sue raffiche, via le debolezze e le impurità.

Ho visto il vento sagomare le rocce, con infinita pazienza e tenacia e ho visto l’acqua scavare nella roccia dura cavità e stanze, tunnel ornati di zanne lustre di calcare.

Ho visto la danza degli elementi nel cielo, fuoco luminoso e bru-ciante, acqua e aria, tenebra vellutata e scura punteggiata di infinite luci, polvere argentea e scintillante, le galassie lontane.

Ho visto la vita sgorgare e nascere dalla terra, risalire sempre più vigorosa, robusta e rigida verso il cielo, nutrirsi della forza luminosa della stella, il Sole e dell’acqua delle tempeste.

Ho visto la vita nascere dal nulla, nell’oceano di cristallo, uscire dall’acqua, risalire sulla terra e lanciarsi nel cielo sconfinato, imboc-care vicoli ciechi e ricominciare daccapo, sopravvivere alle avversità, continuando a migliorarsi, generazione dopo generazione, perché

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solo continuando a cambiare si possono fronteggiare i pericoli e le minacce e perpetuare nel tempo, ecco perché l’immortalità dell’in-dividuo non esiste.

Ho visto il sole calare ed infiammare il cielo di un limpido colore carminio, viola cobalto e magenta, un colore così limpido ed intenso, l’ultimo saluto al sole morente.

Ho visto le piante creare fiori, ognuno diverso dall’altro, inventare stratagemmi per spargere i semi sempre più lontano e creare a poco a poco foreste e praterie, sopravvivere al ghiaccio dell’inverno per tornare più fortificate la primavera successiva, pronte a far scorrere nuovamente la linfa nei tronchi e negli steli riarsi.

Ho visto la vita lottare per non defluire nel mare della morte, at-taccarsi con le unghie e coi denti ad ogni espediente, con intelligen-za ed astuzia, ma la perfezione a cui la vita ambisce si paga con un tributo di morti, per ogni generazione.

Ho visto le isole emergere dalle acque con la sola forza del fuoco.Ed ho visto Loro.In meno di un battito di ciglia hanno sconvolto tutto. Le loro luci

sulla terra hanno spento quelle del cielo.Hanno sradicato foreste e bruciato praterie.Hanno scavato la terra, rubato minerali pregiati o incandescenti, li

hanno imprigionati sulla superficie. I materiali radioattivi, li hanno maneggiati con leggerezza e le loro radiazioni hanno contaminato tutto su cui sono arrivate.

Hanno avvelenato le acque e le hanno incanalate in solchi ricavati da loro, recintate in laghi con bordi di cemento, il mare quasi privo di guizzi d’argento.

Hanno avvelenato l’aria con vapori mortiferi, hanno soffocato il clima, il calore rimane nell’aria.

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Hanno sciolto i ghiacciai e creato i cicloni, intrappolato il fulmine, il fuoco e l’acqua che usano come vogliono.

Con arroganza hanno stravolto tutto.Guardando solo i vantaggi, guardando solo i pro per la loro razza

e mai i contro per la natura.Ho visto il mare tingersi di nero e soffocare, con la sua coltre tene-

brosa, i riflessi delle squame dei pesci.Ho visto gli animali schiavizzati, costretti ad ubbidire a ciò che

loro pretendono da essi: latte, uova, fedeltà e compagnia.Ho visto infine un fiore, un solo fiore, solo nel nulla di una terra

contaminata, aprire un bocciolo, le venuzze violacee, fibrose e sec-che, l’ho visto aprirsi a poco a poco mentre le foglie e lo stelo diven-tavano giallastre e poi marroni, secchi, morti.

L’ho visto usare tutte le sue forze per tenere aperta la sua corolla, le radici che assorbivano solo veleno, non acqua, sperando di poter far vivere almeno i suoi semi, i suoi figli.

Ma era solo.L’ho visto cedere ed abbandonarsi alla morte, di colpo, il suo pic-

ciolo si è seccato ed il fiore è caduto a terra, nella polvere, un corpo morto, un corpo morto trascinato dalla corrente del mare, le braccia spalancate ed inerti, le mani vuote, gli occhi vitrei spalancati e pieni di cielo.

Tutto questo ho visto e so che un giorno Loro arriveranno anche nel mio cuore, la mia roccaforte, il mio ultimo baluardo.

Ma lo troveranno già spento.Presto, infatti, molto presto fermerò il mio cuore di metallo in-

candescente.E allora chiuderò gli occhi per sempre, perché ho visto troppo, e

non voglio più vedere altro.

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Ma!?

In quella landa desolata, le ceneri del fiore non sono più sole. Un esile germoglio, verde come uno smeraldo, si srotola lentamente al sole e dispiega le foglie, stropicciate ed umide come le ali di una farfalla dopo la metamorfosi. Un seme è riuscito a germogliare nel terreno contaminato ed ora apre il suo bocciolo a poco a poco, apre i suoi petali carnosi e sani senza timore del veleno nella terra.

Lui ed i suoi figli vivranno, perché hanno imparato a coesistere con quel terreno.

Un germoglio che canta senza timore della sua esistenza, la sua vita, un germoglio verde come la speranza.

Speranza.

Sì.

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Ciao a tutti,vi voglio raccontare...

diGiulia Gabrieli

Ciao a tutti, vi voglio raccontare un’avventura a dir poco S-T-R-E-P-I-T-O-S-A! E… se siete amanti della natura questa è la storia che fa al caso vostro!

Il primo giorno del mese di luglio era incominciata la mia espe-rienza con le mie vecchie amiche e con una nuova: la natura! Prima che vi racconti, è meglio che incominciate a conoscermi per capire meglio questa storia.

La mia “impresa” ebbe inizio quando avevo undici anni e, a questa età, non amavo la natura e non ne avevo il minimo rispetto! Per que-sto motivo venni punita da lei stessa! Mi ritrovai a vivere un’espe-rienza entusiasmante, tanto che desidero raccontarvela!

Era il primo luglio (come vi ho già detto), era una giornata calda e soleggiata, il sole scottava e illuminava la strada, io indossavo una canottiera nuova e tutta colorata con dei pantaloncini rosa; passeg-giavo e chiacchieravo (certe volte urlavo, anche) con le mie ami-che Chiara, Agnese, Giulietta, Carmen e Alessia in un boschetto. Parlavamo di ragazzi e dei propri fidanzati (quali ragazze non parla-no di loro?), della scuola e dei prof., di quelli più simpatici e di quelli meno e… qualche volta scappava un pettegolezzo segreto!

Mentre si parla con le amiche il tempo vola, ma si rischia di per-dere la strada! Purtroppo è come pensate: ci eravamo perse! La cosa,

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però, è alquanto strana perché in quel bosco passeggiavamo sempre e lasciavamo qualche ricordo di noi al bosco (lattine di bibita, fazzo-letti, tovaglioli sporchi di cibo…), invece qui non era rimasto alcun segno del nostro passaggio, questa volta siamo finite in un bel guaio, non sapevamo dove eravamo e dove dovevamo andare allora abbia-mo provato a chiamare con il cellulare le nostre famiglie, ma… N I E N T E! Non c’era “campo”, allora abbiamo continuato sul sentiero dal quale avevamo incominciato il tragitto e così proseguimmo; ad un certo punto la strada diventò un po’ ombreggiata.

Quando avevamo iniziato il percorso erano le due, ma alle quattro e mezza non eravamo ancora riuscite a trovare la strada per uscire da questo labirinto… Ad un certo punto Agnese scivolò in un bur-rone e noi tentammo di salvarla ma ci ritrovammo tutte insieme sul fondo, ora la mia canottiera colorata e i miei pantaloncini rosa erano diventati color marrone, proprio così, al termine del burro-ne trovammo una bella “pozzangherona” di fango ed io sono finita proprio li!

Dopo esserci riprese dallo shock provammo a risalire il burrone, ma… man mano che salivamo sembrava che il burrone aumentasse la sua altezza! Dopo un bel po’ di tempo trascorso in tentativi falliti decidemmo di proseguire da dove eravamo cadute.

Ad un certo punto trovammo tre gallerie e, non sapendo quale scegliere, Carmen propose di dividerci in tre gruppi: io andai nel primo tunnel con Giulietta, Chiara con Carmen e Agnese con Ales-sia e così ci addentrammo. Alla fine del nostro cunicolo trovammo un paesaggio a dir poco agghiacciante: l’erba era arsa, color marrone, gli alberi secchi e non si vedeva altro che un paesaggio senza vita, anche per me è stato desolante vedere tutto ciò.

Decidemmo di scappare via al più presto da quell’orribile posto,

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correndo a più non posso raggiungemmo una collinetta, salimmo sulla cima e guardammo verso il basso: rimanemmo a bocca aperta nel vedere ai nostri piedi una sorgente d’acqua limpida e cristallina che raggiungeva un dislivello dal quale partiva una meravigliosa ca-scata tra le più belle che abbia mai visto!

La cascata terminava in un laghetto pieno di ninfee fiorite con-tornato da fiori di mille tipi e colori e le piante erano ricurve come i salici che richiamavano la forma della cascata, l’erba era di un verde acceso che faceva risaltare un arcobaleno che nasceva dalla cascata. Scendemmo velocemente dalla collina per poter ammirare al meglio questo stupendo paesaggio, durante la discesa scorgemmo una grot-ta dietro la cascata dove decidemmo di fare una sosta.

All’interno della grotta trovammo una pergamena con scritto: “per le sei amiche” quindi decisi di aprirla, intanto dall’interno della grotta sentimmo delle voci, le riconobbi subito! Erano le nostre amiche! Così aspettai ad aprire la pergamena per poterla leggere tutte in-sieme.

Una volta riunite abbiamo letto quanto scritto su quel foglio: “Care ragazze, sono Madre Natura, avete visto ciò che vi ho donato?

Volevo farvi presente che la natura serve per la vita, voi non potreste esistere senza di me, perché vi dono l ’ossigeno, l ’acqua e il cibo. Anche la natura ha una vita! Non rovinatela! Ma rispettatela! Volete un consi-glio? Non inquinatela! Altrimenti vi ritroverete tutto come al di là della collina. Il motivo per cui vi siete perse e cadute nel burrone è dovuto a me, volevo farvi capire il mio valore, l ’importanza di salvaguardare la natura!

Arrivederci… Madre Natura” .

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Capimmo subito il significato e l’importanza di questo messag-gio della nostra nuova amica, e pian piano, come per magia, tutto incominciò a svanire, si delineò un sentiero che diventava sempre più famigliare e… in meno di cinque minuti eravamo già a casa con le nostre famiglie a raccontare quest’esperienza indimenticabile, ma soprattutto ricca di significato, che avevamo vissuto.

Da allora io e le mie amiche non gettammo per terra il più picco-lo pezzetto di carta, ora avevamo imparato la lezione: RISPETTA LA NATURA E VERRAI RISPETTATO DA LEI; LO SAI, È MERAVIGLIOSA!

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L’estate in montagna

diSofia Mariani

Era piena estate quando partii per andare in montagna.L’idea mi entusiasmava perché era la prima volta che passavo le

vacanze in un luogo così ricco di animali e di una vasta vegetazione. Quando arrivai era mattina presto e subito mi stupii del panorama bellissimo e frastagliato, che intravedevo attraverso la finestra dalla casa umile e stretta in cui passai le vacanze. Scesi nel piccolo giardi-netto che contornava la casa e le dava un tocco di colore e, osservai attentamente lo spuntar del sole. La volta del cielo era disseminata di nuvolette bianche e soffici come la panna montata fresca. Negli spazi liberi, le stelle erano ancora visibili, ma non brillavano più. In basso il cielo era già chiaro. Subito sopra, all’orizzonte le nuvole erano grigie e parevano una seconda catena di monti dal contorno appena più frastagliato e bizzarro. Poi il turchino del cielo si cambiò in azzurro chiaro come il mare vicino alle coste. La stella Venere, la sola che ancora si vedesse, era impallidita, come spaventata. Parec-chie nuvole s’erano ammassate all’orizzonte comprimendo la striscia luminosa che ornava il profilo delle montagne più alte. Queste erano dello stesso colore delle nuvole, ma via via che il fulgore aumentava si incupivano. Poi finalmente il sole emerse dietro una gobba. Per un momento apparve al di qua dell’orizzonte, come se l’avesse scavalca-to. Sopra, la grossa nuvola era investita dai raggi che la tingevano di

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un rosa vivido e delicato. Poi, mi concentrai sui profumi che si con-fondevano l’uno con l’altro, su tutti quei fiori strani e quelle farfalle variopinte mi crearono un’atmosfera fiabesca. Mi sedetti sull’erba fresca e liscia, sentii le freschezza della montagna, non vedevo l’ora di conoscere altri luoghi di quello splendido paese e di iniziare una nuova e avventurosa estate fra i boschi di Introbio.

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C’era una volta un bellissimo bosco di nome “La Dimora di Madre Terra”. Era abitata da bellissimi animali innocui e molto dol-ci. Vicino al bosco ci abitava una signora molto anziana di nome Orchidea che aiutava il bosco e chi ci abitava. Il nome Orchidea le venne dato dalla sua famiglia Colli per il suo amore che ha per i fiori, le piante, la flora e Madre Terra. Orchidea teneva tutti i tipi di piante e fiori di tutto il mondo. Un giorno arrivò la regina del regno a cui apparteneva il bosco e decise di tagliare tutti gli alberi perché li riteneva inutili. Orchidea venne avvisata proprio il giorno stesso in cui la regina iniziò ad abbattere gli alberi e così non poté fare nulla per evitare questo omicidio.

Pochi giorni dopo fece una passeggiata nel prato brullo ove c’era il bosco e, siccome si sentiva sola e triste si portò con sé una pianticella da casa. Orchidea appoggiò la piantina che aveva in mano vicino a un fiume e si sdraiò pensierosa. Quando Orchidea se ne andò si dimenticò di avere lasciato la pianta ma si accorse che gli mancava qualcosa.

Quella piccola pianta si nutrì con l’acqua del fiume e diventò un albero gigante e da quella pianta arrivarono altre piante molto più belle di quelle di prima.

La leggenda delParco dei Colli

diRecep Gunay

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Orchidea si ricordò di avere lasciato la pianta nell’ex bosco e così andò a riprenderselo. Quando arrivò al fiume vide un intero bosco ancor più bello di quello di prima. Orchidea si meravigliò moltis-simo e il cuore le si riempì di gioia. “Bene ho compiuto la mia ulti-ma missione e così posso andarmene più felice e soddisfatta di aver compiuto il mio dovere”. Vicino al corpo di orchidea apparve una bellissima orchidea. Dal quel giorno il bosco si chiamò “Il Parco dei Colli”, dal suo cognome per ricordare alle generazioni future ciò che aveva fatto per salvaguardare il bosco e la natura.

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Il killerdi

Susanna Hu

“...Con un debole gemito la donna s’abbatte al suolo. L’assassino sorrise perfidamente. Ora gli rimanevano pochi minuti, doveva agire in fretta. Cancellare le sue tracce, riprese l’arma e mise accanto corpo il suo biglietto da visita, poi si dileguò, confondendosi tra le ombre della notte”.

Fummo informati del nuovo delitto la mattina seguente alla mor-te. In ufficio ebbi la conferma di ciò che sospettavo: era stato Lui, ancora quel maledetto serial killer che da quattro mesi teneva in pugno tutta Scotland Yard. Esaminammo il corpo e trovammo le cose identiche a tutti gli altri sette cadaveri trovati nei precedenti mesi. Donne, abbastanza giovani, brutalmente assassinate da un af-filatissimo bisturi; secondo l’autopsia, il cadavere presentava tracce di morfina, somministrati in precedenza dal killer. Sotto il corpo abbiamo poi trovato il suo biglietto di riconoscimento: un carton-cino bianco che raffigurava una mela e le lettere “D.N.” in rosso sangue. Chi era? Cosa voleva?! Ritornai in ufficio per riesaminare ancora una volta gli appunti: fino ad adesso aveva ammazzato donne prima dei 35 anni, possedeva un bisturi che era l’arma dei delitti, aveva biglietti da visita stampati da solo e ogni scena del crimine era ambientato in un parco; le date erano varie e non seguiva uno sche-ma preciso. Andai a vedere come procedevano le indagini e chiesi

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se avevano trovato qualcosa d’interessante, mi rispose Paul, un mio collega, tutto emozionato “Sì!! Abbiamo trovato tracce di resina sul corpo della vittima!!!”, “Paul, siamo in un parco, è naturale ci sia della resina” risposi deluso. “È qui che ti sbagli: in questo parco non c’è né alcuna traccia!!” mi disse con gli occhi che brillavano dall’eccitazione. “Vuoi dire che...?” chiesi ancora incerto, “Sì!!! È una traccia del killer, finalmente si è dimenticato di un particolare!!”. Mi sentii fremere da una scossa. Avevamo un indizio! A quel punto, tutta la squadra si mise all’opera, avevamo una pista sull’assassino!! All’improvviso mi sentii carico d’energia e di entusiasmo come non mi succedeva da tempo. Feci uno schizzo dei parchi e dei giorni dei decessi... sette date e sette parchi... c’era un nesso tra queste sette cose, me lo sentivo. Scrissi i nomi delle vittime, ma non ci trovai alcuna connessione tra loro quando l’occhio mi cadde in una lettera che ne portava ad un’altra e così via... ero interdetto e pietrificato al tempo stesso. La settima lettera del nome di ognuna delle vittime andando in ordine dei decessi, messe insieme, formavano le paro-le “Parco” e “Colli”, ma era un idiozia, cosa poteva voler dire? Ma se invece era una traccia? Insomma, le vittime erano sette e lettere che componevano le parole numero sette, poi ogni delitto era stato commesso in un parco...

Assurdo, cosa significava? Dovevo cercare un parco tra i colli? Mi stavo ancora scervellando sull’enigma quando fece capolino dalla porta, Paul “Hey, noi per rilassarci andiamo al parco dei Colli, vuoi venire anche tu?”. Quella frase fu per me un vero e proprio barlume di luce: il Parco dei Colli!!! Ecco la soluzione!! Lì stava accadendo qualcosa che in quale modo era collegato al killer... ma cosa? L’unico modo per scoprirlo era quello di andare a controllarlo di persona, per questo accettai l’invito anche se decisi di non rivelare a nessuno

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di quello che avevo appena scoperto. Lì, chiacchierai con i vari col-leghi e con il mio amico e collega Ben, informandolo della nuova vittima. Gli dissi anche della resina e notai che lui ne aveva un po’ nelle maniche e una macchiolina di sangue sull’orlo della camicia, ma mi spiegò che la resina proveniva dagli alberi del suo giardino e il sangue era di quando si era ferito con la carta e il dito sanguinava dappertutto; non gli prestai molta attenzione in verità, poiché stavo indiscretamente setacciando con gli occhi, tutto il parco. Dopo un po’ di tempo, tutti i colleghi ritornarono al lavoro finché di tutto il gruppo non rimasi solo io. Da quel momento perlustrai ogni centi-metro del parco, ma non trovai nulla, zero di zero. Mi abbandonai esausto sotto l’ombra di un albero e cercai di ricapitolare il tutto con calma e lucidità: un killer, sette lettere, sette vittime e un par-co... sembrava un vero rompicapo!!! Decisi di ritornare in centrale quando vidi poco lontano un arnese brillare tra l’erba. Strano che non l’avessi notato, prima. Incuriosito, mi avvicinai. Rimasi impie-trito quando vidi cos’era. Un bisturi. Con dita tremanti, mi chinai per raccoglierlo e lo esaminai. Presentava resti di sangue sulla lama. Venni scosso da una scarica di adrenalina, presi il sangue e mandai il campione in laboratorio per farlo analizzare immediatamente e poco dopo ebbi la conferma di ciò che pensavo, ma di cui non avevo il coraggio di affrontare realmente: il sangue corrispondeva a quello dell’ultima vittima. Il bisturi che avevo trovato apparteneva al serial killer. Ma non capivo: sembrava che all’improvviso il killer volesse farsi scoprire; perché quello strano rebus del sette e del parco? E perché abbandonare l’arma dei delitti? Era una trappola? Sopraf-fatto dal terrore misto all’emozione, decisi di andare a confidarmi da Ben a andai a casa sua. La porta era aperta, ma di lui non v’era traccia, così salii in camera sua. Non c’era anima viva, per questo

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ritornai sui miei passi quando un oggetto sulla mensola catturò la mia attenzione. Mi avvicinai terrorizzato e incredulo. Era una bot-tiglietta aperta di cloroformio. La presi tra le mani mentre in mente si fece largo tra i ricordi l’immagine del sangue sulla sua camicia e l’odore di resina,“...proviene dagli alberi del mio giardino... già, sono stato così sbadato da essermi tagliato da solo con la carta, il dito non la smetteva più di sanguinare...”. Era nervoso e a disagio quando l’aveva detto, inoltre non aveva mai piantato un solo albero nel suo cortile, aveva sempre con sé un kit da infermiere per medi-carsi all’istante, oltretutto aveva la laurea in medicina, sapeva tutto sui narcotici e avrebbe potuto facilmente rubare un bisturi dal suo ex studio. Tutte le prove combaciavano. Ma no, non era possibile! Mi rifiutai di pensare ad una cosa del genere. Indietreggiai e an-dai a sbattere sulla scrivania dove vidi un cassetto socchiuso da cui spuntava un fascio di fogli. La curiosità ebbe il sopravvento, aprii il cassetto e presi il fascicolo e lo sfogliai. Vi caddero diverse foto-grafie: alberi, cespugli, animali, tutti del Parco dei Colli. Andando più a fondo trovai altre immagini di donne, precisamente le vittime. C’erano anche notizie su di loro. Date di nascita, appunti sulle loro uscite, come trascorrevano le loro giornate, chi frequentavano. Con-statai quindi che il killer le controllava ben bene, prima di ucciderle. Non potevo credere che il mio collega e amico Ben fosse il famoso serial killer. Trovai diverso materiale anche sul Parco, buttai l’occhio su alcune frasi quando una mi catturò l’attenzione, costringendomi a leggere per bene tutto il foglio. Era un certificato di abbattimento. Il Parco dei Colli stava per essere demolito, e il capo della squadra di distruzione era proprio Ben. Ma perché? Stavo per riporre tutto il fascicolo al suo posto, quando cadde per terra una vecchia polaroid: rappresentava Ben insieme ad una giovane ragazza molto carina che

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non conoscevo. “Helen, mia sorella” mi rispose una voce alle mie spalle. Mi voltai di scatto e vidi il mio amico sulla porta. Mi sorrise “Quindi mi hai scoperto” disse. Nono seppi proprio cosa rispondere. Cosa avrebbe fatto adesso? Ero immobilizzato dal terrore; sapevo che era capace di uccidere, ma avrebbe ucciso anche il suo miglior amico?!? Cercai di prendere tempo “Perché le hai uccise? Cos’hai contro il parco?”. Si avvicinò a me, ancora con quel specie di sorriso/ghigno in viso, ma mi rispose “Non ti ho mai parlato di Helen, vero? Era davvero una sorella......ma, poco importa la mia opinione, tanto è morta. Pretendeva sempre di essere la “capa” in ogni momento, sempre a comandare e a voler essere al centro dell’attenzione. Mi ha proprio reso la vita un inferno!!! Per venticinque anni ho lasciato che regnasse sulla mia vita, ma soffriva di cuore. È morta per attac-co cardiaco”. Per un attimo si perse fra i ricordi, ma poi si riscosse e continuò a parlare “Helen adorava quel parco. Ci andava tutti i giorni, le piaceva quel posto pieno di alberi, con tutto quel verde...ma il Parco dovrebbe andare distrutto! Io lo detesto a morte quel postaccio, sono anni che cerco di distruggerlo! Se il Parco verrà di-strutto mia sorella sarà davvero morta!”. Nei suoi occhi passò un lampo di luce maligna, mentre la sua voce si faceva piena di avidità. “E quelle donne che colpa avevano in tutto questo?!” chiesi, “Le assomigliavano troppo, ecco il perchè. Castane, magre e potenti”. Quella spiegazione mi fece mandare in bestia e mi precipitai verso di lui in preda ad un potere sconosciuto, ma lui reagì in fretta e ci picchiammo. Ci fu una lotta furibonda, era una questione di vita o di morte. Sbattemmo contro il muro e cademmo dalla finestra, roto-landoci sull’erba, ma senza smettere di lottare. Per fortuna un collega era in pattuglia, ci vide e mandò i rinforzi sul posto. Mi accorsi solo che sanguinavo abbondantemente, poi svenni. Mi svegliai il mattino

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dopo, quando appresi che Ben era stato arrestato dalla polizia in seguito a un ispezione a casa sua, dove avevano trovato i fascicoli e i biglietti da visita, anche se i poliziotti stentavano ancora a credere che il serial killer fosse uno di loro e che avesse ucciso sette donne proprio sotto il loro naso e per un motivo tanto banale e stupido. Ma la vera notizia che m’interessava era sapere se il Parco era salvo, e il certificato era stato ritirato dopo le varie e insistenti proteste ambientali e dalle varie petizioni. Mi rilassai e capii finalmente che il parco era in pace.

“La pace durerà poco, ricordatevelo agenti. Godetevi questi attimi di calma, perché tra poco arriverà una strage... un nuovo serial killer è in arrivo, e sarà molto, molto pericoloso... D.N.”

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La vera storia del Parco dei Colli

diMattia PedriniAlessandro Rota

È primavera: il sole sorge, i fiori sbocciano, gli animali si sve-gliano, e fra questi si trova piccolo riccio. Piccolo riccio è uguale agli altri, tranne per il manto rosso fuoco. Al momento del risveglio il nostro amico non voleva svegliarsi, ma appena aprì i suoi occhioni scuri gli si presentò uno spettacolo orribile: un’enorme, gigantesca montagna di rifiuti era fuori dalla sua tana: “chi può essere stato?”, si chiese il riccio. “lo so” disse una voce lontana.

Ovviamente piccolo riccio non si aspettava una risposta, però la voce era calda e melodica, come quella di un angelo.

Piccolo riccio si domandò di chi fosse, così riascoltò quella voce, ma intorno non c’era nessuno.

“Sono la voce del bosco” disse, gli uomini mi stanno lentamente uccidendo......”.

Da quella risposta riccio capì che doveva fare qualcosa. Ma cosa?Per giorni e giorni riflettè fino a quando gli venne una straordi-

naria idea: trasformare il bosco in una riserva protetta. Così per più o meno un anno andò in cerca di piante ed animali che volessero vivere in quel bosco.

Trovò: lucertole di tutti i tipi, uccelli di tante forme e colori, aquile e falchi, una volpe e tanti semi di alberi, fiori e piante.

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In pochi anni fecero tutto: eliminarono i rifiuti, piantarono i semi e trovarono le tane per tutti gli animali.

Siccome il bosco era situato in collina gli uomini chiamarono la riserva: “Parco dei Colli”, e come simbolo indovinate?

Un riccio rosso.

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