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I Quaderni di PATRIMONIO INDUSTRIALE

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Centro Stampa Regione Emilia-Romagna, Bologna, 2014ISBN 9788897281337

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7 Introduzione Renato Covino

11 Architettura industriale e urbanisticaPiero Orlandi

12 Politica e cultura del territorioRoberto Alperoli

15 Patrimonio industriale e governo del territorio Giordano Conti

19 L’AIPAI per il patrimonio industrialemodeneseMassimo Tozzi Fontana

23 Il censimento del patrimonio industriale modeneseEnrico Chirigu

29 La tutela del patrimonio industriale modenesePaolo Frabboni

34 Documenti per la storia di Modena industrialeGiovanni Losavio

38 Ex AMCM, la città illuminata. Dai lampioni ad olio alla municipalizzazionePatrizia Curti

49 One square mile. Il miglio quadrato dell’artigianato automobilisticomodeneseMilena Bertacchini e Rossella Ruggeri

65 Per una città partecipata. Passato e futuro delle ex Fonderie Riunite diModena

Giulia Piscitelli

73 La città nella fabbrica. Il recupero della Manifattura Tabacchi di Modena Francesca Govoni e Alice Sighinolfi

82 La Stazione delle Ferrovie Provinciali di Modena: davvero una Stazione ‘piccola’? Anna Rosa Venturi

89 Densità sostenibile: il caso del Villaggio Artigiano di Modena Ovest Giulia Giusti e Eulalia Lily Goles

99 La fornace Cavallini a Castelvetro. Un caso denso di istruzioni, raro ed esemplare nell’intera regione Antonio Nicoli

110 Conclusioni Renato Covino

Indice

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Introduzione

R e n a t o C o v i n oUniversità degli Studi di Perugia, Presidente AIPAI

Vorrei iniziare questo mio intervento ringraziando i partecipanti a questa giornata per l’attenzione che hanno voluto riservarci: Italia Nostra che insieme a noi ha organizzato questo appuntamento, le altre presenze associative, i relatori e i rappresentanti delle istituzioni. A tutti un grazie non convenzionale.Questa giornata di lavoro rappresenta un momento di snodo della nostra attività in Emilia Romagna, per molti aspetti esemplare anche per il resto del paese.Ovunque si discute di patrimonio industriale, ovunque registriamo un interesse intorno al tema impensabile fino a pochi anni orsono. Le comunità, forse un po’ meno le amministrazioni, il mondo associativo, le strutture culturali si rendono conto che la questione delle aree produttive dismesse è troppo importante per lasciarla esclusivamente nelle mani di una piccola associazione come la nostra. Si è, inoltre, sviluppata all’interno delle diverse realtà cittadine una sensibilità che tende a crescere nel momento in cui la tumultuosa velocità dei cambiamenti modifica punti di riferimento, paesaggi, valori sedimentatisi nel corso dei decenni.Abbiamo voluto questa giornata dopo aver riflettuto quasi un anno e mezzo con Italia Nostra sul fatto che una città fortemente segnata dall’industria come Modena aveva un problema di riqualificazione, di ricollocazione e di ridisegno di aree deindustrializzate o dismesse. Ci è sembrato giusto porre all’ordine del giorno tali tematiche, considerando che Modena è un centro industriale e che i processi produttivi ne hanno profondamente segnato il territorio urbano e rurale al pari dell’antica centuriazione. Parti consistenti

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della città hanno conosciuto questo tipo di presenze, i paesaggi urbani sono stati fortemente caratterizzati dalla presenza di case operaie, di fabbriche e stabilimenti che spesso si spingono fino alle aree centrali del tessuto urbano. Una realtà come quella modenese pone un problema anche all’Aipai. Fino a qualche anno fa il nostro approccio ai beni industriali è stato essenzialmente conoscitivo. Essi rappresentavano una porzione della cultura materiale italiana che andava studiata e analizzata con diversi approcci disciplinari. I nostri soci, per lo più studiosi e ricercatori giovani e meno giovani, orientavano in tale direzione la loro attività. Se però ciò fino ad un decennio fa era sufficiente a caratterizzare gli archeologi industriali italiani, nella situazione attuale non è più sufficiente. Si pone oggi un nuovo problema che è quello della patrimonializzazione di monumenti, siti e paesaggi della produzione. E’ una questione su cui sappiamo di potere incidere solo in parte come associazione, entrano infatti in gioco molteplici problemi ed interessi che vanno dal valore delle aree e dei macchinari alle scelte urbanistiche alle culture diffuse. In questo quadro entra in gioco la politica intesa in senso ampio, ossia l’insieme di forme organizzate che insistono nelle città e nei territori. Ciò richiede un dibattito e decisioni partecipate tra diversi attori, cosa semplice a dirsi e molto più difficile a farsi.Infatti la retorica della scelta più veloce possibile (considerata come espressione di efficacia e di efficienza) il più delle volte sussume il dibattito, ritenendolo inutile. Tuttavia saltare questo passaggio crea situazioni pericolose, tanto più se si considerano gli elementi che ci separano dall’altra nostra giornata emiliana di studi, quella di Bologna del 2 dicembre 2009. Oggi non viviamo isolati dal resto del mondo e la questione della crisi e dell’esplosione della bolla edilizia sono diventati elementi costanti che si registrano in tutte le città italiane. Succede che, nonostante leggi risibili che tendevano a incoraggiare il ciclo edilizio, quest’ultimo registri un blocco. Si calcola che le transazioni di case siano diminuite del 36%, mentre i prezzi sono calati solo del 9%. Questo significa che le case sfitte o invendute vengono portate in garanzia alle banche, dove si ottengono nuovi crediti per fare case che a loro volta rimangono sfitte o invendute, mentre la dinamica sopra descritta tende a riprodursi. I piccoli costruttori in questo modo vengono eliminati dal mercato, mentre le grandi imprese continuano a correre con esiti difficilmente prevedibili. Insomma la questione del riuso e della rifunzionalizzazione diviene centrale non solo dal

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punto di vista culturale e urbanistico, ma anche da quello più direttamente economico. A ciò si aggiunge la necessità di una riflessione sul livello di consumo dei suoli che ormai ha raggiunto in Italia punte insopportabili - in venti anni si è edificata una superficie pari ad una regione come l’Abruzzo - ma anche sui tipi di riuso delle strutture e dei siti industriale che spesso sono perlomeno discutibili. I nostri censimenti ci dicono che le tipologie di riutilizzo delle aree industriali sono sostanzialmente quattro: parcheggi, centri commerciali, abitazioni e centri direzionali. Possibile che in città di medie dimensioni – come è Modena - non si riesca a immaginare qualcosa di diverso e migliore? Questa è la prima domanda. E in secondo luogo: possibile che non si riesca a pensare a un riuso degli edifici che ridia anima e volto alle nostre città e che al tempo stesso riesca a promuovere nuove attività economiche? Ma c’è di più. Possibile che il passato costruito oltre a essere una teca di valori e identità non possa essere un momento che entra in quel circuito che con una espressione abusata e impropria viene definito come marketing territoriale? Il patrimonio industriale, che finora è stato considerato elemento minore del patrimonio culturale, non può costituire un elemento di grande importanza per definire le identità di un territorio, di una città? Imprenditori avvertiti cominciano a porsi questioni di questo tipo. Si attrezzano nelle aziende anche di piccole dimensioni fabbriche-museo dove i vecchi cicli vengo riproposti e spesso riutilizzati nella produzione. Cresce l’attenzione nei confronti di macchinari di tipo antico che consentono operazioni e produzioni altrimenti impossibili. Stamani, ad esempio, abbiamo incontrato i rappresentanti di un’associazione modenese che si occupa del recupero di macchinari. Insomma oggi si tratta di porre il problema della rifunzionalizzazione non solo come valorizzazione del patrimonio, ma come problema di ridisegno della città e della sua cultura, sapendo che non possiamo più continuare a consumare territorio e, al tempo stesso, il patrimonio non si configura solo come valore culturale, ma anche come elemento permissivo di un diverso modello si sviluppo. Per contro assistiamo sempre più spesso a recuperi improbabili, dove il nuovo uso non salvaguarda i valori originali, sbagliando non solo dal punto di vista filologico, ma anche da quello delle stesse pratiche di riutilizzo. Ciò pone due questioni che sono state affrontate nella prima parte della giornata. La prima è quella delle buone pratiche. Si tratta di cominciare a definire quali siano i criteri al di sotto dei quali non si può andare, quali

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debbano essere a tale proposito procedure e normative. Non è più possibile che l’unico strumento conoscitivo sia la relazione architettonica (con tutto il rispetto per gli architetti), spesso piegata a giustificare l’uso futuro di un’area o di un edificio, e non tesa a evidenziare caratteri dell’edificio o del sito. Il pericolo è che si vada ad una modificazione degli equilibri esistenti, a volte in maniera pericolosa. Ad esempio l’assenza di una pratica corretta di conoscenza in una città come Perugia ha significato il crollo di una collina e dei fabbricati su essa costruiti per due volte. Solo dopo anni le indagini hanno fatto emergere che gli Etruschi avevano costruito delle canalizzazioni in terracotta che le ruspe hanno distrutto, provocando lesioni e rischi di crollo degli edifici di nuova realizzazione. In sostanza esistono livelli minimi indispensabili di conoscenza e procedure a cui attenersi; del resto le tecniche di restauro sono giunte a tale livello tecnologico che sarebbe stupido non approfittarne. Il secondo elemento è ancora più grave. In passato era in voga un adagio di buon senso secondo cui governare un territorio esige la sua conoscenza. Molti di noi hanno assunto come statuto questo adagio ed hanno cominciato a studiare i territori nella convinzione di fare un lavoro utile, che aveva come radice un impegno civile e una concezione non accademica della cultura. Dobbiamo amaramente constatare che in una società che tende sempre più alla complessità, dove ci sarebbe una maggiore necessità di governo, i processi di conoscenza valgono sempre meno, così come i percorsi partecipativi. Così dalla bocca di amministratori delle più diverse case politiche si possono sentire espressioni come “per quattro pietre non si può impedire ai cittadini di parcheggiare in centro” come mi è capitato a Verona, dove il parcheggio dovrebbe sorgere su un sito romano distruggendo le vestigia d’epoca. Questo ritornello ricorre con formule diverse un po’ dappertutto. E’ questo l’allarme che vorremmo lanciare: in una società che si sta modificando a grandissima velocità, in città come le nostre, fragili e complesse, o crescono i livelli di conoscenza o non è possibile governare il cambiamento. Occorre insomma mutare la prospettiva e questa è una delle condizioni per riaffermare il valore della cultura, ma anche per impedire la distruzione del passato in nome di un futuro miserabile e privo di senso.La speranza è che anche questa giornata riesca a stabilire un percorso che consenta di ridefinire un metodo e un dibattito che ad oggi sembra essersi interrotto.

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Il patrimonio architettonico che proviene dall’industria, dalla sua storia ricca di successi e da questo presente impoverito e ricco di dismissioni, quando entra nel paesaggio urbano lo fa con una speciale carica emotiva. Succede quando i complessi industriali, cessando le attività, escono da quel loro tipico isolamento dalla città, che si esprime con muri e cancelli e che ritaglia isole di ordine e operosità nel movimento e nell’incertezza che stanno fuori. Allora gli edifici sembrano all’improvviso comparire davvero, nella loro dimensione fisica spesso imponente, resa anche più percepibile e permeabile dall’abbandono. E’ da circa vent’anni che questo fenomeno avviene con tanta e progressiva frequenza da aver spinto il legislatore dell’urbanistica a prenderne atto; fu quando nei primi anni novanta furono stanziati fondi ministeriali per avviare i primi programmi di riqualificazione urbana delle aree dismesse. Si aveva ragione di credere che i grandi vuoti urbani provocati dalla cessazione degli usi di impianti industriali, caserme, scali ferroviari, attrezzature ospedaliere, avrebbero potuto essere determinanti per la realizzazione dei servizi di scala urbana di cui le città avevano e hanno spesso estremo bisogno. L’aumento progressivo degli edifici vuoti, abbandonati, sottoutilizzati, privi di accettabili standard manutentivi e prossimi all’uscita dallo stock edilizio disponibile rende necessario e ormai urgente monitorare il fenomeno, realizzare censimenti, anche sulla scorta di esperienze come quella modenese che qui si presenta. Sta ora avviandosi una mappatura del dismesso a scala regionale, anche per contribuire a una ricerca nazionale dedicata a studiare modi e forme del riciclo, sia di questo patrimonio che di quello, precocemente abbandonato in quanto mai nemmeno utilizzato, che ci viene da iniziative immobiliari ormai anacronistiche, che continuano a produrre quantità di superfici residenziali e industriali destinate a non essere assorbite dal mercato e dunque inutili per la collettività. Le une e le altre superfici, del dismesso reale e di quello fittizio, vanno viste come una risorsa vitale per contribuire davvero e stabilmente alla riduzione e alla cessazione del consumo di suolo, annosa e mai curata malattia italiana.

Architettura industriale e urbanistica

P i e r o O r l a n d iIstituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna

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I temi trattati in questa giornata di studi sono molto importanti e si possono riassumere in una serie di domande che ogni città di questo Paese si dovrebbe porre: che cosa conservare, come conservare, che tipo di identità occorre traslocare nel futuro, che tipo di conservazione funzionale deve avere la memoria. Più in generale, mi sembra che il tema decisivo sia che tipo di ruolo debbano avere la cultura e la conoscenza in questo paese.Questo è il tema decisivo, di qui l’importanza di questa giornata di studi. Noi viviamo in un paese, l’Italia, in cui la cultura e la conoscenza sono marginali. Vengono trattate con una superficialità profondamente offensiva.Il dissidio, addirittura l’inimicizia, tra cultura e politica data ormai da decenni e devo dire che tale dissidio riguarda tutti gli schieramenti politici. Con delle differenze, certo. Ma non c’è dubbio che l’ insufficiente considerazione del punto di vista della cultura in Italia è uno degli elementi che hanno prodotto tanti disastri nel nostro Paese. La cultura e la conoscenza non hanno solo perso prestigio pubblico e sociale: economicamente sono abbandonate. L’Italia investe solo lo 0,21% del PIL in cultura; tutte le altre nazioni europee investono percentuali molto maggiori.Molti disastri di carattere urbanistico-ambientale sono legati al fatto che, separata dalla cultura, la politica diventa solo gestione economicista del potere. Non si possono governare una città, un territorio, la vita pubblica, senza il punto di vista della conoscenza e della cultura. C’è un libro-intervista a Campos Venuti, presentato recentemente a Modena,

Politica e cultura del territorio

R o b e r t o A l p e r o l iAssessore Politiche Culturali, Turismo e Promozione del Comune di Modena

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che ha come sottotitolo “città senza cultura”.Dire che per governare bisogna conoscere, può sembrare un’ovvietà assoluta, ma, in una società come la nostra, che ha enfatizzato il fare deprivando il pensare, non è un’ovvietà. Un esempio di tutto questo, che resterà negli annali della storia, è la frase “con la cultura non si mangia”, pronunciata dal potente Ministro dell’Economia. Così come credo che soltanto in Italia sia accaduto che il Ministro della Cultura per sei mesi non sia andato a lavorare. Allora, come far sì che classe politica e mondo della cultura dialoghino di più, come far sì che la politica utilizzi le competenze della cultura, senza la quale c’è soltanto superficialità e improvvisazione? Come considerare che anche lo sguardo della cultura deve avere un’importanza come lo sguardo ambientale, lo sguardo sociale e lo sguardo economico? Il disegno della città futura deve contemperare tutti questi sguardi.Ciò che dobbiamo fare è dunque aumentare e diffondere i momenti di studio e di conoscenza, e i luoghi di confronto. So bene che ci sono differenze di opinioni, anche radicali, tra alcune associazioni che hanno organizzato questa giornata e le scelte che sta facendo o ha fatto l’Amministrazione Comunale. Penso che debba essere ripristinata una serenità dialogica in questa città, una serenità di relazione e confronto. E il confronto c’è se c’è l’ascolto. Questo è un altro grande tema della nostra società: sembra che nessuno ascolti più nessuno, se non se stesso, e talvolta neanche se stesso. Per confrontarsi bisogna ascoltarsi, e per fare questo va ripristinata la piena legittimità di tutti i punti di vista e di tutte le osservazioni, anche di quelle più critiche. Sapendo che l’Amministrazione Comunale ha il dovere di decidere, perché se non decide sbaglia, ma deve decidere sulla base di un confronto, di un ascolto, di un incontro. Penso che una delle funzioni fondamentali della cultura sia proprio quella di costruire continuamente le condizioni del dialogo. E costruire le condizioni perché la vita pubblica sia una vita ricca. Questi sono temi che ci porterebbero molto lontano, ma a me sembrano temi decisivi, al di là della specificità della

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giornata di studi di oggi. Ho detto all’inizio che sono qui prevalentemente per ascoltare. Con l’impegno a moltiplicare le occasioni di dialogo, di incontro e di approfondimento, poiché non ignoro le condizioni di particolare conflittualità di cui ho già parlato all’inizio. Penso che gli stati generali lanciati dal Sindaco di questa città vadano in questa direzione: il profilo che questa città avrà nei prossimi anni deve essere un profilo condiviso. E deve nascere da una moltiplicazione dei luoghi di incontro. Non necessariamente convegni, ma luoghi diffusi. Penso che soltanto in questo modo si possa far fare un salto di qualità al dialogo, così parziale e difficile, tra cultura e politica.E’ necessario un maggiore protagonismo del mondo della cultura: c’è una ricchezza molto vasta, in questo mondo, che non trova una traduzione pubblica significativa.Questa è una delle sfide più importanti che abbiamo davanti.

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Gli interventi iniziali hanno evocato temi molto cari all’IBC. Da alcuni decenni, insieme con Massimo Tozzi Fontana, che si occupa dell’argomento, abbiamo avuto modo e occasioni di definire le linee strategiche sul tema, preparando progetti specifici in collaborazione con gli enti locali e le associazioni. Il confronto è molto importante anche per definire le responsabilità politiche.L’archeologia industriale è arrivata in Italia ormai oltre quaranta anni fa dai paesi anglosassoni, con un impatto iniziale prevalentemente culturale e nel nostro paese ha avuto difficoltà a consolidarsi nell’azione quotidiana, quella che trasforma il territorio. Le aree industriali dismesse nel passato erano considerate luoghi da eliminare, in buona fede e con le migliori intenzioni, mirando alla riqualificazione urbana che, in positivo, significava non consumare nuovo territorio e ripensare quelle aree che, realizzate dalla fine dell’800 all’inizio del 900, avevano funzionato fino al dopoguerra e oltre e ora dismesse. Esse rappresentavano l’occasione per ridare servizi e opportunità a città che -in alternativa al riuso- avrebbero corso il rischio di espandersi in maniera indefinita. Questo grande tema è stato affrontato a livello urbanistico e amministrativo almeno negli ultimi vent’anni coinvolgendo in pieno l’archeologia industriale, vale a dire quegli edifici, quei siti, come macelli, essiccatoi, stazioni, manifatture e fabbriche varie, che anche nel nostro paese, pur con ritardo rispetto ad altri paesi europei, hanno costituito il patrimonio storico industriale, e che oggi non sono più attivi. Credo che alla luce del passato recente abbiamo molte ragioni per discutere di tutto questo oggi. Il patrimonio industriale rappresenta per le città

Patrimonio industriale e governo del territorio

G i o r d a n o C o n t iIstituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna

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un’opportunità di crescita misurata senza perdere brani importanti della storia. Ma, anche se è certamente un fatto culturale conservare le memorie storiche del passato, non deve essere considerato un problema culturale puro e semplice. Infatti il riflesso urbanistico è immediato non solo per chi ha delle responsabilità amministrative, ma anche per tutti coloro che hanno a cuore il problema ambientale: spesso sconvolgere aree che hanno un assetto definito nel corso del tempo crea squilibri nel territorio. Come esempio vorrei parlare di una vicenda di cui mi sono occupato direttamente prima come architetto poi come amministratore. Io abito in Romagna, area nella quale è ancora ben visibile la traccia della centuriazione romana realizzata 2200 anni orsono. Fortunatamente quella maglia si è conservata perché in tutto questo tempo c’è stata una forte continuità nell’uso del territorio. Il problema è nato come problema culturale: è più difficile conservare la fisionomia di un ampio territorio che a una lucerna romana, tuttavia la sfida era chiara: rispettare quel territorio, un territorio abitato, non un museo, dunque considerarlo tale ci portava a confliggere con le necessità della vita quotidiana. C’era anche un problema ambientale, che coinvolgeva in primis le amministrazioni pubbliche: ricordo che la prima protesta degli abitanti venne in occasione del tracciato del canale emiliano-romagnolo: l’acqua del Po doveva arrivare a Rimini. I tecnici avevano tracciato una linea retta che attraversava la Romagna, scompaginando l’assetto idrogeologico della centuriazione. Dunque il problema era allo stesso tempo culturale e ambientale. In quell’occasione la battaglia fu vinta: il canale si integrò nella maglia della centuriazione. C’era poi un aspetto urbanistico: il confronto con gli abitanti, insieme con le ricerche e gli studi, ci hanno permesso di redigere un piano regolatore che definisce, nell’ambito della centuriazione, delle norme che non vanno a imbalsamare il territorio, ma prevedono una crescita armoniosa. Il tema di questa giornata, riguarda non solo i professori, ma anche la vita quotidiana dei cittadini, e soprattutto gli amministratori, il cui compito è quello di evitare a tutti i costi l’ulteriore consumo del territorio agricolo e dunque di prevedere la riqualificazione delle aree industriali dismesse. Occorre valutare le proposte che, come in questo caso, provengono dall’AIPAI. Ricordo l’importante convegno di Bologna del dicembre del

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2009, nel corso del quale molte delle questioni di oggi sono state affrontate.Concludo dicendo che se noi teniamo insieme tutti le indicazioni emerse negli interventi introduttivi, forse riusciamo a trovare la sintesi: in primo luogo credo che gli aspetti culturali debbano essere salvaguardati; poi che i riflessi urbanistici debbano entrare a pieno titolo nel dibattito con le amministrazioni locali; infine che il problema ambientale debba tenere insieme il tutto. Occorre fare una sintesi di questi temi: dal piccolo macello di Cesena che è stato ristrutturato e che è diventato il punto di incontro delle attività universitarie dell’Alma Mater Studiorum, ai siti molto grandi e complessi: l’esempio che ho fatto della centuriazione coinvolge addirittura un’area sub-regionale. Ragionare in questi termini, con una sensibilità ambientale che tenga conto dei molti problemi compresenti, può permettere di giungere a una sintesi virtuosa mettendo insieme parti che spesso operano per conto proprio e che rischiano di entrare in conflitto tra loro. La sintesi è difficile, ma credo che anche i lavori di questa giornata possano contribuire a dare elementi per affrontare i problemi, in modo che essi vadano nella direzione sostenuta dall’AIPAI che continua a operare in questo senso. La considerazione è tanto più valida in una città come Modena, in una regione come l’Emilia-Romagna, a forte connotazione industriale, tanto nel passato quanto nel presente e nel futuro.

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Le condizioni industriali della provincia di Modena. 1895, Ristampa anastatica, Li Causi editore, Modena 1982.

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La giornata di oggi è dedicata al patrimonio storico industriale di Modena e del suo territorio; il suo scopo è promuovere la riflessione e il confronto sui principali casi oggetti di analisi e di dibattito tra cittadini, studiosi e poteri locali. Questo evento segue idealmente l’incontro organizzato dall’Aipai dell’Emilia- Romagna il 2 dicembre 2009 a Bologna, nel quale, oltre a presentare siti, manufatti e problemi dell’intera regione, si è discusso del contesto e degli orizzonti nei quali si muove oggi chi ha a cuore il patrimonio industriale, sia come addetto ai lavori -storico, architetto, ingegnere, artista- sia come semplice cittadino.

La storia industriale di Modena è ricca e multiforme. Uno degli aspetti più significativi, che ci rimanda ai secoli passati è la vicenda delle acque: la rete di canali artificiali scavati a partire dall’età preromana per fare fronte alle frequenti alluvioni ricorrenti in un territorio faticosamente bonificato lungo diversi secoli a partire dall’ VIII-XIX secolo dopo Cristo dagli Etruschi. Tale rete, oltre a svolgere la funzione di controllo dei fenomeni alluvionali, forniva la forza motrice ai molti opifici presenti in età medievale: mulini, concerie, fucine, folli, filatoi di seta, cartiere, torni, segherie, frantoi di noci, pistrini per polveri da sparo. Anche se già nel XVI secolo iniziò la copertura dei canali, presto divenuti insalubri, ancora verso la metà del XIX secolo la città aveva due darsene: una interna alle mura, nell’attuale Corso Vittorio Emanuele, ed una esterna (il bacino) all’altezza del ponte della Sacca sulla ferrovia, interrata nel 1936. Dei canali di Modena rimane traccia nei nomi delle strade: esistono infatti nel Centro Storico le vie Canal Grande, Canal Chiaro, Canalino, Canaletto e così via.

Anche se questo tema ci rinvia ad un passato remoto non immediatamente identificabile nella più corrente accezione di patrimonio industriale, con cui

L’AIPAI per il patrimonio industriale modenese

M a s s i m o T o z z i F o n t a n aIstituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, AIPAI

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si intendono le testimonianze ancora presenti nel paesaggio, integre oppure no, crediamo importante sottolineare che anche la memoria di ciò che oggi è invisibile deve essere salvaguardata e valorizzata, al pari delle testimonianze superstiti concrete e tangibili di una storia più recente. A differenza di altri paesi europei, in particolare la Gran Bretagna, da cui molti decenni orsono si è propagata nel mondo la nozione di archeologia industriale e le relative buone pratiche conservative, l’Italia e le sue città sono depositarie di una lunga vicenda produttiva in età remote, che ne ha in qualche modo definito la fisionomia attuale, fatta di strati sedimentati ognuno dei quali non è senza legami con il precedente.

Anche in fase precapitalistica l’impresa artigiana assume nelle nostre città dimensioni spesso sorprendenti per la loro precocità, tanto sul piano delle forze produttive -ricorrendo alla terminologia marxiana- quanto su quello dei rapporti di produzione. Il caso bolognese della seta è illuminante sotto questo aspetto per qualità e dimensioni occupazionali.

Nel 1895 il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC) pubblica le Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Modena. La carta in essa pubblicata, qui presentata, “geolocalizza”, come si dice ora, le imprese operanti in quella data. Sette officine meccaniche, con o senza fonderia, diciassette officine diverse per la lavorazione di oggetti in metallo, ottantanove fornaci da calce, laterizi o maioliche, sei fabbriche di prodotti chimici, quattrocentoottantasei mulini a forza idraulica e otto a vapore, dieci brillatoi da riso, trentatre fabbriche di paste alimentari, centosessantasei caseifici sparsi in ventinove comuni, ventitre torchi da olio, due filande a vapore per la trattura della seta, due opifici per la filatura e tessitura della lana, una diffusa industria tessile a domicilio, quattro cartiere, ventiquattro tipografie e litografie, tre segherie da legname e altre industrie diverse i cui dati per quell’anno non sono completi. Gli operai impiegati nelle svariate industrie modenesi - rispetto all’intera popolazione della provincia di 288.953 abitanti alla fine del 1894- erano 16.063, così suddivisi: 1487 nelle industrie minerarie, meccaniche e chimiche, con una netta prevalenza (994) di addetti alle fornaci da calce, laterizi, terre cotte, terraglie e maioliche; 1677 nelle industrie alimentari, soprattutto mulini da cereali (922); 385 nelle industrie tessili, dei quali 245 impegnati nella trattura della seta; 12.514 nelle industrie diverse, con una netta prevalenza della fabbricazione delle trecce e dei cappelli di truciolo e di paglia e di oggetti

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in vimini, infine 533 erano gli addetti alla Manifattura dei tabacchi.Sorgono spontanee le domande: quanti degli opifici censiti nel 1895

esistono ancora oggi, integri oppure no nel territorio modenese? In che misura lo stesso paesaggio che è oggi davanti ai nostri occhi riflette ancora quelle lontane vicende? Certamente, limitandoci a considerare il territorio comunale del capoluogo, le attività produttive in atto tra XIX e XX secolo hanno profondamente influenzato lo stesso assetto urbanistico della città, come sottolinea nel suo intervento Giovanni Losavio in questo volume. “Urbanizzazione e industrializzazione sono due facce della stessa medaglia” ricorda Salvatore Settis.

Le vicende modenesi più vicine a noi nel tempo, di cui oggi discutiamo, sono per molti aspetti eccezionali e molto note a livello mondiale. Basti pensare all’industria automobilistica di eccellenza, rappresentata dai marchi Stanguellini- il pioniere- seguito da Ferrari, Maserati, Bugatti. La storia di queste industrie è raccontata da ben quattro musei nella provincia: il Museo Ferrari a Maranello, il Museo Casa Enzo Ferrari, il Museo dell’Auto e Moto d’Epoca Umberto Panini e il Museo dell’Auto Storica Stanguellini. Non sempre alla creazione del museo ha corrisposto la salvaguardia del sito di produzione originale. Il complesso Stanguellini era costituito, oltre che dalla casa padronale, dagli edifici della Officina Meccanica Stanguellini, costruita nel 1912 e ampliata nel 1926, della Concessionaria Fiat Stanguellini costruita nel 1948 e della attigua Casa per uso di magazzeni, uffici ed abitazione del personale, anch’essa realizzata nel 1912.

Il provvedimento del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia Romagna del 14 dicembre 2011 limita la tutela ai due edifici agli estremi opposti del complesso, il villino e la concessionaria, escludendone l’officina meccanica. In questo modo, privi del rapporto che funzionalmente li lega al più vasto corpo intermedio e dal quale ricavano il loro specifico interesse, i due edifici vincolati sono valorizzati per i loro caratteri stilistico-formali, ma hanno perduto il significato storico di elementi inscindibili dell’unitario complesso.

E’ con questo genere di problemi che oggi l’AIPAI deve misurarsi sempre più di frequente, cercando di portare un contributo di conoscenza storica e di sensibilità per la memoria dell’industria, che di fronte agli interessi particolari viene troppo spesso messa in disparte.

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I casi presentati in questo volume rappresentano quasi tutti occasione di dibattito, anche acceso, in sede locale tra punti di vista diversi. E’ nostra intenzione presentarli come casi di studio, sui quali si è studiato e riflettuto a lungo, producendo tesi di laurea, pubblicazioni scientifiche, analisi storiche, geografiche, antropologiche e architetturali, non per sostenere tesi stabilite aprioristicamente, ma per vedere al microscopio la vasta gamma di soluzioni possibili tra le opposte estreme della cancellazione e della salvaguardia integrale, cercando tra queste ragioni non solo quelle “estetiche”, che possono portare alla tutela di un solo elemento isolato dal resto del complesso, ma anche quelle della presenza radicata nella memoria degli abitanti di un sito o di un elemento del paesaggio industriale il cui valore testimoniale risiede non nella rilevanza artistica, ma nell’integrità del contesto paesaggistico.

Spero che uno dei risultati dei lavori di questa giornata di studi sia la ripresa di un dibattito privo di pregiudizi su temi tanto importanti per la città, il suo territorio, il suo paesaggio e il suo ambiente e che tale dibattito conduca a soluzioni condivise.

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La catalogazione è un’azione sistematica di selezione delle informazioni, diretta a identificare il patrimonio che abbia rilevanza, dal punto di vista culturale, attraverso la raccolta di dati descrittivi ordinati in una scheda di catalogo.

La scheda di catalogo definisce l’identità di un determinato oggetto, inoltrandosi nel dettaglio delle informazioni, e costituisce uno strumento di documentazione essenziale nell’analisi del patrimonio culturale.

L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ICCD), nato nel 1975 con l’istituzione del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, ha il compito di definire le metodologie e coordinare le attività di catalogazione del patrimonio culturale; ad esso è stato affidato anche il compito di realizzare e gestire il Catalogo Generale dei Beni Architettonici, Archeologici, Storico Artistici e Ambientali dello Stato e successivamente la costituzione e l’implementazione del Sistema Informativo Generale del Catalogo.

All’attività dell’ICCD si è affiancata, alla fine degli anni settanta, quella delle Regioni, che hanno avviato iniziative autonome di catalogazione, spesso con metodologie originali e significativamente differenti rispetto a quelle ministeriali, realizzando banche dati di immediata consultazione.

In seguito l’ICCD, le Regioni e gli enti locali, hanno concordato una politica di programmazione congiunta finalizzata ad una raccolta omogenea di informazioni utilizzabili nelle attività di catalogazione dei beni culturali presenti sul loro territorio.

Il censimento del patrimonio industriale modenese

E n r i c o C h i r i g uArchitetto, AIPAI

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Tali attività di catalogazione hanno interessato anche una tipologia di patrimonio ancora non precisamente definito, quello archeologico industriale, nel tentativo di ricostruire le vicende riguardanti la storia architettonica, produttiva e sociale dei siti studiati1.

Nel corso degli anni, le attività di censimento del patrimonio industriale hanno prodotto un rilevante volume di informazioni, rimaste tuttavia scarsamente accessibili e difficilmente confrontabili, sintesi di esperienze svolte in diversi contesti, attraverso differenti strumenti di catalogazione.

La moltiplicazione delle schede utilizzate nelle attività di censimento, avvenuta nel corso di alcuni decenni, ha evidenziato la difficoltà di adattare gli strumenti esistenti ad una realtà diversa da quella oggetto della schedatura tradizionale, solitamente effettuata utilizzando i modelli forniti dall’ICCD.

Il tentativo di risolvere alcuni problemi dovuti alle particolari caratteristiche del patrimonio industriale, ha inoltre dato origine ad una serie di modelli di catalogazione spesso molto diversi tra loro.

Deve essere rilevato, infatti, che si tratta di un patrimonio eterogeneo di architetture e infrastrutture, macchinari e impianti, documenti e archivi, spesso di proprietà privata, altre volte di proprietà pubblica, ma sempre difficilmente classificabile.

Nonostante queste difficoltà, alla fine degli anni settanta, alcune regioni italiane hanno avviato una sistematica attività di schedatura del patrimonio industriale, fornendo un’ampia panoramica delle attività produttive presenti sul loro territorio; queste regioni hanno prodotto inventari cartacei, raccogliendo notizie sulla situazione di centinaia di siti, successivamente pubblicate in volumi monografici e/o rese disponibili in formato digitale.

Altre regioni hanno svolto un’intensa attività di catalogazione senza riuscire tuttavia a divulgare in modo sufficiente le informazioni derivanti dalle loro ricerche.

Alcune regioni, infine, non hanno ancora svolto una sufficiente attività di catalogazione, lasciando a iniziative episodiche, la conoscenza del loro patrimonio industriale2.

In questo contesto, l’Emilia Romagna è stata una delle prime regioni ad

1 Tra i contributi relativi alle attività di censimento del patrimonio industriale ricordiamo, tra gli altri, Massimo Negri, Il censimento dei monumenti industriali: problemi di gestione, in Aldo Castellano, a cura di, La macchina arrugginita. Materiali per un’archeologia dell’industria, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 257-264 e inoltre Daniela Mazzotta, La schedatura del patrimonio archeologico industriale, in Bernardetta Ricatti, Francesco Tavone, a cura di, Archeologia industriale e scuola, Marietti Manzuoli, Firenze 1989, pp. 61-74.

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avviare un censimento del patrimonio industriale, attraverso alcune iniziative dalle finalità differenti, verificando le difficoltà di affrontare un originale ambito di studio con strumenti ancora indefiniti; ne ricordiamo, per brevità, soltanto alcune che hanno riguardato anche il territorio modenese.

Una prima fase di censimento del patrimonio industriale emiliano romagnolo è stata svolta dall’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna (IBC) dal 1978 al 1981 ed ha interessato in particolare i comuni di Modena, Carpi e Vignola. L’ambito della ricerca si fondava su un primo elenco di edifici industriali, al quale vennero inclusi pochi altri esempi di architetture in un primo tempo non considerati.

Il lavoro inedito, condotto con schede fornite dalla Società Italiana per l’Archeologia Industriale (SIAI), è stato svolto attraverso ricerche di archivio, in particolare sul locale Fondo Periti Agrimensori, ma soprattutto, data la scarsità di materiale documentario, tenendo conto di testimonianze orali accompagnate da numerosi sopralluoghi compiuti all’interno degli stabili.

È singolare notare, in questa sede, come una sorta di primato temporale nelle attività di classificazione del patrimonio industriale italiano, spetti proprio a una ricerca svolta in ambito modenese.

Ad alcuni anni di distanza dalle prime iniziative dell’IBC, si colloca il censimento che l’Ente Regionale per la Valorizzazione Economica del Territorio (ERVET) in collaborazione con l’Istituto di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Bologna, ha condotto su scala regionale, catalogando gli stabilimenti industriali abbandonati localizzati in ventinove centri della regione, tra cui anche Modena, Carpi, Sassuolo e Vignola.

La rilevazione, svolta dal 1986 al 1987, ha dato origine a circa trecento schede di censimento, raccolte in alcuni volumi inediti conservati presso l’ente, la cui sintesi è stata pubblicata, insieme a una significativa analisi della dismissione industriale in Emilia Romagna, nel testo Fabbriche abbandonate e recupero urbano, a cura di Giancarlo Omoboni, Bologna, 1989.

Alcuni approfondimenti monografici relativi ai distretti produttivi modenesi, sono stati inoltre pubblicati nel volume Archeologia industriale in Emilia-Romagna

2 Tra i contributi relativi alle attività di censimento svolte in ambito regionale si veda Daniela Mazzotta, Per una banca dati nazionale dei siti e dei manufatti industriali, “Patrimonio Industriale”, Notiziario semestrale dell’AIPAI, III, 4, 2009, pp. 14-27.

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e Marche, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Giorgio Pedrocco, Cinisello Balsamo, 1991.

A queste iniziative si aggiungono, infine, quelle rappresentate dalle dichiarazioni di interesse culturale emesse dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna, che negli ultimi dieci anni ha emanato oltre cento decreti e, in particolare, circa trenta provvedimenti relativi al patrimonio industriale modenese3.

A partire dalla consultazione di tale documentazione, edita e inedita, il Servizio Beni Architettonici e Ambientali dell’IBC, in collaborazione con l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI), ha condotto una verifica dello stato attuale di edifici e impianti produttivi, il cui obiettivo è la realizzazione di una banca dati, attraverso la quale documentare in modo sintetico le vicende significative del patrimonio industriale regionale.

L’attività di censimento, condotta dal 2005 al 2011, intende definire una sorta di atlante, opportunamente documentato, del vasto panorama produttivo regionale, senza tuttavia effettuarne una rilevazione sistematica.Attraverso un repertorio bibliografico, costituito da circa cinquecento titoli, sono state ricostruite le vicende di numerosi impianti produttivi, localizzati nelle nove province della regione.

La consultazione di alcuni strumenti di ricerca delle immagini in rete, quali Google maps e Google street view, ormai diventati di uso comune, ha documentato lo stato attuale degli impianti produttivi, segnalando i cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi anni.

La consultazione della documentazione disponibile ha quindi consentito la redazione delle schede di censimento, sintesi delle schede elaborate dall’IBC e utilizzate in altri contesti regionali, contenenti i dati essenziali relativi alla localizzazione, alla cronologia e alla destinazione originaria degli impianti industriali, accanto ad un’approfondita ricostruzione delle loro vicende e ad una bibliografia relativa al sito studiato.

Una prima fase della ricerca ha riguardato gli impianti che, dopo un periodo di abbandono, sono stati oggetto di recupero attraverso iniziative dagli esiti differenti.

3 Alle attività di tutela svolte a partire dal 2001, anno della sua istituzione, dalla Dire-zione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna, ed in particolare a quelle relative alla provincia di Modena, è dedicato l’intervento di Paolo Frabboni pubblicato in questo volume.

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In modo analogo sono stati esaminati gli stabilimenti in cui il processo di dismissione, giunto al suo epilogo, non è stato seguito da alcun intervento e i complessi produttivi le cui tracce, nel corso degli ultimi decenni, sono andate parzialmente o interamente perdute.

La banca dati, attualmente costituita da circa duecento schede, la cui consultazione sarà disponibile in rete nel sito dell’IBC, conterrà informazioni riguardanti la storia architettonica, produttiva e sociale dei siti industriali e sarà costantemente aggiornata sulla base della documentazione raccolta.

Tra queste schede di censimento, circa trenta sono quelle riguardanti il patrimonio industriale modenese, equamente distribuite tra il capoluogo e la provincia; la ricerca ha interessato in particolare i comuni di Modena, Carpi, Sassuolo, Spilamberto, Finale Emilia, Montefiorino, Mirandola, Castelfranco Emilia, Nonantola e Vignola.

Ne illustriamo, per brevità, soltanto alcune relative al territorio provinciale, che si segnalano per l’originalità delle loro vicende, come nel caso della fabbrica cappelli Loria di Carpi, fondata nel 1902 e rimasta attiva sino al 1915, che in seguito alla sua chiusura è stata trasformata in una scuola elementare nel 1927, anno in cui l’edificio ha definitivamente cambiato destinazione; nel 2008 è stato completato un ulteriore intervento di recupero della fabbrica, destinata a diventare sede della biblioteca comunale di Carpi.

Una sorte diversa è spettata alla fabbrica di polveri da sparo di Spilamberto il cui nucleo originario risale al 1510, che in seguito alla definitiva chiusura degli impianti, avvenuta nel 1995, è in stato di abbandono; molti edifici sono stati lasciati in condizioni di degrado e l’intera area è stata circondata da una fitta vegetazione spontanea.

Un destino drammatico è stato riservato al salumificio Bellentani di Massa Finalese, fondato nel 1936 e dismesso nel 1981, la cui parte orientale, edificata lungo il canale diversivo di Burana, dopo decenni di abbandono, trascorsi in attesa di un intervento di recupero, è stata distrutta dagli eventi sismici del 2012.

In conclusione occorre rilevare che tale censimento regionale, di cui abbiamo ricordato alcuni esempi di ambito modenese, deve essere inteso come selezione

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4 Si veda l’intervento conclusivo del presidente AIPAI Renato Covino, contenuto in Massimo Tozzi Fontana, Enrico Chirigu, a cura di, Il patrimonio industriale in Emilia-Romagna, atti della giornata di studi di Bologna, 2 dicembre 2009, CRACE, Narni 2011, pp. 191-195.

di casi da sottoporre, eventualmente, a un’analisi critica e non come catalogo di casi dall’implicito interesse culturale.

In altri termini, gli impianti produttivi censiti non sempre rispondono ai requisiti previsti nella dichiarazione di interesse culturale di cui parla Paolo Frabboni nel suo intervento ed è possibile che un manufatto privo di valore architettonico abbia invece un rilevante valore storico, produttivo o sociale e, quindi, venga incluso nel censimento.

Può capitare, inoltre, che gli edifici censiti incontrino le ragioni della pianificazione urbana e territoriale senza avere un particolare significato storico, architettonico, produttivo o sociale.

Tuttavia, come ha ricordato in altra sede Renato Covino, occorre rilevare che gli strumenti di classificazione del patrimonio industriale non definiscono solo tassonomie, ma costituiscono elementi di tutela attiva e rappresentano il primo passo verso il riconoscimento di un patrimonio culturale4.

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Facendo idealmente seguito alla giornata di studi che si è svolta a Bologna nel dicembre 2009 e riprendendo alcune informazioni già menzionate nell’occasione, desidero anzitutto ricordare che il compito della Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna, attualmente diretta dall’architetto Carla Di Francesco, è in primo luogo costituito dal coordinamento delle soprintendenze territoriali, mentre tra le sue principali attività è di primaria rilevanza quella finalizzata alla formalizzazione delle dichiarazioni di interesse culturale dei beni immobili e mobili presenti nella regione. In occasione del precedente convegno è stato inoltre ricordato che, dalla sua origine nel 2001 sino a tutto il 2009, la Direzione Regionale ha emanato più di 1500 provvedimenti di dichiarazione di interesse culturale e, poiché oggi i decreti emessi dal 2001 sono circa 1730, è possibile affermare che è stato sostanzialmente mantenuto il trend consolidatosi negli ultimi anni, corrispondente ad un numero annuale di decreti compreso tra i 200 e i 250.

Per quanto riguarda il patrimonio industriale, una tipologia in qualche modo non considerata prioritaria, negli ultimi dieci anni la Direzione Regionale ha emanato più di cento decreti e, in particolare, una trentina di immobili sono stati dichiarati di interesse culturale nel territorio della provincia modenese. La formalizzazione di queste dichiarazioni di interesse ha avuto un incremento notevole a partire dal 2004, quando è entrato in vigore il Codice dei beni culturali e con esso la procedura relativa alla verifica dell’interesse culturale del patrimonio pubblico, prevista dall’art. 12 dello stesso Codice. Dunque

La tutela del patrimonio industriale modenese

P a o l o F r a b b o n iDirezione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

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l’incremento è stato soprattutto negli ultimi anni, da quando numerosi enti pubblici e persone private senza fine di lucro hanno iniziato a sottoporre i loro beni alla verifica dell’interesse culturale.

Basterebbe, a tale proposito, osservare che gli otto immobili del capoluogo modenese, appartenenti al patrimonio industriale e dichiarati di interesse negli ultimi anni, risultano tutti di origine pubblica: l’ex Mercato bestiame, l’ex Macello, l’ex Mercato Ortofrutticolo, l’ex AMCM, la Stazione autolinee, il Fabbricato viaggiatori e la Sottostazione della Modena-Sassuolo ed infine la Manifattura Tabacchi, caso quest’ultimo molto particolare, poiché il complesso che era di proprietà pubblica è poi passato ad una società per azioni a capitale maggioritario pubblico, nell’ambito delle procedure di ”cartolarizzazione“ del patrimonio demaniale. Più in generale, le tipologie più frequenti nella provincia modenese risultano essere i macelli comunali, i mercati ortofrutticoli e di bestiame, i mulini e i fabbricati ferroviari.

Rispetto ai casi modenesi molto travagliati, mi pare necessario fare alcune precisazioni: anzitutto concordo certamente sul fatto che il patrimonio industriale non sia messo in grande evidenza nel Codice dei beni culturali, tuttavia credo sia opportuno ricordare che le categorie indicate nel comma 4 dell’art. 10 costituiscono una specifica di ciò che viene più genericamente individuato nei commi 1 e 3, lettera a), dello stesso articolo 10 del Codice. Infatti, le dieci tipologie specifiche di beni indicate al comma 4, come precisa la norma, sono “comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a)”, come a dire che le stesse tipologie sono incluse nella definizione dei beni culturali genericamente indicati al comma 1 - ovvero “le cose immobili e mobili (…) che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, di proprietà di enti pubblici e persone giuridiche private senza fine di lucro - e al comma 3, lettera a), ovvero “le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante”, di proprietà di soggetti privati.

Va da sé, quindi, che nulla vieta di includere tra i beni culturali genericamente indicati nei commi 1 e 3, lettera a), dell’articolo 10, altre tipologie non specificate nell’articolo 4, tra le quali anche quella relativa ai beni appartenenti

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al patrimonio industriale. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, riconoscere l’interesse culturale dei più di cento immobili di architettura industriale oggetto di un formale decreto dal 2001 ad oggi. Ciò non toglie, naturalmente, che un esplicito inserimento, nel comma 4 dell’articolo 10, della categoria degli immobili appartenenti al patrimonio industriale - così come accade, per esempio, per quella dell’architettura rurale - costituirebbe certamente un elemento di maggiore forza per la tutela di questa tipologia di beni.

Per quanto riguarda i casi specifici dell’ambito modenese, va premesso che vi sono due problematiche precipue che non possono essere trascurate: una riguarda i rapporti con la proprietà, poiché la tutela è spesso vista come una limitazione e pertanto non sono stati rari i casi nei quali ci si è trovati in contrasto con gli interessi del proprietario; l’altra è connessa al fatto che la Direzione Regionale di norma ratifica le istruttorie preliminari, di specifica competenza delle Soprintendenze, intervenendo raramente nel merito delle scelte operate dagli istituti territoriali.

Il caso della Manifattura Tabacchi, che alla fine del 2002 risultava di proprietà del Demanio dello Stato, costituisce un esempio significativo della difficoltà dei rapporti con la proprietà che spesso si riscontrano nel corso della procedura di dichiarazione di interesse culturale. Il provvedimento, emanato negli ultimi giorni del 2002, venne notificato nel febbraio 2003 quando l’immobile era appena stato trasferito alla Fintecna Spa, società per azioni benché a capitale pubblico, tramite la cartolarizzazione dei beni demaniali. Nel decreto l’attribuzione della proprietà dell’immobile alla proprietà pubblica, dovuta al fatto che il trasferimento a seguito di cartolarizzazione non prevedeva l’autorizzazione alla vendita -e pertanto il passaggio di proprietà era del tutto sconosciuto all’allora Soprintendenza regionale- consentì a Fintecna Spa di impugnare il decreto e costrinse l’ufficio a riavviare il procedimento, considerato che l’immobile risultava in possesso di una società per azioni, all’epoca equiparata ad un soggetto privato, e non più di proprietà pubblica. Dopo lunghe e faticose controversie, la Società alla fine ha accettato il provvedimento che è stato formalizzato nel 2007 con una dichiarazione di interesse nella quale sono state escluse le parti realizzate alla fine degli anni ’60 del Novecento, prive del requisito temporale previsto dalla legge.

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Un’altra vicenda certamente controversa è stata quella relativa al procedimento di dichiarazione di interesse dell’AMCM, nel corso del quale vi fu una svista nell’individuazione di una particella catastale che venne poi effettivamente esclusa del provvedimento per un mero errore materiale. Anche la questione relativa alla verifica di interesse culturale della Palazzina Uffici dell’AMCM è stata assi complicata: l’edificio, in un primo tempo non valutato in quanto ritenuto opera di autore vivente, venne nuovamente sottoposto a procedura di verifica dopo il decesso dell’architetto Vinicio Vecchi. Il Comune di Modena, proprietario del bene, contestò nella circostanza l’attribuzione dell’opera al noto progettista modenese e la competente Soprintendenza B.A.P., nella sua istruttoria, espresse un parere negativo circa l’interesse del fabbricato che, a mio parere, costituiva invece un discreto esempio di architettura tardo razionalista degli anni ‘50.

Anche per quanto riguarda le Fonderie Riunite, la procedura di verifica, effettuata nel 2005, si è conclusa con esito negativo, ovvero con il parere di non interesse, mentre per la stazione Modena-Sassuolo il procedimento di verifica si è concluso nel 2009 con la formalizzazione di due diverse dichiarazioni di interesse culturale: una per il Fabbricato viaggiatori e l’altra per la Sottostazione elettrica. Facendo seguito all’istruttoria della competente Soprintendenza B.A.P, gli immobili costituenti il Magazzino-officine, il Piano caricatore, il Fabbricato ex circolo e la Palazzina ex economato, sono stati invece ritenuti privi dei requisiti di interesse culturale.

A proposito della recente vicenda delle Officine Stanguellini, ricordo infine che, nel febbraio 2011, è stato avviato, dalla Soprintendenza B.A.P. di Bologna, il procedimento finalizzato alla dichiarazione di interesse. Va detto che, in questo caso, la proprietà è privata, e pertanto occorre riconoscere l’interesse particolarmente importante del bene e non un semplice interesse, così come avviene per le proprietà pubbliche. Nel caso in questione, la Soprintendenza ha individuato la palazzina della Concessionaria FIAT quale immobile di particolare interesse, avviando il procedimento di tutela diretta per questo fabbricato, mentre per i capannoni retrostanti ha valutato l’opportunità di prevedere una procedura di tutela indiretta. Per gli stessi fabbricati potranno quindi essere dettate delle specifiche prescrizioni, finalizzate a garantire le condizioni di luce,

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prospettiva, ambiente e decoro del bene tutelato.Naturalmente è comprensibile che ogni singola valutazione possa, nel

merito, essere oggetto di diverse opinioni, tuttavia desidero fare presente, più in generale, che la salvaguardia dell’architettura industriale costituisce una tematica relativamente recente e, probabilmente anche per questo motivo, non di univoca valutazione. Quando ho iniziato a occuparmi di tutela dei beni architettonici, a partire dall’inizio degli anni ‘80 e fino alla metà dei ’90, questo patrimonio non era affatto preso in considerazione. In parte ciò era dovuto ad una mera questione cronologica: il limite dei 50 anni dall’epoca di costruzione, previsto dalla legge, escludeva automaticamente l’architettura realizzata dopo gli anni ’30-’40 del Novecento, tuttavia erano proprio le tipologie afferenti al patrimonio industriale ed essere ritenute di scarso interesse, così come gran parte dell’architettura moderna e persino le opere appartenenti all’epoca del liberty e dell’art déco.

In particolare ricordo che quando ho iniziato il mio lavoro in Soprintendenza, uno degli edifici più moderni di Bologna, dichiarato di interesse culturale, era il Palazzo della Cassa di Risparmio di Giuseppe Mengoni, costruito negli anni ’60-‘70 dell’800: già l’eclettismo della fine del XIX secolo faticava ad entrare nell’ottica della tutela. Credo quindi che si siano fatti degli enormi passi in avanti negli ultimi venti anni, durante i quali si è manifestato un notevole inte-resse per tutta l’architettura del primo Novecento, poi del secondo dopoguerra sino all’inizio degli anni’60. Siamo in tal modo giunti a riconoscere l’interesse culturale di immobili realizzati da appena cinquant’anni, come nel caso del Cinema Principe di Modena, progettato da Vinicio Vecchi negli anni 1960-61.

In ultima analisi, ritengo quindi che la tutela del patrimonio industriale costituisca oggi una problematica estremamente complessa e variegata: vi sono episodi nei quali si è manifestato un grande interesse ed altri nei confronti dei quali, probabilmente, non è stata prestata tutta la necessaria attenzione. Se è vero che alcune vicende possono essere oggetto di discussione, è però altrettanto vero che questo interesse, la riflessione sulla necessità di conservare il patrimonio industriale come memoria e testimonianza della nostra epoca, è una rilevante conquista degli ultimi dieci anni, un traguardo raggiunto che va evidenziato e dovrà essere superato nel prossimo futuro.

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Non è certo la prima volta che AIPAI e Italia Nostra si incontrano per affrontare insieme un tema di tutela che è di comune interesse. E Italia Nostra, che si è data il compito di concorrere alla tutela del patrimonio storico e artistico unitariamente considerato (come nella sua inscindibile unità lo intende l’articolo 9 della Costituzione), riconosce le ragioni che legittimano e anzi impongono l’attivazione di una speciale associazione dedicata espressamente allo studio e alla promozione della tutela del patrimonio di archeologia industriale, parte essenziale del “patrimonio” dell’art.9. Perché si tratta di un patrimonio esposto a elevatissimo rischio e neppure esplicitamente riconosciuto nel pur minuzioso (e non so quanto concettualmente rigoroso) elenco esemplificativo delle tipizzate categorie di “cose che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” contemplate nell’articolo 10, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio. Quell’elencazione, che pur comprende “h) i siti minerari di interesse storico ed etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti; l) le architetture rurali aventi interesse storico ed etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale”, è muta sulle testimonianze dell’economia industriale. L’art.2 del Codice, al di là delle tipizzazioni degli artt.10 e 11, apre alla considerazione di “beni culturali” “le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” ed è significativo che la esigenza di esplicita specificazione di quella previsione non sia stata avvertita, neppure nella conclusiva revisione del Codice (2008), per il patrimonio di archeologia industriale, come espressione di cultura materiale. Né vale a

Documenti per la storia di Modena industriale

G i o v a n n i L o s a v i oPresidente Italia Nostra, sezione di Modena

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colmare la lacuna il frettoloso inserto (operato in quest’ultima revisione) nel comma 3, alla lettera d) dell’art.10, con l’estensione della tutela a cose mobili e immobili “che rivestono interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia […] della scienza, della tecnica, dell’industria”, così come era già previsto quando il collegamento fosse riconosciuto con la storia “politica, militare, della letteratura, dell’arte”. Si tratta infatti di un interesse riflesso, in ragione cioè non di una caratteristica o qualità intrinseca al bene, ma del collegamento con una sopravvenuta vicenda storica che quel bene per così dire coinvolga (come, esempi parlanti, i campi della battaglia di San Martino e i luoghi pascoliani di rio Salto) e dunque è tutela che non si addice al dato manufatto industriale. Un palese ritardo nella cultura della tutela con diretto riflesso nella sua prassi: la necessaria competenza specialistica invano si ricerca nella figura professionale consolidata nelle soprintendenze, che ancora si muovono secondo un’attitudine selettiva e l’architettura industriale è riconosciuta non per i caratteri suoi propri, dettati dalla speciale funzione, ma se vi si ravvisino i profili stilistici della architettura diciamo così civile. Neppure tra gli storici delle vicende economiche è dato per altro di registrare uno specifico interesse per individuazione e salvaguardia dei documenti materiali in cui quelle vicende hanno lasciato fisica testimonianza. E sì che nella fase cruciale della industrializzazione tra Otto e Novecento gli insediamenti produttivi (ancora riconoscibili pure laddove ne sia cessata la funzione) sono i principali fattori dello stesso complessivo moderno insediamento urbano, hanno caratterizzato le forme di interi quartieri della città e dunque le loro persistenti tracce sono documenti insieme della vicenda economico-industriale e della più radicale trasformazione della città che dalla industrializzazione della produzione ha ricevuto uno straordinario impulso espansivo. Insomma il bene del patrimonio industriale, da testimonianza puntuale della vicenda economica e tecnologica, a monumento urbano, a patrimonio urbanistico, per il suo intreccio strettissimo con la storia della città, anzi matrice dei moderni assetti urbani. Sono proposizioni queste perfino ovvie, che trovano qui a Modena una specialissima evidenza. Parliamo della zona industriale storica attestata

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a cavaliere della fascia ferroviaria, di cui rimangono ormai minimi lacerti (distrutte le primigenie officine Rizzi e da tutto il gran parlare che si è fatto per le Fonderie Riunite è venuto fuori un progetto che ne altera intenzionalmente la linearità dell’impianto con estrose escrescenze colorate; meglio allora l’attuale ruderizzazione). Né può dirsi adeguato risarcimento la onerosissima monumentalizzazione – museificazione della “casa natale” di Enzo Ferrari con l’abbraccio della avvolgente nuova struttura “dal design avveniristico” (così celebrata), motormorfica si direbbe, un cofano in alluminio giallo squillante, il colore di Modena, si dice, che fa sfondo al cavallino rosso). Mentre si avvia a distruzione, con la licenza della soprintendenza, l’autentica matrice della vocazione modenese per i motori, l’originario stabilimento Stanguellini, sopravvissuto all’interno della coeva prima espansione residenziale ad est della città.Della indebita parcellizzazione della modenese Manifattura Tabacchi (caso forse unico di continuità rispetto ad una fabbrica tabacchi preesistente all’unità, occupa circa un quarto del quadrante nord – ovest del centro storico, fino al secondo dopoguerra l’opificio industriale con il più elevato numero di addetti, operaie nella quasi totalità) l’AIPAI si è occupata nel convegno torinese di un paio d’anni fa: andata in centocinquanta pezzi (quanti sono a un di presso i previsti appartamenti), allora si disse, per una destinazione residenziale che ha sacrificato i caratteri tipologici delle strutture funzionali, una perdita irreparabile. E discorso solo in parte diverso dobbiamo fare per l’insediamento storico delle aziende municipalizzate, il complesso della AMCM (che segna il consolidamento della industrializzazione a Modena, con la modernizzazione innanzitutto dei trasporti pubblici) dove l’amministrazione comunale di oggi si è affrettata a profittare di un palese errore materiale, non voluto riconoscere dalla sbadata soprintendenza, nella identificazione catastale del corpo originario e il più interessante, la rimessa dei tram, applicazione pioniera a Modena della tecnica costruttiva del cemento armato, ancora composta con elementi di ornato di gusto art nouveau. Demolita la rimessa dei tram, si farà posto a nuove megastrutture edilizie che alterano vistosamente (in altezza e per sviluppo lineare) l’assetto compositivo dell’insediamento originario che il

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piano regolatore impone invece di rispettare. Ma questo nostro incontro non si può chiudere nella certificazione di perdite irreparabili e vogliamo credere che una franca discussione possa valere a riconsiderare il destino di documenti essenziali nella vicenda urbana e innanzitutto dello stesso Stabilimento Stanguellini, inteso come elemento che compone una trama ancora riconoscibile e viva della “città dei motori”; e possa anche valere a motivare il fermo rifiuto di quella ipotesi, non contemplata per altro nel piano regolatore, avanzata nel progetto politico di “Modena Futura” (presentato dall’assessore addetto) per la vasta area delle ferrovie provinciali (la ”stazione piccola”) acquisita al demanio ferroviario regionale. Era il centro operatore di quella sapiente moderna innervatura del territorio provinciale, smantellata senza criterio a fine anni cinquanta del Novecento per la sostituzione con il trasporto su gomma. Un’area da sempre considerata strategica e di pubblica fruizione, il preparco rispetto al Parco della Resistenza, ribelle alla conversione a parossistica edificazione residenziale, programmata per massimizzare la rendita di posizione. Si chiama speculazione edilizia, tanto più grave perché promossa da una istituzione pubblica, la Regione, in accordo con l’amministrazione comunale. Compiacenti infine gli organi statali della “tutela”, che si sono limitati a vincolare le strutture edilizie marginali nel complesso, consentendo la demolizione di ogni altro edificio, tutti di pari significato, di un insediamento funzionale che ha interesse storico nella sua integrale composizione. Ma così si fa posto alla cascata di volumi edilizi. Nell’incontro di oggi Italia Nostra e AIPAI si propongono di dimostrare che questo esito e altri analoghi non sono ineluttabili e che la tutela del patrimonio industriale è in diretta funzione dell’interesse della città.

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Parecchi anni fa feci una ricerca a tappeto presso l’Archivio Storico Comunale di Modena (ASCMO) e presso l’Archivio dell’Azienda Municipalizzata del Comune di Modena (AMCM) sull’ illuminazione pubblica dalle origini alla municipalizzazione1.

Per completezza di informazione in questa sede mi è stato chiesto di accennare alla complessa storia successiva riguardante l’area in oggetto, argomento non di mia competenza.

Inizio mostrando il dipinto di Rembrandt, La ronda di notte, che risale al quarto decennio del Seicento per dare un’idea su come, all’epoca, a sfidare le tenebre fossero le ronde dei birri, le sentinelle sulle mura, i medici, i preti e gli aristocratici che circolavano armati preceduti dai servi con le torce accese. (Fig. 1)

Anche gli Statuti della nostra città, riediti nel 1590, prescrivevano che dopo il terzo rintocco della campana passato il tramonto nessuno potesse uscire di casa se non munito di una particolare licenza e di un lume adeguato. Di furti, risse e rapine perpetrati con il favore dell’oscurità sono piene le note dei cronisti cittadini. Cito un episodio a molti noto: l’assassinio di Marco III Pio di Savoia avvenuto in una notte del 1599, quando Modena era appena diventata capitale degli Stati Estensi. Il cronista Spaccini riferisce che ai primi colpi di archibugio tra gli uomini del seguito del signore di Sassuolo si udì il grido “spegni le torce!” (amorza le torze), infatti erano soltanto le torce a fare quel po’ di luce che poteva aiutare gli attentatori a colpire la vittima designata.

P a t r i z i a C u r t iStorica

Ex AMCM, la città illuminata. Dai lampioni ad olio alla municipalizzazione

1 Gli esiti della ricerca archivistica sopraccitata sono stati ripresi nel saggio Per la tranquillità,il comodo e il decoro pubblico. L’illuminazione notturna a Modena in M. Cattini, P. Curti, M. Pigozzi, V. Vandelli, La città illuminata. Saggi sulla storia della luce artificiale a Modena, Modena, Cooptip Industrie Grafiche, 1993, pp.63-85.

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Se escludiamo l’illuminazione effimera, le luci di allegrezza che brillavano nelle notti in occasioni di speciali festeggiamenti, ancora a inizio Ottocento la maggior parte delle strade cittadine nelle ore notturne era immersa nelle tenebre. Le fonti di illuminazione, insieme alle torce poste sui portatorce in ferro battuto sui muri dei palazzi nobiliari, erano le lanterne incrociate, lucignoli imbevuti di sego in recipienti di vetro sospesi tramite due corde incrociate all’altezza dei primi piani delle case; venivano accese dagli abitanti dei primi piani dei palazzi al segnale di campanello di un addetto.

Stimolata dalla legge napoleonica che aveva resa obbligatoria nella Repubblica Italiana l’illuminazione notturna di strade e piazze cittadine,

Fig. 1 Rembrandt, La ronda di notte, 1642Amsterdam, Rijksmuseum

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la Divisione di Polizia nel 1802 presentò un progetto, si creò una apposita “commissione per l’illuminazione” che ricercò modelli di lampioni e squadri e scelse il tipo di olio da utilizzare. Nel 1810 il progetto andò in porto e gli accenditori cominciarono a girare per la città con le scale sulle spalle, accendendo i fanali la sera e spegnendoli all’alba.

Le prime proposte per l’illuminazione a gas erano arrivate al duca Francesco IV d’Austria Este già a metà degli anni trenta dell’Ottocento, ma soltanto nel 1846 Governatore e Podestà elaborarono un capitolato d’appalto che ebbe l’approvazione sovrana. La licitazione fu vinta dalla società francese Saint Cyr et frères di Parigi che ebbe varie traversie derivate da problemi interni alla società e a divergenze di opinioni relative a disegni di bracci e lampade, installazione delle tubature sotterranee e qualità della fiamma. Finalmente nel 1849 Modena fu illuminata a gas. Non si placarono tuttavia le polemiche tra gasisti e antigasisti, preoccupati questi ultimi per il pericolo di scoppi e per i costi più elevati rispetto all’illuminazione ad olio. L’impresa assunse il personale già impiegato - i lampisti che con le loro pertiche aprivano i beccucci e comunicavano la fiamma - e il Gasometro venne eretto fuori porta Castello2.

Nel frattempo la società appaltatrice si trasformò e cambiò più volte di proprietà finchè si stabilizzò l’Union de gaz che tra il 1880 e il ’90 portò il gas anche in periferia e che riuscì a resistere fino alla fine del secolo sia nel campo dell’illuminazione che in quello del riscaldamento. Quando già incalzava l’alternativa dell’energia elettrica e il Consiglio Comunale vagliava diversi progetti, la carta vincente della società appaltatrice fu l’arrivo dei nuovi becchi Auer ad incandescenza, che allungarono la vita al gas - luce anche a Modena.

Tuttavia, a inizio Novecento, anche se il contratto con l’Union de Gaz era stato rinnovato fino al 1919, il fascino dell’energia elettrica ebbe il sopravvento: nel 1904 fu appaltato il servizio alla ditta Tavoni Axerio che aveva centraline a Marano e Tavernelle e che, in quello stesso anno, illuminò il Portico del Collegio con la luce elettrica, suscitando uno straordinario scalpore. Anche in questo caso vecchio e nuovo per un certo periodo convissero: l’illuminazione elettrica in centro città e il gas in periferia e nei quartieri più poveri.

Le vicende dell’illuminazione pubblica naturalmente si intrecciano a quelle

2 L’edificio, sito tra le attuali via Fanti e via Attiraglio, fu distrutto dai bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Ricostruito nel dopoguerra, fu demolito negli anni sessanta del Novecento.

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dei trasporti pubblici, infatti con l’introduzione della trazione elettrica venne dato l’addio al tram a cavalli, attivo dal 1881.

Contemporaneamente il Consiglio Comunale si andava sempre più orientando verso la municipalizzazione del servizio; le tappe dell’inarrestabile processo vanno dall’acquisto della stretta del Pescale ”ad uso forza motrice ed irrigazione” (1906), alla nomina di un consulente esterno, l’ingegner Panzarasa (1907), alla firma della cessione dell’impianto elettrico con la Tavoni Axerio e C. (1908). Lo stesso procedimento avvenne nel 1919 alla scadenza del contratto con l’Union de Gaz.

Gli Atti del Consiglio Comunale fin dal primo Novecento diedero grande rilievo al dibattito sull’azienda per la produzione e distribuzione dell’energia elettrica ad alimentare la nascente industria, l’illuminazione pubblica e privata e la gestione dei servizi di trasporto urbano. Il referendum del 9 ottobre 1910

Fig. 2 La sede dell’AMCM, Via Carlo Sigonio

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segnò una prevalenza schiacciante di favorevoli alla municipalizzazione; nel 1911 la prima commissione amministratrice della nascente azienda si mise subito al lavoro per l’allestimento dei locali e l’acquisto dei macchinari sul mercato estero.

La storia della AEM, poi AMCM , è quindi in larga misura la storia della nostra città3. (Fig. 2)

L’inaugurazione del 12 aprile 1912 nella sede di via Carlo Sigonio segnò l’ingresso - come allora si disse - di Modena nella modernità. Al grido di “Viva Modena! Viva la civiltà!” la prima linea lettrica di tram arrivò nel cuore della città.

L’area prescelta per gli insediamenti, assai prossima al centro storico, è costituita dalla prima fascia di espansione periferica otto-novecentesca con i

3 Per le vicende relative all’illuminazione e al trasporto elettrico si rinvia a P. Dogliani, AMCM.Energie per la città, Modena, 1987.

Fig. 3 Catasto del Comune di Modenafoglio 159, mappale 146

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suoi ampliamenti realizzati tra le due guerre ed edificata in tempi successivi fino agli ultimi interventi di alta densità edilizia degli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento.

Il primo nucleo di fabbricati è formato dalla palazzina degli uffici e dalla rimessa dei tram.

La palazzina direzionale di via Carlo Sigonio 382 (Catasto Comune di Modena, foglio 159, mappale 146) (Fig. 3), realizzata nel 1912, era formata da due palazzine distinte per uffici e portineria per l’accesso all’area dei tram: così restò fino alla fine della seconda guerra mondiale come attesta la pianta di Modena del 1943. Nell’immediato dopoguerra venne realizzato un corpo di fabbrica a ponte di collegamento tra i due volumi mentre nel 1955 fu demolita e ricostruita la parte della palazzina – portineria con uffici, sale per il pubblico e per il pagamento delle utenze (Fig. 4). Si innestò nel corpo di fabbrica della

Fig. 4 La palazzina costruita nel 1955

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vecchia palazzina un edificio moderno di ispirazione razionalista, curato anche negli elementi di decoro: uno sviluppo, o meglio la fase conclusiva del corpo originario che, nel prospetto posteriore, presentava un unico paramento con disegno integrato alla preesistenza.

La rimessa tram, un complesso di tipologia industriale progettato dagli ingegneri Pansera e Dallari nel più vasto progetto di elettrificazione delle linee tranviarie modenesi fu il primo edificio a Modena in cui fu applicata la tecnologia pioneristica del cemento armato. La “Relazione sulle Aziende Elettriche” approvata dal Consiglio Comunale nel 1913 evidenziò che la cospicua spesa per i fabbricati era giustificata dall’ossatura in cemento armato e dalle decorazioni e finiture di alto livello.

La rimessa tram e annessa palazzina retrostante in elevazione con uffici, servizi, residenza addetti (foglio 159, mappale n.152) in via Sigonio 382 è un edificio con specifica tipologia di terminale rimessa tram, per deposito e riparazione tram, poi filobus (dal 1950) con telaio in cemento armato e copertura realizzata con soletta anch’essa in cemento armato. Degno di interesse il prospetto nord dei capannoni con i pilastrini impreziositi da capitelli di elegante foggia ionica. Edificato nel 1912, contemporaneamente alla palazzina uffici portineria da cui confluivano i binari delle linee tramviarie, ospitò vetture a due assi della Siemens con relativi rimorchi e dal 1920 anche vetture a carrelli della OMI, autentica novità per l’Italia capace di far divenire Modena la città tramviaria per antonomasia, superando addiritura Milano.

E’ emblematico il fatto che una cartolina d’epoca che riproduce, raccolte a soffietto, alcune immagini simbolo di Modena, ponga la fotografia del piazzale con la rimessa dei tram accanto a quelle del Duomo, del Portico del Collegio e della Palazzina del Vigarani, i luoghi più prestigiosi della città (Fig. 5).

Il secondo nucleo edificato è quello delle centrali elettriche sul sito della preesistente centrale a carbone. La Centrale AEM (foglio 159, mappale n.158) in via Buon Pastore era destinata a trasformare l’elettricità che arrivava dalla vicina centrale Adige Garda per l’alimentazione della rete tramviaria. Costruita a partire dal 1912 con struttura in cemento armato e paramenti di fondo in mattoni a vista conserva un’elegante insegna e stemmi in cemento sul fronte

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di via Buon Pastore mentre all’interno è degno di nota il sistema di ballatoi che dagli uffici permettono la visione del padiglione centrale.

L’ex Centrale Enel in via Peretti (foglio 159, mappale n.166-167), posteriore al 1912, prima di proprietà dell’elettrodotto Adige-Garda, poi della Società Emiliana, infine dell’Enel (dal 2001 del Comune di Modena) è composta da tre alti edifici distinti in altezza che all’interno si presentano a tutto volume. La struttura in cemento armato è denunciata all’interno da pilastri e travi di appoggio dei carroponte, all’esterno da costolature che delimitano gli sfondati delle ampie vetrate (Fig. 6).

In seguito all’ammodernamento del trasporto pubblico urbano è stata poi edificata l’autorimessa con uffici (foglio 159, mappale n.153) per la nuova filovia in via Carlo Sigonio 386. Esistente nella pianta di Modena del 1943, appare completato nello stato attuale in una planimetria del 1952.

Nel quadro dello sviluppo dei servizi aziendali per i dipendenti all’interno dell’area sono state poi inserite alcune strutture quali l’ambulatorio medico,

Fig. 5La rimessa dei tram

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Fig. 5La rimessa dei tram

l’emporio aziendale e un magazzino a fianco della centrale (foglio 159, mappale n.150).

Nel 1941, nella fascia cortiliva ad est (foglio 159, mappali nn.148, 154) era stato ricavato lo spazio per un cinema all’aperto, il Supercinema Estivo, ben noto e frequentato dai modenesi durante la stagione estiva da oltre sessant’anni. Le linee architettoniche dell’ingresso e della biglietteria, che incorpora anche l’originario schermo di proiezione in muratura, rimandano ai canoni dell’architettura razionalista.

Negli anni settanta si sono aggiunti altri manufatti del tutto incongrui all’impianto del complesso (tettoia della rimessa autobus e filobus, spogliatoi, nuova centrale elettrica), edifici di nessun valore, alcuni addirittura deturpanti.

Con il trasferimento delle Aziende in altra sede (1995) le aree esterne sono state utilizzate a parcheggio pubblico e gli immobili per lo più a depositi temporanei del Comune e in parte a sede teatrale e servizi di vario tipo. Già nel 1994 si era svolto un concorso di architettura per la sistemazione dell’area (vinto dal gruppo guidato da Carlo Melograni) e il progetto era stato assunto

Fig. 6 L’ex centrale Enel in via Peretti

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in un piano particolareggiato adottato nel 2000, poi approvato dopo quattro anni con rilevanti modifiche.

Nel 2005 la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia Romagna e la Soprintendenza competente, interpellate dall’ Amministrazione Comunale di Modena, dichiarano privi di requisiti di interesse storico architettonico gl immobili al foglio 159 identificati con le particelle nn.154, 148, 150, 401, 152, 146.

Nel 2007 la rinnovata Amministrazione Comunale adotta un nuovo piano particolareggiato e chiede ancora una volta la verifica della Soprintendenza e della Direzione Regionale, che ha il medesimo esito: non vengono giudicati meritevoli di tutela la rimessa tram, vale a dire il primo nucleo edificato (foglio 159, mappale n.152) e il corpo aggiunto a metà anni Cinquanta, fase conclusiva dell’insediamento (foglio 159, mappale n.146).

Nei ricorsi al Tar di Italia Nostra viene ipotizzato un errore di identificazione a proposito della rimessa tram (mappale n.152), il primo nucleo dell’insediamento a cui è negato il vincolo conservativo, ottenuto invece dal più recente ricovero filobus (mappale n.153). L’Associazione ribadisce poi che il corpo aggiunto (mappale 146), fase conclusiva e “integrazione moderna” della palazzina uffici 4 L. Montedoro, A. Costa, a cura di, La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e Architettura a Modena 1931-1965, Modena, RFP edizioni, 2004. Nel volume di Montedoro e Costa, La città, cit. Vinicio Vecchi viene indicato come autore della palazzina degli uffici mentre nella relazione storica presente nel Piano Particolareggiato del Comune di Modena del 2009 è detto che dagli atti amministrativi dell AEM, poi AMCM, il ruolo del Vecchi risulta essere quello di consulente.

Fig. 7Insegna dell’AEM

Fig. 8Immagine d’epoca delle officine

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degli anni Cinquanta, meriti tutela sia per le qualità formali, riconosciute da autorevoli storici dell’architettura moderna, sia come elemento costitutivo della vicenda storica dell’AMCM4 . (Figg. 7 e 8)

Italia Nostra, dopo aver proposto ricorso gerarchico al ministero contro la verifica negativa dell’interesse culturale dei due edifici, nel 2007 ha impugnato davanti al Tar del Lazio il provvedimento che aveva dichiarato inammissibile il ricorso. Il Tar non ha sospeso il provvedimento impugnato e il ricorso è stato discusso nel merito all’udienza di giugno 2010, ma la sentenza di accoglimento, che vincola il Ministero a rivalutare l’interesse dei due edifici, è stata resa pubblica soltanto nel successivo settembre5.

Tra giugno e settembre l’Amministrazione Comunale ha demolito i due edifici (Fig. 9).

BiBliografiaP. Dogliani, AMCM. Energie per la città, Modena 1987M.Cattini, P. Curti, M.Pigozzi, V.Vandelli, La città illuminata. Saggi sulla storia della luce artificiale a Modena, Modena, Cooptip Industrie Grafiche, 1993L. Montedoro, A. Costa (a cura di), La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e Architettu-ra a Modena 1931-1965, Modena, RFP edizioni, 2004

5 Per ricostruire le vicende legate all’area ex AMCM ho consultato il materiale conservato nell’Archivio della sezione modenese di Italia Nostra, Associazione Nazionale Per La Tutela Del Patrimonio Storico Artistico e Naturale della Nazione.

Fig. 9La demolizione del 2010

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La nostra comunicazione si articola in tre parti: la prima presenta un’indagine sul tema dell’artigianato automobilistico modenese in un’ottica di valorizzazione del territorio, la seconda svolge un approfondimento sullo storico edificio dell’officina Stanguellini, la terza infine suggerisce ipotesi di valorizzazione del patrimonio industriale ai fini della promozione di un turismo di qualità.

1. il capitale territoriale modenese e la sua valorizzazione

Le politiche urbane dell’ultimo decennio hanno puntato a valorizzare la capacità di un territorio di attrarre nuovi investimenti, flussi di visitatori e innovative opportunità di crescita. Si è così diffuso il concetto di “capitale territoriale”, ovvero un insieme articolato e complesso di risorse materiali e immateriali caratteristiche di un luogo che concorrono a definirne l’identità, a cui si fa riferimento come punto di partenza per ipotesi progettuali di sviluppo dei luoghi.

L’assessore al Turismo e Commercio della Regione Emilia-Romagna, presentando il nuovo museo Enzo Ferrari al Mapic di Cannes, ha affermato: “Con questa nuova struttura vogliamo realizzare un progetto turistico che valorizzi molto più rispetto al passato tutte le eccellenze della nostra regione (…) In particolare vogliamo valorizzare i grandi brand internazionali, Ferrari e Ducati per i motori, Pavarotti e Verdi per l’arte, senza dimenticare il grande patrimonio gastronomico. Il significato del progetto è proprio questo: mettere in rete tutte queste eccellenze”.

Nel caso di Modena e della sua provincia, è certamente vero che l’industria delle automobili ad alte prestazioni costituisce una di queste eccellenze per la

One square mile. Il miglio quadrato dell’artigianato automobilistico modenese

M i l e n a B e r t a c c h i n i e R o s s e l l a R u g g e r iRicercatrici

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Fig.1 Mappa topografica di Modena (Comune di Modena, Servizio Cartografico) con indicate le sedi dell’Officina Stanguellini, della Scuderia Ferrari e della Maserati, tutte ubicate lungo la direttrice Viale Trento Trieste-Viale Ciro Menotti. Questo asse rappresenta una delle direzioni principali lungo la quale si è sviluppata l’area di 1 miglio quadrato citata nel testo.

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globale notorietà del marchio Ferrari che ha favorito negli anni un crescente flusso turistico di eccezionale portata. Il paese di Maranello si è trasformato da tempo in un’unica grande vetrina monomarca, le manifestazioni di “Modena terra di motori” si sono accresciute di iniziative (raduni e sfilate d’auto d’epoca, gare, esposizioni, performance musicali, iniziative gastronomiche ecc.); il completamento del Museo Enzo Ferrari (previsto per la fine del 2011) offrirà alla città un luogo di grande riconoscibilità e un incentivo per migliorare il livello di queste manifestazioni.

Fig. 2Mappa topografica di Modena (Comune di Modena, Servizio Cartografico) con indicati i tracciati della gara del Record del Miglio (1909) lungo la Via Nonantolana e quello del Circuito di Modena del 1934 (Sandro Grimaldi).

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Tuttavia pare riduttivo concentrare esclusivamente su questa notorietà un investimento di immagine ed economico che potrebbe forse raccogliere migliori frutti se sapesse integrare i tradizionali stereotipi del marketing territoriale con un più intenso sforzo di approfondimento e innovazione ideativa per sviluppare un’alternativa e complessiva “mappatura del territorio” in grado di registrare la diversità e ricchezza del patrimonio.

Per trasformare le risorse di un territorio da “potenziali” ad “effettive”, occorre infatti una particolare attenzione nel riconoscerle, e ciò può avvenire solo attraverso una lettura che interpreti il senso dei luoghi all’interno di un contesto e che comporti uno spostamento teorico dal sightseeing (l’osservazione indifferenziata, “turistica” del panorama) al site-seeing (l’osservazione dei luoghi

Fig. 3Garage Gatti costruito in Modena nell’anno 1906.Fotografo ignoto, 1910 ca. Museo Civico, dono prof. Magelli

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specifici che ne sono parte e che nel loro insieme hanno contribuito in modo determinante a fare la storia di quel paesaggio, in senso lato).

La mappa è di fondamentale aiuto sia sul piano metodologico sia sul piano progettuale: a partire da una ricognizione delle pre-esistenze e delle persistenze è possibile giungere alla valorizzazione di dati spaziali e storici in grado - come recentemente è stato fatto dal progetto “MuseoTorino” ideato da Daniele Jalla - di interpretare e rappresentare l’evoluzione della città nella sua dimensione materiale e immateriale sotto diversi aspetti.

Cercheremo di esemplificare questo procedimento attraverso un esperimento di mappatura del territorio applicato allo specifico contesto dell’artigianato automobilistico modenese, giungendo ad elaborare una mappa che abbiamo denominato “One square mile dell’artigianato automobilistico modenese”.

Fig. 4A partire dal 1929, la sede del Garage Ferrari, poi Scuderia Ferrari, fu in Viale Trento Trieste, in prossimità del ponte sul canale Pradella (Sandro Grimaldi).

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Nel più vasto territorio che è stato denominato “motor valley”, e che ingloba il triangolo d’oro Maranello - Sant’Agata Bolognese - Modena, si può individuare un’area molto più ristretta, nel cuore della città di Modena, in cui si insediarono a partire dagli inizi del ’900 i principali “motori” (in senso proprio e figurato) dello sviluppo dell’industria automobilistica ad alte prestazioni.

Per delimitare questa area abbiamo fatto ricorso al parametro spaziale e simbolico del “miglio” che ricorre frequentemente nella storia dell’automobilismo e che, anche a Modena, ha avuto un ruolo di rilievo agli albori dell’automobilismo locale. Secondo Nunzia Manicardi infatti, a Modena “la completa, pubblica, definitiva affermazione dell’automobile fu sancita nell’occasione, appositamente preparata, della gara del Record del Miglio nel 1909, sulla Via Nonantolana”.

Fig. 5Immagine aerea dell’Officina Stanguellini con indicate le fasi successive di ampliamento dello stabile a partire dal 1912.

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Per non parlare della celebre Mille Miglia, il cui percorso, a partire dal 1927, attraversava anche la città di Modena.

One square mile, un miglio quadrato, sarà perciò assunto come simbolica ed elettiva sede del capitale territoriale dell’artigianato automobilistico locale, anche se questo spazio può racchiudere solo una parte delle numerose realtà presenti e passate del variegato settore costantemente attivo a Modena dall’inizio del ‘900 fino a raggiungere il vertice della sua vivacità e popolarità negli anni ’60.

L’area prescelta fa perno sull’incrocio detto “del ponte della Pradella”, lungo la via Emilia, e include, nella direttrice nord-sud, il tratto dall’incrocio tra viale Trento e Trieste e via Vignolese all’incrocio tra viale Ciro Menotti e

Fig. 6Officina Stanguellini. Ingresso in Via Schedoni.

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via Nonantolana, e, nella direttrice est-ovest, il tratto da via Pelusia a viale Rimembranza.

Lungo l’asse principale (Trento e Trieste – Ciro Menotti) si sono collocate, in progressione cronologica e spaziale, le tre eccellenze che hanno reso universalmente noto l’automobilismo modenese:

-l’officina Celso Stanguellini, costruita nel 1912 in Viale Moreali, a pochi passi da Viale Trento e Trieste

-la Scuderia Ferrari che in Viale Trento e Trieste iniziava nel 1929 la sua gloriosa storia fornendo assistenza alla clientela che correva privatamente con vetture Alfa Romeo;

-lo stabilimento Maserati, inaugurato in Via Ciro Menotti nel 1940 da Adolfo Orsi che aveva rilevato nel 1937 la maggioranza del pacchetto azionario e trasferito l’impresa da Bologna a Modena.

L’altro asse, in direzione est-ovest, consente di delimitare un’area dove è stata rilevata la presenza di numerose officine di minore entità che hanno tuttavia contribuito in modo significativo allo sviluppo dell’industriosità modenese fin dagli albori dell’automobilismo:

-l’officina di Clemente Antonelli, artigiano costruttore, dal 1913 al 1916, di un’automobile di media cilindrata denominata “Vespa”, aveva probabilmente sede in via Malmusi 4, dove dal 1925 al 1931 operava invece l’officina Dondi e Cavalieri;

-l’officina Sighinolfi, in via Malmusi 3 bis (con accesso anche da via Sabbatini), era di proprietà del padre di Sergio Sighinolfi, collaudatore della Ferrari;

-il garage Solmi, in Viale Trento e Trieste 5 (già via Ciro Menotti) che, come riporta un annuncio pubblicitario, “commercializza i nuovi mezzi di movimento tutti insieme, senza distinzioni, e mette in vendita l’automobile Rapid di Torino di cui ha la rappresentanza per tutta l’Emilia occidentale”;

-la carrozzeria Lodi, in viale Ciro Menotti angolo via Vignolese;-l’Autogarage Gatti, in via Emilia Est 5, che “vende e noleggia esemplari

e pezzi di ricambio di note case italiane e straniere”, importante perché in seguito Enzo Ferrari e Adolfo Orsi vi subentreranno come titolari delle loro concessionarie per la vendita e riparazioni di automobili, Alfa e Fiat

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rispettivamente;-la carrozzeria Scaglietti, in via Prampolini, dove Sergio Scaglietti iniziò a

lavorare con il fratello Gino;-la carrozzeria Torricelli e Scaglietti, in via Ciro Menotti di fronte all’ex

mercato ortofrutticolo; -l’officina De Tomaso e l’officina Giovanni Leone, in via Pelusia.

All’interno del nostro ideale miglio quadrato troviamo inoltre parte dei tracciati delle più famose corse automobilistiche: il Record del Miglio (lungo la via Nonantolana, dalla Crocetta al ponte Navicello), la Mille Miglia (nel suo tratto Via Emilia Est, Largo Garibaldi, Viale Martiri, Viale Rimembranza), e il Circuito di Modena.Grazie alla mappa, questa porzione di territorio si è dunque animata e si configura ora come una rete di presenze che non casualmente si concentravano in questa parte della città dove erano anche presenti gli stabilimenti delle maggiori industrie metalmeccaniche. La vicinanza favoriva infatti l’integrazione delle attività e delle specializzazioni: così l’officina, la fonderia, la carrozzeria, la vendita di ricambi e altro ancora trovavano un mutuo vantaggio nella creazione di contatti e scambi per rendere più efficiente il lavoro; non di rado ciò favoriva anche un potenziamento decisivo del risultato, soluzioni innovative, passaggi di scala.La ricerca svolta con il metodo della mappatura ha individuato le sedi e, quando possibile, gli edifici dove si svolgevano queste attività consentendo di correggere imprecisioni di ricerche e testimonianze precedenti. Per fare ciò ci si è avvalsi di documenti (come ad esempio le intestazioni delle fatture emesse dalle imprese artigianali) e dei decisivi contributi del prof. Alessandro Grimaldi e del prof. Gino Solmi, appassionati di storia dell’automobilismo locale, che ringraziamo sentitamente per aver collaborato a questa ricerca. La nostra ricostruzione non è tuttavia completa, si confida che potranno essere individuate in seguito nuove presenze e che si giungerà a intrecciare in modo coinvolgente la memoria delle storie umane con i luoghi grazie ad una mappa di comunità che ricostruisca un patrimonio diffuso, ricco di dettagli e soprattutto di una fittissima rete di relazioni tra i tanti elementi che lo contraddistinguono.

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2. l’officina stanguellini

Tutte le presenze che abbiamo cercato di ricostruire attraverso la mappa risultano significative per caratterizzare l’insieme della rete, ma non vi è dubbio che alcune di esse hanno un valore maggiore di altre. Tra queste vi è certamente l’officina Stanguellini, non solo perché è la più antica tra le officine modenesi, ma perché essa rappresenta l’essenziale polarità che bilancia, non solo spazialmente, lo stabilimento Maserati, essendo venuto a mancare il terzo rilevante polo costituito dallo storico edificio della Scuderia Ferrari, demolito negli anni ’70.Se anche l’officina Stanguellini subisse la stessa sorte, l’impianto del One Square Mile che abbiamo cercato di costruire ne sarebbe irrimediabilmente compromesso: una mappa ricostruttiva, infatti, si sviluppa grazie a una varietà di elementi, anche virtuali o immateriali, ma si fonda necessariamente sulla presenza nel territorio di alcuni nodi principali della rete che non possono essere solamente evocati. L’officina Stanguellini è certamente uno di questi. E’ perciò fonte di preoccupazione la variante allo strumento urbanistico, approvata il 22 maggio 2010 dal Consiglio Comunale di Modena, con la specifica previsione della demolizione della parte più consistente del complesso (l’officina originaria e parte dei suoi ampliamenti) in funzione della costruzione nell’area di risulta di un edificio residenziale di sei piani, come denunciato da Italia Nostra con la richiesta di avvio del procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale dell’edificio.Vediamo pertanto di comprendere meglio l’importanza di questa officina attraverso la storia dell’impresa e dell’edificio fortunatamente ancora presente.Ai primi del ‘900, la ditta di Celso Stanguellini aveva sede fuori Barriera Garibaldi, a Modena, in Circonvallazione S. Caterina, dove possedeva un garage per le rappresentanze di automobili Bianchi e S.C.A.T. e inoltre trattava la vendita di velocipedi, pezzi per costruzione, benzina, lubrificanti e accessori. Il figlio di Celso, Francesco, si appassionò alle biciclette e iniziò lui stesso a costruirle, preparando modelli da corsa con i quali prese parte ad alcune competizioni.All’inizio del 1912 Stanguellini presentò un progetto, a firma del prof. Cesare

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Manicardi, per la costruzione in Via Gaetano Moreali di un villino con annessa officina.Si avviò una contrattazione con la Commissione d’ornato poiché la posizione era prestigiosa e il progetto presentato non venne, per due volte, ritenuto adeguato “sia nei riguardi della concezione architettonica complessiva, sia nelle linee particolari”. Al terzo tentativo l’autorizzazione venne concessa, il 19 aprile 1912, con l’apprezzamento di cancellate e cancelli di stile marcatamente art nouveau che si estendono lungo tutto il confine del giardino e impreziosiscono l’insieme. Nel progetto, il villino è immediatamente prospiciente il viale, mentre il garage/officina (dove saranno eseguiti “lavori inerenti a motori velocipedi ed affini”) è in posizione arretrata, sul fondo del giardino.L’officina meccanica del 1912 consta di due corpi distinti benché contigui: quello antistante, caratterizzato da un ampio ingresso sormontato dalla scritta “C. Stanguellini”, ha il tetto a due acque e un’altezza di due piani (oltre al deposito, in essa trovava infatti spazio, al secondo piano, l’appartamento del custode). La parte retrostante, di minore larghezza, è invece composta dal solo pianterreno: tre finestre scandiscono su ogni lato l’edificio, suddividendolo in tre moduli con tetto a shed. Con il trascorrere degli anni, l’esigenza di spazi maggiori cresceva di pari passo con l’interesse di Francesco per le automobili e le moto. Perciò nel 1926 venne presentata una richiesta di ampliamento dell’officina, consistente in un corpo a pianta quasi quadrata (m. 20.40 x 17.40) contiguo all’officina preesistente dalla parte retrostante, così da raddoppiarne la superficie. Nelle fiancate del nuovo edificio, di due piani e quindi di maggiore altezza rispetto al precedente, gli spazi sono scanditi verticalmente, suddivisi in quattro moduli identici, ognuno dotato di due finestre laterali sovrapposte e coronato da un tetto a capanna, a differenza di quello a shed dell’edificio precedente.Dopo tre anni, a seguito della morte di Francesco, il figlio Vittorio assunse la responsabilità dell’azienda di famiglia orientandola decisamente verso il settore delle quattro ruote.Dal 1936 Vittorio Stanguellini avviò la produzione di modelli propri derivati da telai Fiat e Maserati e iniziò a conseguire una serie di vittorie, tra cui quella

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nella Mille Miglia del 1938 che portò la scuderia ad essere conosciuta a livello internazionale.Il successivo ampliamento dello stabilimento ebbe luogo nel 1949 e giunse a prolungare ulteriormente l’edificio, sempre nella parte retrostante, fino all’affaccio su via Schedoni, il che valse a dotare l’insieme di un secondo accesso, sulla pubblica via, opposto a quello dal giardino privato dell’originaria officina. Il nuovo edificio termina con un corpo a tre piani che è leggermente ruotato rispetto all’asse delle porzioni preesistenti per trovare l’allineamento con il nuovo affaccio sulla strada. Inoltre è ispirato a un linguaggio architettonico radicalmente diverso, corrispondente a una diversa finalità, ossia al potenziamento della funzione commerciale della concessionaria FIAT.

E’ autore del progetto architettonico il geom. Alessandro Mundici, mentre all’estrosa composizione dell’insegna FIAT - alta due piani, tinteggiata di rosso e illuminata sul retro da una foratura di vetrocemento - si dice abbia posto mano il pittore modenese tardo-futurista Mario Molinari (Modena 1903-1966) che aveva ideato anni prima anche il famoso logo della ditta Stanguellini.

A proposito di questo marchio, che valorizza l’iniziale del nome Stanguellini elaborandola come la spira di un serpente vorticante, è interessante notare che Mario Molinari, seguace in piena temperie novecentista dei principi futuristi e dell’aeropittura del maestro Enrico Prampolini, potrebbe essersi ispirato alla famosa frase del Manifesto del Futurismo (1909) di Filippo Tommaso Marinetti: “Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo (...) un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.”

E certamente questa frase bene si attaglia a descrivere l’impulso ispiratore della ditta Stanguellini, a proposito della quale Guido Piovene scrisse nel suo Viaggio in Italia (1957): “Non saprei immaginare industria più italiana, nata da un più preciso intuito degli italiani, tutti maniaci di primati.”

Il pregio architettonico di questa parte più recente dell’edificio (che ha motivato il vincolo posto dalla Soprintendenza) non dovrebbe tuttavia mettere in ombra il valore memoriale e la testimonianza di archeologia industriale insiti nelle porzioni della struttura costruite in precedenza: occorre rilevare che ciò che si intende conservare ha avuto una funzione prevalentemente commerciale,

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mentre ciò che verrebbe cancellato con la demolizione della parte più antica è la sede vera e propria della storica officina che ha visto nascere le auto dei primati con il marchio Stanguellini.

3. una visione di sistema per il turismo industriale

Avvicinandoci al termine della relazione, cercheremo di ricomporre gli elementi che sono stati fin qui presentati e di trarre qualche conclusione.

Come ha di recente ricordato Massimo Preite in un articolo sul Bollettino del TICCIH, il turismo industriale è un settore quasi sconosciuto per quanto riguarda la sua dimensione complessiva, la composizione sociale e le forme in cui si manifesta. Appare tuttavia chiaramente un dato: il patrimonio industriale sarà sempre meno in grado di attrarre turisti con un approccio unidimensionale; per avere successo esso dovrà sempre più confrontarsi ed essere in grado di coinvolgere individui motivati da interessi compositi. Secondo Preite esistono quattro diversi “prodotti” che si possono individuare nel panorama del turismo industriale: i musei, i luoghi di produzione ancora attivi, i luoghi storici del patrimonio industriale, il paesaggio post-industriale. Tanto più questi diversi prodotti saranno efficacemente valorizzati e collegati all’interno di un sistema in uno stesso territorio e tanto meglio esso sarà in grado di rispondere a un’ampia varietà di interessi e coinvolgere pubblici diversi. Nel territorio modenese sono ricollegabili al tema dell’industria meccanica e dell’artigianato automobilistico tre varietà dei prodotti indicati, e cioè: i luoghi storici del patrimonio industriale, i musei, i luoghi di produzione ancora attivi. Vediamo perciò come potrebbe comporsi un quadro di sistema che rappresenti e valorizzi questa varietà. Del patrimonio storico relativo allo sviluppo dell’industria prevalente nel comune di Modena, e cioè la meccanica, non restano molte tracce. In particolare, tutta l’area che è stata sede dei primitivi insediamenti, ossia la fascia ferroviaria a nord del centro storico, è stata oggetto di una riprogettazione totale che ha comportato l’abbattimento di tutti gli stabilimenti con tre sole eccezioni: lo stabilimento FIAT (CNH) – ex-Cotonificio ed ex-Proiettificio Modenese - e lo stabilimento Maserati perché ancora attivi, e le ex-Fonderie Riunite perché connotate da un valore simbolico molto elevato per la città. E’ stata inoltre

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preservata una piccola porzione delle Officine Rizzi, la più antica industria metalmeccanica modenese (attiva dal 1857 come “Fabbrica della ghisa”), a seguito di un intervento di Officina Emilia (un progetto dell’Università di Modena e Reggio Emilia) e grazie alla sensibilità del presidente di Coopestense. Di questa piccola ma interessante struttura - un’officina degli inizi del ‘900, dotata di colonnine di ghisa e tetto a shed con vetrate apribili - non è stata fino ad ora presa in considerazione alcuna ipotesi di ripristino e destinazione.

Ci sono poi le altre varie realtà in parte ancora intatte - come l’officina Stanguellini - e in parte mimetizzate o del tutto scomparse che la nostra indagine sul miglio quadrato ha tuttavia consentito di rintracciare nella memoria: esse pure sono da ascrivere al patrimonio poiché il nostro lavoro ha lo scopo di conservare la conoscenza della città, cioè la storia e la memoria dei luoghi. Alcune di queste, ancora leggibili nelle strutture attuali degli edifici, potrebbero essere (una volta che ne venga riconosciuto il carattere e valore storico) riscoperte e valorizzate.

Per quanto riguarda i musei, in questa stessa area si colloca l’edificio della “casa natale di Enzo Ferrari” che ha fornito lo spunto per avviare l’impegnativo progetto della costruzione del Museo Enzo Ferrari che occupa in parte la sede della vecchia officina di carpenteria metallica del padre Alfredo, e in parte si estende nel nuovo edificio progettato da Future Systems.

Il Museo Enzo Ferrari sarà quindi il polo, presente nel “Miglio quadrato”, della rete museale che trova estensione verso la notissima Galleria Ferrari di Maranello e numerosi altri nuclei espositivi e collezionistici nel territorio cittadino e provinciale (Museo Stanguellini, Collezione Panini, Collezione Righini, ecc.).

Il vicino stabilimento Maserati rappresenta invece il polo principale dei luoghi di produzione attivi, tra i quali si annoverano numerose altre imprese sia in città sia in provincia (la Carrozzeria Campana a Modena e la ditta Pagani Automobili di S. Cesario, solo per citare due esempi), varie per tipologia e dimensione, che producono per il settore automobilistico, ivi inclusa la vivace nicchia dei ricambi per auto d’epoca.

Il progetto di valorizzazione del territorio dovrebbe quindi porsi l’obiettivo di ricostruire il quadro complessivo di tutti gli elementi che sono stati indicati (e

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altri che potranno emergere) e di collegarli attraverso vari percorsi che possano corrispondere a piani di lettura o interessi di pubblici diversi. E’ questa, a nostro parere, la scala su cui occorrerebbe lavorare, sviluppando una dimensione integrata e sistemica che nasce da una visione olistica del patrimonio esistente.

Come rendere riconoscibile e come comunicare la realtà di questa rete fatta di molti intrecci, di una tradizione estesa di industriosità e creatività che costituisce di per sé il principale tratto e appeal del territorio modenese?

Si potrebbe ad esempio operare nella direzione di creare un centro per l’orientamento turistico, con funzioni di servizio per l’accoglienza e supporto per la conoscenza del territorio e delle sue molteplici offerte, non solo con finalità informativa, ma come stimolo per favorire un turismo più desideroso di assaporare una varietà di cose ed esperienze, più dilatato nei tempi, con evidente vantaggio di tutte le realtà economiche e commerciali presenti sul territorio. Anche i privati troverebbero in un progetto di valorizzazione del territorio così concepito un incentivo per investimenti e in questa prospettiva potrebbero forse emergere soluzioni insperate, ad esempio potrebbe risultare economicamente remunerativo pensare di restaurare l’edificio dell’officina Stanguellini per farne la sede del museo, di un ristorante, di un circolo di amanti dei motori, eccetera.

Ma non solamente al turista dovrebbe guardare questa proposta: le prospettive di intervento che sono state segnalate (e che verrebbero quasi a concretizzare quanto già ebbe a suggerire nel 1862 Pietro Doderlein, primo importante direttore del Museo di Storia Naturale della Reale Università di Modena, per risvegliare “il patrio amore de’ Modenesi verso i loro territori”), vorrebbero essere anche di stimolo per potenziare la cultura locale (con il contributo dell’Università, degli enti di tutela, dei musei e degli istituti culturali, delle associazioni e dei cittadini che vorranno mettere a disposizione le proprie conoscenze, saperi, memorie) e per far emergere la rete in grado di coordinare un’operazione di valorizzazione del territorio che non ha trovato fino ad ora, come ha sottolineato di recente Luigi Mai, presidente della CNA, “un’unica regia in grado di promuovere il sistema Modena”, né ha saputo avvalersi delle qualificate risorse locali per concepire un progetto di grande respiro ma al tempo stesso rispettoso della dimensione che fa della storia dello sviluppo locale la cifra specifica ed essenziale dello sviluppo futuro.

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“La città è naturalmente spazio di abitudini,di traiettorie, di emozioni, di esperienze: uno spazio che si rappresenta e definisce non soltanto attraverso la sua urbanistica, ma anche attraverso lo spirito della sua comunità.”Care City. La città sensibile progetti culturali e geografie urbane, Modena 2010

il contesto: il primo quartiere industriale della città.La zona denominata “fascia ferroviaria” si sviluppa per 500 ettari in un’area

compresa tra la tangenziale e la ferrovia Bologna-Milano e ospita oggi una popolazione di circa 30.000 persone. Ha una forma allungata da ovest ad est e include i quartieri Sacca e Crocetta, interposti tra il centro storico a sud e le espansioni di epoca più recente oltre la tangenziale. La zona si caratterizzava in passato per essere il quartiere industriale della città; oggi, dopo le estese demolizioni di quasi tutti i vecchi edifici industriali avvenute tra il 2001 e il 2002, è oggetto di un nuovo sviluppo residenziale.

Le ex Fonderie Riunite, collocate in via Ciro Menotti, nella parte più a est di questa zona, rappresentano l’unica testimonianza rimasta del passato di questi quartieri. Non solo, come scrive l’architetto Andrea Costa:

Le Fonderie Riunite sono uno degli edifici più importanti della fascia industriale formatasi nei primi decenni del novecento a ridosso della linea ferroviaria Milano - Bologna. La fabbrica costituisce il completamento del margine est dell’area, in un contesto dove Orsi [a lungo proprietario della fabbrica] aveva già insediato nel 1924 le Acciaierie Ferriere e nel 1942 […]

Per una città partecipata. Passato e futuro delle ex Fonderie Riunite di ModenaG i u l i a P i s c i t e l l iOfficina Emilia, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

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la nuova sede della Maserati. Questi tre edifici formavano un sistema produttivo integrato che univa industria metallurgica e meccanica. Gli stabilimenti costituivano inoltre un frammento urbanistico caratterizzato da una elevata omogeneità formale.1

Si possono schematicamente individuare quattro fasi di sviluppo della zona:1876 – 1923 ca.: nascita dei primi opifici e individuazione ufficiale come “zona industriale”; 2

1923 – 1947 ca.: insediamento ex-novo o sviluppo ulteriore delle principali fabbriche della città;1958 – 1965 ca.: significativo aumento delle residenze. 1965 – 2002 ca. : degrado e successiva riqualificazione.

i primi interventi urBanistici (1876-1923)I primi, sporadici interventi urbanistici della zona furono soprattutto di tipo

viario. Le strade divennero le nuove “direttrici”, funzione svolta sino ad allora dai canali della zona. Con l’apertura di questi nuovi collegamenti, e con l’arrivo della ferrovia, gli insediamenti produttivi ebbero nuovi punti di riferimento.

Con i primi anni del ‘900, e con l’adozione dei primi piani regolatori, quella zona “considerata campagna solo 20 o 30 anni prima, diventò parte della città”. 3

La decisione di destinare questa zona agli insediamenti industriali risale, però, al 1907. Si deve alla volontà del sindaco Luigi Albinelli che stabilì che avrebbero potuto acquisire qui terreni a prezzi agevolati le imprese che si fossero impegnate ad occupare almeno 50 operai.

Inoltre, fin dai primi anni del ‘900, l’area fu oggetto dell’attività dello Iacp, che vi costruì i primi insediamenti popolari.

la specializzazione industriale dell’area (1923-1947)Sotto il regime fascista, si pose mano allo sviluppo della zona industriale.

Il Piano Regolatore del 1923 divise la fascia industriale in due zone: il quartiere industriale vero e proprio ed il quartiere a carattere prevalentemente commerciale che si andava formando a nord-est.

E’ in questo periodo che si insediarono le grandi fabbriche della zona: le

1 La città razionalista. Urbanistica e architettura a Modena 1931 – 1965. Modelli e frammenti, a cura di L. Montedoro,. Modena, Raccolte Fotografiche Modenesi Giuseppe Panini, 20042 In realtà i primi opifici si collocarono nella zona a partire da metà ‘800. Prima del 1860, infatti, qui si trovavano già l’Officina del Gas e, la prima fabbrica meccanica di Modena, le Officine Rizzi.3 E. Schifani Corfini, Urbanistica e sviluppo industriale nella fascia settentrionale della città di Modena. Dai primi insediamenti dell’inizio del secolo ai giorni nostri, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Bologna, Dams, 1991 – 1992

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Acciaierie Ferriere (1924), la Fiat-Oci (1928), le Fonderie Riunite (1938), la Fonderia Valdevit (1938), la Maserati (1939) che si collocarono soprattutto alle estremità orientali ed occidentali della zona e sul fronte prospiciente la ferrovia.

Proseguì, anche in questi anni, l’attività di istituti come lo Iacp e l’Incis, che ampliarono i nuclei di residenze popolari già esistenti e progettarono nuove tipologie di alloggi come la “Popolarissima” (Iacp), la prima grande casa popolare modenese costruita tra il 1935 e il 1937 su disegno degli architetti Monari e Rossi-Barattini.

L’area fu una delle zone maggiormente colpite dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale a causa della vicinanza alla stazione ferroviaria e della presenza di importanti insediamenti produttivi, tanto che il Piano di Ricostruzione del 1947, oltre a ribadirne la specificazione industriale, la inserì tra quelle bisognose di urgente ripristino.

l’espansione degli anni cinquanta e sessanta (1958-1965)A partire dagli anni ’50, sorsero nuovi alloggi in cui si stabilirono molti

operai provenienti dalle regioni meridionali occupati nelle fabbriche della zona.Ne sono esempi il Villaggio INA Sacca, costruito dallo IACP tra il 1957 e il

1962, l’area contigua al Mercato Bestiame (viale Gramsci) e l’area circostante le Fonderie Riunite.

Il sorgere di quartieri popolari non distanti dalle industrie fu uno dei fenomeni più imponenti di quegli anni, in cui la zona al di là della ferrovia crebbe nella sua estensione non tanto per l’insediamento di nuovi stabilimenti, quanto per l’espansione di quelli già esistenti.

Questa crescita non fu però pianificata. La mancanza di strumenti di controllo e di programmazione determinò “un’espansione semispontanea e distorta”,4 assecondata dal Piano Regolatore del 1958 che ipotizzava espansioni irrealistiche (prevedeva una crescita da 123.631 a 526.000 abitanti) e che, pur non essendo stato mai approvato in via formale, ha improntato con la sua matrice lo sviluppo della città.

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inquinamento, nocività, dismissioni: verso il progetto di riqualificazione (1965-2002)

A metà degli anni ‘60, la zona a nord della ferrovia si configurava come una realtà tanto compiuta quanto problematica.

L’inquinamento prodotto dalla concentrazione industriale, infatti, aveva creato seri problemi all’ambiente e alla salute dei lavoratori. Solo la realizzazione, nel 1976, del Parco XXII aprile portò un sensibile miglioramento della vivibilità della zona.

Altri cambiamenti importanti si verificarono quando i comparti produttivi più tradizionali, come le fonderie, furono interessati da un processo di forte ridimensionamento; nel giro di pochi anni scomparvero dall’area molti degli insediamenti che l’avevano caratterizzata all’origine, tanto che, alla fine degli anni ’80, il 71% della superficie in disuso nel territorio del comune di Modena si trovava concentrato nella zona a ridosso degli impianti ferroviari.

Si crearono così le premesse per una riorganizzazione urbanistica della zona. Questa fu prefigurata già nel Piano Regolatore del 1989, in cui si

assunse come punto di partenza la riorganizzazione del sistema ferroviario e la trasformazione degli insediamenti produttivi inattivi. La prematura scomparsa dei due principali attori di questa azione (Giovanni Astengo e Camillo Beccaria, prima Assessore all’Urbanistica e poi sindaco della città) e la spinosa questione delle diverse proprietà dei suoli (in larga parte privati)

portarono però a una dilatazione dei tempi di elaborazione del progetto che trovò una sua prima formalizzazione solo alla fine degli anni ‘90.

Nel 1998 il Programma di riqualificazione dell’area (Pru – Programma di riqualificazione urbana) introdusse diversi elementi innovativi rispetto al piano Astengo: venne infatti esteso all’intera Zona Nord il perimetro dell’area presa in considerazione, si definì un programma operativo, precise modalità di azione e nove zone su cui agire.

Le demolizioni del 2000 operarono la quasi completa cancellazione di quello che era stato il quartiere industriale modenese: un insieme eterogeneo di edifici di grande forza e qualità spaziale come i silos in cemento e i magazzini di deposito del Consorzio Agrario, le Officine Rizzi, le Acciaierie Ferriere.

4 P.L. Cervellati, Natura e cultura urbana a Modena, Assessorato alla Cultura del Comune di Modena, Modena, Edizioni Panini, 1983

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Con il Prusst (Programma di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio) si tenne conto, in particolare, del riassetto infrastrutturale derivante dai programmi dell’Alta Velocità e si specificarono gli interventi relativi alla casa natale di Enzo Ferrari e al comparto Maserati.

Si svolse nel 2002, infine, il Concorso per la qualificazione architettonica del nuovo centro urbano della Zona Nord della città. Partendo da un progetto iniziale di Marco Romano, che aveva individuato le linee fondamentali per la configurazione futura della zona, l’Amministrazione chiese ai progettisti di intervenire nell’area tra la stazione e l’ex Mercato Bestiame fornendo precise indicazioni sull’ingombro degli edifici e sul disegno urbano.

Il concorso fu vinto da un gruppo di progettisti capeggiato da Gianni Braghieri.

le ex fonderie riunite di modena come patrimonio archeologico industriale.Il primo progetto dell’edificio delle ex Fonderie Riunite risale al 19 dicembre

1936 e porta la firma del geometra Giuseppe Scianti. Committente dell’opera era la Società Anonima Acciaierie, Ferriere e Fonderie di Modena, nella persona del suo amministratore Adolfo Orsi.

L’edificio progettato aveva dimensioni imponenti: il fronte che si affacciava su via Ciro Menotti, costituito da una palazzina per gli uffici caratterizzata da un corpo centrale aggettante e due ali, si sviluppava per una lunghezza di 76 metri, mentre i capannoni retrostanti si estendevano per un centinaio di metri; la superficie totale coperta era di circa 6.000 mq. La caratteristica architettonica principale era un grande cortile interno, largo 24 metri e lungo 90, circondato da tutti gli edifici del complesso e attraversato dal binario di raccordo ferroviario. Fin dall’origine, quindi, le ex Fonderie Riunite si configurano come “un oggetto fuori scala rispetto al tessuto edificato del quartiere Crocetta”.5

La Divisione dei Lavori Pubblici del Comune sollevò però eccezioni di ordine estetico in merito alla facciata. Così, il direttore delle Acciaierie e Ferriere, l’ing. Alceste Giacomazzi, presentò un nuovo progetto. Questo, approvato nel novembre del 1937, abbandonò quei segni propri della “architettura razionale” che caratterizzavano l’edificio disegnato da Scianti: infatti le grandi

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superfici intonacate lasciano spazio al laterizio a vista […] le finestre a nastro si riducono a cornici orizzontali di calcestruzzo che inquadrano una sequenza di aperture tradizionali.6

Nel 1938, anno in cui si avviò l’attività produttiva, venne presentato il progetto esecutivo che prevedeva anche il ridimensionamento del cortile, non più attraversato dalla ferrovia, e l’ampliamento del capannone posteriore.

Nel 1939 si costruì un nuovo capannone su progetto del geometra Elio Bonvicini. Alla data del 25 gennaio 1940, quando fu ottenuta la servibilità per tutti i locali edificati, l’edificio costruito risultò molto più grande di quello progettato inizialmente: la superficie coperta era infatti di 9.000 metri contro i 6.000 iniziali; i vani sono 46 - di cui 19 abitabili – a fronte dei 25 previsti nel 1936.

L’edificio che vediamo oggi, sebbene la sua leggibilità sia stata minata dalla costruzione del viadotto che scavalca la ferrovia (1965), resta comunque una testimonianza fedele dell’architettura industriale degli anni ’30” che

ha avuto “un significato importante per il rinnovamento dell’architettura a Modena, mostrando le potenzialità espressive del puro funzionalismo.7

le ex fonderie riunite di modena: oltre il patrimonio archeologico indu-striale

L’importanza dell’edificio delle ex Fonderie Riunite, però, va anche al di là del suo valore architettonico. Non solo “… la grande facciata simmetrica e [e le] sue dimensioni monumentali, […] ne fanno tuttora una sorta di cattedrale laica del lavoro e dell’industria...”,8 ma alcune vicende che segnarono profondamente la storia dell’azienda, che qui si richiamano brevemente, contribuiscono ulteriormente ad accentuare il valore di questo edificio.

Come detto, l’attività produttiva delle ex Fonderie Riunite cominciò nel 1938. Dopo un iniziale periodo di prosperità, dovuto soprattutto alle commesse pubbliche, gli anni del dopoguerra furono caratterizzati da un duro contrasto tra le maestranze e la Direzione aziendale, che portò all’eccidio del 9 gennaio 1950, quando, durante uno sciopero seguito a una serrata, sei manifestanti furono uccisi dalle forze dell’ordine. Dalla metà degli anni Sessanta, i problemi

5 A. Costa, L’architettura dell’edificio, in R. Ruggeri (a cura di), Exfo. La fabbrica col cortile. Le ex Fonderie Riunite di Modena: storia e architettura, Modena, Artestampa, 2008, p. 566 A. Costa, Ibidem, p. 587 A. Costa, Ibidem, p. 60

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di gestione interni all’azienda si associarono al progressivo declino delle tradizionali fonderie di seconda fusione. Così la famiglia Orsi cedette la proprietà a Renzo Bompani, che tuttavia manifestò ben presto l’intenzione di mettere in liquidazione l’azienda. Dopo una lunga occupazione dello stabilimento, che portò alla gestione diretta della produzione, le maestranze, sostenute dal Comune di Modena e dal sindaco Rubes Triva, ottennero nel 1972 la proprietà dell’azienda, divenuta Cooperativa Fonderie Riunite. Le difficoltà di affrontare il necessario adeguamento tecnologico condussero poi nel 1983 alla costituzione delle nuove Fonderie Cooperative, frutto dell’unione con la Cooperativa Fonditori. La produzione venne spostata nella sede di quest’ultima, nel villaggio artigiano Modena Ovest, e le attività nello stabilimento di via Ciro Menotti cessarono.

In seguito alla cessazione delle attività, l’area venne acquistata dal Comune di Modena, che ne è tuttora il proprietario.

Ho richiamato questi cenni anche per spiegare il titolo che ho dato a questa mia relazione. La partecipazione, infatti sembra essere un elemento costante della storia di questo edificio, che caratterizza tanto il passato, che vide l’intera città e l’Amministrazione Comunale stessa raccogliersi attorno ai lavoratori di questa fabbrica, quanto il presente, che vede l’edificio al centro di discussioni che coinvolgono l’intera città circa la sua futura identità e la sua riqualificazione.

L’edificio, infatti, oggi è inutilizzato: è quindi necessario trovare per esso nuove funzioni.

Un acceso dibattito su questo tema si innescò sulla stampa locale tra il novembre 2005 e il gennaio 2006 quando, a seguito dell’ipotesi di vendita dell’immobile attribuita all’Assessorato alla Programmazione e Gestione del Territorio della città, vi furono numerose richieste di chiarimenti da parte di associazioni locali e singoli cittadini. L’Amministrazione accettò di incontrare la cittadinanza e, in seguito a un’assemblea tenuta il 10 gennaio 2006, si impegnò a non vendere l’immobile e a cercare una soluzione con il contributo dei cittadini.

Si è così avviato il 9 gennaio 2007 un progetto partecipativo per raccogliere idee e proposte sull’utilizzo di questo spazio.

8 A. Costa, Ibidem, p. 60

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Il progetto partecipativo ha dato luogo, dopo le giornate dell’Open Space Technology (17-18 marzo 2007), in cui chiunque poteva presentare proposte e discuterle, alla creazione di un Tavolo di Confronto Creativo con il compito di verificare se da queste proposte poteva nascere un progetto unitario. Il processo è stato portato avanti con l’aiuto di Marianella Sclavi, docente del politecnico di Milano, in veste di facilitatrice, e dai rappresentanti dell’Ordine degli Architetti della provincia di Modena, in veste di “facilitatori della comunicazione visiva”.

E’ così nato il progetto DAST - Design Arte Scienza Tecnologia - di cui fanno parte enti e associazioni già presenti sul territorio e nuove entità progettuali formatesi lungo il processo partecipativo: realtà diverse, che intendono proporsi alla città come un progetto unitario.

Il DAST è una sede di ricerca, sperimentazione e intreccio di linguaggi diversi quali design industriale, scienza e tecnologia, sviluppo locale, storia sociale del lavoro e arte contemporanea. Una sede proposta al pubblico come spazio di incontro, di formazione, di cultura.

Per dare una veste architettonica alle idee elaborate, è stata scelta la forma del concorso di idee. Un gruppo di lavoro formato da alcuni componenti del Tavolo, dal Presidente dell’Ordine degli Architetti e dall’Amministrazione Comunale ha portato, tra il febbraio e il giugno 2008, alla definizione delle linee guida e del documento preliminare alla progettazione che hanno costituito le basi del concorso.

Il 9 gennaio 2009 sono stati proclamati i primi tre progetti classificati. Il vincitore è stato il Centro Cooperativo di Progettazione - CCDP (Reggio Emilia); 2° si è classificato l’architetto Piergiorgio Tosoni (Torino) e 3° Luciano Cupelloni (Roma).

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F r a n c e s c a G o v o n i e A l i c e S i g h i n o l f iArchitetti

La città nella fabbrica. Il recupero della Manifattura Tabacchi di Modena

La particolare lavorazione dei tabacchi per conto dei Monopoli di Stato ha da sempre escluso dalla vita cittadina il complesso della manifattura tabacchi, situato nella zona nord del centro storico di Modena. Alla fine del 2002 l’improvvisa chiusura della fabbrica, recintata da sempre in modo invalicabile, ha dato vita ad un evanescente dibattito sul recupero di un isolato enorme rispetto al contesto cittadino, inserito prontamente all’interno del patrimonio immobiliare in vendita dello Stato.

L’opificio presenta una fonte di interessanti opportunità a livello urbanistico in quanto si trova sulla traiettoria che dal cuore del centro storico conduce alla stazione dei treni, futuro polo di scambio intermodale, lungo un percorso facilmente raggiungibile dalla nuova biblioteca comunale, dall’archivio di stato, dalle sedi universitarie e dalle nuove zone progettate per la fascia nord.

Progettare il recupero di questo edificio avrebbe dovuto comportare una riflessione sui caratteri morfologici di tutto il centro di Modena, caratterizzato principalmente da due tessiture insediative. A sud il tessuto edilizio medievale è molto compatto ed omogeneo con case a cortina continua. La parte nord, frutto della cinquecentesca addizione erculea, è caratterizzata invece da isolati di dimensioni maggiori, con ampi spazi verdi, dove erano ospitate funzioni speciali, come conventi e palazzi nobiliari. Grazie alla vicinanza della stazione dei treni, l’area vide l’edificazione di nuove costruzioni con prevalente vocazione produttiva dal XIX secolo. Questo sviluppo è andato a discapito dell’accessibilità e della vitalità della zona nord del centro storico, dove ancora oggi sono presenti poche attività commerciali e manca un percorso pedonale

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alternativo all’andamento est-ovest della via Emilia. Per tutti questi motivi una fabbrica della dimensione della manifattura dei tabacchi è riuscita a resistere in centro storico fino a pochi anni fa.

La prima notizia del complesso risale al 1598 quando il Duca Cesare d’Este decise di comperare “appositamente con orto e peschiera, posto in isola”1 palazzo Bertani alle Monache di Santa Maria Maddalena, per stanziarvi il loro convento2.

Per duecento anni fino al 1798 l’edificio rimase convento, poi venne adibito ad usi diversi come ospedale militare, nitreria, magazzino di salnitro, Ufficio d’Assaggio dei lavori d’oro e d’argento.

Nel 1850 fu ristabilita la fabbricazione del tabacco in città, amministrata direttamente dal Governo Estense restaurato che si assunse l’esercizio di

1Archivio storico comunale di Modena (ASCMO), Atti della Comunità, 5 agosto, 1622.2 G. Soli, Chiese di Modena, a cura di G. Bertuzzi, II, Modena, Aedes Muratoriana, 1974.

Fig. 1Pianta del Convento di S. Marco, Mappario Estense, mappe in volume, volume 9, G. Puttini, Libro che contiene mappe di Fabbricati nel Modenese, Reggiano e Mirandolese, Archivio di Stato di Modena (ASMo).

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questo monopolio,3 e la Regia Cointeressata dei Tabacchi venne collocata nell’ex convento di San Marco, già passato al Demanio, che dalla prima metà dell’Ottocento aveva subito numerosi interventi di riparazione interna4.

Intorno al 1890 l’opificio coincideva pressoché con gli spazi del convento, con ingresso da via Sant’Orsola, e inglobava il corpo di fabbrica a chiusura della contrada della Pilotta. Questa contrada era stata chiusa con un portone già dal 1617 per ovviare agli schiamazzi e per proibire il gioco del pallone. Dal 1821 la strada venne chiusa con la costruzione di un corpo di fabbrica dove il duca decise di ricavare una caserma di cavalleria, detta appunto di S.

3“Il Panaro” del 17 Gennaio 1867 che riporta lo scritto di Giovanni Cappellari della Colomba intorno alle imposte di confine, ai monopoli governativi e ai dazi di consumo.4 G. Bertuzzi, Trasformazioni edilizie e urbanistiche a Modena tra Ottocento e Novecento, Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi, Biblioteca, Serie speciale N.16, Modena, Aedes Muratoriana, 1992.

Fig. 2Pianta Piano Terreno, stato di fatto 1908. Relazione all’On. Ministro delle Finanze del Prof. Angelo Celli, con la collaborazione di Emanuele Ing. Aliprandi, Dante Prof. De Blasi, Vincenzo Dr. Caja, Sulle condizioni igieniche e sanitarie dell’industria del tabacco in Italia, Roma, Tipografia Elzeviriana, F. Barcolli e C., 1908.

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5 P. Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e lavoro, Roma, 1986.

Orsola, valendosi dell’opera dell’ ispettore delle fabbriche ducali ing. Gusmano Soli. Già nel 1863 la Manifattura presentava una conformazione planimetrica considerevolmente diversa da quella dell’ex convento, grazie ad un progetto di ampliamento portato a termine dall’architetto Francesco Vandelli.

Negli ultimi venti anni dell’Ottocento Modena non aveva grandi fabbriche ma solo laboratori artigianali nei quali, di solito, non c’era lavoro femminile. La manifattura invece assumeva preferibilmente donne perché le loro dita erano insuperabili nell’arrotolare i sigari. In realtà percepivano salari inferiori ed erano accettate anche bimbe di otto-dieci anni, pagate pochissimo, sottoposte a severa disciplina5.

Presto il Regio ministero delle finanze pensò di ampliare la Regia fabbrica dei tabacchi, per aumentare sia la produzione che il numero degli addetti.

Fig. 3I grandi laboratori di formazione dei sigari al piano primo del secondo cortile, realizzati nel 1902 con colonne in ghisa, poste nel centro della campata.

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L’allargamento della fabbrica fu dapprima ipotizzato verso il vicino orfanotrofio provinciale, non credendosi possibile ottenere dal conte Carlo Abbati la cessione di un suo orto confinante a nord. Ma il conte Carlo Abbati morì quasi improvvisamente il 2 febbraio del 1864 lasciando al Regno d’Italia il suo patrimonio per opere di beneficenza. Il Municipio di Modena insieme alla locale Congregazione di carità chiese al Governo che la beneficenza venisse spesa nella città del testatore e a vantaggio dei poveri di Modena, nonostante il disappunto degli eredi del conte Abbati.

Dopo che lo Stato riuscì ad entrare in possesso dell’orto contiguo all’edificio della Regia fabbrica dei tabacchi (1895) si rese possibile l’ampliamento della fabbrica stessa, all’interno di un’area interamente demaniale, il cui progetto

Fig. 4Magazzino Tabacchi Greggi, progetto di ampliamento 1937, vista assonometrica. Ornato particolare, anno 1937, fascicolo 28. Archivio storico comunale di Modena (ASCMo).

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venne affidato all’ingegnere Emanuele Aliprandi. Il nuovo fabbricato fu descritto nel testo Sulle condizioni igieniche e sanitarie dell’industria del tabacco in Italia,6 pubblicato nel 1908 dallo stesso Aliprandi insieme ad Angelo Celli.

Questo ampliamento si sviluppò verso nord, attorno a due cortili delimitati da lunghi laboratori di lavorazione dei sigari. Nei disegni conservati all’archivio storico comunale sono rappresentati vari particolari costruttivi che denotano la grande evoluzione tecnologica che era stata utilizzata in questa fabbrica, come il sistema dei servizi igienici pensato in forma circolare con una torre di sfiato, il riscaldamento e la ventilazione ottenuti con impianti a vapore, il ricambio dell’aria viziata mediante condutture forzate, spogliatoi, refettori, infermerie, smantellati nel corso degli anni. Le sale da lavoro erano ornate di

6 Ministero delle Finanze, Direzione Generale delle Privative, Sulle condizioni igieniche e sanitarie dell’industria del tabacco in Italia, Relazione all’On. Ministro delle Finanze del Prof. Angelo Celli, Con la collaborazione di Emanuele Ing. Aliprandi, Dante Prof. De Blasi, Vincenzo Dr. Caja, Roma, Tipografia Elzeviriana, F. Barcolli e C., 1908.

Fig. 5Schema degli interventi edilizi e degli ampliamenti del complesso della Manifattura tabacchi.

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massime educative aventi attinenza al lavoro, all’economia, al risparmio affinché l’esperienza dei vecchi, la sapienza popolare del tempo, il pensiero degli ingegni più eletti fosse di guida e di ammonimento. Nel 1908, per il gran numero di sigaraie donne, venne costruito un baliato, dove era assicurata assistenza ai lattanti, figli delle dipendenti, che è ricordato ancora oggi come importante conquista sociale.

Prima dei grandiosi lavori di ampliamento portati a termine nel 1902, la Manifattura poteva contenere al massimo 350 operaie, mentre nel 1934 alla Manifattura lavoravano 2.091 impiegati e 18.097 salariati7. Per l’introduzione di macchinari ingombranti e per l’aumento costante della produzione il grande ampliamento dei primi del 1900 iniziò ad essere insufficiente.

Pertanto nel 1937 venne presentata in Comune la richiesta per poter costruire un ulteriore ampliamento in una parte del giardino di palazzo Coccapani d’Aragona. Su progetto dell’ ing. G. Morselli fu edificato il magazzino dei tabacchi greggi in un imponente stile razionalista di carattere celebrativo per la funzione ospitata. L’edificio è ancora oggi costituito da due corpi di fabbrica collegati da un nucleo centrale con funzione distributiva che contiene i collegamenti verticali e presenta un articolato prospetto con paramento esterno formato da un alto basamento in finto travertino con sovrastante cornice marcapiano; le aperture dei livelli superiori sono impreziosite da cornici.

Nello stesso periodo venne realizzata la centrale termica e ricostruita la ciminiera, utilizzate per la produzione del vapore necessario alla lavorazione dei sigari.

L’ultimo cambiamento planimetrico significativo risale al 1969 quando furono costruiti gli edifici addossati alla centrale termica, con struttura puntiforme e copertura a shed, per accogliere i nuovi reparti di prima lavorazione dei tabacchi, nei quali venivano utilizzati i nastri trasportatori.

La gloriosa storia della manifattura tabacchi di Modena, famosa a livello nazionale per la buonissima qualità dei suoi prodotti e per la creazione della famosa sigaretta nazionale MS, termina con la chiusura dello stabilimento e lo smantellamento dei macchinari nel 2002, a causa di problemi legati alla diminuzione del consumo di tabacco ed all’esigenza di razionalizzare la gestione delle aziende sul territorio. 7 S. Bellei, “Il Resto del Carlino-Modena”, mercoledì 15 ottobre 2003.

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Oggi l’edificio si presenta raccolto attorno a due cortili ed una piazza interni, sviluppato a lato dell’antica contrada della Pilotta, via storica che il complesso ha chiuso all’uso pubblico.

Dal punto di vista della tecnica delle costruzioni, il complesso racchiude diversi sistemi strutturali propri dei periodi storici nei quali sono stati effettuati gli ampliamenti. Gli spazi costruiti agli inizi del Novecento presentano una struttura costituita al piano terra da pilastri in muratura e volte a crociera, al primo piano da pilastri decorati di ghisa e travi in ferro, al secondo piano da capriate lignee appoggiate ai muri perimetrali, senza alcun pilastro. Le due ali destinate ai reparti di lavorazione dei sigari hanno una profondità di corpo di fabbrica di 12 metri e campate con pilastro centrale di 44 mq. Il magazzino tabacchi greggi invece è costruito in cemento armato con solai innervati ed presenta due corpi di fabbrica con un spessore di 18 m suddiviso due campate laterali di 36 mq ed una centrale di 22 mq. Una caratteristica fondamentale del magazzino è la capacità dei solai di portare carichi considerevoli che vanno dai 600 a 1000 kg al mq. Tanto nelle forme planimetriche quanto nei prospetti questi due ampliamenti sono fortemente legati all’uso produttivo per il quale erano stati concepiti.

Il complesso è ora proprietà di società private che, attraverso la presentazione di un piano di recupero, hanno ottenuto dal Comune e dalla Soprintendenza per i beni architettonici il permesso di recuperare gli spazi realizzando appartamenti, laboratori, uffici e garage, attualmente in fase di esecuzione. Le demolizioni previste dal progetto e già avvenute interessano alcuni edifici addossati al muro di cinta della fabbrica su viale Monte Kosica per la realizzazione di uno spazio pubblico da cui si accederà ad un sottopassaggio pedonale verso la stazione ferroviaria. Nello spazio adiacente a via San Martino, liberato dalle demolizioni, sorgerà un nuovo edificio destinato a commercio e parcheggio multipiano. Vicino all’area cortiliva di palazzo Coccapani verranno ricavati dei parcheggi a raso e sarà riaperto il collegamento con corso Vittorio Emanuele attraverso calle Bondesano. Il progetto prevede inoltre la demolizione di parte dell’edificio su via Sant’Orsola per consentire il collegamento ciclo-pedonale tra il centro storico e la stazione dei treni e la creazione di un nuovo percorso commerciale lungo l’asse della contrada della Pilotta. Il complesso recuperato e destinato

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ad usi residenziali, terziari, commerciali e pubblici, rispetterà sostanzialmente i volumi esistenti, i materiali e le aperture, mentre gli interventi più significativi riguarderanno gli spazi interni. In accordo con il Comune di Modena, con il quale è stata stipulata una convenzione onerosa, all’interno dell’isolato della manifattura tabacchi saranno di uso pubblico la piazza della ciminiera, nella quale troverà spazio un manufatto che dovrà ospitare una sorta di museo della fabbrica, la contrada della Pilotta, l’accesso a calle Bondesano (utilizzato come via d’uscita dai garage interrati) e la parte prospiciente viale Monte Kosica. I due cortili interni avranno un carattere maggiormente privato per la presenza di abitazioni anche al piano terra.

Prima dell’inizio dei lavori è stato concluso il trasferimento dello storico e corposo archivio della manifattura all’interno degli spazi dell’Archivio di Stato.

A conclusione di questa riflessione sul recupero della manifattura tabacchi, sembra corretto insistere sul valore dell’edificio industriale inteso come un monumento, ovvero una testimonianza costruita di un saper fare e di una società passata. Gli edifici sono memoria dell’epoca storica che li ha prodotti alla pari dei libri e per questo devono essere conservati e trattati con rispetto. Nonostante questo, non si può prescindere dalla necessità di dare un nuovo significato agli spazi esistenti, tenendo in considerazione che la forma architettonica racchiude sempre una vocazione verso determinati usi, corretti e compatibili. La difficoltà della trasformazione degli spazi industriali sta proprio nel tentativo di coniugare le coerenze della tipologia costruttiva esaltandone allo stesso tempo le ambiguità dovute alla corrispondenza non biunivoca fra tipo e funzione.

Le strade, la piazza, i cortili e la ciminiera, da elementi funzionali e simbolici di una morfologia urbana del passato, dovranno diventare i cardini attorno ai quali progettare la sostenibilità degli interventi edilizi. Di conseguenza la scelta della polifunzionalità è sicuramente una garanzia di controllo sociale degli spazi pubblici perché assicura continuativamente la presenza di persone nell’arco della giornata.

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Il titolo dato a questo breve intervento porta in sé, ovviamente, una nota provocatoria. A Modena infatti la stazione delle Ferrovie provinciali, la cosiddetta “stazione piccola” se confrontata con quella delle Ferrovie dello Stato, è in effetti assai più ricca e complessa di quanto questa definizione riduttiva sembri qualificarla (Fig.1).

Essa ha una lunga storia, fatta di iniziative ancora pionieristiche, di volontà di progresso, di modernizzazione, di ansia di mobilità, ma risponde altresì ad una spinta sociale e culturale, mirante al rispetto e alla valorizzazione del contado e dei suoi lembi anche i più periferici. è anche una storia segnata da inevitabili declini e da graduali trasformazioni.

Non si vuole qui ripercorrere una strada già largamente investigata ed indagata nell’ottimo lavoro degli autori di Territori modenesi e Ferrovie locali voluto ed edito dalla Provincia di Modena poco tempo fa e cui si rimanda per ogni approfondimento in materia.1Preme in questa sede puntare lo sguardo proprio sulla stazione nel suo complesso di edifici, di servizi, nel suo contesto territoriale, nella sua configurazione nell’area urbana, insomma nella sua specificità, in vista di futuri progetti di riqualificazione recentemente ipotizzati e ipotizzabili.

Perché si è parlato di stazione piccola sì, ma complessa e ricca? Perché il termine definisce un intero quartiere, un intersecarsi di viali, in buona parte nati con essa, una tipologia architettonica coerente, oltre che, ovviamente, tutto il complesso di edifici di servizio che hanno costituito il nucleo cardine

A n n a R o s a V e n t u r iRicercatrice

La Stazione delle Ferrovie Provinciali di Modena: davvero una Stazione ‘piccola’?

1 Territori modenesi e ferrovie locali, testimonianza storica e risorsa strategica, a cura di G. Gorelli, Modena, RFM, 2003.

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della rete. La stessa area su cui insiste l’insieme, così come il perimetro che la delimita, ha una sua propria e non casuale coerenza.

Lo studio delle carte depositate nell’Archivio Storico Comunale di Modena e nell’Archivio di Stato di Modena,2 così come i citati pregressi studi, dimostrano infatti sagacia, coerenza e profonda conoscenza della città sottesi alla progettazione di fattibilità e alla successiva costruzione del complesso.

Pur essendo un avamposto urbano per l’epoca assolutamente periferico (l’apertura risale al 1932, quando venne inaugurata con grande pompa dall’allora ministro delle Poste e telecomunicazioni Costanzo Ciano),3 la stazione ha voluto essere parte viva di Modena, pensata all’estremità del lungo viale alberato (Viale delle medaglie d’oro), fatto a sua volta scaturire dal già baluardo di San Pietro delle abbattute mura, quasi come un cordone che la legasse al centro cittadino.

Anche la tipologia costruttiva è raffinata e attentamente pensata: non

2 Archivio di Stato di Modena, Mappario catastale, Modena Forese, carte 112, 175; Archivio Storico Comunale di Modena, Ornato, 1931, n. 133.3 Le ferrovie provinciali modenesi. Trasformazione ed elettrificazione, Modena, Società Tipografica Modenese, 1932.

Fig. 1Il fabbricato viaggiatori dalla parte interna. Servizi igienici e pensilina

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si sono voluti utilizzare pesanti canoni razionalistici né quel tono littorio così frequente all’epoca, adottando invece un modulo architettonico di un eclettismo fra il neogotico e il neorinascimentale. Prestigioso quel tanto da potersi prestare ad un impatto solenne, sottolineato dalla piazza antistante, ma godibile all’interno di un’architettura civile non troppo dissimile: si pensi alle villette e alle palazzine di via Cucchiari e a quelle disseminate lungo viale Medaglie d’oro, oggi purtroppo in larga parte abbattute per fare posto a quei grandi palazzi e ai condomini che tutti conoscono.

Tutta una serie di strutture di servizio fa poi da corollario alla stazione propriamente detta o edificio viaggiatori, strutture pensate e alzate all’interno dell’area perimetrale (Vie Cucchiari, Fregni, Morane e piazza Manzoni) ognuna con una precisa logica ed una peculiare ubicazione.

Per meglio spiegare questa logica, piace partire dalla cosiddetta sottostazione elettrica di trasformazione. Si tratta dell’edificio segnato al n. 205 della

Fig. 2Sottostazione elettrica

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planimetria catastale al foglio 175. Al suo interno doveva avvenire il passaggio della corrente da continua in alternata e, proprio per questa potenziale pericolosità, ne era stata studiata la localizzazione in un’area assolutamente periferica, al margine esterno del terreno di spettanza. Lo dimostra la mappa che presenta una sorta di enclave all’interno della pista ciclabile di via Fregni in corrispondenza della detta sottostazione. Questa merita però anche un cenno alla sua struttura che rimarca l’originaria sobria eleganza sottolineata dallo scarto volumetrico fra il primo ed il secondo piano, dai finestroni ad arco e dalla grande vetrata ancora un po’ liberty che la ponevano in linea con l’architettura del principale edificio viaggiatori. Sono stati evidentemente rimossi i due grandi fasci littori che ne coronavano il fastigio, senza però cancellarne le sagome. La struttura, uguale anche nella stazione di Mirandola (modulo quindi studiato e ripetuto), è oggi in stato di assoluto abbandono, ma mantiene inalterato quel decoro che non si faceva mai mancare nemmeno agli edifici di servizio (Figg.2-3).

Fig. 3Torre piezometrica

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Spicca nell’ambito di questi, per la sua massiccia presenza, il magazzino officina e rimessa (foglio 175 particella 200), anch’esso coevo alla stazione. Composto da una serie continua di sei capannoni a schiera (m.72 x 55), era originariamente dotato di dodici grandi aperture per ricovero treni e di quattordici finestroni laterali per parte. Ovviamente è posizionato sul tracciato dei binari. Oggi in parte rimaneggiato, soprattutto attraverso il ridimensionamento e la modificazione delle aperture, mantiene tuttavia intatta la struttura esterna originale (Fig.4).

Adiacente a questa grande officina il fabbricato definito “uso magazzino” (particella 198) di m.18 x 6, sul cui lato corto è stato aggiunto un prefabbricato. La logica ha imposto la contiguità di questo magazzino inteso come deposito materiali e parti di ricambio con la rimessa-officina e si allinea con altri due servizi: il magazzino lavaggio (particella 197) di m.30 x 6,5 e lo spogliatoio mensa, docce e bagni (particella 199 a 2 piani di m.11 x11). Nell’insieme queste quattro strutture si dispongono entro un perimetro circoscritto e coerentemente

Fig. 4Edificio rimessaggio delle carrozze

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subordinato al raggiungimento ergonomico di una finalità operativa. Il fabbricato ex lavaggio, a forma di tunnel e dotato di grandi aperture

sui lati corti, permetteva il passaggio delle carrozze e la loro uscita dopo le operazioni di pulizia.

Altrettanto contigua la torre piezometrica (particella 201), serbatoio pensile di dodici metri fuori terra per pescare l’acqua necessaria per alimentare le caldaie della trazione a vapore. In epoca più recente l’acqua veniva utilizzata per il lavaggio delle carrozze (Fig.3).

Rimarchevole, anche se più defilata, la palazzina definita ex economato, parte su un livello, parte su due (part. 202). Si tratta di un edificio lungo e stretto nato per gli uffici ed i servizi amministrativi. Nel tempo ha ospitato anche l’abitazione del custode e altre funzioni. Oggi appare largamente trascurato, pur essendo ancora parzialmente utilizzato e pur mantenendo la sua originale dignità costruttiva. Per tutte queste opere di servizio è infatti da sottolineare la misura ed il decoro delle strutture e anche delle finiture in cotto, tipici della

Fig. 5Edificio per il carico-scarico merci

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mentalità del tempo.L’edificio ex circolo (particella 204), nato al margine sud dell’area come

magazzino di servizio, oggi si presenta fortemente rimaneggiato per le finalità di sala bar e di cucina cui è stato ben presto destinato. Completamente circondato da capannoni e da campetti per il gioco dei bambini, per le bocce, il tennis e lo svago, dall’esterno è di assai ardua valutazione. Va invece presa in considerazione l’attenzione che all’epoca cominciava a farsi strada, del benessere del lavoratore (mensa, bagni, infermeria, spogliatoi…) e della coesione delle maestranze anche nel dopolavoro.

Molto interessante l’edificio destinato al carico-scarico merci che tuttora mantiene l’elegante struttura originale con le due ampie tettoie in cemento armato di forte aggetto (fig.5).

Altre palazzine e servizi si trovano nell’area, di minore e secondario impatto, pur impostate secondo il modulo generale con facciata a mattoni rossi e strutture portante in cemento armato.

Con questa brevissima disamina si intende offrire lo spunto per una maggiore attenzione alla storica stazione piccola SEFTA (Società emiliana ferrovie tramvie ed automobili) di Modena, del suo terreno di pertinenza e della coerenza dell’insieme che suggerisce di non eroderlo vieppiù con palazzine e ancor meno con palazzi torre. Edifici peraltro di cui la città non sembra proprio aver bisogno, stante il massiccio invenduto sia sul nuovo sia sul vecchio, più o meno ristrutturato.

Nel perseguimento convinto della tutela del patrimonio archeologico-industriale di rilievo e dell’interesse della comunità, si guarda alla valorizzazione del contesto nel suo rispetto. Il ripristino delle strutture cardine, la piantumazione ad area verde del terreno abbandonato a continuità dell’attuale parco della resistenza, la rivitalizzazione delle belle pensiline a zone ombra e riposo appaiono le linee guida meglio rispondenti al bene comune e alla memoria storica. Come del resto il piano regolatore disponeva nell’indicazione di questa area intesa come preparco rispetto al Parco della resistenza. Realizzare poi un parco didattico cui convogliare le scolaresche, proprio con il treno, significherebbe per Modena cogliere una grande occasione per pilotare saggiamente il passaggio funzionale di un’area che era stata adibita nel 1932 a servizio per la città ad un’altra funzione, sempre rivolta a beneficio della città stessa.

Si vuole ricordare infine la malaugurata perdita di perimetri importanti nella storia dello sviluppo cittadino: quella dell’ex autodromo è una delle più recenti testimonianze di un’area ormai irrimediabilmente perduta, mantenere quella della stazione Sefta eviterebbe un ennesimo errore.

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Il Villaggio artigiano di Modena ovest ha costituito uno dei modelli di riferimento della trasformazione della città nel secondo Novecento, sia dal punto di vista socio-economico, sia dal punto di vista architettonico-urbanistico.

Creato per fornire una possibilità di riscossa a tutti quegli artigiani specializzati licenziati nel dopoguerra, il villaggio è un quartiere di destinazione mista che si compone di circa settanta lotti occupati da abitazioni e officine, ai quali è affiancata una fascia di servizi sociali e un insediamento INA-Casa. (Fig.1)

L’intervento segna l’inizio della ripresa economica della città e la nascita di un distretto metalmeccanico basato su un sistema di piccole e medie imprese, che tuttora costituisce il carattere distintivo della società modenese1.

Si tratta di un quartiere che fin dalla sua nascita ha sapientemente mescolato le residenze e le attività produttive; pur mantenendo una vocazione univoca, quella della casa-officina, esprime una grande ricchezza dal punto di vista estetico e funzionale.

Questo si può cogliere nella varietà dei profili stradali del quartiere, nella ricchezza ed eterogeneità che travolge chi si trova a passeggiare per le sue strade .

Non possiamo non citare quelli che sono gli interventi di valore architettonico, che si inseriscono puntualmente all’interno del villaggio, tra i quali numerosi progetti dell’architetto Vinicio Vecchi, protagonista in quegli anni della costruzione delle case-officina che tutt’oggi caratterizzano il villaggio. Ne sono testimonianza i disegni dei suoi lavori conservati all’Archivio Vinicio

G i u l i a G i u s t i e E u l a l i a L i l y G o l e sArchitetti

Densità sostenibile: il caso del Villaggio Artigiano di Modena Ovest

1 G. Muzzioli, Modena, Bari, Laterza, 1993.

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Vecchi2. (Fig.2)È da sottolineare che l’architetto collaborò direttamente con l’assessore

all’urbanistica dell’epoca, Mario Pucci, autore del complesso INA-Casa che si trova all’ingresso del quartiere.

Situato nella prima periferia ovest della città, il villaggio oggi si trova ad occupare una posizione non più defilata come ai tempi della sua ideazione, grazie all’espansione della città.

Del resto l’area risulta delimitata nel vero senso della parola da due enormi barriere: la ferrovia a Ovest (ormai in via di totale dismissione) e nella parte più settentrionale il cavalcavia della Madonnina, che isolano la zona in queste due direzioni, lasciando però liberamente percorribili le altre due direttrici principali, rappresentate da via Emilio Po e via L. Nobili 3.

Oggi il triangolo costituente il primo quartiere produttivo risulta essere quasi

2 La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e architettura a Modena 1931-1965, Modena, Rfm, 2004. 3 Un villaggio tra la ferrovia e la campagna, Modena, Il Fiorino, 2007.

Fig. 1Villaggio artigiano

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Fig. 2Vinicio Vecchi, Edificio ex Caprari

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completamente occupato, e per individuare quali sono le possibili prospettive di sviluppo e ampliamento è importante vedere come, negli anni dal 1956 ad oggi, il villaggio abbia raggiunto questo elevato grado di saturazione. (Fig. 3)

Per questo motivo, basandoci sulle licenze edilizie reperite dal sito del Comune di Modena, sulla cartografia del 1956 e sulla mappa storica aggiornata al 1994, reperite all’Archivio storico di Modena, abbiamo ricostruito lo sviluppo cronologico del villaggio in sei fasi, redigendo delle schede per ognuno dei quasi centoventi lotti del villaggio, basate su un accurato rilievo che traccia tipologie, dimensioni e funzionalità degli edifici, e che ci sono servite per la

Fig. 3Sviluppo temporale del villaggio artigiano

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successiva progettazione. (Fig.4)Da questi rilievi cronologici abbiamo notato come, fino agli anni Settanta,

lo sviluppo del villaggio sia stato graduale e volto a seguire un preciso schema che aveva come direttrici principali la ferrovia e l’asse Nord-Sud. Negli anni successivi si è verificato invece un processo di saturazione, andando gradualmente a riempire tutti i lotti rimasti liberi, senza più seguire uno schema preciso, ma facendo riferimento unicamente ad esigenze spaziali. Tutto ciò è dovuto principalmente a una questione economica, in base cioè ai terreni che il Comune riusciva ad acquistare dai proprietari della zona, quindi il primo riempimento avvenne per lotti limitrofi. Solo in un secondo momento ci si affidò anche ad una logica di programmazione territoriale; il Comune andava infatti ad adeguare l’area con strade d’accesso ai vari lotti, mano a mano che questi si riempivano per un totale di circa sessanta lotti. La larga adesione, le tante

Fig. 4Scheda tipo

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richieste di terreno e l’entusiasmo che accompagnava l’impresa, fece decidere al Comune di proseguire l’iniziativa, espandendo il Villaggio artigiano fino a un totale di 800.000 metri quadrati, per poi raggiungere le dimensioni attuali.

Il progetto esplora la possibilità di trasformare il Villaggio artigiano a partire dal riuso del patrimonio edilizio e funzionale esistente, tentando dunque di sottolineare il valore di questo pezzo di città del Novecento anche in termini di composizione urbanistica ed episodi architettonici.

Lo scopo è stato quello di dimostrare che è possibile adeguare un luogo come questo ai nuovi standard urbanistici senza doverlo cancellare né trovare altrove lo spazio per un nuovo quartiere ad attività miste.

Il concetto base è quello di intervenire sul villaggio con la possibilità di modificarlo su se stesso con sopraelevazioni, innesti e saturazioni di una parte dei vuoti residui.

Il progetto nasce infatti dalla volontà di riprendere l’idea fondatrice dell’originario Villaggio artigiano, ispirandosi a tipologie presenti nel quartiere; si articola fondamentalmente in interventi puntuali e diffusi, a loro volta suddivisi per il grado di interesse e di fruibilità degli spazi: pubblico, semipubblico e privato a seconda dell’uso che ne viene fatto; in questo modo vengono prese in considerazione le esigenze di tutti gli utenti. (Fig. 5)

Per ogni singolo intervento è stato sviluppato un progetto tipo studiato in base alle caratteristiche del caso, che si può poi replicare per tutti i lotti con le stessa tipologia.

Con i nostri interventi abbiamo cercato di coniugare il binomio casa-lavoro, associandolo alle nuove e più attuali problematiche della densità, per poter fornire un luogo tranquillo e gradevole dove vivere e lavorare.

L’altro obbiettivo è quello di fornire un modo per far rivivere un quartiere, pur sempre in trasformazione, senza trascurare quelle che sono le nuove esigenze, come per esempio i nuovi tipi di utenze: vi sono infatti molti immigrati e anche molti anziani soli all’interno del quartiere, che non hanno le stesse possibilità e necessità dei più classici nuclei famigliari, e per cui abbiamo previsto delle tipologie abitative più adatte alle loro esigenze.

Si tratta dunque di fornire un’alternativa all’occupazione disordinata di

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spazi degradati e che oggi, abbandonati a se stessi, subiscono un notevole calo di valore.

Oltre a quello architettonico, anche altri temi di grande attualità come quello della densità, del riuso, della mixitè funzionale ma soprattutto come precedentemente citato, quello sociale, non possono non essere presi in considerazione all’interno di un progetto di riconversione dell’area.

Altro fattore molto importante da tenere in considerazione è la prossima dismissione della linea ferroviaria Milano-Bologna, che costeggia ad Ovest il villaggio; oltre all’effetto barriera che esclude la visuale dell’orizzonte, la presenza dei binari crea infatti, attorno al proprio sito, un degrado generalizzato,

Fig. 5Specchietto diffusione puntuale degli interventi

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tipico delle linee ferroviarie. Non è inoltre difficile ammettere come il fastidio e l’inquinamento acustico dovuto al passaggio del treno, siano sfavorevoli a insediamenti in zone limitrofe, soprattutto di tipo residenziale.

In quest’ottica abbiamo pensato di inserire un parco terrapieno da dotare di servizi al quartiere, che possa trasformare quello che prima era un retro in un fronte, mettendolo in relazione diretta con l’intorno.

Il progetto si distribuisce per una lunghezza di circa un chilometro, che va dalla via Emilia fino alla parallela via Nobili, componendosi di sette stralci organizzati in base alla loro collocazione.

L’imperativo è quello di evitare una sostituzione indistinta ma piuttosto ragionata, e attraverso una ricca gamma di standardizzazioni e interventi puntuali, riprodurre contemporaneamente un’immagine unitaria ma eterogenea, come si presentava in origine il Villaggio artigiano.

L’area non può essere trattata come un insieme di lotti da demolire e sostituire uno ad uno senza una programmazione globale.

Da qualche anno infatti, si è già attivato un processo di trasformazione del contesto che non tiene conto delle straordinarie potenzialità di questo pezzo di città, che grazie all’elevata flessibilità dei sui spazi potrebbe continuare a conservare la sua vocazione produttiva.

Come sempre più spesso accade per i grandi quartieri industriali in via di dismissione, si sta cercando anche qui di sostituire la preesistenza con un indifferenziato impianto residenziale di scarsa qualità architettonica.

La varietà di tematiche e la complessità del caso di studio non permette quindi di limitarsi a una sostituzione o a una ri-funzionalizzazione degli ambienti.

Le piccole e medie imprese chiedono nuove localizzazioni, spesso hanno bisogno di nuovi o più grandi spazi o di migliorare la loro capacità organizzativa, produttiva e logistica. Assume quindi grande valore la capacità di offrire vantaggi localizzativi, accessibilità veicolare e qualità dei servizi e dell’ambiente.

Il nostro tentativo progettuale si è molto concentrato anche sul tipo di evoluzione che ha avuto e sta avendo il mondo della produzione. Sempre più attività sono caratterizzate da forme di produzione immateriale e sono pressochè

4 F. Indovina, a cura di, La città diffusa, Venezia, Daest Iuav, 1990.

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indifferenti alla localizzazione; tutto questo è una diretta conseguenza dello sviluppo informatico e telematico che sta avendo il mondo del lavoro e che consente quindi di dematerializzare e decentrare i nuovi luoghi di lavoro.

La crescita di nuovi settori, la capacità organizzativa delle imprese e le nuove tecnologie, stanno contribuendo a produrre un nuovo tipo di centralità , ma di contro anche un nuovo tipo di marginalità 4.

La nostra politica insediativa tende dunque ad abbracciare queste nuove tecnologie insieme a quei tipi di aziende che apparentemente sembrerebbero escluse da questo tipo di evoluzione, ma che comunque ne sono parte integrante; in questo modo crediamo di poter evitare la nuova marginalità che si rischia di andare a creare nell’organizzazione della città del futuro. Il nuovo target di impieghi che si andrà dunque ad impiantare, sarà di conseguenza lontano dalle botteghe di artigiani che affollavano il vecchio villaggio.

Riteniamo che il villaggio meriti una riflessione più approfondita che possa coinvolgere nella sua trasformazione oltre che amministrazione e progettisti, anche i residenti che da sempre hanno dimostrato una grande identità e senso di appartenenza a questi luoghi.

Si tratta di un pezzo di città del novecento di grande valore che può rivelarsi un campo di sperimentazione sui temi della densità, della mescolanza funzionale, della sostenibilità ambientale, che sono oggi i punti fondamentali da prendere in considerazione in merito allo sviluppo della città contemporanea.

BiBliografiaaa. vv., Enciclopedia di urbanistica e pianificazione territoriale, vol IV, Milano, F. Angeli, 1989.aa. vv., Variazioni sul tema della qualità urbana: esperienze di riqualificazione in sei città italiane

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1984.

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Modena, a differenza di Bologna, per ragioni orografiche evidenti, rivela un numero consistente di fornaci allineate a partire da sud.

Nella parte alta della città è ancora leggibile una sorta di cometa costituita da fornaci, o siti di forni e cave, con la coda che termina nelle prime balze dell’Appennino, a Castelvetro; il grosso dell’agglomerato si colloca sull’incrocio tra ciò che resta della linea ferroviaria per Sassuolo e l’autostrada; la via Giardini è già in prossimità di Baggiovara quando la Strada Stradella accompagna con più precisione la zona delle fornaci; una parte degli impianti, forni e ciminiere, è stata demolita ma permangono le evidenti impronte degli scavi nelle cave della terra.

Poco distante, nella direzione sud, si sono mantenuti, con le depressioni di cava, anche i capannoni dei forni, in un disordine informe e senza qualità; qui degli impianti originari Hoffmann non resta niente; camini in lamiera accorciati e sfasciati; generale è la trasformazione degli anelli originari in tunnel come nei forni di recente produzione ceramica; poi rimangono cospicui accumuli di rifiuti industriali mai bonificati; forse segnale di una serie di fallimenti di imprese; dire terrains vagues è sicuramente un grazioso abbellimento.

Diversa è la parte terminale della cometa, a Castelvetro, dove sembra di assistere a un fenomeno di marginalità, quasi di incolumità dalla distruzione; una sorta di conservazione dovuta alla distanza dalla tormentata e generale manomissione del periurbano modenese.

Nella direzione perpendicolare agli Appennini, poco prima di raggiungere Castelvetro, a Settecani in via Spilamberto, resta una fornace Hoffmann molto

La fornace Cavallini a Castelvetro. Un caso denso di istruzioni, raro ed esemplare nell’intera regioneA n t o n i o N i c o l iArchitetto

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ben tenuta; più che di restauro si tratta di un raro esempio di manutenzione: sostituzione dei travi rotti, assestamento dei coppi e restauri murari; non c’è traccia di uso degradante; sembra proprio che il benessere che esprime la vecchia casa della famiglia fornaciaia si sia tradotto in rispettosa magnanimità verso l’antica fonte di lavoro e di agio economico: una compensazione rara da constatare altrove nella regione. E’ giusto chiedersi per quale ragione sia stato possibile.

Mancando ogni forma di riuso, domina tutto attorno il silenzio e il vuoto, proprio come in una natura morta; la ciminiera parzialmente mozzata, al centro del forno ad anello allungato, ha una forma piramidale, da obelisco; con una rastremazione elegante, proprio come nei disegni del neoclassico Pistocchi; la pulizia e l’ordine, con alte aiuole di tasso che disegnano l’ingresso e il bordo del piazzale, conferiscono una monumentalità nobile, che contrasta e si allontana dall’arruffato degrado già accennato per la porzione modenese.

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Il caso fornaciaio di Castelvetro è un modello esemplare, da salvare nell’Arca in caso di diluvio.

Qui non si constata il disordine da abbandono e neppure la severa manutenzione conservativa di Settecase.

Il sito produttivo è stato fortemente caricato di capannoni negli anni del boom economico; probabilmente nel disperato tentativo di una continuità dell’attività; ancora oggi alcuni spazi sono parzialmente occupati da magazzinaggio; sul cortile si nota un piccolo ristorante con insegna al neon.

L’antica fornace con ciminiera si affaccia ancora, con meritata evidenza, nel quadro della prima vista, a chi varca il cancello; la casa padronale è accanto, contornata dal profilo della cava di colle e occhiuta, con le finestre e porta principale sul piazzale; i volumi successivi e non congruenti vengono facilmente eliminati dall’occhio benevolo e archeologico: è tale l’attrazione dell’originario complesso che il visitatore si dimentica presto dell’assalto tentato negli anni

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sessanta e settanta; si può continuare ad osservare indisturbati gli edifici a mattoni della “fabbrica” ottocentesca.

E’ frequente incontrare nelle vicinanze di casa il signor Cavallini: in età da pensione, disponibile a dare spiegazioni e illustrazione storica sulla epopea della fornace; ha fatto fino ad ora manutenzione alla fornace, sostituito travi, rattoppato il manto dei coppi; nel passare del tempo, sempre con minor forza e puntualità: oggi si limita al davanti; infatti, nella vista del piazzale, tutto è ancora a posto, vecchio ma integro; dietro, dove sta piantata la ciminiera, i crolli sono ampi ed evidenti a chi si inoltra nella seconda linea del forno ad anello.

Molto spesso le fornaci a ciclo continuo, osservabili nella regione, sembrano traduzioni dialettali, adattamenti edilizi di maestranze locali, rispetto ai modelli dei manuali ottocenteschi; traduzioni provinciali, come fienili allungati per albergare il forno; espressioni di una grande distanza operativa rispetto ai disegni allestiti nei politecnici della Valpadana.

Nel caso Cavallini, la sorpresa consiste nel ritrovare l’iconografia dei manuali, la cifra dei manuali e dei tavoli da disegno degli ingegneri, un lessico protoindustriale estraneo alla tradizione dei pratici; se non in dichiarato contrasto con l’antica arte del costruire locale.

In questo caso, non solo il metodo produttivo è innovativo e lontano dalle monocamere a pignone per la cottura; è emergente la stessa materialità della fabbrica, dotata di una modernità che corrisponde alla coeva industria del continente europeo.

Una discendenza dall’attività di cottura dei laterizi, con un antico forno a monocamera, può esser data per certa, in questo caso come in tanti altri della regione; va rimarcata la particolarità accennata, in pochi altri il manufatto è così innovativo, distante dalla consuetudine ideativa di un capomastro muratore; qui, come si dice nel linguaggio dei progettisti, “tutto è stato disegnato”; la porzione centrale del tetto, la cuspide, è risolta con una struttura senza appoggio centrale; si può intravedere un lungo e raffinato percorso di secoli, di carpenteria gotica nel continente europeo; non si constata il più consueto impianto basilicale romano, poi esarcale, che ha dominato ininterrottamente fino a quel momento, sia in Romagna che in Longobardia.

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Salendo sulla volta del forno e guardando in alto, l’effetto visivo che si cattura è quello di una gigantesca ruota con mozzo tornito al centro; raggi e gavelli, tagliati con esattezza a quattro spigoli, si irradiano tutto intorno; si tratta di una struttura autosospesa senza il pilastro di appoggio centrale, a differenza della fornace di Felino, pure circolare, che ha la ciminiera al centro, in funzione di punto d’appoggio centrale.

Quella di Castelvetro funziona all’incirca come una capriata circolare. Il proprietario, che riceve accogliente e incuriosito nel cortile o sulle scale

di casa, non senza una espressione di orgoglio, consiglia sempre di salire e osservare dal basso verso l’alto quel prodigio. Doveva essere, fin dall’inizio, un colpo d’occhio garantito nell’evocare meraviglia; con il risultato che anche Castelvetro aveva guadagnato, insieme a tante città europee nella seconda metà del secolo diciannovesimo, la prodigiosa esperienza di un Panottico. Ma in questo caso il contenuto appare proprio unico: un piccolo cosmo con cielo e terra; un sole raggiante che si rabbuia guardando dall’alto verso il basso la

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volta del forno; forse, in attesa che la fiamma lo accenda e lo illumini ancora, correndo nel cavo circolare per mutare blocchi di terra molle in masselli ben cotti e arrossati.

Il complesso strutturale è così in contrasto con il lessico della tradizione costruttiva locale che i travetti di copertura (i modenesi, come li chiamano pure gli emiliani, tempi da templum) non sono orizzontali ma scendono dalla cuspide, in discesa con la falda.

Se si vuol ritrovare traccia del calore antico, in un forno spento da decenni, questa va ricercata, oltre che nelle pareti variamente arrossate nella camera interna all’anello, nello sbandamento all’infuori dei pilastri che reggono la copertura; questi, incastrati nel muro esterno della volta del forno, hanno subito una dilatazione media di due decine di centimetri; c’è traccia evidente che, nel corso del lungo lavoro di cottura, sono stati più volte riparati, corretti, riposti in sesto per evitare crolli nella copertura; una fatica da combattimento,

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che si è protratta durante l’intero periodo di lavoro; uno sforzo mai concluso ma neppure mai soccombente; oggi lo vediamo come cicatrizzato a ricordo della spinta verso l’esterno prodotta dal calore mentre la fiamma girava come in una giostra; simile alla deriva di un bolide o alla girandola di una piccola galassia in esplosione.

La cosiddetta “casa rossa”, dove ancora abita la famiglia che discende in linea diretta da generazioni di fornaciai, non è meno esemplare del forno.

Non sempre capita che l’involucro della casa sia in laterizi a vista: più spesso è intonacato a foggia di palazzotto fregiato da cornici dentellate neorinascimentali; nel nostro caso si tratta di un vero campionario di terracotta, che esprime la stessa calda sicurezza di un salvadanaio di coccio, la forma è quadrata, cornici alle finestre e fregio di gronda sono composti da elementi sagomati e modanati, sicuramente composti nell’aia sui banchi dei formatori con stampi di legno appositi; sono la traccia archeologica di un lavoro svolto nel piazzale del tutto scomparso; la cromia ci informa sulla disponibilità di due tipi di argille: una con la quale si formano cotti giallo tenue, l’altra rosso tenue.

Il paramento murario ha un rimando antico e potente; con una composizione “a chiave”, si collega addirittura alle fiammeggianti losanghe del muro dipinto dal Tiziano nella presentazione al tempio.

La casa di famiglia non è solo un campionario di manufatti in laterizio; nel

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diventare tipo di casa agiata, ci informa della condizione emergente, sociale e proprietaria; lo stesso blocco “a palazzo” è stato un campione che ha segnato il prodromo del tipo edilizio “fuori porta”, del villino in una periferia di lotti e verzure anche esotiche; segnava pure il passaggio di status del fornaciaio che da mastro di laterizi si elevava di rango con l’investimento capitalistico del forno Hoffmann; non più errante, tra tanti mestieri per via, nelle campagne e corti della Valpadana; allora in cerca di siti a cui attendere con la sola manodopera e qualche legno sacomato: per esempio, in quella stagione di cambiamento, molti sono stati i ticinesi che si sono stabilizzati -oggi diremmo delocalizzati-in nuove “piccole patrie”.

Molta della terra che manca dalla collina dello sfondo è stata cotta e poi rifornita con carri nell’abitato di Castelvetro. Il territorio comunale non è stato invaso come altrove nel modenese da capannoni ceramici; il modellino del centro abitato antico con la propria fornace ad anello, a meno di due chilometri di distanza, ha conservato molto del fascino antico; si distingue chiaramente la formazione di una prima periferia fino all’età giolittiana; il profilo medievale non

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va ricercato, come a Scandiano, oltre le volte ricoperte di amianto dei capannoni; anzi le strutture antiche a pinnacolo hanno mantenuto una schiettezza a cui non deve essere stata estranea la munificenza della famiglia Cavallini; nel caso, restauratori di laterizi per conto della Soprintendenza dello Stato.

Fuori dal centro storico, in via Marconi, nella prima periferia lungo la strada di collegamento con la provinciale, è segnalata una villa Cavallini.

I mattoni di cui si compone sono di due colori, con un effetto variegato come in un pregiato tessuto di tweed; forse è la dimora di un ramo cadetto, o lo stesso ceppo che si è, nel corso del tempo, urbanizzato, allontanandosi dalle cadute fumiganti e acri del pennacchio di ciminiera, come pure dalle polveri del piazzale affollato da mattonari.

In quei muri variegati c’è molta letteratura fornaciaia e laterizia; nel nord europeo esiste una enorme tradizione e produzione di muri a mattoni fiammati: è la tecnica del flashing, una fiammata che accompagna la cottura; altrove un difetto che diventa un’arte per dare un’immagine ravvivata, non monotona; proprio come fa il cuoco borgognone con il flambé.

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Quella pezza di tessuto non si è esaurita con l’esecuzione di una villetta; il grande edificio pubblico sulla provinciale, tipo di opificio, nei pressi della cabina elettrica, è stato rivestito nello stesso modo, con un effetto indimenticabile sul visitatore.

Castelvetro è un modello anche in questo, un mercato circoscritto di laterizi legatissimo al luogo di produzione; con la fondovalle del Guerro, simile a un cordone ombelicale, connessa alla preziosa fornace; un contesto ancora ben preservato, o meglio, congelato nel periodo di funzionamento delle fornaci anulari; il tutto contenuto nello spazio garbato di un fondale teatrale.

E’ anche il campione di una illusione, che una innovazione industriale così potente potesse limitarsi a un piccolo territorio racchiuso in un comune; in questo ci viene in soccorso lo spazio di scena in cui è ambientata la vicenda de Il padrone delle ferriere, il romanzo di Georges Ohnet; è molto sintomatica la chiusura ambientale di un piccolo mondo bastionato, come se si trattasse di un piccolo feudo dove, per una volta sola, possa essere importata una grande innovazione industriale senza rivoluzione.

Non è un caso che un po’ ovunque, in Europa, sia stato dato un vestito neomedievale, merlato e turrito a tanti edifici industriali, come pure a importanti edifici pubblici, carceri comprese.

Sono i passaggi immediatamente successivi che hanno contraddetto, senza pietà, l’illusione dell’equilibrio alla piccola scala; di poter limitare l’attività industriale sotto il tetto di un solo edificio fabbrica, nel grembo di una solida famiglia.

Qui appare l’ultima questione che il caso solleva; il padrone o il fornaciaio, come pure la compattezza della famiglia, sono i detentori di una direzione monodiretta; un tema più volte contraddetto dalla più recente managerialità.

Non meriterebbe soffermarci su quell’argomento, se non fosse per l’emergere, di tanto in tanto, del ritorno; del dubbio che non sia meglio passare dal principio ordinativo eterodiretto al primitivo monodiretto: del tenere il reggimento del lavoro, come la vita degli altri, nelle mani di un padre e padrone, effigiato magari secondo la descrizione fotografica di Gadda, ne La cognizione del dolore: un signore generatore, con abito nero, gilet e baffi, “dalla faccia corrusca”.

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Una situazione intensa, di raro pregio e interesse storico: una vicenda di sviluppo industriale controllabile in uno spazio ristretto; che si distingue al confronto con la decadenza territoriale e l’inquinamento da cui siamo partiti.

Vale la pena di conservarne gli spazi di memoria.

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Una prima osservazione è d’obbligo. All’accuratezza e alla profondità dei processi conoscitivi non corrisponde nulla di analogo dal punto di vista del recupero e del riuso. Sul piano operativo siamo di fronte a progetti che ormai subiscono l’usura del tempo, che sono figli di una stagione che appartiene al passato.

Viviamo una crisi dalla quale molti ritengono che usciremo più poveri, i livelli di consumo degli anni precedenti alla crisi sembrano non più raggiungibili in futuro. Ciò dovrebbe spingere a trasformare debolezze o elementi di criticità, come sono le aree industriali dismesse, non solo in luoghi della memoria, ma anche in momenti di forza dal punto di vista generale, vale a dire minor consumo di territorio, minor costo degli interventi e riutilizzazioni più sensate di quelle che vengono proposte che sono, nel migliore dei casi, funzioni pubbliche, nel peggiore uffici, aree commerciali e abitazioni. Di queste ultime ci sarà meno bisogno; di spazio invece ci sarà invece sempre più bisogno, non solo per esigenze ambientali e ecologiche, ma soprattutto per qualificare e migliorare della vita delle città. Questo è il punto di partenza, che va adottato anche da parte dei professionisti e che impone una maggiore sobrietà degli interventi.

Sono rimasto impressionato dal progetto di recupero della fonderia. La procedura è giusta: si sono fatte le interviste, si sono convocate le associazioni, si è realizzato un dibattito partecipativo. Gli esiti, al contrario, sono tutt’altro che entusiasmanti. Il recupero proposto è frutto di una malattia oggi assai diffusa, l’”archistarite”, per cui senza che ci sia nessun motivo (il manufatto sarà adibito

Conclusioni

R e n a t o C o v i n oUniversità degli Studi di Perugia, Presidente AIPAI

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a funzioni pubbliche) ci si trova di fronte a volumi che emergono da dietro lo stabilimento e, in mezzo, una cosa gialla che non serve a niente. E’ vero che gli architetti devono lasciare un segno, ma è proprio così necessario? Non è meglio mantenere una fedeltà allo spartito urbano preesistente? Per inciso noi parliamo sempre meno di archeologia industriale e sempre più di patrimonio, anche perché sempre più il “grande architetto” salva la ciminiera in omaggio ai valori “archeologico industriali”. Il ricordo è così “rispettato”, sovvertendo l’insieme preesistente; la ciminiera peraltro a volte è destinata a crollare dato che non ne viene fatta la manutenzione. La domanda è: quale è il senso di questi percorsi, in un’epoca in cui si afferma che bisogna risparmiare in tutti i sensi? Non sarebbe allora opportuno adottare nuove tecniche di intervento? La stessa cosa vale per molte altre situazioni. Penso alle manifatture tabacchi. In molti casi si tratta di strutture preesistenti all’industrializzazione, spesso conventi utilizzati come luoghi di produzione, cui nel tempo sono stati aggiunti nuovi corpi di fabbrica. Perché proporne la demolizione o usi impropri? perché non trasformarle di nuovo, salvaguardandone la leggibilità, studiando riusi più intelligenti e innovativi?. La stessa cosa vale per il Villaggio artigiano, in cui si mescolano residenze e edifici produttivi, dove solo il 30% può essere riutilizzato poiché il restante 70% è già stato distrutto. Ebbene, su quel 30% non si può pensare a un’operazione fondata sulla vocazione del sito, destinandolo a botteghe e scuole che recuperino antichi mestieri? Si tratta peraltro di esperienze già realizzate altrove, ad esempio in Spagna, dove progetti analoghi sono stati finanziati dall’Unione europea.

Quando parliamo di buone pratiche, insomma, non intendiamo soltanto rispetto per gli edifici, ma anche per il denaro pubblico. Il livello di dibattito che proponiamo in altri termini ci sembra adeguato alla criticità della situazione attuale e di quanto è prevedibile nel prossimo futuro. Non vogliamo salvare tutto o fare ovunque musei, proponiamo invece varie e articolate forme di recupero. Ad esempio, in Germania le macchine dismesse vengono sottoposte a pratiche definite di degrado controllato. Si va ad una monumentalizzazione priva di finalizzazioni concrete, ma realizzata a costi bassissimi e utilizzabile a fini turistici. In Italia, ma non solo, si va diffondendo l’interesse per un’utilizzazione

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degli spazi dismessi. Spesso spazi ed edifici in disuso vengono utilizzati per spettacoli e kermesse. Esiste, insomma, un uso temporaneo delle aree e dei monumenti, con interventi a bassissimo costo che tuttavia ne garantiscono la sopravvivenza e l’uso. Accanto a questo si colloca la modernità e la duttilità degli edifici che possono produrre nuove suggestioni e riproporre diverse forme di modernità.

E’ questa l’ispirazione a cui siamo stati in questi anni fedeli. La tutela e la conservazione non sono per noi il tentativo di riproporre le vestigia del passato, ma una proiezione verso il futuro. Questo ha prodotto un volume di conoscenze impensabile solo qualche decennio fa, che in questa regione più esteso che in altre aree del paese e che è ha mobilitato numerosi studiosi ed una istituzione come l’IBC, producendo conoscenze utili alla programmazione urbana e territoriale. Si tratta, in altri termini, di evitare che le opportunità che offrono i percorsi della conoscenza vadano sprecate, di impedire corti circuiti tra chi produce cultura e chi propone leggi. E’ nostra intenzione continuare lungo questa direzione con il sostegno e in rapporto con le altre associazioni di tutela del patrimonio e dell’ambiente, prima tra tutte Italia nostra. Siamo, infatti, consapevoli che i temi che proponiamo e agitiamo (la tutela, la valorizzazione e il riuso) sono centrali per immaginare una società futura migliore di quella attuale e che per avere successo debbono coinvolgere un ampio spettro di forze – associazioni, cittadini organizzati, istituzioni. Devono, insomma, essere pensati come un bene comune e non come riserva di caccia di pochi profeti disarmati.

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