I PRINCIPALI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI DELLE GRANDI ...3 “Le principali società italiane”...
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I PRINCIPALI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI DELLE
GRANDI IMPRESE E DEI GRANDI GRUPPI ITALIANI
Davide Ravasi e Alessandro Zattoni
Introduzione
Nel quinto anno di vita dell’Osservatorio si è giudicato opportuno dedicare ancora
spazio allo studio dei grandi gruppi di imprese e del loro ruolo nell'economia milanese.
Tale scelta si ispira alle seguenti considerazioni:
- in Italia l'appartenenza ad un gruppo è la norma per tutti gli ordini di imprese
(grandi e piccole, pubbliche e private, in tutti i settori); sarebbe un errore
metodologico trattare tali imprese come entità economicamente indipendenti poiché
i gruppi hanno logiche di comportamento e manifestazioni particolari delle quali si
deve tenere conto;
- i grandi gruppi di imprese hanno certamente un notevole impatto sull’economia
milanese, sia per il loro peso diretto sull'occupazione e sul valore aggiunto, sia per le
opportunità ed i vincoli che essi pongono allo sviluppo di altre classi di imprese.
L’analisi empirica svolta nei primi tre anni ha portato ad alcune conclusioni di rilievo
che possono essere riassunte nei seguenti punti:
1. i grandi gruppi sono fortemente disarticolati (giuridicamente, fisicamente ed
organizzativamente) e sono dispersi geograficamente. Ne consegue che quando si
osservano le grandi realtà imprenditoriali, ha sempre meno senso parlare di gruppi
“milanesi”; possono essere imprese con le loro radici storiche in Milano, ma è
probabile che la loro operatività sia ormai diffusa su spazi molto ampi;
2. i grandi gruppi hanno in provincia di Milano un elevato numero di dipendenti, che
si concentrano particolarmente nelle aree amministrazione, vendita e, soprattutto,
ricerca e sviluppo, mentre è relativamente più bassa la presenza nelle attività di
produzione; un po’ paradossalmente, le imprese "più milanesi" sembrano essere le
filiali italiane delle multinazionali estere, poiché hanno la massima concentrazione
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delle funzioni amministrative in provincia di Milano;
3. in provincia di Milano sono maggiormente rappresentati i gruppi che operano nei
settori con più alto potenziale di sviluppo (editoria, telefonia, telecomunicazioni,
etc.) rispetto a quelli che operano nei settori più tradizionali (alimentari,
abbigliamento, arredamento, etc.);
4. il grado di "milanesità" o di "italianità" non fa differenza sostanziale nello spiegare
i livelli e le dinamiche di performance reddituale nel periodo considerato; in
ciascuno dei tipi di gruppo individuati si trovano performance positive e negative;
5. l'analisi per settore evidenzia notevoli differenze, soprattutto nella sensibilità della
redditività rispetto alla dinamica congiunturale; accanto a settori che nei periodi di
crisi accumulano perdite ingenti, si notano altri le cui performance sono state
praticamente stabili, e positive, per tutto il periodo;
6. è assolutamente chiaro che contano molto i "privilegi" conquistati dalle imprese con
l'innovazione o provenienti dalla regolamentazione pubblica; "privilegi" che, si
noti, non automaticamente si traducono in elevata redditività.
Il gruppo di ricerca lo scorso anno si è posto l'obiettivo conoscitivo di approfondire il
tema dell'assetto proprietario delle grandi imprese e dei grandi gruppi italiani, con
l'intento di fare un confronto anche con i gruppi e le imprese di altri Paesi. La scelta di
analizzare tale aspetto deriva dalla constatazione che l'assetto proprietario di una
impresa, o meglio l’assetto istituzionale di questa, è una delle principali variabili in
grado di condizionare le funzioni svolte dagli organi di governo, gli obiettivi principali
dell’impresa (espressi in termini di redditività, tasso di sviluppo, quota di mercato, etc.),
le strategie da questa perseguite e, indirettamente, i risultati ottenuti, in termini
reddituali, competitivi e sociali (Airoldi, 1998; Zattoni, Ravasi, 1998).
Negli ultimi anni il riconoscimento dell’impatto dell’assetto della proprietà e dei
meccanismi di governo sulla competitività e la performance delle imprese ha imposto
questi temi al centro del dibattito, non solo in ambito accademico. L’intensificarsi della
competizione a livello internazionale ha portato poi alcuni ricercatori a focalizzare la
loro attenzione sull’impatto che le forme di proprietà e di controllo tipiche di un
determinato Paese generano sulla competitività dei diversi sistemi economici (Porter,
1990; Chandler 1990; Airoldi, 1993; Albert, 1993; Charkham, 1994; etc.). Fino ad oggi
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gli studi sulla Corporate Governance si sono limitati a considerare un modello di assetto
istituzionale di impresa come tipico di ogni singolo Paese (nei Paesi anglosassoni la
public company, in Germania e Giappone il gruppo misto industriale e finanziario, etc.)
nell’ipotesi che questo modello sia emblematico del funzionamento della totalità delle
imprese all’interno dello stesso sistema economico. Tale lavoro è stato sicuramente
importante perché ha dimostrato che il sistema Paese (la normativa economica, la
cultura, le tradizioni, etc.) in cui operano le imprese condiziona fortemente il loro
assetto istituzionale, tuttavia non ha valutato e non ha fatto emergere la varietà di
situazioni e di tipi di imprese che operano all’interno dello stesso ambiente.
In Italia, una concomitanza di situazioni (l’accelerazione del processo di
privatizzazione, le gravi crisi finanziarie che hanno colpito alcuni gruppi privati di
grandi dimensioni, il recente intervento normativo che ha concesso agli intermediari
finanziari la possibilità di detenere partecipazioni azionarie in aziende industriali, etc.)
ha contribuito ulteriormente a spingere accademici di varie discipline - aziendalisti
(Airoldi, Amatori, Invernizzi, 1995; Molteni, 1996; etc.), giuristi (Marchetti, 1995;
Preite, Magnani, 1994; etc.) ed economisti (Prodi, 1991; Bianco, Casavola, 1996) -
uomini d’affari ed esponenti politici ad intensificare i progetti di studio sulle tematiche
del governo dell’impresa, al fine di generare proposte di cambiamento da valutare
successivamente in sede legislativa.
Presupposto indispensabile per la generazione di proposte di intervento a livello sia di
sistema Paese, sia di singola impresa, è comunque una chiara e quanto più possibile
ricca rappresentazione dell’articolazione degli assetti proprietari e delle forme di
controllo delle imprese operanti in Italia, e delle tendenze in atto.
Dopo avere descritto nello scorso rapporto le principali forme di assetto proprietario che
caratterizzano le imprese ed i grandi gruppi italiani, quest’anno il gruppo di ricerca ha
deciso di analizzare l’evoluzione di tali forme di controllo, con l’obiettivo di monitorare
i principali cambiamenti istituzionali che hanno coinvolto nel corso dell’ultimo
decennio le imprese censite nel database Assolombarda – Bocconi. In particolare
intendiamo dare una prima riposta alle seguenti domande:
- L’assetto proprietario dei grandi gruppi e delle grandi imprese italiane tende ad
essere stabile o è soggetto a frequenti cambiamenti?
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- Quali sono i principali tipi di cambiamenti istituzionali che hanno interessato le
grandi imprese italiane nel corso degli ultimi anni?
- Quali sono le principali tendenze in atto e quale cambiamento stanno imprimendo
all’assetto proprietario dei grandi gruppi del nostro Paese?
In questo lavoro si presentano le risposte emerse dall'indagine condotta nel corso del
1999.
1. Una nota metodologica
Ai fini della nostra indagine, sono state prese in considerazione le imprese o i gruppi di
imprese operanti in Italia, appartenenti a tutti i settori (escluso il credito, le assicurazioni
e i servizi finanziari), con più di 100 dipendenti e 155 milioni di euro di fatturato nel
19981. A tal fine sono state utilizzate le principali classifiche delle imprese italiane
secondo il fatturato ed il numero dei dipendenti che vengono annualmente pubblicate da
riviste economiche o enti di ricerca2. Queste classifiche sono, tuttavia, compilate
secondo criteri non sempre omogenei e coincidenti. La differenza maggiore riguarda il
trattamento dei gruppi di imprese, fenomeno ampiamente diffuso all’interno del nostro
Paese3. Anche per questa ragione capita che i dati quantitativi riportati nelle due liste
possano essere differenti. Inoltre, alcune imprese compaiono solo in uno dei due
elenchi, mentre altre sembrano sfuggire del tutto alla rilevazione di entrambi i
compilatori o compaiono con dimensioni ridotte rispetto a quelle reali. In altre parole,
nessuno dei due elenchi consente un immediato confronto fra quantità economiche
riferite a soggetti ‘omogenei’ e nessuno dei due elenchi può essere considerato
1 La scelta dei limiti minimi di inclusione è stata compiuta nel corso dell’analisi ed è naturalmentearbitraria. Il fatto che questa scelta abbia portato ad includere circa 500 imprese ci è sembrato a posterioriuna curiosa coincidenza ed un buon argomento a favore della scelta, considerato che negli Stati Uniti glistudi sugli assetti proprietari e le forme di controllo vengono spesso condotti sulle “Fortune’s 500”, leprime 500 imprese americane secondo la rivista Fortune!2 Le principali classifiche riguardanti le imprese operanti nel nostro Paese sono: “Le principali societàitaliane” (edito da Mediobanca), “Duns 20.000” (edito da Dun and Bradstreet International), “Leclassifiche delle prime società italiane” (edito da il Mondo).3 “Le principali società italiane” risolve il problema includendo nella stessa lista valori consolidati e non,introducendo così evidenti duplicazioni (dovute alla contemporanea inclusione di tutte le società deigrandi gruppi), mentre “Duns 20.000” si limita a considerare le singole società, trascurando osottostimando le dimensioni di quei gruppi di imprese che, pur presentandosi giuridicamente come uninsieme di soggetti distinti, sono di fatto organizzati e gestiti come un’unica impresa.
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esaustivo. Per potere mappare più soggetti possibili, evitando comunque duplicazioni,
abbiamo quindi deciso di incrociare i dati delle differenti fonti di informazione.
Si è posto quindi il problema di selezionare i dati a disposizione secondo un criterio che
consentisse un confronto significativo fra soggetti ‘omogenei’, cercando di neutralizzare
le potenziali distorsioni legate a scelte contabili o di assetto societario. Avendo
l’obiettivo di ottenere una rappresentazione del peso e della configurazione delle
principali aziende italiane, indipendentemente dal loro assetto societario e dalle loro
procedure contabili, abbiamo deciso di costruire una nuova lista dove l’inclusione dei
soggetti, imprese o gruppi di imprese, e la determinazione dei confini e dei valori
economici dimensionali ad essi relativi sono state condotte tenendo presente tanto
l’assetto proprietario, quanto l’attività svolta da ciascuna impresa nell’ambito
dell’eventuale gruppo di appartenenza 4.
Quando, come nella maggior parte dei casi, ci siamo trovati di fronte ad un gruppo di
imprese, abbiamo seguito un criterio generale secondo il quale hanno trovato evidenza
separata le imprese che non sono controllate con quote di maggioranza assoluta dalla
capogruppo e/o svolgono attività economiche diverse e separate. In particolare questo
ha voluto dire che:
1. i grandi gruppi conglomerati che controllano attività tra loro disomogenee sono stati
eliminati in favore delle singole società operative o delle capogruppo a capo di
specifici settori;
2. in presenza di valori consolidati e non consolidati non molto dissimili e riferiti ad
una impresa capogruppo esercitante un’attività di tipo industriale, abbiamo scelto il
dato consolidato;
3. in presenza di grandi imprese multidivisionali organizzate in forma di gruppo
abbiamo considerato solo i dati riferiti alle divisioni esercitanti attività omogenee;
4. in presenza di gruppi industriali nei quali alcune attività funzionali, come ad
esempio l’attività commerciale o la ricerca, vengono svolte da società
giuridicamente distinte abbiamo considerato solo il dato consolidato riferito al
gruppo, poiché non volevamo conteggiare due volte il valore prodotto da tali società
(che probabilmente svolgono la totalità della loro attività con imprese del gruppo);
4 Le informazioni sull’assetto proprietario e sulle strutture di gruppo sono riportate in pubblicazioni come:“R&S - Ricerche e Studi”, il “Calepino dell’azionista”, “Il manuale dell’azionista”, “Datagruppi”.
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5. in presenza di gruppi italiani nei quali esiste una separazione giuridica fra le attività
nazionali e quelle estere, tipicamente gruppi che hanno acquisito in passato una
grande impresa operante in un altro Paese, abbiamo considerato il dato consolidato
riferito all’intero gruppo;
6. in presenza di gruppi costituiti da singole unità giuridicamente distinte, svolgenti
tutte la medesima combinazione economica (è questo ad esempio il caso di alcune
imprese del settore della grande distribuzione) abbiamo preso in considerazione solo
il dato consolidato;
7. hanno poi trovato evidenza separata, in ogni caso, tutte quelle società che, pur
facendo parte di un gruppo economico omogeneo, non sono controllate con quote di
maggioranza assoluta, vuoi perché quotate in Borsa, vuoi perché quote rilevanti del
capitale sono in mano a soggetti esterni al gruppo.
Utilizzando tali criteri, abbiamo ottenuto una nuova lista che segue un criterio
economico aziendale, e non giuridico - contabile, nella identificazione dei soggetti da
includere e dei relativi dati quantitativi. Siamo convinti che questa lista offra un quadro
maggiormente rappresentativo della realtà aziendale italiana, soprattutto qualora si
desideri determinare il peso di differenti categorie di imprese, individuate sulla base di
un qualsivoglia criterio (forma di controllo, settore di appartenenza, etc.), sul totale
nazionale.
E’ stato quindi costruito un archivio elettronico che associa a ciascuna di queste imprese
una serie di informazioni di carattere economico e istituzionale ricavate in parte dalle
pubblicazioni menzionate, in parte da fonti giornalistiche, in parte dagli archivi delle
camere di commercio. Avvalendoci di fonti diverse, e talora interpellando direttamente
le aziende, abbiamo quindi ricostruito l’assetto proprietario di ciascuna impresa. Ai fini
della attribuzione della forma di controllo, per ciascuna impresa abbiamo determinato
chi erano le persone e/o i soggetti giuridici che avevano il potere di nominare la
maggioranza dei membri del Consiglio di amministrazione della società al vertice del
gruppo (c.d. controllo di voto).
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2. Le forme di controllo individuate
In modo simile a precedenti studi sul tema, abbiamo definito il controllo di un’impresa
come “l’esercizio di un’influenza determinante sui suoi indirizzi strategici e sulle scelte
necessarie per attuarli” (Barca et al., 1994a, pag. 13). Per esercitare tale influenza nei
confronti di altre imprese si possono utilizzare vari strumenti; il principale è costituito
dal possesso della maggioranza delle quote di capitale di rischio dell’impresa sulla quale
si desidera imporre il proprio volere.
Tuttavia esistono molte altre possibilità per influenzare la condotta e le decisioni di
un’impresa (ovvero per esercitare il controllo su di essa). Innanzitutto se il capitale di
rischio è notevolmente frazionato fra numerosi azionisti, non occorre detenere la
maggioranza assoluta del capitale, ma solo quella relativa; talvolta anche quote molto
ridotte (dell’ordine del 10%-20% o meno) sono sufficienti. Inoltre, il controllo su di
un’impresa può essere esercitato anche tramite forme diverse dal diritto di voto
nell’assemblea degli azionisti; basti pensare all’influenza potenziale che una grande
impresa può avere nei confronti di una piccola impresa subfornitrice (c.d. controllo
contrattuale) o alla capacità di condizionare le strategie di un’azienda da parte di chi vi
apporta risorse ritenute critiche.
I dati da noi raccolti si riferiscono principalmente alla prima forma di controllo, quella
connessa al possesso di partecipazioni azionarie, tuttavia tutte le volte che è stato
possibile abbiamo integrato tali informazioni con dati di tipo qualitativo, raccolti da
fonti giornalistiche e storiche e, in alcuni casi, direttamente da persone coinvolte nella
gestione, che ci hanno consentito di misurare il grado di influenza determinato da altri
strumenti. Il momento temporale in cui abbiamo scattato la nostra istantanea è da
collocarsi alla fine del 1998, poiché i dati quantitativi (fatturato, utile, addetti) in nostro
possesso si riferiscono a tale periodo.
Di seguito si descrivono le forme di controllo a cui abbiamo deciso di attribuire
autonoma rilevanza.
FAMIGLIARE
Le imprese famigliari rappresentano la forma di controllo più diffusa non solo tra le
piccole, ma anche tra le grandi imprese italiane. Abbiamo definito come controllo
famigliare tutti quei casi in cui il controllo sia saldamente nelle mani di una singola
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persona o in quelle di più membri di una famiglia, o di più rami della stessa famiglia.
Nella maggioranza dei casi tale controllo è assicurato dalla proprietà della maggioranza
assoluta del capitale da parte di un’unica persona. In altre circostanze, nonostante il
frazionamento della proprietà, la tradizione di famiglia o l’esistenza di particolari
vincoli o accordi sociali (ad esempio la presenza di patti di sindacato di blocco o di voto
o la costituzione di ‘casseforti di famiglia’) assicurano comunque l’unità del governo.
Abbiamo poi attribuito a questa categoria anche un certo numero di aziende per le quali,
pur in assenza di una maggioranza sia pure frammentata fra più membri della famiglia,
l’esistenza di accordi formali, di intese informali e di una rete di partecipazioni
incrociate assicura di fatto il controllo ad un socio o ad una famiglia, che storicamente
ha determinato le principali decisioni riguardanti tale azienda. E’ questo il caso di molte
aziende appartenenti al “salotto buono” del capitalismo italiano. Nelle imprese
famigliari si osserva spesso una parziale sovrapposizione fra proprietà e direzione,
laddove membri della famiglia controllante rivestono incarichi di primo piano non solo
nel consiglio di amministrazione, ma anche nelle posizioni dirigenziali. La occasionale
separazione fra proprietà e gestione sembra un fatto legato principalmente alla crescita
orizzontale dell’impresa, cioè alla sua espansione in nuovi business. In questi casi, la
maggiore articolazione societaria e la complessità della gestione strategica rendono
impossibile alla famiglia proprietaria una gestione diretta dell’impresa: essa diventa
quindi una impresa ‘famigliare manageriale’ dove la proprietà e il controllo sono
sempre nelle mani di una famiglia o un imprenditore individuale, ma la direzione è
affidata ad un dirigente esterno alla famiglia che rende conto del suo operato al
consiglio di amministrazione.
MULTINAZIONALE ESTERA
Molte grandi imprese italiane sono controllate, in ultima istanza, da capitale straniero.
Naturalmente in questa categoria sono raccolte imprese i cui controllori ultimi possono
avere natura completamente differente: singole famiglie, fondi pensione, Stati esteri o
centinaia di migliaia di piccoli azionisti5. La decisione di raccogliere comunque tutte
5 Le imprese il cui controllo fa capo a soggetti esteri (imprese industriali o società finanziarie), il cuicontrollore ultimo è rappresentato da un soggetto italiano, sono state escluse da questo raggruppamento esono state classificate secondo la natura (Famigliare, Coalizione famigliare, etc.) del loro controlloreitaliano.
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queste imprese in un’unica categoria è legata alla nostra focalizzazione sul sistema
economico italiano. All’interno di questo sistema, le filiali di multinazionali estere sono
accomunate dal fatto di fare parte di più ampie organizzazioni, che solitamente
impartiscono direttive e distribuiscono risorse secondo una logica unitaria a livello
europeo, se non addirittura globale. Nella grande maggioranza dei casi le case madri
controllano la totalità del capitale delle filiali locali e i consigli di amministrazione delle
imprese controllate sono spesso organi puramente formali che vengono costituiti solo
per adempiere alla normativa; prova ne è che le linee di responsabilità manageriale
risultano non coincidere affatto con i confini legali delle varie società e che le decisioni
strategiche sono quasi sempre accentrate presso la capogruppo o la capo settore
(Leksell, Lindgren, 1982).
STATO O ENTI LOCALI
Appartengono a questa categoria tutte le imprese controllate direttamente o
indirettamente dallo Stato o da enti locali (comuni, regioni, etc.). Non rientrano in
questa categoria tutte le imprese che, pur essendo partecipate da soggetti pubblici, sono
di fatto controllate da soggetti privati. In alcuni le casi, le imprese che rientrano in
questo gruppo sono quotate e di conseguenza parte del capitale è nelle mani di piccoli
risparmiatori o di istituti di credito; la maggioranza del capitale rimane comunque
saldamente nelle mani di soggetti pubblici e le stesse logiche di gestione risentono
pesantemente di tale situazione. Alla fine del 1998, il processo di privatizzazione era già
stato avviato, tuttavia l’intervento diretto dello Stato e degli enti locali nella produzione
diretta di beni (merci o servizi) era ancora molto esteso, sia attraverso il sistema delle
partecipazioni statali, sia attraverso le numerose aziende di emanazione dei comuni. Il
peso dello Stato sull’economia italiana sembra comunque destinato a ridursi
ulteriormente con le future dismissioni. Quest’anno si è deciso, a differenza dello scorso
anno, di evidenziare separatamente le imprese controllate da enti locali da quelle
controllate direttamente dallo Stato poiché ci sembrano tipi di assetto proprietario che
hanno caratteristiche e dinamiche istituzionali differenti.
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CONSORZIO O COOPERATIVA
L’estensione del campo di indagine al di fuori dei confini della Borsa e l’allargamento a
settori non strettamente industriali ha messo in evidenza la grande diffusione della
forma consortile e cooperativa. Abbiamo quindi ritenuto opportuno dare evidenza
separata a questa forma proprietaria, considerata la peculiarità che contraddistingue non
solo la forma giuridica, ma anche le caratteristiche dell’assetto proprietario: il capitale
risulta infatti ripartito fra decine, centinaia o migliaia di piccoli azionisti, i quali hanno
solitamente relazioni di altro tipo con l’impresa (ad esempio sono clienti, fornitori o
prestatori di lavoro). Quest’anno si è deciso di evidenziare separatamente la forma del
consorzio da quella cooperativa perché tali forme proprietarie sono caratterizzate da
modelli istituzionali alquanto differenti.
COALIZIONE FAMIGLIARE
Con il termine coalizione famigliare intendiamo riferirci a quelle imprese il cui capitale
è ripartito tra persone fisiche o tra membri di più famiglie non collegate da relazioni di
parentela tra di loro (imprenditori ‘soci in affari’), nessuno dei quali controlla la
maggioranza del capitale. Abbiamo incluso in questa categoria anche alcune aziende per
le quali nonostante l’esercizio di fatto del controllo o la nomina delle cariche sociali
possano lasciar intuire una posizione dominante di uno dei soci (vuoi per il peso
relativo, vuoi per tradizione), la oggettiva ripartizione delle quote sociali rende
comunque possibile un ribaltamento dei rapporti di forza. Solitamente tutte le famiglie o
le persone che partecipano alla proprietà trovano una rappresentazione nel consiglio; in
alcuni casi, membri delle famiglie proprietarie rivestono anche un ruolo dirigenziale
all’interno dell’impresa, in altri la gestione è affidata a manager considerati ‘neutrali’.
COALIZIONE DI ISTITUTI DI CREDITO O DI INVESTITORI ISTITUZIONALI
In un certo numero di casi la proprietà del capitale è, in maggioranza o nella sua totalità,
ripartita fra più istituti di credito o è posseduta da alcuni investitori istituzionali. Tale
forma di controllo si è diffusa di recente, in seguito alla emanazione della nuova Legge
bancaria (Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia del 27 agosto 1993)
secondo la quale le banche di deposito possono partecipare, entro certi limiti, al capitale
di imprese manifatturiere. Questa opportunità ha consentito di risolvere la situazione di
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grave squilibrio finanziario in cui versavano alcune grandi imprese, permettendo la
trasformazione del capitale di debito in mano agli istituti di credito in capitale di rischio.
Si tratta probabilmente di una situazione transitoria destinata a concludersi con la
cessione dell’azienda, nella sua totalità o separatamente dopo aver scorporato le diverse
attività, o la liquidazione della stessa. Non sembrano, al momento, presentarsi in Italia
situazioni analoghe a quelle dei ‘capitalismi renani’ di Germania e Giappone, dove le
banche partecipano attivamente e in larga misura al controllo di imprese commerciali e
industriali.
JOINT VENTURE
Appartengono a questa categoria quelle aziende il cui capitale è ripartito equamente fra
due imprese o gruppi industriali. Solitamente tali operazioni sono legate alla nascita di
una nuova entità giuridica in cui i due partner fanno confluire tutte le risorse (impianti,
macchinari, brevetti, competenze ed abilità dei membri dell’organismo personale, etc.)
relative ad un determinato business con l’obiettivo di accrescere il potenziale
sfruttamento delle economie di scala e di scopo o il potere contrattuale nei confronti di
clienti e fornitori. Considerate le relazioni complesse (fornitura di materie prime e di
know-how, acquisto di prodotti finiti, etc.) che spesso legano i soggetti proprietari alla
azienda in oggetto abbiamo ritenuto opportuno dare evidenza separata a questa
categoria.
COALIZIONE MISTA
Appartengono a questa categoria quelle imprese il cui controllo è esercitato da una
coalizione di soggetti eterogenei tra di loro (manager, imprenditori, investitori
istituzionali, istituti creditizi, imprese industriali, etc.), nessuno dei quali controlla da
solo la maggioranza del capitale. Il caso più tipico, che rappresenta quanto di più simile
al modello della public company statunitense ci sia in Italia, è costituito dalla
ripartizione dell’intero capitale, o di una sua quota rilevante, nelle mani di investitori
istituzionali e di manager dell’azienda.
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PUBLIC COMPANY
Negli ultimi anni si sono diffuse anche in Italia, in seguito all’uscita da alcuni business
storici da parte di grandi gruppi controllati da famiglie o al processo di privatizzazione
intrapreso dallo Stato nei primi anni ‘90, delle forme di assetto proprietario assimilabili
al modello della Public company tipico dei Paesi anglosassoni. Tale modello prevede la
contemporanea presenza delle seguenti caratteristiche: a) una proprietà del capitale
frazionata fra un elevato numero di azionisti; b) l’assenza di un azionista che detiene
una quota significativa del capitale, tale da attribuirgli il controllo dell’impresa; c) la
possibilità che uno scalatore acquisti sul mercato una quota del capitale tale da
consentirgli di influenzare in modo determinante la volontà sociale.
3. L'analisi dell'assetto proprietario dei grandi gruppi italiani
Le grandi imprese e i grandi gruppi italiani che soddisfano i requisiti stabiliti in questo
lavoro, cioè che hanno un fatturato superiore a 155 milioni di euro ed almeno 100
dipendenti nel 1998, sono in totale 540. Le dimensioni di tali imprese, calcolate sul
fatturato o sul numero dei dipendenti, confermano che i grandi gruppi italiani si
caratterizzano per avere limitate dimensioni; infatti solo 33 gruppi hanno un fatturato
superiore a 2.000 milioni di euro e solo 11 hanno più di 20.000 dipendenti Di seguito si
forniscono alcuni dati che aiutano a capire la dimensione e la struttura del campione
analizzato.
Tabella 1: Classe dimensionale delle imprese italiane per numero di dipendenti al1998
Numero di imprese100 – 499 84
500 - 1.000 1311.001 - 2.000 1402.001 - 5.000 1115001 - 20.000 63oltre 20.000 11
Totale 540
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Tabella 2: Classe dimensionale delle imprese italiane per fatturato 1998 (valori inmilioni di euro)
Numero di imprese155 – 250 184251 – 500 176
501 – 1.000 861.001 – 2.000 61
oltre 2.000 33Totale 540
3.1 L'assetto proprietario delle grandi imprese italiane
Nei rapporti precedenti abbiamo suddiviso l'assetto proprietario delle grandi imprese e
dei grandi gruppi italiani sulla base di una semplice classificazione: gruppi italiani,
filiali di multinazionali, gruppi controllati pariteticamente da un azionista italiano ed
uno estero. Questa classificazione ci ha consentito di mettere in evidenza alcune
caratteristiche del sistema economico italiano, come ad esempio l'elevato peso delle
multinazionali estere, tuttavia non ci ha permesso di comprendere la varietà di forme di
assetto proprietario all'interno dell'universo delle imprese italiane di grandi dimensioni.
Per colmare questa lacuna lo scorso anno si è deciso di compiere un'analisi più
approfondita avente l’obiettivo di identificare i principali tipi di assetto proprietario che
caratterizzano le più grandi imprese italiane. Anche in questa edizione dell’Osservatorio
si è deciso di seguire questa opzione di metodo.
Il risultato di tale lavoro è presentato nella seguente tabella, la quale riassume le
principali informazioni raccolte in termini di numero di gruppi, fatturato totale e medio,
numero totale e medio di dipendenti per ciascuna forma di controllo individuata. Il
fatturato complessivamente prodotto dai 540 soggetti ammonta a 419.756 milioni di
euro, mentre gli addetti sono complessivamente pari a 1.981.969 unità.
Se si disaggregano i dati per tipo di assetto proprietario, si nota che:
- la forma proprietaria maggiormente diffusa è quella "famigliare", possono infatti
essere ricondotte a tale modello 211 "imprese economiche" per un fatturato
complessivo pari a 147.226 milioni di euro (circa il 35% del totale);
- sono molto diffuse le multinazionali estere, la cui presenza è peraltro assai variegata
(alcune hanno solo filiali commerciali, altre hanno stabilimenti che producono per il
mercato italiano o per quello globale, etc.) e frutto della modalità di penetrazione e
di sviluppo nel nostro Paese (acquisizione di imprese locali, creazione di una filiale
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controllata al 100%, etc.); possono ricondursi a tale modello di controllo 176
soggetti per un fatturato complessivo superiore a 108.937 milioni di euro (circa il
26% del totale);
- lo Stato svolge ancora un ruolo rilevante nel nostro sistema economico, nonostante
il processo di privatizzazione avviato nella prima metà degli anni '90; possono
ricondursi a tale modello 26 imprese per un fatturato complessivo superiore a
79.624 milioni di euro (circa il 19% del totale);
- anche nel nostro Paese si sta sviluppando, in seguito al disinvestimento di alcuni
business da parte di alcuni gruppi a controllo famigliare e al processo di
privatizzazione dello Stato, l'assetto proprietario tipico delle grandi imprese dei
Paesi anglosassoni, cioè la Public company; possono ricondursi a tale modello 13
soggetti con un fatturato complessivo pari a 28.015 milioni di euro (circa il 6% del
totale);
- altri tre tipi di assetto proprietario superano i 10.000 milioni di euro: le joint venture,
rappresentate da 13 imprese che realizzano un fatturato complessivo pari a 15.201
milioni di euro, le coalizioni famigliari, 30 imprese economiche con un fatturato
complessivo superiore a 14.243 milioni di euro, e le cooperative, 28 imprese che
producono un fatturato complessivo pari a 10.528 milioni di euro;
- seguono, con dimensioni sensibilmente inferiori, le imprese ed i gruppi controllati
da coalizioni di istituti di credito e investitori istituzionali, le coalizioni miste, gli
enti locali e i consorzi.
I dati presentati nella tabella tre evidenziano anche che, in termini di dimensioni medie
calcolate sul fatturato e sul numero di dipendenti, le imprese controllate dallo Stato, le
Public company e le Joint venture sono significativamente più grandi rispetto alle altre
forme proprietarie. Questo dato conferma che tali forme proprietarie risultano essere
particolarmente importanti quando “la grande dimensione conta”, ovvero nei settori
scale intensive o research based che richiedono prolungati e crescenti investimenti da
parte delle imprese.
Tabella 3: Suddivisione delle principali imprese italiane per forma di controllo(valori in migliaia di euro)
Forma di controllo Numeroimprese
“economiche”
Fatturatototale
Fatturatomedio
Dipendentitotali
Numeromedio di
dipendenti Famigliare 211 147.226.687 697.757 716.956 3.398
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Milano 95
Multinazionale estera 176 108.937.594 618.964 313.973 1.784 Stato 26 79.624.155 3.062.468 553.323 21.282 Public company 13 28.015.409 2.155.031 122.594 9.430 Joint venture 13 15.201.336 1.169.334 71.180 5.475 Coalizione famigliare 30 14.243.982 474.799 58.293 1.943 Cooperativa 28 10.528.859 376.031 51.912 1.854 Ist. di credito o inv. istituzionali 8 4.675.041 584.380 13.039 1.630 Coalizione mista 11 4.646.665 422.424 48.519 4.411 Enti locali 6 2.146.893 357.816 16.442 2.740 Consorzio 4 1.051.312 262.828 1.292 323 Non classificabili6 11 2.524.248 229.477 9.074 825 Diversi7 3 933.912 311.304 5.372 1.791 Totale 540 419.756.093 777.326 1.981.969 3.670
3.2 L’assetto proprietario delle grandi imprese con presenza significativa a Milano
Nei rapporti degli scorsi anni sono state svolte delle indagini empiriche volte a
comprendere quali fossero le grandi imprese ed i grandi gruppi “milanesi”, ovvero i
gruppi nati e sviluppatisi all’interno della provincia di Milano. Le analisi condotte ci
hanno permesso di concludere che non ha molto significato utilizzare tale criterio per
definire i grandi gruppi “milanesi” o “torinesi” perché, pur avendo le radici storiche in
una determinata città, tali gruppi governano attività che sono attualmente disperse in un
numero elevato di stabilimenti, filiali commerciali, centri amministrativi e finanziari
localizzati sia all’interno del territorio nazionale, sia all’estero. Per tale motivo si è
preferito etichettare come “milanesi” quei gruppi di imprese che hanno una rilevante
presenza all’interno della provincia di Milano, intendendo con tale espressione tutti i
gruppi che hanno almeno 500 dipendenti o più di un terzo del totale all’interno del
territorio milanese.
Per verificare la presenza di tali condizioni si è fatto ricorso ad un elevato numero di
pubblicazioni specifiche le cui informazioni sono state integrate utilizzando i dati
raccolti mediante un questionario sulla localizzazione e sulla funzione dei dipendenti. I
risultati di tali analisi hanno confermato una presenza importante (in termini
quantitativi) e qualificata (in termini di tipo di attività svolte) delle imprese e dei gruppi
di grandi dimensioni all’interno della provincia di Milano.
6 Appartengono a questa categoria tutte quelle aziende per le quali non è stato possibile identificare ilcontrollore ultimo, sia per la mancanza di dati pubblicamente disponibili, sia per il rifiuto dell’azienda afornire informazioni in merito. 7 In questa categoria residuale sono raccolte quelle forme proprietarie (come la fondazione o lapartnership) che, pur essendo state identificate, costituiscono “casi isolati” nel panorama italiano.
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Milano 96
Quest’anno, seguendo l’impostazione utilizzata nelle precedente edizione
dell’Osservatorio, si è deciso di misurare il peso che le varie forme di assetto
proprietario individuate ricoprono all’interno della popolazione costituita dalle imprese
che vantano una presenza significativa all’interno della provincia di Milano. I dati
presentati nella seguente tabella illustrano che:
- i grandi gruppi operanti nel nostro sistema economico tendono a mantenere una
presenza significativa all’interno della provincia di Milano, infatti un grande gruppo
su quattro soddisfa i requisiti individuati per appartenere alla categoria di gruppo
“milanese”;
- i grandi gruppi con rilevante presenza all’interno della provincia di Milano sono
dimensionalmente più grandi rispetto agli altri, essi hanno infatti una dimensione
quasi doppia calcolata sia sul fatturato (1.466 milioni di euro contro 777 milioni di
euro) sia sul numero di dipendenti (8.167 contro 3.670). Questo dato conferma che
Milano rappresenta una piazza commerciale e finanziaria di grande rilevanza per
tutti i grandi gruppi che operano all’interno del nostro Paese;
- sono fortemente concentrate in provincia di Milano le Public company, le Joint
venture ed i grandi gruppi controllati dallo Stato, che come abbiamo già detto in
precedenza hanno dimensioni medie maggiori rispetto agli altri tipi di forme
proprietarie, sono invece praticamente assenti i Consorzi e le Cooperative, che sono
forme istituzionali particolarmente diffuse all’interno di alcune regioni italiane
(come ad esempio Toscana, ed Emilia Romagna).
Tabella 4: Peso dei principali assetti proprietari fra le imprese ed i gruppi"milanesi" (valori in migliaia di euro) Forma di controllo Numero
imprese"milanesi"
Impresemilanesi /
Totale
Fatturato"milanesi"
Fatturatomilanesi /Fatturato
totale
Dipendenti"milanesi"
Dipendentimilanesi /Dipendenti
totali Stato 11 42,3% 56.430.318 70,9% 463.883 83,8% Famigliare 33 15,6% 49.793.070 33,8% 227.795 31,8% Multinazionale estera 58 33,0% 44.049.275 40,4% 161.100 51,3% Public company 6 46,2% 25.999.140 92,8% 114.996 93,8% Joint venture 6 46,2% 11.101.863 73,0% 61.091 85,8% Ist. di credito o inv. istituzionali 4 50,0% 2.598.662 55,6% 5.255 40,3% Coalizione famigliare 4 13,3% 2.574.192 18,1% 10.065 17,3% Coalizione mista 2 18,2% 2.015.919 43,4% 38.320 79,0% Enti locali 3 50,0% 1.180.506 55,0% 10.697 65,1% Cooperativa 2 7,1% 705.690 6,7% 3.055 5,9% Consorzio 0 0,0% 0 0,0% 0 0,0%
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Milano 97
Non classificabili 4 36,4% 901.177 35,7% 2.804 30,9% Diversi 2 66,7% 644.944 69,1% 3.517 65,5% Totale 135 25,0% 197.994.756 47,2% 1.102.578 55,6%
3.3 L’assetto proprietario dei grandi gruppi italiani
Precedenti studi (Barca et al., 1994a e 1994b) hanno ampiamente dimostrato che le
imprese italiane, specialmente quelle di grandi dimensioni, tendono ad adottare la
struttura a gruppo di imprese, ovvero controllano determinate attività economiche
attraverso più società sottoposte alla influenza determinante di una capogruppo. Il
termine “gruppo di imprese” comprende insiemi di aziende di produzione, collegate da
partecipazioni azionarie, con caratteristiche alquanto diverse tra loro in termini di:
numero di livelli tra la capogruppo e le società operative, tipo di attività svolta dalle
varie società, composizione dell’azionariato delle varie imprese, localizzazione delle
società, grado di controllo esercitato dalla capogruppo, etc.. Non è quindi facile adottare
una classificazione monodimensionale che colga tutti gli aspetti rilevanti ai fini della
analisi.
I gruppi di imprese sono strutture societarie complesse, a volte composte da centinaia o
addirittura migliaia di società, che consentono ad imprenditori e a manager di cogliere
dei benefici economici che non possono essere perseguiti tramite la creazione di altri
tipi di aggregati (impresa indivisa o rete di imprese). Tali benefici economici sono
numerosi e di differente origine; ad esempio i gruppi di imprese possono essere
strutturati per: consentire il controllo di una determinata attività economica con il
minore investimento di capitale possibile (grazie all’effetto di leva azionaria),
incentivare prestatori di lavoro che hanno sviluppato una business idea coinvolgendoli
nel capitale della società preposta allo sviluppo di tale idea imprenditoriale, limitare il
rischio che grava su certe iniziative ad alta possibilità di fallimento, cogliere i vantaggi
previsti da certe norme che forniscono incentivi alle imprese con determinate
caratteristiche (con pochi dipendenti o localizzate in certe zone geografiche), evitare le
stringenti regolamentazioni che alcune norme impongono alle imprese al di sopra di
certe dimensioni, etc. (Mosconi, Rullani, 1978; Zattoni, 1997).
Dato che l’obiettivo del presente lavoro è quello di valutare il peso di differenti forme di
controllo sul totale delle attività realizzate dalle grandi imprese in Italia, abbiamo
misurato le dimensioni medie dei gruppi che controllano le 540 imprese economiche
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Milano 98
evidenziate in precedenza. Per realizzare tale scopo abbiamo ricondotto ad un’unica
impresa capogruppo tutte le attività (ed i connessi fatturati e dipendenti) realizzate dalle
imprese da questa controllate. Tale operazione tende a lasciare inalterati i valori
calcolati in precedenza per le forme di controllo di coalizione (Coalizione mista,
Consorzio, Cooperative, Joint venture), poiché in tali casi non è possibile risalire la
catena di controllo a causa dell’assenza di un controllore unico. Fanno eccezione a
questa regola: a) un grande gruppo di imprese, controllato da una coalizione di istituti di
credito, che a sua volta controlla poco meno di una decina di imprese economiche; b) un
grande gruppo controllato da una coalizione famigliare che vanta alcune partecipazioni
in aziende di rilevanti dimensioni. Pur essendo una forma di controllo di coalizione, il
numero di imprese appartenenti alla categoria Public company si riduce notevolmente
(da 13 a 7) a causa della presenza di due grandi gruppi che controllano numerose
"imprese economiche" di rilevanti dimensioni. I dati relativi al fatturato ed al numero di
dipendenti riconducibili alle forme di controllo “assolute” (Famigliare, Multinazionale
estera, Stato o enti locali) vengono modificati in misura maggiore, talvolta anche in
modo rilevante8.
Come si vede nella seguente tabella, sulla base di questo nuovo criterio di aggregazione
i soggetti rilevanti diventano 482, con una diminuzione rispetto al totale di poco
inferiore all'11%. Se si considera che i 540 soggetti individuati in precedenza già
potevano rappresentare dei gruppi di imprese, nel caso in cui le differenti società
controllate dalla capogruppo fossero omogenee per settore di attività e per forma di
controllo, i dati in nostro possesso non solo confermano l’elevata presenza della
struttura a gruppo fra le grandi imprese italiane, ma mettono anche in luce l’elevato
grado di diversificazione delle attività controllate dai gruppi di maggiori dimensioni.
Ragionando per forma di controllo, si nota come rispetto alla precedente tabella il
maggiore salto dimensionale sia realizzato dai gruppi controllati da coalizioni di istituti
di credito, i quali assumono dimensioni dieci volte più grandi rispetto alla rilevazione
precedente, seguiti dai gruppi controllati dallo Stato (circa quattro volte più grandi) e
8 Il ridotto divario esistente tra il numero delle imprese economiche e dei gruppi controllati damultinazionali estere è dovuto anche alla circostanza che molte di tali imprese controllano le numerosesocietà incorporate in Italia direttamente dalla casa madre o mediante subholding localizzate in altri Paesi.Non potendo in tale caso misurare il fatturato consolidato relativo alle attività italiane, abbiamo preferitoconsiderare tutte le imprese economiche come entità distinte.
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Milano 99
dalle Public company (due volte più grandi) e, con incrementi molto meno rilevanti,
dalle altre forme di controllo.
Tabella 5: Suddivisione dei principali gruppi italiani per forma di controllo (valoriin migliaia di euro)
Forma di controllo Numerogruppi
Numeroimprese
“economiche”controllate
Fatturatomedio dei
gruppi
Numero mediodi dipendenti
dei gruppi
Stato 6 26 12.474.110 96.383 Ist. di credito o inv. istituzionali 2 8 6.744.529 17.340 Public company 7 13 4.497.906 22.020 Joint venture 13 13 1.169.334 5.475 Famigliare 191 211 857.438 4.403 Multinazionale estera 173 176 629.737 1.816 Coalizione famigliare 27 30 473.864 1.967 Coalizione mista 11 11 422.424 4.411 Cooperativa 28 28 376.031 1.854 Enti locali 6 6 357.816 2.740 Consorzio 4 4 262.828 323 Non classificabili 11 11 229.477 825 Diversi 3 3 311.304 1.791 Totale 482 540 917.763 4.521
3.4 L’assetto proprietario e la performance dei grandi gruppi
Dopo avere presentato le dimensioni dei grandi gruppi operanti nel nostro sistema
economico, si desidera: a) valutare il peso dei differenti assetti proprietari individuati
all'interno della popolazione di riferimento; b) dare un primo giudizio sulla performance
dei principali gruppi misurata in termini di utile netto complessivamente prodotto o di
utile netto sul fatturato.
Nella tabella 6 si presentano i dati relativi alla suddivisione del fatturato e dei dipendenti
in termini assoluti e percentuali sul totale della popolazione. L'analisi di tali dati ci
consente di esprimere alcune osservazioni di rilievo:
- i grandi gruppi controllati da singole famiglie realizzano più di un terzo del fatturato
complessivo della popolazione (37%), tale peso rimane pressoché costante (38,6%)
se si considera il numero di dipendenti che fanno capo a tali gruppi; si conferma
quindi la loro importanza in termini di principale tipo di assetto proprietario
all'interno del sistema economico del nostro Paese;
- le multinazionali estere sono la seconda forma di assetto proprietario in termini di
fatturato controllato (24,6%) e la terza in termini di numero di dipendenti (14,4%),
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 100
tale differente peso si giustifica se si considera che molte di esse vedono il nostro
Paese come un mercato di sbocco dei loro prodotti e, di conseguenza, hanno creato
in Italia solo strutture commerciali e amministrative;
- lo Stato mantiene un ruolo rilevante in termini di fatturato (circa il 17%) e,
soprattutto, di dipendenti (più del 26%), tali dati testimoniano come i grandi gruppi
pubblici, nonostante il processo di privatizzazione di questi ultimi anni, continuino a
svolgere un ruolo importante all'interno del sistema economico italiano;
- seguono le Public company, che si sono diffuse negli ultimi anni all’interno del
nostro sistema economico e che pesano per circa il 7% del totale per quanto
concerne il fatturato ed i dipendenti;
- tutte le altre forme proprietarie non assumono dimensioni particolarmente
significative, nessuna di esse infatti supera il 3,5% del totale relativamente al
fatturato o ai dipendenti.
In sintesi da tali dati emerge che le forme di controllo "assolute", cioè quelle in cui un
singolo azionista controlla la maggioranza assoluta o relativa del capitale sociale
(Famiglia, Multinazionale estera o Stato), sono preminenti nel nostro Paese e
controllano poco meno dell'80% del fatturato e dei dipendenti complessivi dei grandi
gruppi. Le forme di coalizione, pur avendo un peso assai ridotto, sembrano essere in
forte crescita sia in termini assoluti, sia in termini percentuali; se si considera che nei
prossimi anni alcune famiglie potrebbero mettere sul mercato alcune imprese
economiche che controllano attualmente e che lo Stato dovrebbe continuare il processo
di privatizzazione che ha intrapreso all’inizio degli anni ‘90, si può ipotizzare un
ulteriore sviluppo quantitativo di tali assetti di coalizione.
Tabella 6: Suddivisione dei grandi gruppi italiani per forma di controllo (valori inmigliaia di euro)
Forma di controllo Numerogruppi
Fatturatototale
% sultotale
Dipendentitotali
% sultotale
Famigliare 191 163.770.672 37,0% 840.967 38,6% Multinazionale estera 173 108.944.520 24,6% 314.134 14,4% Stato 6 74.844.659 16,9% 578.300 26,5% Public company 7 31.485.343 7,1% 154.143 7,1% Joint venture 13 15.201.336 3,4% 71.180 3,3% Ist. di credito o inv. istituzionali 2 13.489.057 3,0% 34.680 1,6% Coalizione famigliare 27 12.794.325 2,9% 53.115 2,4% Cooperativa 28 10.528.859 2,4% 51.912 2,4% Coalizione mista 11 4.646.665 1,1% 48.519 2,2%
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Milano 101
Enti locali 6 2.146.893 0,5% 16.442 0,8% Consorzio 4 1.051.312 0,2% 1.292 0,1% Non classificabili 11 2.524.248 0,6% 9.074 0,4% Diversi 3 933.912 0,2% 5.372 0,2% Totale 482 442.361.801 100,0% 2.179.130 100,0%
Nella tabella 7, si presentano i dati relativi alla distribuzione dell'utile netto, in valori
assoluti e in percentuali sul totale del campione, e dell’utile netto sul fatturato9. L'analisi
dei dati presentati ci induce alle seguenti riflessioni:
- le imprese famigliari producono circa un terzo dell'utile netto complessivo della
popolazione, esse quindi non solo ricoprono un ruolo rilevante in termini di peso
dimensionale (calcolato sui dipendenti e sul fatturato) ma anche in termini di
ricchezza prodotta;
- i grandi gruppi controllati dallo Stato producono complessivamente poco meno di
un quarto degli utili complessivi e sono il secondo tipo di assetto proprietario per
contributo alla ricchezza totale generata dai grandi gruppi;
- le Public company sono il terzo tipo di assetto proprietario per quantità di utili
prodotti (superiori al 21% degli utili complessivi), inoltre se si valuta che tali
imprese hanno un basso peso in termini di dipendenti e fatturato sul totale questo
risultato è ancora più significativo;
- le multinazionali estere sono il quarto tipo di assetto proprietario in termini di utili
prodotti sul totale (per un valore superiore al 15%);
- appare poco significativo, se rapportato al totale del campione, il contributo alla
ricchezza complessiva apportato dagli altri tipi di assetto proprietario individuati (il
cui peso è complessivamente inferiore all’8%).
Se si considera, invece dei valori percentuali sul totale del campione, l'utile netto in
percentuale sul fatturato, si nota che:
- i gruppi controllati da enti locali (con un valore pari all’11,7%) e le Public company
(con un valore pari a 11,4%) rappresentano i due tipi di assetto proprietario con le
migliori performance reddituali;
9 In questa sede si è preferito fornire un dato puntuale della redditività dei grandi gruppi, piuttosto cheseguirne l'evoluzione nel corso del tempo, poiché i numerosi cambiamenti proprietari di questi ultimi anniavrebbero inficiato analisi di tipo evolutivo. Il rapporto tra l’utile netto ed il fatturato è calcolatoconsiderando solo i gruppi di imprese per i quali si dispone di entrambi i valori.
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Milano 102
- hanno performance reddituali superiori alla media le imprese controllate dallo Stato
(5,1%), le coalizioni miste (4,2%) e i gruppi controllati da coalizioni di istituti di
credito (4,1%);
- risultano avere risultati poco brillanti le multinazionali estere (2,4%), le coalizioni
famigliari (1,7%) e le cooperative (0,6%);
- presentano risultati mediamente negativi i consorzi e le joint venture.
In sintesi, tali dati confermano: il forte peso ricoperto dai grandi gruppi controllati da
famiglie nella generazione della ricchezza complessivamente prodotta dal sistema
economico italiano; l'emergere di grandi Public company e di grandi gruppi controllati
da istituti finanziari con grande potenziale di crescita e di redditività; uno Stato
imprenditore che complessivamente genera una larga parte della ricchezza complessiva;
i consorzi e le joint venture che producono risultati piuttosto deludenti.
Tabella 7: Performance reddituale dei grandi gruppi italiani (valori in migliaia dieuro)
Forma di controllo Numerogruppi
Utile nettototale
% sultotale
Fatturatototale
% sultotale
Utile netto/Fatturato
Famigliare 191 5.368.352 32,1% 163.770.672 37,0% 3,3% Stato 6 3.854.180 23,1% 74.844.659 16,9% 5,1% Public company 7 3.598.328 21,5% 31.485.343 7,1% 11,4% Multinazionale estera 173 2.571.899 15,4% 108.944.520 24,6% 2,4% Ist. di credito o inv. istituzionali 2 550.081 3,3% 13.489.057 3,0% 4,1% Enti locali 6 251.117 1,5% 2.146.893 0,5% 11,7% Coalizione famigliare 27 218.614 1,3% 12.794.325 2,9% 1,7% Coalizione mista 11 197.088 1,2% 4.646.665 1,1% 4,2% Cooperativa 28 67.785 0,4% 10.528.859 2,4% 0,6% Consorzio 4 -1.691 0,0% 1.051.312 0,2% -0,2% Joint venture 13 -59.469 -0,4% 15.201.336 3,4% -0,4% Non classificabili 11 57.227 0,3% 2.524.248 0,6% 2,3% Diversi 3 41.755 0,2% 933.912 0,2% 4,5% Totale 482 16.715.266 100,0% 442.361.801 100,0% 3,8%
4. I cambiamenti istituzionali nelle grandi imprese italiane
Se confrontiamo la classifica delle principali imprese italiane all’inizio del 1999 con la
stessa graduatoria stilata dieci anni prima, il primo elemento che colpisce la nostra
attenzione è il gran numero di imprese che, nell’arco relativamente breve di dieci anni,
sono scomparse. Qualcuna è fallita o è stata liquidata. Altri gruppi (Cameli, Belleli,
Partecipazioni, ad es.) sono stati smembrati e i loro pezzi si trovano ora dispersi in
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 103
alcuni gruppi o hanno dato vita ad attività industriali autonome. Diverse imprese sono
andate incontro a fusioni o incorporazioni nell’ambito di più ampie riconfigurazioni
dell’assetto societario di grandi gruppi a partecipazione statale (Eni e Iri) o a controllo
famigliare (Fiat, Ferruzzi-Compart). Molte altre hanno semplicemente cambiato nome,
ma spesso questo cambiamento si è accompagnato a cambiamenti sostanziali
nell’attività dell’impresa e nella natura del suo assetto proprietario e di controllo.
L’approfondimento di quest’anno è, come si è già detto, dedicato ai cambiamenti
occorsi nell’arco degli ultimi dieci anni nell’assetto istituzionale delle grandi imprese e
dei grandi gruppi italiani censiti dal nostro data base. L’analisi che abbiamo condotto si
è posta due obiettivi:
- ottenere una descrizione e, per quanto possibile, una quantificazione dei principali
cambiamenti che hanno interessato il mondo delle grandi imprese in Italia negli anni
’90;
- valutare l’impatto che questi cambiamenti hanno avuto su alcuni indicatori dei
risultati economici, competitivi e sociali delle grandi imprese (redditività, fatturato e
numero di dipendenti).
Prima di procedere con la presentazione dei risultati del nostro studio, ci sembra
comunque opportuno fare alcune premesse. Innanzitutto, la nostra analisi si è
concentrata su quelle che possiamo definire come vere e proprie discontinuità negli
assetti istituzionali – d’ora in avanti, discontinuità istituzionali. L’assetto istituzionale
delle imprese, infatti, è spesso soggetto a cambiamenti di portata minore che non
alterano, di fatto, gli equilibri tra i soggetti che governano l’impresa: scambi di quote
azionarie di dimensioni minime, piccole modifiche statutarie, aggiustamenti ai patti di
sindacato, etc. Parliamo di discontinuità istituzionali, invece, quando osserviamo eventi,
talora frutto di scelte precise, che: (a) vedono un mutamento rilevante nei soggetti che
esercitano un’influenza sui comportamenti dell’impresa; (b) comportano una radicale
ridefinizione dei rapporti, formali e informali, tra gli stessi; (c) si realizzano in un breve
lasso di tempo (vedi tabella 8).
Tabella 8: Esempi di cambiamenti e discontinuità istituzionali. CAMBIAMENTO DISCONTINUITÀ
Assetto proprietario Ingresso di un nuovo socio con quotanon rilevante
Cessione / acquisizione dell’impresa
Quotazione in Borsa
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Milano 104
Strutture di governo Modifiche minori alle norme statutarieche regolano il funzionamento degliorgani decisionali
Istituzione di forme di co-determinazione
Modifiche radicali alle norme statutarie cheregolano il funzionamento degli organi digoverno (meccanismi di elezione deiconsiglieri, diritti delle minoranze, etc.)
Cambiamento di forma giuridica
Meccanismi dirimunerazione
Cambiamenti nelle politicheretributive, di assegnazione deidividendi, ecc.
Istituzione di forme di stock-option ,gainsharing , ecc.
Cambiamento di forma giuridica
Stando a questa definizione, l’insieme delle discontinuità istituzionali rimane comunque
piuttosto ampio e contiene eventi decisamente eterogenei fra loro. Anche per questa
ragione, censire tutte le discontinuità istituzionali verificatesi in un determinato lasso di
tempo in un determinato paese non è una cosa semplice. Non tutte le discontinuità,
infatti, sono facilmente rilevabili. In alcuni casi la difficoltà è minima: informazioni sui
cambiamenti nell’assetto proprietario, ad esempio, soprattutto per le imprese di grandi
dimensioni o per le imprese quotate, sono disponibili all’interno di pubblicazioni
periodiche o dei rapporti dell’autorità di controllo sulla borsa. In altri casi, come ad
esempio cambiamenti negli assetti proprietari o nei meccanismi di Corporate
governance di imprese di dimensioni medie o piccole, s’impone una approfondita
ricostruzione della storia dell’azienda; studi a livello di sistema economico sono
disponibili solo per via campionaria. Non esistono poi censimenti specifici per
operazioni come l’ingresso dei dipendenti con quote rilevanti nel capitale dell’impresa
(ad es. Meridiana e Alitalia) o le scalate ostili (vedi i casi recenti di Gucci e Telecom
Italia), che rappresentano delle sostanziali novità nel panorama italiano. Le informazioni
disponibili sulle discontinuità istituzionali in Italia riguardano in maggioranza i
cambiamenti avvenuti a livello di assetto proprietario: passaggi di proprietà e quotazioni
in primis. Anche per questa ragione, abbiamo quindi deciso di concentrarci sulle
discontinuità che hanno investito l’assetto proprietario delle grandi imprese italiane nel
decennio che va dal 1989 – anno di partenza dei dati raccolti dal data base
dell’Osservatorio – al 199810.
10 Data l’assenza dei dati di bilancio relativi al 1999, siamo stati costretti a lasciare fuori dall’analisiimportanti operazioni come la scalata a Telecom Italia da parte della cordata guidata da RobertoColaninno e le operazioni che hanno interessato altre imprese del nostro campione, piccole (Buffetti,Redaelli Tecna, etc.) e grandi (Enel, Snia, etc.).
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Milano 105
Nei prossimi paragrafi presenteremo prima, per ragioni di completezza, alcuni dati
raccolti da altre fonti che riguardano in generale il fenomeno delle discontinuità
istituzionali nel nostro Paese, per poi concentrarci sull’analisi dei cambiamenti che
hanno riguardato le imprese censite dall’Osservatorio.
4.1 Le discontinuità istituzionali in Italia: un quadro generale
In questo paragrafo sono riportati alcuni dati sulle tendenze recenti nel fenomeno delle
discontinuità istituzionali nel nostro Paese. Come abbiamo già detto, i dati disponibili
fanno riferimento quasi esclusivamente a discontinuità negli assetti proprietari, dal
momento che non sono disponibili studi relativi ad altre forme di discontinuità. La
conduzione di studi di questo tipo esula peraltro dagli obiettivi di questa ricerca. I dati
riportati sono ricavati dalla pubblicazione “Acquisizioni, fusioni e concorrenza”, che
riporta studi condotti su una banca dati che copre il periodo 1983-1998 e contiene dati
relativi a passaggi di quote di capitale sociale, fusioni fra imprese e acquisti di unità
operative, marchi e stabilimenti. La banca dati è stata costruita e viene continuamente
aggiornata dal Laboratorio di Politica Industriale di Nomisma avvalendosi di fonti
diverse11. Le tabelle sottostanti sono in parte ricavate direttamente e in parte frutto di
elaborazioni a partire dai dati Nomisma. I dati riportati fanno riferimento ad
acquisizioni e fusioni (è disponibile anche il dato relativo alle acquisizioni intragruppo,
espressione di operazioni di riassetto societario), privatizzazioni o acquisizioni da parte
dello stato, LBO e MBO (manca il dato relativo agli ultimi anni); sono poi disponibili
dati relativi a quotazioni e uscite di borsa, ricavati dai bollettini Consob.
L’analisi dei dati presentati ci consente di fare alcune riflessioni di rilievo:
- nei primi anni ’90 tali operazioni aumentano di numero rispetto al decennio
precedente ed assumono una dimensione piuttosto elevata;
- per quanto concerne le acquisizioni e le fusioni si nota che esse tendono ad
aumentare dal 1983 al 1990 e poi, dopo avere toccato un picco con 2.121 operazioni
concluse, si riducono gradualmente, pur assestandosi su valori più elevati rispetto a
quelli di partenza;
11 Fonti giornalistiche italiane (Il Sole 24 ore, Italia Oggi, Il Mondo, Mondo Economico, MilanoFinanza), riviste estere (Mergers & Acquisitions, Financial Times Mergers and Acquisitions, riviste
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Milano 106
- anche le operazioni di Management buy-out (MBO) e Leveraged buy-out (LBO)
seguono un andamento simile: sono praticamente assenti fino al 1989, hanno una
improvvisa e rapida diffusione nel biennio 1989-1990 (con un picco di 26
operazioni concluse) per poi assestarsi su livelli più bassi;
- i passaggi di controllo dal pubblico al privato (o viceversa) possono essere divisi in
due periodi distinti: nel primo (che va dal 1983 al 1992) prevalgono le acquisizioni
statali su quelle private, nel secondo (che va dal 1993 al 1997) prevalgono le
privatizzazioni.
In sintesi, i dati forniti indicano che i cambiamenti istituzionali che coinvolgono
l’assetto proprietario dei grandi gruppi italiani assumono grande rilievo nel corso degli
anni’90, di conseguenza sarà interessante analizzare quali cambiamenti hanno coinvolto
le grandi imprese ed i grandi gruppi censiti dal database dell’Osservatorio.
Tabella 9: Acquisizioni e fusioni in Italia negli ultimi 15 anni.
Acquisizioni e fusioni Acquisizione del controllo daparte di manager
Passaggi di controllo dalpubblico al privato (e
viceversa) Intragruppo Non
intragruppo Mbo Lbo Acquisizioni
da parte diimprese
pubbliche
Privatizzazioni
1983 87 184 0 0 14 3 1984 125 303 0 0 8 5 1985 149 434 1 0 18 12 1986 186 486 0 0 14 15 1987 392 951 0 0 34 16 1988 381 957 0 0 22 12 1989 520 1460 2 7 38 30 1990 657 1464 15 11 43 25 1991 606 1221 10 3 48 33 1992 647 924 5 5 50 40 1993 487 908 10 0 30 37 1994 455 958 10 0 45 70 1995 310 836 n.d. n.d. 30 56
1996 n.d. n.d. n.d. n.d. 19 39
1997 n.d. n.d. n.d. n.d. 15 42
Fonte: Nomisma: Acquisizioni, Fusioni e Concorrenza, vari numeri
specializzate di settore), dati di bilancio di alcune imprese tratti dalle relazioni annuali o da Ricerche &Studi (Mediobanca), dati raccolti da alcune società finanziarie italiane.
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Milano 107
4.2 Discontinuità istituzionali nelle grandi imprese italiane
L’osservazione dei dati raccolti da Nomisma conferma, pur in assenza dei dati relativi
agli ultimi anni, l’elevata frequenza di eventi che modificano l’assetto istituzionale delle
imprese. In particolare, i dati indicano l’intensificarsi di operazioni quali
privatizzazioni, quotazioni in borsa e management-buy-out che stanno contribuendo a
trasformare il capitalismo italiano da un modello in cui gli attori dominanti sono lo
Stato e poche grandi famiglie, ad un modello in cui istituti di credito e investitori
istituzionali da un lato e dirigenti professionisti dall’altro stanno assumendo un peso
sempre crescente, e dove il trasferimento della proprietà e del controllo delle imprese
segue logiche di efficienza e di mercato.
Il livello di aggregazione dei dati di Nomisma, tuttavia, non consente di distinguere
l’entità delle diverse operazioni e le dimensioni delle imprese interessate e, soprattutto,
non considera, nel conteggio, la dimensione di gruppo. Volendo indagare le
discontinuità istituzionali di cui sono stati oggetto i grandi gruppi di imprese italiani,
abbiamo dovuto ricostruire, per ciascun gruppo presente nell’archivio, l’evoluzione
dell’assetto proprietario e di controllo dal 1989 in avanti. Diversamente da Nomisma,
abbiamo assunto il gruppo, o l’impresa, e non la singola operazione come punto di
riferimento: nel computo delle discontinuità abbiamo quindi compreso quelle operazioni
di cui l’impresa sia stata “oggetto” (es. cessione dell’Ilva dallo Stato al gruppo Riva) e
non “soggetto” (acquisizione da parte di Finmeccanica, della Hartmann and Braun). In
altre parole, abbiamo analizzato cambiamenti nell’assetto proprietario e non in quello
societario dei grandi gruppi di imprese.
Nel complesso, su un totale di 673 imprese o gruppi che hanno fatto parte del nostro
campione in questi anni, abbiamo osservato un totale di 182 modifiche rilevanti
dell’assetto proprietario 12. Le discontinuità osservate possono essere ricondotte ad un
numero ristretto di categorie riportate nella tabella 11.
12 E’ importante notare che: a) qualora l’operazione abbia interessato un gruppo industriale (es. Telecom,Eni o Ferruzzi/Compart), abbiamo considerato esclusivamente la capogruppo; b) qualora l’operazione siaavvenuta gradualmente (es. privatizzazione in due riprese della Ilte o incremento progressivo della quotaDanone in Egidio Galbani) si è considerato solo l’esito definitivo dell’operazione; c) alcune imprese sonoandate incontro a più di una discontinuità nel periodo considerato (es. Esaote è stata privatizzata, quotatae successivamente acquisita dal gruppo Bracco). Considerata l’impossibilità di ricostruire completamentela storia di ogni impresa, bisogna comunque considerare questo valore come una approssimazione perdifetto.
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Milano 108
Tabella 10: Le discontinuità istituzionali nelle grandi imprese italiane censitedall’archivio Assolombarda-Bocconi, 1989-1998
Tipo di operazione Numero Passaggio di proprietà e controllo 89 Incorporazione / fusione / scissione 38 Quotazione 22 Ingresso o uscita di un partner industriale o finanziario 15 Ristrutturazione 9 Revoca dalla quotazione 7 Altro (riordino quote famigliari, ingresso dipendenti, etc.) 3
Il tipo di discontinuità più frequente tra quelle osservate riguarda il passaggio di un
pacchetto azionario che sposta il controllo di un’impresa o di un gruppo. Nell’arco di
dieci anni, quasi un settimo dei gruppi censiti ha cambiato proprietà (88 su 673), alcuni
(come Esaote, Savio o Buffetti) più di una volta. Il numero non tiene conto dei numerosi
riassetti che hanno interessato società come Air Europe e Alpitour, ma che non ne
hanno alterato, almeno nel breve termine, la composizione della coalizione di controllo.
In alcuni casi, la cessione è avvenuta in più riprese, ma nella maggior parte dei casi il
trasferimento ha interessato il pacchetto di controllo in un’unica soluzione. Casi
particolari sono quelli in cui il controllo è stato indirettamente trasferito “al mercato”
attraverso la cessione o la quotazione della maggioranza del capitale dell’impresa,
rendendola di fatto una public company, suscettibile di scalate. La tabella seguente
illustra la scomposizione dei trasferimenti osservati, mettendo in evidenza la natura del
cedente e dell’acquirente. Come si evince dalla tabella, tra le operazioni che hanno
maggiormente contraddistinto l’ultimo decennio troviamo le seguenti:
• Il graduale smantellamento del sistema delle partecipazioni statali e la liquidazione
dell’Efim ha visto la cessione da parte dello Stato di imprese di diverse dimensioni a
soggetti rappresentati prevalentemente da imprenditori privati italiani (11 casi),
multinazionali estere (5), o coalizioni che vedevano la partecipazione di entrambi
(9). In alcuni casi, come Acciai Speciali Terni o SIV, la proprietà è in seguito
passata interamente al partner estero. Per alcune piccole imprese (Esaote, Capolo e
VM Motori) si è scelta la via del Management-Buy-Out (MBO) assistito da
investitori istituzionali. Solo in un caso, Telecom, la destinazione dell’impresa è
stata il mercato.
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Milano 109
• Le multinazionali estere non si sono limitate ad acquistare dallo Stato (5 casi), ma
hanno anche e soprattutto rilevato numerose imprese da privati (27). In alcuni casi,
gli acquirenti figuravano già come partner industriali o commerciali nell’azionariato
e hanno progressivamente elevato la propria quota al 50 per cento. In altri, i gruppi
esteri hanno rilevato imprese in crisi, talvolta dallo Stato talvolta da imprenditori
privati. L’acquisizione del controllo di imprese quotate ha spesso portato alla
successiva OPA residuale e quindi alla revoca della quotazione. Più raramente
abbiamo osservato il passaggio inverso, da un soggetto estero ad uno italiano.
• Alcune imprese di medie dimensioni (9) hanno visto la proprietà passare nelle mani
di investitori istituzionali, talvolta come esito di una crisi, altre volte nell’ambito di
operazioni di MBO, altre ancora, più raramente, come via prescelta per la
privatizzazione. Nella quasi totalità dei casi, la destinazione finale dell’impresa è
stata la quotazione, se non addirittura la cessione sul mercato dell’intero pacchetto
di controllo.
• In un discreto numero di casi (14), infine, il controllo della società è passato da un
soggetto unico ad una coalizione: a volte ad una cordata di imprenditori, a volte ad
una coalizione fra una multinazionale estera e una o più imprese italiane, a volte ai
dirigenti della società appoggiati da investitori esterni.
Tabella 11: I passaggi di proprietà: natura dei cedenti e degli acquirentiA
DAStato Privato
(individ.)Multinaz.
esteraInvestitori
istituzionaliCoalizione Mercato Totale
Stato 3 11 5 1 9 1 30
Privato (individ.) 9 17 6 4 1 27
Multinaz. estera 2 1 3
Inv. istituzionali 2 2 4
Coalizione 1 2 8 1 1 13
Mercato 2 2
Totale 4 26 33 7 14 5 88
Talvolta, a seguito della cessione, l’impresa acquisita è stata incorporata nell’acquirente.
Complessivamente, ben 32 imprese o gruppi sono scomparsi solo negli ultimi cinque
anni dopo essere stati incorporati nella controllante. La maggior parte di queste
operazioni è avvenuta nell’ambito di programmi di razionalizzazione dell’assetto
societario dei gruppi IFI/Fiat (7), Finmeccanica (4), Telecom (4) e Enichem (3). Altre 4
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 110
imprese sono andate incontro a scorpori e successivamente messe in liquidazione. La
logica di fondo, così come nel caso di gran parte delle incorporazioni, sembra essere
quella di realizzare una migliore corrispondenza fra l’articolazione delle diverse linee di
business del gruppo e del suo assetto societario.
In 22 casi, poi, il capitale dell’impresa è stato aperto al mercato borsistico. Nel caso di
imprese pubbliche come Eni, Amga o Aem, si è trattato di un’alternativa (o un preludio)
alla completa privatizzazione per stimolare un recupero di efficienza sottoponendo la
società alla disciplina del mercato. Nel caso di imprese controllate da investitori
istituzionali si è trattato di un passaggio naturale che permette all’investitore stesso,
merchant bank o fondo chiuso, di smobilizzare e recuperare il proprio investimento
realizzando le plusvalenze maturate. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si è trattato
di imprese familiari di piccole, medie e grandi dimensioni che hanno cercato nella
quotazione un sostegno allo sviluppo e un rafforzamento della propria struttura
manageriale. In alternativa al ricorso alla quotazione, altre imprese si sono rivolte a
partner industriali o finanziari, che sono entrati con quote “di peso” nell’azionariato. In
5 casi su 7, tra quelli osservati, il socio industriale ha successivamente acquistato la
maggioranza o la totalità del capitale.
Nove gruppi tra quelli censiti, infine, hanno conosciuto un grave dissesto finanziario e
sono stati oggetto di una operazione di ristrutturazione, nella quale sono stati sottoposti
ad amministrazione controllata o hanno visto addirittura l’ingresso delle banche
creditrici nel capitale. Nella metà dei casi, il periodo di ristrutturazione ha rappresentato
un passaggio verso un nuovo equilibrio, in cui, una volta risanato, il gruppo è passato
sotto il controllo di nuovi soggetti che ne garantissero una gestione più efficiente.
Nell’altra metà, l’esito della crisi è stata la liquidazione della società, dopo avere,
quando possibile (vedi il caso Belleli), scorporato e cercato acquirenti per i rami
aziendali ancora competitivi.
Complessivamente l’impressione che si ricava dal quadro ottenuto è la seguente:
1. I cambiamenti istituzionali ai quali stanno andando incontro le grandi imprese
italiane mettono in evidenza un ruolo crescente del mercato, dei suoi operatori e
delle sue logiche nella riallocazione della proprietà delle imprese e nell’esercizio
del governo sulle stesse. La crescita del peso degli investitori istituzionali
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 111
nell’azionariato delle imprese e, parallelamente, di quello dei dirigenti nel governo
delle stesse sta contribuendo alla modernizzazione del capitalismo italiano.
2. D’altra parte, la ristrettezza del mercato italiano fa sì che il peso delle famiglie e
degli imprenditori individuali sia ancora molto forte. In questo senso, cambiano i
nomi ma non le logiche di fondo, che vedono ancora molte imprese finire
nell’orbita di gruppi finanziari famigliari con grosse disponibilità liquide: se un
tempo giocavano un ruolo di primo piano nel sistema finanziario ed industriale
italiano i Gardini, i Varasi, i Bonomi e gli Agnelli, ora i protagonisti si chiamano
Benetton, Valetto, Seragnoli, Colaninno e, naturalmente, ancora Agnelli.
3. Inoltre, le imprese italiane, anche quando diventano società ad azionariato diffuso,
non lo rimangono a lungo: in media non più di un anno o due. Indipendentemente
dalle dimensioni, infatti, imprese che collocano in Borsa la maggioranza assoluta
del capitale vengono presto scalate o sottoposte a offerte pubbliche d’acquisto,
come dimostrano i casi di Telecom, Olivetti e Gucci, da un lato, e Esaote,
Castelgarden, Buffetti e, fuori dal nostro archivio, Stayer dall’altro.
4. Si osserva una tendenza alla semplificazione negli assetti proprietari delle imprese.
Il destino di gran parte delle coalizioni, nate spesso per rilevare imprese pubbliche o
avviare nuove attività imprenditoriali, è quello di andare incontro ad una graduale
concentrazione del controllo nelle mani di un socio, solitamente quello
maggiormente interessato all’integrazione della società con altre attività di sua
proprietà.
4.3 Discontinuità istituzionali e performance aziendali
L’analisi degli effetti delle discontinuità istituzionali si è concentrata su tre operazioni
fondamentali che, come abbiamo appena visto, hanno caratterizzato il mondo delle
grandi imprese italiane negli anni ‘90: le privatizzazioni, le quotazioni in borsa e le
acquisizioni di imprese italiane da parte di multinazionali estere. Per altre operazioni,
come ad esempio gli MBO assistiti dall’ingresso di investitori istituzionali nel capitale,
o le trasformazioni di imprese da private a pubbliche con la progressiva diluizione del
capitale di comando, o ancora il passaggio di proprietà dall’estero all’Italia di imprese o
rami di imprese, il numero delle operazioni è troppo ristretto o le operazioni stesse sono
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 112
troppo recenti per potere effettuare alcuna considerazione di ordine generale. In altri
casi, come le incorporazioni o gli smembramenti di gruppi in crisi, l’assenza di dati o la
non confrontabilità di quelli disponibili impedisce di effettuare comparazioni
significative.
Per i tre tipi di discontinuità più diffusi nel periodo considerato, la base dati contenuta
nell’archivio ci ha permesso di effettuare una prima valutazione delle conseguenze sui
risultati dell’azienda, dal punto di vista reddituale, competitivo e sociale. Seguendo la
teoria economico aziendale, abbiamo adottato come indicatore di competitività la
crescita (o la riduzione) del fatturato - cercando di distinguere, dove possibile, crescita
organica da crescita mediante acquisizioni; l’indicatore di redditività utilizzato è il
rapporto tra reddito netto e fatturato (una sorta di redditività delle vendite); infine, i
risultati sociali dell’impresa sono stati valutati in prima approssimazione osservando la
variazione nel numero dei dipendenti. Naturalmente, il numero ridotto dei casi per cui
erano disponibili dati completi su un arco sufficientemente ampio di tempo e le
importanti differenze tra le imprese osservate (in termini di settore, dimensioni, etc.)
hanno reso impossibile - o comunque poco significativa - un’analisi quantitativa di tipo
statistico. Ciononostante, un’analisi di tipo qualitativo ha comunque messo in evidenza
alcuni fenomeni interessanti che verranno presentati nelle prossime tre sezioni aventi
per oggetto: a) le privatizzazioni; b) le quotazioni in borsa; c) l'acquisizione del
controllo da parte delle multinazionali estere.
a) Le privatizzazioni
La convinzione comune riguardo alle operazioni di privatizzazione è che il passaggio di
proprietà dal pubblico (Stato o enti locali) al privato dovrebbe aumentare l’efficienza
della gestione e offrire maggiori stimoli alla crescita. D’altra parte, il venir meno negli
interessi del proprietario del sostegno all’occupazione dovrebbe portare ad una
riduzione del numero dei dipendenti, sia attraverso la sostituzione di forza lavoro con
macchinari e sistemi automatizzati, sia attraverso una più rapida riduzione del personale
in eccesso rispetto alle esigenze di gestione.
Per ventitré delle ventisette operazioni di privatizzazione censite dal nostro archivio,
erano disponibili dati sufficienti a valutare le conseguenze del cambiamento. I risultati
confermano solo in parte le previsioni. Innanzitutto, il passaggio del controllo dal
Osservatorio Assolombarda-Bocconi
Milano 113
pubblico al privato non necessariamente penalizza l’occupazione. L’impatto della
privatizzazione sui livelli occupazionali sembra essere in prima battuta influenzato dal
settore di attività e può anche essere positivo. Se è vero che in settori come la siderurgia
e la metallurgia, l’edilizia e la chimica, la privatizzazione si accompagna ad una
razionalizzazione della produzione che implica necessariamente un ridimensionamento
della forza lavoro, in altri settori come l’alimentare, la ristorazione, la meccanica e
l’elettronica, la privatizzazione sembra dare impulso ad una crescita del fatturato della
quale beneficia anche l’occupazione. In queste imprese, probabilmente, la proprietà
statale non rappresentava tanto un onere in termini di dipendenti in eccesso e
lavorazioni obsolete, quanto un’assenza di stimoli forti alla competitività. Stimoli che le
imprese ritrovano una volta che il passaggio di proprietà contribuisce a creare un
contesto che valorizza le risorse manageriali e le competenze tecnologiche e
commerciali presenti in azienda. Anche per quel che riguarda la redditività, poi, le
nostre osservazioni sembrano sfatare la credenza comune secondo la quale il passaggio
alla proprietà privata sia sufficiente a rilanciare la redditività dell’impresa: in ben 8 casi
su 23, a distanza di almeno due anni dalla privatizzazione, non si è assistito ancora ad
un recupero di redditività o la stessa è ancora sugli stessi livelli precedenti. In diversi
casi, la crescita della redditività è associata alla riduzione degli organici, ma non
mancano casi in cui alla privatizzazione ha fatto seguito una crescita di tutti e tre gli
indicatori.
b) Le quotazioni in borsa
La quotazione in borsa apre l’azionariato delle imprese a soci, piccoli risparmiatori e
investitori istituzionali, il cui unico interesse riguarda la massimizzazione del
rendimento del proprio investimento, attraverso una crescita sia dei dividendi periodici
sia del valore del titolo. Questi interessi non sempre coincidono con quelli di chi, Stato
o imprenditore individuale, ha governato l’impresa fino a quel momento. Alcuni
ritengono, ad esempio, che la quotazione in Borsa di imprese familiari sposta
l’attenzione del management “dalla minimizzazione del reddito imponibile alla
massimizzazione del reddito distribuibile”. Certamente, il fatto che le performance
dell’impresa siano ora attentamente monitorate da analisti finanziari e investitori
istituzionali pronti a vendere la partecipazione, penalizzando il valore del titolo, qualora
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Milano 114
le prospettive di crescita e redditività non siano in linea con le loro attese, impone al
management un’attenzione maggiore ai livelli di redditività e alla formulazione di
strategie di crescita.
Da quest’ultimo punto di vista, i dati analizzati confermano le previsioni: salvo rari casi,
il fatturato di imprese quotate tende a continuare a crescere con ritmi analoghi a quelli
che teneva in passato, specie se si tratta di imprese di dimensioni medie. Per quanto
riguarda l’impatto sui livelli occupazionali, invece, anche nel caso delle imprese quotate
l’effetto non è univoco. In questo caso, la variabile discriminante sembra essere la
dimensione. Per grandi gruppi come Eni o Erg, che accedono al mercato in una fase di
maturità, la quotazione impone, infatti, una razionalizzazione della propria struttura con
conseguente riduzione degli organici. Nel caso di imprese di dimensioni medie o medio-
piccole, diversamente, la quotazione in Borsa apporta risorse finanziarie utili a sostenere
lo sviluppo delle attività. Non sempre però questa crescita riflette effettivamente la
creazione di nuovi posti di lavoro, cosa che accade solo se la crescita è organica e non
realizzata attraverso acquisizioni. Discorso analogo a quello delle grandi imprese, poi,
vale per le aziende municipalizzate, come Amga ed Aem, dove la quotazione comporta
un drastico cambiamento negli obiettivi e nelle logiche che guidano l’impresa. Da
notare come le riduzioni più consistenti nell'organico si osservino spesso nell’anno
stesso o nell’anno precedente alla quotazione. Un fenomeno questo che trova una
corrispondenza nello speculare incremento dei risultati reddituali, che spesso toccano un
picco in occasione della quotazione per poi ridiscendere subito dopo. Da questo punto
di vista, su diciassette operazioni censite, per le quali esistano dati sufficienti, in ben
sette casi alla quotazione ha fatto seguito un calo, e non una crescita, della redditività. Si
tratta soprattutto di imprese di dimensioni medio-piccole, spesso portate in borsa da
investitori istituzionali.
c) L’acquisizione da parte di multinazionali estere
Nel momento in cui un’impresa viene acquisita da una grande multinazionale, spesso
viene a perdere una sua autonomia e identità per diventare parte di un più ampio gruppo
industriale. Da quel momento, la gestione dell’impresa è inevitabilmente condizionata
da logiche più ampie che prendono in considerazione l’economicità e la competitività
del gruppo nel suo complesso. Prevedere come questo possa influenzare le prestazioni
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Milano 115
dell’impresa non è facile. Il timore diffuso riguardo alla cessione di imprese italiane a
grandi gruppi esteri è che obiettivo dell’acquisizione siano soprattutto marchi
commerciali, brevetti, licenze e quote di mercato, mentre la capacità produttiva è
destinata ad essere gradualmente trasferita all’estero secondo la logica della
globalizzazione dei centri di produzione. Il risultato, in questo caso, potrebbe anche
essere positivo sul lato del fatturato, perché l’impresa potrebbe trarre beneficio
dall’ingresso in un gruppo dotato di maggiori risorse finanziarie e commerciali e
sfruttare sinergie commerciali e distributive. D’altra parte, il numero dei dipendenti
verrebbe gradualmente ridotto proprio a seguito della chiusura di stabilimenti e
laboratori di ricerca e della riduzione degli apparati amministrativi. La redditività della
filiale, infine, risentirebbe delle politiche di gruppo riguardo ai prezzi di trasferimento e
di eventuali vantaggi (o svantaggi) fiscali comparati di cui la stessa può godere.
L’analisi dei 23 casi in cui sono disponibili dati significativi, mostra in effetti come,
nonostante il fatturato tenda comunque a crescere a seguito dell’acquisizione, il
passaggio di proprietà comporti spesso (11 casi) una riduzione, a volte consistente, della
forza lavoro. D’altra parte, si tratta in molti casi di aziende privatizzate o comunque da
risanare. In 7 casi, quasi un terzo del totale, l’impatto sui livelli occupazionali è stato
fino ad ora trascurabile, mentre in cinque casi addirittura positivo. Si tratta, in questo
caso, di aziende che operano nel campo della meccanica e della componentistica, che
hanno tratto un beneficio dall’ingresso nella rete logistica e commerciale di grandi
multinazionali, dove hanno potuto far leva sulle proprie competenze tecnologiche per
avviare e sostenere una crescita organica con benefici sia sul fatturato che
sull’occupazione. Come previsto, l’analisi dell’impatto sui risultati reddituali non ha
portato ad osservazioni significative: in dodici casi sui diciotto osservabili i risultati
sono migliorati. Non sembra comunque emergere alcuna variabile discriminante.
Conclusioni
L’obiettivo di questo lavoro era quello di descrivere i principali cambiamenti
istituzionali che hanno caratterizzato le principali imprese operanti all’interno del nostro
Paese. A tal fine abbiamo dapprima individuato la popolazione di riferimento (tutte le
imprese ed i gruppi italiani con più di 100 dipendenti e più di 155 milioni di euro di
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Milano 116
fatturato nel 1998) giungendo a “mappare” 540 soggetti o imprese economiche
(omogenee per forma di controllo e per settore di attività). Successivamente abbiamo
definito una tipologia di forme di assetto proprietario che ci ha consentito di attribuire i
540 soggetti individuati nella fase precedente ad una determinata categoria: famigliare,
multinazionale estera, Stato, etc.. Quindi abbiamo ricostruito la storia dei principali
cambiamenti istituzionali che hanno caratterizzato questi 540 soggetti (ed altri censiti in
precedenti edizioni dell'Osservatorio) nel corso del decennio 1989-1998, focalizzandoci
prevalentemente su quei cambiamenti che hanno avuto per oggetto l'assetto proprietario
di tali soggetti.
La scelta del tipo di cambiamento istituzionale da indagare, cioè il cambiamento di
assetto proprietario, si giustifica se si considera l'importanza che gli obiettivi del
controllore hanno sulle decisioni di governo economico e, quindi, sui risultati
(reddituali, competitivi e sociali) delle imprese. Inoltre non si deve trascurare il fatto che
la disponibilità di dati relativi alla composizione dell'azionariato delle grandi imprese e
dei grandi gruppi rendono l'analisi dell'evoluzione dell'assetto proprietario fattibile, pur
comportando alcune complicazioni di tipo metodologico. Sarebbe viceversa assai
complesso cercare di ricostruire altri tipi di discontinuità istituzionale meno
pubblicizzati sulla stampa.
La scelta del periodo temporale di riferimento per l'analisi, il decennio 1989-1998, si
giustifica alla luce dei dati contenuti in altre pubblicazioni (Nomisma, "Acquisizioni,
Fusioni e Concorrenza") che hanno evidenziato come tale periodo sia caratterizzato da
un enorme incremento nel numero di operazioni di fusione ed acquisizione rispetto agli
anni precedenti.
Le elaborazioni sui dati in nostro possesso ci hanno consentito di esprimere un primo
giudizio sulla presenza e sulla dinamica delle varie forme di controllo presenti
all’interno del nostro sistema economico. In particolare i risultati a cui siamo giunti
possono essere sintetizzati in due gruppi: quelli relativi all'assetto proprietario nel 1998
(analisi statica) e quelli relativi ai principali cambiamenti intercorsi nel periodo 1989-
1998 (analisi dinamica).
a) Analisi statica
In estrema sintesi, l'analisi dei dati relativi all'assetto proprietario dei grandi gruppi e
delle grandi imprese italiane nel 1998 ci consente di esprimere le seguenti conclusioni:
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Milano 117
1. nel nostro Paese è presente un mix composito e variegato di forme di controllo con
caratteristiche molto diverse in termini di sovrapposizione fra proprietà e governo
(azionisti e manager), autonomia strategica rispetto ad altri soggetti, capacità di
aumentare in tempi rapidi il capitale sociale, etc.. Poiché ogni assetto è
caratterizzato da propri vantaggi rispetto ad alcune dimensioni di eccellenza (la
flessibilità, la capacità di sopportare momenti di redditività negativa prolungati,
etc.), tale varietà di assetti istituzionali deve essere giudicata positivamente;
2. nel nostro Paese prevalgono forme di controllo di tipo assoluto anche nelle grandi
imprese, ovvero alcuni soggetti tendono a mantenere in proprio possesso quote di
capitale sufficienti ad assicurare loro il controllo sul consiglio di amministrazione e
quindi sulla gestione della impresa. Questa caratteristica vale per lo Stato, per le
multinazionali estere e per le imprese familiari. Sono viceversa poco rilevanti forme
di controllo di coalizione, in cui due o più soggetti si dividono il diritto e la
responsabilità di determinare gli indirizzi strategici dell’impresa; sembra comunque
che tali forme di controllo siano in aumento rispetto al passato;
3. fra le forme di controllo individuate, si conferma una peculiarità del capitalismo
italiano: non solo le imprese di piccole dimensioni, ma anche quelle di grandi
dimensioni risultano essere controllate da una famiglia, spesso quella fondatrice.
Tutto questo è stato possibile grazie all’operare di un insieme di strumenti (il ricorso
al meccanismo dei gruppi piramidali, la quotazione di molte società del gruppo,
l’emissione di azioni prive del diritto di voto, etc.) che hanno consentito ad alcune
famiglie “storiche” del capitalismo italiano di mantenere il controllo di una notevole
quantità di attività economiche investendo il minimo ammontare possibile di risorse
finanziarie personali (Brioschi, Buzzacchi, Colombo, 1990);
4. anche nel nostro sistema si stanno sviluppando alcune forme di assetto istituzionale
che caratterizzano i principali Paesi industrializzati: nascono i primi intrecci tra
gruppi industriali e finanziari simili a quelli dei grandi gruppi tedeschi, aumentano
le public company. Questo trend, che a nostro avviso deve essere valutato
positivamente, potrebbe modificare uno dei limiti storici del capitalismo italiano,
cioè l’assenza o il limitato ruolo di imprese italiane in alcuni settori (il farmaceutico,
il chimico, l’elettronica, l’elettromeccanica, le telecomunicazioni, etc.) in cui gli
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elevati investimenti in ricerca e sviluppo o in impianti e macchinari di grandi
dimensioni risultano essere decisivi per il successo dell’impresa;
b) Analisi dinamica
In estrema sintesi, i dati relativi alle dinamiche che hanno riguardato gli assetti
proprietari delle grandi imprese e dei grandi gruppi del nostro Paese nel periodo 1989-
1998 ci consentono di esprimere le seguenti conclusioni:
1. per quanto concerne le operazioni di acquisizione e di cessione i nostri dati
evidenziano chiaramente un soggetto che si pone prevalentemente nella parte di
venditore (lo Stato che presenta un differenziale negativo pari a -26) ed un altro tipo
di assetto proprietario che viceversa tende a svolgere il ruolo di acquirente (le
multinazionali estere che presentano un differenziale positivo pari a +30), gli altri
soggetti non sembrano invece presentare dinamiche particolarmente sbilanciate
verso l'una o l'altra direzione;
2. le operazioni complessivamente censite ci inducono a pensare che la presenza di
forme di controllo assolute sia una caratteristica peculiare del nostro capitalismo,
infatti le imprese che collocano sul mercato la maggioranza delle loro quote di
capitale di rischio tendono ad essere riacquisite, prima o poi, da alcuni soggetti
(famiglie, multinazionali estere, etc.);
3. i grandi gruppi e le grandi imprese stanno semplificando la loro struttura societaria,
in termini di riduzione del numero delle società controllate, e il loro assetto
societario, con una graduale concentrazione del controllo nelle mani di un singolo
soggetto;
4. la focalizzazione dell'analisi sui tre tipi di cambiamenti istituzionali maggiormente
diffusi ci ha consentito di evidenziare la relazione che si pone tra tali cambiamenti e
la performance (reddituale, sociale e competitiva) delle imprese e dei gruppi oggetto
della discontinuità istituzionale; in particolare: a) le operazioni di privatizzazione
realizzate nel periodo 1989-1998 e censite dall'Osservatorio Assolombarda -
Bocconi non hanno portato ad una generalizzata riduzione dei prestatori di lavoro e
ad un aumento della redditività, piuttosto la differenza nei risultati conseguiti dalle
imprese nel periodo pre e post privatizzazione risulta essere fortemente influenzata
dalle dinamiche settoriali (di crisi o di sviluppo) e dalle risorse e competenze
possedute dalle singole imprese; b) le operazioni di quotazione in borsa tendono ad
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alimentare il ritmo di sviluppo che le imprese avevano nella fase precedente la
quotazione, mentre per quello che concerne i risultati reddituali e il numero degli
occupati i dati in nostro possesso non ci consentono di esprimere un giudizio
definitivo, anche se l'impressione che si ricava è quella di una fase di preparazione
alla quotazione che implica un aumento della redditività ed un calo nel numero dei
prestatori di lavoro; c) le operazioni di acquisizione realizzate dalle multinazionali
estere evidenziano nella fase successiva alla acquisizione un aumento della
competitività dell'impresa (misurata in termini di fatturato realizzato) come risultato
dello sfruttamento di sinergie tecniche e commerciali tra le imprese ed i gruppi
coinvolti nell'operazione, mentre non sembra che si possano definire conclusioni
definitive sulla variazione riscontrata nei risultati reddituali e sociali, i quali
sembrano essere fortemente influenzati dalle dinamiche di settore e dall'entità delle
sinergie sfruttabili ai fini della creazione e della difesa di un vantaggio competitivo
di lungo periodo.
Tali risultati comportano implicazioni di tutto rilievo in generale per tutti gli studiosi di
Corporate governance, ed in particolare per il responsabile della politica economica del
Paese. Riteniamo infatti che la varietà degli assetti istituzionali delle grandi imprese e
dei grandi gruppi italiani sia una ricchezza importante per il nostro sistema economico
che va tutelata e incentivata con opportuni provvedimenti legislativi. L'analisi delle
dinamiche istituzionali attualmente in atto non ci consente di esprimere conclusioni
definitive, tuttavia ci pare che si possa affermare che i principali cambiamenti che
caratterizzano gli assetti societari e proprietari dei grandi gruppi vadano verso la
creazione di una maggiore trasparenza e di una maggiore esposizione alle logiche di
mercato.
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Milano 120
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