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I partiti e l’antifascismo. Antifascismo in patria ... · all’attentato a Mussolini, allo...
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I partiti e l’antifascismo. Antifascismo in patria/antifascismo all’estero. I partiti
politici nella transizione repubblicana.
Abbiamo detto come l’emanazione delle leggi fascistissime segna la fine della vita
democratica, la soppressione delle principali libertà costituzionali, la fine dei partiti
(1926). Le correnti politiche che si opponevano al fascismo continuarono però a
vivere. Rispetto a ciò si riconoscono due grandi filoni, quello dell’antifascismo in
esilio e quello dell’antifascismo in patria, che non fu meno rilevante di quello
all’estero. Ma andiamo con ordine. Per quanto riguarda l’emigrazione politica,
Morandi parla di due fasi: una prima fase che definisce popolare, numerosa, anonima,
che si svolge tra il 1923 e il 1924, quando si registrano circa 400.000 emigranti in
entrambi gli anni, una cifra maggiore rispetto a quella degli anni precedenti.
Emigrazione anonima, abbiamo detto, che si confondeva con quella dettata da motivi
di lavoro, ma in seno alla quale si riconoscevano anche sindacalisti, elementi
politicizzati di medio e basso livello, piccoli organizzatori, che abbandonarono il
paese per paura di perdere le posizioni prese, per mettere al riparo se stessi e le
proprie famiglie, nel rifiuto della ideologia e di metodi fascisti. Fu una emigrazione
importante, perché ostacolò la penetrazione del fascismo tra gli italiani all’estero, un
obiettivo cui pure il regime lavorò alacremente.
Una seconda fase fu invece caratterizzata dall’espatrio di elementi di rilievo,
riconducibili soprattutto ai partiti di sinistra. Non mancarono anche elementi
moderati: Nitti fu uno dei principali obiettivi del fascismo, ma anche Sforza, Sturzo
furono tra i primi a varcare il confine. Giovanni Amendola, il leader liberal-
democratico dell’Aventino, cioè colui che promosse la riunione delle opposizioni del
26 giugno 1924 in cui si decideva di abbandonare i lavori parlamentari fino a quando
il governo non avesse chiarito la propria posizione in ordine alla scomparsa di
Giacomo Matteotti e che nell’autunno del 1924 aveva promosso la fondazione della
“Unione nazionale delle forze liberali e democratiche”, che condusse forse l’ultima
battaglia democratica contro il fascismo alle amministrative del 1925 morì esule a
Cannes nell’aprile del 1926 per i postumi di una aggressione subita nell’estate
precedente . E così Piero Gobetti, il propugnatore della “Rivoluzione liberale” si era
spento giovanissimo a Parigi nel febbraio del 1926. Ma per la gran parte degli
esponenti del mondo liberale e democratico, a parte questi personaggi, seppure
eminenti, si può parlare di un antifascismo in patria (non di fascismo tout court?).
Benché non si potessero registrare dei momenti di organizzazione di movimenti o
fenomeni di aperta opposizione al regime, ciò che d’altronde in un regime totalitario
non è possibile, si trattò piuttosto di una resistenza morale al fascismo, di un’opera di
corrosione lenta del regime, di preparazione in attesa che il regime crollasse. Il leader
di questa opposizione fu senza dubbio Benedetto Croce ed è da 1936 in poi che il
“movimento” dell’antifascismo in patria comincia ad interrogarsi sul da farsi.
Per quanto riguarda l’antifascismo all’estero, il nucleo vero fu costituito dai dirigenti
dei partiti di sinistra. Si riconoscevano alcune posizioni isolate, come quelle di
Gaetano Salvemini, che era stato costretto ad espatriare nel 1925 dopo le vicende del
gruppo antifascista fiorentino del “Circolo di cultura” e del giornale “Non mollare” di
Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi.
Il grosso del movimento socialista espatriò nel 1926, dopo il giro di vite seguito
all’attentato a Mussolini, allo scioglimento dei partiti democratici ed ala
proclamazione di decadenza dei deputati aventiniani. Si riconosce un grosso nucleo
di esponenti socialisti, afferenti al Partito socialista o al Partito socialista unitario di
Turati e Treves, cioè al gruppo riformista che aveva creato un proprio partito nato alla
vigilia della marcia su Roma, quando nel congresso dell’ottobre del 1922 i
massimalisti e i terzinternazionalisti avevano espulso i riformisti; poi c’erano i
repubblicani e i componenti della Confederazione Generale del lavoro (quindi Turati,
Treves, Modigliani, Saragat tra i componenti del PSU; Nenni che era un
massimalista; Chiesa, Facchinetti, Pacciardi, Reale tra i repubblicani; Buozzi tra i
sindacalisti, che era comunque un riformista). Il centro di questa emigrazione fu
soprattutto Parigi ed è proprio in Francia che nel 1927 sorse una “Concentrazione di
azione antifascista” che segna, nella comune tensione alla opposizione nei confronti
del fascismo, un riavvicinamento tra le diverse componenti, comprese PSI e PSU che
invece erano state divise, come sappiamo, da motivi ideologici e di strategia politica,
sebbene non mancassero le divergenze già in questa fase.
Per quanto riguarda il Partito comunista, si può dire che in quegli anni fu più un
partito “cospirativo” che “emigrato”, che si era dotato di una organizzazione
clandestina ramificata ed efficiente, sebbene operasse in una posizione isolata senza
un contatto con gli altri partiti: il Pci si era opposto alla Concentrazione che giudicò
una “combinazione politica di ispirazione massonica”. Si trattava ovviamente di una
posizione rigidamente classista, settaria, che si ricollegava al comunismo
internazionale, il quale, non bisogna dimenticare, conduceva una lotta su due livelli,
contro il fascismo e contro il mondo democratico e la socialdemocrazia, che riteneva
fosse espressione del mondo borghese. Il Partito comunista si organizza in questa fase
in opposizione all’antifascismo aventiniano, democratico, socialista riformista: ad
esempio crea a Milano nel 1927 una Confederazione del Lavoro clandestina in
opposizione a quella di Buozzi. Si trattarono di anni certo travagliati, anche tra i
comunisti italiani ed anche in riflesso delle lotte di potere in Russia che
accompagnarono la scalata di Stalin al potere. Ma con la guida di Togliatti i
comunisti si impegnarono in un intensa azione clandestina nella Penisola italiana,
dove operò un ”centro interno” che veniva puntualmente falcidiato dagli arresto della
polizia politica. In questa fase si tratta ancora di un partito rivoluzionario con numeri
molto limitati.
Nel fuoriuscitismo democratico bisogna citare la esperienza di Carlo Rosselli e di
“Giustizia e libertà”, che non voleva essere un nuovo partito che si aggiungeva ad
altri, ma un “movimento rivoluzionario” per la creazione di una unità d’azione fra
repubblicani, socialisti e democratici, “per la libertà, per la repubblica, per la giustizia
sociale”, ma proponendo un metodo più attivistico nei confronti di quello quasi
legalitario della Concentrazione. Era cioè un movimento che invocava un momento
insurrezionale, sorretto dal ricorso alle armi, ciò che, come dicevamo, lo opponeva
alla Concentrazione. Ovviamente, le differenze non riposavano soltanto sulle
strategie e sui metodi di lotta, c’era anche una differenza di programma: Vi era in
Rosselli un senso di ribellione e di disistima verso tutti i partiti del mondo dell’Italia
pre-fascista ed insieme anche una tendenza a superare le vecchie fratture, i miti, i
formalismi. Tuttavia GL non riuscì in questa operazione egemonica nei confronti dei
partiti già esistenti, si aprirono di contrasti con l’universo socialista, quando GL
venne accusata di proporsi come l’erede dei socialisti e così pure si aprirono dei
contrasti con i repubblicani. Contrasti che determinarono lo scioglimento della
Concentrazione nel 1934.
Tuttavia nell’ambiente dell’antifascismo in esilio hanno molta influenza le vicende
legate all’avvento di Hitler al potere, per il mutamento che si registra nella politica
dell’Unione Sovietica e per i riflessa che questa ha sul comportamento del Partito
comunista italiano.
Già nel luglio del 1930 i due tronconi del socialismo italiano, quello massimalista e
quello unitario si riunificano. Erano stati gli unitari a spingere in tal senso, perchè non
si poneva più il problema concreto della partecipazione o meno a governo in luogo di
un atteggiamento rivoluzionario. La comune sorte di esuli d un governo fascista
imponeva di superare tale contrapposizione e tra le altre cose il diverso atteggiamento
che i due tronconi del socialismo italiano avevano avuto nei confronti del PCI era
superata in vurtù degli attacchi violenti del PCI nei confronti del socialismo in questa
fase. Nel 1930 si dunque svolto il Congresso dell’unità socialista che aveva sancito la
riunificazione, sotto il nome del PSI. Anche in questo caso prevalse una soluzione di
compromesso, perché mentre si considerava l’insurrezione come “l’esercizio
inalienabile del proletariato di respingere le violenze delle classi dominanti contro
l’autonomia della classe lavoratrice”, il PSI si dichiarava democratico nel fine e nei
mezzi e aderiva alla Internazionale socialista. Ma qualche ano più tardi
l’atteggiamento mutò nuovamente. Morti Turati (1932) e Treves (1933) andò alla
guida del partito Nenni, in quale inaugura una decisa inversione di tendenza in
direzione dei comunisti, affermando che l’antifascismo poteva sussistere solo come
anticapitalismo. La libertà non basta più a garantire la giustizia sociale; ma essa può
essere salvata e garantita soltanto dal socialismo. Nel frattempo i partiti socialista e
comunista francese aveva stretto i primi accordi, come preludio dl Fronte Popolare: il
27 luglio 1934 i due partiti francesi stipularono un patto di unità d’azione e venti
giorni dopo, il 17 agosto, anche PSI e PCI firmarono un medesimo accordo.
Il 1936 che segna forse l’apice del consenso interno ed internazionale del fascismo
ebbe un significato ambivalente per l’antifascismo in esilio, perché se da una parte la
guerra d’Etiopia ne determinava una sconfitta, la guerra di Spagna segnò significò un
momento di significativo ravvicinamento tra tutte le componenti dell’antifascismo,
anche di quelle moderate. Mentre una nuova crisi si registrò con lo scoppio della
seconda guerra mondiale e soprattutto dall’accordo tedesco-sovietico del 1938 che
mise in discussione tutta l’impostazione dell’antifascismo in esilio, perché il Patto di
unità d’azione tra comunisti e socialisti era stato rinnovato nel 1937, mettendo in crisi
tutto l’antifascismo democratico e socialista che ovviamente disapprovava il
comportamento dei comunisti sovietici. Tra le altre cose la disfatta francese e
l’occupazione di gran parte del territorio francese favorì anche una dispersione della
organizzazione antifascista in Francia: molti dirigenti furono arrestati e ricondotti in
Italia o al confino; alcuni ripararono oltre Oceano ed altri, i comunisti, in Unione
Sovietica.
Negli anni della guerra si registra però una significativa ripresa dell’attività politica.
In questi anni avviene la riorganizzazione dei partiti politici:
DC
Rinacque un partito di ispirazione cattolica. I dirigenti erano in esilio (Sturzo) e
bisogna dire che qualsiasi attività sarebbe in qualche modo stata ricollegabile con la
Chiesa. Ora, i rapporti tra la Chiesa e il fascismo furono sostanzialmente buoni, sulla
scia dei Patti Lateranensi (1929). Il distacco si produce con il 1938 per la politica
mussoliniana di affiancamento al nazismo ed anche per la politica razziale. Qui si
apre la via a un inizio di azione politica del laicato cattolico, che, a differenza di
grandi partiti, aveva una tradizione organizzativa molto diffusa ed efficiente,
autonoma come quella della Azione Cattolica, con organismi attivi come la FUCI e il
Movimento dei laureati cattolici. Esistettero poi alcuni filoni molto attivi come quello
fiorentino di La Pira stretto attorno al giornale “Principi”, che si ricollegava alla
tradizione del cattolicesimo sociale (di sinistra) d’anteguerra di cui abbiamo parlato.
Era cioè per una restaurazione di una società cristiana mediante una applicazione
sociale dello spirito evangelico. Come il Movimento guelfo di Milano, fondato nel
1928 da Malvestiti, che fu la sola organizzazione clandestina cattolica che ebbe
finalità propagandistiche e che idealmente si ricollegava al movimenro
(intransigentista) di Don Albertario, movimento che fu stroncato nel 1933 con una
serie di arresti e di condanne, ma che rinacque nel 1938 divenendo la matrice della
ormai prossima organizzazione politica dei cattolici in Lombardia. A differenza dei
partiti e, tra le componenti dei moderati, tra le componenti moderate, ai popolari fu
facile gettare le basi del nuovo partito, grazie alla esistenza di un tessuto connettivo
mai esistente e mai morto durante il fascismo, quello dell’Azione Cattolica. E non è
un caso che il partito non adottasse la denominazione di Partito popolare italiano di
origini sturziane, ma quello di Democrazia Cristiana che si ricollegava al passato
murriano, un partito di rottura con la tradizione liberale ed in cui le componenti anti-
liberali e che invece si ricollegavano alla tradizione dell’intransigentismo “sociale”
erano maggioritarie.
Anche nel caso della DC è possibile parlare di una destra democristiana, che è
possibile individuare in due accezioni: esiste una componente dai caratteri
apertamente conservatori se non reazionari, che guarda al trinomio Dio, Patria,
Famiglia; fedelissima della Chiesa cattolica e che aveva appoggiato il fascismo in
funzione anti-socialista e che al momento del referendum istituzionale è monarchica.
Esiste poi una componente qualificabile di destra che è liberale, antifascista, che
accetta di confrontarsi con la democrazia di massa e con le sue regole,
Il centro democristiano è composto invece da un nucleo molto variegato di cattolici
antifascisti, chiamiamola un’area di mediazione tra le istanze di destra e quelle di
sinistra. Il leader indiscusso in questo caso è De Gasperi il quale è perfettamente
cosciente della importanza delle masse nella vita dello Stato, che devono essere
governate da élites capaci di costruire una democrazia stabile immune da nuove
derive totalitarie o autoritarie. De Gasperi è convinto della importanza dei partiti
politici, crede in questo strumento di organizzazione della politica, come canale di
comunicazione tra stato e società, come garanzia di partecipazione politica. Ha cioè
una visione pluralistica e dialettica del confronto politico, contro ogni ipotesi di
costruzione di un partito conservatore che agisce semplicemente sotto gli input della
Chiesa, che, nella situazione del tempo, si sarebbe inevitabilmente trasformato in un
partito reazionario.
La sinistra democristiana, che è quella di cui sopra, composta dai cristiano-sociali e
dai sindacalisti cattolici, converge con De Gasperi sulla necessità del pluralismo
politico, ma con presupposti ideologici differenti: l’obiettivo dei cristiano-sociali è
quello della costruzione di una società cristiana all’interno di uno Stato espressione
dei valori della religione. Si tratta di una posizione più confessionale e meno laica,
sebbene non antidemocratica. La fede religiosa viene vissuta è vero in maniera
integrale, come missione spirituale, sociale e politica, ma non esclude chi è
nell’errore, chi è lontano dalla parola di Dio. Vi è un atteggiamento più attivista nei
confronti della società, nel senso che i cattolici hanno il dovere di agire tra il popolo
per affermare gli ideali di libertà e di giustizia sociale, per il raggiungimento della
quale si assume un atteggiamento critico nei confronti del capitalismo. In questo
senso, c’è una tensione dialettica nei confronti del marxismo, che viene visto come
una messaggio assimilabile a quello cristiano, di riscatto sociale dei ceti da sempre
esclusi dalla storia. E quindi una sinistra democristiana che guarda già da ora ad un
confronto con l’elemento socialista: lasciare il campo aperto al cattolicesimo
conservatore, ai clerico-fascisti significherebbe lasciare il campo libero alla
diffusione della ideologia socialista tra le masse. L’impegno politico, per la sinistra
democristiana, è una testimonianza di fede e qui la figura da ricordare è quella di
Giuseppe Dossetti.
PLI. I liberali andarono a riorganizzarsi attorno al 1943 e lo fecero sotto impulso
della riorganizzazione del Partito d’azione, che voleva proporsi come l’erede del
liberalismo, come il vero e nuovo liberalismo. La presidenza del partito fu data a
Benedetto Croce, capo riconosciuto dell’antifascismo, ma al suo fianco si
riconoscevano un gruppo di giovani che tentarono di portare avanti una proposta
politica che nella sostanza era nuova, che non aveva paura di confrontarsi con la
democrazia di massa, che accettava definitivamente il partito come strumento di
organizzazione politica. Ma quale partito? La forma privilegiata era quella del Partito
d’opinione, che si ispirava ai principi alla cultura del liberalismo, che guardava al
Risorgimento e a tutta la storia unitaria italiana pre-fascista come elementi fondanti,
ispiratori della propria esistenza. Un partito articolato, diffuso sul territorio, ma
leggero e senza burocrazia; con una classe politica molto esperta perché aveva fatto le
sue prime prove nell’ultima fase di vita del regime liberale, alla quale si aggiungeva
un nucleo di uomini nuovi dotati di grande cultura, che aveva fatto le sue prove
soprattutto nel giornalismo, anche di regime, e nelle professioni liberali. Il partito
politico veniva accettato, ma certo non il partito visto come una “chiesa” o come una
“setta”. Veniva accettata una forma partito che preservasse quanto più possibile la
libertà individuale, in cui le posizioni di minoranza non solo potevano esistere, ma
venivano tutelate e soprattutto potevano sperare di diventare la maggioranza di
domani; un partito in cui era ammessa dunque la libera discussione e la dialettica
interna.
Pda Fu fondato a Roma nel luglio del 1942, anche se il nome, proposto da Mario
Vinciguerra, era stato scelto nel gennaio del 1943. Idealmente il nuovo partito si
ricollegava a Giustizia e libertà, ma vi confluivano vari filoni: i gruppi che avevano
partecipato alle iniziative rosselliane e che quindi si richiamavano al suo socialismo
liberale; poi i liberal-socialisti che facevano capo a Guido Calogero e Aldo Capitini;
alcuni nuclei originari del partito repubblicano ed un nucleo che invece si era formato
all’ombra dell’insegnamento di Benedetto Croce, come Omodeo, De Ruggerro,
Salvatorelli, La Malfa, Tino, Parri, Calamandrei, Battaglia, Comandini e altri. Si
trattava di un partito di punta dell’antifascismo non comunista che propugnava una
“rivoluzione democratica”, come la chiamavano, repubblicana, con programma
sociale ed economico molto spinto e radicale (nazionalizzazioni, redistribuzione,
fiscalismo progressivo, democrazia industriale). Nonostante il programma del 1942
richiamasse il programma di Rosselli del 1934, si trattava di enunciazioni che
riflettevano l’estremo eclettismo della compagine, con programma che andava da
posizioni liberali classiche a posizioni socialiste
PSI Del Partito socialista abbiamo già parlato, tuttavia bisogna ricordare che in
merito ad esso non mancavano atteggiamenti molto critici, dove si guardava con
sdegno alla tradizione pre-fascista, un atteggiamento che coinvolgeva anche il Psi,
per la sua incapacità di fronteggiare il fascismo, un atteggiamento speculare a quello
che avveniva nei confronti dei liberali. Un sintomo di questo stato d’animo fu la
creazione del MUP, il Movimento di Unità Proletaria creato da Lelio Basso a Milano
nel gennaio del 1943. Movimento di breve durata che confluì nel risorto PSI, a Roma,
determinandosi così il PSIUP, denominazione che durò sino al 1947. Quindi sono
riconoscibili tre nuclei: esponenti dl vecchio PSI, esponenti del MUP di Lelio Basso
ed un nucleo di giovani, soprattutto romani, che erano arrivati al socialismo
direttamente dai GUF. Quindi si può parlare di una compresenza di “vecchio” e
“nuovo” e di un confronto che si apre con la liberazione del territorio nazionale tra i
socialisti rimasti in Italia e i socialisti in esilio, tra i quali Nenni, che è colui che
realizza la fusione con il MUP, ai quali manca una perfetta conoscenza di cosa sia
stato il fascismo. Bisogna dire che il rinato Partito socialista ripropone le stesse
fratture interne che si erano registrate nel periodo pre-fascista: rimangono vive le due
anime, quella riformista e quella massimalista, alla quale si aggiunge a partire dal
1943 una terza componente “fusionista”, che spinge cioè per una riunificazione con i
comunisti. È possibile individuare all’interno del partito una destra (riformista), un
centro (massimalista), una sinistra (filo-comunista), ma da questo momento il
rapporto con il PCI sarà un elemento ineliminabile del socialismo italiano nel
secondo dopoguerra. La destra è l’erede del riformismo turatiano ed è guidata da
Saragat ed ha elaborato una visione di “umanesimo socialista” che di discosta dalla
dottrina marxista classica ed è estranea ovviamente al marxismo-leninismo dei
comunisti. In questa componente il rifiuto del metodo rivoluzionario e della dittatura
del proletariato in nome di un socialismo fondato sulle libertà democratiche la critica
nei confronti della rivoluzione del 1917 è radicale, al contrario di quello che avviene
per la maggioranza dei socialisti, per la quale la rivoluzione è ancora un mito. La
destra dunque oppone resistenza al patto di unità di azione con i comunisti,
inaugurato proprio da Nenni nel 1934: viene accettato soltanto in funzione della lotta
antifascista, suffragato da uno scenario internazionale che vede alleati USA, GB e
URSS. In altri paesi europei, come in Francia, abbiamo detto come si fosse giunti
anche prima ad un patto organico tra comunisti e socialisti e lo scioglimento della
Terza Internazionale – l’internazionale socialista – nel 1942 sembra preludere sembra
cementare il patto di unità. Alla fine della guerra la destra riformista comincerà a
contestare la politica nenniana, perché il patto con il PCI appare innanzitutto dannoso
al PSI. Vi è poi il grande problema della politica estera, rispetto alla quale la destra
socialista auspica un ancoraggio con l’Occidente, nonostante il “neutralismo” sia
l’orizzonte prevalente dei saragattiani.
Al centro troviamo dunque la tradizione massimalista, di cui Nenni è massima
espressione. In questa corrente i valori della democrazia sono acquisiti, anche se i
massimalisti non rinunciano ancora al verbalismo rivoluzionario. Il fascismo aveva
distrutto le libertà borghesi ritenute indispensabili alla crescita e all’ascesa al potere
delle classi lavoratrici, per cui andava restaurato l’ordine democratico. Vi è anche la
convinzione che lo stato socialista fosse incompatibile con un sistema dittatoriale
oppressivo delle liberatà individuali e collettivo come quello sovietico. Le
informazioni sulle purghe staliniane avevano aperto gli occhi ai dirigenti socialisti
italiani sin dal 1938, ma Nenni aveva un atteggiamento nei confronti del PCI
differente da quello di Saragat: l’URSS era lo stato della rivoluzione proletaria che
aveva contribuito in grande misura a combattere il nazismo e i comunisti sono visti
come partner naturali, “fisiologici” dei socialisti nella lotta anti-fascista. Nenni ha una
visione classista delle cose, per cui PSIUP e CI possono lottare insieme contro
l’egemonia borghese; l’abbattimento dello stato capitalistico rimane l’obiettivo finale
e la rivoluzione antifascista è vista come una tappa di questo percorso, così come
altra tappa è la costruzione di una Repubblica democratica. Uno scenario in cui è
possibile arrivare al socialismo senza bisogno di un salto rivoluzionario cruento.
Secondo Nenni sarebbe stato necessario costruire uno schieramento classista
maggioritario, un obiettivo che dunque andava perseguito attraverso l’unità delle
classi lavoratrici, da qui la necessità di marciare uniti al Pci. Nenni non si
preoccupava molto delle implicazioni ideologiche, ma si muoveva su considerazione
prevalentemente politiche: PCI e PSIUP insieme potevano raddoppiare il peso delle
sinistre in seno all’ schieramento dei partiti, un’occasione unica. Si trattava di una
considerazione puramente tecnica, ma non priva di schematismo e che infatti si
dimostrerà fallace, sicuramente per le sorti del Psi.
Per quanto riguarda la sinistra socialista, si tratta di una interpretazione estrema della
linea di Nenni. La base di questa sinistra interna è sempre il “ceppo massimalista” ,
ma la resistenza ha accentuato il rivoluzionarismo, per cui l’asse PCI-PSIUP era
ritenuto fondamentale per affermare il primato dei partiti di classe nello schieramento
anti-fascista. La sinistra socialista chiede una fusione tra PCI e PSIUP, ciò che il
centro nenniano non auspica. Ma sarà dall’alleanza tra centro nenniano e sinistra del
psiup che prenderà corpo l’idea di rinnovare il patto di unità d’azione con il Pci. Da
un punto di vista del modell di partito, il PSIUP si riorganizza come partito di
integrazione di massa, ma al momento della sua ricostituzione parte in svantaggio
rispetto a DC e PCI: la prima ha alle sue spalle il tessuto organizzativo facente capo
alla Chiesa cattolica, il secondo ha invece alla sue spalle il PCI. Bisogna poi
considerare che il fascismo aveva del tutto distrutto tutto l’apparato organizzativo di
cui disponeva il PSI prefascista, in primo luogo il sindacato, per cui nel 1943 si
doveva cominciare da zero, consapevole che certo le radici – quelle del socialismo
italiano storico – non erano state del tutto estirpate, ma con un concorrente in più,
cioè il PCI, che peraltro dimostra subito grande forza attrattiva, anche nei confronti di
tradizionale serbatoio socialista, e si propone subito con una struttura organizzativa
molto solida. Lo PSIUP avvia una fase di riorganizzazione intensa, affidandola a
Lelio Basso e Rodolfo Morandi, ma il partito non ha perso la caratteristica dl
pluralismo, con grande dialettica interna, libertarismo diffuso, ciò che vanifica ogni
tentativo di imporre una disciplina ferrea come avviene in casa comunista. Rimane
dominante il sistema delle correnti interne, quindi un modello che progressivamente
si allontanerà da quello originario di partito di integrazione di massa per avvicinarsi
semmai più a quello della DC.
Tornando al PCI, esso assume questo nome nel 1944, al rientro di Togliatti da Mosca,
quando si dà avvio ad una profonda trasformazione delle strutture organizzative e
della linea strategica del partito. Abbiamo avuto modo di vedere quali siano state le
caratteristiche organizzative del PcdI, rispetto al quale vale il principio che il partito
fosse più di un semplice strumento organizzativo e piuttosto il motore stesso della
rivoluzione. Bene anche quando, dopo il 1944, il partito comunista abbandona questo
modello per assumere la fisionomia di partito di integrazione di massa, questa
caratteristica originaria rimarrà e sarà destinata a perpetuarsi fino a tempi molto
vicini. Del partito nella clandestinità abbiamo fatto cenno, chiamando in causa il
carattere “cospirativo” della sua azione, che era azione, appunto clandestina, portata
avanti da piccole cellule autonome al capo delle quali stava un attivista di sicura fede,
un’azione molto limitata dal punto di vista della propaganda e della possibilità di
reclutamento, anche per ovvie ragioni di repressione da parte dell’OVRA. Qualche
dato: negli anni di più intensa attività clandestina l’organizzazione comunista era
arrivata a contare in tutta Italia circa 7000-8000 quadri attivi. Nel marzo del 1943 la
consistenza dei comunisti è stata calcolata in 5000 uomini. Con il ritorno di Togliatti,
dicevamo, nell’aprile del 1944, nel pieno della lotta contro il nazi-fascismo, quando i
comunisti, che sino ad allora all’interno del CCLN avevano sostenuto posizioni
repubblicane e ostili ad un governo nominato dal Re, riconoscono il governo
Badoglio su ordine di Stalin, si registra una nuova fase, caratterizzata dalla
costruzione del “partito nuovo” e dalla elaborazione della strategia della “democrazia
progressiva”, che sono due momenti interdipendenti. Con il “partito nuovo” Togliatti
vuole trasformare il partito di avanguardia rivoluzionario in partito di integrazione di
massa; la rivoluzione per la quale aveva lottato il PcdI è una ipotesi troppo lontana: si
può prepararla meglio, forse si possono affrettarne i tempi, ma al momento lo
scenario che si profila davanti agli occhi di Togliatti è quello di uno Stato
capitalistico retto da una democrazia borghese, che si avvarrà delle strutture classiche
di una liberal-democrazia. Lo strumento del partito rivoluzionario dunque non è più
idoneo, ma ci vuole uno strumento nuovo che permetta di confrontarsi con le
istituzioni democratiche e assicuri un radicamento dei comunisti in Parlamento. Il
partito di integrazione di massa assolve a questa funzione, anche grazie al
fiancheggiamento di una serie di organizzazioni collaterali (partigiani, unione donne
italiane, federazione giovanile comunista e poi il sindacato) che moltiplica la
presenza del PCI nel paese e non solo in parlamento. Il “partito nuovo” dunque come
strumento della democrazia progressiva, una formula, quella della democrazia
progressiva, che Togliatti aveva mutuato da Dimitrov, uomo di fiducia di Stalin, che,
come spiega Piero Craveri, designava non tanto una democrazia nel suo modello
classico di istituzione rappresentativa della volontà popolare, ma designava un
percorso politico, una sorta di democrazia finalizzata verso l’obiettivo di una società
nuova di tipo socialista, cioè una variante di transizione al socialismo. Avrete
certamente sentito parlare di “doppiezza” nella strategia politica di Togliatti, cioè un
rivoluzionario che agisce per vie parlamentari. Bene, c’è chi mette in dubbio che si
fosse realmente trattato di doppiezza, perché Togliatti non aveva mai messo in
discussione le premesse marxiste e leniniste del comunismo e sempre le pone a
fondamento dell’ideologia del partito italiano. Si trattava di un problema politico,
perché l’arrivo al potere per via rivoluzionaria del PPCI non era possibile né nel
breve, né nel medio periodo, per cui andava elaborata una peculiare linea di
“transizione” che prevedeva la pratica dei tradizionali strumenti della democrazia
rappresentativa, che anzi diventavano elementi di forza dell’azione comunista. Questa
consapevolezza convince Togliatti che il PCI non potesse porsi come strumento di
destabilizzazione del sistema e in questo senso agì a partire dal 1944 per tutti gli anni
seguenti, sebbene nel partito convisse un’anima che mai smise non soltanto di essere
e sentirsi rivoluzionaria, ma anche di agire in tal senso. Ma era veramente nuovo
questo partito?
Si e no. Il nuovo statuto viene approvato al V Congresso e il’art. 1 porta tutto il peso
della esperienza di quegli anni: “Il Partito comunista italiano è l’organizzazione dei
lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente per la distruzione di ogni
residuo di fascismo […]”. A parte l’ovvio richiamo all’antifascismo, vi è la
sottolineatura del carattere “nazionale” del comunismo italiano per lavoratori italiani,
ciò che stride con la realtà di un legame di ferro con l’URSS di Stalin. Di seguito si
legge che il PCI lotta “per la edificazione di un regime democratico e progressivo
[…] e poi che “il partito è una organizzazione unitaria, combattiva, retta da una
disciplina volontaria che impegna tutti i suoi membri ed è amministrata in modo
democratico dal Comitato centrale […]”. Si può notare un wording ben preciso che
richiama i principi di unitarietà, combattività, disciplina e centralizzazione, che sono
caratteri precipui del PCI e che possiamo dire erediti dal PCdI. Per quello che
riguarda l’aspetto ideologico, il “cambio di passo” è solo funzionale alla costruzione
di un partito di integrazione di massa, laddove l’adesione al marxismo-leninismo non
è più condizione di accesso al partito, pur rimanendo l’ideologia guida del partito.
L’art. in questione è il 2: “Possono iscriversi al partito comunista italiano tutti i
lavoratori onesti di ambo i sessi che abbiano raggiunto il 18° anno di età,
indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche.
Ogni membro del partito è tenuto ad accettare il programma politico e lo Statuto del
partito […] E in un altro articolo si specifica che tra i doveri di chi è membro del
partito vi è quello “di acquistare una sempre maggiore conoscenza dei classici del
marxismo-leninismo” . Quindi una volta ammessi si doveva abbracciare la fede
comunista, che rimaneva quella delle origini. In sede di dibattito congressuale non
tutti furono d’accordo con questa carattere di “apertura”, che era chiaramente
funzionale alla costruzione di un partito di massa. Martinelli in un suo studio del
1981 riporta l’intervento di un delegato il quale afferma: “Il solo ostacolo che finora
si è opposto all’entrata nel nostro partito di tutti questi elementi è consistito nel fatto
che essi hanno convinzioni filosofiche differenti dalle nostre. Aprendo le porte a
questi elementi noi rafforzeremo l’azione del nostro partito e non indeboliremo per
nulla la ideologia che sta alla sua base e cioè l’ideologia marxista-leninista, in quanto
la cosa essenziale in questo momento è di riuscire a mobilitare il più gran numero di
elementi sinceramente democratici progressivi per la realizzazione della nostra
politica e di non fare del nostro partito un’accademia dove si dibattono questioni
filosofiche”. Una posizione ben chiara, funzionale ad un progetto di costruzione di un
partito di massa. Per il resto viene ribadito il sistema del “centralismo democratico”,
sebbene la formulazione sia diversa rispetto a quella del 1926. Si stabilisce per
esempio che “tutti gli organi dirigenti e i singoli membri e i singoli membri sono
sempre revocabili per decisione di coloro che li hanno investiti del loro mandato”, ciò
che non si verificò mai; inoltre nello statuto del V congresso si parla di minoranza e
maggioranza, ma in questi termini: “la minoranza deve accettare e applicare le
decisioni democraticamente prese dalla maggioranza con deliberazione regolare”. Per
quanto riguarda la struttura organizzativa nel suo complesso, lo Statuto stabilisce che
il partito è organizzato in cellule, sezioni e federazioni provinciali. Queste ultime
possono essere organizzate in federazioni regionali autonome, per decisione del
Comitato centrale. Quindi anche in questo caso una assoluta continuità con il passato
ma in un quadro in cui assume maggiore importanza la “sezione” e questo sempre
perché funzionale alla costruzione di un partito di massa, laddove appunto “la
sezione” è il nucleo di base della organizzazione territoriale di un partito di
integrazione di massa, sul modello socialista. Rispetto alla cellula, la sezione ha il
vantaggio di far riferimento ad una precisa porzione di territorio e di disporre di una
sede, che si rivelerà, come rileva Martinelli, un fattore strutturale importantissimo in
tempi di democrazia, ciò che determinerà il prevalere della sezione sulla cellula. Gli
storici di parte comunista sottolineano il carattere di rottura nei confronti del passato:
“un mutamento profondo della concezione stessa del partito che, pur ricollegandosi al
passato, ribalta sostanzialmente la vecchia impostazione terzinternazionalista del
rapporto tra organizzazione e politica” – dice Martinelli con la restituzione del
primato alla politica a scapito della organizzazione.
Storici di impostazione più laica invece mettono in evidenza i caratteri di continuità e
la “permanenza nel PCI del ’44 di alcune fondamentali caratteristiche del vecchio
partito avanguardista”: struttura piramidale assai rigida che ha al suo vertice un
segretario dotato di poteri e autorità intangibili. Anche se guardiamo alla
composizione del gruppo dirigente ci accorgiamo di una assoluta continuità: la
direzione è composta da affiliati al vecchio PCdI; i quadri intermedi sono stati
composti per anni da rivoluzionari professionisti, che sino poi forgiati nella
clandestinità, nella guerra partigiana, che garantiscono obbedienza cieca al partito.
Oltre al sistema del “centralismo democratico” non è da trascurare il fatto che al
meccanismo per la selezione e il rinnovamento dei quadri dirigenti si affianca un
sistema di cooptazione dall’alto che si inserisce in un quadro dal carattere
chiaramente autoritario. Non dimenticando che il tasso di ricambio ai livelli di vertici
è praticamente nullo. In questa situazione ogni diversificazione destra-centro-sinistra
è impossibile; non possono esistere fratture o correnti, anche se è visibile una
dialettica interna tra vecchio e nuovo, tra i fedelissimi della rivoluzione e i fautori del
metodo della democrazia progressiva, anche se nelle primissime battute questa
diversificazione non incide sulla unitarietà della linea politica mantenuta dal PCI e
garantita dal suo leader Togliatti, che, non dimentichiamolo, era stato uno dei
fondatori del PCdI.
Tra i partiti minori non bisogna dimenticarsi del Partito repubblicano, che era l’erede
del “mazzinianesimo”, quindi un partito con una grande storia alle spalle ed anche
con una storia organizzativa solida, assolutamente non paragonabile a quella del Pli,
ma semmai a quella socialista, visto che, come noi sappiamo, il Partito repubblicano
si dota di un primo statuto nel 1897. È un partito che si rifà a Mazzini, quindi un
partito progressista e democratico e che vede la monarchia come l’ostacolo maggiore
allo sviluppo democratico dell’Italia pre-fascista. Come abbiamo visto, durante il
ventennio sono su posizioni di intransigente anti-fascismo, ma soprattutto in esilio:
Randolfo Pacciardi era stato uno degli esponenti di spicco del PRI che aveva avuto
un ruolo di primo piano nella direzione delle Brigate internazionali negli anni della
guerra civile in Spagna. Tuttavia deve confrontarsi con la concorrenza del Partito
d’Azione, con il quale i rapporti non sono buoni, un po’ come con i liberali. Inoltre,
la pregiudiziale anti-monarchica li tiene fuori dal CLN, ciò che in un primo tempo li
penalizza. Il PRI accetta di collaborare e dunque entra nell’agone politico
dell’antifascismo istituzionale soltanto nel 1946 dopo la vittoria della Repubblica al
referendum istituzionale. Ed assumono una posizione che è subito di disponibilità alla
collaborazione con le sinistre di PCI e PSI, ciò che distingue nettamente il loro
atteggiamento da quello dei liberali. Un atteggiamento che comunque sarà destinato a
mutare con l’avvento della Guerra Fredda, quando questo entusiasmo per i partiti di
sinistra andrà scemando e i repubblicani diventeranno uno dei pilastri del centrismo
degasperiano.
Bisogna poi menzionare un altro partito destinato a scomparire che ebbe un grande
ruolo nel periodo della transizione repubblicana: il Partito democratico del lavoro. Si
tratta di un partito a struttura notabilare, di rappresentanza individuale, radicato
soprattutto al sud. Da un punto di vista della cultura, si tratta del tentativo di un
connubio tra liberal-democrazia e socialriformismo; con una classe politica composta
soprattutto da ex deputati aventiniani, quindi con un solido passato di antifascismo e
prevalentemente monarchici. La fortuna del Pdl è legata soprattutto ai suoi
leader:sarà infatti il partito che esprimerà il primo capo di un governo antifascista e
democratico a partire dalla liberazione di Roma e cioè Ivanoe Bonomi. Bonomi nella
fase finale del regime liberale aveva tentato di creare assieme a Giovanni Amendola
un fronte di opposizione democratico-borghese al fascismo, non riuscendovi. Il Pdl
vorrebbe riproporre un progetto analogo: l’idea era quella di un partito dei ceti medi,
democratico, antifascista, che privilegiava il Meridione d’Italia come area della
propria azione politica. Come dicevamo ebbe vita breve, perché nel 1946 il partito si
dissolse ed i suoi componenti raggiunsero prevalentemente il Pli, che era il partito
ideologicamente e strutturalmente più vicino.
Antipartitismo
Si può senza dubbio affermare che l’antipartitismo della Repubblica sia vecchio
quanto la Repubblica. Perché parallelamente, contemporaneamente alla strutturazione
del sistema dei partiti “antifascisti”, si sviluppano una serie di movimenti che a quel
sistema si oppongono. Si diffonde la sensazione che in fondo si stesse assistendo ad
un passaggio in continuità tra un regime fondato sulla pervasività del partito unico ed
un regime fondato sui partiti del cln che andavano sempre di più invadendo il campo
delle istituzioni che progressivamente venivano ripristinate e non solo.
A dire il vero in casa liberale, tradizionalmente vicina alle tematiche della
insofferenza nei confronti dei partiti, si era sviluppato un dibattito che aveva messo in
guardia sui rischi di creare dei “mostri” (i partiti) e di conseguenza di edificare
un’Italia fondata sui “mostri”. Panfilo Gentile, intellettuale liberale e uomo di partito,
fu uno dei primi ad occuparsi del problema e proprio uno dei suoi primi articoli
sull’organo di stampa Pli è un intervento nettamente a difesa dei partiti politici, visti
come manifestazioni della riconquistata libertà e del pluralismo. Un vero e proprio
“peana” di una nascente democrazia fondata sui partiti, che va messo in evidenza sia
perché Gentile negli anni a venire diventerà uno dei critici più acuti della
partitocrazia, sia per la precocità con la quale viene affrontato l'insorgente fenomeno
qualunquista. Gentile sottolinea e stigmatizza l'insofferenza, lo scetticismo, il
pessimismo dell' “uomo della strada” – che è un altro modo per chiamare l’Uomo
Qualunque, o perché c’erano troppi giornali o troppi partiti o perché i “politicanti”
facevano troppe chiacchiere, o perché “ritardava di dodici ore la formazione del
governo nazionale”. Questo atteggiamento per Gentile non era altro che un “residuo
di mentalità fascista e schiavistica”, di abitudine “all'uniformità coattiva del pensiero
politico” per cui molti provavano “un senso di smarrimento e di paura dinanzi alla
varietà delle opinioni, alla libertà della discussione, alla divisione dei partiti e all'urto
delle competizioni”.
Tuttavia, anche in questo caso, non mancavano le riserve. Il problema vero era: quali
partiti? E qui Gentile, in un articolo pubblicato qualche settimana dopo, era pronto a
cambiare registro, a riconoscere che nella diffidenza dell' “uomo della strada” vi fosse
un “ragionevole fondamento” che andava preso in considerazione. L'intellettuale
abruzzese si ricollegava alla critica al partito ideologico già presente nella cultura
liberale e democratica italiana ed in particolare a quella di Gaetano Salvemini, che
nel 1911 coll'Unità a Firenze – scriveva Gentile - si fece iniziatore di un movimento
inteso appunto se non a sovvertire le formazioni storiche dei partiti, perlomeno a
mettere in primo piano i problemi concreti che erano allora all'ordine del giorno della
vita nazionale. Non si voleva negare l'esistenza ai partiti ideologici, ma si avvertiva
che “le passioni ideologiche esercitano talvolta impressioni prepotenti che fanno
smarrire il senso della realtà circostante, ottundono la chiaroveggenza dei bisogni
urgenti e immediati, portano a divagare lontani dalle esigenze concrete e dai dati
imperiosi del momento”. Riguardo all'esistenza di “questi” partiti, Gentile alla fine
assolveva il cosiddetto “uomo della strada”, che è sempre in una posizione
privilegiata, perché intuisce la situazione e diventa un «giudice severo dei partiti»
pensando che questi appunto dimenticano gli interessi sostanziali del paese. Gentile
difendeva l'opera che i partiti avevano sino ad allora esercitato, ben coscienti della
tragicità della situazione, riconosceva la fattiva collaborazione ciellenistica che aveva
portato alla formazione del governo Bonomi, ma ammoniva tutti coloro che andavano
“irregimentandosi” nei vari partiti a considerare “l'uomo della strada” come “un utile
punto di riferimento” , cioè a non “disprezzarne troppo le critiche e gli
ammonimenti”. Si tratta di una posizione di grande interesse, se si considera,
ripetiamo, l'insorgente fenomeno dell'Uomo Qualunque – il giornale sarà lanciato da
Guglielmo Giannini qualche mese dopo, nel dicembre del 1944 – e soprattutto il
totale disinteresse dei partiti di massa nei confronti di questo fenomeno, preoccupati
soltanto delle proprie posizioni. Il Qualunquismo fu un movimento appunto legato al
nome di Guglielmo Giannini, un commediografo e giornalista dotato di molto estro e
un fustigatore della “nuova” Italia: si tratta di un movimento di insofferenza nei
confronti del potere, visto come estraneo o peggio visto come oppressore della gente
comune, indifesa, dell’ “uomo qualunque” appunto, vittima degli abusi dei
dominatori qualunque essi siano, fascisti o antifascisti. Si tratta di una polemica
diffusa contro il nuovo ceto politico, che è accusato di essere la causa di tutti i mali
del presente e certamente non migliore del precedente. Qualche storico – così come
d’altronde lo stesso Panfilo Gentile - avverte nel qualunquismo un “fascismo di
fondo”, ma esiste anche chi vede in questo fenomeno un “liberalismo di fondo”, cioè
una naturale avversione verso forme politiche divenute così pervasive come i partiti
politici, che agivano sulla base di una pretesa di legittimità, in un contesto,
ricordiamolo, in cui ancora non erano state ripristinata le forme minime di una
liberal-democrazia, cioè non si votava nemmeno e ciò sino al 1946. È molto
indicativo come il simbolo riportato nella testata dell’omonimo giornale “L’Uomo
Qualunque” era quello di un cittadino comune schiacciato dal torchio delle tasse.
Dunque il rifiuto del professionismo politico in nome di una radicale
“depoliticizzazione” delle istituzioni statuali, un programma che veniva compendiato
nella formula dello Stato amministrativo. Ha scritto Capozzi che si trattava di una
ideologia provocatoriamente anti-ideologica che comprendeva la politica entro due
poli: una società civile formata da individui indipendenti in grado di autogovernarsi e
una struttura istituzionale retta da un personale scelto in base a competenze tecniche.
Quale sarebbe stato allora il ruolo della classe politica? Quello di un buon ragioniere,
cioè un mandato a termine, limitato al compito e alieno da qualsiasi missione di
trasformazione della società. Quindi non una fidelizzazione dottrinaria ma una
competenza tecnica.
La componente prevalente dell’UQ, che è maggioritariamente monarchica, è ceto
medio; il movimento si sviluppa prevalentemente nel Mezzogiorno d’Italia; un
movimento che cresce progressivamente tra il 1944 e il 1947 e che alle prime
consultazioni elettorali raggiunge quasi il 6%, con risultati lusinghieri anche nelle
ammnistrative del 1945.
Neofascisti
Il movimento neo-fascista prende corpo a guerra non ancora ultimata nel
Mezzogiorno d’Italia e si compone di diversi gruppi e gruppuscoli in collegamento
più o meno diretto con il Mezzogiorno d’Italia. Di cosa si alimenta questo anti-
fascismo: innanzitutto dell’odio/insofferenza nei confronti degli Alleati, che
avrebbero a loro dire offeso il senso della patria, l’onore e l’orgoglio nazionale, e qui
a dire il vero cavalcando un tema che riscuote un certo consenso, perché gli “Alleati”
agiscono come dei vincitori, poco sensibili alle richieste di autonomia degli ambienti
governativi italiani; i neo-fascisti sono anche contro il re, che ha tradito la parola
data; contro gli antifascisti perché sono asserviti alle potenze straniere e sono agenti
diretti del comunismo sovietico. Questi temi trovano conforto nel sotto-proletariato
che ha abbandonato le campagne e si è ritrovata nelle grandi città distrutte dalla
guerra; nei giovani della piccola borghesia, che i genitori hanno avviato all’università
ma il cui futuro è incerto; nei ragazzi in età di leva che la cobelligeranza dopo la
guerra ha costretto ancora alla guerra. A quale fascismo guardano? Non c’è alcun
rimpianto per il vecchio fascismo-regime, reazionario, monarchico e clericale, mentre
a trascinarli è il mito del fascismo rivoluzionario, totalitario, populistico che cerca di
incarnare la Repubblica di Salò sotto la protezione degli eserciti nazisti. Quindi una
sorta di ritorno alla purezza delle origini del fascismo repubblicano e rivoluzionario.
L’ideologia è dunque anti-democratica e la violenza viene invocata come strumento
di azione politica: si tratta dunque di un movimento eversivo che ne riduce l’azione
nel nuovo ordine anti-fascista. Rispetto a questo “momento” organizzativo, che
assume rilievo soprattutto di ordine pubblico, vi è poi il Movimento Sociale Italiano,
che costituisce il nucleo più solido di neo-fascismo, guidato da Giorgio Almirante,
che è un ex militante della Repubblica di Salò, il quale riesce a coagulare attorno alla
sua organizzazione i molti gruppuscoli di neofascisti, elabora una strategia di lotta e
un ceto politico in grado di raccogliere consensi per entrare in Parlamento. Si tratta di
un fenomeno che ha una duplice veste: esiste un fascismo di doppio petto, “costretto”
a misurarsi che le istituzioni liberal-democratiche, con la democrazia parlamentare.
Ed esiste un neo-fascismo che non ha mai smesso la “camicia nera”. Una duplice
dimensione che costituisce un po’ la forza del neofascismo: azione parlamentare e
neo-squadrismo nel paese. L’avversario privilegiato è , diventa la sinistra di classe e
si tratta di un reclutamento che tende conquistare consensi su piani differenti: mentre
l’ala legalitaria punta a conquistare consensi nei ceti d’ordine, nostalgici del passato,
che hanno paura del presente ed in questo caso il primo risultato è quello di svuotare
proprio l’Uomo Qualunque; l’ala eversiva invece guarda maggiormente ai settori
della protesta giovanile e sottoproletaria che i partiti di classe non riescono a
convogliare nelle loro file.
L’Uomo Qualunque infatti scompare nel 1947-48 (ma non scompare
l’antipartitismo), mentre il MSI comincia in questa fase la sua parabola che è
ascendente e che lo porterà a radicarsi nel paese e nel sistema politico come forza
permanente, con un percorso elettorale oscillante, ma grosso modo con percentuali
comprese tra il 5% e il 7% e con punte massime fino al 9%, laddove l’area del
maggior consenso elettorale è il meridione d’Italia, ma al contrario del Qualunquismo
si diffonde in tutta Italia. Si apre dunque subito il problema della incostituzionalità
del MSI, problema agitato soprattutto dalle sinistre e con mosso su basi fondate, visto
che poi in Costituzione si arriverà al divieto di ricostituzione del partito fascista.
Tuttavia ad una messa al bando “legale” non si arriverà mai.
Secondo alcuni storici si forma dunque una destra che assume un atteggiamento
“sleale” nei confronti della nuova Italia antifascista e democratica.
I monarchici
A questa destra appartengono anche i monarchici, di varia gradazione, che sono
presenti nel panorama politico italiano sin dalla caduta del fascismo. Anche sulla
storia delle organizzazioni monarchiche, come abbiamo detto, è stato calato un velo
di silenzio. Non bisogna invece dimenticare che tra i monarchici vi sono stati sinceri
anti-fascisti, che hanno operato concretamente per la caduta di Mussolini e poi che si
sono opposti alla occupazione nazista. Ma al di là di questo, è abbastanza evidente
che il passato monarchico non poteva essere tanto facilmente dimenticato: tra i
soggetti monarchici ve ne erano alcuni che erano anche di dichiarato programma
democratico e progressista. Il Partito Democratico Italiano per esempio era uno di
questi, ma su questi partiti grava il discredito nei confronti della monarchia a causa
delle sue responsabilità per la connivenza con il fascismo e per la tragedia della
guerra. Ovviamente, il referendum istituzionale che si terrà il 2 giugno 1946 segna la
fine della rilevanza politica dei gruppi monarchici, sebbene essi continuino a vivere
anche dopo il referendum del 1946.
Qui si apre il grande problema della “destra” nell’Italia repubblicana. Un paradosso
con il quale si sono confrontati alcuni storici ed in particolare Roberto Chiarini, negli
ultimi anni, il quale ha riflettuto sull’esistenza di un elettorato che è sostanzialmente
di destra ma che di volta in volta sceglie opzioni differenti nella impossibilità di una
destra “presentabile”. Altri storici hanno messo in evidenza come nel voto neo-
fascista e monarchico albergassero sentimenti di insofferenza al sistema dei partiti
nato dall’antifascismo, almeno prima che poi l’MSI avesse una caratterizzazione più
definita. Rispetto ai gruppi monarchici e ai qualunquisti l’interlocutore ideale sarebbe
stato il PLI, che avrebbe potuto porsi come partito di riferimento. Ma una serie di
motivi lo impedirono: il PLI era un partito schiettamente anti-fascista che in seno al
CLN aveva giocato un ruolo di primo piano ed al suo interno convivevano diverse
anime, tra le quali alcune che erano dichiaratamente repubblicane. Ma più che il
discrimine monarchia/repubblica, fu quello fascismo/antifascismo a determinare una
condotta ondivaga del PLI, che non volle inizialmente avere nulla a che fare con i
qualunquisti e con i monarchici. A partire dal 1945 si assiste però all’interno del
partito una reazione nei confronti di un sistema che va sbilanciandosi a sinistra: pur
ribadendo la propria connotazione di centro, il PLI vara una strategia dell’attenzione
nei confronti di ciò che sta alla sua destra, escluso il neo-fascismo. Nel 1946, dopo le
deludenti elezioni per la Costituente in occasione delle quali i liberali si presentano
con la formula dell’UDN, si giunge ad una fusione dei monarchici di Selvaggi con il
PLI ciò che costituisce il primo passo di un alleanza che coinvolgerà anche i
qualunquisti. Tra la fine del 1946 e gli inizi del 1947 la segreteria del Partito passa
alla destra di Lucifero che vara una strategia di intesa comune con i monarchici e i
qualunquisti che porterà alla formazione del Blocco Nazionale per le elezioni del
1948, che si rivelerà un totale insuccesso. Da allora ogni ipotesi di intesa a destra
venne sempre evitata.