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I partiti e l’antifascismo. Antifascismo in patria/antifascismo all’estero. I partiti politici nella transizione repubblicana. Abbiamo detto come l’emanazione delle leggi fascistissime segna la fine della vita democratica, la soppressione delle principali libertà costituzionali, la fine dei partiti (1926). Le correnti politiche che si opponevano al fascismo continuarono però a vivere. Rispetto a ciò si riconoscono due grandi filoni, quello dell’antifascismo in esilio e quello dell’antifascismo in patria, che non fu meno rilevante di quello all’estero. Ma andiamo con ordine. Per quanto riguarda l’emigrazione politica, Morandi parla di due fasi: una prima fase che definisce popolare, numerosa, anonima, che si svolge tra il 1923 e il 1924, quando si registrano circa 400.000 emigranti in entrambi gli anni, una cifra maggiore rispetto a quella degli anni precedenti. Emigrazione anonima, abbiamo detto, che si confondeva con quella dettata da motivi di lavoro, ma in seno alla quale si riconoscevano anche sindacalisti, elementi politicizzati di medio e basso livello, piccoli organizzatori, che abbandonarono il paese per paura di perdere le posizioni prese, per mettere al riparo se stessi e le proprie famiglie, nel rifiuto della ideologia e di metodi fascisti. Fu una emigrazione importante, perché ostacolò la penetrazione del fascismo tra gli italiani all’estero, un obiettivo cui pure il regime lavorò alacremente. Una seconda fase fu invece caratterizzata dall’espatrio di elementi di rilievo , riconducibili soprattutto ai partiti di sinistra. Non mancarono anche elementi moderati: Nitti fu uno dei principali obiettivi del fascismo, ma anche Sforza, Sturzo furono tra i primi a varcare il confine. Giovanni Amendola, il leader liberal- democratico dell’Aventino, cioè colui che promosse la riunione delle opposizioni del 26 giugno 1924 in cui si decideva di abbandonare i lavori parlamentari fino a quando il governo non avesse chiarito la propria posizione in ordine alla scomparsa di Giacomo Matteotti e che nell’autunno del 1924 aveva promosso la fondazione della

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I partiti e l’antifascismo. Antifascismo in patria/antifascismo all’estero. I partiti

politici nella transizione repubblicana.

Abbiamo detto come l’emanazione delle leggi fascistissime segna la fine della vita

democratica, la soppressione delle principali libertà costituzionali, la fine dei partiti

(1926). Le correnti politiche che si opponevano al fascismo continuarono però a

vivere. Rispetto a ciò si riconoscono due grandi filoni, quello dell’antifascismo in

esilio e quello dell’antifascismo in patria, che non fu meno rilevante di quello

all’estero. Ma andiamo con ordine. Per quanto riguarda l’emigrazione politica,

Morandi parla di due fasi: una prima fase che definisce popolare, numerosa, anonima,

che si svolge tra il 1923 e il 1924, quando si registrano circa 400.000 emigranti in

entrambi gli anni, una cifra maggiore rispetto a quella degli anni precedenti.

Emigrazione anonima, abbiamo detto, che si confondeva con quella dettata da motivi

di lavoro, ma in seno alla quale si riconoscevano anche sindacalisti, elementi

politicizzati di medio e basso livello, piccoli organizzatori, che abbandonarono il

paese per paura di perdere le posizioni prese, per mettere al riparo se stessi e le

proprie famiglie, nel rifiuto della ideologia e di metodi fascisti. Fu una emigrazione

importante, perché ostacolò la penetrazione del fascismo tra gli italiani all’estero, un

obiettivo cui pure il regime lavorò alacremente.

Una seconda fase fu invece caratterizzata dall’espatrio di elementi di rilievo,

riconducibili soprattutto ai partiti di sinistra. Non mancarono anche elementi

moderati: Nitti fu uno dei principali obiettivi del fascismo, ma anche Sforza, Sturzo

furono tra i primi a varcare il confine. Giovanni Amendola, il leader liberal-

democratico dell’Aventino, cioè colui che promosse la riunione delle opposizioni del

26 giugno 1924 in cui si decideva di abbandonare i lavori parlamentari fino a quando

il governo non avesse chiarito la propria posizione in ordine alla scomparsa di

Giacomo Matteotti e che nell’autunno del 1924 aveva promosso la fondazione della

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“Unione nazionale delle forze liberali e democratiche”, che condusse forse l’ultima

battaglia democratica contro il fascismo alle amministrative del 1925 morì esule a

Cannes nell’aprile del 1926 per i postumi di una aggressione subita nell’estate

precedente . E così Piero Gobetti, il propugnatore della “Rivoluzione liberale” si era

spento giovanissimo a Parigi nel febbraio del 1926. Ma per la gran parte degli

esponenti del mondo liberale e democratico, a parte questi personaggi, seppure

eminenti, si può parlare di un antifascismo in patria (non di fascismo tout court?).

Benché non si potessero registrare dei momenti di organizzazione di movimenti o

fenomeni di aperta opposizione al regime, ciò che d’altronde in un regime totalitario

non è possibile, si trattò piuttosto di una resistenza morale al fascismo, di un’opera di

corrosione lenta del regime, di preparazione in attesa che il regime crollasse. Il leader

di questa opposizione fu senza dubbio Benedetto Croce ed è da 1936 in poi che il

“movimento” dell’antifascismo in patria comincia ad interrogarsi sul da farsi.

Per quanto riguarda l’antifascismo all’estero, il nucleo vero fu costituito dai dirigenti

dei partiti di sinistra. Si riconoscevano alcune posizioni isolate, come quelle di

Gaetano Salvemini, che era stato costretto ad espatriare nel 1925 dopo le vicende del

gruppo antifascista fiorentino del “Circolo di cultura” e del giornale “Non mollare” di

Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi.

Il grosso del movimento socialista espatriò nel 1926, dopo il giro di vite seguito

all’attentato a Mussolini, allo scioglimento dei partiti democratici ed ala

proclamazione di decadenza dei deputati aventiniani. Si riconosce un grosso nucleo

di esponenti socialisti, afferenti al Partito socialista o al Partito socialista unitario di

Turati e Treves, cioè al gruppo riformista che aveva creato un proprio partito nato alla

vigilia della marcia su Roma, quando nel congresso dell’ottobre del 1922 i

massimalisti e i terzinternazionalisti avevano espulso i riformisti; poi c’erano i

repubblicani e i componenti della Confederazione Generale del lavoro (quindi Turati,

Treves, Modigliani, Saragat tra i componenti del PSU; Nenni che era un

massimalista; Chiesa, Facchinetti, Pacciardi, Reale tra i repubblicani; Buozzi tra i

sindacalisti, che era comunque un riformista). Il centro di questa emigrazione fu

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soprattutto Parigi ed è proprio in Francia che nel 1927 sorse una “Concentrazione di

azione antifascista” che segna, nella comune tensione alla opposizione nei confronti

del fascismo, un riavvicinamento tra le diverse componenti, comprese PSI e PSU che

invece erano state divise, come sappiamo, da motivi ideologici e di strategia politica,

sebbene non mancassero le divergenze già in questa fase.

Per quanto riguarda il Partito comunista, si può dire che in quegli anni fu più un

partito “cospirativo” che “emigrato”, che si era dotato di una organizzazione

clandestina ramificata ed efficiente, sebbene operasse in una posizione isolata senza

un contatto con gli altri partiti: il Pci si era opposto alla Concentrazione che giudicò

una “combinazione politica di ispirazione massonica”. Si trattava ovviamente di una

posizione rigidamente classista, settaria, che si ricollegava al comunismo

internazionale, il quale, non bisogna dimenticare, conduceva una lotta su due livelli,

contro il fascismo e contro il mondo democratico e la socialdemocrazia, che riteneva

fosse espressione del mondo borghese. Il Partito comunista si organizza in questa fase

in opposizione all’antifascismo aventiniano, democratico, socialista riformista: ad

esempio crea a Milano nel 1927 una Confederazione del Lavoro clandestina in

opposizione a quella di Buozzi. Si trattarono di anni certo travagliati, anche tra i

comunisti italiani ed anche in riflesso delle lotte di potere in Russia che

accompagnarono la scalata di Stalin al potere. Ma con la guida di Togliatti i

comunisti si impegnarono in un intensa azione clandestina nella Penisola italiana,

dove operò un ”centro interno” che veniva puntualmente falcidiato dagli arresto della

polizia politica. In questa fase si tratta ancora di un partito rivoluzionario con numeri

molto limitati.

Nel fuoriuscitismo democratico bisogna citare la esperienza di Carlo Rosselli e di

“Giustizia e libertà”, che non voleva essere un nuovo partito che si aggiungeva ad

altri, ma un “movimento rivoluzionario” per la creazione di una unità d’azione fra

repubblicani, socialisti e democratici, “per la libertà, per la repubblica, per la giustizia

sociale”, ma proponendo un metodo più attivistico nei confronti di quello quasi

legalitario della Concentrazione. Era cioè un movimento che invocava un momento

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insurrezionale, sorretto dal ricorso alle armi, ciò che, come dicevamo, lo opponeva

alla Concentrazione. Ovviamente, le differenze non riposavano soltanto sulle

strategie e sui metodi di lotta, c’era anche una differenza di programma: Vi era in

Rosselli un senso di ribellione e di disistima verso tutti i partiti del mondo dell’Italia

pre-fascista ed insieme anche una tendenza a superare le vecchie fratture, i miti, i

formalismi. Tuttavia GL non riuscì in questa operazione egemonica nei confronti dei

partiti già esistenti, si aprirono di contrasti con l’universo socialista, quando GL

venne accusata di proporsi come l’erede dei socialisti e così pure si aprirono dei

contrasti con i repubblicani. Contrasti che determinarono lo scioglimento della

Concentrazione nel 1934.

Tuttavia nell’ambiente dell’antifascismo in esilio hanno molta influenza le vicende

legate all’avvento di Hitler al potere, per il mutamento che si registra nella politica

dell’Unione Sovietica e per i riflessa che questa ha sul comportamento del Partito

comunista italiano.

Già nel luglio del 1930 i due tronconi del socialismo italiano, quello massimalista e

quello unitario si riunificano. Erano stati gli unitari a spingere in tal senso, perchè non

si poneva più il problema concreto della partecipazione o meno a governo in luogo di

un atteggiamento rivoluzionario. La comune sorte di esuli d un governo fascista

imponeva di superare tale contrapposizione e tra le altre cose il diverso atteggiamento

che i due tronconi del socialismo italiano avevano avuto nei confronti del PCI era

superata in vurtù degli attacchi violenti del PCI nei confronti del socialismo in questa

fase. Nel 1930 si dunque svolto il Congresso dell’unità socialista che aveva sancito la

riunificazione, sotto il nome del PSI. Anche in questo caso prevalse una soluzione di

compromesso, perché mentre si considerava l’insurrezione come “l’esercizio

inalienabile del proletariato di respingere le violenze delle classi dominanti contro

l’autonomia della classe lavoratrice”, il PSI si dichiarava democratico nel fine e nei

mezzi e aderiva alla Internazionale socialista. Ma qualche ano più tardi

l’atteggiamento mutò nuovamente. Morti Turati (1932) e Treves (1933) andò alla

guida del partito Nenni, in quale inaugura una decisa inversione di tendenza in

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direzione dei comunisti, affermando che l’antifascismo poteva sussistere solo come

anticapitalismo. La libertà non basta più a garantire la giustizia sociale; ma essa può

essere salvata e garantita soltanto dal socialismo. Nel frattempo i partiti socialista e

comunista francese aveva stretto i primi accordi, come preludio dl Fronte Popolare: il

27 luglio 1934 i due partiti francesi stipularono un patto di unità d’azione e venti

giorni dopo, il 17 agosto, anche PSI e PCI firmarono un medesimo accordo.

Il 1936 che segna forse l’apice del consenso interno ed internazionale del fascismo

ebbe un significato ambivalente per l’antifascismo in esilio, perché se da una parte la

guerra d’Etiopia ne determinava una sconfitta, la guerra di Spagna segnò significò un

momento di significativo ravvicinamento tra tutte le componenti dell’antifascismo,

anche di quelle moderate. Mentre una nuova crisi si registrò con lo scoppio della

seconda guerra mondiale e soprattutto dall’accordo tedesco-sovietico del 1938 che

mise in discussione tutta l’impostazione dell’antifascismo in esilio, perché il Patto di

unità d’azione tra comunisti e socialisti era stato rinnovato nel 1937, mettendo in crisi

tutto l’antifascismo democratico e socialista che ovviamente disapprovava il

comportamento dei comunisti sovietici. Tra le altre cose la disfatta francese e

l’occupazione di gran parte del territorio francese favorì anche una dispersione della

organizzazione antifascista in Francia: molti dirigenti furono arrestati e ricondotti in

Italia o al confino; alcuni ripararono oltre Oceano ed altri, i comunisti, in Unione

Sovietica.

Negli anni della guerra si registra però una significativa ripresa dell’attività politica.

In questi anni avviene la riorganizzazione dei partiti politici:

DC

Rinacque un partito di ispirazione cattolica. I dirigenti erano in esilio (Sturzo) e

bisogna dire che qualsiasi attività sarebbe in qualche modo stata ricollegabile con la

Chiesa. Ora, i rapporti tra la Chiesa e il fascismo furono sostanzialmente buoni, sulla

scia dei Patti Lateranensi (1929). Il distacco si produce con il 1938 per la politica

mussoliniana di affiancamento al nazismo ed anche per la politica razziale. Qui si

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apre la via a un inizio di azione politica del laicato cattolico, che, a differenza di

grandi partiti, aveva una tradizione organizzativa molto diffusa ed efficiente,

autonoma come quella della Azione Cattolica, con organismi attivi come la FUCI e il

Movimento dei laureati cattolici. Esistettero poi alcuni filoni molto attivi come quello

fiorentino di La Pira stretto attorno al giornale “Principi”, che si ricollegava alla

tradizione del cattolicesimo sociale (di sinistra) d’anteguerra di cui abbiamo parlato.

Era cioè per una restaurazione di una società cristiana mediante una applicazione

sociale dello spirito evangelico. Come il Movimento guelfo di Milano, fondato nel

1928 da Malvestiti, che fu la sola organizzazione clandestina cattolica che ebbe

finalità propagandistiche e che idealmente si ricollegava al movimenro

(intransigentista) di Don Albertario, movimento che fu stroncato nel 1933 con una

serie di arresti e di condanne, ma che rinacque nel 1938 divenendo la matrice della

ormai prossima organizzazione politica dei cattolici in Lombardia. A differenza dei

partiti e, tra le componenti dei moderati, tra le componenti moderate, ai popolari fu

facile gettare le basi del nuovo partito, grazie alla esistenza di un tessuto connettivo

mai esistente e mai morto durante il fascismo, quello dell’Azione Cattolica. E non è

un caso che il partito non adottasse la denominazione di Partito popolare italiano di

origini sturziane, ma quello di Democrazia Cristiana che si ricollegava al passato

murriano, un partito di rottura con la tradizione liberale ed in cui le componenti anti-

liberali e che invece si ricollegavano alla tradizione dell’intransigentismo “sociale”

erano maggioritarie.

Anche nel caso della DC è possibile parlare di una destra democristiana, che è

possibile individuare in due accezioni: esiste una componente dai caratteri

apertamente conservatori se non reazionari, che guarda al trinomio Dio, Patria,

Famiglia; fedelissima della Chiesa cattolica e che aveva appoggiato il fascismo in

funzione anti-socialista e che al momento del referendum istituzionale è monarchica.

Esiste poi una componente qualificabile di destra che è liberale, antifascista, che

accetta di confrontarsi con la democrazia di massa e con le sue regole,

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Il centro democristiano è composto invece da un nucleo molto variegato di cattolici

antifascisti, chiamiamola un’area di mediazione tra le istanze di destra e quelle di

sinistra. Il leader indiscusso in questo caso è De Gasperi il quale è perfettamente

cosciente della importanza delle masse nella vita dello Stato, che devono essere

governate da élites capaci di costruire una democrazia stabile immune da nuove

derive totalitarie o autoritarie. De Gasperi è convinto della importanza dei partiti

politici, crede in questo strumento di organizzazione della politica, come canale di

comunicazione tra stato e società, come garanzia di partecipazione politica. Ha cioè

una visione pluralistica e dialettica del confronto politico, contro ogni ipotesi di

costruzione di un partito conservatore che agisce semplicemente sotto gli input della

Chiesa, che, nella situazione del tempo, si sarebbe inevitabilmente trasformato in un

partito reazionario.

La sinistra democristiana, che è quella di cui sopra, composta dai cristiano-sociali e

dai sindacalisti cattolici, converge con De Gasperi sulla necessità del pluralismo

politico, ma con presupposti ideologici differenti: l’obiettivo dei cristiano-sociali è

quello della costruzione di una società cristiana all’interno di uno Stato espressione

dei valori della religione. Si tratta di una posizione più confessionale e meno laica,

sebbene non antidemocratica. La fede religiosa viene vissuta è vero in maniera

integrale, come missione spirituale, sociale e politica, ma non esclude chi è

nell’errore, chi è lontano dalla parola di Dio. Vi è un atteggiamento più attivista nei

confronti della società, nel senso che i cattolici hanno il dovere di agire tra il popolo

per affermare gli ideali di libertà e di giustizia sociale, per il raggiungimento della

quale si assume un atteggiamento critico nei confronti del capitalismo. In questo

senso, c’è una tensione dialettica nei confronti del marxismo, che viene visto come

una messaggio assimilabile a quello cristiano, di riscatto sociale dei ceti da sempre

esclusi dalla storia. E quindi una sinistra democristiana che guarda già da ora ad un

confronto con l’elemento socialista: lasciare il campo aperto al cattolicesimo

conservatore, ai clerico-fascisti significherebbe lasciare il campo libero alla

diffusione della ideologia socialista tra le masse. L’impegno politico, per la sinistra

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democristiana, è una testimonianza di fede e qui la figura da ricordare è quella di

Giuseppe Dossetti.

PLI. I liberali andarono a riorganizzarsi attorno al 1943 e lo fecero sotto impulso

della riorganizzazione del Partito d’azione, che voleva proporsi come l’erede del

liberalismo, come il vero e nuovo liberalismo. La presidenza del partito fu data a

Benedetto Croce, capo riconosciuto dell’antifascismo, ma al suo fianco si

riconoscevano un gruppo di giovani che tentarono di portare avanti una proposta

politica che nella sostanza era nuova, che non aveva paura di confrontarsi con la

democrazia di massa, che accettava definitivamente il partito come strumento di

organizzazione politica. Ma quale partito? La forma privilegiata era quella del Partito

d’opinione, che si ispirava ai principi alla cultura del liberalismo, che guardava al

Risorgimento e a tutta la storia unitaria italiana pre-fascista come elementi fondanti,

ispiratori della propria esistenza. Un partito articolato, diffuso sul territorio, ma

leggero e senza burocrazia; con una classe politica molto esperta perché aveva fatto le

sue prime prove nell’ultima fase di vita del regime liberale, alla quale si aggiungeva

un nucleo di uomini nuovi dotati di grande cultura, che aveva fatto le sue prove

soprattutto nel giornalismo, anche di regime, e nelle professioni liberali. Il partito

politico veniva accettato, ma certo non il partito visto come una “chiesa” o come una

“setta”. Veniva accettata una forma partito che preservasse quanto più possibile la

libertà individuale, in cui le posizioni di minoranza non solo potevano esistere, ma

venivano tutelate e soprattutto potevano sperare di diventare la maggioranza di

domani; un partito in cui era ammessa dunque la libera discussione e la dialettica

interna.

Pda Fu fondato a Roma nel luglio del 1942, anche se il nome, proposto da Mario

Vinciguerra, era stato scelto nel gennaio del 1943. Idealmente il nuovo partito si

ricollegava a Giustizia e libertà, ma vi confluivano vari filoni: i gruppi che avevano

partecipato alle iniziative rosselliane e che quindi si richiamavano al suo socialismo

liberale; poi i liberal-socialisti che facevano capo a Guido Calogero e Aldo Capitini;

alcuni nuclei originari del partito repubblicano ed un nucleo che invece si era formato

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all’ombra dell’insegnamento di Benedetto Croce, come Omodeo, De Ruggerro,

Salvatorelli, La Malfa, Tino, Parri, Calamandrei, Battaglia, Comandini e altri. Si

trattava di un partito di punta dell’antifascismo non comunista che propugnava una

“rivoluzione democratica”, come la chiamavano, repubblicana, con programma

sociale ed economico molto spinto e radicale (nazionalizzazioni, redistribuzione,

fiscalismo progressivo, democrazia industriale). Nonostante il programma del 1942

richiamasse il programma di Rosselli del 1934, si trattava di enunciazioni che

riflettevano l’estremo eclettismo della compagine, con programma che andava da

posizioni liberali classiche a posizioni socialiste

PSI Del Partito socialista abbiamo già parlato, tuttavia bisogna ricordare che in

merito ad esso non mancavano atteggiamenti molto critici, dove si guardava con

sdegno alla tradizione pre-fascista, un atteggiamento che coinvolgeva anche il Psi,

per la sua incapacità di fronteggiare il fascismo, un atteggiamento speculare a quello

che avveniva nei confronti dei liberali. Un sintomo di questo stato d’animo fu la

creazione del MUP, il Movimento di Unità Proletaria creato da Lelio Basso a Milano

nel gennaio del 1943. Movimento di breve durata che confluì nel risorto PSI, a Roma,

determinandosi così il PSIUP, denominazione che durò sino al 1947. Quindi sono

riconoscibili tre nuclei: esponenti dl vecchio PSI, esponenti del MUP di Lelio Basso

ed un nucleo di giovani, soprattutto romani, che erano arrivati al socialismo

direttamente dai GUF. Quindi si può parlare di una compresenza di “vecchio” e

“nuovo” e di un confronto che si apre con la liberazione del territorio nazionale tra i

socialisti rimasti in Italia e i socialisti in esilio, tra i quali Nenni, che è colui che

realizza la fusione con il MUP, ai quali manca una perfetta conoscenza di cosa sia

stato il fascismo. Bisogna dire che il rinato Partito socialista ripropone le stesse

fratture interne che si erano registrate nel periodo pre-fascista: rimangono vive le due

anime, quella riformista e quella massimalista, alla quale si aggiunge a partire dal

1943 una terza componente “fusionista”, che spinge cioè per una riunificazione con i

comunisti. È possibile individuare all’interno del partito una destra (riformista), un

centro (massimalista), una sinistra (filo-comunista), ma da questo momento il

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rapporto con il PCI sarà un elemento ineliminabile del socialismo italiano nel

secondo dopoguerra. La destra è l’erede del riformismo turatiano ed è guidata da

Saragat ed ha elaborato una visione di “umanesimo socialista” che di discosta dalla

dottrina marxista classica ed è estranea ovviamente al marxismo-leninismo dei

comunisti. In questa componente il rifiuto del metodo rivoluzionario e della dittatura

del proletariato in nome di un socialismo fondato sulle libertà democratiche la critica

nei confronti della rivoluzione del 1917 è radicale, al contrario di quello che avviene

per la maggioranza dei socialisti, per la quale la rivoluzione è ancora un mito. La

destra dunque oppone resistenza al patto di unità di azione con i comunisti,

inaugurato proprio da Nenni nel 1934: viene accettato soltanto in funzione della lotta

antifascista, suffragato da uno scenario internazionale che vede alleati USA, GB e

URSS. In altri paesi europei, come in Francia, abbiamo detto come si fosse giunti

anche prima ad un patto organico tra comunisti e socialisti e lo scioglimento della

Terza Internazionale – l’internazionale socialista – nel 1942 sembra preludere sembra

cementare il patto di unità. Alla fine della guerra la destra riformista comincerà a

contestare la politica nenniana, perché il patto con il PCI appare innanzitutto dannoso

al PSI. Vi è poi il grande problema della politica estera, rispetto alla quale la destra

socialista auspica un ancoraggio con l’Occidente, nonostante il “neutralismo” sia

l’orizzonte prevalente dei saragattiani.

Al centro troviamo dunque la tradizione massimalista, di cui Nenni è massima

espressione. In questa corrente i valori della democrazia sono acquisiti, anche se i

massimalisti non rinunciano ancora al verbalismo rivoluzionario. Il fascismo aveva

distrutto le libertà borghesi ritenute indispensabili alla crescita e all’ascesa al potere

delle classi lavoratrici, per cui andava restaurato l’ordine democratico. Vi è anche la

convinzione che lo stato socialista fosse incompatibile con un sistema dittatoriale

oppressivo delle liberatà individuali e collettivo come quello sovietico. Le

informazioni sulle purghe staliniane avevano aperto gli occhi ai dirigenti socialisti

italiani sin dal 1938, ma Nenni aveva un atteggiamento nei confronti del PCI

differente da quello di Saragat: l’URSS era lo stato della rivoluzione proletaria che

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aveva contribuito in grande misura a combattere il nazismo e i comunisti sono visti

come partner naturali, “fisiologici” dei socialisti nella lotta anti-fascista. Nenni ha una

visione classista delle cose, per cui PSIUP e CI possono lottare insieme contro

l’egemonia borghese; l’abbattimento dello stato capitalistico rimane l’obiettivo finale

e la rivoluzione antifascista è vista come una tappa di questo percorso, così come

altra tappa è la costruzione di una Repubblica democratica. Uno scenario in cui è

possibile arrivare al socialismo senza bisogno di un salto rivoluzionario cruento.

Secondo Nenni sarebbe stato necessario costruire uno schieramento classista

maggioritario, un obiettivo che dunque andava perseguito attraverso l’unità delle

classi lavoratrici, da qui la necessità di marciare uniti al Pci. Nenni non si

preoccupava molto delle implicazioni ideologiche, ma si muoveva su considerazione

prevalentemente politiche: PCI e PSIUP insieme potevano raddoppiare il peso delle

sinistre in seno all’ schieramento dei partiti, un’occasione unica. Si trattava di una

considerazione puramente tecnica, ma non priva di schematismo e che infatti si

dimostrerà fallace, sicuramente per le sorti del Psi.

Per quanto riguarda la sinistra socialista, si tratta di una interpretazione estrema della

linea di Nenni. La base di questa sinistra interna è sempre il “ceppo massimalista” ,

ma la resistenza ha accentuato il rivoluzionarismo, per cui l’asse PCI-PSIUP era

ritenuto fondamentale per affermare il primato dei partiti di classe nello schieramento

anti-fascista. La sinistra socialista chiede una fusione tra PCI e PSIUP, ciò che il

centro nenniano non auspica. Ma sarà dall’alleanza tra centro nenniano e sinistra del

psiup che prenderà corpo l’idea di rinnovare il patto di unità d’azione con il Pci. Da

un punto di vista del modell di partito, il PSIUP si riorganizza come partito di

integrazione di massa, ma al momento della sua ricostituzione parte in svantaggio

rispetto a DC e PCI: la prima ha alle sue spalle il tessuto organizzativo facente capo

alla Chiesa cattolica, il secondo ha invece alla sue spalle il PCI. Bisogna poi

considerare che il fascismo aveva del tutto distrutto tutto l’apparato organizzativo di

cui disponeva il PSI prefascista, in primo luogo il sindacato, per cui nel 1943 si

doveva cominciare da zero, consapevole che certo le radici – quelle del socialismo

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italiano storico – non erano state del tutto estirpate, ma con un concorrente in più,

cioè il PCI, che peraltro dimostra subito grande forza attrattiva, anche nei confronti di

tradizionale serbatoio socialista, e si propone subito con una struttura organizzativa

molto solida. Lo PSIUP avvia una fase di riorganizzazione intensa, affidandola a

Lelio Basso e Rodolfo Morandi, ma il partito non ha perso la caratteristica dl

pluralismo, con grande dialettica interna, libertarismo diffuso, ciò che vanifica ogni

tentativo di imporre una disciplina ferrea come avviene in casa comunista. Rimane

dominante il sistema delle correnti interne, quindi un modello che progressivamente

si allontanerà da quello originario di partito di integrazione di massa per avvicinarsi

semmai più a quello della DC.

Tornando al PCI, esso assume questo nome nel 1944, al rientro di Togliatti da Mosca,

quando si dà avvio ad una profonda trasformazione delle strutture organizzative e

della linea strategica del partito. Abbiamo avuto modo di vedere quali siano state le

caratteristiche organizzative del PcdI, rispetto al quale vale il principio che il partito

fosse più di un semplice strumento organizzativo e piuttosto il motore stesso della

rivoluzione. Bene anche quando, dopo il 1944, il partito comunista abbandona questo

modello per assumere la fisionomia di partito di integrazione di massa, questa

caratteristica originaria rimarrà e sarà destinata a perpetuarsi fino a tempi molto

vicini. Del partito nella clandestinità abbiamo fatto cenno, chiamando in causa il

carattere “cospirativo” della sua azione, che era azione, appunto clandestina, portata

avanti da piccole cellule autonome al capo delle quali stava un attivista di sicura fede,

un’azione molto limitata dal punto di vista della propaganda e della possibilità di

reclutamento, anche per ovvie ragioni di repressione da parte dell’OVRA. Qualche

dato: negli anni di più intensa attività clandestina l’organizzazione comunista era

arrivata a contare in tutta Italia circa 7000-8000 quadri attivi. Nel marzo del 1943 la

consistenza dei comunisti è stata calcolata in 5000 uomini. Con il ritorno di Togliatti,

dicevamo, nell’aprile del 1944, nel pieno della lotta contro il nazi-fascismo, quando i

comunisti, che sino ad allora all’interno del CCLN avevano sostenuto posizioni

repubblicane e ostili ad un governo nominato dal Re, riconoscono il governo

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Badoglio su ordine di Stalin, si registra una nuova fase, caratterizzata dalla

costruzione del “partito nuovo” e dalla elaborazione della strategia della “democrazia

progressiva”, che sono due momenti interdipendenti. Con il “partito nuovo” Togliatti

vuole trasformare il partito di avanguardia rivoluzionario in partito di integrazione di

massa; la rivoluzione per la quale aveva lottato il PcdI è una ipotesi troppo lontana: si

può prepararla meglio, forse si possono affrettarne i tempi, ma al momento lo

scenario che si profila davanti agli occhi di Togliatti è quello di uno Stato

capitalistico retto da una democrazia borghese, che si avvarrà delle strutture classiche

di una liberal-democrazia. Lo strumento del partito rivoluzionario dunque non è più

idoneo, ma ci vuole uno strumento nuovo che permetta di confrontarsi con le

istituzioni democratiche e assicuri un radicamento dei comunisti in Parlamento. Il

partito di integrazione di massa assolve a questa funzione, anche grazie al

fiancheggiamento di una serie di organizzazioni collaterali (partigiani, unione donne

italiane, federazione giovanile comunista e poi il sindacato) che moltiplica la

presenza del PCI nel paese e non solo in parlamento. Il “partito nuovo” dunque come

strumento della democrazia progressiva, una formula, quella della democrazia

progressiva, che Togliatti aveva mutuato da Dimitrov, uomo di fiducia di Stalin, che,

come spiega Piero Craveri, designava non tanto una democrazia nel suo modello

classico di istituzione rappresentativa della volontà popolare, ma designava un

percorso politico, una sorta di democrazia finalizzata verso l’obiettivo di una società

nuova di tipo socialista, cioè una variante di transizione al socialismo. Avrete

certamente sentito parlare di “doppiezza” nella strategia politica di Togliatti, cioè un

rivoluzionario che agisce per vie parlamentari. Bene, c’è chi mette in dubbio che si

fosse realmente trattato di doppiezza, perché Togliatti non aveva mai messo in

discussione le premesse marxiste e leniniste del comunismo e sempre le pone a

fondamento dell’ideologia del partito italiano. Si trattava di un problema politico,

perché l’arrivo al potere per via rivoluzionaria del PPCI non era possibile né nel

breve, né nel medio periodo, per cui andava elaborata una peculiare linea di

“transizione” che prevedeva la pratica dei tradizionali strumenti della democrazia

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rappresentativa, che anzi diventavano elementi di forza dell’azione comunista. Questa

consapevolezza convince Togliatti che il PCI non potesse porsi come strumento di

destabilizzazione del sistema e in questo senso agì a partire dal 1944 per tutti gli anni

seguenti, sebbene nel partito convisse un’anima che mai smise non soltanto di essere

e sentirsi rivoluzionaria, ma anche di agire in tal senso. Ma era veramente nuovo

questo partito?

Si e no. Il nuovo statuto viene approvato al V Congresso e il’art. 1 porta tutto il peso

della esperienza di quegli anni: “Il Partito comunista italiano è l’organizzazione dei

lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente per la distruzione di ogni

residuo di fascismo […]”. A parte l’ovvio richiamo all’antifascismo, vi è la

sottolineatura del carattere “nazionale” del comunismo italiano per lavoratori italiani,

ciò che stride con la realtà di un legame di ferro con l’URSS di Stalin. Di seguito si

legge che il PCI lotta “per la edificazione di un regime democratico e progressivo

[…] e poi che “il partito è una organizzazione unitaria, combattiva, retta da una

disciplina volontaria che impegna tutti i suoi membri ed è amministrata in modo

democratico dal Comitato centrale […]”. Si può notare un wording ben preciso che

richiama i principi di unitarietà, combattività, disciplina e centralizzazione, che sono

caratteri precipui del PCI e che possiamo dire erediti dal PCdI. Per quello che

riguarda l’aspetto ideologico, il “cambio di passo” è solo funzionale alla costruzione

di un partito di integrazione di massa, laddove l’adesione al marxismo-leninismo non

è più condizione di accesso al partito, pur rimanendo l’ideologia guida del partito.

L’art. in questione è il 2: “Possono iscriversi al partito comunista italiano tutti i

lavoratori onesti di ambo i sessi che abbiano raggiunto il 18° anno di età,

indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche.

Ogni membro del partito è tenuto ad accettare il programma politico e lo Statuto del

partito […] E in un altro articolo si specifica che tra i doveri di chi è membro del

partito vi è quello “di acquistare una sempre maggiore conoscenza dei classici del

marxismo-leninismo” . Quindi una volta ammessi si doveva abbracciare la fede

comunista, che rimaneva quella delle origini. In sede di dibattito congressuale non

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tutti furono d’accordo con questa carattere di “apertura”, che era chiaramente

funzionale alla costruzione di un partito di massa. Martinelli in un suo studio del

1981 riporta l’intervento di un delegato il quale afferma: “Il solo ostacolo che finora

si è opposto all’entrata nel nostro partito di tutti questi elementi è consistito nel fatto

che essi hanno convinzioni filosofiche differenti dalle nostre. Aprendo le porte a

questi elementi noi rafforzeremo l’azione del nostro partito e non indeboliremo per

nulla la ideologia che sta alla sua base e cioè l’ideologia marxista-leninista, in quanto

la cosa essenziale in questo momento è di riuscire a mobilitare il più gran numero di

elementi sinceramente democratici progressivi per la realizzazione della nostra

politica e di non fare del nostro partito un’accademia dove si dibattono questioni

filosofiche”. Una posizione ben chiara, funzionale ad un progetto di costruzione di un

partito di massa. Per il resto viene ribadito il sistema del “centralismo democratico”,

sebbene la formulazione sia diversa rispetto a quella del 1926. Si stabilisce per

esempio che “tutti gli organi dirigenti e i singoli membri e i singoli membri sono

sempre revocabili per decisione di coloro che li hanno investiti del loro mandato”, ciò

che non si verificò mai; inoltre nello statuto del V congresso si parla di minoranza e

maggioranza, ma in questi termini: “la minoranza deve accettare e applicare le

decisioni democraticamente prese dalla maggioranza con deliberazione regolare”. Per

quanto riguarda la struttura organizzativa nel suo complesso, lo Statuto stabilisce che

il partito è organizzato in cellule, sezioni e federazioni provinciali. Queste ultime

possono essere organizzate in federazioni regionali autonome, per decisione del

Comitato centrale. Quindi anche in questo caso una assoluta continuità con il passato

ma in un quadro in cui assume maggiore importanza la “sezione” e questo sempre

perché funzionale alla costruzione di un partito di massa, laddove appunto “la

sezione” è il nucleo di base della organizzazione territoriale di un partito di

integrazione di massa, sul modello socialista. Rispetto alla cellula, la sezione ha il

vantaggio di far riferimento ad una precisa porzione di territorio e di disporre di una

sede, che si rivelerà, come rileva Martinelli, un fattore strutturale importantissimo in

tempi di democrazia, ciò che determinerà il prevalere della sezione sulla cellula. Gli

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storici di parte comunista sottolineano il carattere di rottura nei confronti del passato:

“un mutamento profondo della concezione stessa del partito che, pur ricollegandosi al

passato, ribalta sostanzialmente la vecchia impostazione terzinternazionalista del

rapporto tra organizzazione e politica” – dice Martinelli con la restituzione del

primato alla politica a scapito della organizzazione.

Storici di impostazione più laica invece mettono in evidenza i caratteri di continuità e

la “permanenza nel PCI del ’44 di alcune fondamentali caratteristiche del vecchio

partito avanguardista”: struttura piramidale assai rigida che ha al suo vertice un

segretario dotato di poteri e autorità intangibili. Anche se guardiamo alla

composizione del gruppo dirigente ci accorgiamo di una assoluta continuità: la

direzione è composta da affiliati al vecchio PCdI; i quadri intermedi sono stati

composti per anni da rivoluzionari professionisti, che sino poi forgiati nella

clandestinità, nella guerra partigiana, che garantiscono obbedienza cieca al partito.

Oltre al sistema del “centralismo democratico” non è da trascurare il fatto che al

meccanismo per la selezione e il rinnovamento dei quadri dirigenti si affianca un

sistema di cooptazione dall’alto che si inserisce in un quadro dal carattere

chiaramente autoritario. Non dimenticando che il tasso di ricambio ai livelli di vertici

è praticamente nullo. In questa situazione ogni diversificazione destra-centro-sinistra

è impossibile; non possono esistere fratture o correnti, anche se è visibile una

dialettica interna tra vecchio e nuovo, tra i fedelissimi della rivoluzione e i fautori del

metodo della democrazia progressiva, anche se nelle primissime battute questa

diversificazione non incide sulla unitarietà della linea politica mantenuta dal PCI e

garantita dal suo leader Togliatti, che, non dimentichiamolo, era stato uno dei

fondatori del PCdI.

Tra i partiti minori non bisogna dimenticarsi del Partito repubblicano, che era l’erede

del “mazzinianesimo”, quindi un partito con una grande storia alle spalle ed anche

con una storia organizzativa solida, assolutamente non paragonabile a quella del Pli,

ma semmai a quella socialista, visto che, come noi sappiamo, il Partito repubblicano

si dota di un primo statuto nel 1897. È un partito che si rifà a Mazzini, quindi un

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partito progressista e democratico e che vede la monarchia come l’ostacolo maggiore

allo sviluppo democratico dell’Italia pre-fascista. Come abbiamo visto, durante il

ventennio sono su posizioni di intransigente anti-fascismo, ma soprattutto in esilio:

Randolfo Pacciardi era stato uno degli esponenti di spicco del PRI che aveva avuto

un ruolo di primo piano nella direzione delle Brigate internazionali negli anni della

guerra civile in Spagna. Tuttavia deve confrontarsi con la concorrenza del Partito

d’Azione, con il quale i rapporti non sono buoni, un po’ come con i liberali. Inoltre,

la pregiudiziale anti-monarchica li tiene fuori dal CLN, ciò che in un primo tempo li

penalizza. Il PRI accetta di collaborare e dunque entra nell’agone politico

dell’antifascismo istituzionale soltanto nel 1946 dopo la vittoria della Repubblica al

referendum istituzionale. Ed assumono una posizione che è subito di disponibilità alla

collaborazione con le sinistre di PCI e PSI, ciò che distingue nettamente il loro

atteggiamento da quello dei liberali. Un atteggiamento che comunque sarà destinato a

mutare con l’avvento della Guerra Fredda, quando questo entusiasmo per i partiti di

sinistra andrà scemando e i repubblicani diventeranno uno dei pilastri del centrismo

degasperiano.

Bisogna poi menzionare un altro partito destinato a scomparire che ebbe un grande

ruolo nel periodo della transizione repubblicana: il Partito democratico del lavoro. Si

tratta di un partito a struttura notabilare, di rappresentanza individuale, radicato

soprattutto al sud. Da un punto di vista della cultura, si tratta del tentativo di un

connubio tra liberal-democrazia e socialriformismo; con una classe politica composta

soprattutto da ex deputati aventiniani, quindi con un solido passato di antifascismo e

prevalentemente monarchici. La fortuna del Pdl è legata soprattutto ai suoi

leader:sarà infatti il partito che esprimerà il primo capo di un governo antifascista e

democratico a partire dalla liberazione di Roma e cioè Ivanoe Bonomi. Bonomi nella

fase finale del regime liberale aveva tentato di creare assieme a Giovanni Amendola

un fronte di opposizione democratico-borghese al fascismo, non riuscendovi. Il Pdl

vorrebbe riproporre un progetto analogo: l’idea era quella di un partito dei ceti medi,

democratico, antifascista, che privilegiava il Meridione d’Italia come area della

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propria azione politica. Come dicevamo ebbe vita breve, perché nel 1946 il partito si

dissolse ed i suoi componenti raggiunsero prevalentemente il Pli, che era il partito

ideologicamente e strutturalmente più vicino.

Antipartitismo

Si può senza dubbio affermare che l’antipartitismo della Repubblica sia vecchio

quanto la Repubblica. Perché parallelamente, contemporaneamente alla strutturazione

del sistema dei partiti “antifascisti”, si sviluppano una serie di movimenti che a quel

sistema si oppongono. Si diffonde la sensazione che in fondo si stesse assistendo ad

un passaggio in continuità tra un regime fondato sulla pervasività del partito unico ed

un regime fondato sui partiti del cln che andavano sempre di più invadendo il campo

delle istituzioni che progressivamente venivano ripristinate e non solo.

A dire il vero in casa liberale, tradizionalmente vicina alle tematiche della

insofferenza nei confronti dei partiti, si era sviluppato un dibattito che aveva messo in

guardia sui rischi di creare dei “mostri” (i partiti) e di conseguenza di edificare

un’Italia fondata sui “mostri”. Panfilo Gentile, intellettuale liberale e uomo di partito,

fu uno dei primi ad occuparsi del problema e proprio uno dei suoi primi articoli

sull’organo di stampa Pli è un intervento nettamente a difesa dei partiti politici, visti

come manifestazioni della riconquistata libertà e del pluralismo. Un vero e proprio

“peana” di una nascente democrazia fondata sui partiti, che va messo in evidenza sia

perché Gentile negli anni a venire diventerà uno dei critici più acuti della

partitocrazia, sia per la precocità con la quale viene affrontato l'insorgente fenomeno

qualunquista. Gentile sottolinea e stigmatizza l'insofferenza, lo scetticismo, il

pessimismo dell' “uomo della strada” – che è un altro modo per chiamare l’Uomo

Qualunque, o perché c’erano troppi giornali o troppi partiti o perché i “politicanti”

facevano troppe chiacchiere, o perché “ritardava di dodici ore la formazione del

governo nazionale”. Questo atteggiamento per Gentile non era altro che un “residuo

di mentalità fascista e schiavistica”, di abitudine “all'uniformità coattiva del pensiero

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politico” per cui molti provavano “un senso di smarrimento e di paura dinanzi alla

varietà delle opinioni, alla libertà della discussione, alla divisione dei partiti e all'urto

delle competizioni”.

Tuttavia, anche in questo caso, non mancavano le riserve. Il problema vero era: quali

partiti? E qui Gentile, in un articolo pubblicato qualche settimana dopo, era pronto a

cambiare registro, a riconoscere che nella diffidenza dell' “uomo della strada” vi fosse

un “ragionevole fondamento” che andava preso in considerazione. L'intellettuale

abruzzese si ricollegava alla critica al partito ideologico già presente nella cultura

liberale e democratica italiana ed in particolare a quella di Gaetano Salvemini, che

nel 1911 coll'Unità a Firenze – scriveva Gentile - si fece iniziatore di un movimento

inteso appunto se non a sovvertire le formazioni storiche dei partiti, perlomeno a

mettere in primo piano i problemi concreti che erano allora all'ordine del giorno della

vita nazionale. Non si voleva negare l'esistenza ai partiti ideologici, ma si avvertiva

che “le passioni ideologiche esercitano talvolta impressioni prepotenti che fanno

smarrire il senso della realtà circostante, ottundono la chiaroveggenza dei bisogni

urgenti e immediati, portano a divagare lontani dalle esigenze concrete e dai dati

imperiosi del momento”. Riguardo all'esistenza di “questi” partiti, Gentile alla fine

assolveva il cosiddetto “uomo della strada”, che è sempre in una posizione

privilegiata, perché intuisce la situazione e diventa un «giudice severo dei partiti»

pensando che questi appunto dimenticano gli interessi sostanziali del paese. Gentile

difendeva l'opera che i partiti avevano sino ad allora esercitato, ben coscienti della

tragicità della situazione, riconosceva la fattiva collaborazione ciellenistica che aveva

portato alla formazione del governo Bonomi, ma ammoniva tutti coloro che andavano

“irregimentandosi” nei vari partiti a considerare “l'uomo della strada” come “un utile

punto di riferimento” , cioè a non “disprezzarne troppo le critiche e gli

ammonimenti”. Si tratta di una posizione di grande interesse, se si considera,

ripetiamo, l'insorgente fenomeno dell'Uomo Qualunque – il giornale sarà lanciato da

Guglielmo Giannini qualche mese dopo, nel dicembre del 1944 – e soprattutto il

totale disinteresse dei partiti di massa nei confronti di questo fenomeno, preoccupati

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soltanto delle proprie posizioni. Il Qualunquismo fu un movimento appunto legato al

nome di Guglielmo Giannini, un commediografo e giornalista dotato di molto estro e

un fustigatore della “nuova” Italia: si tratta di un movimento di insofferenza nei

confronti del potere, visto come estraneo o peggio visto come oppressore della gente

comune, indifesa, dell’ “uomo qualunque” appunto, vittima degli abusi dei

dominatori qualunque essi siano, fascisti o antifascisti. Si tratta di una polemica

diffusa contro il nuovo ceto politico, che è accusato di essere la causa di tutti i mali

del presente e certamente non migliore del precedente. Qualche storico – così come

d’altronde lo stesso Panfilo Gentile - avverte nel qualunquismo un “fascismo di

fondo”, ma esiste anche chi vede in questo fenomeno un “liberalismo di fondo”, cioè

una naturale avversione verso forme politiche divenute così pervasive come i partiti

politici, che agivano sulla base di una pretesa di legittimità, in un contesto,

ricordiamolo, in cui ancora non erano state ripristinata le forme minime di una

liberal-democrazia, cioè non si votava nemmeno e ciò sino al 1946. È molto

indicativo come il simbolo riportato nella testata dell’omonimo giornale “L’Uomo

Qualunque” era quello di un cittadino comune schiacciato dal torchio delle tasse.

Dunque il rifiuto del professionismo politico in nome di una radicale

“depoliticizzazione” delle istituzioni statuali, un programma che veniva compendiato

nella formula dello Stato amministrativo. Ha scritto Capozzi che si trattava di una

ideologia provocatoriamente anti-ideologica che comprendeva la politica entro due

poli: una società civile formata da individui indipendenti in grado di autogovernarsi e

una struttura istituzionale retta da un personale scelto in base a competenze tecniche.

Quale sarebbe stato allora il ruolo della classe politica? Quello di un buon ragioniere,

cioè un mandato a termine, limitato al compito e alieno da qualsiasi missione di

trasformazione della società. Quindi non una fidelizzazione dottrinaria ma una

competenza tecnica.

La componente prevalente dell’UQ, che è maggioritariamente monarchica, è ceto

medio; il movimento si sviluppa prevalentemente nel Mezzogiorno d’Italia; un

movimento che cresce progressivamente tra il 1944 e il 1947 e che alle prime

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consultazioni elettorali raggiunge quasi il 6%, con risultati lusinghieri anche nelle

ammnistrative del 1945.

Neofascisti

Il movimento neo-fascista prende corpo a guerra non ancora ultimata nel

Mezzogiorno d’Italia e si compone di diversi gruppi e gruppuscoli in collegamento

più o meno diretto con il Mezzogiorno d’Italia. Di cosa si alimenta questo anti-

fascismo: innanzitutto dell’odio/insofferenza nei confronti degli Alleati, che

avrebbero a loro dire offeso il senso della patria, l’onore e l’orgoglio nazionale, e qui

a dire il vero cavalcando un tema che riscuote un certo consenso, perché gli “Alleati”

agiscono come dei vincitori, poco sensibili alle richieste di autonomia degli ambienti

governativi italiani; i neo-fascisti sono anche contro il re, che ha tradito la parola

data; contro gli antifascisti perché sono asserviti alle potenze straniere e sono agenti

diretti del comunismo sovietico. Questi temi trovano conforto nel sotto-proletariato

che ha abbandonato le campagne e si è ritrovata nelle grandi città distrutte dalla

guerra; nei giovani della piccola borghesia, che i genitori hanno avviato all’università

ma il cui futuro è incerto; nei ragazzi in età di leva che la cobelligeranza dopo la

guerra ha costretto ancora alla guerra. A quale fascismo guardano? Non c’è alcun

rimpianto per il vecchio fascismo-regime, reazionario, monarchico e clericale, mentre

a trascinarli è il mito del fascismo rivoluzionario, totalitario, populistico che cerca di

incarnare la Repubblica di Salò sotto la protezione degli eserciti nazisti. Quindi una

sorta di ritorno alla purezza delle origini del fascismo repubblicano e rivoluzionario.

L’ideologia è dunque anti-democratica e la violenza viene invocata come strumento

di azione politica: si tratta dunque di un movimento eversivo che ne riduce l’azione

nel nuovo ordine anti-fascista. Rispetto a questo “momento” organizzativo, che

assume rilievo soprattutto di ordine pubblico, vi è poi il Movimento Sociale Italiano,

che costituisce il nucleo più solido di neo-fascismo, guidato da Giorgio Almirante,

che è un ex militante della Repubblica di Salò, il quale riesce a coagulare attorno alla

sua organizzazione i molti gruppuscoli di neofascisti, elabora una strategia di lotta e

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un ceto politico in grado di raccogliere consensi per entrare in Parlamento. Si tratta di

un fenomeno che ha una duplice veste: esiste un fascismo di doppio petto, “costretto”

a misurarsi che le istituzioni liberal-democratiche, con la democrazia parlamentare.

Ed esiste un neo-fascismo che non ha mai smesso la “camicia nera”. Una duplice

dimensione che costituisce un po’ la forza del neofascismo: azione parlamentare e

neo-squadrismo nel paese. L’avversario privilegiato è , diventa la sinistra di classe e

si tratta di un reclutamento che tende conquistare consensi su piani differenti: mentre

l’ala legalitaria punta a conquistare consensi nei ceti d’ordine, nostalgici del passato,

che hanno paura del presente ed in questo caso il primo risultato è quello di svuotare

proprio l’Uomo Qualunque; l’ala eversiva invece guarda maggiormente ai settori

della protesta giovanile e sottoproletaria che i partiti di classe non riescono a

convogliare nelle loro file.

L’Uomo Qualunque infatti scompare nel 1947-48 (ma non scompare

l’antipartitismo), mentre il MSI comincia in questa fase la sua parabola che è

ascendente e che lo porterà a radicarsi nel paese e nel sistema politico come forza

permanente, con un percorso elettorale oscillante, ma grosso modo con percentuali

comprese tra il 5% e il 7% e con punte massime fino al 9%, laddove l’area del

maggior consenso elettorale è il meridione d’Italia, ma al contrario del Qualunquismo

si diffonde in tutta Italia. Si apre dunque subito il problema della incostituzionalità

del MSI, problema agitato soprattutto dalle sinistre e con mosso su basi fondate, visto

che poi in Costituzione si arriverà al divieto di ricostituzione del partito fascista.

Tuttavia ad una messa al bando “legale” non si arriverà mai.

Secondo alcuni storici si forma dunque una destra che assume un atteggiamento

“sleale” nei confronti della nuova Italia antifascista e democratica.

I monarchici

A questa destra appartengono anche i monarchici, di varia gradazione, che sono

presenti nel panorama politico italiano sin dalla caduta del fascismo. Anche sulla

storia delle organizzazioni monarchiche, come abbiamo detto, è stato calato un velo

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di silenzio. Non bisogna invece dimenticare che tra i monarchici vi sono stati sinceri

anti-fascisti, che hanno operato concretamente per la caduta di Mussolini e poi che si

sono opposti alla occupazione nazista. Ma al di là di questo, è abbastanza evidente

che il passato monarchico non poteva essere tanto facilmente dimenticato: tra i

soggetti monarchici ve ne erano alcuni che erano anche di dichiarato programma

democratico e progressista. Il Partito Democratico Italiano per esempio era uno di

questi, ma su questi partiti grava il discredito nei confronti della monarchia a causa

delle sue responsabilità per la connivenza con il fascismo e per la tragedia della

guerra. Ovviamente, il referendum istituzionale che si terrà il 2 giugno 1946 segna la

fine della rilevanza politica dei gruppi monarchici, sebbene essi continuino a vivere

anche dopo il referendum del 1946.

Qui si apre il grande problema della “destra” nell’Italia repubblicana. Un paradosso

con il quale si sono confrontati alcuni storici ed in particolare Roberto Chiarini, negli

ultimi anni, il quale ha riflettuto sull’esistenza di un elettorato che è sostanzialmente

di destra ma che di volta in volta sceglie opzioni differenti nella impossibilità di una

destra “presentabile”. Altri storici hanno messo in evidenza come nel voto neo-

fascista e monarchico albergassero sentimenti di insofferenza al sistema dei partiti

nato dall’antifascismo, almeno prima che poi l’MSI avesse una caratterizzazione più

definita. Rispetto ai gruppi monarchici e ai qualunquisti l’interlocutore ideale sarebbe

stato il PLI, che avrebbe potuto porsi come partito di riferimento. Ma una serie di

motivi lo impedirono: il PLI era un partito schiettamente anti-fascista che in seno al

CLN aveva giocato un ruolo di primo piano ed al suo interno convivevano diverse

anime, tra le quali alcune che erano dichiaratamente repubblicane. Ma più che il

discrimine monarchia/repubblica, fu quello fascismo/antifascismo a determinare una

condotta ondivaga del PLI, che non volle inizialmente avere nulla a che fare con i

qualunquisti e con i monarchici. A partire dal 1945 si assiste però all’interno del

partito una reazione nei confronti di un sistema che va sbilanciandosi a sinistra: pur

ribadendo la propria connotazione di centro, il PLI vara una strategia dell’attenzione

nei confronti di ciò che sta alla sua destra, escluso il neo-fascismo. Nel 1946, dopo le

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deludenti elezioni per la Costituente in occasione delle quali i liberali si presentano

con la formula dell’UDN, si giunge ad una fusione dei monarchici di Selvaggi con il

PLI ciò che costituisce il primo passo di un alleanza che coinvolgerà anche i

qualunquisti. Tra la fine del 1946 e gli inizi del 1947 la segreteria del Partito passa

alla destra di Lucifero che vara una strategia di intesa comune con i monarchici e i

qualunquisti che porterà alla formazione del Blocco Nazionale per le elezioni del

1948, che si rivelerà un totale insuccesso. Da allora ogni ipotesi di intesa a destra

venne sempre evitata.