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Di Monica Giuliano

2010

Terza parte

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Università degli Studi Suor Orsola Benincasa

Napoli

FACOLTA' DI LETTERE CORSO DI LAUREA

IN

CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI TESI DI LAUREA

in

Metodologia e tecnica della ricerca archeologica

I materiali da costruzione di Pompei: provenienza, estrazione, tecniche edilizie

Relatore Prof. Antonio De Simone Candidato Monica Giuliano Correlatore Prof. Giolj Guidi

Matricola 002000836

Anno Accademico 2009- 2010

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Trachite di Zaro La regione di Zaro si estende nell’estrema punta nord-occidentale dell’isola d‟Ischia ed è costituita da una potente colata trachitica che copre all’incirca una superficie di 1,5 Km² (fig. 7). Le lave che ivi affiorano hanno una composizione variabile da alcalitra-chite a trachite, fino a trachiti sodiche. Esse risultano molto pure, composte da fenocristalli di sanidino in una matrice vetrosa grigio chiara 43.

Figura 7. Carta geologica dell'iso-la d'Ischia.

Questa giacitura costituiva in origine una cupola di ristagno, la quale, dopo aver subito una differenziazione pneumatolitica, si squarciò forman-do una potente colata lavica, che trascinò ed inglobò enormi blocchi del vecchio tetto della cupola. Queste zolle, relitti del vecchio edificio cupola-re, sono fortemente auto-pneumatolizzate, con composizione mineralogica molto simile alla nostra alcali-trachite. Un campione di questo tipo, in precedenza esaminato dal Nicotera, si rivelò infatti, sia all‟esame macroscopico che microscopico, quasi identico a quelli prelevati a Pompei. Vi è una leggera differenza costituita da una maggiore percentuale di minerali pneumatolitici in quella di Ischia, ma es-sa non è tale da escludere la possibilità che i blocchi del Tempio di Venere provengano dalla regione Zaro, perché gli effetti della pneumatolisi sono sempre abbastanza differenti nei vari punti dell’affioramento. Questo ma-teriale è oggi ampiamente sfruttato nelle costruzioni locali sia per pavi-mentazioni stradali, che in blocchi squadrati e sagomati con fregi, cornici, gradini, soglie di balconi, davanzali, pianerottoli etc. 42 Alfonso I d‟Aragona e Carlo III la fecero usare ampiamente nei moli del porto di Napoli.

43 VEZZOLI 1988, p. 45.

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Oltre ad ottimi requisiti di lavorabilità, che consente una facile sagoma-tura, presenta una struttura omogenea, una buona tenacità, un peso per uni-tà di volume non troppo elevato, una discreta resistenza all’usura ed una elevata durevolezza che lo rende di gran lunga preferibile, a giudizio di tut-ti i cavatori e scalpellini dell’isola, alle rocce simili che si rinvengono sul territorio. Le cave in esercizio che sfruttano questa lava sono numerose e per lo più distribuite alle falde dei monti Marecocco e Caccaviello lungo la car-rozzabile Lacco Ameno-Forio. Ma la colata lavica continua, conservando compattezza ed omogeneità di struttura insieme ad un rilevante spessore, fino al mare formando le coste scoscese e dirupate dell‟estrema punta nord-occidentale dell’isola. Lungo queste coste, specialmente nelle insenature tra cui si protende punta Cornacchia, numerosi sono gli affioramenti di roccia che si trovano in condizioni ideali di sfruttamento per chi volesse poi trasportare via mare i blocchi cavati. Né può inficiare questa ipotesi l‟osservazione che nessuna chiara traccia di antiche coltivazioni appaia lungo queste coste, perché due millenni di ininterrotta ed attiva azione de-molitrice delle onde può aver cancellato le tracce di antiche escavazioni. Che l‟isola d‟Ischia abbia nell’antichità romana esportato alcuni dei suoi materiali lapidei naturali è, tra l‟altro, provato dal rinvenimento in un nin-feo ricavato nella grotta di Tiberio, nei pressi di Sperlonga (lungo il litorale tra Gaeta e Terracina) di alcuni muri che, secondo gli studi del dott. G. Bu-chner, sono costruiti in opus reticulatum con conci di tufo verde dell‟Epomeo. In base ai dati ricavati e ai confronti effettuati, si può attribuire alla tra-chite del Tempio di Venere una provenienza ischitana. La colata lavica di Zaro che si estende continua e di rilevante potenza fino al mare, offriva a-gli antichi cavatori ottime possibilità di sfruttamento. Le operazioni d‟imbarco non presentavano gravi difficoltà poiché nelle insenature le ac-que, durante la buona stagione, si mantengono abbastanza calme ed il fon-dale è sufficiente per accostare a riva gli zatteroni e caricarli dei blocchi già sbozzati e squadrati.

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LA ROCCIA LAVICA DELLE MACINE Le macine rinvenute a Pompei sono tra gli oggetti più caratteristici che ritroviamo nelle antiche botteghe per la vendita del pane. Tagliate nella lava dura, sono costituite da tre elementi fondamentali: una parte fissa, la meta, a forma di campana, circondata da uno zoccolo in muratura sul quale si poneva un catino di metallo che raccoglieva la farina. Al di sopra della meta veniva incastrato il catillus, l‟elemento mobile a forma di doppio tronco di cono; la parte superiore fungeva da imbuto per l‟introduzione del grano, mentre quella inferiore assicurava la molitura per effetto della rotazione contro i fianchi della meta (altezza totale m 1,40-1,70) (Figg. 8, 9). Per far sì che il grano si infiltrasse tra i due elementi e che un attrito eccessivo non si opponesse al movimento, il catillus veniva mantenuto leggermente staccato dalla meta per mezzo di un asse di legno verticale collegato a un telaio; il tutto era attaccato a una bestia da soma, in genere un asino, donde il nome di mola asinaria. Le macine venivano in-stallate in uno spazio aperto per la presenza di animali (che disponevano di una stalla per la notte) 44 per i quali, attorno a ogni macina, veniva sistema-to un lastricato onde evitare che il loro passaggio continuo rovinasse il pa-vimento in terra battuta o in opus signinum. 45

Figura 8. Meta e zoccolo in mura-tura per raccogliere la farina dalla Casa del Forno (VI, 3, 24).

44 La panetteria in VI, 3, 37 disponeva di una grande stalla di m 8x5, con mangiatoia in muratura; essa aveva solo quattro macine, e per questo è probabile che la stalla costituisse il ricovero per bestie da soma di proprietà del fornaio o per quelle di altre persone.

45 ADAM 2003, pp. 347-348.

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Figura 9. Macina per il grano a trazione animale (mola asinaria), si noti il catillus perfettamente incastrato sulla meta (VI, 3, 24).

Il materiale da impiegarsi nella costruzione di queste macine doveva a-vere dei requisiti particolari, infatti doveva essere abbastanza tenace e nel contempo facilmente lavorabile in modo da poterlo sagomare opportuna-mente. Inoltre doveva offrire una notevole resistenza all’usura e presenta-re, all’uso prolungato, una superficie costantemente scabra e, infine, dove-va avere una struttura vacuolare affinché il chicco di grano, restando par-zialmente imprigionato nei vacuoli, venisse in un primo tempo spezzato e quindi triturato. I pompeiani usarono molto discernimento nella scelta del materiale che ben rispondesse alle loro esigenze e la ricerca non fu sicura-mente delle più agevoli se, come si vedrà tra breve, riuscirono a trovarlo probabilmente solo in una zona molto distante dalla loro città. 46 Un recente lavoro 47 eseguito con il contributo finanziario del C.N.R. ha studiato un campione prelevato da un frammento di macina del Pistrinum situato nella Reg. VI, Ins. 6, con ingresso sul vicolo di Modesto. In questa stessa via con un ingresso secondario sulla via Consolare, si trova un altro edificio, adattato per l‟esercizio di un pastificio da una più antica abitazio-ne citata come Casa di Modesto, che rappresenta l‟esempio migliore di co-me queste case-bottega fossero strutturate. Qui si trovano ancora, nell‟antico giardino, le macine, il forno per la cottura, l‟horreum per il de-posito dei cereali, lo stabulum per il ricovero degli animali e un locale adi-bito alla vendita del pane. 46 NICOTERA 1950, pp. 417-422. 47 AZZARO, TUCCI, AGOSTINI, COLLACETO 1998, pp. 307-308.

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Caratterizzazione petrografica e geochimica del materiale lapideo Macroscopicamente il campione analizzato si presenta con struttura compatta, vacuolare e porosa, con numerose piccole cavità di forma irrego-lare e di dimensioni variabili ma sempre nell’ordine di qualche millimetro. I fenocristalli sono numerosissimi e costituiti per la quasi totalità da grossi cristalli di leucite traslucidi pseudo-esagonali e piccoli cristalli prismatici scuri di pirosseno immersi in una pasta di fondo grigia micro cristallina. I fenocristalli di leucite costituiscono quasi il 50% in volume della roccia, hanno dimensioni variabili da 1 a 15 mm con un diametro medio di 8 mm, sono sempre abbastanza idiomorfi con habitus trapezoedrico, e general-mente si presentano fratturati. Essi mostrano molto spesso piccole inclusio-ni scure, hanno uno splendore vireo ceroide, un colore bianco grigiastro e nel complesso non sembrano visibilmente alterati. I pochi fenocristalli di femici hanno dimensioni molto minori, 1 o 2 mm, di forma prismatica e di colore nero. L’esame al microscopio polarizzatore delle sezioni sottili e l‟analisi dif-frattometrica ai raggi X, hanno evidenziato come la roccia, a tessitura pilo-tassica e struttura porfirica, è composta da fenocristalli di un’unica genera-zione, fra cui prevalgono la leucite e il clinopirosseno calcico, ricco in allu-minio, di tipo egirina augite. Subordinatamente risultano scarsi il sanidino e il plagioclasio basico di tipo andesina-labradorite. La pasta di fondo, olo-cristallina, è costituita da microliti plagioclasici e pirossenici. Tra gli acces-sori, infine, diffusa è la magnetite. Queste caratteristiche indicano una genesi intratellurica della roccia, av-venuta con graduale diminuzione dei parametri di pressione e temperatura, tipica di attività vulcanica di tipo effusivo. L‟assenza di quarzo e la diffu-sione del feldspatoide inquadrano il litotipo esaminato nel campo delle roc-ce sottosature in silice.

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L‟analisi chimica (fluorescenza ai raggi X) e lo studio alla microsonda elettronica hanno confermato il difetto in SiO2 e l‟eccesso di Al2O3. I va-lori degli elementi in traccia sono confrontabili con quelli riportati da altri studi 48 per litotipi analoghi e coevi. Il campione cade nel campo delle fo-noliti e i risultati analitici evidenziano caratteri tipici della regione Co-magmatica Romana. 49 I risultati di questi studi e le notizie bibliografiche reperibili 50 hanno indirizzato la ricerca dei siti di approvvigionamento del materiale lapideo verso il distretto vulcanico di Roccamonfina e del Somma-Vesuvio. Nel comprensorio di Roccamonfina, in prossimità dei paesi di Lipauli e Ponte, il gruppo di ricerca ha prelevato tre campioni caratterizzanti l‟affioramento. Altri tre campioni provengono da una cava antica in prossi-mità dell’anfiteatro a Pompei, abbondantemente sfruttato dagli antichi abi-tatori del sito. 51 L‟esame delle sezioni sottili al microscopio polarizzatore e l‟analisi diffrattometrica hanno per contro evidenziato alcune differenze sostanziali con il materiale lapideo. In particolare, i litotipi di Roccamonfina, pur pre-sentando la stessa compagine mineralogica degli altri campioni, hanno nel-la pasta di fondo cristalli di leucite assenti nella fonolite. I campioni di Pompei mostrano, invece, una maggiore compartecipazione di microliti pirossenici. Tra i fenocristalli non si apprezzano, invece, significative dif-ferenze (prevalenza di leucite, plagioclasio abbondante, clinopirosseno di tipo augite). Dal punto di vista chimico il litotipo di Roccamonfina rientra nel campo delle tefriti-fonolitiche, mentre quello dell‟anfiteatro tra le tra-chiandesiti basaltiche. I risultati ottenuti, pur considerando l‟esiguo numero di materiali cam-pionati, vista la possibile esistenza di una differenziazione all‟interno degli stessi affioramenti, indicano, in conclusione, una somiglianza tra i materia-li del reperto e quelli prelevati dal comprensorio di Roccamonfina. 52 Da questa ricerche è scaturito che con ogni probabilità la roccia delle maci-ne proviene dal centro eruttivo di Roccamonfina. 48 JORON, METRICH, ROSI, SANTACROCE, SBRANA 1987, pp. 105-171. 49 D‟AMICO, INNOCENTI, SASSI 1987. 50 DEVOTO 1985; DI GIROLAMO 1968. 51 DI GIROLAMO 1968, pp. 4-12. 52 AZZARO, TUCCI, AGOSTINI, COLLACETO 1998, pp. 307-308.

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1.2.2. L’IGNIMBRITE CAMPANA Le origini geologiche Detta anche “Tufo Grigio Campano” rappresenta il prodotto di un‟eruzione avvenuta nei Campi Flegrei circa 37.000 anni or sono ed è formata dal deposito di uno o più flussi piroclastici di cenere, pomici e sco-rie che hanno ricoperto un'area di 7.000 km2. Il volume di magma emesso è stato stimato dell'ordine di 80 km3. Le datazioni disponibili, effettuate sia su paleosuoli sottostanti il depo-sito sia su legni carbonizzati inglobati in esso, danno età discordanti che hanno contribuito a far nascere differenti pareri sulla possibilità che i pro-dotti siano stati emessi durante una o più eruzioni. L'Ignimbrite Campana affiora lungo i bordi di tutta la piana campana, con spessori variabili da 20 a 60 metri e si trova fino in Appennino a quote di 1.000 m. Manca nella parte centrale della piana, sia per erosione, sia perché ricoperta dai prodotti dell'attività successiva di Campi Flegrei e Ve-suvio e da terreni alluvionali. 53 Rosi e Sbrana (1987) 54 comprendono nell'Ignimbrite Campana anche i depositi chiamati Piperno e alcune brecce dette Breccia Museo , presenti nei Campi Flegrei. Il flusso piroclastico avrebbe abbandonato questo mate-riale grossolano e pesante nelle zone vicino al punto di emissione. Al con-trario, Lirer et al. (1991) 55 e Perrotta e Scarpati (1995) 56 riconoscono in queste brecce il deposito di eruzioni posteriori. I prodotti dell'Ignimbrite Campana consistono prevalentemente in po-mici e scorie nere, più o meno schiacciate e deformate chiamate fiamme, termine che indica i piroclasti vescicolati la cui porosità è ridotta per schiacciamento, inglobate in una matrice di cenere e subordinate quantità di litici e cristalli (Fig. 10). In alcuni affioramenti si osservano fratturazioni colonnari e strutture di degassazione (pipes). 53 SCANDONE, BELLUCCI, LIRER, ROLANDI1991. 54 ROSI & SBRANA 1987, PP.175. 55 LIRER, ROLANDI, RUBIN 1991. 56 PERROTTA, SCARPATI 1995.

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Figura 10. Piccole fiamme mineraliz-zate in tufo grigio.

Di Girolamo (1968) 57 e Barberi et al (1978) 58 ritengono che si tratti del deposito di una sola eruzione, anche se i prodotti presentano differenze marcate da una zona all'altra, come la variazione da depositi di colore gri-gio poco saldati a depositi gialli più saldati. Un più alto grado di saldatura è collegato a processi di mineralizzazione secondari, frequenti nei depositi ignimbritici, detti zeolitizzazione (Di Girolamo, 1968). Di Girolamo (1968) riconosce nel deposito anche graduali variazioni in senso verticale: la parte inferiore è costituita da una matrice cineritica sal-data inglobante scorie scure schiacciate e isorientate, mentre nella parte su-periore le scorie tendono ad essere meno deformate e disperse senza orien-tazione preferenziale nella matrice. Nei settori orientali della Piana Campana e dell'Appennino si trova, alla base dell'Ignimbrite Campana, uno strato di pomici da caduta. Questo si-gnifica che, prima della formazione del flusso piroclastico, l'eruzione ha avuto una fase pliniana.59

L'Ignimbrite Campana è studiata dai vulcanologi da oltre due secoli e il numero di opinioni sulla sua genesi sembra proporzionato alle dimensioni dell'eruzione. Alcuni autori (Di Girolamo, 1970; Barberi et al, 1978; Di Gi-rolamo et al, 1984) 60 ipotizzano che la zona di emissione del flusso sia una frattura arcuata presente lungo la parte Nord dei Campi Flegrei e del Golfo di Napoli e ritengono che l'eruzione abbia provocato lo sprofondamento di un'ampia area che comprende i Campi Flegrei e parte del Golfo di Napoli. 57 DI GIROLAMO1968. 58 BARBERI, INNOCENTI, LIRER, MUNNO, PESCATORE, SANTACROCE 1978, pp. 1-22. 59 DI GIROLAMO, ROLANDI, STANZIONE 1973, pp. 439-468. 60 BARBERI, INNOCENTI, LIRER, MUNNO, PESCATORE, SANTACROCE 1978, pp. 1-22; DI GIROLAMO, GHIARA, LIRER, MUNNO, ROLANDI, STANZIONE 1984, pp. 349-413.

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Secondo altri (Rosi e Sbrana, 1987), la frattura avrebbe una geometria anulare intorno ai soli Campi Flegrei e, dopo l‟eruzione, si sarebbe forma-ta la caldera flegrea. Lirer et al (1987) e Scandone et al (1991), ritengono che lo sprofondamento calderico sia avvenuto in seguito, dopo l'eruzione del Tufo Giallo Napoletano e collocano i centri eruttivi dell'Ignimbrite Campana lungo una frattura con direzione NE-SO passante per Napoli e delimitante, a Nord, la piana di Acerra (Scandone et al., 1991). Caratteristiche tecniche e minero-petrografiche L‟Ignimbrite Campana è generalmente definita come una vulcanoclasti-te costituita da pomici e scorie in matrice cineritica nella quale sono rico-noscibili due facies entrambe litificate: la grigia, contenente feldspato epi-genetico, e la gialla, caratterizzata dalla presenza di zeoliti. La facies grigia a sua volta è caratterizzata da tre differenti unità: quella basale del tutto analoga al Piperno per la presenza di scorie collassate, quella intermedia saldata con accenno all‟orientazione delle scorie ed infi-ne quella superiore con tessitura caotica e scorie generalmente rotondeg-gianti. La composizione mineralogica della facies grigia della IC è molto simi-le a quella del Piperno: il K-feldspato e il plagioclasio sono le fasi predo-minanti rappresentando circa il 90% del totale, clinopirosseno, biotite, e-matite ed a luoghi calcite sono del tutto subordinati. La meionite è stata in-dividuata esclusivamente nei livelli dell’agro Sarnese-Nocerino. Il proces-so di litificazione è da mettere principalmente in relazione a fenomeni di devetrificazione post-deposizionali che hanno condotto alla cristallizzazio-ne di feldspato autigeno. Gli ambiti di variabilità dei valori dei principali parametri fisico-meccanici sono: densità secca 22.3-25.9 kNm-3; porosità 50.4-58.6%; resi-stenza a compressione 0.9-8.0 MPa. L‟ampia diffusione su tutto il territo-rio regionale ne fa la pietra da costruzione più presente, sin dalle epoche più remote, in tutti i contesti architettonici della Campania.

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La facies grigia, per la sua facile lavorabilità e per le migliori caratteri-stiche fisico-meccaniche, risulta inoltre frequentemente utilizzata per la re-alizzazione di elementi architettonici particolari. Anche se opere architetto-niche di elevato pregio realizzate con Tufo Grigio a facciavista sono pre-senti un po’ dovunque sul territorio regionale, una particolare concentra-zione si ha nella provincia di Caserta. Anche a Napoli si è fatto largo uso della fase pipernoide della IC in so-stituzione del Piperno soprattutto per la realizzazione di quelle parti degli edifici meno esposte e meno visibili. L’introduzione di questo materiale, oggi, è stata favorita dal suo aspetto molto simile a quello del materiale più pregiato, la più facile lavorabilità, il più basso costo, e principalmente la crescente richiesta di materiale in se-guito all'espansione urbanistica della città alla quale le cave di Piperno non riuscivano a far fronte. La facies gialla della Ignimbrite Campana, pur es-sendo anche oggi un materiale da costruzione molto richiesto ed apprezza-to per le sue qualità tecniche, non ha mai assunto nell’architettura storica un‟ importanza simile a quella delle facies grigie. Pochi sono gli esempi di opere architettoniche in cui il materiale è stato usato senza rivestimento di intonaco; l‟esempio sicuramente più rappre-sentativo è il Mastio del Castello di Casertavecchia anche se studi recenti hanno evidenziato alcune diversità minero-petrografiche che fanno sorgere non pochi dubbi circa la provenienza di questo tufo. 61 L’Ignimbrite Campana a Pompei: caratteristiche e impiego Il tufo grigio messo in opera a Pompei 62 rappresenta un materiale da costruzione classico per il larghissimo impiego che ebbe attraverso i tempi a causa delle sue pregevoli qualità tecniche, quali la notevole resistenza al-la compressione, la facile lavorabilità e soprattutto la finezza della grana, talvolta assai uniforme. Dai prelievi effettuati (Tempio di Apollo, Quadri-portico e Foro Triangolare) e da un primo esame macroscopico, esso risulta costituito da una matrice cineritica grigia, ricca di inclusi lentiformi scoria-cei, più scuri della massa e sovente orientati parallelamente, e qua e là di piccole geodi fluorifere.

61 DE‟GENNARO 2007, pp. 228-250. 62 L‟uso del tufo si diffonde a Pompei a partire dal III secolo a.C., raggiungendo il suo apice nel II secolo a.C. quando, tagliato a grosse lastre regolari, fu adoperato come paramento per le facciate dei più notevo-li edifici della città. All‟epoca annibalica risale il restauro delle mura con una nuova cortina in tufo.

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La parte grigia ha tessitura cristallina a grana finissima: vi si distinguo-no con la lente fenocristalli di sanidino, feldspati, pirosseno e scarse lami-ne di mica. Caratteristico di questo tufo è in genere il suono metallico che rende, se battuto anche leggermente, con le nocche delle dita. La Diffrazione ai Raggi X (Fig. 11) ha rilevato picchi molto alti di fel-dspati, prevalentemente sanidino e ortoclasio, discrete quantità di pirosseni (diopside), ematite e quarzo in minori quantità.

Figura 11. Diffrazione ai Raggi X su un campione di tufo grigio prelevato dall'area del Foro Trian-golare.

A Pompei il tufo grigio fu largamente impiegato in ogni sorta di edifici pubblici e privati, per la costruzione di muri, per il rivestimento di opere militari o per le scalinate di accesso, come ad esempio avvenne per l’Ager Sanniticus dopo la demolizione della cinta presannitica e per le varie porte che si aprivano nelle mura.

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Dove, però, questo prezioso materiale ebbe fondamentale importanza, conferendo una spiccata impronta all‟edilizia e consentendo l‟agevole svi-luppo di un‟architettura ariosa e piena di movimento di masse, fu nei tem-pli per la costruzione dei quali, specialmente nei portici, esso fu di enorme ausilio, se non consentì addirittura il sorgere di opere che sarebbe stato tec-nicamente ed economicamente assai meno facile erigere. Con ciò non si vuole dire che se Pompei non avesse potuto facilmente disporre del tufo grigio, alcune costruzioni a carattere pubblico non sareb-bero potute sorgere; i problemi edilizi sarebbero stati ugualmente affrontati e le varie divinità avrebbero ugualmente avuto il loro tempio. Si è certi, pe-rò, che la vicinanza del luogo di estrazione, da sempre attribuito al territo-rio nocerino, la leggerezza del materiale, la finezza della sua struttura e la sua facile lavorabilità debbono essere stati tutti elementi che determinaro-no, almeno nel loro complesso, la grandiosità e l‟arditezza di alcune co-struzioni, realizzabili certo con spesa assai più modesta che se si fosse do-vuto ricorrere ai calcari. Questi, infatti, pur essendo abbondanti ai margini della conca campana, erano assai più difficilmente ottenibili in grossi bloc-chi ed offrivano difficoltà di lavorazione e di posa in opera di gran lunga maggiori, che non poterono essere affrontate che nell’ultimo periodo di vi-ta della città. Così nel Tempio dorico il tufo grigio trova impiego fin dalla messa in opera del colonnato del periptero; mentre nel Tempio di Apollo lo stesso materiale venne usato tanto per le colonne del pronao, quanto per quelle che in numero di 48 sostenevano l‟ampio ed arioso portico; nel por-tico dorico addossato al lato settentrionale del peribolo dello stesso tempio, nelle colonne ed epistilio del portico del cosiddetto Foro Triangolare (Fig. 12), per il quale, però, i più recenti studi hanno proposto una datazione più alta, 63 ed in quelle (74) del Quadriportico, nel portico di Vibio Vinicio, presso il teatro, ed infine nelle 6 eleganti colonne dei Propilei d‟ingresso al Foro triangolare, dal lato settentrionale, nelle quali ultime non si può non ammirare la solida snellezza saettante con sicurezza verso il cielo. 63 CARANDINI 2001, pp. 127-129. Un profondo intervento edilizio nel Foro Triangolare, che vide allora, per la prima volta, la costruzione dell‟hekatonstylon lungo i lati Nord ed Est nelle forme giunte fino a noi è stato riferito all‟età neroniana (e, quindi, presumibilmente, all‟età post-sismica) sulla base dei dati rac-colti in cinque saggi stratigrafici eseguiti nel portico occidentale e nella parte settentrionale di quello orientale. Su queste conclusioni, che, come sottolinea lo studioso, ribaltano la “vulgata pompeiana” di una più antica monumentalizzazione dell‟area avvenuta già in età tardo-sannitica, come suggerirebbe il materiale e la tipologia dei capitelli in tufo messi in opera nei Propilei e nei portici, si vedano le osserva-zioni di DE WAELE 2001, pp. 332-334 e di COARELLI 2001, pp. 159-160. 0

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Templi, portici e fori, dunque, molto doverono al c.d. tufo grigio di Nocera e non solo per queste parti a prevalenti funzioni statiche, ma altresì per quant‟altro avesse una pura funzione ornamentale, al cui conseguimento tanto contribuiva la possibilità di poter ricavare da quel materiale, non pre-giato per la sua natura, belli e ricchi elementi decorativi. Tra il copioso materiale variamente scolpito che adornava generalmente le costruzioni pubbliche, di particolare pregio artistico sono, ad esempio, la testa di Medusa, in rilievo di arte locale, che adorna un cippo presso la por-ta di Stabia; una protome di Minerva scolpita sulla chiave di volta della Porta Nolana; i telamoni dell‟Odeion (Fig. 13); la testa di Satiro dell‟arco d‟ingresso del fornice occidentale del teatro e, soprattutto, i bellissimi ca-pitelli di stile corinzio che coronano in molti casi le svelte colonne scanala-te, erette anche in edifici privati, per reggere la copertura di atri e di porti-ci. 64

Figura 12. Colonne doriche in tufo nel portico del Foro Triangolare.

64 PESCIONE 1950, pp. 85-91.

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Figura 13. Telamone in tufo dall'Odeion.

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2010

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