I limiti dello sviluppo,un introduzione

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Lamberto Aliberti Usciva nel 1972, nella biblioteca della EST, Mondadori, un saggio a più mani, di circa 150 pagine, col titolo “I limiti dello sviluppo”, dove si presentava un rapporto, annunciato nel marzo di quell’anno alla Smithsonian Institution Washington. Ad oggi il libro è stato stampato in 12 milioni di copie, in 35 lingue. Il suo messaggio era sostanzialmente contro lo sviluppo materiale dell’umanità, il growth, quello stesso valore che l’Occidente sembra aver perduto da circa un lustro e che stiamo ansiosamente cercando di recuperare. Ma non era il solito lamento di cassandre, già allora attive. Concentrandosi sullo squilibrio, tra la crescita incontrollata della popolazione e della produzione, soprattutto industriale, il deterioramento dell’ambiente e la finitezza delle risorse, presagiva declino e collasso. Di più, pretendeva di rendere manifesto e dimostrato il possibile gramo destino del nostro pianeta, attraverso uno strumento tecnologico: un modello matematico, cioè la traduzione in numeri ed equazioni dell’interazione fra le grandezze cardine dello sviluppo umano, mettendosi in grado di simularne diverse traiettorie nel futuro, a seconda dei valori, cui si orientassero le istituzioni mondiali e locali. L’effetto fu enorme, da noi. In Europa forse più che altrove. L’opposizione fortissima, tanto al messaggio, quanto al mezzo. Ma entrambi, forse più negli Stati Uniti che altrove, penetrarono profondamente nell’opinione pubblica e portarono in campo quantomeno nuove aspettative e correnti di pensiero. L’estate scorsa se ne è parlato in una riunione del gruppo Dext (Debt Exit Strategy), studenti e neolaureati dell’Università Statale di Milano, che si definiscono ingegneri umanisti e intendono dedicarsi a quel messaggio, usando quel mezzo, o, meglio, proseguirli entrambi, giovandosi dell’evoluzione di contenuto e metodo, nei 40 anni trascorsi. Si è partiti costatando quanto si fossero dimenticati i protagonisti di quei giorni. E quanto sarebbe stato utile a tutti, soprattutto a chi si è formato sugli studi classici, riproporre, con le dovute evoluzioni, quel metodo di lavoro, che ha portato a strumenti di grandissima diffusione, ma più nel mondo del management economico, che in quello sociale. Poi abbiamo cominciato a chiederci se il messaggio era giusto e come l’avremmo cambiato, col senno di poi. Infine abbiamo programmato di rivederlo, aggiustarlo e rilanciarlo nella prospettiva del nuovo millennio. In ultima istanza, abbiamo convenuto per una rubrica, occasionata da una celebrazione, volta però molto molto più in là. I dilemmi dell’umanità in un modello mondiale. Come si presentavano, 40 anni fa? E come si sono trasferiti in un mezzo, allora così innovativo? Sono due filoni, convergenti in una riunione a Berna, il 29 giugno 1970. Da un lato il Club di Roma, un gruppo di una settantina di persone, di differenti culture e paesi, un think tank, si direbbe oggi, sotto la presidenza del

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E' ancora attuale parlare dei limiti dello sviluppo?

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Lamberto Aliberti

Usciva nel 1972, nella biblioteca della EST, Mondadori, un saggio a più mani, di circa 150 pagine, col titolo “I limiti dello sviluppo”, dove si presentava un rapporto, annunciato nel marzo di quell’anno alla Smithsonian Institution Washington. Ad oggi il libro è stato stampato in 12 milioni di copie, in 35 lingue. Il suo messaggio era sostanzialmente contro lo sviluppo materiale dell’umanità, il growth, quello stesso valore che l’Occidente sembra aver perduto da circa un lustro e che stiamo ansiosamente cercando di recuperare. Ma non era il solito lamento di cassandre, già allora attive. Concentrandosi sullo squilibrio, tra la crescita incontrollata della popolazione e della produzione, soprattutto industriale, il deterioramento dell’ambiente e la finitezza delle risorse, presagiva declino e collasso. Di più, pretendeva di rendere manifesto e dimostrato il possibile gramo destino del nostro pianeta, attraverso uno strumento tecnologico: un modello matematico, cioè la traduzione in numeri ed equazioni dell’interazione fra le grandezze cardine dello sviluppo umano, mettendosi in grado di simularne diverse traiettorie nel futuro, a seconda dei valori, cui si orientassero le istituzioni mondiali e locali. L’effetto fu enorme, da noi. In Europa forse più che altrove. L’opposizione fortissima, tanto al messaggio, quanto al mezzo. Ma entrambi, forse più negli Stati Uniti che altrove, penetrarono profondamente nell’opinione pubblica e portarono in campo quantomeno nuove aspettative e correnti di pensiero. L’estate scorsa se ne è parlato in una riunione del gruppo Dext (Debt Exit Strategy), studenti e neolaureati dell’Università Statale di Milano, che si definiscono ingegneri umanisti e intendono dedicarsi a quel messaggio, usando quel mezzo, o, meglio, proseguirli entrambi, giovandosi dell’evoluzione di contenuto e metodo, nei 40 anni trascorsi. Si è partiti costatando quanto si fossero dimenticati i protagonisti di quei giorni. E quanto sarebbe stato utile a tutti, soprattutto a chi si è formato sugli studi classici, riproporre, con le dovute evoluzioni, quel metodo di lavoro, che ha portato a strumenti di grandissima diffusione, ma più nel mondo del management economico, che in quello sociale. Poi abbiamo cominciato a chiederci se il messaggio era giusto e come l’avremmo cambiato, col senno di poi. Infine abbiamo programmato di rivederlo, aggiustarlo e rilanciarlo nella prospettiva del nuovo millennio. In ultima istanza, abbiamo convenuto per una rubrica, occasionata da una celebrazione, volta però molto molto più in là. I dilemmi dell’umanità in un modello mondiale. Come si presentavano, 40 anni fa? E come si sono trasferiti in un mezzo, allora così innovativo? Sono due filoni, convergenti in una riunione a Berna, il 29 giugno 1970. Da un lato il Club di Roma, un gruppo di una settantina di persone, di differenti culture e paesi, un think tank, si direbbe oggi, sotto la presidenza del

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fondatore, Aurelio Peccei, intento a progetti di monitoraggio degli squilibri della crescita quantitativa del mondo, allora invero limitata all’Occidente, e alla ricerca di alternative di cambiamento qualitativo. Dall’altro il System Dynamics Group, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), sotto la guida di Jay Forrester, inventore di un nuovo linguaggio di modellizzazione di sistemi economico-sociali, particolarmente versato nella trattazione della complessità e nell’emersione della controintuitività (andamenti inattesi e non percettibili dalla mente umana, se non attraverso una strumentazione apposita, un modello matematico, per l’appunto). Il primo assunse il ruolo di committente. Il secondo di builder del modello. Il tema: i dilemmi dell’umanità, nella prospettiva temporale dal 1970 al 2100. Il messaggio. Eccolo: l’umanità sta attraversando di corsa una grande stanza buia, piena di mobili: i limiti. Urtandoli – inevitabile – non si riempirà solo di lividi, ma sarà proiettata a terra, in un lampo, con ferite difficilmente curabili e tali da richiedere molto tempo per guarire. Ed è qui l’annuncio choccante. Che troverà numerosi avversari accaniti, seminando però idee, che andranno profondamente ad insinuarsi nella cultura del mondo. Di limiti allo sviluppo, anzi alla crescita, peraltro già si parlava da tempo. Prendiamo la popolazione. Un demografo della fine del Settecento, Malthus, predisse che la sua espansione sarebbe stata inevitabilmente bloccata dall’esaurimento dei generi alimentari. Sosteneva che la popolazione progrediva con passo esponenziale, vale dire le nascite erano calcolabili come una frazione dei viventi a una certa data, quindi aumentavano in proporzione a questi ultimi, facendoli a propria volta crescere. L’approvvigionamento di cibo seguiva invece una regola rettilinea, poteva aumentare cioè solo di una frazione costante. In questo diagramma, si accostano i 2 tipi di curve: per quanto sia diversa, favorevole alla retta, l’inclinazione, nel caso la produzione di cibo, l’esponenziale, nel caso la popolazione, finirà per sopravanzarla.

Conseguenze: carestie, guerre, ecc. Inevitabile il formarsi di movimenti di controllo delle nascite. Apriti cielo. Proprio una misura che non piace a nessuna religione – chissà perché – e che nel dopoguerra andava anche a trovarsi in conflitto con la cultura imperante di sinistra, allora decisamente egemone, che la vedeva come una sopraffazione sul Terzo Mondo, una

specie di revival del colonialismo, mentre i paesi avanzati nella prassi avevano dimenticato da un pezzo gli 8 milioni di baionette, anche esagerando un po’,

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come sta capitando nella Vecchia Europa e in Giappone. Tanto era forte il tema: popolazione e fame, che l’interesse del pubblico vi si concentrò subito, col rischio di perdere di vista altre espressioni di crescita quantitativa, in procinto di diventare spigoli non meno dolorosi. Per prima l’economia, assunta nei Limiti dello Sviluppo, come capitale produttivo, destinato in parte all’agricoltura e in parte all’incremento dei beni di consumo. I vincoli al growth si trovavano intanto nella disponibilità delle materie prime, come il rame, l’alluminio, il ferro, lo zinco, ecc. tuttora insostituibili nel processo produttivo, destinate ad un ineluttabile esaurimento. E il bello è che la teoria economica del limite ultimativo delle commodities, come vengono dette, non si era mai fatta carico, eppure, già allora, con l’econometria si cercava di darne una dimensione scientifica, perseguendo la prevedibilità di settori, mercati e paesi. A svegliarci fu la geopolitica con la Guerra del Kippur. Sconfitti da Israele, cui andava la simpatia dell’Occidente, gli Arabi contingentarono i rifornimenti del petrolio, causando una crisi mondiale, di proporzioni non tanto inferiori di quella che ci affligge ora. Eravamo ad un anno dall’uscita del libro. Gli economisti si stavano affannando a dimostrare che le stime sulle riserve di commodities erano tutte sbagliate. Ma l’opinione pubblica cominciò a chiedersi se la promessa di un progresso infinito, di una disponibilità senza fine di beni di consumo per tutti, fosse così fondata, pur senza modificare per nulla i propri comportamenti spreconi. Dai Limiti dello Sviluppo giungeva però anche un’altra sveglia, che crescita economica e demografica dovessero finire per mettersi in conflitto con l’ambiente. Inquinamento, riscaldamento globale, fenomeni meteorologici estremi, come uragani, inondazioni e frane catastrofiche, erano messi in dipendenza di comportamenti apparentemente virtuosi dell’umanità, come la produzione di beni ed alimenti, nonché gli stessi andamenti demografici, quali migrazioni, concentrazioni in città sempre più grandi, sfruttamento intensivo del suolo, deforestazione e quant’altro. Oggi li abbiamo sott’occhio e indubbiamente facciamo fatica a capire cos’abbia voluto dire quello smilzo volumetto dei primi Anni Settanta, svegliandoci, soprattutto noi Occidentali, dalle illusioni del Dopoguerra: la Dolce Vita, che veramente fu un momento, non per molti beninteso, della fine degli Anni Sessanta. Che il mito della crescita non sia affatto morto, anzi sia già risorto un decennio dopo e continui ad avvincerci periodicamente, significa poco. Il dubbio ce l’hanno seminato. Una rivoluzione copernicana nella cultura c’è stata allora. Che si finga di dimenticarla fa parte delle regole del gioco. Piuttosto non si è compreso che i singoli limiti dovevano essere intesi come un groviglio inestricabile, se affrontati singolarmente. Popolazione, capitale produttivo, risorse naturali, ambiente ecologico sono un tutt’uno. L’antropocene, l’era geologica corrente, ha visto un tale impatto delle attività dell’uomo, che è andata a costituirsi in un sistema, cioè in un intreccio di forze e grandezze materiali, connesse da vincoli ed obiettivi, alla ricerca di un proprio equilibrio interno, che non solo soffoca la tendenza ad espandersi, ben radicata in noi, ma minaccia di retroagire. Non si accontenta di annullare la nostra volontà di crescita, congiura per distruggerci. Ed è qui, in effetti, la ragione di questa celebrazione. Se noi guardiamo la storia di questi anni sembra che la lezione dei Limiti dello Sviluppo abbia avuto

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il normale, pur se, come sempre, contrastato corso, di ogni nuova giustificata visione del mondo. In certi casi sembra anzi che sia stata accolta, in un modo tanto pacifico, da farci dimenticare persino la sua matrice. La crescita della popolazione sta rallentando dovunque, in Europa e Giappone fin troppo. La lotta contro il deterioramento dell’ambiente è in atto, anche se ad intermittenza. Va in pausa non appena si minaccia una crisi economica. E non è certo aiutata da una scienza politicizzata, che ci ha confuso le idee e suscitato sospetti di conflitti d’interesse. Molto si fa per la sostituzione delle commodities, soprattutto quelle energetiche. Quasi nulla sul fronte di quelle agricole, se non integrazioni e sostituzioni dell’una con l’altra, seguendo esclusivamente logiche di prezzo. Insomma ci si è inoltrati in direzioni diverse, non coordinate, spesso avversate, interrotte, riprese, senza che si sia compreso che la minaccia è nel sistema e non nei suoi singoli fattori. Opporvisi l’uno dopo l’altro è illusorio. Peggio se pensiamo di farlo solo quando saremo così vicini agli spigoli, da esserne avvisati. La rivoluzione copernicana dei Limiti dello Sviluppo è nel fatto che quando li toccheremo, la loro reazione ci starà già travolgendo. Lo testimonia una delle molte simulazioni del libro. Anche coi mezzi grafici rudimentali di allora si vede come la caduta sia rapida, rispetto alla salita, in particolare su quanto ci fa più orgogliosi: la produzione industriale. Le ragioni? Un approccio sistemico al problema dei limiti, prima di

tutto cioè all’interazione delle grandezze in gioco, nessuna delle quali può essere vista come causa principale, anzi tutte si presentano sia come cause che effetti del loro divenire nel tempo. Può essere messa in dubbio l’attualità di questo messaggio? È la domanda, cui si cercherà di rispondere. Per

questo, insieme ad un’analisi accurata di mancanze e carenze nella visione originale, leggendo in profondità i diversi rivoli, percorsi dal libro, raccogliendo i contributi dei molti approfondimenti in materia, prodotti nei 40 anni successivi, ci prendiamo l’impegno di riannodare uno per uno i fili di quel discorso e poi ricomporli in un quadro unitario aggiornato. Il modello. Da qualche anno la matematica era entrata prepotentemente nella presa di decisione manageriale. Da quando si cominciò a percepire la complessità del mondo dell’economia: numerosità di fattori in gioco, reciproca interazione,

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mescolanza di elementi quantificabili e non. Di qui era venuto fuori il concetto di sistema: insieme di fenomeni, variabili nel tempo, interconnessi in modo tale che cause ed effetti non erano separabili, ma coesistevano, finendo per comportarsi come un tutto unico, che, rispetto ad ogni sollecitazione esterna reagivano all’unisono, alla ricerca di un proprio equilibrio, molto spesso inatteso per chi vi operava. Era quanto Forrester chiamò “il comportamento controintuitivo dei sistemi sociali”. Il manager, nella sua visione deterministica del mondo, fiducioso che le proprie scelte (decisioni) avrebbero finito per migliorare lo stato delle cose, ne era frustrato. Decise di rivolgersi alla matematica per averne un supporto. Lo stesso fatto dai generali Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, che aveva prodotto la Ricerca Operativa, trasferita ben presto, coi dovuti cambiamenti ai suoi algoritmi, in campo civile. In ambito economico vi si generò l’Econometria e cominciò la produzione di modelli a supporto della pianificazione, principalmente macroeconomica, varata per cambiare in meglio settori e mercati. Anche se affidato al simbolismo matematico, il modello è un oggetto dalle prestazioni concrete, messo in grado di rappresentare relazioni tra variabili, da cui trarre scenari futuri, un ruolo non diverso di una carta geografica, anch’essa un modello, indispensabile per programmare un viaggio. L’econometria si affidava alla statistica e all’analisi matematica classica. Con la prima dava una misura e un andamento alle principali variabili del sistema investigato. Con la seconda ne calcolava la soluzione. Il modello era costruito con questa meccanica: L’approccio obbligava ad una radicale semplificazione della realtà. Era necessario infatti perdere condizioni di feedback loop (anello di retroazione), proprio quelle che rendono sistema un insieme di variabili. Eppure si potrebbe dire che l’economia matematica è nata proprio dalla constatazione di un tale stato, quando stabilisce che il rapporto tra domanda e offerta determina il prezzo di qualsiasi bene economico e che il prezzo retroagisce tanto sulla domanda che sull’offerta: al suo aumento consegue una riduzione della prima e un aumento della seconda e viceversa. In buona sostanza il mercato di qualsiasi cosa è un sistema, in quanto persegue un suo equilibrio tra domanda, offerta e prezzo, dato dal fatto che le 3 variabili sono tanto causa che effetto, a seconda del punto di vista, da cui si guardano, perciò è possibile affermare che condizionano, in modo necessario, pur se non sufficiente, se stesse. Ed è

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questa la matrice della complessità, di livello crescente, quanti più feedback loop sono presenti nel sistema, rendendolo tale. Il cui numero obbligherebbe a sistemi equazionali di grado altrettanto elevato, tuttora non risolubili con l’analisi matematica classica. Ecco perché l’econometria è una tecnica semplificatoria: deve perdere i feedback, altrimenti sarebbero incalcolabili. Ma semplificare la complessità è un ossimoro, una contraddizione in termini. Come si può avere fiducia in un approccio del genere? È qui il punto d’aggancio di Forrester. La sua entrata in campo risale al 1961. Col modello “Industrial Dynamics”, applicato all’area aziendale, che oggi si direbbe logistica. Vi si presenta il linguaggio e il processo di costruzione di modelli, affidati al metodo dell’Analisi Dinamica dei Sistemi. La sua meccanica capovolge quella econometrica. Anziché affidarsi alla statistica, Forrester si rivolge all’esperto di quel sistema, normalmente il manager stesso, che applicherà successivamente il modello, come supporto alla propria presa di decisione. Insieme compongono la rete sistemica, una mappa delle variabili, riconoscibili nella realtà, e le relazioni causa-effetto, tra l’una e tutte le altre. Quindi daranno una forma matematica alle relazioni e ne calcoleranno i parametri. Saranno, questi tre passaggi, sufficienti a generare dei dati. Sono affidabili? Ci restituiscono correttamente le dinamiche del sistema? Per saperlo basterà metterli in confronto con quanto si sa. Insomma, a questo punto risorge la statistica, come controllo della nostra costruzione. Se lo scostamento tra i dati teorici, prodotti dal modello, e quelli effettivi, ricavati direttamente dalla realtà, è inaccettabile, si torna alla prima fase, detta di analisi, cambiando le nostre ipotesi sulle variabili e sulle relazioni, che le governano. Un approccio per tentativi, in buona sostanza. Che, in dipendenza da quanto il sistema è vasto e noto, di quanto sia accettabile nella prassi l’inevitabile approssimazione del modello, ci porterà, in tempi più o meno lunghi, sempre in porto. A garantirlo Forrester provvede soprattutto con gli strumenti di analisi. Anzitutto garantisce una base logica, in cui si distinguono tipi di variabili, strutturalmente differenti, cui si collegano meccaniche specifiche. Poi codifica un linguaggio grafico, che permette il riconoscimento della diversa natura delle variabili in gioco, evidenzia le reciproche interazioni, conduce quasi automaticamente all’ultima fase dell’analisi, consistente nella stesura matematica del modello, che, affidato a

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un computer, potrà produrre simulazioni e previsioni. La fase grafica, ponte fra quella narrativa iniziale e la stesura matematica, è essenziale, soprattutto per facilitare la lettura del sistema, in quanto l’analisi dinamica ha necessità di dettaglio, dovute all’esigenza di non perdere neanche una relazione causa-effetto, che, se affidate al solo linguaggio ordinario, non ci permetterebbero di raccapezzarci. Queste caratteristiche portarono ad un’immediata larga diffusione del metodo. Che Forrester applicò a un sistema pubblico nel 1968, con Urban Dynamics, ottenendo un’eco controversa, perché, all’insegna della controintuitività, si attaccò decisamente una serie di preconcetti e miti nello sviluppo e declino di una metropoli americana. Fu però coi Limiti dello Sviluppo, anzi già dalla prima stesura del modello “World Dynamics”, di suo pugno, curiosamente divulgata da noi posteriormente (Dinamiche Mondiali, Etas Libri, 1974), che la sua fama fece il giro del mondo. L’analisi dinamica dei sistemi venne subito applicata ad intere economie. Ma con scarso successo, perché la politica ha sempre rifiutato di farsi aiutare a decidere. Mentre in ambito aziendale diventava lo strumento principe di aiuto alla formulazione di strategie, come rivelò una ricerca, oggi introvabile, se ben ricordiamo, del 1982. Egemonia tuttora mantenuta, anche se di tanto in tanto si annuncia un antagonista, che al più trova posto in ambiti ristretti e specialistici. Noi ci siamo inseriti in quella corrente a partire dal ’75. Ora stiamo facendo un cammino, per qualche verso opposto al suo, dai sistemi strategici e dagli scenari aziendali all’orbita pubblica, ai temi di rilevanza sociale generale. Per questo introduciamo, nella doverosa celebrazione, un filone metodologico, sufficientemente approfondito da spingere forse altri a incamminarsi o a proseguire nella stessa direzione. L’ossatura della rubrica. Un po’ di storia:

• I protagonisti, persone e organizzazioni. • I dilemmi dell’umanità negli anni ’70. • L’accoglimento dei limiti dello sviluppo. • L’evoluzione delle idee e della visione dei limiti, fino al nuovo millennio. • Successori ed epigoni dei protagonisti di allora.

Cosa rimane del messaggio:

• Quanto si è avverato. • Soluzioni e pseudo soluzioni. • L’emersione di nuovi problemi. • Bolle e crisi. • Ipotesi sul futuro dell’umanità oggi

La modellistica socio-economica oggi:

• Presa di decisione, sistemi, complessità e controintuitività. • Pensare per modelli. • Previsione e simulazione. • Usare i modelli. • Costruire modelli. • Storia dei supporti alla presa di decisione. • L’impiego dei modelli.

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Riprogettiamo i limiti dello sviluppo:

• La popolazione, troppi giovani qua e troppi vecchi là. • Chi mangia troppo e chi niente. • Commodities: quelle che cominciano a scarseggiare e quelle che

cominciano a mancare. • L’energia: se abbonda, uccide. • La degenerazione dell’antropocene. E gli scienziati si azzuffano.: • L’economia non conta più e la finanza troppo. • Produrre senza occupati. • Politica senza politici. Sarebbe ora. • E la geopolitica? Verso un mondo bilatero, poligonale o a geometrie

variabili? • Idee per un nuovo equilibrio globale.

Invito Siamo aperti a tutti. Fatevi sentire. Raccogliamo critiche, suggerimenti e progetti. Non metteteci solo fretta. Facciamo questo lavoro part-time. Ma il vostro incoraggiamento ci farà aumentare le ore profuse.