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Giuseppe Bettoni, Isabella Tamponi

GEOPOLITICAE COMUNICAZIONE

FrancoAngeli

1387.46 11-09-2012 10:29 Pagina 2

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Indice

Introduzione pag. 7

Prima Parte

1. Geopolitica » 13 1. Una definizione di geopolitica » 16 2. Qualche esempio di casi ed evoluzioni geopolitiche 3. A una scala più piccola: lo scacchiere regionale e la Turchia 4. Come nasce la geopolitica 5. Caratteristiche di una situazione geopolitica 6. Scale e rappresentazioni: in geografia e geopolitica 7. Dai livelli di analisi al diatopo

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2. Attori e territori

1. Geopolitica dell’Organizzazione del territorio 2. L’Unione Europea e l’aménagement du territoire 3. Aménagement du territoire: la Francia 4. L’organizzazione territoriale in Italia

3. Geopolitica e comunicazione 1. Toponimi e geopolitica 2. L’analisi geopolitica 3. Geopolitica oggi, nuove dimensioni 4. Geopolitica e mass media

4. Comunicazione geopolitica e mass media 1. Rappresentare il Mondo: commenti alle cartografie

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2. Il caso di La Repubblica/Le Monde pag. 108 3. Le Dessous Des Cartes » 123 4. Critical Cartography » 160

Seconda Parte

5. Geopolitica e guerra fredda 1. La guerra fredda 2. Perché nasce la NATO? 3. Dopo la NATO, quali rapporti tra USA e mondo musulmano? 4. La proiezione della potenza americana in Iraq provoca, in una

gran parte del mondo, una fase di grave tensione geopolitica

6. Il Mediterraneo 1. Il Mediterraneo, insieme geopolitico molto particolare 2. Analisi geopolitica dell’area mediorientale

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Conclusioni » 221

Riferimenti bibliografici

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Introduzione

Questo libro nasce da un bisogno molto preciso: quello di fare luce su un uso sempre maggiore nei media delle cartografie e della geopolitica, nonché su un evidente ritardo (a essere gentile) dei media italiani in questo campo.

Fin dalla sua definizione Lacoste, infatti, ha messo in evidenza un ele-mento centrale della geopolitica: l’uso degli strumenti di comunicazione di massa. Così facendo, Lacoste, non solo afferma la modernità della geopoli-tica, ma soprattutto inserisce un oggetto di studio e d’analisi importante: il mezzo di comunicazione di massa.

Troppe volte ci è sembrato difficile reperire materiale italiano su questa materia da fornire agli studenti. Troppe volte è stato complicato offrire in-formazioni bibliografiche a coloro i quali ci chiedevano maggiori informa-zioni su questo aspetto. Soprattutto, era imbarazzante l’abbondanza di ma-teriale geografico in Paesi come Germania, Gran Bretagna, per non parlare della Francia, patria di geografia e geopolitica. Mentre in Italia non esiste neanche un reparto “geografia” nelle librerie (si viene sempre indirizzati al reparto “turismo” che decisamente non è geografia).

Nel frattempo gli strumenti telematici, e in particolar modo internet, hanno fatto familiarizzare anche in non addetti ai lavori con l’uso della car-tografia. Google Earth o Google Maps hanno fatto si che ognuno di noi po-tesse creare le proprie carte geografiche in un uso quotidiano, semplice e diffuso. Ma, questo, in un Paese come l’Italia, in cui la formazione in mate-ria geografica è la più trascurata, se non del tutto abbandonata, ha permesso che si venissero a creare non poche confusioni e veri e propri errori.

Tanto per cominciare molti si sono sentiti autorizzati a pensare che l’era delle carte geografiche fosse finita, quando invece in tutti i Paesi del mondo gli strumenti telematici non sono serviti ad altro che a produrre carte geo-grafiche di migliore qualità, ma pur sempre carte geografiche (le immagini

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satellitari, Google Earth o le fotogrammetrie aeree non potranno mai sosti-tuire una buona carta geografica). Da un altro punto di vista gli stessi gior-nali, riviste, televisioni, hanno cominciato ad avere un uso a dir poco for-sennato delle carte geografiche e della parola geopolitica. Per questo moti-vo l’obiettivo di questo testo è doppio, come due sono le parti che lo com-pongono. In effetti, prima di tutto abbiamo cercato di capire cos’è la geopo-litica e soprattutto come la comunicazione avesse un legame con essa. Per questo motivo siamo entrati nel campo della comunicazione, soprattutto quella legata agli attori pubblici, come la francese DATAR: per capire co-me l’attore pubblico necessiti di una comunicazione cartografica prima di tutto, e quindi geopolitica: esiste cioè una vera comunicazione cartografica istituzionale. Allo stesso modo, si è guardato alla geopolitica per l’Unione Europea nonché alla geopolitica dell’organizzazione territoriale. Nel mo-mento in cui ci si addentra nei bisogni di comunicazione cartografica del decisore pubblico si capisce come i media possano utilizzare l’immagine cartografica e, soprattutto, sfruttano quella convinzione che quando si è di fronte a una cartografia ci si trovi praticamente di fronte a una sintesi della realtà e per questo non opinabile.

Effettivamente l’interesse che da sempre l’utente/lettore ha per il mes-saggio cartografico ha spinto i media a utilizzarlo sempre più, ma con risul-tati estremamente diversi.

Il lavoro di ricerca e analisi condotto in questo testo riguardo sia un’im-portante trasmissione televisiva francese, completamente basata sulle car-tografie, che la comparazione tra due quotidiani nazionali, La Repubblica per l’Italia e Le Monde per la Francia, ha proprio questo doppio obiettivo: spiegare cosa significano geopolitica e cartografia nei media e qual è la si-tuazione dell’Italia in questo campo.

Si potrà capire come le formazioni in geografia offerte dai due sistemi educativi, quello italiano e quello francese, siano molto diverse. Di conse-guenza l’abitudine al messaggio cartografico, sia attiva che passiva, è molto diversa e, come vedremo, non certamente a vantaggio dell’Italia, questo a dimostrazione della follia che spinge decisori pubblici a ridurre sempre più l’importanza dell’insegnamento della geografia nelle scuole. La stessa dif-ferenza che si ha nelle diverse proiezioni cartografiche, per esempio per i planisferi, ci farà capire quanto il mondo della cartografia sia tutt’altro che rigido e banale, ma è invece un punto importante di gestione del potere. Proprio per questo si vedono sempre più carte e proprio per questo ogni qual volta si parla di territorio scoppiano conflitti, anche all’interno di uno stesso stato.

Proprio per rendere più chiaro quanto sia complesso il legame tra carto-

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grafia, geopolitica e comunicazione, abbiamo deciso di concludere questo testo con una seconda parte che mostrerà cos’è una situazione geopolitica e come andrebbe esposta almeno in un primo momento. Siamo infatti con-vinti che oggi i media Italiani abbiano una grande difficoltà a spiegare certi tipi di eventi, di situazioni, preferendo l’aneddoto all’analisi. Se da una par-te il giornale deve concentrarsi sui fatti, da un’altra sempre più si è ritaglia-to un ruolo di analisi. Allora se di analisi deve trattarsi, occorre che il mez-zo di comunicazione sia realmente capace di fornire gli strumenti di com-prensione necessari al lettore. Per questo motivo abbiamo scelto degli am-biti estremamente utilizzati, come Mediterraneo, il Medio e Vicino Oriente, il Sahara, per far capire al meglio quanto complessa sia una situazione geo-politica e quanto la rappresentazione, che veicola il messaggio degli attori coinvolti, possa essere parziale. Se non si ha la reale dimensione della complessità, non si può capire la difficoltà di comunicare una determinata situazione, e quindi, non si può cogliere quanto una cartografia sia tanto importante quanto di parte.

Questo testo non vuole essere esaustivo nella materia, al contrario: vuo-le prima di tutto mostrare quanto questo ambito richieda più che mai atten-zione e speriamo possa rappresentare un inizio che stimoli altri studiosi a simili comparazioni e analisi.

Roma, settembre 2012

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Prima Parte

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1. Geopolitica

Geografia, Geografia Politica e quindi Geopolitica. Questo collegamen-

to non è banale, al massimo è naturale. Adalberto Vallega scriveva anni fa che in realtà Geopolitica è il modo riduttivo di dire Geografia Politica. È sorprendente questa presa di posizione da parte sua. In realtà non è certa-mente così e la letteratura internazionale è abbastanza unanime nel conside-rare le due discipline ben diverse tra loro, seppur collegate come da una matrice comune.

In questo capitolo procederemo a una spiegazione del termine Geopoli-tica. Partendo dalle parole perché in quelle c’è il primo passo verso la com-prensione di concetti altrimenti complessi. Il termine Geopolitica non solo viene tecnicamente usato con diverse declinazioni, ma è estremamente dif-fuso nei media oggi e la maggior parte delle volte in modo assolutamente improprio. Quante volte leggiamo titoli come: “Geopolitica delle Armi” o “geopolitica del Petrolio” o ancora “geopolitica del calcio”. Tutte defini-zioni che ci danno delle idee confuse di quello che potrebbe essere il conte-nuto, ma certamente non ci offrono un approccio chiaro.

La questione “parole” è talmente importante, soprattutto in una discipli-na che, per fortuna, si è liberata dello spettro\complesso della matematiciz-zazione della propria diffusione, che cominciamo proprio dai dizionari.

E non è un caso se due tra i maggiori geografi viventi hanno scritto (guarda caso lo stesso anno) due dizionari di geopolitica, proprio per cerca-re di mettere un po’ d’ordine intorno a certi vocaboli che, tornati di moda da alcuni anni, cominciavano a essere usati a casaccio1.

Partendo proprio da questi due dizionari di geopolitica potremmo dire

1 Si tratta di: O’Loughlin J., Dictionnary of geopolitics, Greenwood Press, Westport-

London, 1994 e di Y. Lacoste, Dictionnaire de geopolitique, Flammarion, Paris, 1994 (in real-tà il primo è più un glossario che un vero e proprio dizionario, quale è, invece, il secondo).

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che esistono due approcci diversi verso questa disciplina: il primo è quello che guarda alla geopolitica come alle “[...] relazioni tra Paesi o alle politi-che di colonizzazione di vaste zone ad opera delle potenze mondiali”. Que-sta è l’indicazione che John O’Loughlin fornisce nel suo dizionario2 e in effetti egli disegna un quadro d’insieme della geopolitica abbastanza esau-stivo, ma che appare oggettivamente ridotto rispetto a quelli che invece so-no i campi di interesse della geopolitica (che avremo modo di vedere me-glio nelle pagine seguenti). Il discorso fondamentale di O’Loughlin è che comunque la geopolitica tratti di rapporti politici tra Stati che possono ac-cadere principalmente (ma non solo) in scala mondiale. A questo punto ci si ritroverebbe a discutere di geopolitica, anche se il Messico vota contro una certa risoluzione degli Stati Uniti solo perché hanno tra loro un “conto da regolare” su un’altra faccenda. In realtà una questione del genere poco o nulla avrebbe a che fare con la geopolitica, ma tant’è. Il problema fonda-mentale è che le scuole di geografia, che girano più o meno intorno a que-sta parola, dicono grosso modo le stesse cose pur conservando le loro di-vergenze.

O’Loughlin definisce tre possibili tipi di geopolitica, il primo dei quali è semplicemente la dimensione geografica della politica estera e quindi sotto questo aspetto la geopolitica avrebbe solo due livelli: il primo è quello che ci spinge a studiare la localizzazione di popoli e la distribuzione delle di-versità (e in particolare ci spinge a studiare la diversità della loro localizza-zione). Questo rappresenta la raccolta di dati necessaria per ogni tipo di azione di politica estera che ci porta al secondo livello, quello che invece ci permette di mettere in atto le azioni necessarie al raggiungimento di speci-fici obiettivi.

Esiste poi un secondo tipo di geopolitica, relativa ai vari Stati (una geo-politica degli Usa, una geopolitica dell’Italia ecc.) e in questo caso si tratta di vedere il mondo avendo come punto di origine il proprio Paese e soprat-tutto ponendo i propri interessi in risalto rispetto allo scacchiere mondiale. Da questo punto di vista è ovvio che ogni geopolitica è diversa se esamina-ta con gli occhi di uno Stato diverso, perché la realtà mondiale verrà letta alla luce degli interessi nazionali di ciascuno Stato.

Esiste poi la terza categoria, quella che O’Loughlin definisce come “geopolitica critica” perché nasce dal convincimento che la geopolitica è sempre stata legata al potere e quindi semplicemente supporto strumentale. La geopolitica critica si limiterebbe a interpretare le posizioni ufficiali per capire bene quali sono gli obiettivi che il potere ha e quindi poterne offrire letture e analisi alternative.

2 O’Loughlin J., Dictionnary of geopolitics, op. cit., pag. viii (traduzione degli autori).

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Un altro geografo che ci offre un aiuto importante per chiarire i conte-nuti di questa disciplina è John Agnew, il quale, pur partendo dalle origini più remote della geopolitica, ci porta subito sull’attualità3. Agnew ricorda che la geopolitica come parola era nata nell’ottocento4, volendo semplice-mente fare allusione alle rappresentazioni geografiche utilizzate per parlare della politica internazionale nel mondo. Ma a partire dagli anni novanta del XX secolo, l’uso continuo ma soprattutto confuso che si è fatto di questa parola l’ha portata a essere indirizzata sia a questioni di frontiera che di re-lazioni internazionali, come anche di geografia elettorale. Ma proprio que-sta forma di “espropriazione” della parola “geopolitica” ci ha condotti a ri-flettere meglio sul suo significato e quindi a cercare di definirne meglio i limiti. Proprio in questo senso Agnew cerca di definire i primi contorni: analisi delle ipotesi geografiche, designazioni e comprensioni che rientrino nella “politica mondiale”5. Egli ci porta a cercare molto indietro nel tempo quelle che potremmo definire le prime tracce della geopolitica, in particola-re rispetto alla politica di certi Stati nel XVI secolo – ma su questo aspetto in realtà si possono avere diverse perplessità. Diciamo che nel linguaggio comune raramente si parla della geopolitica di Luigi XIV o di Enrico VIII, mentre è molto frequente vedere usata questa parola a proposito del XX se-colo. Agnew dopo aver lanciato questa pista storica della geopolitica af-ferma con molta chiarezza che in realtà, al di là di quando possa essere nata con precisione la geopolitica, essa ha sicuramente conquistato una certa importanza nonché una presenza strutturale nel campo della geografia da quando il “mondo” è stato pensato come un insieme unico. Questo passag-gio negli scritti del geografo della UCLA è essenziale per collegarci a quel-lo che è il punto di attualità della geopolitica. Vedremo più avanti qual è la definizione di geopolitica che ci sembra essere la più precisa e articolata e vedremo anche come la comunicazione e la rappresentazione abbiano un ruolo chiave: per questo possiamo dire che la costruzione di un “immagina-rio” per il lettore è fondamentale.

La Terra in quanto tale esiste da miliardi di anni con tutti i cambia-menti che ha subito e continua a subire, e questo è un dato di fatto. Ma per il cittadino del mondo di oggi essa esiste da quando la si è concepita nel suo insieme. Solo da quando gli uomini nella loro politica del governo degli Stati hanno cominciato a pensare alla Terra nel suo insieme, come

3 Le pubblicazioni del geografo scozzese a questo proposito sono innumerevoli e tutte

estremamente pertinenti. In questo caso ho preferito fare riferimento ad un solo testo. Ag-new J., Geopolitics: re-visioning world politics, Routledge, London e New York, 1998.

4 Sulle origini precise della geopolitica la letteratura è ricca ma noi ci torneremo tra qualche pagina, in dettaglio.

5 Agnew J., Geopolitics, op.cit., pag. 2.

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mondo, solo allora hanno dato vita a una prima forma di geopolitica. Non solo: non è bastato il sapere che per un abitante di New York esisteva an-che New Delhi e che per l’Inghilterra il controllo dell’India era importan-te. Quello che contava veramente era il fatto che nella percezione del quo-tidiano della politica di governo di uno Stato si tenesse in considerazione l’intero scacchiere mondiale e questo aspetto, non possiamo negarlo, è dovuto prima di tutto ai sistemi di informazione e comunicazione. Chi abbia creato la Terra non ci è dato saperlo (ognuno è libero di attribuirlo a chi meglio vorrà: la teologia è argomento troppo importante per poter es-sere trattata in questo testo) ma chi ha fatto sì che la Terra entrasse nella percezione degli uomini questo possiamo dirlo: gli strumenti di comuni-cazione di massa.

Per questo motivo la geopolitica è sicuramente più contemporanea che moderna e certamente difficile da situare in secoli remoti. Ma questo è un primo passo sul quale troveremo indubbiamente occasione di ritornare.

Agnew da parte sua identifica quattro scale di geopolitica: quella mon-diale, in cui il mondo è concepito in tutta la sua interezza; quella interna-zionale, in cui si parla invece di rapporti fra due o più Stati, quindi non sempre a livello mondiale; quella nazionale, quindi propria di ciascuno Sta-to; quella regionale, cioè relativa alle parti interne ai vari Stati. Tutto questo specificando che le quattro scale, come sono esposte, sono anche una scala decrescente d’importanza. Da questo punto di vista possiamo dire che Agnew cerca una ripartizione in scale, certo, ma che ci porta più a guardare alle scale alle quali esistono i vari attori politici piuttosto che definire una scala geografica vera e propria alla quale esaminare i vari avvenimenti, qualsiasi essi siano. Il rapporto, diciamo così, è più concentrato sul livello istituzionale che non sull’elemento puramente territoriale.

Nonostante i riferimenti storici fatti da Agnew a una geopolitica possibi-le anche nel passato e una citazione di scale essenziali (solo quattro per un intero pianeta) in realtà egli coglie, a parere di chi scrive, quelli che sono comunque i punti essenziali per una definizione della geopolitica.

1. Una definizione di geopolitica Il geografo che invece più si è sbilanciato, coraggiosamente, nella defi-

nizione di Geopolitica, è certamente il francese Yves Lacoste. Secondo quest’ultimo viene considerata geopolitica quella situazione in cui due o più attori politici si contendono un determinato territorio. In questo conten-dere, le popolazioni che abitano il territorio conteso, o che sono rappresen-tate dagli attori che se lo contendono, devono essere coinvolte in questo

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conflitto, attraverso l’uso degli strumenti di comunicazione di massa. Par-tiamo da questa definizione6 per dare seguito alla nostra spiegazione.

Superficialmente potremmo subito essere indotti a credere che tutti i conflitti che abbiano avuto come posta in gioco un qualsiasi territorio pos-sono essere catalogati come “geopolitici”. Ma come si vede dalla seconda parte della definizione precedente, occorre un coinvolgimento delle popo-lazioni. Questo coinvolgimento porta a una serie di pressioni sul potere esecutivo, al punto da indurlo a cambiare la sua decisione, a volte anche la più logica. Questo tipo di coinvolgimento certo non esisteva nel XVIII o XVII secolo (per non andare ancora più indietro nel tempo) e da qui il col-legamento fatto più sopra con John Agnew riguardo al fatto che per far na-scere la geopolitica come la intendiamo oggi occorreva in qualche sorta “immaginare il mondo”.

Nel passato le popolazioni erano coinvolte, ma spinte dal potere centra-le, più che il contrario. Immaginate Napoleone III che ascolta la voce del suo popolo prima di entrare in guerra contro la Prussia. Al contrario, il ruo-lo giocato oggi dai mass-media è fondamentale, senza per questo ingigan-tirlo o demonizzarlo oltre misura. Proviamo a pensare al ruolo avuto dalla stampa e dall’informazione in generale nella guerra del Golfo contro l’Iraq. In quella “strana” guerra il coinvolgimento mediatico è stato altissimo, al punto che diverse decisioni prese sul campo sono state influenzate (per non dire determinate) da situazioni e manifestazioni fatte a migliaia di chi-lometri di distanza.

Altro esempio ci viene dato dalla guerra nella ex-Jugoslavia. In questo caso probabilmente il ruolo del dibattito internazionale è stato ancora più importante, prima di tutto perché la situazione era sicuramente più com-plessa che in Iraq e poi perché i governi europei erano più reticenti nell’in-tervenire di quanto non lo fossero in Iraq e quindi la decisione d’intervento è stata in buona parte determinata dalla pressione dell’opinione pubblica. I governi del vecchio continente non potevano restare fermi mentre le prote-ste si levavano dalle loro piazze, dopo aver visto le immagini delle carnefi-cine di Croazia e Bosnia. Un intervento che veniva di volta in volta cambia-to, corretto. Spesso la pressione dell’opinione pubblica era tale da spingere i governanti a prendere serie decisioni proprio per evitare ripercussioni sgradevoli a livello interno.

Un esempio evidente che conferma quanto appena scritto ci è dato dalla

campagna elettorale di Jacques Chirac durante le elezioni presidenziali del 1995 in Francia. Egli seppe interpretare l’indignazione dell’opinione pub-

6 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de géopolitique, Preambolo, pagg. 1-35, op. cit.

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blica francese rispetto a quanto accadeva in ex-Jugoslavia, ma seppe anche interpretare l’insoddisfazione degli stessi francesi per il modo con il quale i Governi occidentali gestivano quella delicatissima situazione. Chirac ha quindi cavalcato quell’insoddisfazione dicendo che una delle sue prime azioni sarebbe stata quella di sbloccare la situazione jugoslava e renderla più efficace. Questo aspetto che riguarda una situazione lontana dalla Fran-cia, posta in un altro Stato neanche confinante, è stato uno degli elementi che ha portato Chirac ad essere eletto Presidente del suo Paese nel suo pri-mo mandato (1995-2002).

Altri esempi ci vengono dall’Africa, più precisamente dal Ruanda, Bu-rundi e Zaire (attuale Repubblica del Congo). La Francia avrebbe voluto intervenire immediatamente nella zona dei Grandi Laghi nei giorni dell’e-sodo degli Hutu dallo Zaire, dove si erano rifugiati nel 1994, verso il Ruan-da. Ma per farlo doveva avere il consenso dell’opinione pubblica e per que-sto si è usata una tecnica estremamente semplice e diffusa: far capire che era necessario intervenire per permettere di aiutare le centinaia di migliaia di profughi che stavano rientrando nel loro Paese di origine. Questo inter-vento era effettivamente utile nella fattispecie, ma l’ostacolo è arrivato da parte americana ed inglese. Non per eccesso di cinismo da parte di questi ultimi, a danno della presunta bontà dei nostri cugini transalpini; semplice-mente perché gli anglosassoni sospettavano che la volontà di intervento di Parigi celasse, ancora una volta, una volontà di intervenire a favore degli Hu-tu (come già fatto in precedenza), e di evitare una possibile destabilizzazione nel governo dell’allora Zaire, il cui presidente (da sempre vicino alla Francia, lo ricordiamo) era in quel momento in Svizzera per problemi di salute. Di fatto la pressione dei media, principalmente di Washington e Londra, nonché la velocità con la quale i profughi sono poi rientrati in Ruanda, hanno reso vano l’intervento internazionale. Non ci soffermiamo sul fatto che questo in-tervento potesse essere veramente utile oppure no, ma ci interessa osservare come l’opinione pubblica abbia provocato una pressione sul proprio potere centrale, oppure il potere centrale abbia dovuto preoccuparsi di dare una certa immagine della propria volontà ai suoi elettori e contribuenti prima di agire.

Ecco perché in quei giorni alla televisione francese si trasmettevano grandi quantità di reportage sul disastro dei Grandi Laghi, sul lassismo oc-cidentale, sulla totale assenza di etica e senso dell’umanità nei governanti occidentali.

A Londra invece si susseguivano sulla stampa nazionale articoli in cui si elencavano gli interessi francesi in Africa e tutti gli interventi fatti fino a quel momento unicamente nel rispetto della regola della tutela dei propri interessi, a spese di qualsiasi umanità e senso di carità cristiana.

Lo stesso elemento lo troviamo nel 2003 a proposito della guerra con-

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dotta da Usa, Gran Bretagna e Polonia (quest’ultima spesso dimenticata ma importante da citare per poter capire altri schieramenti interni all’Unione Europea). Gli Usa sono partiti dall’Afghanistan dopo l’11 settembre e si sono ritrovati a Bagdad in teoria sotto la stessa bandiera e ragione ma in realtà alla luce di una strategia vecchia di quasi un decennio. Per riuscire a giustificare uno sforzo tale, sia militare ed economico ma soprattutto politi-co, visto che si è dovuto spezzare lo schieramento che si era costituito con-tro i Talebani in Afghanistan, è stata necessaria una campagna mediatica mondiale. Questa è stata di una importanza tale da poter “rappresentare” le ragioni che non spingevano bensì obbligavano ad andare in Iraq. La que-stione delle armi di distruzione di massa è una rappresentazione (dato che non sono mai state trovate e lo stesso George W. Bush si è considerato de-luso per non avercele trovate) ma soprattutto quello che è interessante è il veder costruire intorno a Saddam Hussein una rappresentazione di leader unico del terrorismo mondiale. Lo stesso dittatore iracheno, da sempre fe-roce contro tutto quello che era stato integralismo islamico (basti pensare al pugno di ferro più volte usato contro la corrente sciita) aveva cominciato a ritagliarsi una immagine di buon musulmano proprio per cercare consenso tra i suoi concittadini e sollevare l’attenzione del mondo islamico interna-zionale. Ma in Medioriente il conflitto, le sue guerre, sono di religione?

Soffermiamoci un momento su questo aspetto.

2. Qualche esempio di casi ed evoluzioni geopolitiche

Il caso del Medio Oriente e in particolare di Israele (che fa prima di tut-to parte di quello che noi chiamiamo Vicino Oriente e cioè Israele, Libano, Siria e Giordania), è esemplare non tanto per l’eco che suscita in questi ul-timi anni, quanto perché dimostra la confusione tra Relazioni Internazionali e geopolitica. Identificare il conflitto tra Israeliani e Palestinesi come un conflitto dovuto a questioni religiose non è solo falso ma fuorviante. Ci al-lontana e ci distrae dalle vere situazioni. Il bombardamento e in seguito l’attacco condotto da Tsahal7 nei primi giorni del 2009 hanno sollevato (giustamente) una condanna quasi unanime. Tuttavia, i media italiani pro-ponevano troppo spesso un dettagliato resoconto della tragedia quotidiana, mentre l’ascoltatore medio poco poteva capire quello che realmente acca-deva su quel piccolo territorio (che è poi esattamente quello che i media ita-liani hanno riprodotto con il conflitto libico che ha portato alla morte di

7 Tsva Haganah Le-Israel: esercito di difesa di Israele, in ebraico: צבא הגנה לישראל. Oggi

abbreviato con Tsahal.

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Gheddafi). Il caso di Israele, proprio perché si tratta di territorî molto picco-li (poche centinaia di chilometri), si presta perfettamente all’uso del metodo geopolitico. Questo, infatti, ci permette di analizzare il tutto sia su diversi livelli di analisi sia su diverse scale temporali. Già il territorio, fisicamente, è molto particolare. Si tratta di una linea costiera molto semplice e di una vera e propria vallata (quella che parte dal golfo di Aqba e corre lungo il fiume Giordano e il Mar Morto): due linee parallele l’una all’altra. Queste sono intervallate da altipiani che arrivano ad un massimo di mille metri e che verso oriente si allungano nel deserto siriano. È su questi altipiani, dove la pioggia cade molto più abbondante che a valle, sulla costa, che erano in-sediati gli arabi (sia musulmani che cristiani). Se ricordiamo tutto ciò8 è perché non si riuscirebbe a spiegare altrimenti l’insediamento dei primi co-loni ebrei arrivati lungo il XIX secolo. Questi, infatti, se avessero trovato la valle sulla costa già densamente abitata, non avrebbero avuto la possibilità di acquistare facilmente la terra per potersi a loro volta insediare stabilmen-te. Tale insediamento, che darà anche origine alle prime forme di coltiva-zioni cooperative, non ha nulla a che vedere con quelle stesse cooperative fatte dopo la seconda guerra mondiale manu militari a discapito dei conta-dini arabi. Furono proprio quei primi coloni ebrei arrivati dall’Europa nella pianura litorale palestinese a bonificare delle terre sature di paludismo e per questo trascurate dalla maggior parte della popolazione.

Ma, l’insieme di tutta quest’area deve essere esaminata anche tenendo presente prima di tutto gli altri Paesi (Egitto, Libano, Siria, Giordania) e il ruolo giocato in tutto ciò dalla colonizzazione e decolonizzazione avvenuta dopo il crollo dell’impero Ottomano. Proprio le ripartizioni tra Inglesi e Francesi contribuirono a complicare ancor di più la situazione. I Francesi avevano la mano su Siria e Libano; gli Inglesi sulla parte meridionale, cioè su quella che loro chiamarono Palestina in memoria dei Filistei; a est del fiume Giordano vi era la Giordania che all’epoca era chiamata Transgior-dania mentre dal 1948 fu chiamata Giordania perché il re Abdhalla I con-quista anche quella che era chiamata West-Bank, attuale Cisgiordania. Pos-sedendo a quel punto entrambe le rive del Giordano, nonché la parte orien-tale di Gerusalemme, chiamò il suo regno “di Giordania”. Gaza invece era da sempre sotto controllo Egiziano. Furono proprio gli Egiziani a non ri-chiederne il controllo dopo il trattato del 1979, lasciandola in mano ai Pale-stinesi con i quali erano in profondo disaccordo. Oggi Gaza è una vera for-tezza per Hamas che, va ricordato, è il braccio Palestinese dei Fratelli Mu-

8 Lacoste lo fa più volte in diverse pubblicazioni di cui la più recente è «La géographie,

la géopolitique et le raisonnement géographique» in Hérodote, n. 130, 3° trimestre, la Dé-couverte, Paris, 2008, pagg.17-42.

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sulmani (organizzazione fanatica integralista nata proprio in Egitto dove oggi rappresenta un peso importante, esprimendo il primo Presidente del-l’era post-Mubarak). Insomma dobbiamo sovrapporre diverse cose come il metodo della Geopolitica ci insegna:

1) l’insediamento dei primi ebrei da cosa fu reso possibile? Dall’abban-dono delle pianure costiere.

2) Perché Gaza diventa una tale base per Hamas? Perché gli Egiziani l’abbandonano inizialmente e perché proprio gli Israeliani fanno si che l’attenzione verso la religione divampi sperando che i Palestinesi si disinteressassero di politica, senza rendersi conto in realtà che la religione era diventato il collante della protesta palestinese dopo il crollo del marxismo/comunismo.

3) Come si crea questa delimitazione di Stati che oggi vede il sovrapporsi di diversi attori territoriali? Il crollo dell’impero Ottomano, l’arrivo dei protettorati Francesi e Inglesi che spartiscono l’area in modo utile ai lo-ro fini del momento, lasciando, dopo la loro partenza, una situazione politica complessa con attori politici oramai ben strutturati e conflittuali.

Questa situazione trova un efficace detonatore nella fine della seconda

guerra mondiale, quando cioè comincia un vero e proprio ritorno in massa degli Ebrei verso la Palestina. Non si tratta più di un ridotto numero di co-loni, soprattutto perché oramai la pianura costiera non è più paludosa ma terra coltivabile (avendola, i primi coloni, completamente o quasi bonifica-ta). La situazione era tra l’altro già abbastanza critica negli anni ’30, quan-do si ebbero i primi incidenti tra Arabi da una parte e Inglesi e Ebrei dal-l’altra. Il tentativo dell’ONU di fare una ripartizione del territorio a Ovest della vallata del Giordano sfocia in quella che passerà alla storia come la guerra del 1948, vinta a sorpresa dagli Ebrei contro gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq.

In quella guerra Israele riuscì ad appropriarsi di tutti i territori costieri,

da cui cacciò gli arabi e dovette arrestare la propria avanzata solo davanti le alture della Cisgiordania e alla parte est di Gerusalemme. Insomma parlia-mo delle uniche frontiere, ancora oggi riconosciute internazionalmente, di Israele. Ancora più interessante è che il territorio che ufficialmente costitui-sce Israele oggi (si escludono quindi territori occupati nel 1967) non coin-cidono con l’immaginario biblico del “grande Israele”9, bensì coincide con il territorio dei loro nemici storici: i Filistei!

9 Èretz Israèl ( ארץ ישראל ) in ebraico “Terra di Israele”, territorio tradizionalmente indi-

viduato come riferimento geografico della religione ebraica.

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È proprio con la “guerra dei sei giorni”10 che si viene a modificare an-che la percezione di una parte degli Ebrei Israeliani (ma anche del Ebrei or-todossi nel resto del mondo). In effetti gli ebrei ortodossi videro sempre con grande disprezzo il sionismo nazionalista e ogni tipo di lotta per la rea-lizzazione di un vero e proprio stato di Israele. Per loro era importante esse-re su quella terra e, religiosamente, aspettare il ritorno del Messia. Per que-sto motivo gli ebrei dei Kibbutz erano per la maggior parte di sinistra e atei o, comunque, con un rapporto con la religione più laico dei loro conterranei ortodossi. Dalla guerra dei sei giorni invece, anche gli ortodossi iniziano a leggere in quella vittoria lampo un “segno del Signore” e quindi iniziano a vederne lo strumento per tornare ad occupare tutte le vere terre della Bibbia (non la pianura litoranea): Giudea e Samaria! In molti casi i gruppi ortodos-si arrivano a sostenere che occorrerà rioccupare tutti i luoghi santi della Bibbia per poter assistere al ritorno del Messia.

Tutto questo, visto in prospettiva dal nostro presente, ci aiuta a capire meglio la recrudescenza del conflitto che si maschera dietro un fanatismo religioso ma che invece prende in ostaggio popolazioni, utilizza rappresen-tazioni altisonanti, da una pare e dall’altra, per controllare delle porzioni precise e piccole di territorio. La stessa costruzione della barriera (o muro) tra territorî controllati da Israele e quelli che sarebbero lasciati agli Arabi, è molto interessante: il suo tracciato si allontana sistematicamente dalla linea della guerra dei sei giorni (la famosa linea verde) per andare a inglobare di-versi insediamenti ebraici. Allo stesso modo che la politica d’insediamento nella parte nord-orientale di Gerusalemme rende sempre più difficile la rea-lizzazione di un accordo sul territorio tra Arabi e Israeliani.

Proprio nel caso di Gerusalemme occorrerebbe analizzare attentamente

le posizioni che molto ebrei ortodossi occupano (gli haredim detti anche uomini neri per il loro abbigliamento rigorosamente in nero a parte una ca-micia bianca, con un tasso di fertilità altissimo: una media di otto figli a famiglia). L’insediamento degli Ebrei Israeliani viene spesso presentato dai media come semplicemente una sorta d’invasione che miri a occupare tutto il territorio a scapito della popolazione araba. In realtà la politica degli in-sediamenti è molto più complessa è denota una evoluzione particolare della politica in scala urbana tra ebrei non ortodossi e ebrei ortodossi. La popola-zione haredim era particolarmente numerosa nella parte nord-occidentale della città (al di fuori di Gerusalemme l’unico insediamento comparabile è quello di Bné Brak, sulla costa settentrionale). Ma oramai il loro numero

10 È così che viene chiamata la guerra vinta da Israele nel 1967 a causa della sua corta

durata: 5-11 giugno.

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cresce a dismisura contro la volontà della stessa popolazione ebraica “lai-ca” di Gerusalemme. Fino a quando gli ortodossi non si interessavano di sionismo, nazionalismo o politica in generale, la cosa non era molto impor-tante. Da quando invece hanno cominciato a costituirsi in formazioni poli-tiche e a partecipare alla gestione della stessa capitale la situazione è cam-biata. Quando poi si alleano al governo di Netanyahou del 1996 è proprio il Ministero dell’Edilizia e degli Alloggi che viene consegnato loro; in quel mandato di Governo ben 62 terreni, per un totale di 90.000 m², sono conse-gnati a istituzioni ortodosse contro i soli 2 per 1.700 m² consegnati a istitu-zioni laiche11. Questo ha una ripercussione immediata pesantissima: Geru-salemme vede diminuire la propria popolazione a vantaggio di aree come Haifa e Tel-Aviv e sono proprio i “laici” che partono. Uno dei fenomeni tipici quando gli haredim si installano in un quartiere è un immediato ab-bassamento dei prezzi immobiliari e la popolazione non ortodossa resiste per un periodo ma dopo lentamente comincia ad abbandonare il quartiere stesso. L’arrivo degli haredim conduce a un cambiamento della vita quoti-diana nel quartiere: tipologie di negozi che cambiano, tipologie di prodotti alimentari diversi, circolazione di vetture impossibile durante lo shabbat (in molte strade se si gira con la macchina ci si fa prendere letteralmente a sas-sate), bar e discoteche che chiudono. In questi ultimi anni l’insediamento degli haredim si sposta lentamente verso Est (la parte della città che prima del 1967 era sotto il controllo arabo e la cui occupazione da parte di Israele non è riconosciuta dal diritto internazionale). Oramai diverse parti a Est so-no occupate da insediamenti più che stabili, allo stesso modo che diversi insediamenti ortodossi si sono strutturati in alcune parti di Cisgiordania e che, pur essendo in una parte di territorio occupato e quindi che prima o poi andrebbe restituito all’autorità Palestinese, sono oramai inclusi dalla barrie-ra che Israele sta costruendo come rientrante nel territorio israeliano12. Questo vuol dire che Gerusalemme scivola in modo abbastanza rapido ver-so una sua “colonizzazione” religiosa-ortodossa? Non si può ancora affer-mare, ma certo non si tratta più della città nelle mani di partiti laici (fossero essi di destra o di sinistra) e questo pone già oggi seri problemi per il futu-ro. È probabile che la prossima tappa di “occupazione” da parte degli hare-dim sia proprio la città vecchia, dove nel quartiere arabo aumentano sempre più gli acquisti fatti ad opera di ortodossi grazie ai finanziamenti fatti da

11 Encel F., «L’évolution spatial des Juifs orthodoxes à Jérusalem et en Cisjordanie:

simple extension démographique ou réelle stratégie territoriale?», in Hérodote, n. 130, 3° trim. 2008, la Découverte, Paris, 2008, pagg. 43-58.

12 Encel F., Atlas géopolitique d'Israël, Autrement, Paris, 2008.

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fonti internazionali13. La cosa più interessante è che, nella disputa tra hare-dim e laici, un alleato della fazione ortodossa potrebbe proprio essere quella popolazione araba che voterebbe per loro alle elezioni municipali, pur di rallentare la politica di penetrazione Israeliana. Agli Arabi poco importa in effetti della rigidità nel rispetto della regola dello shabbat, molto importa invece se possono essere sicuri di vedere rallentare i nuovi insediamenti.

3. A una scala più piccola: lo scacchiere regionale e la Turchia

L’obiettivo di queste pagine non era quello di offrire un’analisi esausti-va della questione israeliano-palestinese (una volta era chiamata arabo-israeliana), ma di mostrare come il metodo geopolitico, partendo da que-stioni territoriali precise, sovrapponendo livelli diversi di analisi, ci permet-te di arrivare a una migliore comprensione della faccenda. Certo poco si presta a un servizio televisivo di pochi minuti, o a un articolo di giornale molto breve, ma non si può sintetizzare troppo senza temere di non capire del tutto o, peggio, di offrire interpretazioni che possono condurre in errore. La questione israeliana e palestinese non è comprensibile se la si esamina senza ricordare il contesto in cui ci si trova, senza considerare il ruolo dei suoi vicini, senza considerare le dispute infinite tra sciiti e sunniti, trascu-rando il disprezzo che gli arabi più integralisti come i wahhabiti (a cui ap-parteneva lo steso Bin Laden)14 hanno per i Palestinesi. Come non esamina-re l’ascesa di Hamas se non si guarda al movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto e senza considerare il ruolo degli sciiti Hezbollah nel sud del Li-bano, alimentati proprio dagli sciiti Iraniani.

Proprio per questa situazione il ruolo dell’unico vero alleato di Israele e dell’occidente ma musulmano e in ottimi rapporti con quest’area del Medio Oriente è la Turchia, tanto vituperata e spauracchio di parte della popola-zione europea. Il dibattito sull’ingresso della Turchia in Europa è, in effetti, un’altra prova (semmai ce ne fosse stato bisogno) di quanto i dibattiti nei media siano troppo spesso l’ombra di un vero dibattito. Questo terrore sul-l’eventuale ingresso della Turchia, dei musulmani che avrebbero invaso il vecchio continente, la paura di veder scomparire le radici cristiane della cultura europea, hanno in realtà impedito una visione più oggettiva della questione. L’ingresso della Turchia in Europa sarebbe forse una delle cose

13 Encel F., «L’évolution spatial des Juifs orthodoxes à Jérusalem et en Cisjordanie:

simple extension démographique ou réelle stratégie territoriale?», op.cit.14 I Palestinesi sono storicamente molto laici, oltre tutto parte di loro sono Cristiani,

spesso hanno avuto dei leader omosessuali o donne, cosa inaccettabile per un walabita.

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più sensate in questa fase storica della politica mondiale e le nostre prove d’ignoranza rispetto a un Paese che ha fatto della laicità un vero dogma re-pubblicano non fanno altro che irritare (giustamente) i Turchi e spingerli sempre più lontano da noi.

Strategicamente il loro ruolo è fondamentale nella soluzione del conte-sto medio-orientale. Per esempio una delle richieste principali di Israele è una forza di interposizione tra Egitto e Gaza per controllare il traffico di armi attraverso i famosi tunnel. Il Cairo si oppone ma un alleato di Israele sicuro che sarebbe accettato anche dall’Egitto è proprio la Turchia. Oltre-tutto la ricostruzione di Gaza dovrà essere fatta per venire incontro a una delle principali richieste di Hamas e questo può essere fatto proprio grazie all’industria edile turca. In questo modo Hamas sarebbe accontentata, l’E-gitto accetterebbe il controllo delle truppe Turche e Mahamoud Abbas ot-terrebbe quella tregua lunga da Hamas per poter concludere gli accordi con Israele15. Oltretutto sono anni che Ankara vuole lanciarsi in un progetto di acquedotto che approvvigioni Israele (e ovviamente i Palestinesi) attraver-sando il territorio siriano. Insomma la Turchia potrebbe giocare un ruolo ancor più importante di quanto già non stia facendo la sua diplomazia (sep-pur la stampa italiana sistematicamente ne trascuri il ruolo). Non solo la Turchia avrebbe un ruolo fondamentale nei confronti della questione israe-liano-plestinese, ma sarebbe fondamentale anche nella questione energeti-ca. In effetti il raddoppio del gasdotto “Nabucco” (in progetto) permette-rebbe di aumentare l’indipendenza energetica dell’Europa rispetto a una Russia oggettivamente scomoda, ma quello che più conta non è tanto l’indipendenza rispetto a Mosca, quanto il coinvolgimento dell’Iran da par-te di Ankara in modo da ridurre il ruolo degli estremisti sciiti a favore di fazioni più moderate, sempre in Iran, e automaticamente moderare il ruolo degli sciiti di Damasco e di Beirut.

Possiamo quindi concludere questa breve esposizione della questione Mediorientale proprio per mostrare come per capire e risolvere questioni che si osservano a livello locale si debba spesso procedere ad un’attenta analisi di eventi che si producono su scale ben diverse, spesso regionali, in-ternazionali. E come si è potuto osservare di religione si è parlato ben poco.

Si sta cercando di mettere in risalto l’aspetto delle comunicazioni di massa, non per rendere la geopolitica “moderna”, quindi come una piccola parte aggiunta per dare un senso di nuovo. Al contrario è qui che si scopre una delle caratteristiche più importanti della geopolitica e della sua con-temporaneità: l’aspetto della rappresentazione (attraverso gli strumenti di

15 Dello stesso parere era l’analista francese Adler che scriveva questa stessa analisi nel-

le colonne del quotidiano le Figaro il 24 gennaio 2009.

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comunicazione di massa). Più avanti affronterò direttamente questo aspetto, per ora continuerò a parlare della attualità del concetto di geopolitica.

È evidente come questo concetto sia contemporaneo, mentre non si può dire lo stesso dei conflitti territoriali dei periodi precedenti. Il coinvolgi-mento delle masse non è solo un aspetto strumentale o, peggio ancora, un corollario, come una nuova scenografia. Questo coinvolgimento ha portato ad un cambiamento sia dell’atteggiamento dei poteri centrali dei vari Stati che del modo di condurre la lotta/competizione per un determinato territo-rio. E in effetti questo denota una debolezza da parte dello Stato centrale nel condurre le proprie strategie “territoriali”: esso deve imperativamente cercare di ottenere la legittimità popolare. Se poi questa legittimità la si ot-tiene con delle false informazioni questo è relativo (in questo libro); conta che la geopolitica si caratterizza così con due elementi: democrazia e una certa debolezza dello Stato di fronte ai propri cittadini. Potremmo discutere sui livelli di democratizzazione dei vari Stati ma certamente non potremmo parlare di situazioni geopolitiche in casi in cui il popolo non ha la minima voce in capitolo; anche in casi di certe dittature il dittatore in questione può non permettersi di avere certe posizioni estreme senza cercare il consenso dei propri “sudditi” o quanto meno quello dell’opinione pubblica mondiale (era appunto il caso di Saddam Hussein quando oramai gli Usa stavano per attaccare l’Iraq). È la ricerca del consenso popolare che spinge l’attore poli-tico a offrire delle rappresentazioni particolari della realtà.

Quanto fin qui scritto è di estrema importanza per la comprensione della

geopolitica perché fino ad oggi la si considerava appannaggio del fascismo e del nazismo, quindi di Stati forti e non democratici. È per questo motivo, tra l’altro, che la geopolitica è stata tenuta in disparte per tutti questi anni!

Ma andiamo a vedere da dove trae origine la geopolitica, come prende forma, dove riesce a conquistare spazi di dibattito e divenire un vero e pro-prio strumento di analisi. 4. Come nasce la geopolitica

Per capire come nasce la geopolitica occorre fare un primo passo indie-

tro e più precisamente a prima della nascita della Germania, quando v’era una Prussia importante e innumerevoli piccoli stati indipendenti ma che ruotavano comunque intorno all’Austria e al suo impero. L’Impero Au-striaco era molto diverso perché conteneva al suo interno nazioni molto di-verse tra loro. La strategia della Prussia, nella volontà unificatrice, era pro-fondamente diversa, perché mirava a unire tutti i “micro-stati” in cui l’area

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germanofona era frammentata, lasciando però fuori proprio l’Austria, per-ché troppo legata al suo Impero, verso Oriente. Proprio per meglio diffon-dere questo progetto di unificazione e realizzare quella che si chiamerà “Germania”, la Prussia decide di creare l’insegnamento della geografia nel-le scuole. Questo insegnamento verrà fatto dagli insegnanti di Storia perché le due discipline vengono considerate legate e essenziali entrambi alla co-struzione della futura identità tedesca. Ma questa “unità” pone il problema geografico dell’insieme linguistico. Non volendo difatti fare l’unità di tutti i germanofoni (altrimenti avrebbero dovuto includere gli Austriaci e questo l’èlite prussiana non lo voleva) si disse che occorreva unire, nella Germa-nia, tutti quei territori che venivano considerati omogenei. Nei manuali sco-lastici, quelli che potremmo comparare ai nostri “sussidiari”, questo tipo di paesaggi sono meticolosamente descritti e non fanno altro che elencare la tipologia dei territori che oggi compongono la Germania: dal Baltico alle Alpi Bavaresi. È a questo punto, quindi, che prende prima di tutto piede un insegnamento scolastico della geografia. Questo richiede dei docenti che ovviamente devono essere formati all’università. Da questo nasce il primo passo per un’università di Geografia e il fatto che nasca in Germania è, co-me abbiamo appena scritto, tutt’altro che casuale. Tra l’altro proprio Kant fu insegnante di geografia per un breve periodo e anche a riguardo non mancava di avere un parere ben preciso. Il filosofo, infatti, rimarcava quan-to tempo e spazio fossero imprescindibilmente legati l’uno all’altro perché appartenenti entrambi alle categorie primordiali del sapere. Per questo pro-prio lui era uno strenue difensore del fatto che fosse lo stesso docente a in-segnare sia la geografia che la storia.

Il padre della geopolitica viene considerato Friedrich Ratzel, a cui fa-rebbe seguito Haushofer16 che l’avrebbe resa vera “scienza” con i nazisti. In realtà non è esattamente così.

Il primo ad usare questo termine fu un geografo svedese, Rudolph Kjel-len (1864-1922), fortemente influenzato dall’opera del geografo tedesco Friedrich Ratzel. Ma va riconosciuto che Kjellen creò questa parola solo come diminutivo di Geografia Politica (esattamente quello che si critica

16 Generale e politologo tedesco (Monaco di Baviera, 1869 – Berlino, 1946), le sue idee

influenzarono molto le strategie di sviluppo della Germania nazista. Fu uno dei maggiori esponenti degli studi geopolitici per la rinascita tedesca (Scuola geopolitica di Monaco di Baviera, degli anni venti-trenta), che aderì anche alle teorie razziste; divulgò l’idea della Germania, intesa come un organismo vivente che, cresciuto in modo esponenziale nel corso di otto secoli, doveva espandere il suo spazio giungendo al dominio del mondo intero. Egli definisce la geopolitica come “il fondamento scientifico intorno all'arte dell'attività politica nella lotta per l'esistenza che conducono gli Stati rispetto alla superficie che è loro necessa-ria”.

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oggi). Cioè, realizzò un neologismo ma che non riempì di un significato specifico, semplicemente vi trasferì quello che c’era nei concetti di geogra-fia politica. Il primo studioso che veramente ne fa un uso diverso è certa-mente Ratzel che come tutti gli studiosi dell’epoca era sedotto dalle teorie darwiniane. Da qui, la selezione naturale, prenderà spunto Ratzel per pro-porre quel tristemente famoso spazio vitale. Teoria che verrà rapidamente adottata dai Nazisti (e ancora peggio copiata dai Fascisti nostrani) per giu-stificare “scientificamente” le ragioni di specifiche invasioni a scapito di altri popoli. Proprio Ratzel, sostenendo che le pianure fossero degli spazî naturali di espansione dei popoli più evoluti, incitava all’occupazione di quelle città che avevano una cultura tedesca. È su questo che salteranno a piè pari i nazisti di Hitler per poter dar libero sfogo alle loro intenzioni di invasione e sottomissione in un delirio di superiorità e di onnipotenza. Di-segno al quale gli Italiani del periodo mussoliniano non tardarono di crede-re e unirsi, galvanizzati anche dalla (seppur brevissima) occupazione Etio-pe. Ma non fu direttamente Ratzel a spingere la Geopolitica alla notorietà e all’apprezzamento dei Nazisti, bensì il suo allievo Haushofer. Questi da mi-litare infatti guardò con grande interesse all’uso della Geopolitica per ar-gomentare una serie di cose, tra le quali proprio il concetto dello “spazio vitale”. Fu proprio Hausofer a entrare in contatto con Hitler tramite l’in-contro che ebbe con Hess. Hausofer aveva ancora troppo chiare le ragioni della sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale (assenza di una vera visione strategica oltre i disordini operai di Berlino) per ripetere il me-desimo problema. Sviluppa quindi quest’idea della Germania come grande potenza che deve diventare uno dei pilastri dell’Europa. Perché questo ac-cada occorre conquistare del territorio e quindi ribaltamento delle frontiere quali quelle definite dal trattato di Versailles. Riunificazione delle popola-zioni germanofone in un solo stato e quindi eliminazione della Società delle Nazioni. Sarà questa la vera linea della Geopolitica tedesca e particolar-mente all’avvento dei Nazisti. Questo è il contesto in cui la Geopolitica te-desca diventerà famosa, non quello che le ha permesso di attecchire. Ab-biamo visto da dove viene l’inserimento della Geografia come disciplina sia scolastiche che, di conseguenza, universitaria. Parliamo però della Geo-grafia e non della Geopolitica. La ragione dell’elezione di questa a materia d’insegnamento deve però farci già capire come mai prenderà poi piede un insegnamento di Geopolitica: perché qui e non in un altro Stato.

Per essere precisi il contesto in cui la geopolitica prende piede è la scon-fitta tedesca del 1918, cioè una situazione in cui il potere dello Stato era as-solutamente debole (e non il contesto nazista degli anni trenta, quando lo Stato era più che mai forte). Alla fine del conflitto il Reich non esisteva più e la nuova Repubblica si vide imporre la più dura resa possibile. In effetti

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sia l’arrivo degli americani nel conflitto, sia le rivolte comuniste di Berlino non lasciavano più spazi di manovra a questo giovane Stato che aveva visto la luce solo trentasette anni prima e che si chiamava Germania: ecco perché fu costretta a firmare un armistizio molto pesante. Ma proprio a un punto così critico della propria storia e soprattutto in un momento in cui lo Stato centrale era sicuramente meno forte, si scatena un dibattito profondo e arti-colato sul destino territoriale di questo Paese. Un dibattito che coinvolgeva tutta l’opinione pubblica tedesca e non solo una parte degli intellettuali o della classe politica. I primi a scatenarlo furono proprio i reduci di guerra che, dopo aver combattuto e tornati sconfitti dal fronte, subivano le scelte di frontiera imposte come assolutamente ingiuste: accettare oppure rifiutare (quindi continuare la guerra fino in fondo) le clausole imposte dalla coali-zione vincitrice? Quali sono i territori da abbandonare? Quali sono quelli su cui non cedere? Con quali argomenti riuscire a conservare la sovranità sulla Prussia Orientale da cui traeva origine la stessa Germania?

Fino ad allora mai un capo di Stato avrebbe chiesto il parere al proprio popolo su certe questioni, ma nella Germania dell’immediato primo dopo-guerra si era instaurato un dibattito autenticamente democratico (a parte certi incidenti) su problemi riguardanti la Nazione ed i suoi territori. La popolazione fino a quel momento poteva essere coinvolta su determinate questioni, come morale pubblica, chiesa, voto alle donne, ecc., ma mai su questioni concernenti lo Stato ed il suo territorio, che erano considerate ap-pannaggio unicamente del re.

In questo dibattito un ruolo chiave fu giocato da quei docenti di geogra-fia e storia i quali si rendevano conto che i corsi di geografia, così come erano stati strutturati da Ratzel, non servivano assolutamente a dimostrare l’ingiustizia dei confini imposti. Le presupposte leggi geografiche scientifi-che ratzeliane non permettevano assolutamente di argomentare la critica alle frontiere designate dai vincitori. Ecco perché si cercò di sviluppare una nuova corrente: la geopolitica.

All’inizio il corpo accademico dei geografi era assolutamente contrario, ma i geografi esterni all’università trovarono appoggio in Haushofer, il quale, a causa della sua carriera militare e diplomatica, era rimasto a mar-gine dell’università. Fu lui a dar vita alla rivista Zeitschrift für Geopolitik (Quaderni per la geopolitica), indirizzata a tutta la popolazione, quindi semplice, con carte estremamente schematiche e ad effetto. Anche se Hau-shofer non disdegnò di riproporre certi argomenti della geografia politica, egli proclamò la geopolitica come una nuova scienza: “era un mezzo d’im-porre le proprie tesi secondo un procedimento esplicitamente politico, mol-to diverso dal discorso accademico che aveva tenuto Ratzel nell’univer-sità”.

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Fu proprio questo obiettivo che permise, all’arrivo del Nazismo al pote-re, di pervertirne l’uso facendone una disciplina che doveva servire prima di tutto a giustificare o legittimare una strategia di “conquista”. Questa stra-tegia ebbe le conseguenze catastrofiche che noi tutti sappiamo: l’invasione verso Est da parte della Germania nonché poi l’apertura a Ovest. Allo scoppio del secondo conflitto Mondiale la visione di Hausofer di questa di-sciplina prende il completo sopravvento e darà la ragione dell’occupazione di un territorio considerato “fondamentale” e pilastro di una potenza. Que-sto è pienamente nella cultura di quel periodo particolarmente se pensiamo ai lavori di Mahan e di Mackinder. Entrambi parlano del ruolo fondamenta-le per una potenza di un determinato territorio. Il primo parlando, alla fine dell’800, del primato Britannico sul mare e quello Russo sulla terraferma. Il secondo pochi anni dopo parlando del ruolo dell’heartland che si trova nel-l’Eurasia, in territorio russo. Entrambi in realtà non avranno poi ragione (particolarmente Mackinder individuando un’area che già dal secondo con-flitto mondiale in poi non avrà più questo ruolo importante) e entrambi non scriveranno la parola geopolitica in nessuno dei loro lavori. Entrambi però saranno un solidissimo riferimento per tutti coloro che alla geopolitica si dedicheranno. Soprattutto offriranno un’altra base su cui appoggiare le teo-rie che sostenevano la Germania nella sua scelta di affermazione di poten-za. La connotazione della Geopolitica con il nazismo (e il fascismo, non dimentichiamolo) sarà quindi completa e per questo motivo, con la fine del-la guerra, si assisterà a una vera e propria proscrizione della parola geopoli-tica.

A conclusione di questa parte possiamo indicare il punto di origine di

due importantissime scuole di geografia contemporanea (quella tedesca e quella francese) nelle persone di Haushofer da una parte, che come abbia-mo appena visto era rimasto ai margini del mondo universitario, e di Élisée Reclus in Francia, anche lui rimasto al di fuori del mondo universitario francese. Entrambi quasi a dimostrare che il percorso della ricerca universi-taria di due Paesi, in cui certo non mancavano delle scuole di geografia, fosse entrato in una specie di cul de sac dal quale bisognava farlo uscire al più presto.

Le idee fondamentali della geopolitica tedesca portarono, quindi, in di-scredito la disciplina, allontanandola dalla sua vera natura, al punto che fi-no ai primi anni Settanta non fu quasi mai nominata.

Il processo di reinserimento della geopolitica avvenne intorno agli anni Settanta del Novecento: periodo in cui si verificarono cruciali eventi storici in Indocina, nel violento scontro militare tra Est ed Ovest, e in Asia centra-le. Il conflitto che scoppiò tra i khmer rossi e i comunisti vietnamiti, per il

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controllo di una parte del delta del Mekong, ebbe un’eco fortissima nell’opinione pubblica mondiale e contribuì al riapparire della parola “geo-politica” per designare dei conflitti molto meno ideologici e più prettamen-te territoriali. I conflitti territoriali si verificano essenzialmente per il pos-sesso delle risorse economiche, naturali, spaziali, ecc. Queste risorse, gene-ralmente definite “risorse scarse”, hanno la caratteristica di avere una di-sponibilità limitata, e per questo motivo sono molto contese. Da sempre i popoli entrano in lotta tra loro per conquistare nuovi territori, non solo per espandere il proprio spazio, ma soprattutto per possedere e usufruire delle risorse di cui questi dispongono.

Dagli anni ’90 del secolo scorso è andato via via rinnovandosi un forte interesse per le questioni geopolitiche in diverse parti del mondo. Questa riscoperta della geopolitica è coincisa con una riscoperta dell’elemento geografico all’interno delle dinamiche internazionali; ciò fu dovuto princi-palmente alle nuove aspirazioni e disponibilità economiche dei ceti medi che si poterono così avvicinare alla cultura e dunque al sapere geografico, a una maggiore diffusione della scolarizzazione e ai progressi tecnici nel campo del rilevamento e della stampa.

La geopolitica è divenuta, dunque, un'esigenza molto sentita tra i potenti per orientare la politica degli Stati e far riscoprire la propria identità a molti popoli, che assoggettati dal volere delle superpotenze stavano accusando le conseguenze di un ruolo, negli assetti mondiali, sentito come marginale: questi paesi, infatti, hanno la tendenza a praticare geopolitiche regionali nei confronti dei paesi vicini, in un contesto nel quale le loro azioni sono sem-pre, o quasi sempre, sostenute dalle principali potenze mondiali, acquisen-do così una posizione passiva e subalterna. Si sente, in questo modo, sem-pre più la necessità di liberare i popoli da ogni possibile “catena” e far si che possano conservare i propri spazi e rivendicare la loro influenza politi-ca in un mondo globalizzato nel quale ogni voce ha la sua importanza.

5. Caratteristiche di una situazione geopolitica Abbiamo finora parlato di situazioni geopolitiche, ma in realtà occorre

essere più precisi a riguardo. Quando parliamo di geopolitica alludiamo a un metodo di analisi utiliz-

zabile in determinate situazioni, quelle che definiamo come geopolitiche per l’appunto. Affinché determinate situazioni possano essere analizzate con il metodo proprio della geopolitica occorre che esse posseggano deter-minate caratteristiche.

Queste caratteristiche sono:

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a) la posta in gioco: il territorio; b) due o più attori che si contendano la posta in gioco; c) una popolazione che venga coinvolta in questo contendere.

Una situazione geopolitica si definisce, stando alla definizione di questa

data da Yves Lacoste citata poco sopra, in un dato momento di un’evo-luzione storica, attraverso delle rivalità di potere (qualunque sia la loro im-portanza) e dei rapporti tra le forze situate sulle diverse parti del territorio in questione. Tutto questo qualunque sia l’estensione territoriale (dalla sca-la planetaria a quella urbana) e qualunque sia la complessità dei dati geo-grafici (rilievo, clima, struttura della popolazione, ecc.). Chiaramente le ri-valità di potere a cui per prime facciamo riferimento sono quelle tra Stati, grandi o piccoli che possano essere. Sono essi i primi attori che si conten-dono parti di territorio. Le ragioni del contendere sono tante e diverse tra loro. Possono essere il volersi accaparrare una risorsa presente su di un dato territorio, come giacimenti petroliferi, gas naturali, minerali preziosi, ecc. Ma esistono anche ragioni difficili da comprendere (e da comunicare) che non sono neanche rare da trovarsi. Sono forse quelle – oggi più frequenti – che fanno riferimento ad origini storiche, spesso confuse ed alterate nella loro origine, oppure a complicati interessi economici incrociati ed estre-mamente articolati. Su quelle che sono le conflittualità interne torneremo nella seconda parte di questo testo e lo faremo anche in modo molto artico-lato. Qui ci limiteremo a parlare ancora delle caratteristiche della geopoliti-ca e più particolarmente delle rappresentazioni e dei livelli di analisi.

Nei conflitti troppo spesso ci lasciamo prendere da punti estremamente circoscritti, fatti delimitati nel tempo e nella loro effettiva ripercussione ter-ritoriale. Mentre quello che non bisogna mai dimenticare è di cercare di comprendere le ragioni, le idee degli attori di questi conflitti, anche qualora si rivelassero false. Sono queste ragioni, queste idee che uniscono l’attore con la parte di opinione pubblica che rappresenta. È questa relazione, que-sto modo di influenzarsi a vicenda, tra attore ed opinione pubblica, che de-termina le possibili strategie e ci aiuta a comprendere i veri obiettivi delle forze in campo. La comunicazione che si viene a creare tra attore ed opi-nione pubblica è la rappresentazione.

Vediamo cosa vuol dire, per un geografo, la parola rappresentazione (e

ci renderemo conto che è fondamentale). Sappiamo che etimologicamente essa proviene dal latino repraesentare,

che vuol dire “rendere presente”, e che il suo uso attuale proviene in realtà dal Medio Evo quando cominciò a essere utilizzata per le “rappresentazio-

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ni” artistiche sia teatrali che plastiche. Ma è dal XVIII secolo che il termine rappresentazione assume anche una connotazione politica attraverso l’uso delle rappresentazioni della Nazione e sarà dall’ottocento in poi che ve-dremo apparire le prime rappresentazioni della realtà fatte con la fotografia.

A questo punto è importante ricordare il collegamento fondamentale con

la geografia: la cartografia. Le carte geografiche, in quanto riduzione della realtà, sono delle rappre-

sentazioni della stessa e, col passare del tempo, sempre più dettagliate e complesse. Ricordiamo che in realtà la cartografia ci permette di vedere quello che non è altrimenti visibile. Pensiamo alla visibilità del delta del Po, per esempio, o del Nilo, ma anche l’insieme delle valli delle Alpi. Si tratta di cose non visibili senza una cartografia perché senza il volo non si potevano vedere queste cose dall’alto e comunque anche volando ci sono dei punti di vista che sono coperti e che quindi verrebbero nascosti. Anche se per esempio la fotogrammetria aerea ci permette oramai una visione d’insieme, in realtà essa da sola non riesce a sintetizzare quello che una car-ta geografia invece fa. Da questo punto di vista, quindi, le carte geografiche sono la prima rappresentazione del territorio che permette all’uomo di ve-dere quello che altrimenti non poteva vedere.

Joan Blaeu (1596-1673), un famoso olandese autore di due bellissimi

globi, sia terrestre che celeste, datati 161617, secondo molti pirata, secondo altri cartografo (molto probabilmente era entrambe le cose), diceva una co-sa bellissima: “Le mappe ci permettono di contemplare, nella comodità del-le nostre case, e proprio di fronte ai nostri occhi, cose che sono molto lon-tane”. “Avvicinare ciò che è lontano, rendere visibile l’invisibile, questa non è scienza e non è neppure arte: è alchimia”18. E comunque ha ragione Svetlana Alpers quando ci ricorda come era definito come cartografo: “[...] Colui che descrive il mondo”19 o ancora meglio riesce a fare Harvey dicen-do che “In geometria descrivere significa disegnare o tracciare una retta o la sagoma di un oggetto. In Poesia, significa arrivare all’essenza delle cose, farle vivere con parole incantevoli e penetranti”20.

Ma la nozione di rappresentazione per i geografi non si ferma qui, anzi,

17 Si possono vedere nella sala più importante della collezione Spada a Palazzo Spada,

sede del Consiglio di Stato, a Roma. 18 Harvey M., L’isola delle mappe perdute, Rizzoli, Milano, 2001, pag. 117. 19 Alpers S., The Mapping Impulse in the Dutch Art, in Art and Cartography: Six Historical

Essays, a cura di David Woodward, University of Chicago Press, Chicago 1987, pag. 59. 20 Harvey M., L’isola delle mappe perdute, op.cit., pag. 115.

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dovrebbe avere ancora più importanza come ci mostra la sua stessa storia. La parola “geografia” significa, da sempre, rappresentare la Terra, dato che graphein in greco significa scrivere, ma anche disegnare, rappresentare. Come ci fa notare Lacoste21 “[...] logos, il discorso, si scrive anche lui, ma fa riferimento a delle rappresentazioni disegnate della realtà solo a partire dal XVIII secolo (il termine geologia, che data 1751, all’inizio voleva solo dire discorso sulla Terra). Se si è dedicata tanta energia nella costruzione di queste rappresentazioni cartografiche è perché la loro utilità era evidente non solo per i navigatori, ma anche per i ‘signori’ della guerra e i grandi servitori degli Stati”.

Sarà nel XX secolo che la parola “rappresentazione”, utilizzata come strumento di conoscenza della realtà, troverà diffusione anche nelle altre scienze, comprese in quelle che si avvalgono del linguaggio matematico, in quanto segni e immagini che vengono costruiti progressivamente in funzio-ne delle ipotesi e delle esperienze e che rappresentano determinate parti della realtà. Proprio perché si tratta di rappresentazione, parole come “strut-tura” e “sistema” conoscono un tale successo nelle varie discipline scienti-fiche.

Il bisogno di confrontare le diverse rappresentazioni negli studi delle va-rie scienze umane deve essere applicato anche a questioni riguardanti l’o-pinione pubblica, perché i mass-media propongono diverse rappresentazio-ni secondo i vari casi, i conflitti e i vari attori in causa. Cerchiamo quindi di concludere intorno al tema della “rappresentazione” (in effetti si potrebbe scrivere un libro intero solo su questa parola).

La parola “rappresentazione” è perfetta per indicare ciò che si vuole spiegare, perché si presta a due interpretazioni:

1. la prima interpretazione è quella di disegno e le carte geografiche so-no una rappresentazione. Sempre più nelle decisioni politiche che ri-guardano il territorio vengono usate le carte come supporto “scienti-fico”, come base di obiettività, perché le carte sono “scientificamente vere”. Dobbiamo invece tenere sempre presente che le carte geogra-fiche sono assolutamente soggettive: esse sono lo strumento con il quale un geografo comunica un’idea (la sua idea, una tra le tante);

2. la seconda interpretazione del termine “rappresentazione” è quella teatrale. L’atto teatrale che rende presente simbolicamente perso-naggi e situazioni drammatiche, cosa che è anche propria della geo-politica.

21 Lacoste Y., De la géopolitique au paysage. Dictionnaire de la Géographie, Armand

Colin, Paris, 2003. Vedere voce “répresentation”, pag. 330.

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Ripartiamo quindi da questo punto per cercare lentamente di avvicinarci al significato completo della parola “geopolitica”, almeno nel senso che io voglio darle in questo libro.

Ricordiamo che “[...] le opinioni geopolitiche che si affrontano o si con-frontano, trattandosi di rivalità di potere su dei territori e sugli uomini che vi abitano, sono rappresentazioni cariche di valori, più o meno parziali, ba-sate su situazioni reali le cui caratteristiche obiettive non sono assolutamen-te facili a determinarsi”22. Un attore che cerca di battere il proprio rivale ar-riva ad inventarsi qualsiasi cosa, prima tra tutte l’affermazione della scien-tificità della propria tesi al fine di ottenere la supremazia sul territorio con-teso. Per questo si fa riferimento a tesi storiche “scientifiche”, o a “leggi naturali”. Non ultimo il ricorso alla geografia fisica, dove si cercano spie-gazioni da imporre al proprio avversario, mostrando così l’indiscutibilità delle proprie affermazioni.

A questo proposito un altro esempio ci viene fornito da un attore politi-co italiano che sicuramente non manca di fantasia riguardo alla panoplia di strumenti utilizzati per affermare una identità propria.

La Lega Nord, nata dalla fusione di tre movimenti regionali profonda-mente divisi e che ancora oggi non smettono di guardarsi con vera diffiden-za, ha sempre cercato di mostrare la “scientificità” della propria esistenza su delle basi identitarie precise. In realtà, in quanto partito politico a base carismatica, essa si appoggia su un elettorato ben preciso e che molti hanno già copiosamente studiato23. Quello che interessa mostrare in questo lavoro è l’uso dei discorsi fatti e delle indicazioni date.

Il bisogno di ancorarsi a un solo territorio, inteso come un unico insie-me, è tale che si sono dovuti andare a pescare i famosi Celti per poter cer-care del “sangue” comune. La cosa è estremamente interessante visto che se c’è un territorio d’Europa in cui mai potremo individuare del “sangue comune” (ammesso che questa definizione abbia un senso) questo è proprio il territorio italiano, dove praticamente fin dall’alba dei tempi ci si dava ap-puntamento per potersi fare la guerra, e in particolare proprio in Val Pada-na. Effettivamente tra “barbari” del Nord e “barbari” del Sud la nostra pe-nisola è stata un incredibile luogo di passaggio e di scontro e cercare quella che possa essere indicata come la sola e unica identità, l’originale, quella del Dio Po, è impresa assai ardua.

Ma quello che ci interessa di più non è dare ragione o torto a coloro i quali fanno appello ai Celti per dire da dove vengono. Quello che ci impor-

22 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de geopolitique, op. cit. (traduzione degli autori). 23 Uno per tutti, per non citarne troppi, Ilvo Diamanti con il suo oramai famoso La Lega,

Donzelli, Roma, 1993.

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ta è vedere come si costruisce questa rappresentazione. Da qui i festival di musica celtica e se si accende Radio Padania Libera, tra un dibattito e l’altro, troveremo sicuramente un brano di musica celtica. Ovviamente chi scrive non ha nulla contro questo tipo di musica, al contrario, ma sorprende molto vederla usata come la musica delle “origini”.

Lo stesso simbolo del Sole delle Alpi è in sé una fonte interessante. Nel caso della Regione Lombardia, il suo simbolo è una forma stilizzata

della Rosa Camuna, un graffito, ritrovamento archeologico, rinvenuto in una grotta della Valle Camonica, e sul sito web della stessa Regione Lom-bardia si trovano tutte le informazioni utili sulle origini di tale simbolo, tra cui fotografie varie e spiegazioni su come dalla “rosa originale” si è passati a quella stilizzata di oggi sulla bandiera regionale. Certo molti discutono di un simbolo camuno collegato a tutta la regione, compresi, solo per citarne due, Pavesi e Mantovani: si sentiranno uniti da questo simbolo? A loro ri-spondere.

Il Sole delle Alpi invece esisteva già e per vederlo basta andare in alcu-ne località dei Paesi Baschi francesi e visitare qualche negozio di bianche-ria per la casa. Infatti i Paesi Baschi sono famosi per produrne un genere un po’ rustico ma sicuramente resistente; oltretutto questi prodotti hanno sem-pre più successo. Il simbolo classico dei Paesi Baschi è estremamente simi-le alla Rosa Camuna utilizzata dalla Regione Lombardia e cioè un fiore a quattro petali a svastica curvata. Ma vi è un altro simbolo, sempre nei Paesi Baschi, utilizzato un po’ meno di quello più famoso e che diversi anni fa fu adottato da un’azienda francese che produce biancheria per la casa: è lo stesso Sole delle Alpi della Lega Nord, però in rosso.

Fermiamoci a questo punto per evitare di addentrarci troppo nella deco-dificazione dei simboli, discorso più adatto a un semiologo che a un sem-plice geografo; diciamo solo che le “rappresentazioni” hanno un ruolo fon-damentale e certamente non sono semplici da decodificare: nel caso della Lega Nord occorreva qualcosa che andasse contro la “romanità” magari an-che antecedente, ma che al tempo stesso non scendesse nel dettaglio locale di Friulani, Veneti, Lombardi, Piemontesi, ecc. Ecco quindi apparire i Celti. L’esercizio è sicuramente periglioso, ma comunque oramai ha preso piede.

Possiamo affermare a questo punto che esiste, forse, una sola maniera per affrontare con un rigore “scientifico” qualsiasi situazione geopolitica: il dirsi fin dall’inizio che qualsiasi situazione geopolitica verrà sostenuta da rappresentazioni divergenti, contraddittorie e più o meno antagoniste.

Bisogna, quindi, affrontare tutte le rappresentazioni date con questo principio; ma si deve cercare anche di andare oltre, superando l’opposizio-ne dei punti di vista in campo per cercare di produrre una visione più obiet-tiva della situazione. Non facciamoci ingannare dal fatto che la maggior

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parte dei conflitti frontalieri veda la presenza di due attori (due Stati, salvo dovute eccezioni) per poter affermare che esistono semplicemente due rap-presentazioni. La maggior parte degli Stati hanno più vicini e con ciascuno di essi hanno rappresentazioni diverse. Per analizzare queste situazioni bi-sogna andare oltre l’analisi delle tesi ufficiali sostenute, esaminando tutto quello che dietro una determinata affermazione vi può essere.

Esempi se ne possono fare tanti. Basti pensare che un Paese A può avere con un Paese B suo vicino dei rapporti e delle strategie influenzate da un Paese C situato a migliaia di chilometri. E non è assolutamente detto che questo possa trasparire nelle tesi ufficiali sostenute dai due Paesi confinanti (A e B). La particolarità, però, non si ferma qui.

Non è difficile trasporre questa griglia di lettura al confronto che due

partiti possono avere su di una parte del loro territorio nazionale. La rap-presentazione che un partito proietta di se stesso in un dato territorio può essere diversa da altre rappresentazioni date in altre parti del territorio na-zionale, sempre dallo stesso partito. E le motivazioni che possono condurre a simili contraddizioni possono non essere lette nell’immediato, trovando spiegazioni in fatti passati o azioni che verranno condotte in futuro e di cui si prepara il campo.

Il caso dei partiti è particolarmente interessante perché in Italia essi hanno una fortissima connotazione locale e quindi il gioco delle scale è an-cora più evidente.

6. Scale e rappresentazioni: in geografia e geopolitica

Il termine “scala” in geografia ha un ruolo chiave e un significato prin-cipale: le scale sono il rapporto tra la realtà e la rappresentazione carto-grafica (si tratta del numero che in genere vediamo sulle carte geografiche e che è una frazione; per esempio 1:200.000 è la tipica scala regionale che serve a creare cartine geografiche per una regione come le Marche o la To-scana). Ma oltre questo significato cartografico che ci indica la “quantità di sintesi” della realtà, esistono altri significati, come effetti di scala, o scale di rappresentazione. Cerchiamo quindi di capire meglio che cosa si vuole intendere in questo senso anche perché tra i geografi esistono delle confu-sioni che è bene dissipare se si vuole arrivare fino in fondo a quella che è la vera riflessione geografica che è, a sua volta, il cuore dell’analisi geopoliti-ca di un evento.

La parola “scala” – di cui in questo caso evitiamo l’etimologia –, così come è usata in geografia, deriva proprio dalle scale in legno e dall’alter-

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narsi dei colori (in genere bianco e nero), e ci dice a quanti chilometri cor-risponde la distanza che vediamo sulla carta, fatta appunto in bianco e in nero, per renderla più visibile e meglio leggibile. Questa gradazione indica semplicemente il rapporto che esiste tra una distanza reale, intesa come quella che viene misurata nella realtà, sul terreno, e la distanza, ovviamente più piccola, che la riproduce sulla cartina che stiamo guardando. È ovvio che sulla stessa cartina geografica quel rapporto deve essere uguale ovun-que, in ciascuno dei suoi punti. Se così non fosse allora quella cartina sa-rebbe sbagliata, in buona fede nella migliore delle ipotesi, oppure falsata volontariamente, nel qual caso si deve leggere questo atto come un gesto di malafede. L’esperienza ci ha spiegato che raramente l’errore è fatto in buo-na fede.

La scala di una carta è quindi un rapporto matematico anch’esso in ge-nere indicato sulla cartina. Nell’esempio che citavo prima la scala può esse-re scritta in due modi diversi: 1:200.000 oppure 1/200.000. Questo banal-mente ci dice che una qualsiasi distanza sulla Terra è indicata come 200.000 volte più piccola sulla cartina e quindi 1 Km reale in questo caso corrisponderebbe sulla carta a 1/2 cm; da questo si capisce al volo come il numero che indica la realtà è 1 mentre il denominatore ci dirà quante volte il dato è stato ridotto o meglio quante volte il valore reale sia stato diviso. In geografia raramente si va al di sopra di una scala di 1/10.000 perché ci ritroveremmo a pensare in termini di planimetrie, tipo i lavori di un archi-tetto o di un ingegnere. Ragionando in scale di 1/10 o 1/100 e in casi abba-stanza rari di 1/1000, non si può facilmente passare a ragionamenti con 1/50.000 se non addirittura 1/200.000. Cito questo esempio perché penso a tutti gli architetti e ingegneri che dopo il loro corso di studi si trovano a confrontare con bisogni basati su cartografie, loro che si sono mossi solo su piante e planimetrie. Il ragionamento e, quindi, l’uso strumentale sono completamente diversi.

Vi è ancora un’altra confusione che credo vada definitivamente chiarita:

la differenza tra una grande scala e una piccola scala. Partiamo dalla cartina citata come esempio della scala 1/200.000 dove

possiamo vedere rappresentata una regione italiana, per esempio. Se invece noi la confrontiamo con una scala come quella di un insieme provinciale allora passiamo almeno a una scala di 1/100.000. In questo caso la prima contiene al suo interno una dimensione territoriale maggiore, cioè riproduce più territorio (una regione intera) di quanto non ne riproduca una cartogra-fia 1/100.000 che invece contiene una o due Province. Tendenzialmente noi tenderemmo a dire che la prima è a una scala più grande di quanto non lo

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sia la seconda. Invece, geograficamente è esattamente vero il contrario dato che 1/200.000 è un numero decisamente più piccolo di 1/100.000 (esatta-mente la metà). Ecco perché in geografia si definiscono cartografia su grande scala quelle carte che riproducono piccole porzioni di territorio e che ovviamente hanno un maggior dettaglio. Viceversa le carte su piccola scala sono certamente quelle che inglobano maggior territorio ma che per ovvi motivi contengono meno dettagli.

Purtroppo spesso incontriamo delle frasi tipo “lanciata operazione su grande scala per il controllo della criminalità organizzata” la quale non vuol propriamente dire che si tratta di un’operazione su una scala comunale o provinciale, ma nella maggior parte dei casi si intende con grande dispie-gamento di mezzi e spesso su tutto il territorio di un Paese.

Ma sulle scale applicate alla geografia di certo non mancano gli autori. Tra quelli citati fin qui c’è certamente Agnew, il quale si è confrontato non soltanto con la tematica della scala ma anche applicandola allo studio dei partiti politici (e tra l’altro, da buon specialista dell’Italia, John Agnew l’ha particolarmente utilizzata proprio per studiare il nostro Paese)24. Egli co-mincia con il definire le scale ma al tempo stesso, conscio della confusione che spesso regna intorno a questa definizione, afferma chiaramente che non esiste nulla di veramente definito rispetto all’uso che regolarmente viene fatto di questa parola. Termini come “locale” o “globale” sono usati attri-buendo loro diverse accezioni. Nelle scienze sociali, per esempio, la parola “scala geografica” è praticamente attribuita alla proiezione dei vari livelli istituzionali, partendo dai Comuni, passando per Province e Regioni, fino ad arrivare a Stati nazionali.

Sul caso italiano Agnew fa chiaramente riferimento al caso PCI e DC e sottolinea come, pur avendo un tipo di elettorato molto simile, Emilia Ro-magna e Veneto erano due regioni inaccessibili per ognuno di questi due partiti. Effettivamente la DC, potentissima nel Veneto, non è mai riuscita a penetrare l’elettorato della regione rossa per definizione e dicasi la stessa cosa sul PCI parlando del Veneto. Eppure non mancano gli studi che ci mo-strano come l’elettorato, da un punto di vista squisitamente sociologico, sia molto simile in queste due regioni. Entrambi i partiti, pur avendo una proiezione nazionale, hanno comunque una particolare rappresentazione di se stessi in queste due aree.

Ma il PCI, il partito dei lavoratori, rappresentante della classe operaia, in realtà aveva una forza particolare in tre Regioni italiane: Umbria, Tosca-

24 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, in Political Geography, vol. 16, n. 2, February 1997.

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na e Emilia Romagna. In queste stesse Regioni la rappresentazione che questo partito proponeva di sé era ovviamente diversa da quella che propo-neva nella periferia di una città di Torino: quindi alludiamo a diversità che non sono solo basate sulla frattura Nord/Sud del Paese.

Il PCI si trasformò in seguito in PDS, poi in Democratici di Sinistra (DS) per poi confluire nell’attuale Partito Democratico composto dalla vec-chia Margherita ma privata della sua ala di sinistra più estrema. Certo, il confronto con il PCI di quegli anni è ingiusto. Non solo il partito è profon-damente cambiato, ma moltissima gente che oggi milita nei DS, anni fa non avrebbe mai pensato di iscriversi al PCI. Fatto sta che se facciamo un col-legamento tra questi due partiti e accettiamo il fatto che il secondo è erede in qualche misura del primo, possiamo riscontrare anche continuità nell’ancoraggio territoriale. In effetti i punti forti dei DS oggi restano (più o meno) quelli che erano i punti forti del PCI. È ovvio che la polarizzazione territoriale odierna è molto più stemperata di quella dei tempi del PCI, ma certo non possiamo dire che i DS non abbiano nell’Umbria uno dei loro ba-stioni. Quello che ci interessa mostrare è che mentre in una periferia di una grossa metropoli (come Torino o Milano) i DS sono fortemente legati alla rappresentazione a tutela degli operai, in zone come l’Umbria invece (ma anche in Toscana e Emilia), i DS si propongono una rappresentazione di-versa.

In effetti qui il tessuto delle piccole imprese è diffusissimo e i DS modi-ficano la loro rappresentazione in questo senso. Da qui nasce la rappresen-tazione che privilegia sempre un ruolo di protezione da parte dello Stato, ma questa volta non si tratta di sostenere le classi più basse della nostra struttura sociale, quella che una volta veniva indicata come la classe ope-raia, bensì di occuparsi delle piccole e medie imprese. Quindi ci si concen-tra sul ruolo dello Stato nel sostenere la competitività delle imprese. Anche se sostenendo i più “deboli”, si tratta comunque di sostenere la competitivi-tà di un tessuto imprenditoriale. Quello che certamente fa più differenza ri-spetto al resto della rappresentazione nazionale e che sicuramente contri-buirà alla costruzione di ancoraggi locali dell’attuale sinistra italiana (ma non solo), è proprio l’esistenza di quella che Agnew chiama “municipal so-cialism”25 e che diventa l’elemento di contrapposizione certamente della rappresentazione “individualista” di Forza Italia e Lega Nord, ma anche ri-spetto alle battaglie proprie della sinistra in senso “nazionale” che miravano in realtà a lottare a favore di una “cosiddetta classe operaia” internazionale.

Questo effetto di scala non riguarda certo solo i DS ma tutto lo scacchie-

25 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, op.cit., pag. 112.

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re politico italiano e, proprio come dice Agnew nelle conclusioni del suo articolo26, “[...] None of them (i partiti politici) can be understood satisfac-torily without understanding how they construct scale and how that affects their politics”.

È questo il punto essenziale che noi dobbiamo sempre tener presente: il

ruolo delle rappresentazioni e delle scale che vengono usate. Certo l’esercizio non è semplice e richiede una certa abilità, ma si tratta

semplicemente di applicare a un oggetto di studio “politologico” quella che è la riflessione territoriale, quello che si chiama “ragionamento geografi-co”. Al tempo stesso non bisogna commettere degli errori di superficialità in questo senso.

Applicare il ragionamento geografico non vuol dire sommare le compe-tenze di un politologo con quelle di un geografo, ma coniugare il tutto in uno stesso ragionamento. Come prendere in considerazione le scale non si-gnifica passare da una scala all’altra. Tradotto in termini pratici significa che quando studiamo un dato fenomeno o evento a una certa scala, per esempio esaminiamo una certa crisi economica di una certa Provincia, dob-biamo tenere presente tutto quello che accade alle scale superiori, re-gionale, nazionale e persino intercontinentale. Tutte cose che influenzano in modo diverso il territorio su cui si produce l’evento che vogliamo studia-re.

Torniamo in maniera conclusiva sulle rappresentazioni. Dietro queste rappresentazioni, non vi sono Stati o popoli, bensì poche

persone (a volte anche una sola), gruppi di intellettuali o uomini politici, che diffondono queste tesi; solo in un secondo momento esse verranno fatte proprie da parte di masse più sostanziose di cittadini. Queste rappresenta-zioni sono state create per esprimere il punto di vista di gruppi ristretti di persone. Ecco perché a volte esistono divergenze non solo tra le parti oppo-ste in campo, ma anche all’interno delle varie compagini in disputa, a causa di un diverso modo di vedere le cose.

Per quanto si cercherà di prendere in considerazione tutte queste possi-bili rappresentazioni, non si potrà mai dare a questo metodo di analisi la benché minima parvenza di “scienza”. Si tratta di analizzare delle rivalità di potere tra diverse forze, ognuna delle quali avrà diverse rappresentazioni, ovviamente parziali e contraddittorie. Queste forze avranno chiaramente delle strategie che saranno a loro volta divergenti ed antagoniste. Quello che diventa necessario imporsi, prima ancora di cominciare, è di seguire

26 Agnew J., “The drammaturgy of horizons: geographical scale in the ‘Reconstruction

of Italy’ by the new Italian political parties, 1992-95”, op.cit., pag. 117.

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comunque un’osservazione di tutto ciò che compone la situazione geopoli-tica in maniera assolutamente imparziale (o quanto meno il più possibile). Detto questo viene da sé che definire “scienza” la geopolitica risuonerebbe presuntuoso e condurrebbe ad errori che hanno avuto in passato tristi riper-cussioni.

Ritornando al rapporto tra “scienza” e geopolitica, Yves Lacoste defini-sce la geopolitica come un procedimento scientifico. “[...] la geopolitica può essere vista come un procedimento scientifico [...] dal momento in cui tutte le tesi rivali siano presentate in buona fede e si cerca di comprendere ciascuna di esse e le loro ragioni profonde come cause indirette ed acciden-tali della loro disputa”27.

Questo procedimento scientifico non deve essere visto semplicemente come strumento per lo studio di rappresentazioni opposte e in contraddi-zione tra loro. Quello che deve essere il vero uso della geopolitica è, inve-ce, la volontà di produrre delle rappresentazioni più obiettive di quanto non lo possano essere quelle in disputa tra loro. In questo modo la geopolitica si rivela strumento di grande efficacia per la soluzione di situazioni altrimenti difficilmente districabili, ma anche per la previsione di possibili scenari fu-turi.

Tra gli addetti ai lavori si definisce in questo punto la differenza tra geo-politica e storia. In quest’ultima l’obiettivo fondamentale è di capire come e perché una battaglia ha avuto un tale esito. Nella geopolitica l’obiettivo è di cercare di prevedere evoluzioni di una determinata situazione che potrebbe-ro sfociare in battaglie e questo facendo anche, ma non solo, uso della sto-ria attraverso i suoi insegnamenti su esiti di situazioni passate.

La geopolitica usa quindi tutto ciò che può essere utile nel dirimere “matasse intricate”. Quello che accade su un territorio ingloba l’azione umana, diventa quindi essenziale fare ricorso a tutte quelle scienze umane, come sociologia, economia e ovviamente anche storia. Ognuna di queste scienze o discipline sono utili per la comprensione di una data situazione territoriale; da questo diventa facile desumere come la multidisciplinarietà sia un’altra caratteristica fondamentale dell’analisi geopolitica.

Anche se la multidisciplinarietà è un elemento caratterizzante, esiste forse un legame originario che questo metodo porta con sé fin dall’inizio. Abbiamo scritto ormai infinite volte questa parola e sicuramente la si trove-rà altre infinite volte nel seguito di queste pagine: territorio. Esso è palco-

27 Lacoste Y. (a cura di), Dictionnaire de geopolitique, op. cit. Per maggiore precisione

riporto di seguito il testo tratto dalla pagina 29: “[...] La géopolitique peut être envisagée comme démarche scientifique [...] dès le moment où l’une et l’autre des thèse rivales sont présentées de bonne foi et si l’on cherche à comprendre chacune d’elles et les raisons pro-fondes comme les causes indirectes ou accidentelles de leur affrontement”.

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scenico e posta in gioco al tempo stesso, è il vero punto di riferimento, l’elemento da cui partire. Non vi può essere situazione geopolitica se non vi è un territorio. Il rapporto col territorio è così essenziale che è proprio ri-spetto alla sua leggibilità che ci si trova a riflettere maggiormente, er me-glio capire e decodificare quello che vi accade. Per questo motivo ora ve-dremo come delle rappresentazioni cartografiche di scale diverse possono essere determinanti per capire eventi che possono sembrare del tutto scolle-gati.

7. Dai livelli di analisi al diatopo Questo aspetto della geopolitica è troppo spesso confuso, da un punto di

vista metodologico, con l’uso delle scale geografiche. I livelli di analisi so-no qualcosa che richiede un certo esercizio analitico soprattutto perché ob-bliga a prendere in considerazione tutto quello che influenza un territorio, a livelli diversi. Ma cerchiamo di definire meglio la problematica.

Facciamo un esempio di come l’applicazione dei diversi livelli di analisi ci possa aiutare a mettere meglio in evidenza le diversità con le quali ci tro-viamo ad essere confrontati.

Prendiamo il caso dell’Europa. Oggi con questo nome vengono indicate più entità. Possiamo indicare l’insieme fisico propriamente detto e quindi il territorio compreso tra gli Urali e le Isole Britanniche. Politicamente la cosa è più confusa. Quando leggiamo Europa in un giornale pensiamo all’Unio-ne Europea, dalla quale sono però escluse Svizzera e Norvegia. A questi due Paesi dobbiamo poi aggiungere tutti quelli che facevano parte del vec-chio Patto di Varsavia, ma di cui buona parte sono oramai membri dell’U-nione Europea.

In molte carte geografiche oggi l’Europa viene rappresentata come comprendente tutti i Paesi dell’Est fino alla frontiera con la Russia: que-st’ultima verrebbe così esclusa dal vecchio continente.

Se cerchiamo di identificare l’Europa attraverso una comunanza clima-tica, le cose non si semplificano di certo. Non è possibile identificarla con la tesi secondo la quale tutta l’Europa sarebbe compresa nella fascia clima-tica temperata. Semplicemente perché parti non trascurabili dell’Europa ne sono al di fuori28. A questo bisogna aggiungere tutte le varie differenzia-

28 Ricordiamo che geograficamente viene indicata quale zona climatica temperata quella

parte del pianeta compresa tra il 40° parallelo ed il circolo polare artico (quindi fino a 66°33’ di latitudine). È bene ricordare che al di sotto del 40° parallelo si trova la metà della Spagna, parte del Portogallo, buona parte della Grecia, per non parlare della Calabria e di

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zioni climatiche che esistono all’interno della stessa Europa. Pensiamo al clima oceanico che accomuna tutta la parte occidentale del nostro continen-te dal Portogallo fino alla Penisola Scandinava. Questo clima è caratterizza-to da abbondanti piogge.

Oltre a questo tipo di clima possiamo riferirci al clima continentale, il quale è caratterizzato da una scarsa influenza oceanica sia sulle precipita-zioni che sulle temperature, grandi escursioni termiche tra le varie stagioni e scarse precipitazioni. Chiaramente questo clima continentale può ancora essere differenziato, passando dal clima continentale dolce a quello iper-continentale. Gli spazi compresi in questo tipo di clima sono quegli spazi interni, abbastanza lontani dal mare che da ovest penetrano nel cuore del continente verso l’Europa centrale e le grandi pianure orientali e più ci si addentra, più esso diventa rigido.

Non dimentichiamo poi quello Mediterraneo, il quale è ben caratterizza-to da una lunga stagione secca, quella estiva, ma con precipitazioni inver-nali che raggiungono lo stesso livello di quelle continentali. Anche qui spesso gli insiemi disegnati sono alquanto approssimativi e aleatori. Pen-siamo all’Italia che viene considerata integralmente abbracciata da questo tipo di clima, ma sappiamo bene che non si può certo parlare così della pia-nura Padana, per non dire della zona alpina. E sempre per restare in materia di clima, ricordiamo che il Mar Nero ha un clima piovoso in estate, a diffe-renza delle estati secche del Mediterraneo.

Un altro modo di distinguere l’Europa potrebbe essere quello della ric-chezza, misurata nel nostro caso dalla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei vari paesi che stiamo considerando.

Se prendiamo in considerazione la crescita del PIL nel 1993 si vedrà che esiste un blocco orientale che non supera una crescita dell’uno per cento, composto da Bulgaria, Moldavia, Ucraina, Bielorussa e Lituania (per i pri-mi quattro si ha addirittura un calo). Mentre paesi dell’Europa Mediana (come la chiama Lacoste) come Romania, Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno un tasso di crescita che rientra perfettamente nella me-dia europea. Questo sembrerebbe confermare quella rappresentazione dell’Europa che fa riferimento alla UE oppure all’Europa occidentale, ma eccezioni sono anche la Spagna, il Portogallo e la Grecia, che si trovano nella stessa situazione del blocco orientale appena descritto.

Ecco quindi che, di fronte a questa grande diversità, il metodo di analisi che stiamo esponendo, quello geopolitico, viene applicato attraverso l’os-servazione delle intersezioni tra questi insiemi spaziali come anche di tutti

tutta la Sicilia. Una parte sostanziosa di Russia, Finlandia, Svezia e Norvegia si trovano al di là del Circolo Polare Artico.

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gli altri che possiamo definire. Attenzione a notare che quando parliamo di insiemi “spaziali” non stiamo parlando di insiemi teorici caratterizzati da determinate variabili in essi contenute, ma di insiemi precisi che hanno un riscontro autentico nella realtà e che soprattutto sono caratterizzati anche da contorni delimitanti i quali devono essere esposti con precisione ed esami-nati con altrettanta cura, perché sono questi i limiti che si intersecano tra loro. Queste intersezioni sono incroci che spesso possono spiegarci molte cose, trovando nella presenza della variabile di un dato insieme su di un da-to territorio (per esempio il clima) la spiegazione di un determinato feno-meno (per esempio politico) sullo stesso territorio. Anche se a volte queste intersezioni non possono spiegarci dei fenomeni precisi o degli eventi, esse possono però farci scoprire interazioni che forse non avevamo preso in considerazione. Il miglior modo di rappresentare questi insiemi non è quel-lo di affiancare più carte, ma di sovrapporle. Ma attenzione: questa sovrap-posizione non è assolutamente un metodo scientifico per rilevare qualsiasi tipo di fenomeno e trovarvi quindi una soluzione. Tutto questo è fatto per dare atto della presenza di molte variabili, a volte più di quante si possano immaginare, e cercare quindi di rilevarne quante più è possibile.

Il tipo di operazione che abbiamo appena descritto, quella cioè della so-vrapposizione delle carte, non è però sufficiente per dare ragione della complessità dello spazio che dobbiamo studiare. Diventa essenziale a que-sto punto passare ad un altro procedimento da affiancare a quello appena svolto: prendere in considerazione insiemi spaziali dalle dimensioni molto diverse tra loro.

Quindi, ricapitolando, abbiamo: sovrapposizione d’insiemi spaziali alla stessa scala, per poi passare ad una sovrapposizione di insiemi su scale di-verse della stessa porzione di territorio.

Il fatto di identificare l’Europa nella fascia climatica temperata ci per-mette di identificare un insieme spaziale abbastanza grande da poter com-prendere tutto il vecchio continente, ma non ci permette di prendere in con-siderazione le diversità climatiche come nel caso dell’Italia meridionale. Per poter disegnare insiemi spaziali di grandi dimensioni, siamo obbligati a fare astrazioni di diverse variabili che, se prese in considerazione, ci impe-direbbero di avere una rappresentazione d’insieme così vasta.

Questo stesso esempio può valere se viene fatto prendendo in conside-razione le variabili economiche. Particolarmente nel nostro Paese la percen-tuale di crescita del PIL ha un certo senso se la si prende in scala nazionale, ma cambia radicalmente se viene presa in scala provinciale, magari insieme alle percentuali di disoccupazione. Non è semplicemente una diversità do-vuta alle scale, dove possiamo dire che secondo l’esigenza di studio proce-diamo all’uso di una o di un’altra scala. La sovrapposizione delle scale e

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delle diverse variabili ci permette di cogliere il perché ad un certo anda-mento della disoccupazione, per esempio, è corrisposto un determinato an-damento del PIL in una parte del territorio anziché in un’altra.

Se disegniamo un insieme spaziale del clima tipicamente mediterraneo,

in Puglia non riusciremo a mettere in evidenza delle diversità essenziali tra il Salento e le Murge. La rappresentazione regionale rientra perfettamente nelle medie che ci permettono di identificare la zona come climaticamente mediterranea, ma i millimetri di pioggia caduta sono sensibilmente diversi tra le due zone prese ad esempio. Nel Salento nel 1993 si sono avute preci-pitazioni per 733 millimetri, mentre a Bari ve ne sono stati 46929. Anche se è vero che il 1993 è stato un caso eccezionale, è pur vero che abitualmente il Sud della Puglia riceve più precipitazioni del centro, ma se si vanno a guardare le frequenze si scopre che ci sono più giornate piovose nel centro di quante non ce ne siano nel Sud. Questo ci porta ad affermare che oltre alle rappresentazioni spaziali su scale geografiche diverse, bisogna poter fare attenzione anche a quelle temporali. La preoccupazione del contadino del Sud della Puglia, di fronte a questo problema, non è tanto di sapere quanta pioggia riceverà la sua terra, ma più che altro in quale periodo essa verrà concentrata. In questo caso il dato delle precipitazioni annuali è sì importante, ma per il nostro contadino è più importante il dato mensile del-le stesse.

Evidentemente, questa differenziazione, è valida non solo per gli aspetti propriamente meteorologici, ma certamente anche per quelli politici e so-ciologici.

Vi sono dinamiche come il tasso di disoccupazione, per esempio, che ri-sultano interessanti su scala mensile e annuale, ma affiancata a questa va-riabile può essere essenziale l’andamento demografico, il quale per parte sua è leggibile su scale decennali.

Per un’analisi territoriale delle diverse variabili che ci possono interes-sare, procedere secondo questo metodo è assolutamente essenziale; questo perché nella geografia lo studio viene fatto su insiemi che partono dalla scala planetaria per arrivare ai diversi quartieri delle città.

Questa problematica delle diverse scale è sempre stata tipica dei geogra-fi, i quali si trovano di fronte al problema tecnico di rappresentare (di-segnare) degli spazi di dimensioni diverse su carta. Secondo la dimensione dello spazio da rappresentare e della dimensione di questa rappresentazione si può usare un determinato tipo di scala.

Alla luce di quanto ho appena scritto possiamo elencare quali sono i li-

29 Dati Istat del 1993.

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velli di analisi – e come si articolano tra loro –, ognuno dei quali corrispon-de a un tipo di scala, questo per comodità di riferimento. Lacoste espone questo tipo di catalogazione come formalizzazione a cui fare riferimento in seguito nello studio dei fenomeni della geopolitica30. Egli articola i diversi ordini come segue:

– 1° ordine di grandezza: si tratta di quegli insiemi spaziali che ven-gono misurati in decine di migliaia di chilometri e che comprendono continenti interi, leggibili su planisferi, oppure che rappresentano oceani, catene di montagne, ecc. Questo tipo di ordine di grandezza viene rappresentato con un rapporto di scale che va da un ventimilio-nesimo fino a un centomilionesimo;

– 2° ordine: gli insiemi che vengono misurati in migliaia di chilometri, cioè insiemi climatici, oppure grandi bacini fluviali o mari come il Mediterraneo. In questo caso le scale usate andrebbero dal milione-simo al decimilionesimo;

– 3° ordine: sono quegli insiemi spaziali che vengono misurati in cen-tinaia di chilometri. Sono generalmente le Regioni italiane, per fare un esempio di casa nostra, o bacini fluviali come quello del Po. La scala migliore da usare per queste rappresentazioni è quella compre-sa tra 1/500.000 e il milionesimo;

– 4° ordine: sono gli insiemi spaziali misurati in decine di chilometri e che generalmente si usano per i grossi agglomerati urbani, come Roma o Milano, ma anche per porzioni di catene di montagne, come una parte delle Alpi. Le ritroviamo particolarmente utili per gli in-siemi locali riferiti a Province, molto in voga oggi. Le scale migliori per rappresentare questi insiemi su carta sono comprese tra 1/50.000 e 1/200.000;

– 5° ordine: si tratta degli insiemi spaziali misurati in chilometri e che possono essere utilizzati in numerosissimi casi. Pensiamo ai laghi, piccoli fiumi, ma anche foreste oppure i grossi quartieri delle metro-poli, grossi centri portuali e industriali, ecc. Le scale utilizzate per la rappresentazione di questo tipo di insiemi sono comprese tra 1/20.000 e 1/50.000;

– 6° ordine: si tratta degli insiemi misurabili in centinaia di metri e evidentemente riguardano piccole porzioni di territorio che possono andare da piccoli quartieri di villaggi o piccoli quartieri urbani. Le scale usate per la loro rappresentazioni vanno da 1/1.000 a 1/10.000;

– 7° ordine: si tratta di insiemi che si misurano in decine di metri e che

30 Lacoste Y., Unité et diversité du Tiers Monde: des représentations planétaires ou

stratégies sur le terrain, Édition La Découverte/Hérodote, Paris, 1984.

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quindi riguardano più che altro grossi immobili, scarpate naturali, isolati urbani, ecc.

Questa ripartizione in ordini di grandezza permette quindi dei riferi-menti precisi, più chiari. Ma dobbiamo ricordarci che questo tipo di riparti-zione non è unico. Se la geografia fa ampio uso dei diversi livelli di analisi, lavorando ora su insiemi continentali e ora su insiemi locali, passando così da un livello all’altro, la storia fa altrettanto. Non dobbiamo infatti dimen-ticare che esattamente come nella geografia, anche nella storia esistono fe-nomeni che vengono letti su piccole e grandi scale, ma questa volta non parliamo di scale geografiche, bensì di scale temporali.

Proprio in questo contesto, lo stesso ideatore dell’analisi su diversi livel-li conia un neologismo: “diatopo”. Lacoste, infatti, pur avendo sempre pro-posto questa tecnica non l’aveva mai così bene inquadrata fino al 200631. Aveva cominciato esponendo delle carte sovrapposte già nel 197632 chia-mando questa tecnica “schema grafico d’analisi dei fenomeni di spazialità differenziale su livelli d’analisi diversi”). La figura di un diatopo è, infatti, quella di uno stesso territorio rappresentato in più scale con cartografie di-verse. Per esempio il caso scelto da Lacoste come copertina del suo testo è quello di Gerusalemme e la carta che è in basso rappresenta la città vecchia con i nuovi quartieri ebraici; giusto sopra vi è la cartografia del territorio attuale di Israele con la Cisgiordania e Gaza, lungo la costa. Al disopra vi è la terza cartografia che mostra invece tutto l’insieme del Medio Oriente e la quarta e ultima cartografia, posta come livello superiore, mira a rappresen-tare il sostegno che gli USA danno allo stato di Israele.

In genere le cartografie che vengono utilizzate in un caso geopolitico (quando ci sono perché in genere se ne fa categoricamente a meno…) sono uniche, una sola carta per volta e in genere a una scala piccola (che include cioè una parte estesa di territorio) e quindi hanno un solo livello di gran-dezza. Ma noi abbiamo detto fin dall’inizio che fenomeni che si producono ad una scala sono spesso provocati o influenzati da fenomeni che si produ-cono su altre scale. Allora come fare per mostrare questi diversi livelli? So-prattutto come fare a mostrare le interazioni che vi possono essere tra i di-versi livelli? Secondo Lacoste è molto più efficace mostrare le carte a una scala più grande (quindi quando serve con una porzione di territorio meno estesa, più da vicino potremmo scrivere. Man mano che si va verso una scala più piccola allora si sovrappongono a quella a scala più grande. Si va

31 Lacoste Y., Géopolitique. La longue histoire d'aujourd'hui, Parigi, Armand Colin,

2006. 32 Lacoste Y., La Géograhie ça sert d’abord à faire la Guerre, Parigi, F.Maspero, 1976.

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verso una sorta di rappresentazione prospettica, come se si vedesse dall’alto, da un aereo in volo: nella parte più bassa della figura si mettereb-bero quelle che rappresentano il livello d’altitudine più basso e quindi le cartografie a scala più grande, mentre man mano che si va in alto nella fi-gura si vedrebbero le cartografie a più piccola scala, come se ci alzassimo sempre più in volo e vedessimo delle distese sempre più ampie di territorio. Lacoste lo chiama “diatopo”, definendolo come lo “schema di sovrapposi-zione di cartografie in prospettiva dalla scala più grande (osta in basso) alla scala più piccola (posta in alto): topo, dal greco topos che significa il luogo e, per estensione, lo spazio, ma anche dia che, sempre in greco, significa “separazione-distinzione”, come anche “attraverso”. Il risultato ottico che abbiamo di un diatopo è quello della visione di un aereo in picchiata dall’alto verso il suolo33. La cosa più delicata è senza dubbio non tanto la rappresentazione, oggi facilitata dagli strumenti informatici, quanto la de-codifica delle interazioni tra i diversi livelli. L’innovazione tecnologica de-gli ultimi trent’anni, tra telecomunicazioni e trasporti, ha fatto si che il nu-mero di queste interazioni crescesse a dismisura: da qui la grande difficoltà d’interpretazione e decodifica. Eppure è probabilmente la chiave di volta di tutto il ragionamento geopolitico.

Proprio come abbiamo appena visto per il territorio, attraverso la spie-gazione del neologismo lacostiano di diatopo, anche il tempo è una variabi-le di primaria importanza nell’analisi geopolitica.

Esistono tempi diversi per ogni tipo di fenomeno, come ere geologiche, anni solari, anni borsistici, ma anche mandati presidenziali. Ognuna di que-ste cose ha ritmi evolutivi assolutamente diversi, però ciascuna di esse può intervenire in una data situazione geopolitica, con rapporti di causa/effetto spesso sorprendenti. Quello che spesso si mette in atto nella geopolitica è un’analisi diacronica diversa da quella classicamente storica. Anziché parti-re dai tempi passati discendendo fino al presente, si cerca di privilegiare una marcia contraria: dal presente verso il passato. Questo permette di con-servare meglio innanzi a sé l’“effetto” di cui si vorrebbe spesso trovare la “causa”, anche perché nella geopolitica il presente è l’oggetto di studio. Questo presente è chiaramente collegato ad eventi e situazioni passate, che possono essere leggibili in tempi brevi o lunghi. Sono questi i legami che in geopolitica vengono chiamati legami di casualità34. Si tratta di legami che danno luogo a concatenazioni che a loro volta conducono agli eventi di cui ci interessiamo. Questi eventi sono frutto non solo di una concatenazione, ma spesso e volentieri di incroci fra le stesse diverse concatenazioni. Sono

33 Lacoste Y., Géopolitique. La longue histoire d'aujourd'hui, op.cit.34 Letteralmente tradotto dal francese “chaîne de causalité”.

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esattamente questi gli eventi che si deve cercare di prevedere. Anche se può sembrare azzardato, questo è uno dei ruoli principali della geopolitica, o comunque è uno degli elementi caratterizzanti di questo metodo di analisi, che lo differenzia dalla storia. Quest’ultima si preoccupa prevalentemente di studiare “come sono andate le battaglie, anziché prevedere quelle futu-re”.

Per trovare un’esemplificazione di come i tempi brevi e lunghi possano incrociarsi su di un evento, possiamo pensare ad una protesta popolare che può trovare scintilla in un evento preciso e anche abbastanza recente. Ma quello che conduce in realtà all’accendersi delle manifestazioni può essere frutto di un periodo di evoluzione ben più lungo, anche decennale. A questo possiamo aggiungere un tipo di cambiamento su quel territorio che conti-nua da quasi un secolo, come andamenti demografici o abbassamenti delle falde acquifere che costringono a mutamenti nello sfruttamento dei fondi agricoli. Ma possiamo anche pensare ad innovazioni tecnologiche che mu-tano le esigenze sociali. Queste evoluzioni si basano su tempi diversi, brevi e lunghi, ma danno vita, nel loro incrociarsi, ad un evento preciso e ben cir-coscritto, il quale a sua volta può condurre a ben altre situazioni o eventi.

È bene precisare che l’uso delle scale temporali a cui si è fatto riferi-mento poco sopra è quello esposto da Fernand Braudel35, con i suoi “tempi della storia”. Nella sua opera egli fa spesso riferimento ai diversi tempi che la storia si trova a dover studiare, passando da archi di tempo misurati in migliaia di anni, se non milioni, dove la storia sembra essere immobile, per arrivare quindi non al tempo del quotidiano, ma bensì ai tempi del quoti-diano. Questo perché i tempi e i ritmi con cui ci scontriamo nella quotidia-nità della storia sono infiniti nella loro diversità.

Ecco quindi come la ripartizione in diversi ordini di grandezza e il loro “incrocio”, la loro sovrapposizione, sia in scala geografica che in scala temporale, ci permette di prendere in considerazione più variabili in manie-ra di cercare di esporre e comprendere al meglio la realtà nella sua ampia complessità.

È bene precisare a questo punto che questo metodo di analisi (ripetiamo) non ha alcuna pretesa né scientifica né originale. I problemi demografici sono ben trattati dai demografi, come per i problemi economici esistono gli economisti. Quello che si vuole fare è cercare di prendere in considerazione queste diverse variabili scartandone quante meno è possibile, per poter stu-diare la realtà nella maniera più precisa possibile.

35 Si tratta dei diversi tempi storici enunciati da Fernand Braudel nella sua famosissima

opera La Méditerranée et le mond méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Armand Colin, 1966.

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Non ci troviamo di fronte ad una geopolitica con pretese scientifiche ed imperialistiche, come poteva essere concepita nella Germania dell’inizio del ’900, ma ad un metodo di analisi che cerca di mostrare i diversi aspetti e punti di vista delle realtà che si trovano su di un territorio. Non si tratta di qualcosa con pretese di riferimento originale al quale le altre scienze o di-scipline devono attingere, ma di uno strumento di lavoro che ci permetta di “osservare” nella maniera più attenta possibile.

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2. Attori e territori

Nell’approccio geopolitico il territorio è prima di tutto la causa del con-flitto: il controllo o l’appropriazione del territorio sono le finalità, gli obiet-tivi degli attori coinvolti. Le rivalità di potere hanno origine dall’esistenza di diversi progetti di appropriazione, parzialmente o totalmente contraddit-tori, tra attori differenti sullo stesso territorio. Quest’ultimo interviene, dunque, anche come contesto del conflitto: non ci sono conflitti sconnessi da una realtà territoriale1.

Pouvoir et territoire sont étroitement liés, car tout pouvoir politique of-

ficiel (qu’il s’agisse de celui d’un État ou d’une tribu) a son territoire, c’est-à-dire une étendue clairement délimitée sur laquelle s’exerce en principe sa souveraineté et où il est responsable de l’ordre public.

Il existe différents types de rapport du pouvoir politique au territoire se-lon le système politique et l’histoire: États centralisé, État fédéral, États démocratique, État totalitaire, États théocratique, État-nation, États plurina-tional…; il en existe d’autres types qui s’exercent sur le territoire: pouvoir religieux, pouvoir tribal, pouvoir économique, mais il est parfois plus diffi-cile de tracer les limites du territoire sur lequel s’exercent ces pouvoirs. En revanche, les territoires des États et leurs frontières peuvent être représentés cartographiquement de façon très précise. En combinant différentes sortes de cartes, qui montrent chacune l’extension particulière des phénomènes nationaux, on comprend alors les conflits géopolitiques2.

I territori rappresentano insiemi spaziali la cui superficie è delimitata da

1 Subra P., «Gouverner les territoires: l’approche géopolitique», in Gouverner les terri-

toires: antagonismes et partenariats entre acteurs publics, Comité pour l’histoire économique et financière de la France, Editions 2011, pp. 217-218.

2 Papin D., 50 fiches pour comprendre la gépolitique, Paris, Bréal 2010, p. 11.

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una frontiera ufficialmente definita e riconosciuta dagli altri Stati. Queste frontiere, anche se si definiscono in quanto parti di insiemi naturali, sono il risultato di rapporti di forza più o meno antichi tra gli Stati, anche interna-mente a questi. La geopolitica non si occupa soltanto delle situazioni di conflittualità tra Stati rivali (facendo riferimento alla cosiddetta “politica internazionale” che viene frequentemente ed erroneamente nominata in Ita-lia), ma tiene in considerazione anche tutte quelle tensioni che nascono, al-l’interno dei confini di ogni singolo Stato, per il controllo del territorio e delle sue future evoluzioni. Gli attori pubblici che si contendono un deter-minato territorio tendono poi a controllarlo mettendo in atto una vera e pro-pria “politica territoriale” che lo modifica, lo modella, lo condiziona secon-do le loro implicite e/o esplicite direttive.

La geopolitica ha quindi un ruolo estremamente importante nella ge-

stione del territorio interno dei vari stati. Ogni attore politico preposto alla gestione del territorio nazionale (presidenti di regioni, sindaci, ecc.) ha una propria strategia di sviluppo e sullo stesso territorio altri attori politici han-no altre strategie. Se è vero che la geopolitica si occupa proprio di quei con-flitti per il controllo del territorio, allora lo sviluppo territoriale messo in at-to dai vari attori politici territoriali è sicuramente un enorme campo di in-tervento per l’analisi geopolitica. Proprio per capire meglio quello che vi accade, dirimere al meglio i conflitti tra i vari attori politici (la negoziazione altro non è che una forma di conflitto, di antagonismo tra attori) e cercare quindi di dare vita a delle strategie che possano essere al meglio coerenti e quanto meno condivise, occorre mettere in atto il metodo della geopolitica3.

1. Geopolitica dell’Organizzazione del territorio

Philippe Subra4 mette in evidenza come il moltiplicarsi di conflitti di va-rio genere, riguardanti “l’organizzazione territoriale” in seno ai progetti e alle politiche di sviluppo, abbia portato a considerare la pianificazione terri-toriale (aménagement du territoire) non più soltanto come una tematica di esclusivo interesse degli specialisti, ma più in generale come una questione geopolitica: vale a dire una questione di potere, di rapporti di forza, di riva-lità tra leader e forze politiche in cui si esprimono, più o meno tacitamente, gli interessi dei diversi attori “in campo”, il cui obiettivo ultimo è l'uso, per-tanto il controllo, del territorio.

3 Bettoni G., Dalla geopolitica alla pianificazione territoriale, Liuc Papers, n. 127, Serie

Economia e Istituzioni 11, Suppl. a luglio 2003, p. 31. 4 Subra P., Géopolitique de l'Aménagement du territoire, Armand Colin, Parigi, 2007.

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Ma prima di entrare nel dettaglio del rapporto tra geopolitica e pianifi-cazione, è bene capire cosa s’intende con “aménagement du territoire”.

Letteralmente tale concetto viene tradotto con “pianificazione territoria-le”; concretamente quando si parla di aménagement du territoire si fa rife-rimento all’insieme delle azioni programmate e messe in atto dagli attori pubblici (o privati, attraverso missioni di servizio pubblico loro affidate) per dar vita a uno “sviluppo” razionale dello spazio sociale.

L’aménagement du territoire designa allo stesso tempo un processo (l’azione della collettività sul territorio) e il risultato di questo processo (la sua realizzazione).

C'est l'action et la pratique (plutôt que la science, la technique ou l'art)

de disposer avec ordre, à travers l'espace d'un pays et dans une vision pros-pective, les hommes et leur activités, les équipements et les moyens de communication qu'ils peuvent utiliser, en prenant en compte les contraintes naturelles, humaines et économiques, voire stratégiques5.

Potremmo aggiungere che l’aménagement du territoire è un’azione

geografica, nel senso stretto del termine, nel senso che contribuisce a modi-ficare l’aspetto geografico del territorio agendo su uno o più componenti di esso, sulle reti di comunicazione, lo sviluppo urbano, i distretti industriali, ecc. Qualsiasi azione messa in atto dalle pubbliche amministrazioni, dun-que, è sempre un’azione che incide sulla geografia del territorio preso in esame.

L’aménagement du territoire racchiude in sé diversi fattori: lo sviluppo economico, l’ambiente, i trasporti, le comunicazioni, le attività produttive che utilizzano la terra come risorsa di base. Consiste, dunque, nell’utilizzo giudizioso e ambizioso dello spazio

prendendo in considerazione i bisogni attuali e quelli futuri, permettendo così uno sviluppo concreto e armonioso del territorio sulla base delle po-tenzialità in esso esistenti e delle caratteristiche tecniche e socio-economi-che presenti.

5 Merlin P., Aménagement du territoire, in Pierre Merlin et Françoise Choay (dir.), Dic-

tionnaire de l'urbanisme et de l'aménagement, Paris, PUF, 2000, 3e éd., p. 38-43.

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Obiettivi principali che gli attori politici perseguono attraverso un’a-zione di pianificazione territoriale sono: lo sviluppo economico dei territori e la riduzione delle disuguaglianze territoriali in termini economici e/o so-ciali. Questi due aspetti, tanto importanti quanto contrastanti tra loro, sono spesso presenti nelle formulazioni concernenti uno “sviluppo equilibrato del territorio” che possiamo trovare nei programmi politici, o nei testi di legge, inerenti temi quali lo sviluppo e la coesione territoriale.

Possiamo, inoltre, osservare le politiche di aménagement du territoire a

diversi livelli di analisi: sovranazionale, come nel caso, ad esempio, della Comunità Euro-

pea; nazionale; sub-nazionale, regionale o multiregionale; locale, la cosiddetta panificazione urbana. Tornando a Philippe Subra, egli afferma che dopo il 1970 tre grandi cam-

biamenti hanno portato a far ricorso alla geopolitica nell’ambito delle politi-che di aménagement du territoire. Il primo è stato l’emergere e il diffondersi di contestazioni, da parte di attivisti ambientali e residenti locali, rivolte ai progetti di sviluppo, in particolare progetti infrastrutturali. Poi il potente mo-vimento di delocalizzazione/deindustrializzazione che ha colpito molti settori ed ha profondamente modificato il tema dello sviluppo economico, mettendo i territori in una situazione di concorrenza e continue rivalità. Infine il decen-tramento che ha ridistribuito il potere a favore delle autorità locali e regionali, divenute ora le principali prescrittrici delle politiche di pianificazione. Questi tre cambiamenti hanno fissato il concetto del conflitto come una delle figure centrali della questione della “pianificazione territoriale”.

Potrebbe essere qui utile, secondo l’autore, classificare questi conflitti tra attori coinvolti distinguendoli tra: “pretese avverse o controversie tra residenti, utenti e operatori pubblici”, “avversioni tra gli utenti di uno spa-zio”, “dibattiti e opposizioni tra attori pubblici o semipubblici”, e “conflitti sociali e politici analizzati dal punto di vista della loro dimensione spaziale o del loro rapporto con il territorio”.

Inoltre, questi conflitti variano notevolmente nella loro intensità e per il

loro carattere più o meno pubblico, alcuni rilevano lotte per l'influenza e lobbying, utilizzando mezzi di comunicazione, reti di influenza più o meno sotterranee e reti di potere più o meno "discrete", mentre altri prendono la forma del confronto aperto. Essi variano anche per la scala dei territori pre-si in considerazione (di conflitti nazionali, locali o micro-locali, regionali,

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ecc.). Infine, essi variano in base al tipo di attori, che sono poi i soggetti in-teressati nel conflitto (residenti e attivisti di base sono assenti tali conflitti di concorrenza tra le aree), e le motivazioni di questi attori6.

Indipendentemente dal tipo, questi conflitti sono molto più comuni oggi rispetto a venti o trent’anni fa. Sarebbe esagerato dire che il conflitto è di-ventato uno standard per lo sviluppo, ma è certamente una possibilità, un rischio reale e verificabile, poiché questo mina gli interessi di una determi-nata classe di attori.

Applicare l’approccio geopolitico alle questioni di aménagement du terri-toire non significa far ricorso alla geopolitica fine a se stessa. Le questioni della pianificazione territoriale presentano, infatti, una serie di specifiche che devono essere prese in considerazione e che si concentrano sul concetto di territorio e la nozione di potere, sulla produzione dei rapporti di forza, sulle relazioni tra attori e, infine, sulla natura e il ruolo delle rappresentazioni.

Car le conflit n’est pas seulement le résultat d’un projet ou d’une activi-

té contestés, il dépend tout autant des caractéristiques du territoire dans le-quel ce projet est prévu, cette activité se déroule. Le conflit est le produit de la rencontre d’un projet ou d’une activité et d’un territoire. Un même projet d’infrastructures ou un même équipement indus- triel produiront du conflit dans un certain espace et n’en produiront pas ailleurs ou d’intensité bien plus faible. Les maîtres d’ouvrage l’ont très bien compris qui font réaliser de plus en plus souvent des « études de contexte » territorial par des cabi-nets spécialisés pour essayer d’estimer le plus en amont possible le risque de conflit, le potentiel conflictuel du projet, que je propose d’appeler (à l’image du « risque-pays » auquel sont soumis les projets d’investissements à l’étranger) le risque-projet. L’issue de conflit dépend elle aussi en bonne partie des caractéristiques du territoire7. La scala geografica del conflitto, mostrando chi è in contrasto con chi,

produce dei rapporti di forza. Ogni conflitto, inoltre, va preso in considera-zione e valutato partendo dai diversi fattori che lo compongono e che vi hanno dato origine, e sono:

le caratteristiche sociologiche della popolazione (presenza o assenza dei residenti secondari, di nuovi abitanti più motivati a difendere il loro ambiente di vita e meglio attrezzati per farlo);

i problemi della pianificazione territoriale e le sue dinamiche (invec-chiamento, urbanizzazione e suburbanizzazione, l'emergere di nuove attività: turismo, terreni agricoli, ecc.);

6 Subra P., L’aménagement, une question géopolitique!, op. cit., p.235. 7 Ibidem, p. 239.

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la sua storia e la cultura locale (il passato industriale di alcune regio-ni le ha rese più tolleranti all'inquinamento );

infine, le rivalità tra gli attori locali (che possono essere tentati a strumentalizzare un nuovo conflitto).

È la combinazione, ogni volta originale, di questi diversi fattori caratte-rizzanti il conflitto (o il "non-conflitto"), che spiega in gran parte il suo aspetto e la sua maggiore o minore intensità, o addirittura la sua assenza (la fine dei conflitti dipende anche dalla gestione degli stessi da parte di attori diversi, dalle loro capacità strategiche e tattiche). Il contributo apportato dalla geografia e dalla geopolitica aiuta, dunque, ad interpretare il reale contesto territoriale nella sua singolarità. L’analisi va fatta dunque caso per caso, prendendo in considerazione tutte le implicazioni a esso sottese.

2. L’Unione Europea e l’aménagement du territoire Quando si fa rifermento alle politiche di aménagement du territoire del-

l’Unione Europea bisogna innanzitutto prendere in considerazione il con-cetto di “coesione territoriale”, che il trattato di Lisbona8 ha stabilito come obiettivo dell’Unione.

Afin de promouvoir un développement harmonieux de l’ensemble de

l’Union, celle-ci développe et poursuit son action tendant au renforcement de sa cohésion économique, sociale et territoriale. En particulier, l’Union vise à réduire l’écart entre les niveaux de développement des diverses ré-gions et le retard des régions les moins favorisées. Parmi les régions con-cernées, une attention particulière est accordée aux zones rurales, aux zones où s’opère une transition industrielle et aux régions qui souffrent de handi-caps naturels ou démographiques graves et permanents telles que les ré-gions les plus septentrionales à très faible densité de population et les ré-gions insulaires, transfrontalières et de montagne9.

8 Il trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato ufficialmente in vigore nel 2009,

modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, sen-za tuttavia sostituirli. Il nuovo trattato dota l’Unione del quadro giuridico e degli strumenti necessari per far fronte alle sfide del futuro e rispondere alle aspettative dei cittadini. Esso fa riferimento a: un’Europa più democratica e trasparente; un’Europa più efficiente; un’Europa di diritti e valori, di libertà, solidarietà e sicurezza; un’Europa protagonista sulla scena inter-nazionale. Il testo del trattato è consultabile, interamente, sul sito: http://europa.eu/lisbon_treaty/index_it.htm

9 Peyrony J., De nouvelles fabriques de territoires, in territoires.gov.fr, p. 119.

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Ma è bene sottolineare che, prima di arrivare a postulare una pianifica-zione territoriale in termini di sviluppo e coesione, gli Stati membri dell’U-nione Europea, al momento della sua nascita, non erano affatto disposti a mettere in discussione il loro individuale controllo sul territorio, tanto che nel trattato di Roma10 (trattato CEE – 1957) la parola “territorio” non era ancora presente: in tal modo si evitava qualsiasi riferimento a tale argomen-to e si faceva si che il pieno controllo restasse prerogativa unica di ciascun Stato11.

S’inizia a parlare di territorio, invece, intorno alla metà degli anni ’80, nella Charte Europeenne de l’aménagement du territoire, in cui si afferma che:

l'aménagement du territoire constitue un instrument important dans l'é-volution de la société en Europe et que l'intensification de la coopéra-tion internationale dans ce domaine est une contribution substantielle au renforcement de l'identité européenne;

la coopération dans ce domaine nécessite une analyse des conceptions nationales, régionales et locales en matière d'aménagement du territoire pour arriver à l'adoption de principes communs visant en particulier à réduire les disparités régionales et pour parvenir ainsi à une meilleure conception générale de l'utilisation et de l'organisation de l'espace, de la répartition des activités, de la protection de l'environnement et de l'amé-lioration de la qualité de la vie;

les profondes modifications intervenues dans les structures écono-miques et sociales des pays européens et leurs relations avec d'autres parties du monde, exigent une remise en cause des principes régissant l'organisation de l'espace afin d'éviter qu'ils soient entièrement détermi-nés par des objectifs économiques à court terme, sans prendre en consi-dération de façon appropriée les aspects sociaux, culturels et ceux de l'environnement;

les objectifs de l'aménagement du territoire nécessitent des critères nou-veaux d'orientation et d'utilisation du progrès technique, conformes aux exigences économiques et sociales;

http://ks306802.kimsufi.com/datar/spip.php?article69 (15/06/2012 – 13:45) 10 Il trattato CEE, firmato a Roma nel 1957, riunisce Francia, Germania, Italia e paesi

del Benelux in una Comunità avente per scopo l'integrazione tramite gli scambi in vista del-l’espansione economica. Con il trattato di Maastricht, la CEE diventa la Comunità europea, che esprime la volontà degli Stati membri di ampliare le competenze comunitarie a settori non economici. Consultabile sul sito:

http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/treaties_eec_it.htm (10/06/2012 – 11:14) 11 Janin-Rivolin U., Le politiche territoriali dell’Unione Europea. Esperienze, analisi,

riflessioni, Milano, FrancoAngeli Editore, 2000, diffusamente.

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tous les citoyens européens doivent avoir la possibilité de participer, dans un cadre institutionnel approprié, à la mise en place et à l'applica-tion de toutes mesures d'aménagement du territoire12.

Dunque l’aménagement du territoire contribuisce a migliorare l’orga-nizzazione del territorio europeo e aiuta a individuare soluzioni adeguate ai problemi, al di là del quadro nazionale, mirando a creare un senso di identi-tà comune e tenendo conto delle relazioni nord/sud/ovest/est. L’uomo, il suo benessere e la sua interazione con l’ambiente sono centrali nella politi-ca comunitaria di pianificazione territoriale, il cui obiettivo è quello di of-frire una qualità della vita favorevole allo sviluppo della sua personalità in interazione con un ambiente organizzato a misura d'uomo. L’aménagement du territoire deve essere democratico, completo, funzionale e lungimirante.

Nell’ottica di uno sviluppo unitario a livello Europeo, quando si fa rife-rimento alle politiche di aménagement du territoire bisogna sempre tener presente l’esistenza di una moltitudine di decisori individuali e istituzionali in grado di influenzare la pianificazione del territorio in base alle diverse condizioni socio-economiche e ambientali dello stesso. Si deve cercare, perciò, di bilanciare tutte queste influenze nel modo più armonioso possibi-le.

La coesione territoriale appare, secondo il Libro verde13 della commis-sione europea, come la declinazione spaziale dello sviluppo sostenibile: co-sì come la competitività, la coesione e la tutela dell’ambiente possono esse-re combinate armoniosamente nello spazio a diversi livelli di scala. Una se-conda dimensione della coesione territoriale è di tipo procedurale e riguar-da la combinazione delle politiche pubbliche che vanno attuate per rag-giungere gli obiettivi; si tratta in sostanza dell’approccio integrato, che pre-vede: un coordinamento orizzontale, a tutti i livelli del territorio, per mette-re in sinergia le differenti politiche settoriali; un coordinamento verticale tra i diversi livelli, compreso quello europeo.

Increasingly, competitiveness and prosperity depend on the capacity of

the people and businesses located there to make the best use of all of terri-

12 Conférence Européenne des ministres responsables de l’aménagement du territoire,

Charte européenne d’aménagement du territoire, Charte de Torremolinos, Espagne, 1983, préambule. Consultabile sul sito:

http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/heritage/cemat/versioncharte/Charte_bil.pdf 13 Il Libro verde è una comunicazione con la quale la Commissione Europea illustra lo

stato di un determinato settore da disciplinare e chiarisce il suo punto di vista in ordine a certi problemi; fa parte dei cosiddetti "atti atipici" previsti ma non disciplinati dal trattato CEE. Sono consultabili sul portale dell’Unione Europea, al link: http://europa.eu/documentation/official-docs/green-papers/index_it.htm

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torial assets. In a globalising and interrelated world economy, however, competitiveness also depends on building links with other territories to en-sure that common assets are used in a coordinated and sustainable way. Co-operation along with the flow of technology and ideas as well as goods, services and capital is becoming an ever more vital aspect of territorial de-velopment and a key factor underpinning the long-term and sustainable growth performance of the EU as a whole.

Public policy can help territories to make the best use of their assets. In addition, it can help them to jointly respond to common challenges, reach critical mass and realise increasing returns by combining their activities, exploit the complementarities and synergies between them, and overcome divisions stemming from administrative borders14.

Molti dei problemi che devono affrontare i territori attraversano trasver-

salmente tutti i settori e le effettive soluzioni richiedono un approccio inte-grato e una cooperazione tra le varie autorità e i soggetti interessati. Di con-seguenza il concetto di coesione territoriale crea connessioni tra efficacia economica, coesione sociale e rispetto dell’ambiente, ponendo lo sviluppo sostenibile al centro della programmazione politica dell’Unione Europea.

Dalla metà degli anni ’80, dunque, l’obiettivo che è stato principalmente perseguito all’interno della programmazione Europea è stato il rafforza-mento della coesione economica e sociale. Il trattato di Lisbona, come già accennato, e la nuova strategia ad alto livello dell’Unione Europea15 hanno introdotto, accanto alla coesione economica e sociale, la coesione territoria-le, prevedendo così alcuni punti base da seguire:

sfruttare pienamente i punti di forza di ogni territorio in modo tale che possano contribuire a uno sviluppo sostenibile ed equilibrato dell’Unione Europea;

14 Libro verde sulla coesione territoriale – Trasformare la diversità territoriale in un

punto di forza, Bruxelles, ottobre 2008, p. 3. Consultabile al sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2008:0616:FIN:EN:PDF 15 La strategia Europa 2020 è la strategia dell’Unione Europea (UE) ideata per promuo-

vere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. L’UE ha definito degli obiettivi ambiziosi, da raggiungere entro il 2020, nelle cinque

aree principali: occupazione (il 75% della popolazione di età compresa tra 20 e 64 anni do-vrà avere un’occupazione), innovazione (il 3% del PIL dell’UE dovrà essere investito in ri-cerca e sviluppo), cambiamento climatico (si dovranno raggiungere gli obiettivi “20/20/20” per quanto riguarda il clima e l’energia), educazione (la percentuale di cittadini che abban-donano prematuramente gli studi dovrà essere inferiore al 10% e almeno il 40% di coloro che hanno tra i 30 e i 34 anni dovrà aver portato a termine studi ciclo equivalenti), educa-zione (riduzione della povertà, con l’obiettivo di far superare ad almeno 20 milioni di perso-ne il rischio di povertà ed esclusione).

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gestire la concentrazione per una migliore vivibilità delle singole cit-tà;

collegare meglio i territori attraverso un più funzionale accesso ai servizi pubblici, trasporti più efficienti, reti di energia affidabili in-ternet a banda larga;

sviluppare nuove forme di cooperazione tra paesi e regioni.

La politica di coesione può, quindi, incrementare la coesione territoriale favorendo lo sviluppo integrato dei territori, promuovendo politiche basate sul territorio mediante un coordinamento intersettoriale delle politiche e un sistema di governo a più livelli (da quello locale a quello europeo), inco-raggiando la cooperazione tra territori per rafforzare l’integrazione europea, e migliorando la conoscenza dei territori al fine di guidare lo sviluppo16.

Con la politica di coesione si vuole dunque investire nell’ottica di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva17. A tal fine il processo di ride-finizione degli obiettivi politici comunitari si è mostrato attraverso una re-visione radicale dei criteri di allocazione e delle iniziative di spesa dei “Fondi Strutturali18”, i quali in quanto strumento comunitario per la coesio-ne sono stati affiancati dal “Fondo di Coesione19”. In quest’ottica il Fondo Europeo di sviluppo regionale, il Fondo Sociale Europeo e il Fondo di Coe-sione rappresentano oltre un terzo del budget compressivo dell’Unione Eu-ropea.

La commissione europea, in collaborazione con le autorità di gestione dei singoli Paesi, lavora per garantire che le risorse finanziate vengano in-vestite in modo efficace. I finanziamenti dell’UE contribuiscono sostan-zialmente a sostenere aspetti quali: sviluppo di nuove tecnologie; ricerca d’avanguardia; accesso Internet ad alta velocità; trasporti e infrastrutture energetiche intelligenti; efficienza energetica ed energie rinnovabili; svi-luppo dell’attività economica; competenze e formazione.

16 Coesione territoriale – Politica regionale UE. Consultabile sul sito: http://ec.europa.eu/regional_policy/what/cohesion/index_it.cfm 17 Attraverso questa politica si cerca, dunque, di ridurre le disparità di tipo economico,

di sviluppare economie regionali competitive e diversificate, di dare impulso alla crescita e all’occupazione sostenibili.

18 I Fondi strutturali sono strumenti d’intervento creati e gestiti dall'Unione Europea per finanziare vari progetti di sviluppo all'interno dell'UE. Gli obiettivi principali dei fondi sono tre: riduzione delle disparità regionali in termini di ricchezza e benessere, aumento della competitività e dell'occupazione, sostegno alla cooperazione transfrontaliera. I fondi struttu-rali impegnano circa il 37,5% del bilancio complessivo dell'Unione Europea.

19 Il Fondo di coesione assiste gli Stati membri con un reddito nazionale lordo (RNL) pro capite inferiore al 90% della media comunitaria a recuperare il proprio ritardo economi-co e sociale e a stabilizzare la propria economia.

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La politica di coesione è una delle politiche dell’Unione Europea che gode di maggiore visibilità; in questa direzione l’UE pubblica ogni tre anni una relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale, che illustra i progressi compiuti e i contributi dati dall’UE e dalle amministrazioni na-zionali e regionali. I principali temi trattati in queste relazioni sono:

analisi delle disparità regionali; contributo dell’UE e delle amministrazioni nazionali e regionali alla

coesione; impatto della politica di coesione; prospettive della politica di coesione degli anni a venire.

Monitorare e analizzare i risultati della politica di coesione è molto im-

portante per garantire la continuità del suo successo. Ai fini della trasparen-za e della responsabilizzazione (in un’ottica di open government e open da-ta) è essenziale che i cittadini sappiano che cosa viene ottenuto con gli in-vestimenti di questa politica20. 3. Aménagement du territoire: la Francia

Di tutt’altro approccio è invece la visione dell’aménagement in Francia.

Tutti gli interventi che compie l’uomo sul suo territorio per organizzare gli elementi che lo compongono, per migliorare le condizioni presenti, per renderlo più efficiente, sono azioni di pianificazione, o meglio di “aména-gement”.

L’aménagement du territoire è un atto volontario che si oppone al “lais-ser-faire”, è una ricerca di coerenza laddove gli interventi individuali po-trebbero portare disordine. L’aménagement du territoire, dunque, sulla ba-se di una diagnosi dettagliata del territorio mette in evidenza gli aspetti da migliorare o modificare.

L’aménagement du territoire punta a ridurre le disuguaglianze tra i ter-ritori, ad aiutare gli stessi a sollevarsi dopo un periodo di crisi, a favorire lo sviluppo a lungo termine dei territori, e a rendere questi più competitivi a livello mondiale ed europeo. I motivi per cui in Francia si punta a un’ac-curata pianificazione del territorio sono: assicurare l’uguaglianza tra i terri-tori e rispondere ai bisogni dell’economia.

Il contesto socio-economico è cambiato profondamente negli ultimi de-cenni per via di diversi fattori, quali: la globalizzazione, fonte della concor-

20 Impatti e risultati della politica di coesione – Politica Regionale UE. Consultabile sul sito: http://ec.europa.eu/regional_policy/impact/index_it.cfm

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renza tra i territori; una maggiore mobilità; l'invecchiamento della popola-zione; l’emergere delle città; il rinnovato dinamismo del mondo rurale francese; il fenomeno della suburbanizzazione; la consapevolezza delle sfi-de ambientali; la crescita delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione; e, più recentemente, la crisi economica. Questi sono tutti aspetti a cui si deve prestare molta attenzione. I nuovi attori, l’Unione eu-ropea, le autorità locali, sono presenti anche oggi, insieme con lo Stato per portare avanti lo sviluppo sostenibile dei territori21.

Lo sviluppo comprende sia un insieme di azioni di una società nel suo territorio che il risultato di queste azioni. La pianificazione territoriale vie-ne condotta, dunque, dagli attori “spaziali” secondo l'immagine che questi hanno del loro territorio, assecondando i loro progetti e le loro risorse.

L’aménagement du territoire francese consiste in un insieme di azioni messe in atto dallo Stato e dalle comunità per promuovere lo sviluppo delle regioni che compongono il territorio nazionale. Agendo su una scala più ampia di quella della politica urbana, l’aménagement du territoire si occu-pa fondamentalmente della “disposizione spaziale di persone e attività”, unendo quindi lo sviluppo economico a quello delle abitazioni, dei trasporti e delle comunicazioni. Lo sviluppo territoriale in Francia è fortemente lega-to a un insieme di processi in cui lo Stato svolge il ruolo di motore. Tutta-via, seppur questa politica si basa su leggi, normative e budget stabiliti a livello nazionale, la sua attuazione comporta accordi contrattuali che vanno stipulati con le comunità territoriali.

Per quanto riguarda l'Unione europea, questa interviene sempre più nel-lo sviluppo delle regioni attraverso la sua politica regionale: questo doppio movimento d’integrazione europea e decentramento porta a coinvolgere tutti gli attori nelle politiche di pianificazione territoriale.

L’aménagement esiste a tutti i livelli di scala, dal locale al nazionale, con progetti più o meno importanti. Dal punto di vista “decisionale”, di coordinazione, possiamo parlare, dunque, di aménagement du territoire fa-cendo riferimento a tre livelli: quello dell’Unione Europea, quello naziona-le, dunque la Francia, e, infine, quello delle amministrazioni locali. A un livello inferiore possiamo poi trovare diversi attori territoriali che, seppur di rilevanza minore, possono risultare molto importanti in termini di pianifi-cazione territoriale.

Nella pagina seguente si mostra uno schema, piuttosto esemplificativo di quanto appena accennato, che mostra i diversi livelli della pianificazione e gli attori che in corrispondenza degli stessi sono coinvolti nelle politiche di “aménagement du territoire”.

21 DATAR, Plan d’action 2010/2012, pubblicazione giugno 2010.

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Fig. 1 – “L’aménagement du territoire en France” di Jean-Michel Dauriac.

Questa immagine rappresenta tutti gli attori, a diversi livelli di scala, che possono essere coinvolti nelle azioni di aménagement du territoire22. An-che se è quasi impercettibile la differente grandezza del tratto, possiamo notare: a un livello più esterno, con il tratto più spesso e marcato, il campo d’azione più ampio e generale dell’Unione Europea (scala comunitaria); subito dopo, con un tratto leggermente meno marcato, lo Stato (scala na-zionale); poi ancora, con un tratto più sottile, il livello regionale; subito do-po la Regione troviamo, con un tratto più sottile e visibilmente più chiaro, i dipartimenti; all’interno della scala dipartimentale, con un tratto lineare molto sottile grigio chiaro, vi è la scala locale; infine, evidenziato con il tratteggio, troviamo il livello del campo d’azione intercomunale.

Il territorio deve essere organizzato in modo tale che sia funzionale al radicamento socioeconomico, esso è quindi un supporto alla crescita. L’a-

22 Immagine tratta dall’articolo “L’aménagement du territoire en France” di Jean-

Michel Dauriac. Consultabile sul sito: http://geographica.danslamarge.com/L-amenagement-du-territoire-

en.html (15/07/2012 – 13.45)

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ménagement du territoire francese è caratterizzato, pertanto, dalla compar-sa di politiche d’incentivazione.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, lo Stato ha preso coscienza delle forti disparità esistenti tra una Francia piuttosto “agricola” ad Ovest, ed una Francia principalmente “industriale” ad Est. La pubblicazione, nel 1947, di un rapporto di Jean-François Gravier, intitolato “Paris et le désert français”, ha fatto prendere coscienza alla classe politica dei principali squilibri presenti sul territorio nazionale e della necessità di una maggiore definizione del Paese. Al tempo si scorgeva, infatti, una forte opposizione tra la città (Parigi) e la provincia, tra una Francia industrializzata e una ru-rale, tra una Francia giovane a Nord e una più anziana a Sud. In quegli anni prese piede, dunque, una politica ambiziosa di aménagement du territoire che vide un periodo di arresto solo intorno agli anni ’70, quando anche la pianificazione del territorio fu vittima della crisi economica imperante.

Ma prima della crisi, all’inizio delle azioni di aménagement du territoi-re, negli anni ’60, lo Stato agiva essenzialmente ripartendo i frutti della cre-scita economica. Le grandi opere di pianificazione/organizzazione territo-riale dipendono ora da strutture ministeriali, tra cui le più importanti sono la DATAR (Délégation à l'Aménagement du Territoire et à l'Action Régio-nale) e la Commissione generale per la pianificazione (Commissariat géné-ral au Plan). Lo Stato resta la principale autorità nelle azioni di aménage-ment: fissa gli obiettivi, conferisce premi, crediti, dà aiuti per la localizza-zione delle aziende o per le esenzioni fiscali.

Oggi le esigenze di bilancio e i rischi della crescita economica fanno si che lo Stato non può più finanziare da solo le politiche di aménagement du territoire, nasce l’esigenza, dunque, di avere nuovi attori nel panorama dell’organizzazione territoriale.

3.1. La DATAR Appositamente per porre rimedio a quegli squilibri spaziali citati nel

precedente paragrafo, è stata creata la DATAR (Délégation à l’Aménage-ment du Territoire et à l'Action Régionale).

Il 14 Febbraio 1963, il generale de Gaulle e Georges Pompidou firma-rono il decreto n. 63-112 del 14 febbraio 1963 che istituisce la “Delegazio-ne alla pianificazione territoriale e all’azione regionale” e stabilisce Olivier Guichard a ruolo di suo primo delegato.

La DATAR è un organismo pubblico con cui lo Stato progetta, mette in

opera e coordina le azioni di pianificazione territoriale. Tale delegazione

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interministeriale (Datar), sotto l'autorità del Primo Ministro, è responsabile della preparazione delle linee guida e dell’attuazione delle politiche di pia-nificazione nazionale e di sviluppo del territorio. La DATAR23 prepara le azioni e i programmi per migliorare l'attrattiva economica delle regioni in questione, incentiva la coesione e la competitività regionale nel cambiamento economico per migliorare l'accessibilità e promuovere un territorio sostenibi-le, equilibrato e coerente sia nelle zone rurali e che in quelle urbane. Essa contribuisce alla politica di rafforzamento delle reti regionali di innovazione. La delegazione partecipa, dunque, allo sviluppo di strategie nazionali per la competitività economica, la coesione sociale e lo sviluppo sostenibile.

Con il decreto del 14 dicembre 2009 sono stati fissati due obiettivi alla delegazione: accrescere l'attrattività dei territori e garantire la coesione e l'equilibrio. La DATAR ritiene, inoltre, necessario rafforzare il dinamismo e la crescita dei territori, comprese le città, in modo che possano avere un effetto a catena su altri settori e creare così la solidarietà. Per fare questo, la delegazione detiene, adattandosi al contesto francese, tre leve politiche: la polarizzazione, il collegamento e la cooperazione.

Le priorità su cui si fonda l’azione della DATAR sono: favorire la diffusione e la sostenibilità delle principali città francesi e

degli spazi urbani; sviluppare politiche che promuovano l’innovazione nei territori; incoraggiare lo sviluppo della tecnologia digitale; illuminare la classe politica sulle evoluzioni demografiche, economi-

che e sociali dei territori; preparare la prossima politica contrattuale e il nuovo quadro della

politica di coesione; condurre le azioni di governo interministeriali, le azioni di coopera-

zione transfrontaliere e transnazionale; rafforzare l’influenza francese e la pianificazione delle politiche co-

munitarie e internazionali; migliorare l’attrattiva dei piccoli centri e nelle aree rurali; valorizzare gli spazi nelle sfide demografiche e climatiche; aiutare i territori a riuscire nelle loro trasformazioni economiche nel

contesto della globalizzazione24.

23 La DATAR coordina, sia a livello attuativo sia di elaborazione, la politica territoriale

francese. Suo compito è quello di programmare lo “Schema Generale di Assetto del Territo-rio”, ossia un piano a lungo termine, della durata di circa 20 anni, che riguarda gli sviluppi futuri dell’intero territorio francese.

24 DATAR, Plan d’action 2010/2012, pubblicazione giugno 2010.

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L’attuazione di questo piano d’azione deve essere a sua volta accompa-gnata da misure specifiche per rafforzare la posizione istituzionale e la vi-sibilità della DATAR. Migliorare la visibilità aiuta a migliorare la sua posi-zione strategica e rafforzare la sua influenza nel settore delle relazioni in-terdipartimentali, con i funzionari eletti e le autorità locali, con le reti di esperti e di analisi.

La DATAR porte une vision systémique et prospective des territoires.

Elle a vocation à porter des éclairages transversaux, à diffuser et analyser l’information sur les territoires, à se positionner dans les débats. L’excel-lence de son expertise sur son champ est alors essentielle à sa crédibilité. Il est important de rendre visible sa présence forte dans le champ de la pros-pective par exemple. L’organisation régulière d’un large échange d’idée sous forme de séminaire ou de journées annuelles consacrées à l’aménage-ment du territoire et ouvert aux acteurs français et européens de l’aménage-ment du territoire serait de nature à renforcer son rôle de «producteur d’idées» sur les thèmes de l’aménagement du territoire. De même la publi-cation régulière d’une lettre d’information périodique est de nature à ren-forcer l’influence de ses idées, ainsi que la valorisation plus systématique des différentes analyses et études qu’elle mène dans les différents champs de l’aménagement du territoire25.

In conformità con i poteri dei rappresentanti dello Stato territorialmente

competenti, la delegazione assicura il coordinamento e il monitoraggio del-le politiche territoriali delle pubbliche amministrazioni sotto l’autorità della loro tutela.

La DATAR è guidata da un delegato che viene a sua volta assistito da due direttori, rispettivamente responsabili: del coordinamento e dell’azione interdipartimentale, e dell’accompagnamento dei cambiamenti economici. Il delegato è assistito anche da un capo reparto incaricato di fare studi pro-spettici, di valutazione e studi riguardanti l’azione in campo internaziona-le26.

La DATAR prepara l’ordine del giorno e, in collaborazione con i mini-steri interessati, le delibere del Comité interministériel d’aménagement et de développement du territoire. Oltre all’attuazione delle decisioni del co-mitato, tiene traccia delle decisioni, a livello governativo, relative alla poli-tica nazionale di aménagement. Inoltre, la DATAR fornisce al primo mini-stro e al ministro incaricato delle linee guida generali per lo stanziamento di

25 Ibidem, p. 4. 26 Decreto n. 2009-1549 del 14 Dicembre 2009, créant la délégation interministérielle à

l’aménagement du territoire et à l’attractivité régionale, Articolo 2. Consultabile sul sito: www.legifrance.gouv.fr (03/07/12 – 10:34)

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fondi provenienti dal Fond national d’aménagement et de développement du territoire.

Elle contribue à l'élaboration et à la mise en œuvre des politiques ten-

dant à favoriser l'accès aux services d'intérêt général ainsi que l'accès aux infrastructures du très haut débit, fixe et mobile, sur l'ensemble du territoire. Dans ces domaines, elle élabore toute proposition utile et participe au suivi territorial des politiques interministérielles.

Elle contribue à la définition, à la mise en œuvre et au suivi des poli-tiques nationales et européennes de cohésion économique, sociale et territo-riale; à ce titre, elle élabore une réflexion prospective et stratégique sur les métropoles. Elle participe à l'élaboration des mesures tendant au renforce-ment de l'équité territoriale dans le déploiement des services et infrastruc-tures d'intérêt national et à leur mise en œuvre. Elle veille à la cohérence des aides budgétaires et fiscales qui concourent aux politiques de cohésion territoriale et participe à la détermination de leur périmètre.

Elle coordonne les politiques d'aménagement du territoire mises en œuvre par les préfets de région assistés par les secrétaires généraux pour les affaires régionales.

Elle coordonne la préparation et le suivi des politiques et des procédures contractuelles d'aménagement et de développement territorial associant l'Etat et les collectivités territoriales. A ce titre, elle est tenue informée par les services intéressés des prévisions budgétaires et des évaluations rela-tives à ces politiques et elle en assure la synthèse.

Elle veille à la coordination des politiques sectorielles intéressant la co-hésion et la compétitivité des territoires et propose toute mesure de nature à concourir à la réalisation de ces deux objectifs.

Dans le respect des attributions des représentants de l'Etat territoriale-ment compétents, elle assure la coordination et le suivi des politiques d'im-plantation territoriale des administrations et établissements publics de l'Etat sous l'autorité de leur tutelle.

En matière de mutations économiques, elle participe, au plan interminis-tériel, aux actions d'anticipation et d'accompagnement des restructurations et à la revitalisation des territoires.

Elle est informée, dans le cadre de la préparation des lois de finances, des actions relevant des programmes budgétaires qui contribuent à l'aména-gement du territoire27. Entrare nello specifico delle attività che svolge annualmente la DATAR

sarebbe, in questa sede, dispersivo e fuorviante. Basti pensare che ogni azione di pianificazione e/o ogni progetto di coesione sviluppa una sua sto-

27 Decreto n. 2009-1549 del 14 Dicembre 2009, Créant la délégation interministérielle à

l’aménagement du territoire et à l’attractivité régionale, Articolo 1 comma 2. Consultabile sul sito: www.legifrance.gouv.fr (03/07/12 – 10:34)

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ria, un suo percorso, che evolve nel corso degli anni a seconda delle norma-tive vigenti. La DATAR si occupa dunque di rispettare le direttive elabora-te in seno alle politiche di pianificazione territoriale coerentemente con i progetti di sviluppo e coesione territoriale programmati.

Per facilitare l’accesso dei cittadini alle informazioni territoriali prodotte dalla pubblica amministrazione esiste in Francia il sito de L’Observatoire de Territoires28 (interno alla DATAR) creato attraverso il decreto n. 2004-967 del 7 Settembre 2004 per dare una visione unitaria delle questioni ri-guardanti il territorio e le politiche pubbliche d’aménagement et de déve-loppement des territoires.

Per migliorare e garantire l’accesso alle informazioni disponibili, il sito è organizzato secondo: una suddivisione tematica che si basa sugli argo-menti di maggiore interesse inerenti l’aménagement du territoire; un moto-re di ricerca che permette di accedere rapidamente agli indicatori, alle carte e ai documenti; aggiornamenti regolari annunciati da apposite news; stru-menti di mappatura interattiva con cui l'utente può regolare la visualizza-zione in base alle proprie esigenze: zoom, visualizzare zone diverse, so-vrapposizione di due indicatori, ecc., queste schede sono stampabili e scari-cabili. Inoltre, i valori degli indicatori sono disponibili sulla mappa o in forma tabellare.

Il sito ha quattro compiti principali: sintesi; ovvero raccoglie, analizza, diffonde informazioni e dati rela-

tivi alle dinamiche e alle disuguaglianze territoriali e alle politiche nel campo della progettazione e dello sviluppo dei territori;

è un forum per lo scambio di esperienze e informazioni tra i governi statali e locali che possono promuovere l'armonizzazione dei metodi di osservazione e di analisi, la condivisione delle conoscenze, e crea-re le condizioni per una migliore diagnosi e condivisione dello status territoriale;

è un luogo di innovazione e formazione, promuove un programma di studio e ricerca e contribuisce allo sviluppo di quadri concettuali e strumenti adeguati alle nuove esigenze per il confronto tra i territori europei ed internazionali;

effettua ogni tre anni una relazione per il Primo Ministro, che viene poi inviata al Parlamento.

Come si può osservare da quanto mostrato fino ad ora, in Francia c’è

28 Consultabile al link: http://www.observatoire-des-territoires.gouv.fr/observatoire-des-

territoires/fr/node

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una tradizione estremamente radicata nel tessuto sociale per tutto quello che riguarda l’organizzazione territoriale, inoltre la comunicazione è dive-nuta negli anni un perno centrale per le politiche di aménagement du terri-toire.

4. L’organizzazione territoriale in Italia Per quanto riguarda lo Stato Italiano, la pianificazione territoriale non ha

assunto la forma di apposite normative fino agli anni ’40 del Novecento29. Successivamente l’organizzazione del territorio si è svolta essenzialmente nell’ambito delle attività della Pubblica Amministrazione (PA). Le azioni delle PP.AA sono uno strumento d’intervento strettamente connesso agli obiettivi della programmazione nazionale, soprattutto in riferimento alle attività socio-economiche volte a promuovere lo sviluppo territoriale. Af-finché l’intervento delle diverse amministrazioni sia coordinato verso un unico fine comune, per il perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle strate-gie politiche, è necessario che lo Stato intervenga per una coerente e corret-ta programmazione dello sviluppo territoriale.

La pianificazione territoriale consiste nell’organizzazione di tutti gli

elementi del territorio (residenziali, produttivi, infrastrutturali) in connes-sione con le politiche di sviluppo economico, di cui promuove l’adegua-mento degli effetti sullo spazio fisico ai principi di sostenibilità, di equità e di giustizia sociale30.

Con il termine “pianificazione” si è soliti indicare anzitutto il complesso

delle attività preordinate alla formazione di un piano. Pianificare vuol dire cioè elaborare un progetto, verificare la sua realiz-

zabilità nonché stabilire risorse, tempi e/o spazi ed eventuali modalità per la sua realizzazione.

Essa costituisce pertanto strumento di razionalizzazione dell’azione dei pubblici poteri che si frappone – come fattore di mediazione – tra il dispor-re in via generale e preventiva (coincidente con il momento di fissazione della regola dell’azione) ed il provvedere in concreto caso per caso.

29 Prima di tale data, in realtà, ci fu una legge che anche se non direttamente correlata al-

la pianificazione territoriale si occupava del territorio; si tratta della legge n. 2359 del 1865, che aveva ad oggetto le espropriazioni, ossia la possibilità da parte dello Stato di acquisire dei beni appartenenti a privati.

30 Pianificazione, in Enciclopedia Italiana Treccani. Consultabile al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/pianificazione/ (02/07/2012 –

10:15).

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Il termine “pianificazione” viene altresì utilizzato per individuare il pro-dotto di un siffatto modus agendi, ossia il piano31. La legge che sovraintende la pianificazione territoriale a livello naziona-

le è la n. 1150, approvata il 17 Agosto 194232, che prevede un’organizza-zione del territorio ordinata in modo gerarchico su tre livelli: regionale (at-traverso i Piani territoriali), provinciale (attraverso i Piani Sovracomunali) e comunale (attraverso i Piani Regolatori Generali).

In Italia il passaggio dalla pianificazione territoriale, di più ampio respi-ro, a quella urbanistica “tout court” è breve: non è raro il caso, infatti, in cui si è sentito parlare di “pianificazione urbanistica” riferendosi a una più ge-nerale panificazione del territorio che non riguardava esclusivamente le zo-ne urbane. Ciò che differenzia l’urbanistica dalla pianificazione territoriale è prima di tutto la scala (l’urbanistica s’interessa principalmente dello spa-zio urbano, mentre la pianificazione territoriale ha ad oggetto dei suoi studi e metodi di programmazione l’area vasta) con cui viene preso in considera-zione il territorio33. Inoltre, affinché quest’ultimo possa essere analizzato e valorizzato secondo le proprie peculiarità, è importante che se ne faccia uno studio approfondito, che tenga conto, quindi, della sfera economica, cultu-rale, sociale, geografica, geopolitica, ecc.

La pianificazione del territorio prevede una serie di fasi decisionali che si succedono nel tempo, che vanno dal disegno fisico e spaziale del territo-rio agli stanziamenti economici necessari per l’attuazione dei piani (regole e programmazioni per l’organizzazione territoriale che vanno rispettate). Dei veri e propri piani territoriali in Italia non sono mai esistiti.

Da un punto di vista procedurale le fasi di approvazione di un piano so-no le seguenti:

‐ Formazione: consiste nella redazione del piano, che solitamente viene affidata, tramite incarico, a progettisti esterni all’ente promo-tore;

31 Portaluri P. L., Il principio di pianificazione, inwww.giustiziaamministrativa.it, 29

Aprile 2011. (09/07/2012 – 15:39) 32 La cd. legge urbanistica riguarda e regola per l’appunto la materia urbanistica, ma

concerne a un livello più esteso anche la pianificazione territoriale dell’intero territorio ita-liano.

33 La pianificazione territoriale in Italia non è mai stata oggetto di un attento studio di analisi a livello interdisciplinare, tanto che spesso si è venuta a creare (per i non addetti ai lavori) confusione con l’urbanistica. Le due sfere della politica territoriale tendono facil-mente ad intersecarsi tra loro, ma non vanno confuse. In questo modo diviene necessaria una distinzione tra le due affinché si possa comprendere la normativa vigente. Una visione più chiara e dettagliata è essenziale per la preservazione del sapere.

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‐ Adozione: ovvero il recepimento del piano da parte dell’ente promo-tore, in seno all’organo rappresentativo dell’intera comunità;

‐ Pubblicazione: il piano viene depositato per la pubblica visione e per un arco di tempo prestabilito, al fine di consentirne la consultazione e la presentazione di eventuali osservazioni tese a conseguire miglio-ramenti nell’interesse della collettività;

‐ Riadozione: successivamente alla sua pubblicazione il piano viene nuovamente adottato da parte dell’ente promotore in seno all’organo rappresentativo dell’intera comunità, con le controdeduzioni inerenti alle osservazioni proposte.

‐ Approvazione: il piano viene approvato da parte dell’ente, competen-te in pianificazione del territorio, istituzionalmente preposto a quello promotore.

Entrando nel dettaglio della normativa, sempre in termini di organizza-

zione territoriale, gli strumenti di pianificazione si distinguono dunque in: 1) Piani di inquadramento o piani quadro: volti a fissare gli obiettivi e

a fornire le linee programmatiche dell’assetto di un territorio gene-ralmente vasto (piano generale e comprensoriale). Indicano le ipotesi dei grandi assi di mobilità; i criteri indicatori per la destinazione d’u-so del territorio; la localizzazione di importanti impianti di interesse generale; la distribuzione spaziale dei vincoli delle limitazioni da imporre all’uso del territorio; per esempio: Piano Territoriale di Co-ordinamento (PTC)34, Piano di Comunità Montana (PCM)35, Piano Paesistico (PTP)36.

2) Piani generali: sono quei piani che, in accordo con le direttive del piano quadro, definiscono l’assetto di un ambito territoriale general-mente limitato (il territorio di un solo comune o, eccezionalmente, di più comuni). Essi traducono gli obiettivi e le linee programmatiche del piano quadro in vincoli, limitazioni, destinazioni e modalità d’u-so del territorio per guidarne lo sviluppo e per organizzarvi gli inte-

34 Il Piano Territoriale di Coordinamento (PTC) ha come obiettivo principale il coordi-

namento delle attività economiche e sociali pubbliche e private, nonché quello di promuove-re lo sviluppo di nuove attività nel territorio cui il piano si riferisce.

35 I piani di comunità montana (PCM) sono regolati dalla legge n. 1102 del 3 Dicembre 1971, detta “norme per lo sviluppo delle aree di montagna”. Scopo della legge è il riequili-brio economico e sociale della montagna, nel quadro delle indicazioni dei programmi regio-nali; mira a promuovere la valorizzazione delle zone montane.

36 I piani territoriali paesistici (PTP) sono strumenti urbanistici di livello territoriale con-tenenti prescrizioni per un armonioso sviluppo di intere zone che si vogliono tutelare per la particolarità ed unicità della loro bellezza.

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ressi pubblici e privati modificativi; per esempio: Piano Regolatore Generale Comunale37 (PRGC).

3) Piani attuativi: sono quei piani che, in accordo con le previsioni del piano generale, precisano gli interventi sul territorio e ne organizza-no l’attuazione. Essi riguardano, generalmente, ambiti spaziali molto limitati, di uno oppure di più Comuni confinanti. I piani attuativi ser-vono a “specificare” le previsioni del piano generale; possono defini-re anche l’assetto urbanistico generale di una zona; per esempio: Piani Particolareggiati Esecutivi38 (PPE), Piani Esecutivi Convenzio-nati39 (PEC).

Suddetto corpus legislativo e organizzativo/attuativo non è però riuscito

a determinare nel nostro paese la qualità dell'ambiente urbano, tantomeno è riuscito a proteggere il paesaggio extraurbano, soggetto all’edificazione a-busiva; non ha saputo dunque arrestare il processo di speculazione fondia-ria ed edilizia che ha stravolto la natura di molte città, e anzi in molti casi è stato complice della stessa speculazione.

Oltre alla legge “urbanistica” del ’42, disciplinano l’ambito della piani-ficazione territoriale anche le leggi di trasferimento alle Regioni40 delle funzioni amministrative dello Stato: DPR 1972 n. 8 e DPR 1976 n. 616, in attuazione della legge n. 382 del 1975.

37 I Piani Regolatori Generali Comunali (PRGC), validi a tempo indeterminato, sono

obbligatori per i Comuni compresi in apposito elenco approvato dal Ministro degli LL.PP., inoltre deveno tener conto della totalità del territorio comunale considerato ed indicare la localizzazione di possibili opere ed impianti pubblici, le aree destinate a spazi di uso pubbli-co e la divisione in zone del territorio, con precisazione di quelle destinate all'espansione dell'aggregato urbano.

38 I Piani Particolareggiati Esecutivi (PPE) sono uno strumento di attuazione del Piano Regolatore Generale. Secondo l’art. 13 della L.n. 1150/42 il essi devono dare indicazioni circa: la rete stradale; i principali dati altimetrici; le masse e le altezze delle costruzioni lun-go le principali strade o piazze; gli spazi riservati a opere e impianti d’interesse pubblico; gli edifici destinati a demolizione e ricostruzione ovvero soggetti a restauro o a bonifica edili-zia; la suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili; gli elenchi catastali delle proprietà da espropriare o da vincolare; le profondità delle zone laterali a opere pubbliche la cui occupa-zione serve a integrare le finalità delle opere stesse e a soddisfare prevedibili esigenze futu-re.

39 Il Piano Esecutivo Convenzionato (PEC) è la versione aggiornata del Piano di Lottiz-zazione convenzionato. Esso viene proposto dai privati in presenza di piano Regolatore Ge-nerale o di programma di Fabbricazione vigenti, in attuazione degli stessi.

40 A partire dal 1972 le competenze nella pianificazione territoriale sono state attribuite dallo Stato (con suddetto DPR 1972 n. 8) alle Regioni con funzioni di: controllo, indirizzo e coordinamento della pianificazione territoriale degli enti locali e centrali sul territorio regio-nale.

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Nella legge del 1942 – come noto - si prevedeva la “facoltà” del Mini-stero dei LL.PP. di compilare i “Piani territoriali di coordinamento”; e il Ministero attraverso alcuni ispettorati compartimentali, poi provveditorati, negli anni ’50 si avvia alla redazione di tali piani, anche sotto la spinta del-l’Inu e di una cultura urbanistica incipiente, che non mi sentirei affatto di rinnegare con troppa leggerezza. Di tali piani ne rimase ben poca cosa, an-che se non furono ‒ laddove prodotti, e per pura “facoltà” del Ministero, e senza alcun vincolo né procedurale né temporale ‒ del tutto inutili nell'o-rientare almeno le scelte di alcune opere infrastrutturali governate e pro-mosse dalla stessa amministrazione dei LL.PP. Hanno fallito questi piani? Certo, nella misura in cui ve ne erano pochissimi, e quei pochi svincolati da ogni scadenza e procedura, il fallimento era implicito nello stesso “quadro istituzionale” che li prevedeva: cioè la legge del 194241. Le cause che hanno portato a un mal funzionamento dei piani territoriali

sono essenzialmente state: la mancanza di un approccio strategico; la man-canza d’integrazione con la programmazione economica; la mancanza di partecipazione democratica; l’eccessiva rigidità e burocraticità del processo d’ideazione e attuazione del piano; l’eccessiva lentezza della procedura di formazione e approvazione; lo sfasamento dei contenuti e dei tempi tra le azioni condotte a differenti livelli gerarchici; i conflitti di competenze tra enti preposti al controllo di stessi ambiti territoriali.

Ad un colpo d'occhio retrospettivo generale, dunque, balza evidente che

la causa più importante e più semplice nello stesso tempo di fallimento del-la pianificazione territoriale sia proprio l'inesistenza di un quadro istituzio-nale che la rendesse possibile. E quel poco di “istituzionale” esistente (deri-vante dalla legge del 1942!) era del tutto incoerente con le nuove realtà sia istituzionali (nuova costituzione e nuovi ruoli regionali), sia socio-econo-miche (urbanizzazione del territorio, sviluppo tecnologico, problemi am-bientali, metodi di organizzazione della produzione, natura e dimensione dei servizi urbani, etc.)42. A partire dagli anni ’70, per gran parte degli anni ’80, in Italia si è aper-

to un acceso dibattito tra i fautori della crescita economica (i quali sosten-gono che il modello di sviluppo occidentale non può essere discusso e che le criticità ambientali possono essere risolte attraverso interventi tecnologi-ci per migliorare l’efficienza dei sistemi produttivi, energetici, di smalti-

41 Archibugi F., La pianificazione territoriale: la funzionalità del quadro istituzionale ai

vari livelli, 2° Congresso Nazionale di Architettura “Politiche edilizie e urbanistiche in Ita-lia”, Roma, Palazzo Taverna, 1-3-Luglio 1981, p. 5.

42 Archibugi F., La pianificazione territoriale: la funzionalità del quadro istituzionale ai vari livelli, op. cit., p. 8.

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mento) e gli ambientalisti (che mettono in discussione il sistema dalle fon-damenta, attraverso azioni di carattere politico). Punto di incontro di queste divergenti classi di pensiero fu il cosiddetto Rapporto Brundtland43 (1987) della Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo dell’ONU, in cui venne espresso il concetto di “sviluppo sostenibile” inteso come un model-lo di sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza mettere a rischio le capacità di quelle future.

Negli anni duemila il dibattito è ancora in continua evoluzione44. Impor-tante è divenuta la presenza di approcci integrati per una pianificazione del territorio sostenibile, da attuare nelle strategie ambientali (attraverso nuovi strumenti di supporto decisionale tecnico-politico: la VIA, valutazione d’impatto ambientale, e la VAS, valutazione ambientale strategica45), dive-nute ora operative.

Si è iniziato a parlare, inoltre, sia a livello nazionale che a livello euro-peo (come si può osservare nei paragrafi precedenti), di sviluppo e coesione territoriale, concetti oggi presenti più che mai nelle politiche territoriali comunitarie.

Negli ultimi quindici anni l’Italia ha sperimentato una proliferazione di

forme di intervento pubblico nel campo della pianificazione del governo del territorio. La partecipazione all’Unione Europea ha dato impulso a trasfor-mazioni economiche e istituzionali strutturali (e.g. sussidiarietà, concorren-za) e più specificatamente all’uso di strumenti alternativi e talvolta innova-tivi di governo del territorio. La prospettiva tradizionale della pianificazio-ne assume che le nuove forme di intervento siano tecniche per meglio rag-giungere obiettivi più o meno ampi, che includono rigenerazione urbana, sostenibilità ambientale, sviluppo economico locale, coesione sociale e al-tri46.

43 Conosciuto anche come Our Common Future, è un documento rilasciato dalla Com-

missione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo (WCED) in cui venne introdotto il concetto di “sviluppo sostenibile”. Il nome viene dalla coordinatrice Gro Harlem Brundtland che in quell'anno era presidente del WCED ed aveva commissionato il rapporto.

44 Nel 2001 è stato modificato, infatti, il Titolo V della Costituzione Italiana, che con la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. ha attribuito competenze esclusive allo Stato per la tutela dell’ambiente (comma 2) e alle Regioni (comma 3) per la materia urbanistica.

45 La VIA è una procedura tecnico-amministrativa di verifica della compatibilità am-bientale di un progetto finalizzata all'individuazione, descrizione e quantificazione degli ef-fetti che un determinato progetto, opera o azione, potrebbe avere sull'ambiente; la VAS è un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze sul piano ambientale delle azioni pro-poste da piani e programmi territoriali per far si che tali conseguenze siano affrontate in mo-do adeguato fin dalle prime fasi del processo decisionale e sullo stesso piano delle conside-razioni di ordine economico e sociale.

46 Ponzini D., «Strumenti di governo del territorio in Italia: una proposta interpretativa», in www.planum.net - The European journal of Planning, Dicembre 2008, abstract.

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L’attuale (Luglio 2012) Ministro per la coesione territoriale (F. Barca) nel Piano di azione e coesione scrive:

La politica di coesione territoriale trae fondamento e legittimazione dal-

la Costituzione italiana (art. 119, quinto comma, e art. 3, secondo comma) e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art.174), che richiedo-no “interventi speciali” per promuovere uno “sviluppo armonico” (Trattato) e per “rimuovere gli squilibri economici e sociali” (Costituzione).

L’Unione europea mette a disposizione circa un terzo del proprio bilan-cio (Fondi Strutturali) da ripartire tra le Regioni, mentre gli “interventi spe-ciali” in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Re-gioni previsti dalla Costituzione italiana sono affidati a un Fondo di Svilup-po e Coesione.

Il termine “coesione” non si riferisce solo alla densità e alla pienezza delle relazioni umane che si realizza quando crescono le opportunità di svi-luppo, ma anche al metodo con il quale questa particolare politica di svi-luppo viene realizzata. È il metodo del confronto, anche vivace, fra tutti i soggetti, interni al territorio ed esterni a esso, è il metodo della costruzione di coalizione orizzontali (fra Comuni, sistemi di imprese, cittadini organiz-zati) e verticali (fra livelli di governo)47.

Nel più vasto contesto italiano il Sud si trova in una situazione di par-

ticolare difficoltà. Il ritardo strutturale del Mezzogiorno condiziona in modo evidente anche le politiche di sviluppo e pianificazione territoriale. Le politiche di azione e coesione sono pertanto proiettate verso una ride-finizione degli spazi, verso uno sviluppo armonico del Paese, a partire da una ricostruzione delle aree svantaggiate e da aiuti consistenti volti a ren-dere meno evidenti gli squilibri economici e sociali, per un rilancio in particolar modo dello sviluppo del Sud. Al divario col Centro Nord in termini di reddito si accompagnano divari in tutti i servizi pubblici fon-damentali per la qualità della vita dei cittadini, quali: accesso al servizio scolastico e ai successivi livelli di apprendimento, cura dei bambini, reti ferroviarie, gestione dei rifiuti urbani, servizi energetici; per altri non si vedono ancora segnali di cambiamento: giustizia, sicurezza, cura per gli anziani, ricerca e innovazione, servizi alle imprese, sono ancora in netto ritardo in molte parti della penisola. L’insieme di questi servizi, da cui di-pendono crescita e inclusione sociale, configura l’agenda della politica per la coesione territoriale.

47 Barca F., La coesione territoriale in Italia alla fine del 2011, in Relazione alle Com-

missioni Bilancio di Camera e Senato del Ministro per la Coesione Territoriale, 6 Dicembre 2011, p. 2.

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Il piano per l’azione e la coesione territoriale viene attuato, dal Ministro incaricato e dai Ministri di settore, secondo i principi di:

concentrazione delle risorse verso: scuola, agenda digitale, ferrovie e credito per l’occupazione;

azione di affiancamento e supporto da parte di centri forti di compe-tenza nazionale;

fissazione di obiettivi tangibili in relazione alla qualità della vita dei cittadini;

cooperazione rafforzata con la Comunità Europea. Nel 2008, inoltre, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ha in-

trodotto il “contratto di sviluppo48” per concedere agevolazioni finanziarie a sostegno delle imprese. Tale strumento nasce in sostituzione degli accordi di programma e dei patti territoriali.

Secondo un’adozione delle normative europee, dunque, l’Italia si sta uniformando a un’ottica di sviluppo unitario a livello comunitario. Inoltre, come in Francia (L’Observatoire de Territoires), anche nel nostro Paese si sta facendo forte la voce di politiche aperte, rivolte nella più ampia direzio-ne di open government/open data, e si sta cercando di rendere la comunica-zione tra la classe politica e i cittadini quanto più chiara possibile. Le in-formazioni devono poter essere fruibili da tutti e da tutti elaborate49.

48 Istituito dall'art. 43 del D.L. 112/2008 e convertito, con modificazioni, dalla legge

n.133/2008.49 Proprio per andare incontro a queste esigenze, nel Luglio 2012, è stato creato e pub-

blicato il primo portale italiano sull'attuazione degli investimenti programmati (ciclo 2007-2013 da Regioni e amministrazioni centrali dello Stato) con le risorse per la coesione: OPEN COESIONE. Verso un migliore uso delle risorse: scopri, segui, sollecita.

“I dati sono pubblicati perché i cittadini possano valutare se i progetti corrispondono ai loro bisogni e se le risorse vengono impegnate in modo efficace.”

www.opencoesione.gov.it

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3. Geopolitica e comunicazione

Le rappresentazioni geopolitiche1, ovvero tutte quelle cartografie pro-dotte per mostrare graficamente determinati territori oggetto di conflitto o rivalità di potere più o meno esplicite, hanno una grande capacità di influire sulle percezioni, quindi sulle scelte e sul consenso: possiedono una notevo-le valenza propagandistica, informativa e “disinformativa”. Proprio da que-sto “potere” deriva la loro importanza politica, nonché il favore che godono nei media.

L'utilizzazione della geografia per giustificare il perseguimento di certi obiettivi politici ha costituito una costante nella storia politica, non solo eu-ropea. Per questo motivo l'importanza dell'insegnamento della geografia va di pari passo con quello della storia. La geografia costituisce una disciplina indispensabile per l'analisi dei fenomeni geopolitici. Sin dalle origini i geo-grafi sono stati, infatti, strumento del potere.

La cartografia, in quanto rappresentazione della realtà fisica che ci cir-conda, dunque della superficie terrestre, è stata fin dall’antichità un’esi-genza sentita dall’uomo che vuole tracciare e segnare i luoghi in cui vive. Alla carta geografica viene spesso attribuito il valore di “metafora della co-noscenza e della comunicazione”, soprattutto per la forma di simbolizza-zione che assume il disegno cartografico nel linguaggio topologico2. La co-noscenza umana ha sempre avuto bisogno delle carte per georeferenziare3

1 Con il termine rappresentazioni geopolitiche si intende far riferimento alle cartografie

che vengono prodotte per mostrare, o meglio per rappresentare graficamente determinate situazioni di carattere geopolitico, appunto, con il preciso scopo di veicolare un determinato messaggio al destinatario.

2 In geografia il “codice topoligico” è l’insieme dei segni di sui si serve la topologia (lo studio del paesaggio e delle sue caratteristiche per individuare e definire i vari tipi di forme del suolo) per rappresentare i vari tipi di forme del suolo.

3 Tecnica di attribuzione di coordinate geografiche a un oggetto grafico, usata nelle pro-cedure di cartografia computerizzata e nella costruzione di basi cartografiche digitali.

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dei fenomeni, degli oggetti, delle culture nello spazio che questi “abitano”, per produrre interconnessioni tra i diversi aspetti che caratterizzano i terri-tori e per comunicare dei significati che diversamente sarebbero quasi im-possibile da trasmettere. Dunque, le carte geografiche sono divenute ormai uno strumento di comunicazione molto ambito dalle classi dominanti, ma anche da chiunque voglia trasmettere determinate informazioni geografico-politiche al fine di mostrare una realtà che possa andare a vantaggio dei propri scopi.

La comunicazione sta diventando un perno centrale per chi fa geopoliti-ca perché, proprio grazie all’uso dei mezzi di comunicazione di massa, e delle carte geografiche all’interno di questi, si può rendere noto un deter-minato tipo di messaggio politico piuttosto che un altro. Siamo ormai giunti nell’era della società dell’informazione4, in cui gran parte dei problemi che popolano il nostro vivere quotidiano hanno a che fare con la comunicazione in tutte le sue declinazioni.

Il ruolo dei media è di particolare importanza in quanto rappresenta un elemento fondamentale per la configurazione della carta geopolitica del mondo: attraverso il lavoro svolto dai media si costruiscono immaginari condivisi delle comunità geopolitiche, si offrono paesaggi identitari e una storia in cui riconoscersi.

Ci troviamo sempre più spesso di fronte alla necessità di reperire infor-mazioni, che siano il più dettagliate possibile, oppure di fronte al bisogno di organizzare in modo logico e preciso, soprattutto a livello spazio-tempo-rale, quelle che già possediamo. Insomma, comunicare significa possedere un'adeguata conoscenza, tale da permettere di elaborare un messaggio che sia facilmente fruibile dal nostro destinatario, e che ci permetta di decodifi-care in modo adeguato i messaggi che, invece, ci giungono dal mondo esterno. Affinché ci sia informazione è essenziale che vi sia comunicazio-ne, ossia che si “metta in comune”, si condivida un significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali che prenderanno poi la forma di linguag-gi più o meno articolati. Tra gli interlocutori deve esserci reciproca inten-zionalità e un certo livello di consapevolezza.

In geopolitica questo concetto è di fondamentale importanza in quanto

bisogna essere sempre molto attenti a ciò che i potenti vogliono dirci attra-verso le informazioni che ci trasmettono; dobbiamo essere in grado di com-

www.treccani.it/enciclopedia/georeferenziazione/ (04/09/2011-19.00) 4 Nuova società in via di sviluppo caratterizzata dalla diffusione delle nuove tecnologie

telematiche e dall’affermarsi dell’informatica. Elemento principale che la contraddistingue è la rapida circolazione delle informazioni, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, quali Internet.

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prendere il significato latente di ogni messaggio, di tutto ciò che ci viene comunicato, soprattutto oggi che siamo giunti in un era in cui le guerre, ormai, vengono combattute su due fronti: il terreno reale e quello della co-municazione.

Il ragionamento geopolitico5 aiuta a comprendere meglio le cause, più o meno odierne, di ogni conflitto e permette di rendere più chiare le contro-versie tra popolazioni rivali. È nostro compito fare molta attenzione a ciò che ci viene detto e presentato attraverso i media, perché ogni informazione è filtrata dal sistema di conoscenze e credenze che struttura la società nella quale viviamo.

Affinché si possa interpretare una cartografia nella sua interezza, riu-scendo a comprendere più a fondo il messaggio che veicola, bisogna tenere conto di molte componenti: innanzitutto si deve tener presente l’ente che l’ha commissionata o, comunque, gli intenti dell’autore che l’ha prodotta; di qui bisogna considerare ogni aspetto iconografico nel dettaglio e indivi-duare la ragion d’essere di ogni elemento che compone la carta; infine la si deve contestualizzare per poter, poi, individuare le motivazioni per le quali è stata prodotta e per quale tipologia di “utenti” è stata commissionata al fine di raggiungere gli scopi preposti. In geopolitica le rappresentazioni cartografiche non sono mai ingenue, ma sono, anzi, oggetto di manipola-zione e strumento di comunicazione tutt’altro che di facile fruibilità. Nel corso del tempo erano, infatti, divenute quasi un mezzo di comunicazione di nicchia, uno strumento riservato agli specialisti in materia, soprattutto a coloro in grado di promuovere strategie territoriali come i governanti o i burocrati.

Dagli anni ’90 del secolo scorso, invece, è andato via via rinnovandosi un forte interesse per le questioni geopolitiche in diverse parti del mondo. Questa riscoperta della geopolitica è coincisa con una riscoperta dell’ele-mento geografico all’interno delle dinamiche internazionali; ciò era dovuto principalmente alle nuove aspirazioni e disponibilità economiche dei ceti medi che hanno potuto così avvicinarsi alla cultura e dunque al sapere geo-grafico, a una maggiore diffusione della scolarizzazione e ai progressi tec-nici nel campo del rilevamento e della stampa. Adottare diversi punti di vi-sta (geografico, politico, economico, culturale, ideologico) permette di po-

5 Con il termine “ragionamento geopolitico” Yves Lacoste vuole intendere che non basta

essere informati per poter comprendere quanto accade nel mondo, ma bisogna saper indivi-duare tutte le implicazioni, a più livelli di scala, che hanno portato o porteranno al verificarsi di un dato fenomeno, in modo tale da poter osservare con un certo occhio critico le situazio-ni presenti e quelle future. Bisogna mettere in atto, dunque, un ragionamento, un processo analitico che tenga conto dei diversi aspetti che costituiscono ogni situazione geopolitica.

Lacoste Y., Atlas géopolitique, Larousse, 2007, pp.6-7

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ter mostrare il reale aspetto di ciò che si sta osservando e dunque di svilup-pare una conoscenza più approfondita. Centrale nell’analisi geopolitica di-vengono, dunque, le rappresentazioni e le percezioni che gli uomini hanno in riferimento a se stessi e al mondo in cui vivono. Questa importanza non è solo legata alla rappresentazione cartografica, ma anche e forse dovrem-mo dire soprattutto all’elemento identitario, culturale, linguistico. Quest’ul-timo aspetto, quello delle parole, della lingua, dei simboli, è così importan-te che ci sembra utile poterlo trattare in modo più articolato.

1. Toponimi e geopolitica

L’importanza che detiene una lingua per una popolazione più o meno vasta ci può essere chiara e tutto sommato comprensibile. Può, invece, sembrare più inattesa l’eventuale disputa tra nazioni intorno ai nomi dei luoghi. Per questo motivo è bene dare il giusto peso alle parole, oltre che alle rappresentazioni cartografiche.

La scelta dei toponimi non è certamente casuale e in geopolitica è un

passaggio essenziale per l’attribuzione o la legittimazione di un territorio o di un mare. Per quanto spesso le porzioni di mare vengano trascurate, in realtà sono proprio queste che creano la maggior parte dei contenziosi, ba-sati anzi tutto proprio sui nomi.

I casi sono tanti e meriterebbero un vero e proprio “Atlante dei toponimi contestati”. Ma uno dei più famosi, particolarmente in questi anni, è quello del “Golfo Persico – Golfo Arabo”.

Alla fine degli anni cinquanta, l’Iran aveva protestato vivamente contro la scelta fatta dall’Iraq e da altri Paesi Arabi, nonché dalla Gran Bretagna, di utilizzare ufficialmente il nome di Golfo Arabo al posto di quello tradi-zionale di Golfo Persico. In particolare l’Iran dello Scià Mohammad Reza Pahlavi (in farsi: محمد رضا پھلوی) aveva indirizzato una protesta formale all’Irak allora governato da Abdul Karim Qasim (in arabo: عبد الكريم قاسم, in Italiano più noto come Abdul Karim Kassam), dopo il colpo di stato del 1958. Diciamo subito che la scelta di questo nome per un mare vasto più di 240.000 km2 non aveva nulla di naturale. Infatti fino a quel momento nes-suno aveva messo in discussione il nome di Golfo Persico (neanche gli Arabi, come vedremo tra poco). Fu invece un inglese, Sir Charles Belgric, rappresentante del Regno unito in quell’area negli anni ’30, che ufficializzò questa specie di nuova pretesa in un suo libro del 1966 in cui scriveva, pre-cisamente, che gli Arabi preferirebbero il nome di Golfo Arabo a quello di Golfo Persico. Chiaramente il libro non faceva altro che completare un la-

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voro che Sir Belgric portava avanti da anni, dando questa “nuova” quanto “cattiva” idea alle popolazioni arabe che si affacciavano sul Golfo. Da quel momento in poi l’appellazione di Golfo Arabo troverà sempre più eco sia nei documenti ufficiali britannici che arabi.

Eppure i documenti più antichi riportavano sempre e solo Golfo Persico. Molti documenti antecedenti l’era Cristiana parlano infatti di un’area Fars o Pars (da cui persiano): tra questi il primo documento a riportare questa forma è redatto dallo stesso Dario I, imperatore della dinastia achemenide, le cui navi, dopo essere scese fino all’oceano Indiano dal fiume Indu e aver circumnavigato la penisola arabica, entravano nel Mar Rosso. Su un sito che Dario voleva utilizzare per lo scavo di un canale (proprio dove oggi si trova il Canale di Suez) descrive il golfo Persico in questi termini: “Ho or-dinato che sia scavato un canale che collegherà il fiume che scorre in Egitto con il mare che raggiunge la Persia”.

I Greci lo chiamavano già Persicos Sinos o Sinos Persicos, così come il geografo Strabone (greco, del I sec. d.C.) descrive gli Arabi come una po-polazione che vive “[...] tra il Mar Rosso e il Golfo Persico”. Questo fa ap-parire la definizione di “persico” per questa porzione di mare certamente più legittima dal punto di vista storico, soprattutto perché non si tratta di una fonte persiana. Ma quel che è più interessante è proprio il fatto che le stesse fonti arabe utilizzino sempre la definizione di Persico e mai invece quella di Arabo. Personaggi del rilievo di Ibn Batouta, Nasser Khosrow, Abou Rayhan Al-Birouni o, ancora, Ibn Balkhi hanno sempre fatto riferi-mento a un “mare dei Persiani” con tanto di descrizioni articolate e detta-gliate.

Per far fronte al nuovo uso di “Golfo Arabo” le autorità delle dogane iraniane cominciarono col rifiutare tutte le merci portanti la menzione di “golfo arabo”. In sede di riunioni internazionali i diplomatici Iraniani non hanno mai esitato a opporre la più vivace contrarietà non esitando ad ab-bandonare sedute importanti.

Ma a questo punto occorre capire non tanto il dettaglio delle strategie quanto le ragioni della scelta che porta a una tale contrarietà. In parole semplici: perché? In fondo potremmo dire che il nome non cambia il luogo.

Invece il nome lo crea, lo definisce. Un luogo esiste rispetto al suo no-me, così come la geografia esiste rispetto all’azione degli uomini e per que-sto non esiste una geografia di Saturno se non rispetto alla terra: un luogo esiste probabilmente (solo probabilmente) in maniera assoluta (cioè aldilà di come lo si indichi), ma al tempo stesso ha un senso perché definito ri-spetto agli uomini, rispetto alle varie comunità. La sua definizione dal pun-to di vista del toponimo significa quello che per la comunità (o le comuni-tà) esso significa: quello che rappresenta e “vuol dire”. Per gli uomini i

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luoghi sono come le parole: sono importanti per quello che rappresentano e quindi il veicolo non è semplice “trasportatore” di quel contenuto, ma par-tecipa all’uso, al contenuto. Per questo motivo spesso i nomi hanno molta più importanza che il controllo autentico del luogo stesso.

Nel nostro esempio i britannici utilizzarono questa strategia della di-scordia per destabilizzare gli Iraniani e soprattutto l’influenza sul Golfo in questione. Dopo di loro fu il caso degli Stati Uniti (USA) che proprio a par-tire dagli anni ’80 cominciarono la stessa strategia di destabilizzazione del Golfo Persico/Arabo per aumentare la loro capacità d’influenza.

Tra i tanti altri casi interessanti a questo proposito vale la pena di citarne

ancora due e che riguardano in maniera diversa delle porzioni di mare. In entrambi i casi è coinvolto il Giappone ma con posizioni diverse. Il primo caso riguarda una diatriba puramente toponomastica tra Giap-

pone e Corea a proposito della porzione di Mare che divide l’arcipelago Giapponese dal continente asiatico e che in modo abbastanza diffuso viene chiamato Mar del Giappone. Va subito segnalato che si tratta di un toponi-mo “forte” nel quale il nome è indicato da un’appartenenza ‘mare apparte-nente al Giappone’: ne consegue un comprensibile sentimento di vessazio-ne da parte degli altri che quel mare lo vivono comunque. Saremmo in erro-re se pensassimo che si trattasse di una querelle di vecchia data, tutt’altro. Rimonta solo alla fine del XX secolo e più precisamente al 1992 quando durante la conferenza delle Nazioni Unite sulla normalizzazione dei nomi geografici (vedremo meglio di seguito di cosa si tratta), in modo congiunto, sia la Corea del Nord che la Corea del Sud proposero l’appellazione di Ma-re dell’Est. La questione parte da quel momento ma ha conosciuto un rilan-cio molto vivace quando nel 2002 l’Organizzazione Idrografica Internazio-nale (IHO) ha inviato una lettera ufficiale a tutti i suoi settantadue membri nella quale si chiedeva di decidere per una delle due possibilità e arrivare alla definitiva pubblicazione dell’opera “Limiti degli Oceani e dei Mari” (opera che da quella data non ha ancora visto la luce!). I Governi delle due Coree fecero notare che la denominazione di Mar del Giappone si è impo-sta nel mondo quando la penisola coreana era occupata dai Giapponesi all’epoca dell’Impero. Secondo i coreani, infatti, le appellazioni di “mare Orientale”, “mare dell’Est”, o “mar di Corea”, sono ben più antiche di quel-la oggi utilizzata. Sempre i Coreani fanno notare che la registrazione del toponimo di Mar del Giappone è avvenuta presso la IHO nel 1929 e cioè in piena epoca coloniale Giapponese, quando nessuno in Corea avrebbe potu-to contestare questa scelta.

I Giapponesi per parte loro affermano che la denominazione di Mar del

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Giappone sarebbe invece antica quanto quella della Corea (che quindi non contesterebbero come esistente). A sostegno di questa ipotesi citano l’A-tlante dell’esploratore Jean-François de La Pérouse (del XVIII secolo) che riporta, infatti, “Mar del Giappone”, facendo pertanto riferimento ad un’e-poca precedente il periodo espansionista giapponese. Oramai tutti gli atlanti coreani riportano la dicitura Tonghaee che vuol dire appunto “mare del-l’Est” ma i Coreani cercherebbero quanto meno una doppia dicitura: “Mare dell’Est – Mar del Giappone”. La questione è comunque lontana dall’essere risolta. Certo è che possiamo immaginare il sentimento “revanscista” (so-prattutto se pensiamo a quello che i Coreani hanno dovuto patire durante l’occupazione giapponese): imporre una propria simbologia su un “luogo” che si considera parte della propria terra è molto importante al punto da di-ventare vincolante nella definizione delle relazioni tra Coree e Giappone. Quello che è interessante è, da un lato la visione Giapponese di possesso e, dall’altro, la visione anti-periferica delle Coree. Anti-periferica perché chiamandolo mare dell’Est non se ne assume la proprietà (non si chiame-rebbe mare della Corea, toponimo col quale comunque era conosciuto) ma si proietta una visione più importante (centrale) della propria terra: dell’est rispetto alla Corea. Quindi si afferma un toponimo per affermare una visio-ne dello spazio geografico in cui ci si trova, si vive e si interagisce.

Quanto appena scritto ci permette di passare direttamente all’altro caso

ma questa volta a ruoli invertiti per quanto riguarda il Giappone. Parliamo, infatti, delle isole Kurili del Sud (in russo: Кури́льские острова́, Kuril'skie ostrova), che l’armata rossa occupò alla fine della seconda guerra Mondia-le. Va tenuto presente che quelle isole furono regolarmente concesse dalla Russia zarista al Giappone in cambio della penisola del Kamchatka (nel 1875) ma che visto l’elevatissimo valore strategico per la Russia, il governo di Mosca pensò bene di rioccuparle militarmente. Questa scelta è compren-sibile se si pensa che per andare dal territorio russo e dal mare di Okhotsk verso il Pacifico bisogna passare tra queste isole. Il possesso di queste isole da parte russa equivale ad avere una via sempre libera d’accesso. Ma i Giapponesi non cedono. Per loro originariamente si chiamavano isole Chishima (in giapponese:千島列島, Chishima rettō) e facevano allusione al popolo ainu (dell’isola di Hokkaido); ma dal 1956 (data dalla quale si cerca di risolvere il contenzioso e per il quale Russia e Giappone non hanno ancora firmato un trattato di pace dopo la II guerra mondiale!) preferiscono chiamarle Hoppo ryodo e cioè “territori del nord”. Quindi, anche in questo caso come in quello della Corea, si tratterebbe più che di un’appropriazione attraverso un toponimo adeguato indicante il possesso, di una proiezione, di una “rappresentazione” del contesto geografico a cui si fa allusione; quelle

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stesse rappresentazioni a cui abbiamo fatto allusione all’inizio di questo te-sto quando spiegavamo le caratteristiche del metodo della Geopolitica.

Tre casi, tutti diversi ma tutti accomunati dal voler dare una “rappresen-

tazione”, di un determinato territorio, diversa da quella dell’avversario. Tutte rappresentazioni argomentabili (non c’è nulla di scientifico in questo campo) e quindi tutte mirate a offrire una simbologia diversa di questi luo-ghi. Centralità/periferia, storia, organizzazione, tutti questi fattori sono im-plicati nella scelta di un nome. Tutto ciò simboleggiato dal nome.

L’antagonismo per i territori non dobbiamo immaginarlo, quindi, solo con le armi per il controllo diretto. Spesso il possesso dei luoghi è sempli-cemente simbolico, ma quel simbolo vale più di un pozzo di petrolio. Per le comunità di uomini a cui abbiamo fatto riferimento in questa parte del te-sto, lingua e nomi sono uno strumento essenziale che metterebbe in discus-sione la loro stessa esistenza in quanto comunità. Il territorio esiste proprio perché esistono delle comunità, dei gruppi sociali che si relazionano con esso: lo influenzano e ne sono profondamente influenzati. Per questo il lin-guaggio è essenziale, perché definisce e rappresenta quelle stesse comunità: è una sorta di rappresentazione di esse (come l’abbiamo definita). Quanto appena scritto non fa che indicare lo studio della geografia e, in particolare in geopolitica, dove ci occupiamo di antagonismi per il territorio: lingue e parole sono elementi essenziali da studiare e smontare, pena la mancata comprensione e soluzione dell’antagonismo stesso.

2. L’analisi geopolitica

L’analisi geopolitica6 è divenuta oggi una necessità sempre più sentita

dai cittadini che vogliono comprendere quanto accade nel mondo e sentirsi partecipi della realtà nazionale e internazionale nella quale sono immersi. Chi può contestare, dunque, l’importanza della geopolitica all’interno di una pratica quotidiana di riflessione sui problemi che caratterizzano il mondo contemporaneo?

L’analisi geopolitica ha, in un certo senso, la capacità di rendere note determinate dinamiche, di togliere quel velo opaco sotto il quale si celano i rapporti di potere interni agli stati, o fra stati rivali, svelando le situazioni di conflittualità e cercando di mostrarne le vere ragioni.

6 L’analisi geopolitica, così come la concepisce Yves Lacoste, è un procedimento volto

alla comprensione dei problemi del mondo contemporaneo attraverso lo studio dei rapporti di forza che si instaurano a diversi livelli di scala.

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L’analisi geopolitica, intesa come nuovo modo di rapportarsi al mondo e di indagarlo, a diversi livelli di scala, è una pratica che si sta mostrando sempre più viva all’interno delle società in quanto i cittadini7 avvertono l’urgenza e l’esigenza di conoscere l’ambiente, il territorio in cu vivono e che vivono, “dialogando” con questo, rapportandocisi in maniera più con-sapevole, attiva, e perché no, ragionata e sostenibile. Conoscere la realtà, fisica e sociale, nella quale si vive non è utile soltanto in termini di sicurez-za personale e di sviluppo sociale, ma avere una consapevolezza territoriale permette di potersi relazionare con ogni cosa o avvenimento sapendo dove ci si trova.

Proprio per questi motivi è importante saper leggere e interpretare i messaggi che ci vengono trasmessi dai potenti e dai media; è importante che i cittadini abbiano coscienza della propria posizione nel mondo e di quanto accade nello spazio che occupano affinché possano avere coscienza di quanto avviene nella realtà circostante, più o meno vicina.

L’intérêt croissant que l’on porte aux questions géopolitiques traduit le

fait que nombre de citoyens ont pris conscience que des conflits entre des pays plus ou moins lointains, la plupart situés de nos jours autours de la Méditerranée, peuvent se répercuter en Europe occidentale et notamment en France, car ses relations géopolitiques sont multiples et fort importants avec le pays méditerranéens. Raisonner sur les risques qu’ils comportent n’est pas réserve aux specialists et aux responsables politiques dont la tache est de prendre des mesures de précaution ou de défense. Celle-ci concernent l’ensemble des citoyens, et il importe qu’ils puissant mieux comprendre la complexité et la gravité de certaines questions qui se posent dans des con-trées plus ou moins proches de notre pays, afin qu’ils fassent prévue de sangfroid devant certaines menaces ou de prétendues solutions qui pour-raient etre encore plus dangereuses.

Si la plupart des conflits géopolitiques se déroulent entre des forces qui sont territorialment proches les unes des autres, entre des Etats voisins, de part et d’autre d’une frontier ou d’une ligne de front, il y a aussi des rapports de force entre des pays que sèparent des très grandes étendues marines8.

Non basta essere informati per comprendere quanto accade intorno a

7 Il concetto di cittadino differisce da quello di suddito che si riferisce a colui che è sog-

getto alla sovranità di uno stato; la condizione del suddito implica, di per sé, situazioni giu-ridiche puramente passive (doveri e soggezioni), mentre quella del cittadino implica la tito-larità di diritti e altre situazioni giuridiche attive (seppur accompagnati da doveri e altre si-tuazioni giuridiche passive). Nel momento in cui lo stato riconosce al suddito diritti civili e politici, questo diventa un cittadino.

http://it.wikipedia.org/wiki/Cittadinanza_(diritto) (08/06/2012-21.00) 8 Lacoste Y., Atlas géopolitique, Larousse, 2007, p. 11.

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noi, ma bisogna saper individuare tutte le implicazioni, a più livelli di scala, che hanno portato o porteranno al verificarsi di un dato fenomeno, in modo tale da poter osservare con un certo occhio critico le situazioni presenti e quelle future. Bisogna mettere in atto, dunque, un ragionamento, un proces-so analitico che tenga conto dei diversi aspetti che costituiscono ogni situa-zione geopolitica.

Dobbiamo conoscere la storia per meglio comprendere come si è arriva-ti a una certa situazione, ma ancor di più dobbiamo essere in grado di os-servare il presente e cogliere tutte le informazioni a noi disponibili per po-ter prevedere in quale direzione evolverà e per mettere in atto una presa di posizione a riguardo. In questo ragionamento dobbiamo altresì avere ben presente l’aspetto geografico che caratterizza i territori interessati nel con-flitto, al fine di saper collocare nello spazio e nel tempo la vicenda indivi-duandone le motivazioni che vi hanno dato origine. Le rappresentazioni cartografiche non sono mai un atto oggettivo, ingenuo, ma sono la diretta espressione grafica del volere di qualcuno.

Non basta la compitazione e la lettura tecnico-formale dei simboli per

comprendere una carta, ma occorre che si risalga alla “filosofia” dell’ente (o persona) che l’ha prodotta, dalla quale discende la selezione dei dati rap-presentati e la realtà sottesa alla rappresentazione di quella parte del “visibi-le” considerata nel disegno (comunemente detta “paesaggio geografico”).

Per afferrare l’invisibile, ossia le strutture portanti dei fenomeni fisico-naturali, sociali, economici e culturali nelle loro reciproche relazioni occor-rerà diventare ricercatori, andando a indagare tutte le possibili fonti non cartografiche9.

Ma al di là delle finalità che ciascuna epoca storica e ciascun commit-

tente ed esecutore di carte geografiche può esprimere, la carta geografica costituisce uno strumento eccezionale per la conoscenza del territorio e del-le sue caratteristiche10.

3. Geopolitica oggi, nuove dimensioni

Dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlno11, sono spuntate in Europa

9 Aversano V., Leggere carte geografiche di ieri e di oggi. Come e perché, Gutemberg

Edizioni, 2010, introduzione. 10 AA. VV., Italia. Atlante dei tipi geografici, I.G.M., Firenze, 2004, p. 20. (Testo di-

sponibile on line al sito: http://www.igmi.org). 11 Il Muro di Berlino fu eretto dalla Germania comunista nel 1961, e per circa trent’anni

ha simboleggiato la divisione dell’Europa in due grandi blocchi contrapposti politicamente,

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decine di nuovi Stati, ognuno dei quali è portatore di proprie rivendicazioni territoriali, spesso confluite in maniera più o meno diretta nell'ambito dell'economia. Oggi le rivalità economiche, insieme a quelle religiose, non sono più le uniche motivazioni significative per far muovere intere popola-zioni. Le nazioni, infatti, combattono anche per altri valori: territori storici, territori simbolo disputati fra nazioni rivali. Sta riprendendo piede la lotta per le zone d'influenza e per il dominio dello spazio. Quest'ultimo inizia man a mano ad assumere significati e dimensioni diverse rispetto a com’era considerato nel passato: l'utilizzo d’informazioni spaziali per gestire e tene-re sotto controllo il territorio è divenuta una necessità indispensabile per gli Stati, non tanto a livello orizzontale, in quanto la ricchezza non si calcola più attraverso l'estensione del territorio, ma su più livelli: da quello vertica-le che misura la ricchezza in base alla produttività e alla tecnologia, a un livello maggiormente strategico che prende in considerazione la maggiore autonomia decisionale di diversi e più numerosi soggetti che, grazie anche alla globalizzazione dei problemi e alla frantumazione degli stati multina-zionali, possono operare in campo internazionale con un maggiore raggio d'azione12.

I motivi di questo cambiamento sono dovuti a diversi fattori, tra i quali ad esempio il fatto che ora per conseguire obiettivi politici non si ricorre quasi più esclusivamente ai mezzi militari ma si fa affidamento ad altri tipi di strumenti, considerati maggiormente strategici e funzionali al potere po-litico, come i fattori economici, finanziari o tecnologici.

Oggi la geopolitica è divenuta un centro di attrazione di campi discipli-nari diversi che hanno per oggetto la geografia non tanto fisica, quanto quella umana, quella che prende in esame l'azione dell'uomo politico che la “abita”.

Per capire un problema geopolitico, sia pure a grandi linee non basta più

evocare cause generali, il conflitto “Est-Ovest”, come prima; occorrono un

militarmente, ideologicamente ed economicamente: il blocco occidentale, con a capo gli Stati Uniti, e il blocco orientale, con a capo l’Unione Sovietica. La caduta del muro, avvenu-ta nel 1989, ha permesso la fine di questa contrapposizione e ha aperto le frontiere a tanti piccoli stati che prima erano, per forza di cose, esclusi dalle dinamiche politiche, economi-che e sociali mondiali.

12 La globalizzazione ha permesso di livellare il divario che si era venuto a creare tra i paesi industrializzati e quelli definiti “emergenti”; le innovazioni tecnologiche e, ancor di più, internet stanno permettendo la rottura delle barriere culturali, temporali e materiali tra i diversi paesi del mondo. Per un maggiore approfondimento di questa tematica si rimanda al testo preso a riferimento: T. L. Friedman, The World Is Flat – A Brief History of the Twenty-First Century, Farrar, Straus and Giroux, 2005; trad.it., Aldo Piccato, Il mondo è piatto – Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori, 2007.

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certo numero di informazioni relativamente precise e obiettive. Ecco che ci si scontra con nuove difficoltà: più che l'insufficienza della documentazione disponibile, sono la cattiva conoscenza delle concezioni antagoniste, i timo-ri reciproci inconfessati e soprattutto l'ignoranza di coloro che, certi del loro buon diritto, non sanno o non ammettono che possa esistere un'opinione contraria alla loro, anch'essa in buona fede.13

Samuel Huntington in Scontro delle civiltà14 afferma che, dopo la guerra

fredda, la maggior parte dei conflitti sarebbe stata originata non più da di-vergenze ideologiche bensì da scontri culturali. Apice di questa visione so-no stati gli attentati del 11 Settembre 200115, che hanno diviso e segnato il mondo con profonde fratture. Huntington ha riprodotto la sua tesi degli scontri culturali su una cartografia, detta “delle civiltà”, in cui la delimita-zione delle varie civilizzazioni è molto chiara e riconoscibile a un primo impatto, ma in realtà questo aspetto di estrema e immediata chiarezza na-sconde alcune imprecisioni nella ripartizione degli insiemi fatta dall’autore.

Entrando più nello specifico, e osservando bene la rappresentazione car-tografica sopra riportata, si può notare come l’area colorata in verde, defini-ta come Musulmana, sia contrapposta a quella Europea, divisa a sua volta in “occidentale” e “ortodossa”. Allo stesso modo, si può osservare come nel continente africano ci sia una forte e netta contrapposizione tra la parte nord, identificata (nella cartografia originale in verde) come Musulmana, e la parte sud, identificata (in viola) come Africana. La cartografia, inoltre, presenta una proiezione da planisfero con focus sul polo nord: in questo modo il centro visivo è la parte centrale tra Europa e Africa, ma il punto di minor distorsione è quel polo nord che permette una contrapposizione più chiara tra continente americano e continente asiatico.

13Lacoste Y., Che cos’è la geopolitica?, Dictionnaire de géopolitique, Paris, Flammai-

ron, 1995, préambule. 14 Huntington S. P., The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Orderv,

New York, Simon & Schuster, 1996; trad. it., di S. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.

15 La mattina dell’undici settembre 2001 si verificarono quattro attacchi terroristici, messi in atto da diciannove affiliati all’organizzazione terroristica di matrice islamica al-Qāeida, contro obiettivi civili e militari nel territorio degli Stati Uniti.

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Fig. 2 - Cartografia “Le civilizzazioni secondo Samuel Huntington”.

Questa rappresentazione fatta da Huntington non è esemplificativa dei rapporti e degli scontri che si verificano nel mondo: infatti, egli passa da insiemi di natura religiosa (Musulmani) a insiemi di natura culturale (Occi-dentali) o di origine geografica (Africani), ma non spiega in base a quale criterio siano identificate queste ripartizioni, che a un occhio più attento, ora, risultano confuse e imprecise.

Quello che si vuole mostrare attraverso questo esempio è che è vero che, come sostiene Huntington, rispetto al passato oggi molti conflitti sono sca-turiti da diversità ideologiche e culturali, ma osservando meglio le origini dei conflitti è altrettanto vero che in ogni epoca le lotte sono state la diretta conseguenza di un contenzioso territoriale, spesso celato dietro motivazioni culturali, religiose, ideologiche.

Rispetto al passato, dunque, oggi la situazione geopolitica è cambiata notevolmente, è più complessa, ed è sempre più dominata da un continuo flusso di emozioni divergenti: paura dell' “altro”, speranza per il divenire, timore per la mancanza di un progetto...

L'emotività sta divenendo un elemento che caratterizza enormemente le odierne società e man mano sta plasmando il mondo16.

16 Cfr. Catania G., Mondo Bastardo – Globalizzati e meticci: quale futuro stiamo co-

struendo?, Palermo,:duepunti edizioni, 2009, pp. 34-37, 72-74.

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Dalla fine degli anni '80 sono, così, iniziati ad apparire nuovi filoni d'in-dagine, branche più specialistiche della geopolitica che dovrebbero facilita-re la comprensione delle logiche alla base delle attuali competizioni mon-diali, in cui gli attori politici perseguono ciascuno le proprie finalità secon-do relazioni di forza, con o senza precise regole di gioco. Appaiono, dun-que, sempre più frequentemente termini come geoeconomia17, o come, tra i più utilizzati recentemente, geofinanza18 e geoinformazione19.

17 Termine introdotto dall’economista e geopolitico statunitense E. Lettwak per indicare

un campo di ricerca e di applicazione che ha come oggetto le strategie più efficaci per la crescita della produttività e della competitività dei paesi.

(http://www.treccani.it/enciclopedia/geoeconomia) La geoeconomia prende in analisi le strategie di ordine economico in seno alle politiche

nazionali che mirano a proteggere la propria posizione, in competizione con quelle degli altri stati concorrenti. Nel mondo industrializzato la competizione si è trasferita dal “campo di battaglia”, in cui si faceva prettamente ricorso alla forza militare per il dominio dello spa-zio e il controllo del potere, al piano economico, nettamente meno costoso e portatore di notevoli benefici. Il concetto di guerra economica viene utilizzato spesso, oggi, come stru-mento per ottenere consenso nelle opinioni pubbliche occidentali, in particolar modo quando è presentato come mezzo alternativo alla lotta militare.

(Cfr. Jean C., Manuale di geopolitica, Bari, Laterza, 2003, pp. 168-171). 18 Disciplina afferente all’ambito della geofisica, volta allo studio dei meccanismi di in-

tegrazione mondiale dei mercati finanziari, resi possibili dai processi di globalizzazione e dai progressi della tecnologia dell’informazione.

(http://www.treccani.it/enciclopedia/geofinanza) Con la geofinanza si sta, invece, palesando agli occhi dei più esperti studiosi un cam-

biamento in ambito geografico, ma ancor di più in quello economico e in quello politico, che vede al centro dell'attenzione la “scomparsa” dello spazio geograficamente inteso. La finanza, soprattutto a partire dall'ultimo ventennio, è infatti sempre più libera dai vincoli ter-ritoriali; il sistema delle reti di comunicazione e delle vie di scambio non segue più soltanto il territorio; il prodotto politico non è più costituito dalle cosiddette economie-mondo: oggi il valore del prodotto economico è dato dallo spostamento di “segni”, che rappresentano le attuali forme di ricchezza immateriale. La ricchezza, in questo modo, è sempre più demate-rializzata, circola sempre più nel “cyber-spazio” (il mondo informatizzato) e sempre meno nello spazio fisico (ad esempio attraverso le vie ferroviarie, le vie di navigazione, le auto-strade). La ricchezza ha assunto la forma di un segno informatico e le informazioni su di essa si trasformano a loro volta in ricchezza. Così, realtà e virtualità vanno via via identifi-candosi l’una con l’altra.

19 La geoinformazione rappresenta una ramificazione della geopolitica che mette in evi-denza proprio come l’informazione sia diventata, oggi, non solo ricchezza per chi la possie-de, ma un vero e proprio moltiplicatore di potenza. Il progresso dell’informazione significa il venir meno dei vincoli territoriali, il trionfo della libertà a scapito delle possibilità degli stati di poter controllare il flusso di informazioni in entrata e di quelle in uscita. Gli effetti del potere comunicativo risultano essere un’arma a doppio taglio per chi detiene il potere o per chi, per appropriarsene, fa uso delle informazioni a scapito del prossimo. Spesso questi effetti attuano meccanismi imprevedibili.

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Ci troviamo sempre più spesso di fronte alla necessità di reperire infor-

mazioni, che siano il più dettagliate possibile, oppure di fronte al bisogno di organizzare in modo logico e preciso, soprattutto a livello spazio-tempora-le, quelle che già possediamo; dobbiamo fare in modo di proteggere le in-formazioni che non vogliamo giungano in mani sbagliate oppure lottare af-finché tutti possano accedere alla stessa quantità di informazioni disponibi-li. Insomma, comunicare significa possedere un'adeguata conoscenza, tale da permettere di elaborare un messaggio che sia facilmente fruibile dal no-stro destinatario, e che ci permetta di decodificare in modo adeguato i mes-saggi che, invece, ci giungono dal mondo esterno.

Per poter comprendere adeguatamente la realtà, locale, nazionale o in-ternazionale nella quale viviamo è necessario interrogarsi sulle ragioni che hanno portato al nascere di determinate situazioni di tensione o a determi-nate prese di posizione da parte dei potenti.

È importante qui sottolineare che: Le raisonnement géopolitique aident à mieux comprendre les causes

plus ou moins anciennes de tel ou tel conflit et à voir plus claire dans le controversies qui opposent des peoples rivaux.[…]

Mais il ne suffit pas de se referrer à l’histoire pour mieux comprendre comment on en est arrive à tel conflit.

Il faut aussi se soucier du present et observer grace aux informations don’t on dispose, comment tel conflit se déroule sur le terrain,sur quell genre de territoire. Surtout si ce conflit nous concerne et nous inquiète, il faut connaître les grandes lignes de la situation present et se demander comment elle peut évaluer, quels sont les risqué qu’elle s’envenime et se propage, quells sont les scenarios possible et quells peuvent en être les con-trecoups dans des pays plus ou moins proches, compte tenu de leurs pro-blem internes20.

Affinché tutti possano raggiungere la stessa quantità di informazioni è

necessario, dunque, che queste vengano comunicate; affinché ci sia un “di-battito geopolitico” e si possa parlare di analisi geopolitica in senso stretto è necessaria un’interazione tra chi detiene certe informazioni, geografico-politiche, e la popolazione attraverso l’ausilio dei mezzi di comunicazione di massa.

L’informazione nell’ambito della geopolitica ha l’effetto di annullare le distanze, di con-

trarre i tempi e provocare emozioni o percezioni che influenzano l’opinione pubblica, non-ché le politiche e gli interessi nazionali.

(Cfr. Jean C., op. cit., pp. 175-191). 20 Lacoste Y., Atlas géopolitiques, Larousse, 2007, pp. 6-7.

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4. Geopolitica e mass media

Da sempre l’uomo cerca di comprendere il mondo in cui vive esploran-dolo, studiandolo, rappresentandolo, e da sempre queste interpretazioni e rappresentazioni sono oggetto di manipolazione o, semplicemente, soggette a criteri di analisi individuali, parzialmente obiettivi.

Il ruolo dei media è estremamente importante, soprattutto all’interno delle società odierne, in cui le modalità e i tempi della comunicazione sono sempre più dettati dalla velocità e da una continua circolazione di informa-zioni, più o meno aggregate tra loro, in grado di produrre sistemi di signifi-cazione potenti e talvolta ambigui.

In geopolitica le rappresentazioni cartografiche non sono mai ingenue, ma sono, anzi, oggetto di manipolazione e strumento di comunicazione tutt’altro che di facile fruizione. Nel corso del tempo sono, infatti, divenu-te quasi un mezzo di comunicazione di nicchia, uno strumento riservato agli specialisti in materia, soprattutto a coloro in grado di promuovere strategie territoriali come i governanti o i burocratici. Ora, però, non è più così.

Il tema delle rappresentazioni cartografiche è divenuto, infatti, estre-mamente attuale e assume una certa valenza nel momento in cui queste vei-colano specifici messaggi, che danno vita a loro volta a determinati campi di “significazione”, una volta che vengono prodotte e pubblicate attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

La geopolitica consiste nello studio delle rivalità di potere esistenti tra i diversi stati contendenti un determinato territorio; sulla scia della defini-zione di Yves Lacoste la geopolitica risulta essere fortemente connessa con i media, in quanto oggigiorno è fondamentale che ci sia comunica-zione e che si faccia informazione riguardo tematiche così importanti e complesse come quelle che riguardano le rivalità di potere o la pianifica-zione territoriale. Allo stesso tempo i potenti si servono dei media per comunicare “alla comunità” determinate situazioni geopolitiche o prese di potere che diversamente non raggiungerebbero fasce tanto ampie della popolazione.

I media sembrano, perciò, assumere un ruolo importante nella rappre-sentazione e nella comunicazione di certe realtà geopolitiche, più o meno complesse.

Ad esempio: Les révolutions islamiste ont pris depuis quelques années une ampleur

considérable, qui est favorisée d’après moi par les médias de la mondialisa-tion. Un nombre incalculable de musulman ont pu voir à la télé ou au ciné-

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ma s’effondrer les tours majestueuses du World Trade Center, prévue que l’Amérique n’est pas invulnérable21.

All’interno della società contemporanea il rapporto tra il sistema dei

media, il sistema politico e il cittadino è molto importante affinché si crei una comprensione sociale. Attraverso i nuovi canali di comunicazione si sta via via sviluppando un flusso di condivisione di informazioni che diversa-mente non sarebbe possibile.

In questo scambio, spesso, i cittadini ricoprono però il ruolo di spettatori passivi. La lettura e l’interpretazione delle informazioni ci viene, in un cer-to senso, guidata senza che noi ce ne possiamo rendere immediatamente conto; chi struttura l’informazione scrivendo un articolo, pubblicando un’immagine, quale potrebbe essere ad esempio anche una carta geografi-ca, impaginando il giornale in un certo modo e utilizzando una certa resa grafica, mira a condizionare i criteri con cui viene percepita la realtà pre-sentata.

Il tema delle comunicazioni ha avuto sempre un ruolo di grande impor-tanza nell’ambito dell’organizzazione dello Stato22. Chi possiede le chiavi dell’informazione è in possesso di un enorme potere che può gestire a van-taggio della collettività o solamente di una parte di essa: l’informazione e la conoscenza sono beni come tutti gli altri, circolano, hanno valore e danno potere a chi li controlla.

Per quanto riguarda i tempi odierni, caratteristica principale dei nuovi media è l’interattività, che offre nuovi scenari sempre aperti in cui si instau-ra, grazie al dialogo on-line, una comunicazione che va “da molti a molti”. Con internet, inoltre, non ci sono più costrizioni spazio-temporali che pos-sono fungere da barriere alla circolazione dei singoli messaggi; anzi, questo permette sempre più la diffusione della democrazia che permette maggiore partecipazione alle decisioni pubbliche e all’espressione delle opinioni col-lettive. Con la rete l’accesso alle informazioni è sempre più diretto, anche se una forma di filtro rimarrà sempre.

Sta andando creandosi una comunità interattiva che permette ai cittadini di socializzare con più facilità e di condividere idee, pareri, informazioni con un numero sempre crescente di persone, spesso di estrazione sociale e di nazionalità molto varie. Nonostante questo, però, la partecipazione dei cittadini all’interno della sfera politica e dell’amministrazione nazionale è ancora molto limitata.

21 Lacoste Y., La géopolitique et le géographe, Paris, Choiseul Èditions, 2010, p.16. 22 Innis H., Empire and Communications, Toronto, Dundurn Press, 2007; trad. it. di A.

Miconi, Impero e comunicazioni, Roma, Meltemi, 2001.

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L’influenza dei mass media sul sistema sociale è ormai un’esperienza diffusa nelle società; non è raro, infatti, il caso in cui gli individui facciano uso delle risorse informative mass mediatiche per comprendere e interpre-tare il mondo circostante e gli eventi che in questo si verificano.

I media, dunque, sono attori a tutti gli effetti all'interno dello spazio po-litico. Loro obiettivo è quello di selezionare e trattare le notizie attraverso un accurato processo di selezione delle informazioni: innanzi tutto selezio-nano gli argomenti che vengono diffusi scegliendo quelli che diventeranno notizia, e in un successivo momento, sempre in tempo reale, le elaborano a seconda del medium utilizzato. Questo processo prevede anche una fase di “tematizzazione” in cui l’argomento che è stato maggiormente trattato in un arco tempo specifico diviene un tema di approfondimento che potrebbe mobilitare l’opinione pubblica.

Una peculiare caratteristica dei mezzi di comunicazione di massa è quella di fungere da spazio di discussione. I media divengono delle “arene” per il dibattito politico offrendo ai propri fruitori nuove possibilità di parte-cipazione e comprensione della realtà, nuove possibilità di contatto con i politici e, infine, nuove possibilità di dibattito pubblico. Inoltre, rivestono l’importante funzione di critica alla politica, che presuppone una sorve-glianza sull’operato dei politici in difesa degli interessi del cittadino.

I contenuti che veicolano i media possono essere, dunque, un mezzo per la propaganda politica: uno strumento molto utilizzato per le rappresenta-zioni “politiche” sono le carte tematiche, in quanto rappresentano un inne-gabile mezzo di comunicazione molto influente sulle percezioni dei cittadi-ni.

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4. Comunicazione geopolitica e mass media Spesso si fa fatica a osservare il mondo che ci circonda e comprendere

quanto vi accade. Da sempre le informazioni che vengono trasmesse attraver-so i mezzi di comunicazione di massa vengono filtrate dalle classi dominanti per raggiungere i propri scopi, e da sempre le popolazioni lottano per avere verità più certe. Per comprendere i messaggi che vengono espressi attraverso le carte geografiche bisogna avere a disposizione una buona formazione sco-lastica di base in geografia, che abitui gli individui a una corretta decodifica del linguaggio cartografico, e una buona capacità di sintesi, che permetta di tener conto di tutte le possibili varianti implicite nelle dinamiche geopolitiche.

Inoltre, in geografia l’uso delle parole è di fondamentale importanza, come abbiamo potuto vedere nel paragrafo dedicato ai toponimi, per esem-pio. Soprattutto va ricordato quello che affermiamo da sempre: l’implicito bisogno di precisione; le parole devono definire, infatti, con la massima chiarezza tutto quello che serve a sostenere un’eventuale ipotesi presentata cartograficamente. In secondo luogo perché in questa disciplina le parole vengono usate per dare spiegazioni mirate per delle vere e proprie “pretese” da un punto di vista territoriale, dunque bisogna fare molta attenzione alla terminologia che viene utilizzata.

Nel corso degli anni, per effetto della trasformazione della carta geogra-fica in un prodotto di “massa”, il linguaggio stesso della comunicazione cartografica ha subito notevoli modifiche, divenendo più accessibile, chia-ro, rivolto a un pubblico non necessariamente erudito.

Le possibilità date dal computer, inoltre, hanno fatto nascere un nuovo tipo di carte geografiche: quelle multimediali. Attualmente ci sono molti siti che offrono ai navigatori cartografie dei paesi del mondo che non hanno una scala di riduzione fissa, ma variabile1. Infatti, in queste carte è possibile

1 Google Earth, ad esempio, è un mappamondo virtuale che permette di visualizzare le

immagini satellitari del pianeta a diversi livelli di scala.

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ingrandire una piccola porzione di territorio, fino ad evidenziare anche i più piccoli particolari. Naturalmente le carte geografiche non si trovano solo sui siti internet, ma vi sono molti supporti, digitali e non, a loro dedicati, come i software specifici2, alcuni programmi televisivi più attenti alle nuo-ve forme di comunicazione, atlanti, quotidiani e riviste specializzate3.

Negli ultimi decenni ci siamo trovati di fronte a un processo di “mediatiz-zazione” della realtà sociale, nonché della politica, che tende sempre più ad adattarsi alle dinamiche imposte oggi dai mass media divenendo, così, essa stessa pettegolezzo, spettacolo o addirittura scandalo. Si è iniziato a parlare di “teledipendenza” dovuta a un tipo di giornalismo non più letterario, ma quasi “impressionistico” che cattura l’attenzione degli spettatori attraverso imma-gini forti e notizie presentate quasi sotto forma di uno slogan pubblicitario.

La comunicazione geopolitica, invece, non è così: prende in considera-zione i luoghi, si occupa della distribuzione dello spazio tra gli stati, delle dinamiche “spaziali” politico-sociali che intercorrono tra i vari paesi con-tendenti un determinato territorio. I luoghi vengono considerati non come arene nelle quali si svolge la vita pubblica, ma come mezzi attraverso i qua-li le relazioni sociali si producono e riproducono. Il ruolo umano, come fat-tore sociale, costituisce la chiave interpretativa del pensiero geopolitico at-tuale. Non è possibile, dunque, interpretate i fenomeni geopolitici in chiave esclusivamente giornalistica perché questa ne limita gli orizzonti e ne sem-plifica le dinamiche, a causa dei suoi modi e tempi di comunicazione. La comunicazione geopolitica ha bisogno di molto di più: più spazio, un lin-guaggio più idoneo e inerente ai fatti, che non catturi l’attenzione in poche battute, ma che spieghi le vicende mostrandone le dinamiche dalla loro ori-gine al punto preso in esame, mettendo in evidenza anche le future prospet-tive. La comunicazione geopolitica non ha il solo e unico scopo di informa-re, ma anche quello di far comprendere i meccanismi alla base di un deter-minato evento, di una situazione che difficilmente sarebbe comprensibile con le sole informazioni trasmesse attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

È giusto, dunque, guardare al futuro e farlo attraverso un’interazione tra geopolitica e media che vada a favore di una comunicazione più dettagliata, che guidi il pubblico degli spettatori nel succedersi degli eventi e nello svolgersi delle dinamiche sottostanti.

L’interesse dei cittadini riguardo tematiche geografico-politiche si sta

2 Si tratta soprattutto di atlanti stradali che permettono programmazioni di un viaggio

con il calcolo della distanza, il percorso più corto, il più veloce, quello più economico. 3 http://jeanmariebalogh.ch/comunicazionevisiva/php/cartegeografiche.php (10/06/2012

- 22.23).

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facendo sempre maggiore, soprattutto negli ultimi tempi in cui le informa-zioni sono tante e trasmesse in tempo reale, alla portata di tutti. In un conte-sto di questo genere è giusto che si faccia comunicazione geopolitica e che la si elabori in un certo modo, semplice ma non semplicistico. Gli avveni-menti che si verificano nel mondo sono molto più complessi di come pos-siamo conoscerli noi a un primo livello di analisi; è bene, dunque, infor-marsi, documentarsi e andare alla ricerca delle reali dinamiche che hanno portato al loro verificarsi. Le persone hanno bisogno dei giusti mezzi per informarsi e per poter approfondire ogni tematica.

Le situazioni geopolitiche sono costituite da un intreccio e una moltepli-cità di fattori spaziali e temporali, nel passato come nel presente, che le rendono dinamiche e soggette a evoluzioni più o meno rapide.

Ce qui peut et doit être théorisé avec rigueur, c’est la démarche géopoli-

tique qui sert à comprendre des situations compliquées dont il est difficile de percevoir les tenants et les aboutissant et qui nécessitent donc de mener un raisonnement diatopique et diachronique, c’est-à-dire s’appuyant à la fois:

- sur le raisonnement géographique à différents niveaux d’analyse et sur les intersection des multiples ensembles spatiaux,

- sur le raisonnement historique qui intègre les différents temps de l’histoire et du présent,

- sur la nécessaire prise en compte des représentations plus ou moins subjectives que se font les différents acteurs à propos de chaque terri-toire, enjeu d’une rivalité de pouvoirs4.

Quando leggiamo un quotidiano o ascoltiamo un telegiornale dobbiamo,

dunque, mettere in atto un processo di analisi e comprensione che vada al di là dell’argomento trattato e di come ci viene mostrato in tale contesto, attivando un meccanismo di “decontestualizzazione mediatica” della tema-tica trattata. Dobbiamo individuarne le origini storiche e spaziali, osservan-do bene le evoluzioni in corso; inoltre, dobbiamo essere in grado di osser-vare e leggere correttamente le cartografie prodotte a riguardo per com-prendere tutte le dinamiche più o meno esplicite.

Les cartes ne sont pas seulement des outils pour tracer des frontières ou

pour soumettre militairement ou politiquement des peuples. Du simple choix de la projection du planisphère aux noms donnés aux lieux, en passant par la configuration des frontières, la carte peut, d’outil de compréhension, faire of-fice d’outil de propagande. Elle permette de créer un status quo, de légitimer la conquête ou l’empire une fois établie ou, simplement, de reconnaître et de faire reconnaître les limites d’un territoire. Ainsi les cartes ont-elles souvent

4 Papin D., 50 fiches pour comprendre la géopolitique, Paris, Bréal, 2010, p.11.

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fore de lois. Lors de réunion diplomatiques, le seul fait de présenter une carte au cours de la discussion peut suffire à arrêter le négociations5.

La carta geografica è un prodotto di sintesi culturale in cui si fa ricorso a

un linguaggio iconico, semiologico, oggettivo che richiama a forme meta-foriche radicate nella quotidianità di chi le osserva. Fare una cartografia si-gnifica dunque rappresentare graficamente delle informazioni, che la mag-gior parte delle volte sono strettamente legate con le “alte” sfere del potere, con la politica, e dunque non sono mai ingenue.

Nelle pagine che seguono verranno mostrati diversi modi di fare geopoli-tica e cartografia attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione di massa quali i quotidiani e la televisione; si potrà, inoltre, notare come una diversa cultura del territorio si traduca, nel quotidiano, in una diversa rappresentazio-ne di questo sia a livello iconografico che concettuale, in particolar modo in un medium diffuso e fortemente radicato nel territorio come la stampa. 1. Rappresentare il Mondo: commenti alle cartografie

Le carte geografiche oltre a presentare qualità come l’approssimazione e la riduzione su scala, hanno un aspetto molto importante che è bene non tralasciare: quello simbolico.

La cartografia è simbolica su due livelli: il primo, quello prettamente inerente al tratto grafico, è il livello della forma, costituito da segni conven-zionali o dall’uso di colorazioni specifiche, che rappresentano elementi fi-sici e antropici della Terra (come ad esempio i mari, le città, i fiumi, i rilie-vi, ecc.), il cui significato viene comunemente spiegato nella legenda che affianca la carta o è posta ai margini di questa. Il secondo livello attraverso il quale una carta geografica esprime il suo carattere simbolico è quello dei si-gnificati latenti che a essa sottendono, nello specifico è il livello del contenu-to. Infatti, la rappresentazione simbolica non viene resa soltanto dal tratto grafico, ma anche e soprattutto dall’uso che di questo ne fa chi produce la carta o commissiona di farla per i propri scopi comunicativi. Ai fini di una comunicazione chiara e dettagliata risulta, dunque, indispensabile una buona capacità di lettura e d’interpretazione della carta per comprendere come que-sta sia stata costruita, in modo da saper cogliere il messaggio che questa tra-smette e soprattutto in modo tale da individuare i significati sottintesi.

La scelta di utilizzare un tipo di rappresentazione cartografica piuttosto che un’altra, di rappresentare uno specifico elemento o fenomeno geografi-

5 Papin D., 50 fiches pour comprendre la géopolitique, Paris, Bréal, 2010, pag. 19.

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co che si è deciso di prendere in considerazione, non è mai casuale ma sempre ben studiata, in ogni suo passaggio.

Le carte che si andranno, di seguito, ad osservare e commentare sono uno strumento per le future6 prese di posizione, e il modo in cui vengono rappresentate non è affatto ingenuo, ma è sempre una scelta culturale, lega-ta a una storia. Le carte geografiche esprimono una determinata visione del mondo che (attenzione!) è incompleta in quanto espressione della volontà di qualcuno, in quanto rappresentazione soggettiva e parziale del Mondo.

A esempio di quanto finora affermato si andranno, ora, a mostrare le di-verse rappresentazioni dei planisferi. Le cartografie che rappresentano pla-nisferi, infatti, vengono genericamente percepite come l’oggettiva rappre-sentazione della terra: sono considerate perciò come una riproduzione su scala dell’effettiva realtà. Ma a un occhio più attento, però, non risulta così semplice la situazione: infatti ogni cartografia del Mondo può avere diverse interpretazioni, diversi modi di essere prodotta e dunque può offrire molteplici visioni della stessa che possono essere messe in dubbio e criticate7. Elemento importante da tenere sempre presente nel corso di questa analisi è che ogni planisfero ha lo scopo di proiettare su una carta bidimensionale qualcosa che nella realtà presenta una forma sferica. Metaforicamente parlando, potremmo dire che è come sbucciare un’arancia cercando di ottenere la superficie della buccia intera, facendo soltanto un taglio per poterla aprire. Così facendo, però, sarà inevitabile non tirare la buccia e dunque deformare la superficie sferica fino a renderla piatta. A sua volta, questa superficie risulterà compressa in al-tre parti: questa deformazione viene definita “distorsione8” ed esistono diversi modi di distribuirla sulla superficie della carta. È proprio questo diverso modo di distribuire la distorsione che dà origine alle diverse proiezioni.

Vediamo più nel dettaglio…

1.1. Proiezione di Mercatore

Partiamo da un planisfero “classico”, la proiezione di Mercatore9.

6 Future alla loro produzione. 7 Papin D., 50 fiches pour comprendre la géopolitique, op. cit., 2010, p. 20. 8 Le rappresentazioni cartografiche sono trasformazioni geometriche da una superficie

sferica a una piana. La distorsione che si viene a creare quando riportiamo in piano la super-ficie sferica è dovuta al fatto che alcune zone, per riprodurre in proporzione le distanze reali, devono essere dilatate più di altre e viceversa. Esistono diversi modi di distribuire questa distorsione sulla superficie cartografica, in alcuni casi si distribuisce omogeneamente, in altri a vantaggio di una parte piuttosto che di un’altra, che sarà di conseguenza più distorta.

9 Gerar de Cremer (Rupelmonde, 5 marzo 1512 – Duisburg, 2 dicembre 1594), in Italia-no Gerardo Mercatore: matematico, astronomo e cartografo fiammingo.

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Questa cartografia è una delle più diffuse in Europa, utilizzata in tutti gli atlanti scolastici e presente praticamente in ogni scuola. Nonostante sia ri-conosciuto il fatto che da questa visione del mondo i territori dell’emisfero Nord risultino sovradimensionati, è ancora molto utilizzata oggi.

Il suo difetto principale consiste nel concentrare la distorsione prevalente-mente nella parte alta e bassa della rappresentazione: più si guarda verso i po-li, più la dimensione viene distorta ingrandendosi. Inoltre, il centro della car-tografia è solitamente l’Europa, in particolar modo il meridiano di Green-wich10.

Questo planisfero fu fatto per i navigatori dell’epoca; ai tempi in cui fu-rono fatti i calcoli fu preso in considerazione il territorio più noto, più abita-to, che era il centro del mondo per Mercatore, dunque l’Europa. Fu, perciò, naturale per l’autore della carta scaricare la distorsione su una parte del mondo poco nota. Così facendo, però, si è andata a creare un dimensione normale delle terre emerse situate nell’emisfero Sud, attribuendo una di-mensione visiva estremamente ridotta di luoghi come il Sudamerica, l’Afri-ca, in particolar modo se paragonati al Canada e/o alla Groenlandia.

1.2. Proiezione di Peters

In contrapposizione alla forma che Mercatore dà alle terre emerse, la

10 Linea di longitudine passante attraverso l’Osservatorio di Greenwich in Inghilterra,

corrisponde al circolo massimo meridiano avente per convenzione longitudine pari a zero.

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proiezione di Peters11 rappresenta il Mondo rispettando sia gli angoli sia la proporzionalità delle superfici.

Entrando nel dettaglio possiamo vedere che la carta presenta una distor-

sione in modo alternato, ma omogeneo; si basa su una proiezione cilindrica equivalente12 e utilizza come meridiano zero di riferimento, non più quello di Greenwich, che pone l’Europa al centro del Mondo, ma, la linea di cam-biamento di data che passa in mezzo allo stretto di Bering; inoltre restitui-sce a ciascun paese la sua precisa dimensione a livello territoriale. Ma l’esatta proporzione delle superfici va a scapito dell’esattezza delle distanze facendo assumere ai continenti una forma allungata.

Questa cartografia viene anche definita “vendetta del sud” in quanto, da un punto di vista d’impatto visivo, l’emisfero Sud appare più importante rispetto alla visione di Mercatore (che dà una posizione dominante all’emi-sfero Nord) che molti paesi dell’emisfero Sud non accettavano in quanto percepivano minimizzata la loro importanza.

11 Arno Peters (Berlino, 22 maggio 1916 – Brema, 2 dicembre 2002). È stato uno storico

e cartografo tedesco, si interessò in particolare alle problematiche dell'equità economica e politica per tutte le popolazioni mondiali. È celebre per aver creato una nuova proiezione cartografica della terra, denominata appunto “Carta di Peters”.

12 Una proiezione si definisce equivalente quando sono proporzionali le superfici rappre-sentate.

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1.3. Proiezione di Eckert13

Questo tipo di proiezione permette una grande precisione ed è piacevole da vedere, in quanto rispetta equamente le proporzioni dei territori. In que-sta cartografia l’Europa non è altro che uno dei centri del Mondo.

Mantenendo con precisione l’equivalenza delle aree, questa proiezione viene sempre più usata oggi per realizzare carte del mondo o, comunque, fondi cartografici sui quali produrre arte tematiche.

1.4. Proiezione di Postel: “visione polare”

Questa proiezione scardina completamente gli abituali schemi mentali, prodotti a partire dal planisfero di Mercatore, secondo cui si “legge” il Mondo da sinistra verso destra: partendo, a sinistra, dall’America andan-do verso l’estremità destra dove ci sono la Russia Asiatica, la Cina, la Nuova Zelanda. Al centro di questi due “schieramenti14” troviamo l’Eu-ropa.

La proiezione di Postel, invece, ci fa vedere che le due ripartizioni (Usa/Urss), nel periodo della guerra fredda si scontravano frontalmente, con nel mezzo il polo Nord. nel periodo della guerra fredda si è sempre avuta l’immagine del conflitto nucleare con missili balistici che andavano

13Max Eckert (Chemnitz 1868 - Aquisgrana 1938), geografo e cartografo tedesco, è stato

uno dei maggiori cultori della cartografia da lui considerata come scienza autonoma, basata su conoscenze matematiche, linguistiche, artistiche, ecc.

14 In questo passaggio si fa riferimento al linguaggio utilizzato nel periodo della Guerra Fredda, che vede schierate e contrapposte le due superpotenze: Usa e Urss.

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da una parte all’altra attraversando i cieli dell’Europa. Nella realtà dei fatti la minaccia nucleare europea era equivalente ad altri scacchieri planetari, uno tra i tanti.

Questa rappresentazione polare, seppur distorcendo l’emisfero Sud, ci mostra più vicine cose che solitamente consideriamo e siamo abituati a ve-dere come lontane, e ci è estremamente utile per una nuova e più completa visione dei rapporti geopolitici mondiali.

1.5. Proiezione cinese

La rappresentazione del planisfero cinese è molto interessante in quanto ci mette a contatto con un diverso modo di osservare il mondo. Infatti, in questa cartografia possiamo notare come il centro non sia l’Europa, bensì il mondo pacifico dove la Cina ne è quasi il centro.

Nei nostri planisferi (ad esempio quello di mercatore) l’Oceano Pacifico

è sempre posizionato in fondo a destra, questa cartografia, invece, dà la mi-sura della reale grandezza di questa distesa d’acqua, due volte più grande dell’Oceano Atlantico.

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1.6 Proiezione giapponese

La visione del Mondo che si ha attraverso il planisfero giapponese non è quella classica a 360°, ma una veduta più ampia a 540°: la carta, infatti, presenta due continenti americani, posti ai due margini estremi.

In questo modo si ha un’altra modalità di mostrare la rotondità, la conti-

nuità della Terra. Si può immaginare di “viaggiare” andando dalla costa oc-cidentale Sudamericana attraverso tutto il Mondo per arrivare dall’altra par-te sulla costa orientale sudamericana.

Questa cartografia permette, dunque, uno spostamento visivo sferico,

completo, e mostra che l’area desertica più vasta al mondo non è il Sahara, ma lo spazio di mare del Pacifico che va dalla costa Sudamericana all’O-ceania.

Un altro aspetto originale di questo planisfero è quello di rendere visibili

i fondali marini mettendoli in rilievo: il Giappone è un arcipelago situato su grandi fosse sottomarine, è dunque normale per un popolo di marinai e na-vigatori, nonché abitanti di zone dove le problematiche sismiche sono fre-quenti, dare importanza a un aspetto importante come le distese marine, la parte più vasta del mondo.

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1.7. Proiezione australiana

Questo planisfero non è certo attendibile da un punto di vista pedago-gico-educativo della geografia, non ha una valenza scientifica, ma se non altro è bene osservarla in quanto mette chiaramente in evidenza il fatto che la posizione della Terra è arbitraria, è una convenzione data dalla consuetudine, ormai consolidata, di mettere il Polo Nord in alto e il Polo Sud in basso.

Con questa cartografia gli australiani, da sempre rilegati ai margini dei planisferi, vogliono rinforzare l’impressione della centralità dell’Austra-lia.

Una visione inusuale come questa non è necessariamente giusta o sba-gliata, il posizionare un continente piuttosto che un altro al centro della car-ta è una decisione soggettiva, attuata per il volere di un cartografo, e dun-que può non essere universalmente condivisa.

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2. Il caso La Repubblica/Le Monde

Nella seguente analisi verrà messo sotto la lente d’ingrandimento il ruo-

lo che hanno “giocato” i media nella presentazione e nella rappresentazione del conflitto in Libia15. In particolar modo saranno messe a confronto le rappresentazioni cartografiche, inerenti il contesto libico, di due grandi quotidiani europei: l’italiano La Repubblica e il francese Le Monde.

La guerra civile libica ha avuto un’eco molto forte all’interno del siste-ma dei mass media, tanto che per tutto il 2011 i maggiori quotidiani a livel-lo mondiale (cartacei e digitali, compresi anche i telegiornali) hanno tratta-to, chi in maniera più approfondita chi meno, questo argomento. Durante tutta la guerra civile si è dibattuto molto sul ruolo che in essa ha avuto l’informazione. Dai giornalisti che erano presenti a Tripoli, e quindi “co-stretti” sotto lo stretto controllo del regime, a quelli che seguivano le azioni dei ribelli. Su di loro pesano le accuse di aver divulgato notizie false16. Inoltre i media hanno avuto la capacità di mostrare la situazione in modo poco chiaro: non hanno descritto i fatti, i luoghi e/o i personaggi; il più del-

15 Tutti i dati riguardanti il conflitto Libico sono stati estratti dalla tesi di Laurea Magi-

strale in Informazione e Sistemi editoriali (intitolata: Dall’informazione alla rappresentazio-ne cartografica: il caso di La Repubblica e Le Monde), Università degli Studi di Tor Verga-ta, della Dott.ssa Fabiola Chilelli.

16 Lofoco N., Il controverso ruolo dei media nella crisi libica, consultabile al sito: http://www.medarabnews.com/2012/02/03/il-controverso-ruolo-dei-media-nella-crisi-

libica/ (11/06/2012 – 22:21)

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le volte si sono limitati a far uso di slogan “accattivanti” e d’immagini reto-riche amplificando le violenze che si stavano consumando nel territorio og-getto dell’attenzione17.

Ma prima di continuare a fare un’analisi su come hanno “lavorato” i media, facciamo un passo indietro e vediamo in concreto cosa è successo nel territorio del conflitto18:

la guerra civile libica ha visto opporsi le forze lealiste di Mu’ammar Gheddafi e quelle dei rivoltosi, riunite nel Consiglio nazionale di transizione (d’ora in poi CNT);

gli scontri hanno risentito molto delle rivolte sviluppatesi nei Paesi vicini (nei quali il fattore di innesco si è rivelato essere l'aumento del livello dei prezzi dei generi alimentari) soprattutto per via dell'utiliz-zo da parte delle giovani generazioni di mezzi di informazione come internet, più difficilmente controllabili dalla censura dei regimi;

Gheddafi, prima dello scoppio della rivoluzione, poteva far leva su al-cuni elementi basilari del potere nel paese: un’ingente politica di sus-sidi statali, il massiccio ricorso alla repressione del dissenso e la tacita intesa con le tribù più refrattarie al suo potere. Il regime tuttavia non è riuscito a porre rimedio al grosso nodo della disoccupazione (riguar-dante il 30% della popolazione), tanto che il fallimento dei progetti di sviluppo e di liberalizzazione, il crescente malcontento, reso più inten-so dall'arrivo in massa di immigrati dall’Africa subsahariana, hanno dato origine a una situazione di forte tensione nel paese;

la genesi e l’evoluzione del moto di protesta e della susseguente re-pressione sono stati accentuati dalla forte divisione interna alla Libia, in cui possiamo osservare: una marcata frammentazione in tribù (se ne contano 140, tra cui 30 le maggiori), talvolta ostili all’unità della nazione; lo iato molto forte tra la parte tripolitana e del Fezzan, fedeli al leader, e quella cirenaica, “storico focolare dell’opposizione al re-gime di Gheddafi”;

la scintilla della rivolta è stata l'invito alla sollevazione diffuso sulla rete dai blogger, in concomitanza con le recenti manifestazioni in corso nel mondo arabo, per il giorno 17 febbraio 2011 (“giornata del-la collera”). I giovani libici hanno aderito in gran numero a questo invito.

17 Troiano L., Nella guerra in Libia la prima vittima è l’informazione. Le bugie dei me-

dia e il conflitto dimenticato, http://geopoliticamente.wordpress.com/2011/06/28/nella-guerra-in-libia-la-prima-sconfitta-e-linformazione-le-bugie-dei-media-e-il-conflitto-dimenticato/ (11/06/2012 – 21:55)

18 Tratto da Wikipedia. http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_civile_libica (10/06/2012 - 10:57).

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gli scontri si sono accesi e hanno continuato per mesi all’interno di tutto il territorio libico;

il 21 ottobre 2011 cade la città di Sirte (dopo un assedio di 2 mesi), nella quale Mu’ammar Gheddafi, dopo aver lasciato Tripoli, si era asserragliato dal 21 agosto 2011. Risultando vana ogni difesa, Ghed-dafi tenta di guadagnare il deserto per continuare la lotta ma il suo convoglio viene attaccato da parte di aerei francesi NATO. Raggiun-to da elementi del CNT, egli viene catturato vivo ma subito linciato.

Gli ultimi momenti di vita del Ra’is libico furono impressi in nume-rosi video dei presenti all'avvenimento e visualizzati in numerosi te-legiornali e siti internet.

Dall’analisi dei media è emerso che il conflitto libico è stato caratteriz-

zato da una massiccia campagna di propaganda organizzata sia dal colon-nello Gheddafi che dai ribelli. Allo stesso tempo è stato difficile stare sul posto, vedere e raccontare i fatti. Queste operazioni basilari per il lavoro giornalistico sono state, infatti, facilmente ostacolate dal controllo della propaganda di regime. Ma allo stesso tempo, anche i giornalisti che stavano nelle zone occupate dai ribelli hanno subito il peso della propaganda, con un fattore negativo in più: mentre quelli che stavano a Tripoli hanno de-nunciato le ingerenze del regime e di conseguenza le informazioni precon-fezionate, quelli che stavano dall’altra parte (a Bengasi) hanno veicolato le informazioni che gli venivano date senza fare alcun atto di coscienza e sen-za denunciare la verità19. 2.1. La cartografia del conflitto libico nei quotidiani La Repubblica e Le Monde

Nel paragrafo seguente si farà una breve rassegna di alcune carte geo-

grafiche realizzate e pubblicate dal quotidiano italiano La Repubblica e dal francese Le Monde, cercando di mettere in evidenza non soltanto i signifi-cati e i significanti individuati ed individuabili, ma anche il metodo di rap-presentazione utilizzato.

Quando si fa riferimento alla cartografia prodotta nel quotidiano italiano

19 Chilelli F., “Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La

Repubblica” e “Le Monde”, tesi di laurea magistrale in “Informazione e sistemi editoriali”, Università di Roma “Tor Vergata”, Facoltà di Lettere e Filosofia, A.A.2010/2011, pp.131-132.

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si dovrebbe innanzitutto parlare di infografica20. L’infografica può essere considerata come un derivato delle tradizionali forme di rappresentazione cartografica, accorpa in sé tutto ciò che non è testo: carte geografiche, gra-fici, tabelle, diagrammi, fotografie, ecc. Le immagini sono sia calcolate che prodotte tramite computer; inoltre sono elaborate su palette grafiche elet-troniche. Questa tecnica permette di ottenere immagini spesso realistiche in 2D o 3D, animate o fisse21.

Nella redazione di La Repubblica sono presenti cinque grafici che si oc-

cupano di infografica e parallelamente di fotografia; dunque diciamo che non si è realizzata ancora una vera e propria autonomia di questa “materia” che è tutt’ora accorpata con altri settori, sempre inerenti alle arti grafiche in senso stretto. Gli infografici si occupano essenzialmente di procurarsi delle “basi” cartografiche, partendo da immagini ad esempio di Stati o Continen-ti, già definite su cui andranno poi ad inserire dei pittogrammi adatti al tipo di informazione da veicolare. La Repubblica produce maggiormente carte come supporto ad articoli riguardanti questioni economiche e di politica estera. Per le questioni riguardanti la politica interna la produzione è limita-ta e si tratta principalmente di statistiche legate a fenomeni come le elezioni politiche.

Come emerge dall’analisi svolta da Chilelli22, gli elementi essenziali che vanno presi in considerazione per la produzione e la successiva analisi delle carte geografiche sono: lo spazio, il tempo e il pubblico.

Nel quotidiano La Repubblica la decisione dello spazio da dedicare alla rappresentazione cartografica è a discrezione del redattore e del grafico: questi si accordano stabilendo la grandezza della carta in base alla maggio-re o minore corposità e al contenuto del testo a cui è associata. Per quanto riguarda l’elemento temporale, invece, facendo una breve analisi della co-municazione mass mediatica in ambito geopolitico (del quotidiano La Re-pubblica), si può notare come questo influisca negativamente sulla buona riuscita dell’articolo, in quanto i tempi di produzione della cartografia sono

20 L’infografica sostanzialmente è un particolare modo di fare comunicazione che si ba-

sa sull'illustrazione come mezzo principale dell'informazione. L’infografica è una tecnica nata dall’incrocio tra informatica e arti grafiche. Consente di tradurre una molteplicità di informazioni in un’unica rappresentazione grafica. Le immagini sono l’informazione. Attra-verso questa pratica di sintesi possiamo avere tre vantaggi: cogliamo molte informazioni in un colpo d’occhio; la grafica rende intuitivi concetti complessi; le immagini sono un suppor-to alla conoscenza completamente indipendente dalle lingue, di conseguenza un sostegno per una società multiculturale e multilinguistica come la nostra.

21 Infografica: http://it.wikipedia.org/wiki/Infografica (03/06/2012 - 15:31). 22 Chilelli F.,“Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La Re-

pubblica” e “Le Monde”, op. cit.

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più dilatati rispetto a quelli di pubblicazione dell’articolo stesso, inoltre le carte vengono prodotte da una singola persona, il che rende tutto più com-plicato. La velocità che caratterizza il mondo dell’informazione oggi non va di pari passo con l’analisi e le rappresentazioni cartografiche che richie-dono uno studio e un’attenzione maggiori. Il pubblico, infine, è l’elemento basilare per la buona riuscita di una carta: se non si tiene conto del target a cui ci si rivolge e, a maggior ragione del grado di cultura dello stesso, il messaggio sotteso alla rappresentazione cartografica non sarà mai reso noto secondo le intenzioni dell’autore.

Per quanto riguarda l’Italia:

Il lettore, infatti, molto spesso non è in grado di decodificare un mes-saggio cartografico, concependo una carta soltanto come un bel disegno. Non va poi dimenticato che gli stessi addetti ai lavori non hanno sufficienti competenze geografiche. Il risultato è che le carte pubblicate dal quotidiano La Repubblica, nella maggior parte dei casi, non sono rispondenti agli obiettivi comunicativi della cartografia23.

Il rischio che si corre, in questo specifico caso, è quello di produrre car-

tografie “attraenti” volte a scaturire “stupore” o semplicemente a catturare l’attenzione del lettore, incuriosendolo mediante il sapiente (non sempre) uso di colori e pittogrammi e rendendo così più dinamica la lettura dell’ar-ticolo in oggetto.

Per quanto riguarda, invece, il quotidiano Le Monde attraverso una bre-ve scorsa delle sue pagine si può notare che, a differenza de La Repubblica, qui l’uso della cartografia è molto più sapiente. Le Monde, infatti, ha nella sua redazione una sezione esclusivamente dedicata alla cartografia indipen-dente, da più di venti anni, da quella puramente grafica e in cui vi lavorano professionisti del settore specializzati in cartografia e analisi di situazioni geopolitiche. In Francia la cultura geografia è molto più sviluppata e in continuo fermento rispetto all’Italia (in cui la geografia è stata ridotta o ad-dirittura eliminata dai percorsi di studi scolastici); nel paese transalpino la cartografia è concepita non come un supporto aggiuntivo, ma come un vero e proprio medium con cui fare informazione e soprattutto formazione. At-traverso le carte geografiche, infatti, si possono veicolare molteplici mes-saggi ma ancor di più conoscenza. Tant’è vero in Francia vi sono pubblica-zioni editoriali e programmi televisivi interamente incentrati sulla carta geografica che hanno avuto e hanno tutt’ora un incredibile successo di pubblico.

23 Chilelli F.,“Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La Re-

pubblica” e “Le Monde”, op. cit., p. 128.

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Tornando al caso di Le Monde si può notare come questo produca carte geografiche per ogni articolo che, per complessità di contenuto o rilevanza socio-politica, necessita di una rappresentazione cartografica. Tutte le in-formazioni che arrivano agli autori delle carte vengono filtrate, in modo ta-le da far emergere l’informazione più rilevante e interessante per la carta da produrre. Successivamente a questa prima fase di “scrematura” vi è una fa-se di discussione dell’argomento che verrà trattato e si espongono delle proposte a riguardo: ad esempio si discute su quale informazione trasmette-re e in che modo si possono far emergere maggiori informazioni attraverso l’uso della carta. Si tratta di un vero e proprio lavoro di costruzione e coo-perazione per la corretta rappresentazione dell’informazione trattata.

Per quanto riguarda i tre elementi che devono essere presi in considera-

zione per l’analisi e la produzione di carte geografiche,

Anche Le Monde deve adattare le carte in base agli articoli. Tra il gior-nalista che veicola le informazioni attraverso il testo e i cartografi che le veicolano mediante la rappresentazione, però, si instaura un rapporto di aiu-to reciproco. Il vincolo dello spazio diventa così la difficoltà di riuscire a evidenziare, in maniera immediata, l'informazione rilevante. Per raggiunge-re tale obiettivo la scelta dei colori da utilizzare riveste un'importanza parti-colare.

La ristrettezza di tempo, nel quotidiano francese, influisce sulla produ-zione delle carte; non tutti i giorni, infatti, vengono realizzate carte.

Anche per Le Monde il pubblico rappresenta un vincolo, ma non in egual misura. La Francia, infatti, ha una lunga e affermata cultura geografi-ca. Sicuramente il testo continua ad avere una certa priorità all'interno dell'editoria rispetto all'informazione cartografica. La cartografia è un tipo di informazione che non tutti comprendono, ma i giovani, attraverso la scuola, sono in grado di leggere una carta. Ciò fa ben sperare rispetto al fu-turo della cartografia in Francia24.

2.2. Carte sul conflitto in Libia dei quotidiani “La Repubblica” e “Le Monde”

Dopo una breve analisi del contesto di produzione delle carte geografi-

che nei due quotidiani, si andrà ora ad analizzare nel concreto come vengo-no rappresentate le informazioni attraverso l’uso delle carte.

24 Chilelli F.,“Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La Re-

pubblica” e “Le Monde”, op. cit., p. 127.

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Nelle pagine che seguono non verrà fatto tanto un paragone di forma e contenuto tra La Repubblica e Le Monde, quanto verrà portata avanti un’a-nalisi approfondita delle cartografie prodotte in modo da rendere più intui-tivo quanto detto finora.

Cartografia 1. Cartografia dell'articolo “Tra guerra e pace l’incerto destino del mare no-strum” di Predrag Matvejevic’ del 21 marzo 2011, La Repubblica.

Questa carta offre un'immagine del Mediterraneo che vuole descriverlo,

attraverso alcuni elementi caratterizzanti, nel suo “essere”. L’autore dell’ar-ticolo che accompagna la cartografia parla del Mediterraneo in questo modo:

Il passato del Mediterraneo ha visto e vissuto numerosi periodi di pace e

di guerra. […] Anche nella nostra epoca ci siamo dovuti confrontare con varie fratture

che si trasformavano in tensioni o addirittura in conflitti bellici: Maghreb, Mashrek, Spagna, Grecia, Cipro, Balcani, ex-Jugoslavia, Palestina, e via di seguito... L'immagine che da tempo ci offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua riva settentrionale presenta un ritardo rispetto al Nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quelle europee. Tanto a Nord quanto a Sud, l'insieme del bacino si lega con difficoltà al retroterra continentale. In alcuni momenti non fu davvero possibile considerare que-sto mare come un "insieme" senza tener conto della fratture che lo divide-vano, dei conflitti che continuano a dilaniarlo. L'Unione europea si è com-piuta senza tener conto delle specificità del Mediterraneo. Nasceva un'Eu-ropa separata dalla "culla dell'Europa". […]

I parametri con i quali si osservano dal Nord europeo il presente e l'av-venire del Mediterraneo non concordano da tempo con quelli del Sud. Le griglie di lettura sono state molto diverse. Ai nostri giorni, già prima che

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accada questa nuova guerra in Maghreb e in Mashrek, le rive del Mediter-raneo non avevano in comune che le loro insoddisfazioni. […]

Questo nostro mare assomiglia, già da tempo, ad una frontiera marittima che si estende dal Levante al Ponente separando l' Europa dall' Africa e dall' Asia Minore. L'identità dell'essere vi rimane tesa e sensibile, invece l'identi-tà del fare riesce con difficoltà a compiersi e soddisfarsi. Le decisioni rela-tive alla sorte del Mediterraneo sono state prese, tante volte, al di fuori di esso o senza di esso25.

Questa cartografia fa da sfondo ad un articolo che, ripercorrendo la sua storia, descrive il Mar Mediterraneo attraverso i territori che lo compongo-no e i problemi che fino ad ora lo hanno caratterizzato. La visione che vie-ne data da questa immagine è, come il testo stesso, tutt’altro che rassicuran-te. Viene mostrato un Mediterraneo in crisi, colpito dalle guerre, dai pro-blemi dell’immigrazione, da incertezze e confusione. La cartografia in sé non è esattamente esplicativa di questi sentimenti, piuttosto le immagini sono lì utili a mostrare più concretamente la realtà descritta, ma non produ-cono alcun miglioramento alla “narrazione”, non c’è un’aggiunta d’infor-mazioni significativa che invece potrebbe esser resa attraverso l’ausilio gra-fico. Si tratta di una cartografia tematica prettamente descrittiva, che mostra lo stato delle cose, è in un certo senso statica: mostra una realtà ma non da informazioni ulteriori attraverso cui produrre una presa di posizione o un sentimento di forte inquietudine per il futuro. Ciò che viene mostrato è si preoccupante, ma si potrebbe dire che “sono cose che già sappiamo”.

Cartografia 2. Cartografia dell'articolo “Il contrabbando dai Balcani al Ciad così le mafie aiutano Tripoli” di Carlo Bonini del 25 marzo 2011, La Repubblica.

25 P. Matvejevic’, Tra guerra e pace l’incerto destino del mare nostrum, La Repubblica,

21 Marzo 2011, p. 1.

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Questa cartografia è stata realizzata per accompagnare un articolo incen-trato sul mercato nero delle armi belliche. Un argomento questo (il con-trabbando) estremamente importante, che caratterizza le travagliate rive del Mar Mediterraneo. Nell’articolo l’autore spiega che l’Alleanza Atlantica ha dovuto annunciare il blocco navale del regime libico. Fonti provenienti dal-lo spionaggio militare hanno rivelato che:

«Gheddafi sta lottando per la sua sopravvivenza e dispone di ricchezze

immense. Un uomo straordinariamente ricco che lotta per la sua sopravvi-venza è disposto a pagare qualsiasi cifra per armi che posso allungargli la vita e tenere il Paese in una condizione di guerra civile prolungata. È quello che Gheddafi sta facendo. Il prezzo al mercato nero delle armi leggere - fu-cili d'assalto, pistole, munizionamento - si è decuplicato. I broker dei Bal-cani - serbi, albanesi, montenegrini - sono in piena attività e le rotte adriati-che sono aperte». Nonostante la Libia sia un paese che “può contare su rotte di approvvi-

gionamento attraverso i suoi deserti meridionali (ai confini con Ciad e Su-dan) e occidentali (Algeria), resta la via maestra26”. La cartografia sopra ri-portata mostra dunque il mercato clandestino delle armi belliche: l’uso del-le frecce non è immediatamente chiaro ed esemplificativo di quanto viene, invece, espresso a parole nell’articolo. Inoltre attraverso l’uso dei colori si cerca di evidenziare i due bacini a cui Gheddafi fa capo: da una parte in rosso troviamo le vie terrestri (attraverso il deserto) Marocco, Ciad e Su-dan; mentre in blu sono rappresentate le vie di commercio marittime, Mon-tenegro, Albania e Paesi dell’ex-Yugoslavia. Tali paesi “della ex-Yugosla-via e l’Albania si presentano come pozzi apparentemente senza fondo. So-no freschi di guerre. Hanno reti di traffico che si sono consolidate nel tem-po e che costituiscono il core business di potentissime e violentissime ma-fie. Sono da sempre il primo mercato delle industrie belliche russa e cinese e dunque collettori privilegiati della merce che in queste settimane può soddisfare la domanda Libica”.

La carta nonostante sia sufficientemente intuitiva non è del tutto esplica-tiva, se accostata all’articolo da cui trae origine. Infatti, forse andava realiz-zata una seconda cartografia in cui mostrare delle ulteriori notizie che sono riportate nel testo:

«In questo momento ‒ spiega ancora la fonte della nostra intelli-

gence militare ‒ la porta egiziana è particolarmente permeabile. E,

26 Bonini C., Il contrabbando dai Balcani al Ciad così le mafie aiutano Tripoli, La Re-

pubblica, 25 Marzo 2011, p. 4.

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per altro, assorbe non solo le rotte di traffico dai Balcani, ma anche quella che parte dalla Siria». Già, perché Israele, e con lei Washington so-no convinte che Damasco non sia fuori dalla partita del contrabbando di armi con il Colonnello. Che la rotta di armi per la Jamahiryia combaci oggi con quella storicamente utilizzata dai siriani per rifor-nire, sempre via Egitto, i palestinesi della striscia di Gaza. E che l'o-rigine dell' armamento sia iraniano. Per sostenerlo, in queste ultime settimane, le intelligence americana e israeliana hanno incrociato due circostanze. La prima: il passaggio dello stretto di Suez, a fine febbraio, di due navi da guerra iraniane (una fregata e una nave ap-poggio), ufficialmente invitate a partecipare a esercitazioni congiun-te nelle acque territoriali siriane. La seconda: il recente abbordaggio israeliano in acque internazionali del mercantile “Victoria”, con la scoperta di un carico di 2.500 granate di mortaio, 75 mila proiettili e sei missili antinave. «Armi destinate ai militanti palestinesi», ha so-stenuto Israele. E tuttavia caricate nel porto siriano di Latakia e di-rette in Egitto, la nuova porta del contrabbando verso la guerra di Libia. Questa cartografia in sé risulta incompleta e, ancora una volta, come

nella precedente analisi viene mostrato un dato che è quello attuale, statico, non mettendo in evidenza le evoluzioni che ci sono state e gli sviluppi futu-ri. Il conflitto in Libia è molto più complesso di come viene qui rappresen-tato.

Cartografia 3. Cartografia dell'articolo “Un milione di barili e accordi con l’Occidente. Bengasi ora vuole esportare il suo petrolio” di Eugenio Occorsio del 6 aprile 2011, La Re-pubblica.

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Questa carta mostra le risorse energetiche della Libia e come sono di-stribuite sul territorio. Nella rappresentazione possiamo individuare i gia-cimenti, gli oleodotti e i gasdotti. Si possono osservare anche gli impianti di liquefazione dei gas, i terminal per l'esportazione e le raffinerie. La decodi-fica del messaggio che la carta vuole veicolare non è immediata ma “inqui-nata” dalle eccessive informazioni rappresentate. Come sottolinea Fabiola Chilelli nella sua analisi, “la scelta di inserire le città controllate dai ribelli, quelle controllate dal regime, e soprattutto, gli scontri o i bombardamenti della coalizione, non ha alcuna finalità rispetto all'obiettivo della carta. Tut-te queste informazioni determinano la difficoltà di lettura del messaggio27”. Già perché leggendo attentamente l’articolo, a cui la cartografia fa riferi-mento, ciò che in un certo senso si vuole mettere in evidenza è che il “mi-lione di barili di greggio (il Brent è salito appunto a 122,7 dollari ieri), rap-presenta la prima esportazione di petrolio libico da tre settimane, la prima in assoluto realizzata dai ribelli” e dunque il potere che la Libia può ottene-re rispetto all’Occidente se un’adeguata ricostruzione glielo permettesse. Ma soprattutto mostra, anche se poco intuitivamente, la guerra che c’è in Libia per i giacimenti di petrolio. In un certo senso il contenuto della carta è coerente con quello del testo, ma la rappresentazione dello stesso risulta piuttosto caotica. L’uso dell’iconografia non è così sapiente come invece sembra esserlo nella cartografia che segue…

Cartografia 4. Cartografia dell'articolo “Libye: la guerre pour le pétrole aura-t-elle lieu?” di Nicolas Bourcier del 25 marzo 2011, Le Monde.

Questa carta, come la precedente, rappresenta la distribuzione degli o-

27 Chilelli F., “Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La

Repubblica” e “Le Monde”, op. cit., p. 131.

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leodotti libici e le aree di conflitto, in cui si producono gli scontri tra le truppe fedeli a Gheddafi e le forze dell’opposizione. Nonostante questa car-tografia abbia un contenuto pressoché identico a quello della cartografia precedente, prodotta dal quotidiano La Repubblica, la sua lettura appare più intuitiva, soprattutto grazie a un uso iconografico e della didascalia molto preciso e coerente con la realtà. La scelta della scala e la scelta della resa grafica adottata per realizzare questa carta è più chiara e “pulita”, va dritta al punto della questione senza prendersi in considerazioni e informazioni superflue e fuorvianti.

Cartografia 5. Cartografia dell'articolo “La crise arabe propulse le baril de pétrole à 120 dollars” di Jean-Michel Bezat del 25 febbraio 2011, Le Monde.

Questa cartografia rappresenta le riserve e la produzione petrolifera esi-

stente in Libia. L’articolo pubblicato insieme a questa carta racconta qual è la situazio-

ne petrolifera all’indomani delle rivolte arabe. Il prezzo del petrolio è in continua crescita e, soprattutto in Libia, molti terminali di esportazione so-no stati chiusi. La situazione petrolifera è quindi delicata. Ciò che con que-sta carta si vuole mettere in risalto è che la complicata situazione politica non rischia, almeno per ora, di mettere in pericolo gli approvvigionamenti verso l’Europa, l’America o l’Asia. La Libia non è vitale per la loro sicu-rezza energetica. Sicuramente è vero. Paragonare la crisi alla quantità di pe-trolio però è fuorviante. La Libia infatti su scala mondiale non rappresenta altro che il 3,3% delle risorse petrolifere, ciò non toglie però che per l’Africa rappresenta un’importante riserva.

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L’obiettivo di questa cartografia è limitare la paura? Le proposte più rassicuranti appaiono allora Arabia Saudita e Iran e

Iraq. La vera minaccia per la sicurezza energetica di molti Paesi sarebbe quindi una destabilizzazione di questi28.

Ci troviamo qui di fronte a una cartografia tematica estremamente in-formativa. La base carta fa esclusivamente da sfondo alla rappresentazione rendendo più vivo e visibile il messaggio che la veste. La grafica è vivace, intuitiva: attraverso le gocce di maggiore o minore grandezza viene espres-so il dato inerente alla quantità (in percentuale), a livello mondiale, di barili di petrolio in riferimento all’anno 2009, mentre con il simbolo delle monete si vuole rappresentare la percentuale in milioni di dollari della produzione totale, mondiale, di petrolio per il 2009. Anche l’evidenziazione in verde dei territori interessati è molto intuitiva. Risulta difficile dunque non poter leggere una cartografia simile, anche qualora non si avessero delle adeguate basi in geografia.

Cartografia 6. Cartografia dell'articolo “Libye: quels sont les risques économiques pour l'Europe?” di Philippe Ridet del 25 febbraio 2011, Le Monde.

Questa carta si compone di tre parti: in quella centrale l’elemento grafi-

co di maggiore rilievo sono gli assi, che rappresentano le esportazioni di petrolio, che collegano il territorio libico ad altri Stati, soprattutto europei; a sinistra è rappresentata la dislocazione sul territorio libico delle risorse petrolifere; mentre a destra si possono vedere nel dettaglio le quantità delle importazioni libiche che provengono dall’Europa.

28 Chilelli F., “Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La

Repubblica” e “Le Monde”, op. cit., p. 133.

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Leggendo l’articolo a cui fa riferimento, possiamo notare che la carta rappresenta le importazioni e le esportazioni di petrolio libico. Leggendo la carta di sinistra possiamo notare che le esportazioni di petrolio libico rap-presentano il 2,2% delle esportazioni mondiali e le sue riserve rappresenta-no circa il 3,3% rispetto a quelle di altri produttori, classificandosi così al 18º posto nella produzione mondiale. Tra il 2005 e il 2009 la Libia ha ac-cresciuto la sua dipendenza dall’Europa, in particolare dall’Italia. Come si può osservare nel grafico a destra la Libia importa macchine e mezzi di tra-sporto, olio combustibile e lubrificanti, prodotti manifatturieri. Una lettura poco attenta della rappresentazione cartografica potrebbe suscitare a primo impatto un sentimento contrastante, di paura: a ben vedere, infatti, la carto-grafia mostra una spropositata grandezza dell’asse petrolifero riguardante le esportazioni di petrolio libico in Italia. Una prima lettura, poco attenta, su-scita un sentimento di paura e potrebbe portare a pensare che la crisi libica possa incidere pesantemente sul nostro Paese. Ma le scelte grafiche di que-sta cartografia danno un peso maggiore alla Libia, più di quanto ne abbia in realtà.

A noi italiani la prima cosa che salta agli occhi è la grandezza dell’asse

petrolifero che collega la Libia all’Italia. Questo provoca subito un senti-mento di paura. L’abitudine a pensare il proprio Paese sempre come al cen-tro ci induce in errore. Innanzitutto il centro di questa rappresentazione è la Libia, inoltre, il quotidiano che ha prodotto e pubblicato questa carta è fran-cese: sicuramente l’obiettivo di questa rappresentazione non è quello di creare allarmismo in Italia29. È chiaro che non tutte le cartografie ben fatte, almeno a livello grafico e

rappresentativo, possano essere esplicative e intuitive; in certi casi, infatti, affinché si possa ben interpretare il messaggio sottointeso è necessario ave-re un’adeguata preparazione di base, non soltanto in geografia ma anche, e soprattutto, in storia. Bisogna poter risalire alle dinamiche sottostanti e alle evoluzioni che ci sono state in un determinato territorio per poter interpre-tare correttamente gli eventi che lo caratterizzano.

Il quotidiano La Repubblica ha cominciato a produrre carte sulla situa-zione libica ancora prima che iniziasse il conflitto. Si trattava principalmen-te di carte che rappresentavano le questioni economiche: le risorse petroli-fere e di gas. Successivamente, iniziate le rivolte, sono state pubblicate car-te rappresentanti la distribuzione delle diverse tribù e gli scontri presenti sul territorio.

29 Chilelli F., “Dall’informazione alla rappresentazione cartografica: il caso di “La

Repubblica” e “Le Monde”, op. cit., p. 135.

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Da un’analisi effettuata mediante l’osservazione delle carte, emergono degli elementi pressoché costanti: in ogni carta che rappresenta gli scontri vi è sempre l’immagine di aerei da guerra o di armi, inoltre, sono state pub-blicate numerose carte rappresentanti le migrazioni. Questi elementi hanno un’origine comune. Il bisogno di rendere spettacolare e drammatica la noti-zie, al fine di attirare l'attenzione del lettore.

Il quotidiano Le Monde ha cominciato a produrre carte sulla Libia dall’inizio del conflitto. Principalmente si trattava di carte rappresentanti i confini, il petrolio, le tribù. Sono state realizzate soltanto tre carte sulle mi-grazioni.

Osservando le carte appare evidente che si è cercato di mettere in evi-denza le situazioni territoriali e le risorse sul territorio, con l’obiettivo di far comprendere la complessità del territorio libico. Complessità che solo con il testo non si arriva a immaginare.

Per questo lavoro di comparazione tra le cartografie dei quotidiani in esame, sono state osservate diverse carte. Da questa osservazione emerge che spesso, soprattutto in La Repubblica, vi sono alcuni errori. I principali sono:

mancanza di scala. Le carte presenti sui quotidiani sono quasi sem-

pre prive di scala. Viene in tal modo a mancare la consapevolezza del valore dello spazio in quanto tale. Questo indicatore è essenzia-le per relazionare cause ed effetti dell’azione umana;

dimensioni troppo ridotte. La dimensione della carta deve consenti-re l’analisi e la sintesi del fenomeno raffigurato. Spesso le carte, per ragioni di spazio editoriale, sono troppo contenute. Non si rie-sce così ad evidenziare, in maniera esaustiva, l'informazione rile-vante;

uso dei colori. Per evidenziare fatti o fenomeni la scelta dei colori da utilizzare è fondamentale. Troppo spesso però per ricercare una certa visibilità si eccede nell'uso creando così difficoltà nella lettura dell'informazione principale;

assenza di indicazione della data e della fonte. Raramente le carte riportano la data di esecuzione o di riferimento dei dati riportati, come pure la loro fonte. Queste sono indicazioni importanti per po-ter decodificare correttamente le informazioni e per poter verificare la loro attendibilità;

eccesso di informazioni. Anche in carte con dimensioni estrema-mente contenute si tende ad inserire, abitualmente, un numero non indifferente di pittogrammi;

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il risultato è che la carta diventa illeggibile: troppe informazioni de-terminano la difficoltà di lettura del messaggio30.

3. Le Dessous Des Cartes

In questo capitolo si è cercato di mostrare come da sempre, nel corso

della storia, ci sia stato un forte legame tra le dinamiche geopolitiche, la comunicazione e l’uso delle carte geografiche. C’è sempre stato un forte fattore di scambio tra le classi dirigenti, i mass media e i geografi. Non è mai stata indifferente, infatti, ai potenti la valenza iconografica delle carte, che grazie alla loro immediatezza sono in grado di comunicare un’immensa varietà di messaggi.

In riferimento a questa caratteristica peculiare delle carte geografiche e del loro utilizzo da parte delle classi dominanti e dei media, si andrà ora a presentare e analizzare un programma televisivo, che va in onda in Francia, in cui a livello comunicativo a predominare è proprio la carta geografica, strumento “principe” per la georeferenziazione dei fenomeni e per spiegare la comparsa e lo sviluppo di questi in una determinata area geografica e in un periodo storico piuttosto che in altri.

Nella nostra esperienza quotidiana, soprattutto per quanto riguarda l’I-talia, un notevole uso, seppur ancor modesto rispetto ad altre nazioni euro-pee, delle carte geografiche a scopi comunicativi lo si può osservare all’interno dei quotidiani (come abbiamo potuto vedere nel precedente pa-ragrafo) o nei telegiornali.

In Francia, invece, non è affatto così: come potremo notare nelle pagine che seguono, le carte geografiche possono essere utilizzate per comunicare e trasmettere conoscenza anche al di fuori degli interessi del potere e delle necessità di cronaca. Esiste, infatti, un programma televisivo, intitolato Le Dessous Des Cartes, che va in onda nel paese transalpino, appunto, in cui a dominare sono proprio le cartografie. Utilizzare le carte geografiche per georeferenziare31 degli eventi, per illustrare gli argomenti oggetto della puntata e per spiegare non solo storicamente, ma anche geograficamente cosa accade o è accaduto, e perché, è una presa di posizione molto impor-tante che non va sottovalutata. Nel corso delle puntate si cerca, infatti, di

30 Chilelli F., ibidem, pp.136-137. 31 La georeferenziazione consiste nell'attribuzione a un dato di un'informazione relativa

alla sua dislocazione geografica; tale posizione è espressa in un particolare sistema geodeti-co di riferimento. La georeferenziazione è usata nei sistemi GIS, tanto da essere applicata sostanzialmente ad ogni elemento presente: pixel componenti un'immagine raster, elementi vettoriali come punti, linee o poligoni e persino annotazioni.

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analizzare nel concreto gli avvenimenti che si verificano nel mondo e di identificarne le origini, le motivazioni politiche, sociali, geografiche che ne hanno portato la nascita. In un contesto caotico, di rivalità e continui con-flitti, come quello che caratterizza questo nuovo millennio, in cui è sempre più prepotente la tendenza a manipolare le informazioni ed è difficile riu-scire a renderle fruibili per tutti, un’azione di questo tipo che libera le co-scienze, potrebbe aprire gli occhi ai più e far si che le informazioni circoli-no con più chiarezza.

“Dietro le carte” appunto, è qui che bisogna guardare; dobbiamo iniziare ad andare più a fondo nella comprensione di ciò che ci accade e che si veri-fica nel mondo in cui viviamo, senza accontentarci della “pappa pronta” che i potenti vogliono farci mangiare. Una presa di coscienza può sicura-mente giovare a noi stessi e al nostro modo di approcciare al mondo e alla vita quotidiana. Non dobbiamo accontentarci, ma dobbiamo essere in grado di leggere oltre ciò che ci viene mostrato e far sentire la nostra voce, in quanto è anche grazie alla nostra opinione che si può aprire un dibattito e che si può iniziare ad andare più in là, nel cuore delle questioni.

3.1. Nel dettaglio della trasmissione, scelte editoriali

Le Dessous Des Cartes è una trasmissione di geopolitica che va in onda

settimanalmente in Francia, sul canale televisivo franco-tedesco Arte. “ARTE est une chaine culturelle européenne qui s’addresse à tous les téléspec-

tateurs curieux et ouverts sur le monde, partout en Europe et en particulier en France et Allemagne32”.

Arte è un canale prettamente culturale creato per permettere rapporti di

scambio tra la Francia e la Germania e per incoraggiare l’integrazione cul-turale europea. La creazione di un unico canale televisivo rivolto a due ti-pologie di pubblico è il primo e unico caso nella storia della televisione mondiale. Arte è l’espressione di valori quali l’apertura al mondo, a nuovi temi e nuove forme d’informazione; il rispetto della diversità d’opinione e di punti di vista differenti, anche in riferimento a temi quali la creatività che contraddistingue ogni singolo individuo; il calore, la prossimità ai telespet-tatori con la volontà di far riflettere e anche emozionare gli animi dei tele-spettatori di nazioni diverse. Nel tempo questo canale è divenuto sinonimo di multiculturalità, di programmi creativi e di qualità.

32 http://www.arte.tv (10/10/2011 – 00:29)

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Ogni puntata ha una durata di circa 10 minuti e ha come particolarità il fatto di utilizzare principalmente, come già accennato in precedenza, le car-te geografiche per visualizzare, per mostrare gli argomenti tema della pun-tata. Le carte sono molto di più di una semplice illustrazione, sono un aiuto per la comprensione dei fatti e per le future prese di posizione a riguardo. Il modo in cui vengono utilizzate permette di “lasciarle parlare” il più possi-bile, giocando con un continuo “andare e venire” tra testo (scritto e parlato) e cartografia.

Obiettivo di questo lungo lavoro di studi e ricerche è quello di mostrare tacitamente come si fanno e organizzano molteplici collegamenti pluridi-sciplinari, al fine di analizzare ogni argomento trattato sotto più punti di vi-sta. Gli autori cercano, inoltre, di essere sempre il più neutri possibile nell’analisi dei fatti e nel presentare gli argomenti, in quanto ognuno in fondo vede e interpreta ogni avvenimento attraverso una propria specifica griglia di lettura. Per questo motivo, pur ricercando l’estrema oggettività nell’esporre le cose, gli studiosi cercano sempre di ricordare al lettore che quella mostrata è una versione dei fatti che mantiene un suo grado di sog-gettività. Non va dimenticato che le cartografie sono e rimangono oggetto di manipolazione.

I contenuti della trasmissione sono preparati da Jean-Cristophe Victor33, che è anche il presentatore della stessa, e dal laboratorio privato di studi po-litici e di analisi cartografiche (Lepac34) di cui egli è il fondatore, nonché il principale azionista.

33 Figlio dell’esploratore francese Paul-Èmile Victor; nel 1988 ha fondato, insieme a

Michel Foucher, l’Osservatorio Europeo di Geopolitica (OEG), e due anni più tardi ha dato vita a Le Dessous Des Cartes. Negli stessi anni ha creato, insieme a Virginie Raisson e Frank Tétart il Lepac.

34 È un laboratorio privato, indipendente, di ricerca applicata che propone analisi opera-tive, una potenziale riflessione e insegnamenti mirati. A partire dal suo metodo di geopoliti-ca applicata, grazie ad una accurata lavorazione dei dati, missioni sul campo e grazie alle proprie reti di comunicazione e scambio, il Lepac analizza e valuta le politiche presenti sul proprio territorio. Per rafforzare la capacità strategica dei decisori, dei responsabili delle scelte politiche, per assistere al processo di presa di posizione, dunque, e per aiutare a fare anche un passo indietro, qualora fosse necessario, il laboratorio offre differenti strumenti e scale per la lettura della realtà nazionale e internazionale. Vuole in un certo senso fornire gli elementi adeguati a far evolvere la mentalità dei potenti per aiutarli a ragionare a più scale di osservazione attraverso l’ausilio delle carte. Il metodo di lavoro portato avanti dagli studiosi facenti parte del Lepac è interdisciplinare, un continuo intersecarsi di geografia politica, economia, scienze politiche, storia, e si fonda su due principi di ricerca: innanzi tutto sul concetto che gli avvenimenti non si verificano casualmente nel tempo, e allo stesso modo ogni evento è influenzato dal luogo in cui si è prodotto; per questo motivo secondo gli stu-diosi è bene integrare le coordinate storiche delle situazioni prese in esame con i vincoli geografici a diversi livelli di scala.

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La trasmissione è una finestra mediatica che permette di dare a un notevo-le bacino di telespettatori insegnamenti e informazioni approfondite riguardo rapporti di forza politici, problemi economici, sociali, nazionali e internazio-nali. È proprio questa componente pedagogica che costituisce il filo condut-tore tra il laboratorio d’analisi, il programma televisivo e il pubblico.

Jean-Cristophe Victor, insieme agli altri collaboratori e ricercatori, ha optato per un approccio che non è prettamente di stampo giornalistico, dunque gli argomenti trattati non vengono scelti perché spinti dall’urgenza di analizzare tematiche di attualità, ma vengono analizzate situazioni e av-venimenti che si sono verificati nel corso del tempo. La scelta degli argo-menti che verranno trattati avviene solitamente circa un anno prima la loro messa in onda, e man mano questa selezione viene adeguata in base alle esigenze del periodo storico attuale: vengono selezionati solitamente una quarantina di argomenti lasciando un margine “di manovra” pari circa al 20% per adattare la trasmissione, nel corso dell’anno, ai cambiamenti e alle esigenze spazio-temporali e poter così aggiungere argomenti non ancora trattati, qualora lo si ritenesse necessario.

La scelta delle zone geografiche da analizzare risponde a volte a una lo-gica prettamente geografica e altre volte a una logica tematica. Una volta che un tema viene adottato, uno dei ricercatori del Lepac approfondisce il sogget-to in questione, essenzialmente leggendo riviste specializzate, libri, viaggian-do e facendo colloqui e interviste a Bruxelles, Bangkok e Seattle. Poi, attra-verso questo lavoro di ricerca e approfondimento, si cerca di arrivare a un substrato tematico per ogni argomento preso in analisi e lo si “racconta” at-traverso le carte geografiche. L’obiettivo è quello di far parlare le carte il più possibile e in modo chiaro, per questo bisogna fare molta attenzione alla resa grafica, alla scala presa in riferimento, alla proiezione, ecc. Prima di giungere alla versione definitiva che andrà poi in onda, vengono scritte e prodotte dal-le cinque alle sette versioni differenti per ogni soggetto.

Nello specifico, la topografia delle carte si basa su dati provenienti dalla Oxford Cartographers Ordnance Survey35. La proiezione solitamente utiliz-zata è quella di Eckert, detta pseudo cilindrica. La comparsa di immagini satellitari provenienti da Google Earth si nota a partire dal gennaio 2007, nel numero “Nigeria, il povero stato dei paesi ricchi”.

Su circa 300 emissioni (da Marzo 2001 a Maggio 2008) 210 hanno un approccio geografico (circa il 70%), 84 un approccio tematico (circa il

35 Ordinance Survey 2002 (Gran Bretagna) è la trasversa di Mercatore con il relativo

post-elaboratore affine applicato alle coordinate trasformate. Alla data di rilascio, questa versione di OST02 non è ancora ufficializzata. Bentley ne sconsiglia l'utilizzo come stan-dard fino all'ufficializzazione.

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28%) e 6 restano inclassificabili perché hanno un aspetto introspettivo (come ad esempio: “La méthode du Dessous Des Cartes”) o “sognatore” (as esempio: “Un voyage avec Corto Maltese, de la Turquie à Samar-kand”).

A titolo informativo, le aree geografiche più analizzate sono: - Africa (29); - America Latina (21); - America anglosassone (12); - Europa (53); - Poli (11); - Asia centrale (10); - Medio Oriente (36); - Oceania (1). Mentre a livello tematico il programma tiene conto di argomenti quali

l’ambiente, l’economia, le relazioni internazionali, il terrorismo, ecc. L’obiettivo, dunque, secondo quanto appena riportato è quello di aiutare

a capire più che semplicemente informare, si cerca di studiare e analizzare la complessità degli eventi al fine di renderli più comprensibili, non loca-lizzandoli semplicemente, ma mostrandoli attraverso una resa grafica che permetta di aggirare le difficoltà. L’intento perseguito è quello di trasmette-re un metodo di analisi estremamente accurato e obiettivo.

Il formato dello show è cambiato di poco nell’arco degli anni. Nel tem-po, per piccoli passi, l’aspetto pedagogico che caratterizza la trasmissione si è affermato e le cartografie sono divenute sempre più sofisticate, in rela-zione a un riscontro tra gli studiosi e i telespettatori che ha portato a un maggiore e continuo perfezionamento del programma. Un cambiamento degno di nota è quello della durata della trasmissione che da sette minuti è passata a dieci: questo ha permesso al conduttore di parlare più lentamente, di dare un taglio migliore, più accurato, all’analisi e di presentare i libri ri-portati in bibliografia.

Caratteristica vincente del programma è stata proprio la durata che per-

mette sintesi e immediatezza arrivando subito al cuore della questione e at-tirando l’attenzione dei telespettatori, che non sono costretti ore ed ore da-vanti allo schermo, ma in poco tempo possono apprendere questioni molto importanti e interessanti che potrebbero, così, portarli a porsi ulteriori do-mande…

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3.2. Puntate a confronto, diverse applicazioni del “metodo” Le Dessous des Cartes ci mostra che la contestualizzazione cartografica

di argomenti e avvenimenti è possibile non solo per soggetti tipicamente geografici, come avviene ad esempio analizzando un territorio, ma può es-sere effettuata anche per argomenti più tematici.

Per dare una visione più ampia di quanto si è finora affermato, si an-dranno ora a mostrare ed analizzare due puntate che utilizzando lo stesso procedimento teorico-applicativo illustrano, però, due argomenti ben di-versi. La prima puntata (a.) che si andrà a prendere in esame è di stampo prettamente geografico-territoriale, mentre la seconda (b.) presenta un contenuto tematico caro agli autori della trasmissione e ai ricercatori che contribuiscono alla sua realizzazione, ovvero l’impatto ecologico sull’am-biente.

a) Titolo: Il continente africano

Questa puntata è stata trasmessa su Arte il 31/10/2007 alle ore 22.30, ed è possibile consultarla on-line sul sito stesso del canale televisivo36.

Sviluppo Incipit

Sigla d’inizio del programma. Introduzione

Jean-Cristophe Victor introduce la puntata: Le Dessous des Cartes dedica diverse puntate al continente africano.

Queste non si susseguiranno come una serie, ma hanno l’ambizione, duran-te tutto quest’anno, di superare i luoghi comuni che si sono creati decennio dopo decennio a proposito di un’Africa povera, malata, sempre in guerra, tagliata fuori dalla mondializzazione, ma pur sempre esotica, nera e turisti-ca. Questi cliché finiscono col renderci ciechi riguardo le evoluzioni di questo continente.

36 http://www.arte.tv/fr/Comprendre-le-monde/le-dessous-des-cartes/392,CmC=1742560.html (04/09/2011 – 10:30)

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Sequenza narrativa 1. I limiti del continente

Parte testuale:

Il continente africano è delimitato dall’Oceano Atlantico a Ovest, l’o-ceano indiano a est, il Mar Mediterraneo a Nord, con tre punti di pas-saggio stretti verso i continenti vicini: - lo Stretto di Gibilterra tra Europa e Africa, - il Canale di Suez aperto nel 1869 - e lo stretto di Bab El Mandeb, tra Africa e Penisola Arabica.

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2. Un’Africa plurale

Parte testuale:

L’Africa interagisce con altre parti del mondo attraverso la sua Storia, le antiche migrazioni o attraverso l’economia contemporanea. Per esempio, l’Isola delle Mauritius, le Seychelles, Madagascar, sono tutte vicine l’A-frica ma sono aperte sull’oceano Indiano, sono anche tanto africane quanto asiatiche nella composizione delle loro rispettive popolazioni. Le Mauritius particolarmente con la loro popolazione indiana, cinese, europea, con i suoi successi economici è tanto africana quanto aperta al resto del mondo.

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3. Le zone a clima Mediterraneo

Parte testuale:

Vi sono almeno quattro grandi tipi di clima che caratterizzano l’Africa, influenzando sia i comportamenti umani che la loro cultura e l’economia. Il primo è certamente quello Mediterraneo che caratterizza le coste del Nord e nelle Regioni del Capo, in Sudafrica.

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4. Le zone desertiche

Parte testuale:

Il più grande deserto del mondo si trova in Africa ed è il Sahara (“Al-Sahra” significa deserto in arabo). Si estende su oltre 5000 km da Est a Ovest, e 2000 km dal nord al sud. Se aggiungiamo il deserto della Namibia a Sud, circa il 30% della superfice dell’Africa risulta essere desertica o se-midesertica.

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5. Le zone tropicali

Parte testuale:

In seguito abbiamo il clima tropicale secco, che permette la presenza di steppa e savana. Man mano che ci si avvicina all’equatore si ha un clima umido con delle importanti stagioni di piogge. Questa zona equatoriale è coperta da foreste molto dense ad eccezione dell’Africa orientale che è me-no piovosa.

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6. Degli Stati dal clima diversificato

Partetestuale:

Certi Sati molto estesi al Nord quanto al Sud, come la Nigeria o il Su-dan, hanno al loro interno climi estremamente diversi.

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7. Un mosaico etnolinguistico

Parte testuale:

E praticamente impossibile rappresentare su una stessa carta tutti i po-poli che vivono in Africa, ma possiamo schematicamente individuare le grandi aeree etnolinguistiche:

Il gruppo nigero-congolese, a Ovest e nell’Africa; Il gruppo Bantu che occupa tutto il Sud del continente; Fanno eccezione le lingue Khoisan, nel sud-ovest, e le lingue ma-

layo-polinesiane del Madagascar; Il gruppo nilo-sahariano nel nord-est; Infine dal Maghreb al corno d’africa, le lingue afroasiatiche cona-

rabo, presente fin dal VII secolo, il berbero e il gruppo cuscitico. In totale sul continente si contano qualcosa come 1.500 lingue.

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8. Le principali aree religiose

Parte testuale:

L’animismo era prevalente prima della islamizzazione e l’evangelizza-zione, ma resta sempre molto presente nel continente. L’Islam è partico-larmente presente nella parte nord del continente. (la frontiera che delimita la parte in cui la maggioranza della popolazione è musulmana corrisponde grosso modo all’inizio della foresta tropicale).

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9. Delle frontiere ereditate dalla colonizzazione

Parte testuale:

Le frontiere attuali sono quasi inalterate rispetto a quelle lasciate al momento della decolonizzazione. Infatti a quell’esatto momento fu conve-nuto il principio del « UTI-POSSIDETIS »: cioè: laddove sono resto. Prati-camente non si è modificato il tracciato che fu definito dalle potenze euro-pee al momento della Conferenza di Berlino dedicata all’Africa nel 1884-85. Nel 1964, al summit dell’Organizzazione dell’Unità Africana questo principio venne confermato.

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10. Pochissimi cambiamenti di frontiere negli ultimi 50 anni

Parte testuale:

Una nuova frontiera è stata tracciata nel 1993 al momento della seces-sione dell’Eritrea dall’Etiopia. Un’altra resta contestata dal 1975 tra Ma-rocco e Sahara Occidentale (territorio marocchino per Rabat, ma che resta non attribuito sia dall’ONU sia dal Sahara Occidentale)37.

37 Quando fu fatta la puntata il Sud Sudan era ancora parte del Sudan, motivo per il qua-

le non appare nella carta della trasmissione.

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11. Delimitazioni con conseguenze molto importanti

Parte testuale:

Il continente africano ha molti stati-enclave, cosa che implica, per la lo-ro chiusura, degli accordi di « passaggio », molti investimenti in infrastrut-ture, sistemi di dazi e richiede per questo degli importanti mezzi di pressio-ne politica. Soprattutto se consideriamo le ricchezze minerarie dell’Africa.

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12. Un continente ricco di materie prime

Parte testuale:

Su questa carta possiamo facilmente individuare dove sono collocate le miniere di uranio, di carbone, ferro, zinco, rame, fosfati e oro.

Il continente possiede anche degli importanti giacimenti di gas naturale e petrolio. Riguardo a quest’ultimo l’Africa rappresenta il 12% della pro-duzione mondiale e possiede il 10% delle riserve (accertate) mondiali, es-senzialmente in Libia e Golfo di Guinea.

Se il continente africano attira nuovamente degli investitori, all’inizio del XXI secolo, questo è dovuto principalmente per delle ragioni di sfrut-tamento minerario.

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13. Degli scambi asimmetrici con il resto del mondo

Parte testuale:

I rapporti del continente con il resto del mondo sono abbastanza immodifi-cati: oltre a fornire fondamentalmente uomini, l’Africa fornisce materie prime.

Le relazioni dell’Africa col mondo sono asimmetriche: le esportazioni sono al 90% di prodotti primarî, come legno, derrate agricole, minerali, mentre le importazioni sono soprattutto composte da manufatti.

Conclusioni

Nelle prossime puntate mi concentrerò sulle relazioni che i diversi Stati dell’Africa hanno tra loro, sulle cause dei diversi conflitti. Una puntata in-tera della nostra trasmissione sarà dedicata alla carestia che era completa-mente prevedibile e evitabile ma ancora oggi rappresenta tata come una in-sufficienza produttiva da parte del Niger.

E quindi vi spiegherò come il continente africano ritrova una forte cre-scita economica.

Ma cosa possiamo concludere dalle poche carte che abbiamo potuto ve-dere oggi?

Ebbene, che non dobbiamo avere un approccio continentale, globale, unico per tutto il continente.

Soprattutto perché a livello locale la gestione è o statale o al massimo nazionale. Certamente non regionale.

Questo è vero per la gestione dell’acqua, ma anche dell’energia, per le compagnie aeree, per i diversi poteri politici.

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Allora perché noi Europei continuiamo a vedere l’Africa come se fosse una sola.

A causa della storia. Prima occorreva prima evangelizzare, quindi civilizzare; in seguito si è

andati verso lo sviluppo, oggi si vuole aiutare, proteggere. E alla fine l’uomo bianco continua a vedere solo ciò che conosce. L’Africa dev’essere povera, in guerra, affamata, nera e esotica: e tutte

queste rappresentazioni sono ancora oggi veicolate dai nostri cataloghi turi-stici.

Analisi Come afferma nell’introduzione J.C. Victor, gli organizzatori di Le Des-

sous des Cartes hanno ideato e mandato in onda molteplici puntate sul con-tinente africano. L’intento non è, dunque, quello di produrre un prodotto seriale sul tema africano, piuttosto l’ambizione di base è quella di mostrare un paese spoglio dai clichés che lo descrivono come malato, povero, in guerra, vittima della mondializzazione, che ormai caratterizza l’Occidente, e allo stesso tempo esotico, nero, turistico.

Ciò che si intende mettere in evidenza attraverso questa puntata, e non solo, è il vero volto di questo continente e le evoluzioni che ne hanno modi-ficato nel tempo l’aspetto fisico, nonché i percorsi storici, politici, sociali. Analizzando passo per passo il contenuto di questa puntata, osservando le singole cartografie, possiamo notare che:

- Il continente africano è delimitato a ovest dall’Oceano Atlantico, a est dall’Oceano Indiano e a Nord dal Mar Mediterraneo; ha tre stret-ti (lo stretto di Gibilterra, il Canale di Suez e lo stretti di Bab Man-deb) che lo mettono in comunicazione con le masse continentali vi-cine (cartografia n. 1).

- La definizione del territorio è piuttosto articolata: l’Africa, infatti, si compone di diverse parti del mondo in funzione della sua storia, delle vecchie migrazioni o dell’economia attuale. Ad esempio l’iso-la Maurice, le Seychelles e il Madagascar sono tutte isole prossime all’Africa ma operanti nell’Oceano Indiano, dunque sono tanto asia-tiche quanto africane nella composizione della loro popolazione (cartografia n. 2).

- Il continente africano è caratterizzato da quattro grandi tipi di clima che dividono a sua volta il paese in zone con culture, comportamen-ti umani ed economici differenti. Si può notare un clima mediterra-neo sulle coste dell’africa del nord e in africa del sud (cartografia n.

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3); un clima tropicale secco che dà vita alla steppa e alla savana (cartografia n. 5); un clima tropicale umido, più ci si avvicina all’e-quatore (cartografia n. 5); un clima secco arido nell’ampia zona del deserto del Sahara (cartografia n. 4), che si estende su 5000km da est a ovest e 2000km da nord a sud. Ci sono, poi, estesi stati, come ad esempio il Nigeria o il Sudan, che presentano al loro interno molteplici aspetti climatici sullo stesso suolo (cartografia n. 6).

- Dal momento che è impossibile rappresentare tutti i popoli che vi-vono in Africa, gli autori hanno deciso di distinguere schematica-mente le grandi aree etnico-linguistiche (cartografia n. 7): a ovest e al centro troviamo il ceppo linguistico nigero-congolese; a sud tro-viamo le lingue bantù; a sud-est il ceppo linguistico “khoisan”; nel Madagascar le lingue malayo-polinesiane; a nord e a est le lingue nilo-sahariane; e infine nel corno d’Africa troviamo le lingue afro-asiatiche.

- Per quanto riguarda l’aspetto religioso, si può dire che il paese si divide tra Islam (parte settentrionale) e Cristianesimo (parte meri-dionale), ma l’animismo esiste, in questa terra, da ben prima la loro penetrazione e ancora oggi è presente in tutto il continente (carto-grafia n. 8).

- Le attuali frontiere del continente sono identiche a quelle della fine dell’epoca coloniale, questo perché durante il movimento di deco-lonizzazione si è convenuto che il principio dell’uti-possidetis sa-rebbe stato applicato: ovvero, “dove sono, resto” cartografia n. 9). Al summit dell’organizzazione de L’Unità Africana, nel 1964, è sta-to riaffermato il principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione, nonostante questo, però, nel 1993 è stata trac-ciata una nuova frontiera dal momento che l’Eritrea si separò dal-l’Etiopia (cartografia n. 10).

- Il continente africano ha un gran numero di stati senza blocco sul mare, il che implica accordi di passaggio, investimenti in infrastrut-ture, sistemi di tassazione adeguati e mezzi di pressione politica, a maggior ragione del fatto che il paese è ricco di materie prime (car-tografia n. 11). L’Africa presenta un suolo ricco di minerali quali uranio, carbone, zinco, ferro, fosfato, rame, oro; possiede anche giacimenti di gas naturale e petrolio. Dunque, se il paese attira nel XXI secolo i nuovi investimenti è essenzialmente per ragioni eco-nomiche dovute alle molteplici risorse del sottosuolo (cartografia n. 12).

- I rapporti del continente africano con il resto del mondo persistono dai tempi coloniali: è fornitore di uomini e materie prime, ma le re-

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lazioni economiche sono asimmetriche in quanto le esportazioni so-no pari al 90% e riguardano le materie prime, mentre le importazio-ni in misura nettamente inferiore riguardano soprattutto i prodotti manifatturieri.

b) Titolo: L’impronta ecologica Questa puntata è stata trasmessa su Arte il 05/02/2011 alle ore 17.45, ed

è possibile consultarla on-line sul sito stesso del canale televisivo38.

Sviluppo Incipit

Sigla d’inizio del programma. Introduzione

Jean-Cristophe Victor introduce la puntata: Oggi parleremo approfonditamente dell’Impronta ecologica. L’Impronta

ecologica è la misura di quello che noi produciamo, consumiamo e buttia-mo. Si tratta della quantificazione di tutto l’impatto che questo ha sul pia-neta.

È interessante prima di tutto perché ci poniamo la domanda della soste-nibilità di questo processo e in seguito ci permette di sviluppare l’idea del servizio resoci dalla natura, dal nostro Pianeta. Tutto questo può essere ve-ramente “pesato” e soprattutto ci sarà di una qualsiasi utilità?

38 http://www.arte.tv/fr/Comprendre-le-monde/le-dessous-des-

cartes/392,CmC=3687594.html (04/09/2011 – 11:00)

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Sequenza narrativa 1. L’impronta ecologica e l’Impronta dell’ossido di Carbonio

Parte testuale:

L’Impronta ecologica ci dice il peso della pressione che esercita sui di-versi ecosistemi la nostra produzione, i nostri consumi e i nostri rifiuti. Per questo si calcola la superficie di cui una popolazione ha bisogno per pro-durre quegli stessi beni materiali e immateriali, cioè i servizi.

Da un punto di vista quantitativo, su scala mondiale, la parte dell’im-pronta di CO2 è la più importante e rappresenta il 52% di tutta l’impronta ecologica.

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2. La biocapacità

Parte testuale:

L’impronta ecologica ci rinvia dunque a tutto quello che noi consumia-mo, che prendiamo direttamente tramite le risorse naturali rinnovabili, di-sponibili sul pianeta. Si tratta della biocapacità della Terra.

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3. La biocapacità inegualmente distribuita

Parte testuale:

Come altre diverse risorse, la biocapacità è inegualmente distribuita sul-la terra, dato che 10 Paesi hanno da soli il 60% della biocapacità della Ter-ra.

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4. L’ettaro globale

Parte testuale:

Si è presa un’unità di misura per calcolare l’impronta ecologica e la bio-capacità: l’ettaro globale. Un ettaro globale rappresenta la capacità di pro-duzione di un ettaro di terra, con una produttività media mondiale.

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5. L’impronta ecologica supera la biocapacità

Parte testuale:

Nel 2007 le risorse disponibili sulla terra erano valutate intorno ai 12 miliardi d’ettari globali, quindi una media di 1,8 ettari a persona.

Nello stesso momento l’impronta ecologica dell’umanità, cioè le risorse consumate, si elevava a 18 miliardi di ettari globali, cioè quasi tre ettari per abitante.

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6. La geografia dell’impronta ecologica

Parte testuale:

Se guardiamo a ciascun continente, in valore di popolazione, il Nord America è la parte con l’impronta ecologica più alta, seguita da Oceania, Europa, America latina e caraibi.

In Asia l’impronta ecologica è dell’ordine di 1,8 ettari globali per abi-tante. Mentre in Africa l’impronta ecologica è di 1,4 ettari per abitante.

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7. L’impronta ecologica alla scala dei diversi Stati

Parte testuale:

In secondo luogo, se scendiamo alla scala dei diversi Stati e se si para-gonala dimensione dell’impronta di ciascuno stato alla dimensione della sua stessa popolazione troviamo in cima alla classifica gli Emirati Arabi e il Qatar. Perché sono dei Paesi produttori di petrolio, con un’impronta di CO2 considerevole e soprattutto molto poco popolosi.

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8. L’impronta ecologica di Cina e India

Parte testuale:

In altri Paesi è l’elevata popolazione che contribuisce al livello dell’im-pronta ecologica. Se la calcoliamo pro capite, ad esempio, l’impronta di Brasile e Cina si rivela essere poco pesante rispetto alla percentuale del-l’impronta ecologia dell’intero pianeta.

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9. L’impronta ecologica di Nigeria e Indonesia

Parte testuale:

Mentre nella parte più bassa della classifica troviamo quei Paesi con il livello di sviluppo economico più basso ma con una popolazione molto numerosa, come Nigeria e Indonesia.

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10. I Paesi dall’impronta ecologica debole

Parte testuale:

Vi troviamo una potenza economica emergente, come l’India con una popolazione molto numerosa. Ma troviamo allo stesso livello dei paesi molto poveri e poco popolosi come Eritrea, o di piccole dimensioni, come Haiti o le Timor orientali che sono praticamente in coda alla classifica.

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11. L’impronta ecologica di Londra

Parte testuale:

Terzo esempio, la scala urbana. Prendiamo il caso di Londra che ha un’impronta ecologica procapite di 4,5 ettari globali. Pari a una superficie di oltre 34 milioni di ettari globali significa che l’impronta ecologica di Londra è di 200 volte superiore alla sua taglia reale. Conclusioni

E ovvio che dopo queste informazioni si potrebbe restare anche scon-volti o comunque interdetti. Ma non è il nostro obiettivo. Si tratta sempli-cemente di misurare su diverse scale gli impatti, le impronte di quello che noi produciamo, consumiamo e buttiamo.

Per questo possiamo dire che tutto questo è puramente teorico? Non proprio dato che questa unità di misura è utilizzata dagli ecologisti,

ma anche dagli attori economici, i diversi Governi del Mondo e persino le nazioni Unite per preparare le diverse negoziazioni internazionali. Per esempio in Francia la legge chiamata Grenelle, che regolamenta i diversi casi di tutela dell’ambiente, prevede che tutti i prodotti dovranno portare un’etichetta che indichi l’impronta ecologica del livello di CO2.

Possiamo dire che abbiamo semplicemente voluto mostrare che ognuno di noi poteva agire nel suo piccolo e che tutto questo non ci passa sopra la testa.

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Analisi In questa puntata quello che si è cercato di fare è mostrare, a diversi li-

velli di scala, l’impatto sull’ecosistema di ciò che noi produciamo, consu-miamo e gettiamo.

L’intento degli autori39 è quello di mettere in cifre l’impronta ecologica che l’uomo ha nei confronti del pianeta Terra e scaturire un dibattito con i telespettatori su quanto viene mostrato. Entrando nel dettaglio si afferma che con l’impronta ecologica si calcola l’area di cui una popolazione ha bi-sogno per produrre i beni materiali e immateriali di cui necessita. Quantita-tivamente parlando, a livello globale, l’impronta di carbonio è la compo-nente più importante in quanto rappresenta il 52% dell’impronta ecologica totale (cartografia n. 1).

L’empreinte écologique rimanda, dunque, alla biocapacità della terra: tutto ciò che noi preleviamo direttamente dalle risorse naturali rinnovabili disponibili (cartografia n. 2). Come le risorse, la biocapacità è distribuita in modo ineguale a livello mondiale poiché soltanto 10 paesi si contendono il 60% della biocapacità dell’intero pianeta (cartografia n. 3).

Prendendo come unità di misura “l’ettaro globale” per calcolare l’im-pronta ecologica e la biocapacità si può osservare (cartografia n. 4) che un ettaro globale rappresenta la capacità di produzione di un ettaro di terra, con una media di produzione mondiale.

Nel 2007 le risorse disponibili sulla Terra erano di circa 12 miliardi di ettari globali, per una media di 1,8 miliardi pro capite; mentre l’impronta ecologica dell’umanità, le risorse consumate dunque, era di 18 miliardi di ettari globali, all’incirca 3 miliardi per abitante (cartografia n. 5).

Dando uno sguardo ai singoli continenti, si può notare che l’America del nord è il luogo che ha l’impronta ecologica più elevata, seguita dall’O-ceania, dall’Europa, dall’America latina e dai Caraibi. In Asia l’impronta ecologica è di circa 1,8 ettari globali per persona. In Africa, invece, la me-dia pro capite è di 1,4 ettari globali (cartografia n. 6).

Se si scende, invece, a una dimensione statale e si confronta il livello d’impatto ecologico dei singoli paesi, troviamo in cima alla “classifica” gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar: paesi produttori di petrolio con un emissione di carbonio considerevole e con popolazioni molto piccole (cartografia n. 7). Per altri paesi sono gli effetti stessi della popolazione che contribuisco-no al livello di impronta ecologica (Cina, Brasile; cartografia n. 8). In fon-

39 Jean-Cristophe Victor, con l’aiuto del Lepac, ha curato la fase di ricerca e scrittura

della puntata, Frédéric Lernoud ha provveduto alla sua realizzazione e Pierre-Jean Canac si è occupato della parte grafica.

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do alla scala troviamo paesi dal basso sviluppo economico ma con grandi popolazioni, come ad esempio il Nigeria o l’Indonesia (cartografia n. 9). In questo quadro ci sono poi anche potenze economiche emergenti, come l’India, che ha una grande popolazione, ma allo stesso tempo possiamo tro-vare paesi molto poveri e poco popolati come l’Eritrea, o di piccole dimen-sioni come Haiti (cartografia n. 10).

Infine, se prendiamo a esempio un livello di analisi urbano, consideran-do l’impronta ecologica delle singole città, come ad esempio Londra, si può notare che se l’impronta ecologica è di 4,5 ettari globali per persona, su una superficie complessiva di 3,4 milioni di ettari, l’impronta ecologica è equi-valente a 200 volte le dimensioni della città.

3.3. Commento alle puntate Analizzando e osservando nel dettaglio le puntate appena mostrate pos-

siamo notare quanto sia articolato, preciso e ben strutturato il lavoro dei ri-cercatori e degli organizzatori del programma televisivo. Mettendo a con-fronto le due emissioni, infatti, si può notare l’astuzia e la complessità con le quali vengono esposti gli argomenti in oggetto, attraverso un metodo di studio e comunicazione estremamente esplicativo e intuitivo. L’originalità fa da padrona, rendendo più fluida la quantità d’informazioni che viene tra-smessa in ogni singola cartografia. Le carte vengono a lungo studiate e, passo dopo passo, nel corso di un procedimento di analisi e ricerca che “non ha mai fine”, vengono prodotte le rappresentazioni dei vari soggetti.

Come possiamo notare attraverso le due puntate sopra citate, il metodo di rappresentazione cartografica, seppur mantenendo lo stesso principio di applicazione, evolve e si modifica a seconda dell’argomento trattato: le car-te che mostrano il continente africano sono, infatti, visivamente differenti rispetto a quelle create per mostrare l’impatto ecologico sull’ambiente.

Nella prima puntata presa ad esempio si espone un soggetto di carattere prettamente geografico, dunque viene data maggiore importanza alla tipo-logia di sfondo cartografico utilizzata. La resa grafica è minimale, sempli-ce, punta soprattutto a una chiara identificazione del territorio studiato e a un’immediata ricezione del messaggio trasmesso. Per rendere più facile la comprensione di quanto viene esposto e, dunque, per spiegare in concreto ciò che viene affermato dal conduttore40, accanto alle carte geografiche di base vengono inserite immagini fotografiche che mostrano ad esempio, in questo caso, la vegetazione del territorio analizzato. L’iconografia utilizza-

40 Che corrisponde alla parte testuale della sequenza narrativa.

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ta, affiancata al testo (scritto o parlato), risulta essere immediata e di forte impatto visivo. Le carte si potrebbero leggere quasi totalmente senza alcun ulteriore riferimento testuale che ne esplichi il senso.

Per quanto riguarda la puntata sull’impronta ecologica, invece, le cose non stanno proprio così. Si tratta, infatti, di una puntata il cui oggetto è di natura prettamente tematica in cui la carta svolge esclusivamente il ruolo di sfondo, è la base su cui poi verranno costruite le argomentazioni a riguardo. L’impatto visivo è sicuramente più forte rispetto alla puntata sul continente africano: troviamo infatti immagini iconografiche, grafici sapientemente illustrati, colori accesi, vivaci, che catturano in un colpo solo l’attenzione dello spettatore e che potrebbero essere compresi sia da un bambino di die-ci anni che da un adulto di cinquanta. Ma, nonostante queste siano cartogra-fie ben fatte, precise nei contenuti, originali e piuttosto esplicative, a un oc-chio meno esperto risultano essere meno intuitive41 delle precedenti. Men-tre una carta geografica su cui vengono inseriti e sovrapposti dei dati ri-manda direttamente al territorio che vi è rappresentato, con quelle caratteri-stiche, una rappresentazione per icone può rimandare ai molteplici signifi-cati che a queste sottendono. Le immagini utilizzate in questa puntata sono, si, semplici e sapientemente collegate tra loro, ma senza una spiegazione esterna da sole non potrebbero espletare il contenuto al quale sono legate.

Dunque, come possiamo notare da quanto detto fin’ora, è proprio la commistione di testo e componente visiva la chiave di lettura vincente di questo programma. Le cartografie da sole non possono bastare, ma, ancor di più, il messaggio trasmesso non sarebbe così chiaro e comprensibile sen-za l’ausilio grafico, che aiuta ad imprimere nella memoria le informazioni ottenute. Il metodo utilizzato per dar vita a Le Dessous des Cartes ha senza dubbio uno stampo pedagogico che ne caratterizza la realizzazione e la messa in pratica.

È bene qui ricordare che ogni cartografia, seppur esplicando la sua fun-zione di rappresentazione della realtà, presenta un suo grado di soggettività dovuta al fatto di essere un oggetto di manipolazione e di volontà degli au-tori che l’hanno prodotta.

Leggere una cartografia, dunque, non è così semplice come si potrebbe pensare, e lo è ancor di meno ora che abbiamo visto le molteplici implica-zioni che vi sono sotto ogni scelta effettuata per la sua realizzazione. Ogni avvenimento, o ogni argomento trattato, ha propri riferimenti geografici e temporali dai quali non si può prescindere e insieme a questi si aggiungono

41 Meno intuitive nel senso che per aver chiaro il concetto che si sta esprimendo è neces-

sario un testo che accompagni la cartografia e renda chiara la ragione di ogni elemento rap-presentato.

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le conseguenze, visibili sul territorio, dell’azione dell’uomo che è implicato nella “vicenda”. L’abilità degli autori e dei ricercatori che mettono in scena il programma è proprio quella di rendere il più semplice e chiara possibile l’analisi di ogni argomento trattato, attraverso un’abile “scrittura” delle car-te che lo rappresentano. In questo senso va sottolineata l’importanza di una preventiva valutazione del pubblico a cui ci si rivolge e l’elaborazione di un modulo oratorio originale ed esclusivo, che esca dai canoni della comuni-cazione mass-mediale nella quale ormai siamo tutti inglobati e ne siamo inevitabilmente condizionati. Questo tipo di modalità comunicativa, mass-mediale, è infatti efficace qualora si applichi in contesti speculativi, ma nel caso di un programma come Le Dessous des Cartes la comunicazione non è necessariamente elaborata per funzionare in un contesto informativo di massa, piuttosto la finalità perseguita è quella di far conoscere e compren-dere un determinato argomento attraverso un linguaggio semplice ed im-mediato, senza fermarsi a una mera trasmissione di informazioni.

3.4. Perché è un format di successo? Le Dessous des Cartes deve il suo successo al fatto di indirizzarsi non a

una folla indifferenziata, ma a un gruppo sociale formato da individui che interagiscono tra loro e condividono valori, credenze e informazioni con continuità. I ricercatori, nel produrre le varie puntate del programma, non prendono a riferimento un target pari alla massa, ma si rivolgono a un pub-blico attivo, diversificato al suo interno, che sceglie ciò di cui interessarsi e che potrebbe esso stesso condizionare l’offerta mediale. L’obiettivo è quel-lo di guidare i fruitori nelle fasi di approfondimento e comprensione di un argomento, di un evento, al fine di renderli capaci di decodificare qualsiasi testo, o ipertesto, negoziando, accettando o rifiutando, eventualmente, la lettura offerta in partenza.

Dando valore all’esistenza di pubblici diversi e non sottovalutando la cornice sociale in cui avviene la fruizione, si è ottenuto un prodotto di estrema accuratezza, chiarezza nel linguaggio e di semplice condivisione, alla portata di fruitori di diverse fasce di età ed estrazione sociale.

L’impatto visivo, inoltre, ha fatto si che il programma rimanesse im-

presso nella mente delle persone e ha permesso di rendere più espliciti al-cuni concetti, che espressi a parole sarebbero rimasti quasi indecifrabili per la massa. Il tipo di studio e analisi proposto è un invito al ragionamento, un invito aperto a tutti; infatti il modo in cui sono esposti gli argomenti e il linguaggio utilizzato fanno in modo che una moltitudine di persone possa

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comprendere quanto affermato e rimanerne catturata. Proprio grazie alla facile comprensibilità e alla facile fruibilità del prodotto questo ha potuto espandersi verso ampie fasce di mercato e rendersi appetibile per diversi target e diverse tipologie di fruizione.

Altro fattore che ha portato la trasmissione a un tale successo è stata la sua “eco”: ovvero il prolungamento del programma all’interno della socie-tà. La sua capacità di andare oltre i confini della televisione nel tessuto so-ciale e di proiettarsi verso sfere sociali diverse ha fatto si che diventasse un punto di riferimento nella società estremamente riconoscibile; ha prodotto nuovi simboli: frasi, slogan, un nuovo comportamento nell’approccio alle questioni che ci riguardano e che riguardano il mondo; ha suscitato un sin-cero interesse negli spettatori adattandosi anche ad argomenti imposti dalla realtà esterna, senza allontanarsi mai dagli elementi fondativi del format.

Infine, la trasmissione, ha attratto a sé l’interesse degli esperti in mate-ria, di studiosi, intellettuali e figure accademiche che ne sottolineano l’e-strema chiarezza e varietà di contenuti di interesse internazionale.

Le Dessous Des Cartes, inoltre, è stata spesso utilizzata per l’educazio-ne nazionale nei licei e nelle università, ma al di là del programma televisi-vo si è riusciti a permeare nel tessuto sociale attraverso la pubblicazione di atlanti, dvd e testi per ragazzi.

Tutti questi supporti, cartacei e digitali, mantengono sempre l’imposta-zione grafico-strutturale della trasmissione televisiva dalla quale derivano; e si caratterizzano per un approccio teorico che, seppur tale, acquista un certo grado di praticità grazie al sapiente uso della cartografia, che permette di rendere più comprensibile ciò che viene detto a parole ed esprimendo vi-sivamente alcuni concetti permette di imprimerli meglio nella memoria.

4. Critical Cartography

Il dibattito sulla natura delle carte geografiche e sul loro utilizzo non è

mai stato estraneo all'ambito geografico; una riflessione critica sul proprio operato è sempre stata all'ordine del giorno per i cartografi. Leggere criti-camente le carte permette di analizzare il rapporto dialettico dell'uomo e della natura sulla superficie terrestre, nonché l'utilizzo e la diffusione delle nuove tecnologie (GIS) in ambito geografico.

All’interno della Critical Cartography numerosi autori affermano che il lavoro di realizzazione delle carte non ha mai fine, queste vengono prodotte ininterrottamente, sono in continuo divenire grazie anche alle molteplici possibilità offerte oggi dai GIS e alla loro diffusione tra il pubblico meno esperto in materia. Le carte non sono definibili a un dato momento, né sono

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il solo prodotto dell’autorità politica che le commissiona; le carte sono mol-to di più, non si esauriscono nel supporto col quale vengono prodotte e of-frono molteplici possibilità di lettura. La Critical Cartography nasce proprio per mettere in evidenza la criticità di queste, per poterle comprendere e per mettere in risalto le possibilità di uso e consumo che offrono. Le carte, quindi, devono in un certo senso essere teorizzate e analizzate come un “processo” distaccabile, reversibile, suscettibili di continue modifiche.

Per gli studiosi facenti parte di questa scuola di pensiero, fare critica non significa andare a cercare necessariamente qualcosa di sbagliato, piuttosto consiste nel fare un esame delle ipotesi riguardo un campo del sapere; lo scopo della critica è quello di capire e suggerire alternative alle categorie di conoscenza esistenti42.

This sense of critique was developed by Kant, especially in the Critique

of Pure Reason (1781, 2nd Edn. 1787). For Kant a critique is an investiga-tion which “involves laying out and describing precisely the claims being made, and then evaluating such claims in terms of their original meanings” (Christensen 1982: 39). Kant’s essay on the question of the Enlightenment (Kant 2001/1784) describes critical philosophy as one in which people con-stantly and restlessly strive to know and to challenge authority43.

Reflecting on Kant’s critical philosophy Michel Foucault observed that

critique is not a question of accumulating a body of knowledge, but is ra-ther “an attitude, an ethos, a philosophical life in which the critique of what we are is at the one and the same time the historical analysis of the limits that are imposed on us and an experiment with the possibility of going be-yond them” (Foucault 1997: 132). This emphasis on the historical condi-tions that make knowledge possible led Foucault to his explorations of how knowledge—including knowledge that aspired to scientific rationality such as disciplinary knowledge—was established and enabled through historical-ly specific power relations. Such a historical emphasis is also a part of the cartographic critique44.

Gli studiosi della Critical Cartography nella loro idea di cosa sia la “cri-

tica” si rifanno a Kant, che la interpreta come metodo di investigazione uti-le per analizzare la realtà e andare oltre la conoscenza acquisita; allo stesso

42 Crampton J. W., Krygier J., An introduction to Critical Cartography, ACME: An In-

ternational E-Journal for Critical Geographies, 4 (1), 11-33, 2006, p.13. 43 Crampton J. W., Krygier J., ivi. Per Kant, dunque, essere critici significa mettere in discussione le categorie di cono-

scenza che già usiamo e sforzarsi incessantemente di conoscere la realtà, sfidando anche il pensiero comune che ci viene “imposto” (o suggerito) dall’autorità.

44 Crampton J. W., Krygier J., ibidem, p. 14.

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modo Foucault45 afferma che fare critica non significa accumulare cono-scenza, quanto piuttosto consiste in un’attitudine in cui la critica è allo stes-so tempo l'analisi storica dei limiti che ci sono stati imposti e la possibilità di andare al di là di essi.

In epoca moderna è stata messa molta enfasi sulla “teoria critica” grazie al diffondersi delle idee sviluppate dalla Scuola di Francoforte46. I teorici della suddetta scuola hanno cercato di scuotere gli animi di una società ca-pitalistica e dedita al consumismo, fornendo una filosofia di emancipazione che voleva mettere in dubbio le strutture di pensiero e di potere esistenti; hanno cercato di scardinare il pensiero dominante di una società repressa dalla tecnologia, dal positivismo e dall'idea che i mass media (allora libri, film, musica; oggi anche TV e internet) costituissero i reali bisogni della gente. La critica dell'ideologia come parte dei fondamenti della struttura sociale ebbe un’eco molto forte tra la classe intellettuale, ma non solo. In particolare, ciò che lega la Scuola di Francoforte (ma anche studiosi come Kant e Foucault) alla Critical Cartography è proprio il concetto di critica, intesa come riflessione filosofica sui limiti della conoscenza.

In sum then, the answer to the question “what is critique?” is that it is a

politics of knowledge. First, it examines the grounds of our decision-making knowledges; second it examines the relationship between power and knowledge from a historical perspective; and third it resists, challenges and sometimes overthrows our categories of thought. Critique does not have to be a deliberate political project. If the way that we make decisions (based on knowledge) is changed, then a political intervention has been made. Critique can therefore be both explicit and implicit. Furthermore, the purpose of critique as a politics of knowledge, is not to say that our knowledge is not true, but that the truth of knowledge is established under conditions that have a lot to do with power47.

La nascita di questo filone di studi e d’interpretazione della cartografia

(la Critical Cartography appunto) la si deve, soprattutto, ai lavori di Brian Harley, specialista di geografia storica degli anni Ottanta. Harley ha intro-dotto i concetti di potere, ideologia e sorveglianza all’interno della rifles-

45In particolare gli studiosi della Critical Cartography fanno riferimento alla sociologia

del sapere di Foucault, e dunque a un diretto collegamento fra potere e conoscenza, in parti-colar modo riguardo la rappresentazione cartografica.

46 Conosciuta formalmente come l'Istituto per la Ricerca Sociale, è stata fondata in Ger-mania nel 1923 e si è trasferita a New York nel 1933, quando Hitler salì al potere. Gli scrit-tori più famosi della scuola sono: Max Horkheimer, Theodor Adorno, Walter Benjamin, Herbert Marcuse e Jurgen Habermas.

47 Crampton J. W., Krygier J., An introduction to Critical Cartography, op. cit., p.14.

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sione cartografica, sostenendo che nessuna comprensione della carta è pos-sibile e completa senza di essi.

Rejecting the binary oppositions until then dominant in cartography,

such as art/science, objective/subjective, and scientific/ideological, Harley sought to situate maps as social documents that needed to be understood in their historical contexts. Harley then argued that mapmakers were ethically responsible for the effects of these maps (Harley 1990a). In this way he could explain the dominance of seemingly neutral scientific mapping as in fact a highly partisan intervention, often for state interests48.

Nel suo testo più famoso The History of Cartography, curato insieme a

David Woodward49, egli afferma che la cartografia, come pratica, e le carte, come prodotto, sono inestricabilmente legate in sistemi di potere e cono-scenza.

Maps cease to be understood primary as inert records of morphological

landscapes or passive reflections of the word of objects, but are regarded as refracted images contributing to dialogue in a socially constructed world (…). Maps are never value-free images; except in the narrowest Euclidean sense they are not in themselves either true or false50.

Secondo lo studioso, la carta non è lo specchio del mondo, ma è il pro-

dotto della storia sociale e in quanto tale dovrebbe essere studiata nel con-testo in cui è stata prodotta. Harley, inoltre, muovendo da una critica del-l’imperialismo arriva a osservare come nell'ambito della storia della carto-grafia, e in particolar modo, appunto, nel periodo degli imperialismi, i car-tografi abbiano marciato al fianco degli eserciti conquistatori per motivi strettamente funzionali di delimitazione dei confini e successivo controllo del territorio, ma anche perché nell'immaginario collettivo la carta legitti-mava il potere e le mire espansionistiche imperiali allo stesso livello dei trattati o dei discorsi patriottici e retorici.

48 Crampton J. W., Krygier J., ibidem, p.16. 49 Harley e Woodward hanno introdotto l’idea di studiare le carte come un linguaggio,

non considerandole più soltanto esclusivamente come misurazioni geometriche, reticolato geografico, scala lineare o semplice proiezione. Le carte non sono solo ciò che rappresenta-no, ma sono molto di più: la carta non è la rappresentazione unica ed esatta del mondo, ma è il prodotto della storia economico-sociale, e in quanto tale deve essere studiata in relazione a quel contesto. Un altro aspetto innovativo introdotto dai due studiosi è stato il tentativo di considerare non solo la cartografia europea, ma anche le diverse rappresentazioni dello spa-zio prodotte da altre culture.

50 Harley B., The New Nature of Maps, Baltimore and London, The Johns Hopkins Uni-versity Press, 2001, p. 53.

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Ma egli sottolinea, anche, come la carta svolga una funzione ideologica non solo in quello che dice, ma anche, e soprattutto, in quello che omette. Le carte sono un simbolo, sono la diretta espressione del potere. Con lo scopo di demistificare e rompere la pretesa di oggettività dei prodotti carto-grafici, Harley propone una decostruzione delle carte come strumento d'in-dagine concettuale: è importante che la carta venga letta come un testo il cui linguaggio è da comprendere perché con esso si può costruire la retorica di cui queste sono portatrici e che può influenzare la realtà sociale.

The notion of deconstruction is also a password for the postmodern

enterprise. Deconstructionist strategies can now be found not only in phi-losophy but also in localized disciplines, especially in literature, and in other subjects such as architecture, planning and, more recently, geogra-phy. I shall specifically use a deconstructionist tactic to break the as-sumed link between reality and representation which has dominated car-tographic thinking, has led it in the pathway of 'normal science' since the Enlightenment, and has also provided a ready-made and 'taken for granted' epistemology for the history of cartography. The objective is to suggest that an alternative epistemology, rooted in social theory rather than in scientific positivism, is more appropriate to the history of cartog-raphy. It will be shown that even 'scientific' maps are a product not only of "the rules of the order of geometry and reason" but also of the "norms and values of the order of social... tradition." Our task is to search for the social forces that have structured cartography and to locate the presence of power — and its effects — in all map knowledge51. L’approccio “decostruzionista” è stato adottato dagli studiosi della Cri-

tical Cartography per sottolineare l’importanza di un’ottica interpretativa attraverso cui mettere a nudo il maggior numero di possibili significati che un testo cartografico sottende, soprattutto di quelli che possiamo considera-re o definire alternativi52. Seguendo l’idea della retoricità di tutti i testi, po-stulata da Derrida53, Harley afferma che la decostruzione delle carte geo-grafiche permette di avere una lettura più nitida di ogni rappresentazione

51 Harley B., Deconstructing the map, Cartographica, Vol. 26 No 20, University of Wis-

consin in Milwaukee, Wisconsin, 1989, p. 2. 52 Spagnoli L., L’enigma cartografico e la narrazione della marca. I segni della Grande

Trasformazione negli anfratti delle carte stradali, in L’Universo. Geografia, cartografia, studi urbani, territoriali e ambientali, Istituto Geografico Militare, Firenze, 2009.

53 Quando si fa riferimento al decostruzionismo, introdotto da Jacques Derrida, si mette in atto un’operazione di confronto serrato con i testi, e gli autori degli stessi, nell’intento di mettere in luce i presupposti impliciti, i pregiudizi nascosti, le contraddizioni latenti della cultura e del linguaggio di cui fanno parte.

Derrida J., La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971.

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cartografica andando oltre l’immagine rappresentata. Dobbiamo, dunque, imparare a capire che i “fatti cartografici” sono rappresentati in una pro-spettiva culturale specifica. Le carte, come anche l’arte, lungi dall’essere una visione nitida e trasparente del mondo, non sono altro che "un partico-lare modo dell’uomo di guardare e vedere il mondo”.

Affrontando la questione della committenza egli mette in evidenza, inol-

tre, la constatazione che non vi è solo il potere interno della cartografia, che consiste fondamentalmente nello stabilire la standardizzazione e le tipolo-gie del linguaggio, ma vi è anche un potere esterno, costituito dalle richie-ste di chi commissiona le mappe, come ad esempio la Chiesa, lo Stato o un editore. La carta risulta, dunque, essere il risultato dell’interazione di queste due istanze.

With the term ‘power of maps’ we refer to an extensive literature that explores ways that maps are neither neutral nor unproblematic with respect to representation, positionality, and partiality of knowledge (cf., Harley, 1989; Wood, 1993). Indeed, Harley (1989) suggests that one should begin from the premise that maps are rooted in and essential to power/knowledge, and points to the tendency of mapmaking to “codify, to legitimate, and to promote the world views which are prevalent in different periods and plac-es” (429). Works of Harley, and later Edney (1997) and Sparke (1995, 1998), move beyond questions of partiality in terms of what maps represent to consider also their silences and absences, including conditions of possi-bility for the production of, or readings of, particular maps. What actors, re-sources, or social relations enabled a particular map to be produced? What relations does a particular map enable the reader to see? Or, otherwise stat-ed, what relations of power and partiality does the map itself produce? Ap-plied to conservation, these insights open several critical avenues for explo-ration. For instance, how does mapping suggest that certain spaces can, or should, be protected for conservation? How does the relative ‘mappability’ of different areas or landscapes encourage the protection of certain features over others? How do maps allow readers to imagine certain spaces as unin-habited and appropriate for protection, or already successfully ‘protect-ed’54?

Studiosi come Wood e Fels si sono spinti oltre Harley attingendo agli

strumenti della semiotica e allo studio dei segni: è importante considerare l'interazione tra il significato latente e il significato manifesto, che sono alla base di una determinata carta, per poter interpretare i simboli che la costi-

54 Harris L. M., Hazen H. D., Power of maps: (Counter) Mapping of Conservation,

ACME: An International E-Journal for Critical Geographies, 4 (1), 99-130, 2006, p. 101.

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tuiscono, e che vengono considerati la sintesi del mondo reale. Le carte in questo senso sono suscettibili di continue interpretazioni.

By focusing our attention on the nature of maps, that is, on what above

all is supposed to be free of ideological construction – mapped wildlife, earthquakes, hurricanes, mountains, canyons, birds, butterflies, pinnipeds, ecosystems, landforms, vegetation, topography – we show that is the map, hardly alone, in collaboration with other sign systems, which creates ideol-ogy, transforms the world into ideology, and by printing the world on paper constructs the ideological. It doesn’t matter what has the map’s attention. Whatever its subject is will be turned into something it isn’t and in the pro-cess inescapably, unavoidably made ideological. At a minimum, at the most atomistic, it will be a construction, an invention, a conception, something drawn not from the world but from the mind of men and women; for maps are made not of wildlife, earthquakes, hurricanes, mountains, canyons, birds, but of signs – these themselves composed of marks and concepts55.

Le carte in tal modo non sono semplicemente rappresentazioni di parti-

colari contesti, luoghi e tempi. Esse sono mobili, ricche di significato, con-troverse, complesse e interconnesse con le pratiche socio-spaziali. In tal senso MacEachren sostiene l’utilizzo della semiotica nell'analisi del “come funzionano le carte geografiche” sia a livello individuale che a livello so-ciale. I cartografi devono indagare le carte, non soltanto in quanto disposi-tivi comunicativi, ma come rappresentazioni. Le carte, come tutte le altre rappresentazioni, sono aperte all’interpretazione e sono mutevoli.

MacEachren sostiene che “la prospettiva semiotica offra un nuovo modo di considerare l'interazione dei significati espliciti ed impliciti di cui sono imbevute le cartografie56”. Queste sono molto di più di semplici dispositivi di comunicazione prodotti dai cartografi; i significati vengono anche co-struiti sulla carta dagli utenti che sviluppano o meno un consenso sui sim-boli rappresentati: questo processo non ha mai fine, in quanto gli utenti so-no in grado di produrre una moltitudine di interpretazioni.

Nell’ambito degli ultimi sviluppi della Critical Cartography, soprattutto in riferimento ai significati che la carte sottendono e il loro “potere” semio-tico, risulta essere degno di nota anche il panorama italiano. In particolar modo Emanuela Casti57 definisce la carta geografica come un testo “poli-

55 Wood D., Fels J., The Natures of Maps: Cartographic Constructions of the Natural

World, cartographica (volume 43, issue 3), pp. 189-202, 2008, p. 190. 56 Del Cadino Jr. V. J., Hanna S. P., Beyond The “Binaries”: A Methodological Inter-

vention for Interrogating Maps as Representational Practices, ACME: An International E-Journal for Critical Geographies, 4 (1), 34-56, 2006, p. 39.

57 Casti E., L’ordine del mondo e la sua rappresentazione, Milano, Unicopli, 1988.

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strutturale” costituito da codici. Gli elementi geometrici, i numeri, i colori, le parole, che compongono questo testo, costituiscono un campo semiotico e danno ai luoghi una significazione. La carta, dunque, è un’interpretazione e una rappresentazione grafica del territorio e come tale attribuisce dei va-lori, più o meno differenti tra loro, agli elementi che lo compongono. La Casti insiste particolarmente sulle implicazioni pragmatiche della cartogra-fia, affermando che essa è uno strumento attraverso cui l’uomo interviene sul mondo per realizzare i propri progetti di cambiamento. L’autrice, inol-tre, mette in risalto il carattere autoreferenziale delle carte, e parlando ap-punto di “referenza cartografica” fa riferimento alla capacità della carta geografica di trasmettere informazioni indipendentemente l’intenzione del suo autore. La cartografia, in questo senso, può contenere dei messaggi di-versi da quelli volutamente espressi dal suo “creatore”, dando così la possi-bilità al destinatario di farne un uso diverso da quello auspicato. Essa è au-toreferente proprio perché condiziona ciò che rappresenta, dunque non solo descrive un territorio, ma permette a chi la legge d’intervenire su di essa.

La Critical Cartography è parte di un processo di lungo periodo di criti-

ca alla cartografia che è sfociato, fondamentalmente, in due sviluppi princi-pali: uno teorico e uno pratico.

Dal punto di vista teorico la principale critica fatta alla cartografia acca-demica è quella di voler realizzare una rappresentazione della realtà che sia quanto più veritiera possibile, anche di più della realtà preesistente. Ma la Critical Cartography afferma che le carte più che rappresentare la realtà la creano. In questo senso Wood, osservando come le carte vengono prodotte e come si iscrivono nel potere, afferma che queste esprimono interessi che sono spesso avvertiti come invisibili e partecipano attivamente alla costru-zione della conoscenza. Inoltre, Harley e Woodward affermano che “le car-te sono delle rappresentazioni grafiche che facilitano la comprensione spa-ziale di cose, concetti, condizioni, processi o avvenimenti nel mondo uma-no”, pertanto queste risultano essere importanti nell’esperienza dell’uomo. Gli sviluppi teorici dunque mettono in evidenza il ruolo sociale giocato dal-la cartografia, la sua etica e i suoi rapporti con il potere.

Dal punto di vista pratico, invece, molti artisti indagarono su come le carte possano essere politiche e come la cartografia possa essere interpreta-ta come un atto politico.

Si tratta di un percorso d’indagine molto lungo che cominciò con l’avanguardia dei movimenti artistici d’inizio Novecento fino ai psicogeo-grafi degli anni Cinquanta e Sessanta, che cercavano di proporre una carto-grafia come forma di resistenza alla profonda trasformazione urbana e quindi come resistenza politica. Uso strumentale della cartografia venne

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fatto anche in altri ambiti, non inerenti allo spettacolo, e ciò grazie a quel processo di democratizzazione dell’uso della carta geografica messo in atto dai media, che hanno portato a una vera e propria cartografia culturale. Ora la cartografia non è più parte soltanto della conoscenza accademica, non è più legata al ristretto ambito universitario, ma con l’utilizzo di applicazioni open-source si presta a una pratica generica più diffusa, destinata non più solo alla geografia.

Per quanto riguarda i GIS, una prima critica rivolta verso questi nuovi sistemi di georeferenziazione (volti all’acquisizione, la registrazione, l’ana-lisi, la visualizzazione e la restituzione di informazioni derivanti da dati geografici geo-riferiti, appunto) riguarda proprio il modo in cui questi pro-ducono conoscenza e in quale misura i loro valori possono essere conside-rati neutri. Successivamente la critica si è focalizzata sul concetto di GIS come pratiche “socialmente costruite”. In particolar modo Harvey e Chri-sman si sono occupati di come i GIS, e i dati in questi contenuti, plasmino e siano plasmati dai contesti istituzionali.

GIS, we are told by Openshaw, is part of "the new data-driven and co-

puter-based knowledge-creating technologies". The problem with this for-mulation is that it implies that data are given, and that our geographies are built from this starting point. But inherent in all data are the social relations that exist in the complex mechanism whereby it has been decided by some-one in some economic, social, and political context to create the data. Data do not just exist, they have to be created, and who does the creating, for whom, and for what purposes, is vital. Most data have traditionally come from states, although, private institutions are increasingly producing more and more data. The decision to create and release a set of data for political or commercial ends is not a legitimate substitute for the research decision about what information is required for the investigation of a particular prob-lem58. La critica più rilevante, tuttavia, risulta essere quella di Crampton59

(1995, 2001, 2003), che affronta questioni di privacy e di etica in riferimen-to alla conservazione e alla diffusione dei “dati GIS”. Crampton sottolinea che non è l'apparato tecnologico in sé a rappresentare un problema, ma piuttosto lo è la nostra tendenza a pensare il mondo in termini di persone e lo spazio in termini di risorse a rischio che devono essere gestite e succes-sivamente sorvegliate. Egli suggerisce di pensare alla cartografia come a

58 Taylor P. J., Overton M., Further thoughts on geography and GIS. Environment and

Planning A 23 (8), 1087-1090, 1991, diffusamente. 59 Propen A. D., Critical GPS: Toward a New Politics of Location, ACME: An Interna-

tional E-Journal for Critical Geographies, 4 (1), 131-144, 2006, p. 133.

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una pratica critica e di chiederci quali siano gli usi accettabili delle tecnolo-gie di georeferenziazione. Crampton si occupa anche delle strutture di pote-re interne alla carta geografica:

he sees the map as imbued with its own agency, as producing its own

contexts, and he wonders about the possibilities that these contexts hold: “[M]aps and GIS are important sources for the production of geographic knowledge. What are the power-knowledge relations of mapping as they occur against the historical horizon of possibilities and how can that hori-zon be enlarged?” (Crampton, 2003a, 53)60. Secondo Crampton, dunque, dato il ruolo potente dei GIS nella produ-

zione di dati sulle relazioni spaziali, non è sorprendente che questi siano stati spesso criticati come strumenti che "perpetuano differenziali di pote-re61" attraverso la loro capacità di consentire una violazione della privacy: ora è infatti possibile fare ipotesi sulle opinion politiche, religiose, com-merciali, di ciascuna famiglia. Ciò che risulta essere più inquietante in tutto questo discorso è che questo sistema di “sorveglianza” sociale, al di là del fatto che è in gran parte non regolamentato, presuppone una nozione di chiusura, una visione in cui vi è una popolazione di n individui in cui è pos-sibile ottenere conoscenze misurabili su ciascuno di essi. Essa implica, per-tanto, una società veramente chiusa, che non prevede variabili di cambia-mento o individualità. In questo contesto si interseca, come già accennato, la questione riguardante la violazione della privacy, che diviene ancora più sentita nel momento in cui ci troviamo a che fare con la tecnologia GPS.

Al suo livello basilare, la tecnologia GPS consiste in un sistema di navi-gazione satellitare che fornisce segnali satellitari codificati che possono es-sere trattati in un ricevitore GPS, permettendo così al ricevitore di calcolare la posizione, la velocità e il tempo di spostamento. I dati del ricevitore pos-sono essere a loro volta elaborati per calcolare e mappare la posizione geo-grafica in tempo reale. La tecnologia GPS ha la capacità di calcolare, all'in-terno di un piccolo margine di errore, la posizione quasi esatta di un parti-colare oggetto o persona. Questi dati possono poi essere integrati in un GIS, che agisce come un "database descrittivo" integrando, elaborando e con-frontando i set di dati geografici acquisiti. I database GIS possono poten-zialmente consentire lo stoccaggio e l'utilizzo di informazioni molto perso-nali su un individuo: la privacy, dunque, diminuisce man mano che Internet si espande e che i dati personali sono combinati e diffusi eliminando la pos-sibilità di sapere chi sa cosa di una data persona. In tal senso il sistema GPS

60 Propen A. D., ibidem, p. 134. 61 Propen A. D., ivi.

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aggrava ulteriormente la questione riguardante la privacy, il consenso, e la circolazione delle informazioni personali permettendo un vero e proprio monitoraggio in tempo reale. In un certo senso “siamo sempre localizzabi-li”62.

Crampton afferma che la Critical Cartography, e a sua volta la Critical GIS/GPS, devono occuparsi delle limitazioni nella rappresentazione delle popolazioni e degli individui e delle misure in cui tali limiti possono essere superati estendendo le possibilità delle nuove tecnologie d’informazione e georeferenziazione.

Crampton ha infine individuato cinque possibili sviluppi che rappresen-tano il futuro della ricerca per la Critical Cartography63:

- quello degli artisti che appropriandosi dell’uso delle carte geografi-che hanno aperto nuove possibilità di realizzazione, di lettura e di critica;

- le carte metereologiche, ludiche, che permettono di mettere in rilie-vo il ruolo della mobilità e del territorio nella vita quotidiana;

- la cartografia militare e d’opposizione, che permette letture alterna-tive da quelle ufficiali di molteplici fenomeni;

- il map hacking, ovvero l’utilizzo delle applicazioni open-source per la cartografia in una pratica generica non destinata solamente all’ambito geografico;

- la critica teorica, che permette di criticare gli assunti per poterli mettere in una prospettiva storica.

La carta geografica è un prodotto di sintesi culturale in cui si fa ricorso a un linguaggio iconico, semiologico, oggettivo che richiama a forme meta-foriche radicate nella quotidianità di chi le osserva. Fare una cartografia si-gnifica dunque rappresentare graficamente delle informazioni.

In questo capitolo si è cercato di mostrare come da sempre, nel corso

della storia, ci sia stato un forte legame tra le dinamiche geopolitiche, la comunicazione e l’uso delle carte geografiche. C’è sempre stato un forte fattore di scambio tra le classi dirigenti, i mass media e i geografi. Non è mai stata indifferente ai potenti la valenza iconografica delle carte, che gra-zie alla loro immediatezza sono in grado di comunicare un’immensa varietà di messaggi. Questa stessa “potenza iconografica” la troviamo nella diffu-sione del messaggio cartografico, come abbiamo già affermato in apertura di questo testo, perché considerata come scientifica e, se usata in paesi dove esiste una sensibilità geografica diffusa (come non è il caso del nostro PAe-

62 Propen A. D., ibidem, p. 135. 63 Crampton J. W., Krygier J., An introduction to Critical Cartography, op. cit., p. 25.

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se) risulta essere uno strumento molto efficace, il più efficace probabilmen-te, per l’analisi e la comprensione di contesti, conflitti che altrimenti, solo con l’aiuto delle relazioni internazionali o della storia, risultano incompren-sibili, troppo intricati. È il grosso problema dei media italiani che, sia in stampa che in televisione o radio, si concentrano sempre sull’evento, sull’aneddoto ma mai riescono a compiere delle analisi capaci di dirci come mai si è giunti a quella determinata situazione. È quello che ci colpisce ogni giorno quando per esempio ci fanno credere che il conflitto tra Arabi-Palestinesi e Israeliani sia in realtà un conflitto di religione e quando ci mo-strano che nel mondo è in corso uno scontro globale tra Musulmani e Cri-stiani. Oppure quando ci fanno vedere che tutto il nord africa è una polve-riera araba pronta a venire all’attacco della “fortezza” Europea. Tutti questi casi vengono comunicati in modo molto rapido, sintetico, concentrando l’informazione sull’accaduto, circostanziato oppure si cerca di esporre il caso da un punto di vista storico ma senza essere capaci di analizzarlo, cer-cando di mettere insieme tutte le diverse variabili che vi intervengono. Per questo motivo si è pensata questa seconda parte. Esporremo in modo più articolato dei casi che sono poi quelli che più spesso troviamo nei nostri giornali o vediamo trattare in televisione. Sentiamo di non capire tutto, pensiamo che sia sempre stato così, a volte crediamo invece di capire tutto ma solo perché semplifichiamo e quindi non capiamo. Vogliamo mostrare questi casi come Mediterraneo, Vicino e Medio Oriente, Nord-Africa, Sa-hara che è sempre più percepito come futura fortezza del terrorismo islami-co mondiale. Esponendoli al meglio, nel limite dello spazio che una parte di questo testo ci concede e purtroppo senza l’ausilio delle carte che sarebbero state necessarie, speriamo che il lettore possa finalmente fare la differenza tra quello che gli viene mostrato, esposto, rappresentato, e i diversi casi esposti con un procedimento veramente geopolitico, che lavori su diversi livelli di analisi, che consideri i diversi tempi della storia, che consideri le caratteristiche dei diversi insiemi territoriali e i diversi attori che vi inter-vengono. Insomma speriamo che dopo queste pagine si possa riuscire a ca-pire fino a che punto i media italiani sono lontani dal riuscire a dare un giu-sto resoconto e, soprattutto, una buona analisi di certe situazione. In questo modo ancora di più, ci auguriamo, sarà possibile fare quel collegamento stretto tra la comunicazione e la geopolitica.

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Seconda Parte

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5. Geopolitica e guerra fredda

Possiamo affermare che non esiste geopolitica senza comunicazione e se all’inizio abbiamo dato delle spiegazioni di “rappresentazione”1, abbiamo chiaramente visto negli altri capitoli quanto la geopolitica sia utilizzata nei media: male o bene. Nel realizzare questo testo ci è sembrato quantomeno opportuno offrire alcune spiegazioni di casi di Geopolitica. Certo sempre nel primo capitolo abbiamo spiegato cosa sia Geopolitica e in particolare quanto non debba essere confusa con la geografia politica, ma cosa vuol dire osservare una situazione geopolitica? Ci è sembrato utile, dopo aver tanto parlato di carte geopolitiche e uso nei media della geopolitica, di de-dicare una parte di questo lavoro all’analisi di casi di geopolitica veri e propri, in modo da meglio far capire cosa voglia dire fare un’analisi geopo-litica. Per questo abbiamo scelto dei casi che fossero più vicini al nostro quotidiano, uno scacchiere a noi vicino. Parleremo di Mediterraneo, di Vi-cino e Medio Oriente, ovviamente faremo digressioni storiche (scusandoci fin d’ora con gli storici per l’approssimazione e la sinteticità di queste di-gressioni) su quel periodo chiamato “guerra fredda” senza il quale non c’è possibile comprendere lo scacchiere del Mediterraneo. Insomma grazie al metodo della geopolitica cercheremo di capire quanto sia complesso com-piere un’analisi geopolitica perché meglio si possa capire il risultato finale di una rappresentazione geopolitica. La scelta dello scenario Mediterraneo è stata così semplice e naturale a causa delle tensioni che oggi si possono vivere intorno a quest’area (o delle tensioni che sono rappresentate intorno a esso). Pensiamo alle cosiddette “primavere arabe”, a quello che è accadu-to in Tunisia, Libia e Egitto. Pensiamo alla rivolta oramai diventata guerra civile che sta vivendo oramai da oltre un anno la Siria. Senza dimenticare quello che per i giovani di oggi sembra essere un conflitto senza fine: quel-lo oggi chiamato Israelo-Palestinese e che una volta era chiamato Arabo-Israeliano. Tanti fattori sono mutati in questi ultimi decenni, con un Occi-

1 Capitolo 1.

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dente che abbandona sempre più l’Africa dopo decenni di colonizzazione, la Cina che cerca sempre più una leadership planetaria. Una lotta planetaria che si fa certo per i territorî (geopolitica) quanto per il dominio d’aree d’influenza senza controllarne territori e popolazioni (la geoeconomia di Pascal Lorot e della fondazione Choiseul). Dove geoeconomia significa l’analisi dei conflitti in cui il territorio è virtuale non essendo l’obiettivo dei contendenti bensì lo è il controllo di una tecnologia chiave, una fonte d’energia, dove il possesso di una di queste cose conferisce automatica-mente a chi la detiene un vantaggio competitivo fondamentale nella compe-tizione mondiale. E ancora una volta le carte saranno l’elemento di lettura principale visto che comunque scriviamo da geografi e non esiste geografia senza carte geografiche. Le carte che ci permetteranno di fare le dovute ri-flessioni sugli insiemi spaziali che vogliamo delimitare e analizzare, fino a definire degli insiemi spaziali anche molto lontani nel mondo (l’insieme dei Musulmani nel mondo non è continui e tocca Paesi molto distanti tra loro nel mondo). Noi geografi ci interessiamo alla demografia quanto alle lingue e le identità o alla religione, senza trascurare anche la natura stessa dei ter-ritori, quindi dobbiamo spesso considerare anche le carte geologiche, oltre quelle demografiche o linguistiche. Ma tutti questi insiemi non corrispon-dono tra loro e al contrario spesso sono di dimensioni molto diverse e si so-vrappongono l’uno all’altro. Per non trascurare che se gli insiemi geologici o climatici sono complessi da rappresentare su delle carte geografiche, l’uomo e le sue strutture socio-culturali lo sono certamente di più. Come geografi che vogliamo comunicare attraverso le carte, abbiamo l’obbligo di farci carico di questa complessità nella caratteristica della nostra disciplina. Proprio per questa complessità, troppo spesso, si tende a non affrontare cer-te analisi fino in fondo, considerando veramente tutte le variabili e le loro sovrapposizioni che vi sono su un determinato territorio. È anche questo che ha portato l’Italia a un scarsissima qualità della produzione cartografica (quasi inesistente) e a una sempre maggiore perdita di conoscenza in campo geografico (come pensare che al declino cartografico non fosse legato an-che quello della disciplina che ne dipende?). I capitoli precedenti ci hanno mostrato fino a che punto i media italiani non si sottraggono all’utile sintesi di un messaggio cartografico, ma quanto in modo fallimentare (a dir poco) e incapace poi producano delle carte geografiche che non riescono a offrire quello che si voleva: una sintesi di un’analisi nonché il messaggio del car-tografo o giornalista che guida il cartografo. Da qui anche le analisi che i media italiani hanno condotto su quanto accaduto in particolare nel Medi-terraneo e Medio Oriente. Perché la scarsa abitudine alla riflessione geogra-fica influenza anche il prezioso lavoro che i giornalisti conducono nelle lo-ro inchieste. Così sui conflitti israelopalestinese o Siria e Libano o Iran e

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Iraq, quasi sempre il lavoro d’indagine condotto sul terreno, molto spesso ci porta utili informazioni sugli eventi, gli aneddoti (spesso drammatici), ma quasi mai si conclude con una sintesi completa della situazione che permetta al lettore una comprensione del “come si è giunti a questo punto”. Obiettivo invece della geopolitica.

Le rivoluzioni arabe iniziate nel 2011 sono state certamente facilitate dalla mondializzazione e dalle tecnologie di comunicazione che ci permet-tono di veicolare messaggi e rappresentazioni. Qual è stato l’effetto del World Trade Center che crollava oltre un decennio fa su tutte le popolazio-ni del mondo, quelle occidentali o filoamericane e quelle musulmane di paesi dove parte delle popolazioni si faceva incantare dal discorso antiame-ricano del defunto Osama Bin Laden? Oltretutto gli integralisti islamici (da non confondere assolutamente con tutta la popolazione musulmana del mondo, maggiormente moderata e non certo fanatica, quanto altrimenti lo potrebbero essere taluni movimenti cattolici in Italia e all’estero) appena riescono a prendere il potere in qualche parte del mondo cercano proprio di spazzare via quei media e quella comunicazione che rappresentano come i mezzi attraverso i quali l’Occidente “giudeocristiano” cercherebbe di do-minare e indebolire sempre più i musulmani.

Cerchiamo allora di esaminare questo contesto di cui tanto ci si parla, si discute (di cui quasi mai ci fanno vedere cartografie complete) e per farlo al meglio dovremmo anche parlare di NATO (un altro insieme spaziale) e di Guerra fredda. Siamo certi di sapere quando comincia la Guerra fredda e soprattutto perché si costituisce la NATO? Cos’è cambiato oggi nel Medi-terraneo e in quel Vicino e Medio Oriente di cui tanto ci parlano? Abbiamo scelto per questo motivo di cominciare proprio dalla NATO, per poter me-glio capire in che modo questa struttura è cambiata e soprattutto ha modifi-cato le sue strategie, nonché i suoi equilibri interni. E per farlo sarà fonda-mentale fare un breve passaggio attraverso i giorni della “guerra fredda”.

1. La guerra fredda

Spesso si definisce come guerra fredda praticamente, sbagliando, tutto il periodo che va dalla fine della seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino del 1989. Lo si fa perché si vuole indicare come Guerra Fredda tutto il periodo in cui USA e URSS si dividevano il mondo in aeree d’influenza ed erano pronte a una “eventuale escalation nucleare”. Effetti-vamente chi oggi frequenta da studente l’università non ha praticamente memoria di quella situazione storica e non ha mai conosciuto altro se non la potenza degli USA come se la Guerra Fredda non fosse mai esistita. Ma

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non possiamo capire l’enorme potenza militare degli USA di oggi se non si tiene conto di questo lungo periodo, quasi 40 anni, durante il quale gli USA si sono opposti a quello che loro consideravano come il rischio di espansio-ne del comunismo sovietico in Europa e nelle altri parti del mondo.

Come sappiamo Stati Uniti e l’Unione Sovietica non si sono mai fatti la guerra direttamente. Detenevano entrambe l’arma atomica e questo avrebbe avuto certamente conseguenze spaventose sull’insieme stesso dell’umanità visto che potevano lanciare testate nucleari a migliaia di chilometri di di-stanza. La distruzione di una gran parte dell’Europa, delle grandi città della Russia, ma anche indirettamente le ricadute radioattive che avrebbero avuto luogo avrebbero praticamente reso invivibile il pianeta. I dirigenti Ameri-cani e Sovietici hanno avuto la saggezza di non scatenare questa guerra, malgrado i pericoli ai quali essi stessi hanno dovuto far fronte in diverse circostanze.

È per questo motivo che si è parlato di “guerra fredda” basata su quello che chiamavamo l’“equilibrio del terrore”: grazie ai radar situati nell’Arti-co, il lancio dei missili da uno di due campi avrebbe significato sicuramen-te la risposta immediata dell’altro. Ma questa “guerra fredda” non ha esclu-so delle manovre geopolitiche indirette; ciascuna delle due superpotenze si è impegnata in conflitti locali di cui alcuni sono diventati delle vere e pro-prie guerre, ma senza che l’altro avversario intervenisse direttamente, per evitare una guerra mondiale.

1.1. Perché la guerra fredda? È importante oggi chiederci perché USA e URSS si sono opposti per

decenni. Certo, l’ideologia dei bolscevichi che nel 1917 prendono il potere in Russia predicava la rivoluzione proletaria a livello mondiale contro il capitalismo e gli USA, all’inizio degli anni ’20, apparivano come il Paese dove questo capitalismo era in piena fioritura. Ma a differenza della mag-gior parte dei dirigenti Inglesi e Francesi, che dopo la prima guerra mondia-le desideravano una grande crociata contro il bolscevismo, i dirigenti Ame-ricani si opponevano perché non condividevano questo punto di vista cioè non consideravano la Russia Sovietica così pericolosa come affermavano i governi della vecchia Europa. Addirittura per loro poteva essere fonte di affari. Infatti Rockefeller approfitta della scomparsa del petrolio di Baku (grazie alla presa di potere dei Bolscevichi) sul mercato europeo per espor-tare il suo petrolio in Europa. Delle grandi aziende americane hanno anche apportato il loro aiuto all’URSS, notoriamente per la costruzione di fabbri-che di automobili di grandi dighe. Occorre anche dire che negli USA la

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classe operaia, senza dubbio in ragione anche delle convinzioni religiose in seno alla società americana, appariva molto meno sensibile al marxismo di quanto invece non lo potesse essere negli altri Paesi europei ei movimenti sindacali erano tanti, molteplici d’origine geografica e estremamente fram-mentati al loro interno, oltretutto la maggior parte non guardava con inte-resse a quello che accadeva nella neonata Unione Sovietica.

Sempre per il Governo USA, il fatto che i dirigenti Sovietici firmassero il Patto germano-sovietico dell’agosto del ’39, mostrava che non rifiutarono un’intesa con una potenza capitalista che fino a quel momento si era pro-clamata avversaria del più radicale comunismo. Quindi un attore politico col quale fare affari era possibile, che non chiudeva le porte al capitalismo in modo cieco. Fu oltretutto l’attacco tedesco che ruppe quell’accordo tra Germania nazista e URSS nel giugno del ’41 obbligando Stalin a rinunciare a questa che possiamo definire un’illusione.

Nel dicembre del ’41, dopo il Giappone, Hitler ha dichiarato guerra agli USA, e questi si trovano alleati senza volerlo dell’URSS, ma teniamo pre-sente che i Sovietici erano già abbondantemente aiutati dagli Americani du-rante la fase della guerra in cui loro non erano direttamente coinvolti.

Le relazioni tra Americani e Sovietici durante la conferenza di Yalta del febbraio del ’45, sono sufficientemente buone perché questi possano inten-dersi sull’entrata in guerra dell’URSS contro il Giappone nei tre mesi suc-cessivi, come anche sono d’accordo sulle nuove frontiere con la Polonia. L’accordo non portava come si è sempre detto dopo sulla divisione dell’Eu-ropa, ma sulla messa in moto di governi democratici nelle zone di occupa-zione dei differenti eserciti alleati in Europa.

È a questo punto che comincia il primo ostacolo nelle relazioni tra USA e URSS. Infatti, nei Paesi che erano stati occupati dall’armata rossa, i So-vietici trasformano immediatamente la nozione di “regime democratico” in regime controllato da un solo partito, il partito comunista che era d’obbe-dienza sovietica e che annunciava il regime di “democrazia popolare”.

Vi sarà poi nel marzo del ’46 Winston Churchill che nel suo discorso agli Stati Uniti, aveva denunciato quello che chiamò la “cortina di ferro” che i Sovietici avevano appena stabilito attraverso tutta l’Europa per impe-dire i contatti tra Est e Ovest. Ma gli Americani continuavano a mantenere delle relazioni relativamente cortesi con l’URSS, dato che all’inizio del ’48 proponevano loro, come ai Paesi “occupati”, di godere dell’aiuto americano per la ricostruzione: il famoso piano Marshall. Questo stesso piano Mar-shall fu vietato da Stalin agli Stati dell’Europa centrale che si rivelarono oramai per quello che erano: dei vassalli dell’URSS.

È però importante osservare che il conflitto che portò USA e URS a scontrarsi per diversi decenni si scatenerà per delle poste in gioco territoria-

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li di dimensioni estremamente ridotte come la Cecoslovacchia e Berlino. Alla conferenza di Yalta e a quella di Potsdam era stato convenuto che la Cecoslovacchia la cui parte occidentale era stata liberata dagli Americani, sarebbe stata gestita da un governo di unione nazionale che avrebbe asso-ciato comunisti con membri del governo ceco che si erano nel frattempo rifugiati a Londra dal 1939. L’esclusione progressiva di questi ultimi sotto la pressione di manifestazioni comuniste (quello che si chiama il colpo di Praga del febbraio-giugno del ’48) segna l’inizio della rottura tra Americani e Sovietici, rottura consumata qualche giorno più tardi quando questi ultimi decidono di impedire, attraverso il corridoio che attraversava le zone di oc-cupazione, il trasporto di ogni merce tra la parte occidentale della Germania e Berlino Ovest, cioè le zone di occupazione Americane, Britanniche e Francesi di Berlino, come erano state definite alla conferenza di Potsdam. Per i Sovietici questo blocco di Berlino doveva logicamente condurre gli occidentali a rinunciare alla loro presenza nella vecchia capitale tedesca. Gli Americani decidono di raccogliere la sfida e con un vero e proprio tour de force logistico realizzano un ponte aereo militare che approvvigionerà Berlino Ovest a partire dal giugno del ’48 fino a maggio del ’49.

Ci si può chiedere quello che sarebbe accaduto se l’Europa Occidentale e i suoi dirigenti Americani, compreso il Presidente Truman, avessero ri-nunciato ad approvvigionare Berlino per via aerea malgrado i rischi e le spese enormi che questo aveva rappresentato. Se ci pensiamo con lo stato d’animo dei cittadini di quel periodo storico, fare tutto quello sforzo per so-stenere i Tedeschi, cioè quelli che erano pur sempre i nemici di tre anni prima, sembrava a dir poco sorprendente (la guerra la si era fatta contro i Tedeschi e con i Russi come alleati). È verosimile immaginare che tutta l’Europa Occidentale poteva in realtà finire sotto influenza sovietica se gli Americani non avessero appunto imposto quel famoso ponte aereo marcan-do un po’ il limite della possibilità di occupazione dei Sovietici. Soprattutto considerando quanto tutto il mondo intellettuale europeo, particolarmente in Italia, s’interessasse o fosse comunque filocomunista, all’inizio sicura-mente filosovietico.

La vera URSS, quella dittatoriale, arriverà in Europa non tanto con il processo di destalinizzazione (addirittura il fortissimo Partito Comunista Francese tornò da Mosca non credendo a quello che si era detto di Stalin e continuarono fino ai nostri giorni a essere un Partito Comunista stalinista, mentre tutti gli altri si demarcarono dalla figura oramai imbarazzante a dir poco del leader Sovietico), quanto con la pubblicazione di Arcipelago gu-lag dello scrittore russo Aleksandr Solzenicyn dove appariva l’oscura e tri-ste realtà della deportazione dei dissidenti Sovietici.

Da un punto di vista geopolitico dobbiamo considerare quello che ha

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permesso di sviluppare la cosiddetta democrazia sia sul piano sociale che culturale, nei Paesi dell’Europa occidentale sotto la protezione degli USA, questo nonostante l’opinione pubblica spesso abbia manifestato la profonde critiche o vera e propria opposizione contro un’America considerata troppo presente, imperialista, quasi altrettanto dittatoriale. La libertà dell’Europa Occidentale, anche di contestare uno dei pilastri della loro libertà, non esi-steva nei Paesi dell’Est dell’Europa, popolazioni di milioni di abitanti, an-che Russi, che dovevano convivere con una feroce dittatura. Oggi, se guar-diamo a questi Paesi, molti dei quali membri dell’Unione Europea, dob-biamo considerare questo aspetto, particolarmente nel loro funzionamento nonché spesso come spiegazione del loro forte ritardo in diversi settori. So-no le difficoltà che noi indichiamo come “post-comunismo”.

2. Perché nasce la NATO?

Partiamo dal fatto che la NATO è, tra le tante cose, un chiaro insieme geografico. Questo insieme è composto dai Paesi che la compongono: pos-siamo considerare le relazioni tra questi come chiare e serene? Certamente no o, quantomeno, non negli ultimi anni. Vediamone i motivi e cerchiamo di capirli.

La costituzione della NATO, organizzazione politica e militare, ha luo-go nel 1949, all’inizio della guerra fredda, era chiaramente in funzione di un rapporto di forza, dato che aveva come missione effettiva di opporsi all’espansione sovietica nell’Europa occidentale. In effetti, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’URSS aveva imposto il potere dei partiti comunisti come sua diretta emanazione in sei Paesi Europei che erano oc-cupati dall’Armata Rossa: Polonia, Cecoslovacchia, Germania Orientale (la RDA), Ungheria, Romania, Bulgaria. La NATO era destinata a proteggere l’Europa da un eventuale attacco sovietico e l’elemento più importante, dal punto di vista militare, erano certamente gli USA.

Il ruolo del Canada era quello di uno stato cuscinetto (i Canadesi non ce ne vogliano) visto che si tratta di uno stato semivuoto con 30 milioni di abi-tanti su un territorio di 10 milioni di Km². Il suo ruolo era quello di fungere da territorio posto tra URSS e USA e appena dopo il Polo Nord, in modo che i radar avrebbero avuto il tempo di individuare i missili Sovietici prima che potessero raggiungere gli Stati Uniti. Questi due grandi Stati dell’America del Nord, da una parte e dall’altra di una frontiera di 6.000 Km quasi tutti ret-tilinei, sono praticamente inseparabili: parlano la stessa lingua (ad eccezione del Québec che è francofono), storie e culture molto comparabili, importan-tissimi scambi tra loro due, esportazione di petrolio canadese, ecc.

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La situazione della NATO in Europa è completamente diversa. I primi Paesi membri della NATO (Regno Unito, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bas-si, Lussemburgo, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Islanda, seguiti dalla Grecia e la Turchia nel 1955) sono molto diversi gli uni dagli altri per lin-gua e tradizioni politiche, non hanno molti rapporti con gli Stati Uniti al-meno all’epoca, eccezion fatta delle isole Britanniche. Ma, sono per la maggior parte dei Paesi che un’offensiva sovietica poteva invadere in qual-che giorno e che facilmente si trovavano a portata di bombardieri e di mis-sili Sovietici. Il punto debole di questa sorta di fronte europeo antisovietico era proprio la Germania Occidentale che era letteralmente tagliata da questa “cortina di ferro” e certamente per questo era molto vulnerabile, permet-tendo alle truppe sovietiche un accesso quasi immediato nel resto dell’Eu-ropa. Per questa ragione l’essenziale.

Abbiamo detto che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ammaina definitivamente la propria bandiera il 1991: a cosa serve quindi la NATO visto che il nemico per il quale era stata creata scompare?

In Francia o in Italia abbiamo già visto che la presenza di un grande par-tito comunista e la diffusione del marxismo avevano permesso anche la convinzione che la NATO non fosse altro che l’ennesimo strumento della dominazione americana. Tant’è che de Gaulle decise nel 1966 di abbando-nare il comando congiunto della NATO (senza però lasciare per questo la sua adesione all’alleanza) e questo non vide nessuna contrarietà particolare nell’opinione pubblica di quel Paese, soprattutto dopo che questa aveva oramai raggiunto una sua indipendenza militare con la costruzione delle proprie testate nucleari.

All’inizio degli anni ’80 si ha la famosa crisi dei missili tra USA e URSS e cioè quando gli USA cercano di installare i propri missili balistici in Germania Occidentale come risposta all’installazione dei missili nucleari sovietici nella Germania Orientale e in altri Paesi del cosiddetto “Patto di Varsavia”. Fu da questo momento in poi che il Governo americano comin-ciava a interrogarsi sulla difesa degli interessi USA prima ancora di quelli Europei. Appena scomparsa l’URSS a Washington hanno subito comincia-to a parlare di smantellamento del costosissimo sistema militare di difesa NATO in Europa (basti ricordare che solo in Germania gli USA avevano in quel momento oltre 100.000 militari stanziati in modo permanente per non parlare dell’altrettanto costosa VI Flotta, basata nel Mediterraneo, che da sola ha più mezzi di tutte le Marine Militari dei Paesi del Mediterraneo messe insieme). Mentre scriviamo questo testo, però, sappiamo tutti che la NATO non è scomparsa e nessuno parla di eliminarla: perché?

In realtà sappiamo bene che il ruolo della NATO è profondamente cambiato negli anni e basti pensare a quando nel 1999, per la prima volta

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dalla sua creazione, l’organizzazione ha ufficialmente fatto una guerra con-tro uno Stato europeo, la Serbia. D'altronde, fu soprattutto su richiesta degli Europei che il ruolo degli Americani si rivelò decisivo per mettere fine al dramma jugoslavo. Ma ancora di più, il numero degli Stati Europei che hanno chiesto di aderire alla NATO è aumentato: oramai ci sono Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, e in seguito Bulgaria, Romania, Estonia, Let-tonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia.

A causa dell’implosione nel 1991 della Federazione Comunista Jugo-slava, l’esplosione di combattimenti tra nazionalisti Serbi e Croati, poi in Bosnia tra Cattolici, Ortodossi e Musulmani, ha fatto temere alcuni dirigen-ti dei Paesi dell’Unione Europea che tali conflitti potessero moltiplicarsi in quella che Lacoste definisce Europa mediana, nei Paesi che erano stati libe-rati dalla dominazione comunista e le cui frontiere erano oggetto di diverse contese. Così la Francia e il Regno Unito hanno inviato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, delle forze di interposizione in Jugoslavia, ma queste si tro-varono ben presto prese in trappola tra i diversi combattimenti. Gli Ameri-cani, sollecitati a intervenire, dichiararono prima di tutto di non voler im-plicare la loro potenza in questo conflitto che non era di rilievo della NATO, dato che nessuno degli Stati membri era minacciato. Dopo aver creduto giusto, su richiesta della Turchia e dell’Arabia Saudita, di fornire delle armi ai musulmani Bosniaci, il governo americano (sotto la presiden-za Clinton), su richiesta dei Francesi e dei Britannici, obbligò i Serbi a to-gliere l’assedio di Sarajevo e, nel 1995, impose ai belligeranti quelli che vennero chiamati gli Accordi di Daytona per una ripartizione della Bosnia in tre zone autonome sotto il controllo della NATO.

Nel 1999, il conflitto in Kosovo tra Serbi e Albanesi prese una forma purtroppo spettacolare di esodo di massa di musulmani che fuggivano dalla minaccia di un vero e proprio genocidio fatto governo serbo. Questa situa-zione aveva provocato grande emozione in Europa occidentale: la NATO e soprattutto l’aviazione americana decisero di intervenire effettuando dei bombardamenti massicci sulla Serbia, malgrado le proteste della Russia. A dispetto delle rivendicazioni di indipendenza dei Kosovari, il territorio del Kosovo è sotto il controllo di diversi contingenti forniti da Stati Europei membri della NATO e degli Americani, le cui forze sono anche posizionate in Macedonia, altra Repubblica ex-jugoslava minacciata di ripartizione et-nica.

Immediatamente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York,

tutti gli Stati Europei membri della NATO hanno sostenuto gli USA, di-chiarando che si sentivano tutti sotto mira tramite questa aggressione e quindi solidali. Il governo americano volle comunque agire, in questo caso,

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senza fare ricorso alla NATO, per l’attacco in Afghanistan. La ragione è semplice: tutto l’apparato militare americano aveva ancora bene in mente la confusione e le difficoltà di un comando condiviso con altre forze militari durante l’esperienza del 1999: tanto valeva andar da soli e chi voleva se-guirli doveva farlo semplicemente adeguandosi al loro comando.

Diversa fu la cosa per l’Iraq nel 2003 che invece provocò la crisi più importante tra i Paesi membri della NATO. Il governo britannico, così co-me quello italiano e spagnolo, malgrado l’opposizione delle loro opinioni pubbliche, sostennero l’azione condotta da Washington, mentre la Germa-nia e la Francia si sono opposte. La Turchia, che comunque è anch’essa membro della NATO e vicina dell’Iraq, e che doveva inizialmente far parte della coalizione, decise infine di tirarsi indietro. La vera novità venne da quelli che erano i “nuovi” membri della NATO e dell’Unione Europea, più particolarmente la Polonia, i quali hanno sostenuto con forza la politica del Presidente americano. Il Segretario della Difesa americana dell’epoca, Do-nald Rumsfeld, ha potuto così opporre nel suo discorso una “vecchia Euro-pa” timorosa (i più vecchi membri della Comunità Europa a parte l’Italia berlusconiana) a una “nuova Europa” giudicata piena di ardore, formata soprattutto da tutti i nuovi membri ex-comunisti dell’Unione Europea e dal Regno Unito. Sappiamo bene che l’ardore di cui parla Rumsfeld è legato semplicemente al fatto che i “nuovi” membri volevano dare prova del loro forte seppur recente legame con la NATO per invece demarcarsi dal loro atavico timore Russo: l’essere invasi e tornare a essere “vassalli”.

La situazione che abbiamo appena sopra descritto mette in evidenza la

questione dei rapporti tra USA e diversi Paesi Europei dalla scomparsa del-l’URSS in poi.

Sappiamo che la Gran Bretagna è abbastanza contraria all’Euro (tant’è

che se ne tiene fuori) e che da anni lavora per far sì che la UE sia una sem-plice zona di libero scambio e la più estesa possibile (posizione uguale a quella dei Paesi Scandinavi); la Francia e la Germania desiderano invece che la UE mantenga anche un insieme geopolitico coerente, malgrado la sua estensione, con una diplomazia comune e con un’autonoma potenza ri-spetto agli USA. Questi ultimi sono, al contrario, favorevoli alla strategia britannica di libero scambio come all’ingresso di nuovi membri nell’UE, trasformandola così in un’entità sempre meno coerente e governabile. Ecco perché la diplomazia americana fa da sempre campagna a favore di un in-gresso della Turchia nell’Unione Europea (sia detto che anche noi siamo d’avviso favorevole ma questo per tutt’altre ragioni e crediamo che l’In-gresso di Ankara nella UE sia fonte di crescita per l’Unione). Insomma se

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consideriamo il supporto dei Paesi dell’Est, della Gran Bretagna, i Paesi Scandinavi e della Turchia (tutti per motivi ben diversi tra loro) Washing-ton disporrebbe così, molto più della NATO, di una vera influenza deter-minante in seno all’Unione Europea, tenendo a bada tutte le ambizioni di potenza mondiale da parte di quest’ultima.

Il vero problema geopolitico per gli USA oggi è altrove: l’aggravarsi dei suoi rapporti con il mondo musulmano. Qui il dato geografico è eviden-te: è l’Europa, dal Mediterraneo alla Russia meridionale che è direttamente in contatto con l’essenziale del modo musulmano e che dovrà prepararsi a far fronte ai contraccolpi del conflitto israelo-palestinese e al confronto tra gli islamisti e gli Americani.

3. Dopo la NATO, quali rapporti tra USA e mondo musulmano?

Quando gli Americani cominciarono il conflitto in Iraq nel 2003 pochi ricordavano un dato estremamente interessante e che Lacoste non smetteva di ricordare sia nei libri2 che nei giornali e cioè che era proprio in questo Paese che è cominciata la prima guerra mondiale, uno dei primi insedia-menti Americani in Medio Oriente.

Erano gli inizi della questione petrolifera e della costituzione, nel 1928, della Iraq Petroleum Company per riprendere l’attività della Turkish Petro-leum, la compagnia germano-turca che aveva cominciato, prima del conflit-to mondiale, lo sfruttamento dei giacimenti di Kirkuk e Mossul. Ma, a quest’epoca, in materia di petrolio e di Medio Oriente, il contesto geopoli-tico è quello di una grande rivalità anglo-americana. Dalla fine della prima guerra mondiale, gli Americani cercano di sfruttare le ricchezze petrolifere del Medio Oriente. Ma per questo devono prima liberarsi dei Britannici. Ci riusciranno nel 1945. Seguiranno i tempi del nazionalismo arabo quindi dell’islamismo. Negli anni ‘80, spingendo alla lotta l’Iraq di Saddam Hus-sein contro l’Iran di Khomeini, gli Occidentali hanno in realtà lanciato una bomba in quell’area che da quegli ani non smette di far sentire le proprie ripercussioni con la guerra contro l’Iran (quella che per prima chiamammo Guerra del Golfo 1980-88), poi la guerra per liberare il Kuwait, quindi Af-ghanistan e Iraq nuovamente.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale (e vedremo meglio nel capitolo

2 Lacoste Y., Géopolitique: la longue histoire d’aujourd’hui, Larousse, Parigi, 2006.

Tutta questa parte attinge agli insegnamenti di quello che è certamente il mio maestro e que-sto suo testo è stato per me il riferimento per questa parte, oltre alle numerose ore di conver-sazioni e lezioni avute a riguardo.

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successivo nel dettaglio) i Britannici avevano un vantaggio: quello che or-mai si chiama Iraq era occupato dalle loro truppe, le truppe indiane, arriva-to durante la prima guerra mondiale per combattere l’esercito turco in quel-la che era chiamata Mesopotamia. L’obbiettivo era semplice: controllarne i giacimenti petroliferi (quelli d’Arabia non erano stati ancora scoperti), ol-tretutto gli Inglesi possiedono già i giacimenti dell’Iran che erano tecnica-mente sfruttati dalla compagnia Anglo-Persian Oil Company ( diventata poi Anglo-Iranian e oggi a tutti nota come la BP, British Petroleum). L’argo-mentazione britannica era che i beni della Turkish Petroleum Company co-stituivano un bottino di guerra da dividere tra vincitori, gli Americani fece-ro pressione per accedere al petrolio iracheno e solo grazie a queste pres-sioni il capitale della Iraq Petroleum Company venne diviso in quattro parti da 23,75%: le grandi compagnie britanniche la Anglo-Persian e la Shell, ne hanno due; la Compagnia francese dei petroli, creata espressamente, ne ha una, così come il Consorzio americano. Ma, nel 1934, gli Americani, più particolarmente la Gulf, hanno la metà della concessione del Kuwait e, so-prattutto, nel 1933, quella che diverrà la Arammo ottiene la concessione per 60 anni sulla metà del territorio saudita: chi credeva che la presenza Ameri-cana nella Penisola Arabica fosse una storia recente, ha dimenticato la sto-ria. Per questo motivo l’immagine che gli USA hanno in quell’area che noi chiamiamo Medio Oriente è molto buona, particolarmente per i nazionalisti arabi: infatti gli USA sono estranei alla spartizione di quei territori sotto mandato della Società delle Nazioni tra “colonialisti” Inglesi e Francesi (Iraq, Giordania, Palestina andarono ai primi, Siria e Libano ai secondi: an-che questo vedremo nel capitolo successivo).

Fu nel 1945 che il Presidente Roosevelt (proprio al ritorno da Yalta) in-contra il Re Abd al-Aziz ibn Saud per firmare quell’accordo storico che ga-rantisce il sostegno degli USA all’Arabia Saudita. E fu nel 1946 che venne inaugurata la base americana di Dahran, in piena zona petrolifera. Per que-sta sua presenza in piena penisola arabica che gli USA, quando due anni più tardi scoppia la prima guerra arabo-israeliana, quella avuta in seguito alla creazione dello Stato di Israele, resteranno neutri e non riconosceranno subito lo Stato di Israele. Chi riconobbe subito, ufficialmente, Israele fu proprio l’URSS e in seguito la Francia, che ne divennero i principali soste-nitori militari. Per delle motivazioni non molto diverse la Turchia chiede e ottiene l’adesione alla NATO nel 1952: temeva di essere fagocitata dal-l’URSS e da Stalin, soprattutto da quando il nuovo zar comunista aveva cominciato ad avere pretese sul territorio di Trebisonda, sul Mar Nero (vi sarebbero state in passato delle truppe zariste).

Vi sarà poi la crisi della nazionalizzazione della Iran Petroleum Com-pany la quale grandi conseguenze geopolitiche. In effetti, la Gran Bretagna

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aveva organizzato il boicotto delle esportazioni del petrolio iraniano. Il Primo Ministro iraniano Mossadegh, che ha l’appoggio del partito di sini-stra Toudeh, si avvicina all’URSS e cerca di far destituire il giovane Scià. I Servizi Segreti Americani organizzano un colpo di Stato che metterà Mos-sadegh fuori gioco. Nel ’54, lo Scià, senza ritornare sul principio di nazio-nalizzazione del petrolio, ne affida lo sfruttamento così come la distribu-zione a un Consorzio che unisce le otto grandi compagnie dell’epoca: cin-que americane, due britanniche e una francese. Da quel giorno e per venti-cinque anni i rapporti economici e militari saranno molto stretti tra Stati Uniti e Iran in piena espansione fino alla rivoluzione del 1979 che porterà alla cacciata dello Scià per dare inizio alla Repubblica Islamica che noi tutti conosciamo.

Facciamo ritorno però sulla guerra del Golfo del 1991 perché questa avrà conseguenze catastrofiche sulla percezione degli Americani in questo territorio. Prima di tutti perché la maggior parte degli arabi hanno giudicato gli USA come se avessero voluto aggredire il mondo arabo in maniera deli-berata, nella misura in cui l’Iraq basista era il solo Paese a volere ancora fare l’unità del mondo arabo e anche il solo a poter veramente combattere Israele. Una conseguenza molto meno evidente, ma che si rileverà dieci an-ni più tardi la più pericolosa per gli Americani, fu che un certo numero di sauditi, e particolarmente la potente confraternita Wahhabite (movimento politico e religioso conservatore), stimò che la guerra del Golfo era stata per gli Americani un pretesto e un modo di insediarsi in Arabia, cioè sul territorio sacro all’Islam.

Ricordiamo che tutto il territorio dell’Arabia Saudita è Horm, cioè sa-cro, e non solamente le città di Medina e de La Mecca. Osama bin Laden, forte del suo prestigio di jihadista e ricchissimo, ha dunque richiesto alla dinastia saudita la partenza delle basi americane insediate in Arabia dal 1990. A discapito di aver ragione, decide quindi di condurre una lunga lotta contro l’“imperialismo giudeo-cristiano” per cacciare gli Americani dall’A-rabia e gli ebrei da Gerusalemme. Ma soprattutto Osama bin Laden usa tut-ta la sua ricchezza nonché la sua conoscenza dell’Afghanistan per insediar-vi il suo rifugio e i campi di addestramento della sua organizzazione: Al-Qaeda. Questo non senza l’appoggio dei talebani, arrivati al potere a Kabul dopo il 1996, e soprattutto dei servizi segreti Pakistani i quali lo protegge-ranno sempre, fino a nasconderlo sul territorio pakistano, dove verrà infine ucciso dalle forze speciali Americane.

Possiamo quindi capire l’intervento, all’indomani dell’attacco al World Trade Center, verso questo stato dell’Asia centrale, ma dobbiamo al tempo stesso ricordare che ancora durante l’estate del 2001, cioè poche settimane prima di quell’attacco oramai diventato storico, gli Americani stavano an-

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cora in fase di negoziazione con i talebani e i servizi segreti pakistani, per la costruzione di un gasdotto attraverso l’Afghanistan con l’obiettivo di col-legare i giacimenti di gas del Turkmenistan alla costa pakistana dell’O-ceano Indiano: questo mentre Osama bin Laden pianificava già l’attacco a New York e Washington.

Quell’attacco ha spazzato via lo scacchiere mostrando agli Americani la terribile minaccia costituita da Al-Qaeda, l’efficacia delle sue reti costituite segretamente negli USA e attraverso numerosi Paesi a 15 000 Km di di-stanza dalle sue basi e la straordinaria determinazione dei suoi terroristi preparati al suicidio (ricordiamo sauditi erano 15 dei kamikaze su 19). A partire dal mese di ottobre i bombardamenti Americani sono cominciati sull’Afghanistan, a partire dalla base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano e dalle basi americane create con l’accordo di Vladimir Putin, nell’ex Re-pubblica sovietica dell’Asia centrale. Ma nulla si muove in Afghanistan se non si passa dal Pakistan: è proprio da questo Paese che infatti provenivano la maggior parte dei Talebani che presero il potere a kabul nel 1996. Dopo il primo bombardamento militare sull’Afghanistan, numerosi partiti paki-stani hanno chiamato dei volontari per la jihad per andare a combattere ac-canto ai talebani. Il Presidente pakistano dell’epoca, il Generale Pervez Musharraf, che aveva preso il potere con un colpo di Stato nel 1999, era, come la maggior parte dei quadri superiori dell’esercito, in contatto stretto con il Pentagono. Fu lui che prese quindi il rischio, seppur retribuito da un enorme finanziamento a vantaggio del suo Paese, di allearsi in qualche mo-do agli Americani, quanto meno chiudendo la frontiera con l’Afghanistan per impedire il ripiego dei talebani. La scelta del Generale Pervez Mushar-raf non era senza pericoli e d’altronde scampò miracolosamente a numero-sissimi attentati, di cui gli autori erano certamente le diverse reti clandesti-ne di terroristi integralisti. Ci sembra interessante immaginare che se i mili-tari filo-islamisti avessero preso ufficialmente il potere in Pakistan e se la situazione in Afghanistan si fosse dovuta aggravare, l’India non sarebbe rimasta certo a guardare. Perché sono proprio quei militari Pakistani di ten-denza islamista che hanno sempre alimentato il conflitto con l’esercito in-diano nel Kashmir. Certamente si sarebbe potuto assistere a una pericolo-sissima espansione del conflitto a tutto il micro-continente indiano. Ma tor-niamo alla guerra USA in Iraq che forse è il tassello più importante per di-panare almeno in parte questa matassa.

Certamente le ragioni sono diverse ma il detonatore è certo da cercarsi negli attentati del World Trade Center. Non dobbiamo trascurare il “colpo” anche mediatico di quell’attentato: le due torri gemelle colpite successiva-mente in pieno giorno, distrutte dall’incendio, crollanti l’una dopo l’altra in diretta TV in mondovisione, furono un dramma che ha condizionato dall’o-

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ra in poi tutto quello che gli Americani hanno deciso o fatto, un colpo vio-lento, probabilmente, più di quanto non fu l’attacco aereo giapponese di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Ogni l’analisi geopolitica, a riguardo, deve considerare che tutta la Nazione americana è in larga misura influen-zata, e senza dubbio ancora per anni, dal trauma del World Trade Center e dalla preoccupazione che quell’evento possa in qualche modo riprodursi. Lo shock di quegli attentati trasforma il personaggio George W. Bush che, ricordiamolo, era profondamente isolazionista, determinato quindi a ridurre lo sforzo americano negli affari del mondo, al contrario di quanto fatto dal suo predecessore Bill Clinton e di quanto avrebbe voluto fare il suo concor-rente in campagna elettorale Al Gore. Bush Jr. è un cristiano evangelista convinto, fortemente pervaso dalla sua appartenenza religiosa e sente di doversi lanciare in una nuova, vera e propria “crociata” contro il terrorismo islamista. Tutto il suo staff di consigliere è di quest’avviso e fa tutte le pressioni possibili su di lui, riuscendoci, affinché venga usata la maniera forte: quella stessa maniera forte che loro credono sia servita ad abbattere il comunismo e il loro riferimento politico è chiaramente Ronald Reagan. Ma questo argomento è sbagliato: Ronald Reagan non aveva replicato con una prova di forza all’invasione sovietica dell’Afghanistan, ma lo aveva fatto con delle strategie indirette, accelerando la corsa all’armamento obbligando così l’URSS a uno sforzo bellico senza precedenti e che li rovinerà definiti-vamente da un punto di vista economico (fu la bancarotta e la fame a far chiudere i battenti al Comunismo sovietico, non una guerra). Per questo Reagan forniva, neanche tanto clandestinamente, via il Pakistan e via Ara-bia Saudita, tutto l’armamento necessario, ai combattenti afghani, compresi quei missili terra-aria che tolsero ai sovietici il controllo dei cieli dell’Af-ghanistan. Quanto alla spiegazione secondo la quale fu il petrolio a spinge-re gli Americano ad andare in guerra in Iraq nel 2003, o meglio, la volontà di permettere a delle compagnie americane d’impossessarsene e gestire le riserve irachene, anche qui le cose non sono esatte. Forse anche il voler da-re una mano a qualche compagnia petrolifera, come opportunità c’era, che possa però aver determinato la scelta probabilmente no. In effetti, per avere del petrolio, bastava ai dirigenti Americani, eliminare l’embargo al quale l’Iraq era sottomesso fin dal 1991 dato che Saddam Hussein non chiedeva di meglio se non vendere i propri idrocarburi. Senza dubbio avrebbe accet-tato degli accordi che permettevano alle compagnie occidentali di parteci-pare alle ricerche petrolifere. Questo avrebbe permesso di far togliere quel boicottaggio internazionale che lo colpiva fin dal 1990. L’America ne avrebbe tratto gran profitto, ma il dittatore di Bagdad sarebbe rimasto anco-ra al potere: questo è un aspetto non trascurabile.

L’establishment americano di quel periodo in quei due anni, oramai lan-

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ciati nella guerra afghana e senza essere riusciti a mettere la mano su Bin Laden che continuava imperterrito a mandare segnali e a rappresentare la “resistenza” alla spaventosa macchina da guerra occidentale, stava concen-trandosi su un altro obiettivo: Saddam Hussein, Presidente dell’Iraq, accu-sato di opprimere il suo popolo e di minacciare la pace mondiale, peggio, era persino sospettato di avere rapporti con lo stesso Bin Laden. Saddam Hussein, malgrado la sconfitta nel ’91, era pur sempre al potere e disponeva addirittura, secondo le informazioni date dal Pentagono, di armi di distru-zione di massa. Probabilmente avrebbe avuto la possibilità di procurarsele in segreto via Corea del Nord o Pakistan così come avrebbe potuto stabilire un’alleanza con Al-Qaeda in modo da vendicarsi degli Americani stessi. In compenso, le conseguenze pericolose che questa guerra avrebbe potuto avere furono passate sotto silenzio dagli Stati Uniti; Conseguenze che non solo venivano evidenziate dalle Nazioni Unite e da governi come Francia e Germania, ma erano persino da diversi Generali Americani i quali si preoc-cupavano di impegnarsi in un conflitto in un Paese così vasto e con un nu-mero inizialmente limitato di effettivi. Ma come sappiamo la decisione fu irrevocabile e l’amministrazione repubblicana di George W. Bush rimase convinta della superiorità militare degli USA e del sostegno popolare che gli abitanti dell’Iraq gli avrebbero portato, non appena eliminato Saddam Hussein.

4. La proiezione della potenza americana in Iraq provoca, in una gran parte del mondo, una fase di grave tensione geopolitica

Si sa che principalmente usando la loro potenza aerea unita alle tecni-

che di radar o, comunque, di mira molto sofisticate, gli Stati Uniti hanno riportato in Iraq una vittoria molto rapida impiegando tutto sommato delle forze relativamente poco numerose. Agli occhi degli strateghi del Pentago-no, queste forze dovevano essere sufficienti, soprattutto se teniamo conto della capacità tecnica ultra sofisticata di cui questo esercito americano di-sponeva.

In realtà noi sappiamo quanto è stato lungo il processo di occupazione e di “bonifica” del territorio iracheno. Fin dall’inizio spazzato via Saddam Hussein il disordine si è subito rivelato essere un grosso problema dell’Iraq. I rappresentanti Americani a Baghdad evocavano fin da maggio 2004 l’e-ventualità di un ritiro delle truppe americane, anche se l’Onu in realtà ha sempre cercato di continuare a rimanere in Iraq sapendo bene il tipo di complessità della situazione sul territorio.

La sovranità irachena è stata rimessa sulla carta nel giugno del 2004 a

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un governo formato da personaggi più o meno legati agli Americani; fino al 2005 ancora non c’erano dei mezzi veri e propri per questo governo di po-ter assicurare il controllo e l’ordine in Iraq.

Immaginare, anche solo in modo parziale, un ritiro completo delle forze NATO o legate all’Onu, suscitava non poche preoccupazioni e soprattutto delle grandi conseguenze geopolitiche nel Medio Oriente. Effettivamente una sconfitta occidentale in Iraq, cioè una caduta dell’Iraq nel caos, un’e-ventuale esplosione in tre parti del suo territorio (una curda, una sciita, una sunnita) significherebbe una grande vittoria per tutto il movimento integra-lista islamico nel mondo.

La guerra lanciata dagli Americani in Iraq nel 2003 rappresenta per gli islamisti una formidabile opportunità per la lotta che essi conducono contro tutti quei musulmani che rifiutano di aderire alla causa integralista, una causa che ricordiamolo desidera un’applicazione della Shari’a, a fini politi-ci.

Gli eventi quindi dell’Iraq, costituiscono un capitolo di questa grande lotta che si sfoggia ormai da anni nei Paesi musulmani, tra islamisti e mu-sulmani democratici, lotta non sprovvista di contraddizioni dato che, per mantenersi al potere, le strutture di Stato mettono in opera, come in Alge-ria, delle forme di repressione così violenta che diventano degli alibi per i campioni dell’integralismo.

È questa situazione che deve essere tenuta presente per la lettura dei fe-nomeni della cosiddetta “primavera araba”. Primavera che ricordiamo ha toccato diversi Paesi, tra cui Libia e Egitto che hanno perso entrambi i pro-pri dittatori, ma anche Algeria e Marocco hanno dovuto far fronte a delle forti pressioni popolari per vedere ridotto questo potere non democratico.

Ancora oggi la Siria rischia di esplodere in una forma di guerra civile. E, infatti, in questa chiave di lettura che deve essere presa in considerazione la situazione che noi chiamiamo di “Medio Oriente”, ma che in realtà ri-guarda tutta una serie di Paesi musulmani che avevano una struttura di Sta-to certamente non democratica, come Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto per il Nord Africa, ma anche quello che chiamiamo “vicino oriente” e cioè Libano, Siria, Arabia Saudita e tutti gli Emirati Arabi ma anche Iraq, Iran, fino all’Afghanistan. Si tratta di quella fascia islamica che va dall’O-ceano Atlantico fino a tutta l’Asia centrale andando ben oltre l’Afghanistan con il problema della Valle del Fergana che riguarda appunto le ex Repub-bliche sovietiche dell’Asia centrale.

La rivolta della primavera araba ha portato la riforma costituzionale re-lativamente importante in Marocco. Per quanto riguarda Tunisia, Libia, Egitto vediamo invece che si tratta di un vero e proprio cambiamento epo-cale. In Tunisia il dittatore Ben Ali è stato cacciato ed è potuto salvarsi per-

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ché fuggito per tempo in Arabia Saudita, ma in questo momento c’è un grosso problema di gestione di potere in Tunisia. Anche qui alcuni movi-menti religiosi islamisti cercano di prendere il potere facendosi eleggere democraticamente, a scapito di partiti di opposizione che secondo alcuni però sono colpevoli di aver fatto compromessi con il regime precedente. Ad oggi la Tunisia non è definitivamente uscita dalla propria situazione di crisi post-rivoluzionaria e certamente non può essere definita una vera e propria democrazia.

Per la Libia e l’Egitto il discorso è molto diverso. L’Egitto, ricordiamo, era la patria del movimento integralista più antico che esista nel mondo arabo, e comunque musulmano: i Fratelli Musulmani. La caduta di Muba-rak ha comunque sollevato un grosso problema di gestione tra corpo dei militari quello, che difendeva Mubarak, il corpo laico ma non militare dello Stato che si opponeva a Mubarak e, in ultimo, il movimento più integralista legato ai Fratelli Musulmani. Ad oggi l’Egitto non è ancora riuscito a supe-rare la fase Mubarak, c’è una giunta militare che gestisce il potere e non riesce ancora a transitare definitivamente verso la struttura parlamentare compiuta, evitando inoltre rischi di guerra civile soprattutto se ricordiamo che il 10% della popolazione egiziana è cristiana di confessione copta. Per quanto riguarda la Libia la situazione è ancora più delicata dopo la tragica guerra civile scatenata da Gheddafi e il bombardamento fatto dai Britanni-ci, Francesi ma anche Americani. La morte del dittatore ha condotto ad una vera e propria confusione. La dittatura di Gheddafi riusciva a tenere insie-me le tre diverse parti delle culture tribali libiche. Oggi la Libia ha un pote-re ancora completamente di transizione, sono le diverse bande armate che hanno fatto la guerra a Gheddafi che in realtà detengono il potere, senza es-sere riusciti ad accordarsi su una transizione, seppur tribale, verso un potere istituzionale corretto e legale.

Resta ancora la questione del Vicino Oriente, particolarmente quella della Siria. Il dittatore Bashar al-Assad, che è uno dei punti chiave del pote-re nel vicino Oriente, ad oggi è abbandonato completamente dalla Lega Araba, continua a bombardare i suoi stessi cittadini nelle città di Homs e Hama, senza però riuscire a trovare un’eventuale via di sbocco. Sembra ra-gionevole immaginare che Bashar al-Assad lascerà il potere. Non si sa quando e con quali conseguenze. Occorre ricordare che la Siria ha un pro-blema enorme di frontiere con la Turchia, con Israele, ma soprattutto, è il finanziatore principale di buona parte dei movimenti integralisti degli hez-bollah del Sud del Libano.

In poche parole la Siria, insieme all’Iran, rappresenta oggi i punti più delicati e meno prevedibili dell’evoluzione futura di tutto il sistema islami-co che va dall’Asia centrale all’Atlantico.

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6. Il Mediterraneo

L’importanza e la storicità delle relazioni tra i differenti settori delle due grandi facciate del Mediterraneo euro-arabo, l’antico confronto tra l’uno e l’altro, ma anche questo tanto discusso rilancio di un grande conflitto tra civiltà (cosa che non esclude gli sforzi destinati a stabilire una complemen-tarità tra Nord e Sud): tutto questo incita a ragionare in modo globale, ma analizzando l’estrema diversità delle situazioni geopolitiche in essere.

Il Mediterraneo è in qualche sorta per ogni cittadino un eccellente cam-

po di allenamento alla geopolitica, dato che il suo studio ci obbliga a tener conto della localizzazione di una grande diversità di eredità storica e a far combinare dei rapporti di forza di dimensioni molto diverse, partendo da conflitti locali e arrivando a conflitti planetari; basti pensare al conflitto per il petrolio oggi.

Vedremo che occorre anche prevedere un insieme Geopolitico Mediter-

raneo ben più esteso in modo da includere i Paesi del Medio Oriente e le lotte che sono ancora in corso. Questo ampliamento a Est, di quello che possiamo chiamare, in senso geopolitico, il mondo Mediterraneo, non fa altro che ricordarci l’estensione dei grandi imperi fin dall’antichità, come quello dei Persiani o quello di Alessandro, ma anche gli Abbasidi e quello Ottomano con la sua implosione nel 1920 e la sua frammentazione nelle frontiere attuali. Tuttavia, se il ragionamento geopolitico permette retro-spettivamente di meglio comprendere le rivalità di potere, la difficoltà è an-cor più grande per i problemi geopolitici attuali, che sono in piena evolu-zione e dove possono prodursi cambiamenti inattesi.

La maggior parte delle numerose tensioni geopolitiche che si manifesta-no nel mediterraneo sono quelle che derivano da rivalità tra poteri territo-rialmente vicini gli uni agli altri (Israeliani e Palestinesi, Turchi e Curdi, Catalani e Castigliani, Serbi e Bosniaci). Non corrisponde molto all’imma-

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gine geopolitica che spesso abbiamo del Mediterraneo. Esso sarebbe luogo di un grande scontro tra Nord e Sud, quest’ultimo dovrebbe essere “sotto-sviluppato” in seguito alla dominazione coloniale esercitata in quell’area dai Paesi del Nord.

Le conseguenze di questa colonizzazione non sarebbero mai scomparse. In realtà questa rappresentazione è considerata solo da islamisti integralisti o dai “neo-conservatori” americani dall’altra, un Mediterraneo parte del mondo dove si consumerebbe quello scontro tra civiltà.

1. Il Mediterraneo, insieme geopolitico molto particolare Il Mediterraneo è mondialmente conosciuto in quanto insieme geopoli-

tico ed è d’altronde il solo grande insieme geopolitico che sia designato dal nome di una distesa marina. Questo è il quadro naturale dove funziona da secoli oramai un vero e proprio sistema che possiamo chiamare “fenomeno mediterraneo”. Può essere definito dalla molteplicità delle interazioni diret-te per via marittima tra i numerosi Paesi situati intorno a questa stessa di-stesa di mare, passaggi verso gli Oceani ne facilitano, inoltre, gli interventi navali venuti da altre parti del mondo. È ispirata da questo modello l’espressione “Mediterraneo americano” che è sicuramente meno conosciu-to, lo chiamiamo più facilmente Mediterraneo delle Antille o dell’America Centrale. Quanto all’espressione “Mediteranno asiatico” (entrambi definiti da Yves Lacoste oramai diversi anni fa e frequentemente argomentati in di-versi suoi lavori), essa suscita la collera del governo cinese che esige che si parli solo di Mar della Cina del sud. Questi due sistemi mediterranei hanno però due caratteristiche che li distinguono dam Mar Mediterraneo vero e proprio: si trovano ai bordi di un insieme continentali e sono composti da un numero incomparabilmente minore di Stati che vi si affacciano. Oltre-tutto le diversità interne di questi due “sistemi mediterranei” sono estre-mamente ridotte se paragonate a quelle del sistema dove bagna l’Italia, sia per confessioni religiose sia per cultura e lingue usate. Negli altri due i pun-ti in comune sono certamente maggiori e in uno di esso (quello delle Antil-le) addirittura vi sono solo Paesi di confessione Cristiana.

Anche il Baltico è un mare quasi completamente chiuso, ma è sette volte più piccolo e non si estende che tra Paesi Europei le cui culture sono molto simili, mentre il Mediterraneo è lungo quattromila chilometri e si trova chiuso tra tre continenti. È questo che noi chiamiamo Mediterraneo euro-arabo o euro-musulmano.

Con Stati di diversa dimensione, il Mediterraneo è considerato oggi co-

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me un insieme geopolitico. Tuttavia, si tratta di un insieme geopolitico molto particolare, dovuto al fatto non solo di questa stessa distesa di mare che ne occupa il centro, ma anche e soprattutto in ragione delle grandi dif-ferenze che oppongono la parte nord alla parte sud delle sue rive. Queste sono molto diverse dato che a nord, l’Europa, oggi Unione Europea, e a sud l’Africa, il mondo arabo e più in maniera generale in mondo musulmano. Ciascuna di queste rive fa parte dell’insieme continentale o geopolitico di cui è bordo marino, ma è anche frontiera della distesa di mare. In tutto il mondo gli altri grandi insiemi geopolitici sono principalmente terrestri; non sono continui intorno a una grande distesa marina e soprattutto non inclu-dono più delle periferie di insiemi tanto diversi, persino antagonisti (come accadeva negli antichi imperi). È esattamente il contrario per quanto ri-guarda il Mediterraneo, che è nei fatti un insieme formato intorno al mare da parti terrestri molto diverse geograficamente (a esclusione della somi-glianza climatica). Certo, abbiamo delle rappresentazioni che sono sogget-tive, ma in geopolitica questi tipi di grandi discorsi che invocano la Storia, la religione e la civiltà hanno una grande importanza. Il Mediterraneo può essere concepito come un insieme antagonistico, formato dalle relazioni conflittuali permanenti che esistono tra due o più sottoinsiemi: un fronte tra due eserciti o un fronte tra due masse d’aria sono anche considerati come degli insiemi.

Per vedere più chiaramente il tutto, possiamo fare riferimento al ragio-

namento di base dei matematici, ai rudimenti della teoria degli insiemi e applicarla particolarmente a degli insiemi spaziali. È intellettualmente legit-timo immaginare di comporre con dei paesi situati intorno al Mediterraneo, un insieme più vasto nominandolo Mediterraneo o Insieme Mediterraneo: il mare a quel punto ne diventa il sottoinsieme. Ciò detto, esiste un altro in-sieme geopolitico che è stato ufficialmente costituito da una parte e dal-l’altra di una distesa marina ancor più vasta. Si tratta della NATO che è un insieme geopolitico, più particolarmente militare, associante degli Stati si-tuati da parte ed altra dell’Atlantico del Nord. Ma, questi diversi Stati sono alleati e condividono dei valori comuni o, almeno, un’opposizione fonda-mentale a un avversario comune. Non è per niente il caso del Mediterraneo in cui gli Stati della facciata Nord, ivi compresa la Turchia, fanno tutti parte della NATO a eccezione dell’Albania; gli Stati della ex-Jugoslavia erano sotto controllo o protezione delle truppe della NATO. Costituito contro l’Unione Sovietica all’inizio della Guerra Fredda, la NATO guarda oggi verso Sud e verso il Medio Oriente, verso il mondo arabo e musulmano. Le forze della NATO sono oramai ufficialmente impegnate in Afghanistan contro i talebani. Il Mediterraneo è una zona di contatto, più o meno con-

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flittuale, tra alcune aree di civiltà diverse, seppur in realtà queste zone di contatto riguardino solo le loro rispettive periferie. Il mondo musulmano che si distende per la parte più importante sulla parte nord dell’Africa e sud dell’Asia, su un arco di dodicimila chilometri che va dall’Atlantico al Paci-fico, è più in contatto (anche conflittuale) con il mondo indiano e il mondo cinese e su un arco di cinquemila chilometri con l’Africa nera. Mentre l’area della civiltà europea (quella chiamata mondo cristiano) è, come sap-piamo, formato di due grandi sottoinsiemi, da una parte l’America del nord e sud ed è lontano dal mondo musulmano, e dell’altra parte l’Europa che invece è vicina su uno dei suoi lati col mondo musulmano. Se rappresen-tiamo in modo schematico l’Europa con un rettangolo, il lato sud corri-sponde al Mediterraneo e al Mar Nero. Occorre notare che il lato est del rettangolo, quello che va dagli Urali al Caucaso, è segnato (cosa raramente ricordata) da una grande avanzata verso nord del mondo musulmano, cosa che potrebbe tagliare in due l’immenso stato della Russia. Certo, soprattutto nei giorni nostri dove delle violente proiezioni di potenza possono farsi a migliaia di chilometri, le grandi distanze che separano i grandi insiemi geo-politici non significano assenza di conflitto tra forze politiche ufficiali o clandestine che pretendono essere o di un lato o dell’altro lato. Ne sono la prova la Guerra del Golfo (1991), gli attentati del 11 settembre e soprattutto la guerra d’Iraq dal 2003.

1.1. Esiste lo scontro delle civiltà?

Il concetto di “scontro delle civiltà” parte certamente dallo scontro i-sraelo-arabo a proposito delle Palestina. Si tratta di territori carichi di valo-re simbolico ma di piccolissime dimensioni e che certo non includono l’intero mondo musulmano. Questo scontro, simbolicamente acquisito dagli integralisti di entrambi i lato, ha permesso di resuscitare delle rappresenta-zioni opposte che risalgono molto indietro nel tempo, dando quasi la sensa-zione di un conflitto di religioni perenne. Una vera e propria lotta tra civil-tà. Questo è il termine neutrale scelto dal politologo americano Samuel Huntington per trattare, in linea di massima sul piano planetario, delle reli-gioni e dei conflitti nel suo testo. Un’opera che ha provocato grande emo-zione in tutto il mondo. Gli attentati del World Trade Center sono stati con-siderati come illustrazione drammatica di quello che veniva teorizzato da Huntington quattro anni prima.

Le sue tesi furono prima di tutto rifiutate nel mondo intellettuale euro-peo e americano che preferivano invece parlare dell’unità delle “religioni del libro”. Ma anche la diplomazia americana, che giudicava fastidioso

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l’evocare nei media una specie di scontro tra cristiani e musulmani cinque anni dopo la Guerra del Golfo, era in realtà contro questo libro. Dopo gli attentati, le tesi di Huntington furono giudicate premonitrici, ma soprattutto fin dall’inizio avevano suscitato negli ambienti islamisti integralisti grande entusiasmo. Secondo questi, avevano così la conferma che il mondo giu-deo-cristiano conducesse una guerra di lungo periodo contro il mondo mu-sulmano. Così avevano il diritto di controbattere.

Va ricordato che questa formula famosa, “scontro di civiltà” lascia in-tendere che in realtà le due civiltà fossero unite e compatte, una contro l’altra. Da notare che Huntington passa quasi sotto silenzio, nel suo libro, il conflitto tra Israeliani e Palestinesi. Allo stesso modo non tratta quasi per nulla dei conflitti tra India e Pakistan, dove i musulmani sono numerosi. In realtà Huntington parla particolarmente di un conflitto tra mondo musul-mano/mondo cristiano, che considera in realtà come conseguenza del sem-pre più grande numero di giovani musulmani, legato alla grande crescita demografica delle società musulmane. È questo quindi lo shock delle civil-tà che dovrebbe portare a un nuovo modello mondiale: un sovraccarico demografico del mondo musulmano, che è effettivamente triplicato negli ultimi quarant’anni. Sarebbe la causa della spinta che si eserciterebbe sul mondo cristiano. Come una placca tettonica, l’islam sovraccarico e sovrap-popolato respingerebbe quindi la placca della civiltà europea chiamata ci-viltà nord americana.

Ma a cosa sarebbe dovuto questo scontro secondo Huntington? Secondo lui sarebbe legato alla pressione demografica del mondo musulmano sul cosiddetto mondo occidentale. Ma è vero? Il mondo musulmano è compo-sto da oltre 1,5 miliardi di abitanti e tocca una superficie estesa (soprattutto in Africa), ma che ha una densità abitativa ancora molto debole a parte qualche rarissimo caso estremo oriente. La ragione è semplice: si tratta di un territorio maggiormente composto dalle enormi distese desertiche o di steppe, facendo concentrare la popolazione in spazi relativamente ridotti come la vallata del Nilo. Ma il Mondo Arabo, cioè la parte della popolazio-ne musulmana maggiormente coinvolta dal fenomeno dell’aridità, è molto ridotto contando poco più di 250 milioni di abitanti. Una dimensione debo-le per poter giustificare l’espansione di tutto il mondo musulmano il quale invece è toccato più nella sua parte ricca di acqua e tropicale (Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Nigeria). Ma cosa ancora più importante, le risorse del mondo arabo non sono legate solo all’agricoltura dato che dispone delle riserve di idrocarburi più ricche del mondo. Addirittura alcuni, nel mondo musulmano, le chiamano “dono di dio”. Questo permette al mondo arabo delle entrate sostanziose: la tesi secondo la quale quel reddito sarebbe ac-caparrato dalle compagnie petrolifere occidentali è falsa. Infatti, quel petro-

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lio è stato nazionalizzato da oltre vent’anni in tutti i Paesi Arabi (e sono i più ricchi di questi Paesi che finanziano i terroristi musulmani). Hunting-ton, nella sua spiegazione dello scontro delle civiltà, ripone tutto sul sotto-insieme arabo e in parte iraniano (anche questo Paese ricco di idrocarburi): ben poca cosa, con il suo quarto di miliardo, per poter spiegare tutta la sua dinamica di conflitto di civiltà: non più del 20% di tutto il mondo musul-mano! I segni di questa conflittualità esistono, ma sono più che altro pre-senti nella periferia di quest’insieme musulmano, laddove c’è contatto con altre civiltà e soprattutto sul fronte settentrionale del mondo Arabo, cioè proprio nell’insieme geopolitico Mediterraneo.

Quindi, piuttosto che evocare le cause generali di un’espansione del mondo musulmano, è necessario analizzare precisamente i diversi problemi geopolitici che si hanno nel Mediterraneo, dato che molti di questi si riper-cuotono tra loro e si accavallano. E soprattutto non dobbiamo dimenticare che numerosi di questi conflitti si svolgono all’interno degli stessi Paesi Arabi (come nel caso dell’Algeria con la guerra civile del 1992-2002). Seppur non dobbiamo trascurare l’eco mondiale e l’effetto di questo con-cetto di “scontro delle civiltà”3.

1.2. Quali conflitti intestini al mondo Musulmano? Il libro di Huntington è stato oggetto di commenti molto favorevoli

nell’ambiente degli integralisti islamici di tutti i paesi. Infatti, rafforza im-plicitamente il loro discorso quanto all’opposizione fondamentale tra le due “civiltà” dei due “mondi”, il mondo” giudeo-cristiano” che avrebbe secon-do loro l’obiettivo di nuocere sistematicamente al mondo musulmano in tutti i modi, attizzandone le divisioni e combattendolo con la guerra, come in Iraq, soprattutto pervertendolo. Questo discorso islamista ha come obiet-tivo, prima di tutto, di convincere e di obbligare l’insieme dei musulmani al fatto che devono conformarsi alla shari’a (la legge coranica) e che devono allontanarsi da ogni forma di modernizzazione occidentale (al di fuori dei mezzi tecnici). A seconda dei vari paesi a cui facciamo riferimento, esisto-no diversi movimenti integralisti islamici, il più antico dei quali è senza dubbio quello dei Fratelli Musulmani nato in Egitto nel 1928 e divenuto il suo principale protagonista fin dall’inizio. Questo movimento alla sua na-scita si batteva contro l’influenza occidentale in Egitto. Ma c’è stata anche una conseguenza legata ai cambiamenti politici che si sono prodotti in Tur-chia dopo la sconfitta della Prima Guerra mondiale. I Fratelli Musulmani

3Y. Lacoste, Géopolitique de la Méditérranée, Armand Colin, 2006, pag. 27.

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denunciarono l’abolizione del califfato fatta da Mustafa Kemal, il quale de-cise di laicizzare la società turca e di rompere con i paesi arabi del Medio Oriente, colpevoli per Kemal di aver tradito l’Impero Ottomano durante la Guerra Mondiale, prendendo parte alla “rivolta araba” (1916) fomentata dai Britannici. Il movimento dei Fratelli Musulmani, dopo la Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni cinquanta, entra in conflitto con il regime egiziano del colonnello Nasser colpevole per loro di combinare nazionali-smo arabo con socialismo. La dura repressione di cui furono vittime i Fra-telli Musulmani, diede loro l’immagine di democratici ingiustamente op-pressi da un regime. E fu in quel periodo che gli slogan che spingevano a imporre la shari’a come sola forma di organizzazione della società musul-mana, che iniziarono ad avere eco all’interno del mondo intellettuale egi-ziano, più di quanto ormai non riuscissero gli slogan marxisti. Ma ancora di più fu lo stimolo nell’Islam sciita della rivoluzione radicale del 1979, con-dotta dal clero iraniano, contro lo shah dell’Iran, colpevole di modernizzare in modo autoritario il proprio paese. Questo spinse gli islamisti anche sun-niti a portare avanti una politica d’islamizzazione nella propria azione poli-tica. Ma la massa dei Musulmani soprattutto delle città (2/3 della popola-zione) e degli intellettuali non intendevano rinunciare, per conformarsi alla shari’a, a tutta una serie di idee e di pratiche sociali che, non esistendo all’inizio dei tempi dell’Islam, non erano interdette direttamente dal Cora-no, imponendosi progressivamente con la diffusione della cultura occiden-tale all’epoca della colonizzazione. Si viene così a creare una sorta di con-correnza che prende delle forme sempre più violente per il controllo delle istituzioni statali tra gli intellettuali musulmani “occidentalizzati” e moder-nizzatori, ma che denunciano l’imperialismo occidentale, e quegli intellet-tuali islamisti che usano come un dogma politico la lettura che essi fanno del Corano, per imporre la loro autorità alla popolazione. Il grande argo-mento degli islamisti è: denunciare le manifestazioni dell’imperialismo oc-cidentale, il suo sostegno a Israele, l’invasione dell’Iraq e, d’altra parte, ac-cusare i media occidentali e le idee che diffondono di pervertire le donne musulmane incitandole a non rispettare in modo stretto le regole della sha-ri’a.

Altro argomento che sviluppano gli islamisti: vogliono ristabilire il ca-liffato, il comando di tutti i Musulmani abolito da Mustafa Kemal nel 1923; ma soprattutto vorrebbero ricostruire l’identità geopolitica dell’“umma” cioè la comunità dei Musulmani, unità che sarebbe stata, secondo loro, si-stematicamente distrutta dalle colonizzazioni per indebolire il mondo mu-sulmano. Certamente questa tesi si basa, giustamente, sulla ripartizione tra Britannici e Francesi del Medio Oriente all’indomani dell’implosione dell’Impero Ottomano, trovando pretesto nei “mandati” che erano affidati

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loro dalla Società delle Nazioni. Al contrario le frontiere dei vari stati del Maghreb (a esclusione delle regioni sahariane) sono estremamente antiche; tra l’altro avallate dall’Impero Ottomano, sono state semplicemente recupe-rate dal colonizzatore francese. Detto ciò il discorso degli islamisti sul ri-stabilire l’unità geopolitica dell’umma cade sull’esistenza, ormai da diversi anni, di Stati diversi che sono divenuti membri dell’ONU. L’importanza dei movimenti islamisti è diversa da paese a paese, secondo le loro caratteristi-che geopolitiche, e si scontra a una diversa resistenza da parte del sistema statale. Era il caso sicuramente per l’Egitto e la Tunisia. Resta ora da vede-re come riusciranno ad evolvere questi due Paesi. La Tunisia ha dato per ora una maggioranza relativa al partito islamista nella gestione del proprio potere, senza però scivolare verso una dittatura di tipo iraniano. L’Egitto resta ad oggi privo di Mubarak, sotto il controllo di una giunta militare. L’obiettivo sarebbe quello di giungere a delle elezioni democratiche. Oc-corre però porsi il problema sulla carta dei limiti geopolitici di questi due mondi: quello arabo-musulmano, quello giudeo-cristiano. In effetti, spa-zialmente, i problemi non sono semplici, oltretutto carichi di valore; cia-scuno di loro è oggetto di sentimenti e di discorsi contraddittori. Mentre si discute correntemente in termini d’insiemi spaziali, mondo musulmano e mondo cristiano o mondo europeo, limitandosi a schizzare delle delimita-zioni schematiche, tracciarne sulla carta del Mediterraneo i limiti precisi è un’operazione ben più delicata, ma è indispensabile. In effetti, il mare non è una sorta di no man’s land, non lo è mai stato e negli ultimi decenni del ventesimo secolo, i movimenti migratori da Sud verso Nord, hanno assunto dimensioni considerevoli. A Sud una gran parte della popolazione, soprat-tutto urbana, usa quotidianamente delle vestigia positive o negative delle colonizzazioni (a cominciare dall’uso della lingua) e attraverso la radio e la televisione, la popolazione è informata su quello che accade in Europa, do-ve vivono molte delle loro famiglie. Oggi decine di milioni di uomini e donne di cultura musulmana vivono nel nord del Mediterraneo. Alcuni so-no ormai Europei veri e propri potremmo dire, perché sono nati come i loro antenati su quella terra, per esempio nei Balcani (Bosnia, Albania) o nei quartieri di Istanbul, la parte europea di questa Turchia, la cui domanda di adesione all’UE solleva tanti dibattiti. Ma sono nati anche in Europa occi-dentale sei milioni circa di persone di cultura musulmana, con genitori ve-nuti da Maghreb, Turchia, Medio Oriente oppure Pakistan e Bangladesh. A questi dobbiamo aggiungere almeno altri sei milioni di Musulmani che so-no immigrati in tempi recenti. Oltretutto in Europa queste persone si con-centrano prevalentemente in grandi agglomerazioni urbane e ancora più precisamente in certi quartieri del centro o della periferia.

Questo solleva non pochi problemi geopolitici e a livello locale anche

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molto gravi; non solo per i cosiddetti europei di origine, ma anche e soprat-tutto per gli islamisti. In effetti, questi ultimi temono che nelle grandi città Europee, i Musulmani pratichino sempre meno la loro religione, lasciando-si andare a dei costumi di tipo occidentale. È un pericolo molto alto, secon-do loro, anche perché avrebbe un’eco molto importante nei Paesi da cui queste persone vengono. Così gli islamisti non sono favorevoli all’immi-grazione dei Musulmani in paesi che non lo sono. Detto ciò sempre più Musulmani emigrano, e la soluzione islamista consiste nel favorire il loro raggruppamento in quartieri dove sono sempre più maggioritari e dove la shari’a potrebbe essere addirittura praticata di fatto a discapito di non po-terla applicare legalmente. Già oggi questo pone un grosso problema geo-politico che, pur ponendosi su territorî ridotti, riguardano una quantità mol-to importante di popolazione.

2. Analisi geopolitica dell’area mediorientale Cerchiamo prima di tutto di definire correttamente gli insiemi di cui

stiamo parlando. Come, infatti, spesso confondiamo l’Europa con l’Unione Europea, anche con il Mar Mediterraneo spesso indichiamo qualcosa che non sappiamo correttamente delimitare. Il semplice tracciato della costa non sintetizza quel mondo Mediterraneo di cui stiamo parlando e che la maggior parte delle volte è oggetto di discussioni geopolitiche. Si perché l’insieme Mediterraneo di cui spesso parliamo è in realtà ben più esteso di quello semplicemente marino. Prima di tutto perché alcuni di questi Stati si affacciano anche sull’Atlantico (Marocco, Spagna, Francia). I loro territorî si estendono fino a migliaia di chilometri lontano dalle coste mediterranee e, se sembra evidente distinguere una Francia, per esempio, mediterranea da una Francia atlantica a causa di clima, paesaggio, cultura, ecc., occorre considerare il peso complessivo dello stesso Paese. Allo stesso tempo oc-corre considerare implicitamente l’insieme mediterraneo fino a 2.000 Km all’interno del Sahara, per tener conto dei giacimenti petroliferi che sono una caratteristica geopolitica dell’Algeria, della Libia. Qui stiamo quindi parlando, in questo passaggio, del Mediterraneo come dato geologico, quindi di un insieme naturale e che quindi non è modificabile dato che si tratta di limiti definiti.

2.1. Quali e quanti “Mediterranei”? Nella nostra riflessione intorno a quello che è “mediterraneo” uno degli

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esercizi più importanti è proprio quello delle delimitazioni. Prendiamo una carta e cerchiamo di delimitare la zona con una matita, realizzando degli insiemi con logiche diverse e chiaramente con estensioni diverse cercando di individuare un’area omogenea climaticamente oppure linguistica o con una rappresentazione politica. Otterremmo, sempre sulla carta, degli insie-mi accavallati gli uni agli altri e che, a titolo diverso, definiremo come Me-diterranei.

Se decidessimo di definire un insieme mediterraneo rispetto agli Stati che secondo noi potrebbero farne parte, quali sceglieremmo? Logicamente potremmo credere che ne fanno parte solo quelli che sono sulla costa ma commetteremmo un gravissimo errore. Molti Stati hanno un’influenza fon-damentale sul Mediterraneo e non sono sulla costa e spesso sono lontanis-simi. Per meglio comprendere il ruolo dei piccoli stati costieri del vicino oriente, come Libano, ma anche Siria, Giordania, è indispensabile conside-rare gli Stati situati ben più all’Est: l’Iraq con le conseguenze possibili del suo conflitto, ma anche l’Iran. E cosa dire poi dell’Arabia Saudita la cui frontiera più occidentale (nel Golfo di Aqaba) è solo a 200 Km dalle coste del Mediterraneo e a 250 Km dal Canale di Suez. L’Afghanistan poi, Stato lontanissimo dal Mediterraneo ma quello che vi accade da dopo l’attentato dell’undici settembre è intimamente legato agli equilibri del Mediterraneo. Loè per il ruolo dei Talebani, per al-Qaida, senza dimenticare il fatto che quasi tutta l’eroina commercializzata nel mondo viene dalle piantagioni di oppio di questo grande Paese dell’Asia centrale, particolarmente dalla fine del regime dei Talebani.

Va sempre tenuto presente, nella costruzione di un grande insieme geo-politico Mediterraneo, il fatto che questi diversi Stati del Medio Oriente, che non sono direttamente affacciati sul Mar Mediterraneo, ma che invece fanno parte del mondo Arabo e musulmano, detengono un dato geologico e geopolitico capitale: la ricchezza degli idrocarburi. La più importante riser-va si trova nella zona di subduzione Mesopotamica, dove quella placca che è l’Arabia sprofonda sotto quella iraniana.

I Paesi che noi possiamo includere nell’insieme Mediterraneo possono essere caratterizzati da dati climatici molto comparabili: lungo periodo di aridità e forte caldo in estate. Sono le caratteristiche del clima che i geogra-fi chiamano “mediterraneo” e che si estende dal Sud della Spagna e del Portogallo e che arriva fino all’Afghanistan, cioè una zona climatica di 8.000 Km di estensione. Oltre Jalalabad, vicina al Pakistan, cominciano i Paesi dei Monsoni, dove l’estate è la stagione della pioggia. A questo pro-posito occorrerebbe considerare meglio gli effetti provocati dal riscalda-mento climatico del pianeta. In questa parte del mondo questo probabil-mente aumenterebbe l’effetto dell’aridità, della siccità. Le regioni meridio-

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nali che devono già far fronte a un’estate senza pioggia e molto calda, l’a-ridità diventerebbe ancora più forte e questo mentre il peso demografico sta aumentando. Delle rivalità geopolitiche nuove, legate al controllo dell’ac-qua (già scarsa) aumenterebbero tra i diversi Stati e molto probabilmente anche tra i loro stessi territori interni.

Ma sempre parlando di clima dovremmo riflettere sul considerare anche il Mar Nero. Il suo clima, in effetti, è piovoso in estate, in opposizione a quello Mediterraneo. Ma il fatto che sia in gran parte occupato da un im-portante stato Mediterraneo, la Turchia, e che il suo punto di passaggio si fa solo attraverso il Mar Mediterraneo, altrimenti via terra o per via fluviale, lo rendono un’area completamente dipendente dalla situazione e dal siste-ma Mediterraneo.

Questo insieme Mediterraneo ci spinge a considerare anche il Portogal-lo, benché i Portoghesi amino definirsi unicamente come Atlantici. La sic-cità estiva del Mediterraneo colpisce fortemente anche la parte meridionale del loro Paese. I portoghesi, grazie alle loro importanti spedizioni navali, hanno sempre giocato un ruolo importante nel Mediterraneo, trascinando con loro, oltretutto, Castigliani e Italiani alla scoperta del mondo attraverso l’Atlantico. Alla fine, da una parte all’altra del Mediterraneo che conta 4.000 Km, è utile per vederci più chiaro, estendere a più di 7.000 Km la dimensione del grande insieme geopolitico Mediterraneo. Dobbiamo quindi contare una trentina di Stati diversi.

2.2. Il Vicino Oriente

Che cosa chiamiamo oggi “Vicino Oriente”? Fermo restando il punto

che si tratta di una definizione fatta rispetto a un altro luogo, un centro. In questo caso il Vicino Oriente è la posizione intermedia tra il Bacino del Mediterraneo e particolarmente i Paesi Europei, da una parte, mentre all’opposto vi sarebbero il Medio Oriente (Insieme più vasto che include-rebbe anche il Vicino Oriente e che includerebbe quindi anche Iran, Iraq, Arabia Saudita, Afghanistan), l’Oriente (Pakistan, India, …) e l’Estremo Oriente (Cina, Giappone,…). Con questa rappresentazione il “centro” è identificato nell’Europa. Per questo motivo molto spesso gli abitanti di quelle aree (Libano, Giordania, Israele, Siria, …) non gradiscono questa sorta d’identificazione geografica perché fatta come considerandoli “acces-sori”, “marginali” rispetto a una centralità.

Come Vicino Oriente noi indichiamo quella fascia costiera che corre verticalmente dal Nord (Turchia) a Sud (Egitto) per circa 800 km. Formal-mente sia Egitto che Turchia potrebbero essere considerati come Vicino

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Oriente ma in realtà si tratta di grandi Stati con delle tradizioni e delle ca-ratteristiche ben riconosciute. Vedremo invece come le caratteristiche dei Paesi che qui si vorrebbero inclusi nell’insieme “Vicino Oriente” (da qui in poi: VO) siano molto più confuse, quanto meno non si tratta di grandi Stati i cui passati siano non solo antichi ma anche chiaramente definiti nelle loro identità. Stiamo parlando di tre Stati Arabi (Siria, Libano e Giordania), una nazione che, riconosciuta internazionalmente, non ha però un proprio Stato (la nazione Palestinese) e di uno stato laico ma a forte connotazione religio-sa e più precisamente ebraico: Israele. Quest’ultimo è molto mal percepito dagli Stati che abbiamo appena citato, considerato addirittura come la punta estrema, la linea di frontiera di quel capitalismo imperialista che caratteriz-zerebbe l’Occidente, secondo la vulgata di quei Paesi Arabi. Questi ultimi hanno a loro volta dei rapporti estremamente stretti quanto a volte difficili, secondo i periodi della loro Storia, con i loro vicini orientali (Iran, Iraq e Arabia Saudita), vicini che hanno la caratteristica di possedere la larga maggioranza del patrimonio d’idrocarburi del Pianeta e che hanno al tempo stesso una storia ben più importante dei piccoli Paesi che abbiamo appena citato.

Possiamo coinvolgere nelle nostre considerazioni sul Medio e Vicino Oriente dei Paesi che si spingono molto lontano dal Mediterraneo? Possia-mo addirittura considerare anche l’Afghanistan? In realtà questi legami tra queste aree e il Bacino del Mediterraneo sono molto più solidi e antichi di quanto noi stessi non consideriamo. Non è forse Alessandro a fare questo legame fin dall’antichità a farci capire quanto quelle aree dell’Asia che ar-rivano fino all’Afghanistan possono essere aree d’influenza Mediterranea? E non è forse da un quarto di secolo che gli eventi che si svolgono in Af-ghanistan interessano in modo diretto o indiretto l’area del Mediterraneo? E non è forse vero che esiste in quell’area intermedia, che c’è tra noi nel Me-diterraneo e il sub-continente indiano, un’arte greco-buddista e che ha co-me punto nevralgico proprio quell’Afghanistan dove più che mai le forze della NATO sono in azione?

L’insieme che abbiamo denominato come Vicino Oriente rientra in quell’area racchiusa da una sorta di “rift” (Frattura o spaccatura sotto la crosta terrestre) a Est e il Mar Mediterraneo a Ovest. Questo rift comincia con il Golfo di Aqaba, l’altro golfo che insieme a quello di Suez delimita la Penisola del Sinai e correndo lungo il fossato del Mar Morto (ben 407 m al disotto del livello del mare) sale lungo il fiume Giordano e entra nella valle della Beqā tra i Monti Libano a ovest e l’Anti Libano a Est. Questa sorta di Frattura geologica che comincia dal Golfo di Aqaba e che in realtà è la con-tinuazione obliqua di un altro “fossato”, il Mar Rosso. Quest’ultimo non smette di allargarsi sempre più allontanando le due placche, quella africana

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da quella arabica. Il Sinai, gli altipiani della Cisgiordania e i Monti Libano sarebbero una continuazione della placca africana. La placca arabica co-mincerebbe all’est della fossa del mar Morto con l’altipiano della Giorda-nia, l’altipiano del Golan ei monti dell’Anti-Libano. All’Est di questa linea d’altitudine che comincia quello che noi chiamiamo Medio Oriente con la placca Arabica che si inabissa lentamente verso l’area della Mesopotamia e del Golfo Persico, penetrando sotto la placca Iraniana. È sotto questa zona di subduzione che si trovano la maggior parte degli idrocarburi del pianeta.

Questo ci deve far capire il ruolo importantissimo di questo “Vicino Oriente” che da oltre duemila anni è oggetto di contesa tra numerosi popoli e regnanti. Infatti, è per questa via che passano oggi, dall’inizio del XX se-colo, tutti gli idrocarburi che vengono da Iran e Arabia Saudita e questo nonostante ci sia stato un forte aumento delle esportazioni da questi Paesi verso Cina, India e Giappone, cioè in direzione opposta al Mediterraneo.

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Quello che viene chiamato l’“Istmo Siriano” e che comprende un territorio ben più esteso dell’attuale Siria e che va dal Mediterraneo e il Golfo Persi-co e che conduce all’Oceano Indiano, deve il suo nome all’antico impero Assiro che si sviluppo oltre duemila anni prima della nostra era nella parte settentrionale della Mesopotamia fino ai Monti Tauri in Turchia e da cui discendono sia Tigre che Eufrate. È importante capire l’origine storica di riferimento, la rappresentazione che ancora oggi è utilizzata dai popoli Arabi e ancora più particolarmente nella Siria attuale. Se pensiamo alla re-cente storia dell’economia del petrolio (tutta legata al XX secolo) sbaglia-mo, perché in realtà quest’area era già punto di rottura di carico tra carova-ne e navi per i traffici che andavano dall’India all’Europa. E insieme alle merci transitavano anche cultura e idee. Da oltre 2000 anni e particolar-mente dal Medio Evo, il Vicino Oriente è fonte di grandi antagonismi per il contendersi di questi territorî. Fin d’Alessandro Magno (che con grande fa-tica riuscì a battere i Fenici) questi porti e queste piste sono ambiti da tutti quelli che vorrebbero influenzare sia l’area Mediterranea ed Europea sia il subcontinente indiano e l’Asia Centrale.

Ma cerchiamo anche di inquadrare questo insieme territoriale non solo da un punto di vista geologico, quando abbiamo parlato della spaccatura che va da Mar Rosso fino quasi alla Turchia. Cerchiamo di sottolineare un’altra caratteristica che lo rende molto importante in questa parte della Terra. Gli Inglesi definirono una sua parte come “mezzaluna fertile”. In realtà la fertilità è semplicemente dovuta alla sua alta umidità rispetto ai dintorni aridi e secchi. Questa mezzaluna fertile parte proprio dal golfo di Aqaba e costeggia verso nord, includendo tutti gli altipiani Palestinesi o i Monti del Libano, che hanno un forte livello di precipitazioni, soprattutto se lo paragoniamo alle aree circostanti. La parte orientale di questa Mezza-luna fertile sarebbe quella che una volta si chiamava Mesopotamia e si trat-ta di quell’ampia vallata compresa tra i due grandi fiumi che dalla Turchia sfociano nel Golfo Persico: il Tigre e l’Eufrate. Ma se entriamo più nel det-taglio le aree più fertili di tutta questa parte dell’Asia, continuano verso sud, oltre il Golfo di Aqaba. Salendo verso le oasi che arrivano fino a 1.000 metri d’altezza, con picchi che superano i 2.000 metri di altitudine e che passano per La Mecca, continuando verso lo Yemen e quindi verso le ac-que del Golfo Persico. Questa sorta di “anello” che circonda i deserti che oggi compongono maggiormente l’Arabia Saudita, hanno rappresentato un vero centro di interesse per diverse dinastie di diversi regni sia per il pas-saggio dal Golfo Persico e dalla Persia verso il Mediterraneo, sia per le ca-rovane che costeggiando il Mar Rosso, dall’alto, attraversando città come Medina e La Mecca, viaggiavano anch’esse verso il Mediterraneo. Questo insieme di traffici quindi era un vero e proprio punto nevralgico, molto

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prima che il petrolio diventasse quel bene prezioso che noi oggi sappiamo. È, infatti, da qui che cominciano le dinastie arabe, dalla Mecca nel VI seco-lo, per poi spostarsi con le dinastie degli Omayyadi, VII e VIII secolo, ver-so Damasco. Infine gli Abbasidi che governarono da Bagdad fino al secolo XI.

Diciamo pure serenamente che non è strano che le tre religioni monotei-ste siano nate proprio a questo crocevia che è il Vicino Oriente e che spin-se, infatti, i Cristiani (non certamente per questioni religiose) a voler ricon-quistare la “terra santa” attraverso le Crociate.

Senza voler ora tracciare una “storia delle Crociate”4, diciamo sempli-cemente che dalla conquista di Maometto e conversione dei pagani (630 d.C.), praticamente non si è mai interrotta una contesa violenta, forte, che andava dall’Egitto fino alla Turchia e che era il punto nevralgico di Regni che estendevano i loro territorî dalla Spagna fino al Pakistan (è stato il caso proprio degli Omeyyadi). Questo punto nevralgico era la chiave che per-metteva il controllo di imperi che si estendevano su tre continenti. Le Cro-ciate hanno rappresentato lo stesso tentativo da parte dei regni Europei e non si è mai interrotta questa situazione, a parte la “pace ottomana” fino alla prima guerra Mondiale. E fu proprio in quel preciso momento che gli Arabi dei diversi territori, oramai frammentati come vedremo tra poco, fondano a Parigi la Lega della Patria Arabe nel 1903, Lega che proprio du-rante un congresso a Parigi, del 1913, chiede l’autonomia della Siria.

Ricordiamo come si è giunti alle frontiere attuali del Vicino Oriente, frontiere molto recenti e ritagliate da attori che non avevano origine da quei territorî. È interessante farlo perché oggi quando ci interroghiamo su quest’area del mondo, essendoci delle rappresentazioni religiose e storiche molto antiche (la Bibbia, il Corano e i luoghi santi dei Musulmani, ecc.) ci verrebbe quasi da pensare che si tratti di delimitazioni antichissime, ma in realtà datano quasi tutte del XX secolo e più particolarmente della prima Guerra Mondiale.

2.3. Delle frontiere molto recenti In effetti, già nel 1914 i Britannici cercarono di cacciare i Turchi en-

trando nella Mesopotamia dal Golfo Persico, ma questa manovra non riuscì e furono respinti in buona parte. Per questo motivo i sevizi segreti Inglesi spinsero lo Sceriffo della Mecca, Al-Husayn ibn Alī Himmat, a ribellarsi

4 Ottimo è il libro di Amin Maalouf, Le Crociate viste dagli Arabi, del 2001, editore

SEI.

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con le sue tribù e attaccare i Turchi, promettendo in cambio la creazione di un “grande regno Arabo” sotto protettorato inglese, da destinare ai suoi stessi figli. Questi accettò, e diede vita alla grande rivolta Araba che cacciò gli Ottomani dal Vicino Oriente ma, alla fine, i Francesi, che non avevano firmato nessun accordo, non accettarono di dar nessun Regno Arabo. Que-sti, infatti, invocarono gli accordi pre-esistenti che davano agli Inglesi le terre in cui avevano i loro interessi, compreso il corridoio che da Haifa an-dava a Kuwait. Mentre il Libano (i Francesi avevano importanti legami perché avevano difeso i cristiani Maroniti, di obbedienza Cattolica, contro i Drusi, già nel XIX secolo) e la Siria, frontaliera del Libano, doveva andare ai Francesi.

Questo non piacque al figlio Al-Husayn ibn Alī Himmat, Faysal, il qua-

le s’insediò a Damasco, antica capitale degli Omeyyadi nominandosi “re della Grande Siria” e non a Bagdad, che dalla sconfitta inflitta dai Mongoli non riuscì mai a risollevarsi per ritrovare l’antico splendore. I Francesi

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sbarcarono a Beirut e arrivarono a Damasco, e lo cacciarono. Faysal allora andò a Bagdad e si fece incoronare re dell’Iraq (come gli inglesi chiamaro-no l’antica Mesopotamia) dai Britannici.

Abbandonato così il progetto del Grande regno Arabo, la neonata Socie-tà delle Nazioni diede vita a un progetto che certo non piacque agli Arabi: quello di un protettorato, come sopra indicato nelle aree d’influenza, tenuto da Francesi e Inglesi. L’obiettivo sarebbe stato quello di controllare il terri-torio fino a un’evoluzione del tessuto arabo che avrebbe permesso alle po-polazioni locali di governarsi da sole, senza protettorato esterno. Gli Arabi erano contrari per diverse ragioni e la prima fu, proprio, quella del tracciato delle frontiere fatto nel 1922 dal Primo Ministro britannico, Lloyd George, e il Presidente del Consiglio francese, Clémenceau, senza consultare nessu-no degli attori della regione interessata.

Occorre a questo punto sottolineare che quel tracciato non venne modi-ficato ed è quello ancora in vigore oggi. Una cosa importate fu la divisione di quella che all’epoca era la “Transgiordania”, data al fratello del Re Fay-sal, in due parti. I Britannici decisero di far diventare la parte all’Ovest del Giordano, Palestina, dal nome che usavano da tempo i Cristiani e che face-va riferimento ai Filistei, grandi avversari degli Ebrei della Bibbia. Questa divisione, per i Britannici, era fatta nell’obiettivo di gestire i sempre più numerosi coloni Ebrei che cominciavano ad affluire sulle coste di questo territorio e cominciavano a rappresentare per loro un problema da gestire in questo protettorato, con quelle che già allora si chiamavano “colonie ebrai-che”.

Per quel che riguarda le frontiere Orientali della Giordania e dell’Iraq, non sono il risultato di accordi con i Francesi o con gli Inglesi. Si tratta in-vece delle azioni del nuovo “leader” di quell’area, dopo la cacciata degli Hascemiti: Ibn Saūd e le sue forze wahhabite. In effetti, prima ancora del petrolio, durante la Prima Guerra Mondiale, Saūd, già Re dell’Arabia Sau-dita (appunto perché dei Saūd), spinge le sue truppe ultrareligiose wahhabi-te ben a Nord per sbarazzarsi delle guarnigioni Turche che ancora restava-no sul territorio. Se non fosse intervenuta la stessa Royal Air Force, proba-bilmente sarebbe arrivato fino alle sponde del Mediterraneo. Lo stesso Saūd ridurra ad un terzo della dimensione iniziale, l’area del Kuwait ini-zialmente disegnata dagli Inglesi e, come abbiamo già scritto sopra, occu-perà tutto l’Hedjaz, compresi Medina e La Mecca, nel 1924 cacciandone gli Hachemiti e dando inizio alla dominazione wahhabita che ancora continua.

La situazione Geopolitica del Vicino Oriente potrebbe sembrare fin qua relativamente semplice e comunque già delimitata nel campo degli attori, ma in realtà la situazione si aggraverà e non di poco per due nuovi dati: a) aumento esponenziale del ruolo del petrolio, b) nascita dello Stato di Israe-

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le. Soprattutto la seconda risulterà abbastanza improvvisa, trattandosi del seguito di un movimento che trova le sue origini (il sionismo) nel cuore della vecchia Europa e che non interagisce con tutta la comunità di confes-sione ebraica e che abita le sponde del nord africa (la comunità Sefardita, mentre quella che arriverà in Israele a partire dalla fine della seconda guer-ra mondiale è Askenazita). Ricordiamo che la nascita di Israele nel 1948 lasciava titubanti moltissimi Stati della comunità internazionale, quasi tutti credevano che sarebbe scomparso da lì a pochissimo tempo. Senza avere petrolio e di dimensioni estremamente piccole è riuscito a vincere diverse guerre, a estendersi, a aumentare la propria popolazione diventando forse il più potente degli Stati del Vicino Oriente suscitando odio e ira in quasi tutti gli Stati del Medio Oriente (a eccezione della Turchia) e persino con l’Afghanistan con il quale non ha pertanto nessun tipo di contenzioso terri-toriale.

Il conflitto che tutti conosciamo da decenni, oramai, tra arabi/palestinesi e Israeliani sembrerebbe essere molto semplice: gli Ebrei Sionisti tolgono la terra ai Palestinesi e danno vita al loro Stato. Ovviamente gli Arabi Pale-stinesi vogliono riprendersi quella terra e si alimenta così un conflitto che dura da decenni.

Oggi tutti gli analisti concordano sulla definizione dell’importanza di quel conflitto in scala planetaria e di quanto, oggi, il “sacro” abbia un ruolo importante in un conflitto il cui ordine di grandezza non supera i pochi chi-lometri ma con un’eco di livello planetario. Eppure tutti gli storici concor-dano che quello stesso conflitto, fino a pochi decenni fa di “sacro” non aveva proprio nulla per il fatto che gli Arabi non accordavano una grande importanza religiosa ai luoghi del Vicino Oriente e più particolarmente a quei luoghi che oggi si trovano nello stato di Israele. Ricordiamolo che non fanno parte neanche del territorio horm (sacro) come invece, per esempio, lo sono La Mecca e tutto il territorio dell’Arabia Saudita. Al tempo stesso dobbiamo ricordare che gli Ebrei Sionisti, che nel 1948 diedero vita allo Stato di Israele, non erano dei religiosi. Quelli veramente Religiosi, sia che si trovassero già in quello che sarà Israele, pochissimi, sia che fossero anco-ra sulle coste del nord-Africa o in Europa, la maggior parte, consideravano addirittura empio il fatto di voler dar vita a uno stato di Israele prima dell’arrivo del Messia.

La vera difficoltà cominciò nel 1967 quando Israele, nella guerra dei sei giorni volle prendersi anche il resto del territorio e cioè la Cisgiordania, le alture del Golan (Siriane e da dove si controlla il Lago di Tiberiade) e il Si-nai. Ma l’obiettivo non era quello di occuparli per aumentare il territorio di Israele, anche perché in quel modo la popolazione dello Stato di Israele avrebbe avuto una popolazione al 40% araba e questo sarebbe stato abba-

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stanza pericoloso. L’obiettivo era di usarlo come moneta di scambio e di pressione con i diversi Stati circostanti e potersi far riconoscere ufficial-mente negoziando un vero e proprio trattato di pace. Ma solo l’Egitto (e so-lo nel 1979) accettò di farlo, mentre gli altri Paesi si rifiutarono. Non solo. Anche gli Ebrei più religiosi e che respingevano il Sionismo videro nella guerra dei sei giorni quasi una sorta di prova della volontà divina, una vo-lontà di affermare lo Stato di Israele. Addirittura per alcuni di loro il Messia sarebbe tornato sulla terra solo quando Israele avesse rioccupato tutti i terri-torî che biblicamente aveva all’origine Israele. Il ruolo della minoranza re-ligiosa, per quanto frammentata e distribuita particolarmente in alcune aree del Paese, è sempre più importante. Fin dall’inizio essi hanno partecipato alla formazione di diversi governi, sia Laburisti che del Likud e in entrambi i casi hanno sempre “monetizzato” la propria partecipazione con le conces-sioni a degli insediamenti colonici tra i quali spiccano gli insediamenti fatti nelle aree in territorio che non era Israeliano prima del 1967 (Cisgiordania e Gerusalemme est in particolar modo). Occorre ricordare che ciascuno di questi insediamenti rappresenta in media una popolazione di 50.000 abitan-ti e che anche volendo, a questo punto, tornare indietro sarà sempre più dif-ficile. Le evacuazioni fatte dalla striscia di Gaza, da parte del governo Israeliano, richiesero interventi massicci delle forze dell’ordine israeliane sui coloni ebrei che vi risiedevano. Scene che furono trasmesse in tutto il mondo con forti proteste interne allo stesso Stato di Israele. Pensare di eva-cuare allo stesso modo tutti gli insediamenti che oggi toccano la Cisgiorda-nia o, ancora di più, che si spingono abbondantemente nella Gerusalemme Est che in teoria sarebbe completamente araba/palestinese, sembra alquanto impensabile.

2.4. I palestinesi tra il resto degli arabi e quindi la Siria Se oggi sappiamo che tutti i Paesi Arabi del Vicino e Medio Oriente di-

fendono il ruolo dei Palestinesi in quanto vittime della occupazione Israe-liana, in realtà la cosa è meno chiara di quanto non sembri. In effetti, l’insuccesso Palestinese nel far fronte a Israele e cercare di ottenere nuo-vamente almeno i territorî che furono tolti loro nella guerra dei sei giorni del 1967 è legato non solo alla forza di Israele ma anche agli ostacoli che i Paesi Arabi circostanti hanno saputo creare proprio contro quei Palestinesi che sembrano tanto star loro a cuore. Tanto per cominciare dovremmo ri-cordare che già nel 1951 i Palestinesi si rivoltarono contro il re della Gior-dania dell’epoca, uno dei figli dell’ultimo sceriffo della Mecca, uccidendo-lo proprio perché decise di non combattere più gli Israeliani che avevano

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dichiarato la nascita dello stato di Israele, tre anni prima. Questa rivolta in realtà arrivo al suo punto culminante nel 1970 con il famoso “settembre ne-ro”. Fu in quella data che, in effetti, i Palestinesi, oramai diventati milioni a causa dell’esodo provocato dalla guerra dei sei giorni, cercarono di abbatte-re il Regno del Re Husayn, nipote del Re Abdullah, ucciso dai Palestinesi quasi vent’anni prima. La rivolta palestinese (i Palestinesi rappresentavano oramai il 40% della popolazione della Giordania) fu bloccata e schiacciata solo grazie all’intervento delle truppe beduine del Re di Giordania, la fa-mosa “legione araba”. Il gruppo principale delle organizzazioni Palestinesi fu costretto a fuggire la Giordania verso il Libano, dove si insediarono nel Sud, proprio in quel territorio che oggi sappiamo essere dominio degli sciiti di Hezbollah. Ma in realtà negli anni ’70 era conosciuto cole “fathaland” per quanto la presenza di Palestinesi e soprattutto delle principali organiz-zazioni di resistenza, fosse importante. Da questo territorio oggi Hezbollah lancia razzi su quello israeliano, esattamente come lo facevano i Palestinesi negli anni ’70. Furono gli stessi Palestinesi all’origine del conflitto libane-se, cominciato da uno scontro tra famiglie Maronite e Palestinesi in seguito a un diverbio di traffico, a Beirut. In ogni caso quel conflitto spinse i Pale-stinesi a prendere il potere in Libano approfittando della storica debolezza della struttura statale, essendo ripartita per confessione religiosa. Questo tentativo quasi riuscì ai Palestinesi, se non fosse stato per la richiesta di aiu-to da parte del Presidente Libanese fatta al governo siriano. Le truppe siria-ne entrarono nel Libano il 1976 per andare a soccorrere i Maroniti libanesi accerchiati dai Palestinesi, a Beirut. Questa situazione sappiamo che dege-nerò in una vera e propria guerra civile tra le diverse confessioni religiose Libanesi, alle quali si aggiunsero i Palestinesi. Una guerra lunga quindici anni, con incredibili cambiamenti di alleanze e di situazioni. Una guerra terribile che distrusse un’intera città senza risparmiare lo stesso Paese. Du-rante questi quindici anni basta ricordare il 1982, anno in cui Israele decise di cancellare il “fatahland” entrando in Libano e arrivando oltre Beirut. I Siriani in questa situazione ancora una volta dimostrarono quanto in realtà non tengano, ancora oggi, ai Palestinesi ritirando le proprie truppe verso Nord e lasciando campo libero agli Israeliani (e evitando in questo modo di doversi scontrare direttamente con loro). Israele accerchiò Yasser Arafat nella città di Tripoli e questi riuscì a salvarsi solo grazie a un intervento na-vale delle forze speciali Francesi che lo portarono in salvo.

Da quanto scritto sopra, seppur in modo sintetico, è facile cogliere quan-to in realtà i diversi Paesi Arabi dell’area (tutti e tre i Paesi del Vicino Oriente certamente) non hanno tanto a cuore la causa dei Palestinesi. Oltre a questo va anche detto che le Organizzazioni Palestinesi, le diverse, visto che ce ne sono almeno quattro che sono state storicamente le più importan-

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ti, sono sempre state contrarie alla partenza dei Palestinesi perché si temeva la “diluizione” della comunità Palestinese nei vari Paesi in cui sarebbero emigrati. Al contrario, negli ultimi decenni, nonostante le condizioni diffi-cili se non, a volte, inumane, la popolazione Palestinese nei campi profughi sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza è aumentata. Questa popola-zione è sempre più “politicizzata” tramite la gestione delle diverse organiz-zazioni politiche che operano nei campi. Dopo la disaffezione dei movi-menti marxisti degli anni ’60 e ’70 e soprattutto dopo la scomparsa del-l’URSS l’attenzione si è rivolta verso le organizzazioni religiose e in parti-colare Ḥamās fondata nel 1987 dallo sceicco palestinese Ahmed Yassin che verrà ucciso dall’aviazione Israeliana il 22 marzo del 2004. Questa orga-nizzazione, fondata nel 1987 ha come riferimento il movimento dei Fratelli Musulmani e riesce a conquistare la popolazione di Gaza, a differenza di quella della Cisgiordania, grazie a una sorta d’intervento sociale, con la creazione di scuole e sistemi di assistenza a una popolazione Palestinese stanca delle inefficienze e della corruzione delle tradizionali organizzazioni Palestinesi. Sarà proprio a partire dagli anni ’90 che il conflitto arabo-israe-liano (come era chiamato in passato) diventerà un conflitto in cui la rappre-sentazione principale sarà quella religiosa: i musulmani contro l’imperia-lismo ebraico-occidentale. È questa rappresentazione che oggi meglio per-mette agli estremisti di Ḥamās di intercettare la maggior parte delle prefe-renze, anche di quelle persone che non sarebbero normalmente attirate dal-l’integralismo musulmano. Ed è proprio questa rappresentazione che viene alimentata dallo cosiddetto “scontro delle civiltà”. Uno scontro che non esi-ste e che invece è fatto di conflitti locali che hanno ragioni ben localizzate e soprattutto ben territorializzate.

Ritornando alla popolazione Palestinese va sottolineato il ruolo estre-mamente ambiguo che ha giocato in questo senso la Siria.

2.5. La Siria C’è da chiedersi perché uno stato come la Siria, che non possiede grandi

risorse idriche e nulla in materia di idrocarburi, ricopra da sempre un ruolo così importante nello scacchiere del Vicino Oriente. In realtà questo ruolo prominente è dovuto alla rappresentazione che questo Stato, non meno arti-ficiale dei suoi vicini nella sua delimitazione, promuove fin dalla fine dell’impero Ottomano. In effetti, sarà a Damasco che Faisal verrà a inse-diarsi con il suo progetto del grande Stato Arabo che avrebbe dovuto ripro-durre quello delle prime dinastie Omayyadi. Sappiamo che Faisal verrà cacciato dai Francesi e questi continueranno a governare la Siria fino al

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1945. A questa data i Francesi verranno a loro volta (e molto malamente) cacciati dai Siriani: anche allora il sogno della Grande Siria non scomparve. In effetti, questa sorta di superiorità geopolitica della classe politica Siriana guidò tutte le azioni, fin dall’inizio e soprattutto è il principio stesso della nascita del partito Baas (o Baʿth) e del suo progetto di “resurrezione” della nazione araba ( Baʿth, ث -ossia "Resurrezione"). Il progetto di una gran ,بعde nazione sembrò quasi riuscire con l’unione di Siria ed Egitto nel 1958 (la Repubblica Araba Unita). Il progetto del partito Baas prese una deriva socialista, sotto Nasser, e questo scatenò le contrarietà di buona parte del partito. Il partito a un certo punto si oppose a questo progetto e provocò la rottura di questa unione tra i due Stati nel 1961 diventando anticomunista e condannando la formazione di una figura troppo predominante di un leader (paradossale se pensiamo che tutti i Paesi in cui esiste questo partito esiste anche un dittatore), cosa secondo la nuova visione del partito Baas contra-ria all’obiettivo della realizzazione di un grande Stato arabo. Fu questo ap-proccio che portò il gruppo dei militari, per la maggior parte della minoran-za alauita (sciita), a prendere il potere in Siria e soprattutto all’insediarsi di Hafiz al-Assad che governerà come un vero dittatore questo Stato fino alla sua morte il 10 giugno del 2000 e al quale successe il figlio Bashar al-Assad. Hafiz al-Assad riuscirà a gestire questo Stato, sprovvisto di grandi punti di forza oggettivi, con grande capacità strategica attraverso i conflitti frontalieri con la Turchia, la questione delle alture del Golan con Israele ma soprattutto la delicata questione del sostegno ai Palestinesi cercando di ostacolarne il successo in tutti modi. Questa strategia aveva solo un obietti-vo: impedire l’affermarsi di qualunque potenza locale sperando a un certo punto di unire tutti i territorî Arabi del Vicino e Medio Oriente e realizzare così quel sogno del Panarabismo.

Anche il contenzioso di Alessandretta sembra oramai definitivamente abbandonato, nonostante in Siria si continui ad insegnare a Scuola che quel territorio appartenga allo Stato siriano. In effetti, il territorio di Alessandret-ta (Iskundurun in turco), importante porto sul Mediterraneo, rientrava nei territorî Siriani essendo stato occupato dalle truppe Inglesi alla firma dell’armistizio nel 1918 (la posizione delle truppe inglesi a quel momento doveva, infatti, rappresentare la linea di confine tra Turchia e possedimenti Inglesi. Ma, in seguito, rientrando nel protettorato francese, questi lo cedet-tero alla Turchia che lo richiedeva essendo la popolazione a maggioranza turcofona. Questa cessione, fatta nel 1939, era fatta in prospettiva di un eventuale aiuto dei Turchi in una guerra contro l’URSS e poter quindi bombardare Baku. La guerra prese poi un’altra piega ma alla fine di questa, la cessione venne confermata dai Francesi alla Turchia. Questa cessione non fu mai riconosciuta dal governo di Damasco. I Siriani hanno sempre

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cercato di fare pressione per riottenere Alessandretta e in particolare acco-gliendo gli oppositori Curdi al governo di Ankara. Il loro leader, Ocalan, era infatti in Siria ma a un certo punto la Turchia minacciò un conflitto ar-mato se Ocalan non fosse stato espulso. Di fronte questo rischio di guerra che Damasco non poteva affrontare (a dimostrazione della relativa debo-lezza militare della Siria rispetto agli attori più importanti del Medio Orien-te) Ocalan venne espulso, proprio nel 1998. Allo stesso modo l’occupa-zione delle alture del Golan da parte di Israele, per poter controllare il Lago di Tiberiade, importante fonte d’acqua per lo stato ebraico, è un altro ele-mento di pressione internazionale a livello diplomatico. Tutto questo per dimostrare quanto in realtà la Siria si muova in molte direzioni nel Vicino e Medio oriente, primo obiettivo dei quali è quello di evitare l’imporsi di un altro stato arabo nell’area, sperando con questo di riuscire a unificare questi diversi territorî e realizzare quel famoso sogno di grande Nazione araba. È sempre Damasco, infatti, la prima a essere contenta per un’eventuale esplo-sione dell’Iraq in tre parti perché così la parte Nord, curda, potrebbe essere facilmente assorbita da questo progetto. Allo stesso modo una nazione pa-lestinese che s’imponesse con un suo stato vero e proprio potrebbe essere un ostacolo a questo progetto (a meno che questo stato non decidesse auto-nomamente di confluire in questa sorta di grande unione). Il Libano non fa eccezione a questo progetto, da qui la volontà di essere presente e di disfar-lo per assorbirlo definitivamente.

Ma oramai aldilà dei tentativi di Bashar al-Assad di stabilire un legame con il mondo occidentale per cercare d’imporsi come attore principale a li-vello locale (e il supporto della Siria contro Saddam Hussein in Iraq è una evidente prova in questo senso) sembrano vanificati. In seguito alla prima-vera araba del 2011, vi è oramai una vera rivolta che oramai potrebbe già essere definita guerra civile e particolarmente nelle città di Hama e Homs, città sunnite del Sud della Siria da sempre opposte al regime laico degli alauiti della famiglia al-Assad. La situazione sembra essere arrivata a un punto di non ritorno e difficilmente il regime potrà uscirne indenne e il coinvolgimento definitivo della capitale economica, Aleppo, non storica-mente tra le città ribelli ne è la conferma. Molto probabilmente dopo un’eventuale caduta di Bashar al-Assad si potrebbe avere un governo molto vicino ai Fratelli Musulmani Egiziani. Sarà per questo la fine del sogno del-la grande nazione araba con capitale Damasco? Probabilmente no perché il sogno di un grande Stato arabo (attenzione arabo non vuol intendere uno stato integralista musulmano con i fratelli musulmani alla testa del governo e il Corano come unico testo di legge) difficilmente potrà tramontare in questa parte del mondo.

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2.6. La Libia del dopo Gheddafi e il Sahara

Un ultimo caso, che ci sembra interessante ai fini della comunicazione, è quello della situazione politica del Sahara. Particolarmente con la fine del regime di Gheddafi, tutto è cambiato, dalle sponde del Marocco, fino al de-serto d’Arabia Saudita. Siccome nel 2012 se n’è parlato moltissimo, con riviste, servizi giornalistici, inviati di diversi quotidiani, ci interessa mostra-re come in realtà per l’ennesima volta ci si è concentrati o su certi eventi o su certi territori, ma mai ci sembra sia stata fatta un’analisi completa, che permettesse una comprensione vera e propria sia della Libia che del deserto del Sahara e delle ripercussioni per quell’insieme territoriale (ben più este-so del deserto stesso) che ne è influenzato. Da qui partono tutte le compli-cazioni da parte dei media a comunicare a riguardo: ancora un caso geopo-litico prestato abbondantemente, e in modi diversi, alla comunicazione.

Per meglio capire partiamo proprio da Gheddafi e dalla sua gestione del-la Libia. La particolarità del suo regime era che non esisteva di fatto un ve-ro sistema statale di gestione del potere, una sorta di amministrazione, co-me non mancano nel resto del nord Africa in realtà (vedasi la Tunisia tanto per cominciare). L’obiettivo era proprio di non avere uno stato, ma sempli-cemente un clan tribale, quello del leader, che gestiva praticamente tutto. Il potere non era mai delegato istituzionalmente e non esisteva nessuna rap-presentanza cittadina riconosciuta. Tutto il funzionamento della Libia pog-giava su quattro colonne: Organizzazione per la sicurezza, i Comitati Rivo-luzionari, la Lybian National Oil Company e la Lybian Investement Autho-rity. Inutile dire che il primo era l’organo attraverso il quale si manteneva l’ordine e si reprimeva qualunque forma di dissenso, una sorta di polizia, neanche tanto segreta, che compiva le esazioni più dure in nome della tute-la del Regime. Il secondo assicurava la gestione della politica clientelare su tutto il territorio, dandosi una parvenza di organo ideologico, in realtà i Comitati erano delle vere e proprie antenne locali del regime: punivano e in piccola parte ridistribuivano gli introiti che provenivano dal petrolio. Il ter-zo gestiva i giacimenti petroliferi. L’ultimo, infine, permetteva di gestire i fondi ottenuti dal petrolio, sia per diversificare le risorse, sia per le strategie di politica estera di Gheddafi (e questo fu fondamentale per la sua politica africana). La famiglia Gheddafi era il centro intorno al quale orbitavano queste quattro istituzioni (se possiamo definirle così). Gheddafi, in modo molto scaltro, compì il suo colpo di stato del 1969 grazie all’appoggio della borghesia libica, ma dopo qualche anno, più precisamente con il suo di-scorso tenuto a Zouwara il 15 aprile del 1973, si liberò dell’appoggio della borghesia cercando, invece, quello della base della popolazione libica, quella popolare e soprattutto rurale, o meglio quelle fasce meno abbienti e

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tribali della Libia. Si trattava di un populismo che evitava qualunque co-struzione dello Stato: tutto roteava attorno alla figura del Leader che veniva costruito come “guida”, e non come presidente o capo di un eventuale go-verno. Insomma, un centro politico ma senza alcuna struttura intorno a lui. Anche i diversi capi dei comitati rivoluzionari raramente si sono mantenuti troppo a lungo e venivano cambiati proprio perché non si creassero delle forme di potere locale capaci un giorno di contestare il leader del Paese. È il centro del Paese, visto che non possiamo chiamarlo Stato, che si occupe-rà, grazie alla rendita petrolifera, di sovvenire ai diversi bisogni della popo-lazione e quindi dell’intero Paese. Un sistema che funzionerà molto a lungo tenendo, per esempio, la Libia ben al di sopra del tenore di vita medio di qualunque altro paese del nord africa.

Ma negli ultimi decenni accontentare le diverse tribù della Libia era di-ventato sempre più costoso e la crisi dei prezzi dei cereali del 2008 aveva reso difficile la cosa per Gheddafi. La crisi dei cereali del 2008 fu una crisi che è all’origine di buona parte delle contestazioni che sfociarono poi nel 2011 in quelle che abbiamo chiamato primavere arabe. E nel 2011 Ghedda-fi tra l’aumento dei prezzi dei cereali e la riduzione (anche del 50%) delle entrate grazie al petrolio fece si che il mantenimento del sistema Gheddafi fosse impossibile. È importante notare la ripartizione della rivolta che porta alla caduta di Gheddafi, partendo prima di tutto dalla Cirenaica, regione abitata dai Warfala e dai Zuwayah, tribù da sempre ostili ai Quadadfa di Gheddafi e fedelissimi al dittatore. È qui che riappaiono quelle ripartizioni tribali: nella solidarietà quanto nella non solidarietà, e questo ci fa capire quanto un’identità “nazionale” libica decisamente non esista.

La fine del dittatore libico creò un grosso problema, prima di tutto alla Libia ma, come vedremo di seguito, a tutta l’Africa del Nord, sahariana e sub sahariana. La Libia rischiò, infatti, prima di tutto di esplodere in tre parti (se non di più): Tripolitania all’Ovest, Cirenaica ad Est e Fezzan a Sud. Ma questo sarebbe ancora il meno. Appena crollato Gheddafi tutto il Sahara andò in ebollizione grazie al movimento, di Al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), ma poi anche di tutti i vari trafficanti di merci e droghe varie. Senza trascurare la rivitalizzazione di tutte le tribù Tuareg. In effetti, uno dei grandi vantaggi che Gheddafi offriva da quando era ritornato ad es-sere frequentabile dalle cancellerie occidentali (cioè dal 2003) era proprio questa sua capacità di controllo del Sahara e di conseguenza dei flussi mi-gratori. Per questo il Sahara, scomparso Gheddafi, diventò zona franca.

Occorrerà quindi che la Libia ritrovi un ruolo nel Sahara, in modo da controllare tutto questo (ma non sarà per ora), e per riuscirci dovrà mante-nere una sua unità territoriale, e questo è ancora più incerto. Ricordiamo che la Libia è stretta tra due vicini estremamente ambiziosi nei suoi con-

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fronti: Egitto e Tunisia. La Tunisia, che non nasconde storicamente degli interessi con le tribù della Tripolitania e con le loro risorse, dando loro in cambio un vero Stato con una struttura capace di operare nel senso più vero del termine. Dall’altro lato vi è una Cirenaica che invece è vista con grande interesse dagli Egiziani. Stiamo insomma parlando di uno scenario alla so-mala, dove le tribù si farebbero continuamente la guerra, in modo più o meno aperto. Si tratta di uno scenario che molti sottovalutano, ma dimenti-cano, così facendo, che le dispute tribali erano cominciate ben prima della fine di Gheddafi, basti pensare agli scontri tra Zuwayas e Toubou, comin-ciati a Koufra nel 2008 e che non si sono mai interrotti, anzi: sono aumen-tati spostandosi sempre più a nord e facendo entrare in effervescenza il Ciad, stato in cui i Toubou sono una delle comunità più importanti. Insom-ma, c’è un vero scenario di guerra che toccherebbe direttamente la Libia, sorvolando su quello che provocherebbe negli Stati vicini.

Ultimo ma non meno importante è il ruolo dell’Algeria, la quale, se non direttamente interessata ai territori della Libia, ha da sempre affermato d’essere il Paese leader del Sahara (essendo quello che ne possiede il pezzo più esteso). Certamente cercherà di imporre, in questo momento, questo ruolo che non è riuscita mai a imporre, ed è proprio dal suo territorio che vengono gli elementi principali di AQMI.

Oltretutto, non è un caso se un Paese come il Mali perde la sua parte più estesa, che fa secessione, proprio all’indomani della caduta del regime di Gheddafi. Si tratta, infatti, di un altro stato uscito dalla ripartizione colonia-le e che ha ben tre fasce diverse: quella desertica, propriamente detta, e quella del sahel, nonché quella più fertile e meridionale dove risiedono le popolazioni maggiormente sedentarie. Ma queste tre aree hanno da sempre difficoltà di comunicazione con la parte desertica, molto poco popolata e dove il ruolo delle tribù nomadi, particolarmente quelle tuareg (vene ne so-no di tribù Tuareg che invece sono sedentarie), è sempre stato percepito da quelle del centro e del sud come illegale e di trafficanti. Sono bastati meno di 2.000 uomini armati, con quel che restava nelle armerie libiche, per eli-minare completamente l’esercito del Mali (comunque estremamente mal armato) e quindi fare secessione creando l’Azawad indipendente con capi-tale a Gao (le altre due città principali sono Timbuctù e Kidal). Evitiamo a questo punto d’entrare nel dettaglio dell’evoluzione della questione Tuareg, che porterebbe confusione a questo punto del testo, e restiamo invece con-centrati sull’aspetto della comunicazione. Perché i Media s’interessano tan-to alla confusione del Sahara, in seguito alla scomparsa del regime di Gheddafi? La risposta non è solo legata al fascino che la cultura Tuareg ha avuto sulle popolazioni occidentali, bensì nel fatto che proprio i media (par-ticolarmente quelli americani) stanno indicando questa situazione come la

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nuova piattaforma possibile per un nuovo terrorismo planetario, di natura integralista. Proprio un giornalista statunitense, Robert Kaplan, ufficial-mente redattore per l’Atlantic Monthly (ma in realtà i suoi lavori vengono pubblicati anche da Washington Post, New York Times, Wall Street Journal e tanti altri ancora) ha più volte parlato di Heartland, facendo riferimento all’Heartland definito da Mackinder. L’idea di Kaplan sarebbe quella di di-re che il Sahara potrebbe diventare la valvola di sfogo per la spinta demo-grafica in provenienza dall’Africa sub-Sahariana e tutti, infatti, dicono che se gli islamisti voglio il Sahara è perché vogliono farne una base di poten-za5. Da qui il paragone con il concetto coniato da Mackinder. In realtà il pa-ragone è abbastanza delicato. Si tratta di due insiemi semidesertici di di-mensioni simili ma dalle caratteristiche naturali estremamente diverse, so-prattutto da un punto di vista naturale. L’heartland asiatico è fatto princi-palmente da una zona desertica caratterizzata da freddi inverni e stagioni miti molto umide, con estese parti del suo territorio letteralmente inondate. Vi sono poi delle alte montagne ai piedi delle quali si trovano diversi centri abitati, che per secoli sono stati punti di scambio di carovane. Lo sposta-mento dei mongoli verso occidente si è fatto proprio grazie all’erba presen-te, che alimentava i loro cavalli, che tra l’altro fin da quei tempi erano fer-rati, quindi capaci di percorrere territori molto estesi.

Nel Sahara le estati sono bollenti e gli inverni quasi impercettibili, con piogge rarissime e di mediocre qualità. La densità abitativa è tra le più de-boli al mondo e lo spostamento dei nomadi non si fa quasi mai, come inve-ce si crede, propriamente attraverso il deserto, perché non esiste vegetazio-ne. Mentre si allevano animali nelle zone ai margini, dove una steppa pove-rissima, fatta di rovi, è presente e permette di alimentare una parte minima di allevamento. Ancora più interessante è la rappresentazione che vorrebbe mostrare, in realtà, la zona sahariana come ininterrotta dall’Atlantico fino al Mar Rosso (il che la farebbe effettivamente equivalere alla dimensione dell’Heartland asiatico di cui parla Mackinder). Ma nel dire questo si sotto-valuta la frattura provocata, sia geograficamente sia culturalmente, dalla valle del Nilo, che taglia questa zona isolandola, dalla penisola arabica. Dimenticando soprattutto che proprio gli Egiziani non vogliono questa con-tinuità, mentre vogliono appropriarsi del ruolo di leadership che fino a poco tempo fa era occupato dal Sudan per l’area Nord-orientale dell’Africa. Ef-fettivamente nessuno stato, oggi, può dirsi pronto a occupare questa leader-ship: l’unico candidato, ma con non poche difficoltà, sarebbe proprio l’E-gitto che, pur essendo ai margini del Sahara, per dimensione demografica e

5 R. Kaplan, The Revenge of Geography: What the Map Tells Us About Coming Con-

flicts and the Battle Against Fate, Random House, 2012.

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posizione geografica (a cavallo tra Africa e Medio Oriente) potrebbe ambi-re a questo ruolo. La questione è capire se prima di tutto l’Egitto riuscirà a stabilizzare la propria posizione istituzionale con una presidenza che cerca di riappropriarsi di un potere per ora maggiormente nelle mani dell’E-sercito, oltre alle difficoltà interne con la comunità Cristiano-Copta. A Sud c’è il problema con il Sudan, per diversi motivi tra i quali anche la gestione dell’acqua, così come a Ovest vi sono le difficoltà in questo momento che derivano dalla frontiera con la Libia e a Est con le relazioni, sempre più complicate in questo momento, con Israele, ma anche con i Palestinesi del-la striscia di Gaza. Insomma, parliamo chiaramente: il Sahara, nuovo heart-land? Decisamente no, ma come dice Lacoste: spesso certi progetti geopoli-tici, che si sono man mano realizzati, sono stati per un certo tempo delle semplici illusioni di conquista6. Aggiungeremmo: i media giocano, in que-sto, spesso un ruolo fondamentale.

6 Y. Lacoste, «Sahara, perspectives et illusions géopolitiques», in Hérodote, n. 142, III

trimestre 2011, Editions La Découverte, Paris, 2011, p. 41.

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Conclusioni

Abbiamo, quindi, potuto constatare quanto la definizione di geopolitica

richieda, in modo essenziale, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa. Soprattutto, ci si è resi conto di quanto l’uso nella comunicazione istituzionale, come Governi, Unione Europea, Enti Locali, ecc. richieda un testo a parte, specialmente dedicato a questo campo. Quello che ci interes-sava qui è farne cogliere l’importanza. La cartografia, sia come strumento analitico sia come strumento di comunicazione per le strategie degli attori pubblici, ha ancora decenni di vita a venire, in cui farebbero bene a dedi-carcisi nuove leve. Allo stesso modo, la televisione italiana farebbe bene a credere maggiormente in un esempio come quello della trasmissione Le dessous des cartes e, anziché avere la pessima abitudine di fare solo critica facesse, almeno qualche volta, fare dell’analisi. La trasmissione francese ha un successo, oramai, da diversi decenni, un successo che si è trasformato anche in produzione editoriale (anch’essa di successo): ci si interroga per-ché si considera impossibile lo stesso in Italia. Resta da sottolineare quanto la competenza italiana, che non ha nulla da invidiare a quella francese, in campi come il giornalismo di stampa quotidiana e la televisione, sia com-pletamente arretrata quando si va a parlare di cartografia. Lo stesso esem-pio, di Repubblica da una parte e Le monde dall’altra è parlante. Da una parte la redazione italiana, che lascia il lavoro della realizzazione cartogra-fica a tecnici informatici (certamente molto competenti nel loro campo) senza la minima formazione in geografia e tanto meno in cartografia. Oltre-tutto c’è un solo tecnico per tutta la redazione di un grande giornale. Risul-tato: cartografie inutili, sovraccariche di variabili visive (anch’esse inutili), che perdono completamente la loro utilità di sintesi e rappresentazione. Dall’altro il quotidiano francese, che ha una redazione completamente a parte di geografi, con tanto di laurea e di dottorato di ricerca, specializzati nell’uso del programmi sia di cartografia sia di disegno, che producono car-tografie su richiesta dei giornalisti o su loro stessa iniziativa. Insomma, a

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Le Monde c’è una redazione come quella che da noi chiameremmo di “cro-naca nera” o “politica estera” o “sport” fatta di cartografia, che produce analisi e notizie di loro propria iniziativa. Il successo di quest’azione non lascia dubbi: produzione per il quotidiano e produzione di analisi geopoliti-che e cartografiche autonome per la casa editrice dello stesso giornale.

Lo stesso vale per il programma televisivo Le dessous des cartes, che continua a raccogliere sempre più successo (se possibile, visto che ha oltre vent’anni di vita) e che gli Italiani non possono vedere sulle proprie televi-sioni perché chi fa televisione, dovutamente interrogato per questo testo, dice che si tratta di programmi noiosi, che non avrebbero audience. A pare-re nostro si tratta di un certo timore da parte dei produttori televisivi di lan-ciarsi in un filone che non ha precedenti in Italia e molto diverso dalla tele-visione che siamo abituati a vedere. Occorrerebbe coraggio e un’intuizione di editori d’altri tempi, non certo di quelli che si vedono circolare oggi, che puntano sempre sulle solite cose dicendo che tanto l’utente italiano non rie-sce a guardare altro. La questione quindi è non tanto sulla scarsa qualità della domanda, bensì sul persistere di una scarsa qualità (ma di successo garantito) dell’offerta: perché scommettere soldi su una trasmissione che rischia di funzionare, ma anche no, se posso scommettere e investire su una trasmissione che sarà anche di basso livello, ma che mi garantisce il ritorno sicuro dell’investimento?

A discolpa dei produttori televisivi italiani ricordiamo che abbiamo par-lato anche della scarsa abitudine degli Italiani ai messaggi cartografici e al-le riflessioni geografiche. Il fatto che Francesi, Tedeschi, ecc. ricevano una formazione molto più accurata e approfondita, ma soprattutto che non ha conosciuto interruzioni fin dalla fine dell’ottocento, in geografia, fa si che prima di tutto questi abbiano una sensibilità maggiore a quello che accade nel mondo e alle questioni territoriali; oltretutto hanno una maggiore sensi-bilità al messaggio cartografico. Questo lo vediamo dalla diversità delle pubblicazioni editoriali della Francia, nel nostro caso, ma vale anche per Tedeschi e Britannici. Gli esempi che abbiamo fatto in conclusione sull’a-nalisi geopolitica del Mediterraneo e del Sahara, dopo la crisi libica, ci de-vono dare l’idea, almeno in minima parte, di quanto la geopolitica non sia un bombardamento di Tripoli da parte di Inglesi e Francesi (quello è un fat-to, un aneddoto, un evento da considerare nell’analisi della situazione geo-politica), ma sia invece un’analisi degli insiemi territoriali e temporali, de-gli attori politici che si contendono uno di questi insiemi e dell’analisi delle rappresentazioni che gli stessi attori proiettano, fanno veicolare, dagli stru-menti di comunicazione di massa. È un lavoro complesso, soprattutto per una comunicazione sempre più rapida e sintetica, ma che non può concen-trarsi sull’istante, per spiegare situazioni che sono sedimentate dal tempo.

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La geopolitica è complessa, ce ne rendiamo conto, ma non può essere sem-plificata oltremodo fino a essere annullata, per adattarsi al media che vuole occuparsene: è la sfida dei media quella di parlare efficacemente di geopo-litica. Se negli altri Paesi si riesce, perché in Italia non deve essere possibi-le?

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