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FrancoAngeli

Luana CarcanoAntonio Catalani

Paola Varacca Capello

IL GIOIELLO ITALIANOAD UNA SVOLTADalla crisi alla costruzione

di nuove opportunità

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Anno2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

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Indice Prefazione pag. 9 di Giacomo Bozzi Introduzione » 13

Parte prima – I focus group 1. L’offerta e il processo di acquisto » 19

di Antonio Catalani 1.1. Il gioiello oggi » 19 1.2. I fattori che influenzano l’acquisto di un gioiello » 24

1.2.1. La marca » 26 1.2.2. Il punto vendita » 27 1.2.3. La tipologia di prodotto » 28 1.2.4. Il prezzo » 28

1.3. Le occasioni di acquisto » 29 1.4. Il processo di acquisto » 30 1.5. Riflessioni conclusive » 33

2. Il processo produttivo e lo sviluppo dei nuovi pro-

dotti

»

35 di Paola Varacca Capello 2.1. Il successo aziendale » 35 2.2. I processi critici » 37 2.3. La gestione del prodotto » 38

2.3.1. I ruoli » 38 2.3.2. Le risorse/competenze specifiche » 41 2.3.3. Le fasi del processo di sviluppo » 42 2.3.4. L’innovazione di prodotto » 44

6

2.3.5. Talento e mestiere pag. 46 2.4. Riflessioni conclusive » 47

3. I rapporti industria-distribuzione » 51

di Luana Carcano 3.1. I criteri di selezione e le aspettative » 51

3.1.1. Il punto di vista del distributore » 52 3.1.2. Il punto di vista del produttore » 58 3.1.3. La rete di vendita » 61

3.2. Il punto vendita oggi » 62 3.3. Il punto vendita ideale » 64 3.4. Riflessioni conclusive » 66

Parte seconda – Sfide competitive e dinamiche strutturali

4. Il settore orafo in Italia: situazione attuale e trasfor-

mazioni strutturali

»

71 di Stefania Trenti 4.1. Il settore orafo in Italia: l’evoluzione di lungo periodo » 71

4.1.1. Una battuta d’arresto dopo una lunga crescita » 71 4.1.2. Il recente crollo dell’export e gli effetti del cambio » 73 4.1.3. Domanda interna ed importazioni » 76

4.2. Il commercio mondiale di oreficeria » 80 4.2.1. I principali esportatori mondiali di oreficeria » 81 4.2.2. Le esportazioni italiane di oreficeria: quali potreb-

bero essere i nuovi sbocchi?

»

84 4.3. Il settore orafo nel censimento 2001 » 88

4.3.1. Una crescita significativa » 88 4.3.2. Il settore si è rafforzato? Processi di crescita dimen-

sionale

»

89 4.3.3. Lo sviluppo delle aree distrettuali ed i processi di

concentrazione territoriale

»

90 5. Le imprese orafe italiane: strategie e risultati » 93

di Luana Carcano 5.1. Le aziende orafe: uniformità e differenze » 93 5.2. Gli effetti della crisi di mercato sulle imprese orafe italia-

ne

»

95 5.3. Caratteristiche strutturali delle imprese orafe » 99

7

5.3.1. Alcuni indicatori sintetici della validità della strate-gia aziendale

pag.

101

5.4. Le imprese nei diversi segmenti: performance di mercato e finanziarie

»

104

5.4.1. Caratteristiche strutturali delle imprese che perse-guono una politica di marca

»

106

5.5. Strategia, competitività e successo economico » 108 5.5.1 Alcuni percorsi evolutivi » 112

5.6. Riflessioni conclusive » 118 6. La segmentazione del settore » 121

di Antonio Catalani, Paola Varacca Capello 6.1. La segmentazione » 121 6.2. Le variabili per la segmentazione » 123 6.3. Il processo di acquisto e le variabili di segmentazione » 127 6.4. Un’ipotesi di segmentazione del settore orafo » 128

Parte terza – Questioni di fondo 7. ll gioiello italiano nel mondo » 141

di Luana Carcano 7.1. L’Italia in un confronto europeo » 141 7.2. L’importanza del “Sistema Paese” » 144 7.3. Il platino: una nicchia globale non completamente presi-

diata

»

148 7.4. Le sfide da vincere sui mercati internazionali » 151

8. Il valore del gioiello Made in Italy » 157

di Erica Corbellini 8.1. Il gioiello Made in Italy: una realtà economica importan-

tissima... peccato che a saperlo siano solo gli addetti ai la-vori

»

157 8.2. I tratti distintivi del prodotto orafo Made in Italy: una cre-

atività che deriva dal saper fare

»

159 8.3. L’immaginario del gioiello francese: Rue de la Paix e Pla-

ce Vendôme

»

161 8.4. Rimettere l’azienda di produzione Italia al centro dell’at-

tenzione

»

163 Allegato: Tutelare il Made in Italy: la lunga battaglia del set-tore orafo

»

164

8

9. Questioni di fondo pag. 169 di Antonio Catalani » 9.1. Il cambiamento nei consumi e la gestione del cambiamen-

to

»

170 9.2. Il gioiello oggi » 173 9.3. Le strategie competitive » 176 9.4. La creazione del valore e la marca » 182 9.5. La distribuzione » 184

Bibliografia » 189

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Prefazione di Giacomo Bozzi∗

Dopo l’euforia degli anni ’90 il nostro Paese sta prendendo coscienza che il modello italiano è in affanno e che una forte crisi di competitività ha inve-stito alcuni importanti settori produttivi. Settori che hanno rappresentato nel passato un elemento di forza finanziaria e di immagine per il Paese e nei quali l’Italia ha espresso eccellenza nel mondo. Ora questi settori soffrono, talora violentemente, i colpi di una concorrenza internazionale e segnatamente asia-tica che sta mettendo in ginocchio aziende e distretti economici impreparati al duro confronto competitivo.

Uno dei settori del Made in Italy che più ha sofferto un cambiamento del quadro competitivo è il settore orafo.

Settore nel quale l’Italia ha espresso nel tempo una riconosciuta eccellenza creativa e qualitativa sul prodotto, dominando per decenni i mercati esteri con una apparentemente inespugnabile quota del 30% del commercio mondiale, che in soli 3 anni si è quasi dimezzata a favore di paesi asiatici a basso costo del lavoro.

Pur essendo evidenti i fenomeni congiunturali più recenti che hanno ridot-to la competitività del sistema orafo italiano, in particolare la violenta rivalu-tazione dell’euro nei confronti del dollaro e la generalizzata flessione dei con-sumi interni, credo che il vero problema sia la presenza di fenomeni critici strutturali che, pur affondando le loro radici nel passato, sono stati coperti o addirittura alimentati da una congiuntura di mercato per molto tempo favore-vole.

Il nanismo delle imprese orafe italiane e la loro polverizzazione eccessiva (più di 10.000 aziende di produzione con meno di 5 addetti medi per azien-da!), la conseguente bassa efficienza gestionale e produttiva, la incapacità e la lentezza nel percorrere le strade della identità del prodotto e della marca (a vantaggio invece della perversa spirale del copiare quanto già copiato piutto- ∗ Presidente e Amministratore Delegato Richemont Italia S.p.A. Past-President Club degli Orafi.

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sto che innovare con coraggio), l’incapacità di aggregarsi per percorrere in-sieme strade che le singole aziende non possono permettersi da sole, la pro-pensione delle aziende ad esportare avvalendosi di canali precari piuttosto che a internazionalizzarsi investendo su strutture forti, la quasi assenza di un ma-nagement forte e professionale, sono alcune delle ragioni che hanno portato il settore a perdere competitività ed a ritrovarsi, dopo anni grassi che non ave-vano favorito il cambiamento di un modello allora vincente, in una situazione critica in cui il settore perde fatturati, profitti e posizioni nel quadro competi-tivo mondiale.

Questo libro, che ha il pregio di coniugare il respiro della visione strategica dei problemi di alcuni docenti Bocconi con il pragmatismo e le competenze di managers, imprenditori ed operatori del settore che nel Club degli Orafi hanno trovato un punto qualificato di incontro, affronta la situazione delicata del set-tore orafo e le linee di potenziale rilancio.

Vorrei con l’occasione sottolineare l’importante ruolo che il Club degli Orafi svolge nello sviluppare cultura tra i soci, ma ancor più all’esterno, a fa-vore dell’intero mondo orafo, attraverso incontri pubblici (il Forum del Gioiello), ricerche e pubblicazioni. La partnership con l’Università Bocconi, che ha portato alla pubblicazione di questo libro, è uno degli esempi più forti dell’impegno culturale del Club e dei suoi soci a favore del settore.

L’analisi svolta nel libro, che ha il pregio di individuare le criticità del set-tore nei vari ambiti, trova nel sistema di offerta del prodotto uno dei suoi capi-toli fondamentali.

Un sistema di offerta del prodotto che è stato per molto tempo focalizzato sul prodotto fisico e sulla sua eccellenza qualitativa ed estetica e che non ha saputo al momento opportuno spostare l’asse su quei valori immateriali, por-tatori del vero valore aggiunto, che il consumatore sempre di più chiedeva.

E così la marca, che rappresenta il veicolo più forte per creare immagine, emozione e identità, e veicolare contenuti simbolici, non è stata utilizzata in modo vincente, salvo poche eccezioni, per rispondere alla esigenza di nuovi valori.

È chiaro l’errore strategico di un sistema che si è quasi esclusivamente mi-surato sulla eccellenza produttiva, in un mondo in veloce cambiamento: da una parte la crescita delle competenze produttive (e l’imitazione sleale!) dei paesi a bassi costi di manodopera portava ad una inevitabile perdita di compe-titività sul prodotto, dall’altra il consumatore di gioielli cambiava alla ricerca di più articolati valori immateriali, che le aziende italiane stentavano a soddi-sfare.

In sintesi, sul prodotto il sistema ha perso competitività, iniziando un peri-coloso declino, e sulla creazione di valore aggiunto immateriale, limitato dalla

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debolezza della cultura manageriale, ha dato risposte episodiche ed insuffi-cienti.

È evidente come il vantaggio competitivo dovrà essere ritrovato su quella gestione dell’immateriale che è propria di un paese che deve tradurre in rigo-rose e manageriali scelte strategiche la propria cultura umanistica ed artistica e la propria creatività, così frequentemente espresse nella sua storia.

Possiamo constatare come il negativo andamento del comparto orafo, così come quello di altri settori, sembra aver innescato una sorta di depressione collettiva, di schiacciamento dello spirito imprenditoriale, di convinzione ge-neralizzata che “non ce la si può fare”.

Credo che questo sia un grande errore. Se da un lato le difficoltà strutturali del settore esistono e non possono es-

sere certo rimosse nel breve termine, credo esistano ampi spazi per le singole aziende per individuare percorsi diversi e vincenti.

Già ora d’altronde abbiamo evidenza di come, pur nell’ambito di questa globale situazione di difficoltà, molti siano i fenomeni importanti di successo: quello dei produttori che hanno saputo mettere la propria competenza al servi-zio delle grandi marche internazionali divenendone spesso partners e condivi-dendone i successi; quello delle marche che hanno saputo costruire nel medio e alto di gamma una identità e riconoscibilità apprezzata dal consumatore, creando in Italia e all’estero fenomeni forti; quello di chi con brillanti opera-zioni di marketing ha saputo valorizzare un prodotto povero, talora neppure contraddistinto da materiali nobili, creando un forte valore aggiunto di marca nel quale segmenti di consumatori si identificano; quello di chi ha saputo sfruttare i fenomeni distributivi ad alto potenziale di crescita in competizione con la distribuzione tradizionale.

Se quelli sopra citati sono stati percorsi vincenti credo che altri percorsi possano essere individuati e perseguiti con identico successo.

Ma un elemento che lega i percorsi del passato e che credo condizionerà il successo di quelli futuri è la strategia di differenziazione che le aziende sa-pranno perseguire per la creazione di fenomeni portatori di una precisa forte identità, percepita ed apprezzata da parte del consumatore.

I fenomeni di successo credo passeranno cioè attraverso il raggiungimento di una identità, sia essa di marca, di tecnologia, di comunicazione o distributi-va, capace di differenziare rispetto a quanto il mercato già offre e solo così di convincere nuovi segmenti di consumatori.

Ed è questo il contrario di quanto avvenuto fino ad ora, dove il mercato fa-cile ha alimentato la pigrizia di chi ha preferito seguire tendenze e luoghi co-muni, spesso anche copiando, piuttosto che innovare con coraggio e costruire vere opportunità per il futuro.

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Questo libro ha il merito di identificare alcuni elementi di fondo, che costi-tuiscono gli ingredienti concettuali di riferimento nella ricerca di nuovi per-corsi vincenti.

Starà poi a ciascuno, nel rispetto di canoni concettuali rigorosi, attraverso un management capace di delineare e rendere vincente sul piano operativo un progetto, con la grande forza imprenditoriale che sa trasformare una idea in un successo, trovare una strada capace di raccogliere il consenso di un consuma-tore oggi meno disponibile a spendere, ma sempre aperto a nuove reali e iden-tificate proposte.

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Introduzione A partire dalla seconda metà degli anni ’90, il settore orafo, che è certa-

mente uno dei comparti di rilievo del Made in Italy, è stato attraversato da si-gnificativi fenomeni di cambiamento: la scelta da parte di molte aziende del settore di portare avanti politiche di marca; la nascita di nuove formule distri-butive; l’ingresso di competitori provenienti da altri settori; la costante ed ine-sorabile evoluzione del consumatore. Contemporaneamente abbiamo assistito a due importanti fenomeni: la crisi della domanda nel mercato interno e la perdita di competitività nei principali mercati di sbocco delle esportazioni.

Le caratteristiche strutturali e i principali processi gestionali del settore o-rafo sono stati descritti nella pubblicazione: Il settore orafo tra tradizione e innovazione, ETAS, 2002, di Luana Carcano, Erica Corbellini, Gabriella Lo-jacono, Paola Varacca Capello.

Questa prima opera è il frutto di una proficua collaborazione tra l’Area Strategia della SDA Bocconi1 e il Club degli Orafi Italia, associazione leader nel settore orafo, da anni impegnata nella promozione e nello scambio di cul-tura imprenditoriale negli ambiti più qualificati.

Il lavoro svolto con il Club, occasione di integrazione di saperi e di cono-scenze tra mondo accademico e mondo imprenditoriale, ha portato alla realiz-zazione, da parte delle due istituzioni, del III Forum del Gioiello, svoltosi il 23 ottobre del 2002. Il successo delle iniziative ha indotto il gruppo di lavoro a continuare la strada intrapresa insieme, per dar vita ad una seconda pubbli-cazione, con il proposito di far emergere i problemi del settore e di individua-re percorsi competitivi di consolidamento e di sviluppo per le aziende che ne fanno parte.

Il volume è strutturato in tre parti e rappresenta, dal punto di vista dei con-tenuti, il naturale proseguimento dell’analisi svolta nel volume precedente, a cui in alcuni casi si farà esplicito riferimento.

1 Di cui gli autori fanno parte e che da molti anni è coinvolta nello studio delle problematiche imprenditoriali e manageriali nei settori in cui la componente estetica, creativa e artigianale svolge un ruolo di primo piano.

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La prima parte è basata su una serie di focus group realizzati con operatori ed esperti del settore, ed è divisa in tre capitoli. Nel primo si analizzano il ruo-lo del gioiello oggi, le diverse funzioni d’uso ed il processo d’acquisto. Nel secondo si considerano i processi ritenuti più critici dalle aziende orafe, in particolare approfondendo la gestione dello sviluppo del prodotto e i ruoli ad esso correlati. Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dei rapporti industria-distribuzione, considerando sia il punto di vista del dettagliante che quello del produttore; in particolare vengono approfondite le politiche di selezione dei clienti e dei fornitori e le aspettative di entrambi gli attori considerati.

La seconda parte, divisa in tre capitoli, consiste in una analisi quantitativa e qualitativa; il quarto capitolo aggiorna infatti i dati sulla struttura del settore (sfruttando anche i risultati dell’ultimo Censimento), ne illustra la dimensione operativa e inquadra il settore orafo italiano nel contesto internazionale dei flussi di esportazione e importazione. Nel quinto capitolo si analizzano le re-lazioni esistenti tra scelte di strategia e risultati aziendali conseguiti e nel se-sto, si definiscono i criteri di segmentazione che consentono di ottenere rag-gruppamenti omogenei di aziende, grazie ai quali si possono valutare le scelte di strategia.

In particolare il quarto capitolo è frutto di una collaborazione con il Servi-zio Studi e Ricerche di Banca Intesa, nella persona di Stefania Trenti, che rin-graziamo sentitamente per il significativo contributo e per l’opportunità di ar-ricchimento reciproco.

La terza parte propone alcune questioni di fondo relative in particolare all’internazionalizzazione, al Sistema Paese ed al Made in Italy (gli autori rin-graziano la collega Erica Corbellini che si è prestata ad approfondire tale te-matica) e fa il punto sulle criticità emerse nel lavoro. Vengono poi sviluppate alcune riflessioni sulle leve strategiche utilizzabili dalle aziende per migliora-re la propria capacità competitiva, approfondendo in particolare le strategie di differenziazione basate sul prodotto e sulla marca e le problematiche della di-stribuzione.

Le fonti e i materiali su cui è basata la pubblicazione sono di varia natura. Le singole tematiche sono state approfondite attraverso incontri con mem-

bri del Club degli Orafi; sono state svolte interviste presso aziende, distributo-ri, punti vendita, associazioni, istituzioni varie e esperti del settore; sono state analizzate le scarse fonti bibliografiche specialistiche; sono stati consultati rapporti di ricerca, documenti aziendali, tesi, siti e articoli.

La prima parte è stata costruita utilizzando la metodologia dei focus group: una tecnica nata nell’ambito delle ricerche qualitative, orientata a valutare bi-sogni e modi di sentire delle persone in un contesto relazionale. Tipicamente un focus group consiste in una riunione alla quale partecipano da 8 a 12 sog-getti omogenei per una qualche caratteristica funzionale alla ricerca, coordina-

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ti da un moderatore o facilitatore il cui compito è quello di assicurare la foca-lizzazione sugli obiettivi prefissati.

Dati i buoni risultati ottenuti e la relativa facilità di impiego, la tecnica si è molto diffusa e ha conosciuto numerose varianti. In ambito aziendale il focus group si è spesso saldato al brainstorming per generare idee creative e per cer-care soluzioni a problemi complessi.

Abbiamo scelto di leggere i fenomeni caratteristici del settore dal punto di vista degli operatori (produzione e distribuzione) introducendo a volte nei fo-cus group esperti in altri ambiti per arricchire le dinamiche. Gli autori ringra-ziano Antonio Martelli (docente di Strategia e Politica Aziendale presso l’Università Bocconi) che ha supportato la realizzazione dei focus.

Il volume si indirizza ad un vasto pubblico, con un taglio che abbina un approccio di tipo accademico (nell’inquadramento dei contenuti, nell’utilizzo di modelli e strumenti) con un linguaggio semplice e con numerosi riferimenti a realtà del settore.

Il libro è quindi dedicato a tutti coloro che, con motivazioni varie, voglio-no comprendere i problemi che il settore sta affrontando, contestualizzandoli rispetto al sistema paese: a studenti, accademici, operatori orafi, professionisti e uomini d’azienda, curiosi di interpretare alcune sfide imprenditoriali e ma-nageriali che comunque accomunano, almeno in parte, questo settore ad altri del Made in Italy.

Gli autori ringraziano i Soci del Club degli Orafi Italia per le diverse oppor-

tunità scaturite da questo rapporto di collaborazione, ormai consolidato. Un rin-graziamento speciale va ad Andrea Broggian, Presidente del Club degli Orafi ed a Giacomo Bozzi, che è stato il referente per questa pubblicazione, che hanno creduto fortemente in queste iniziative, contribuendovi con passione e grande dedizione. Si ringraziano in particolar modo i Soci del Club che hanno parteci-pato alle riunioni di coordinamento e di lavoro sui contenuti del volume: Ales-sandro Fabrini, Ilaria Furlotti, Françoise Izaute, Augusto Ungarelli.

Un ringraziamento speciale va a Louisa Diana Brunner del Club degli Ora-fi Italia, per il suo prezioso lavoro di coordinamento, ed alle persone che han-no partecipato ai focus groups, rendendo possibile il dibattito su una serie di aspetti critici per le aziende del settore.

Tra i Soci del Club: A. PRESTA, Luigi Presta; ANTICA DITTA MARCHISIO GIOIELLI,

Luciano Mattioli; ANTICA OROLOGERIA CANDIDO OPERTI, Candido Operti; BROGGIAN, Giovanna e Pietro Broggian; BUCCELLATI HOL-DING ITALIA, Andrea e Gianmaria Buccellati; CARTIER, Frédéric De Narp, Roberto Grandis, Dominique Sensarric; CENTRO PROMOZIONE

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DEL DIAMANTE - DTC, Valentina Masu; CHIAMPESAN FRATELLI, A-lessandro Chiampesan; CHIMENTO GIOIELLIERI, Maurizio Bertoncello; COMM. GIUSEPPE FIORENTINO, Emanuele Fiorentino; CROVA, Pier Carlo Crova; DINO CECCUZZI, Paola e Bruno Ceccuzzi; FARO, Vittorio Boni; GIANNI CARITÀ & FIGLI, Vincenzo Carità; G. ROBERT, Vincenzo Giannotti; GUCCI, Marco Falezza; INCOM-INGRASSIA GIOIELLI, Pietro Ingrassia; MONILE, Aldo Arata; MOSSA, Ada Mossa; PIANEGONDA, Ste-fano D. M. Borghini; PLATINUM GUILD INTERNATIONAL, Françoise Izaute; POMELLATO, Elena Cerri, Michelangelo Condò, Paola Marletta, Sergio Silvestris; SEBASTIANO RAPISARDA GIOIELLI, Antonino e Ma-rina Rapisarda; SILMAR, Marilisa Cerato; UNOAERRE, Ranieri Minutelli, David Stettler, Gianluca Zucchi; VALENTINI, Paolo Valentini; VANTINI DEL GUARDA, Ilaria Furlotti; VENDORAFA, Daniela Lombardi e Augusto Ungarelli; Gian Carlo De Paulis; Claudio Pagani.

Hanno partecipato ai focus groups anche: MORELLATO, Massimo Carra-

ro; PAMBIANCO, Rossella Beato; Wilma Viganò. In SDA, sono numerose le persone alle quali siamo grati per l’aiuto ricevu-

to, primi fra tutti, il Professor Andrea Sironi, Direttore della Divisione Ricer-che ed il Professor Federico Visconti, Direttore dell’Area Strategia. Al Profes-sor Guido Corbetta, Direttore del Master in Fashion, Experience and Design Management della SDA Bocconi va il nostro più sincero ringraziamento per aver guidato il gruppo nello sviluppo della partnership con il Club degli Orafi. Infine ricordiamo il Professor Claudio Dematté, prematuramente scomparso, per gli insegnamenti e l’entusiasmo che hanno contraddistinto il suo lavoro e per l’interesse e il coinvolgimento diretto nella ricerca su questo settore, te-stimoniato dalla sua partecipazione al Forum del 2002 in veste di relatore.

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Parte prima – I focus group Premessa metodologica

Per consentire un adeguato approfondimento sulle tematiche in esame, An-tonio Martelli, che ha supportato questa prima parte dal punto di vista meto-dologico, e Antonio Catalani hanno condotto sei focus group, due per ciascun tema, di volta in volta con diversi partecipanti. Nei capitoli che seguono si sintetizza quanto emerso nei focus group citando le opinioni degli interlocuto-ri e la fonte in modo anonimo, quando sembrava funzionale alla miglior com-prensione del punto di vista espresso.

Agli incontri hanno partecipato 46 operatori, ciascuno selezionato per le proprie competenze e per il ruolo ricoperto in azienda. Il tema relativo alla of-ferta ed al processo d’acquisto ha visto quindi coinvolti creativi, responsabili vendite, dettaglianti. Per analizzare i processi strategici, in particolare il pro-cesso produttivo e lo sviluppo prodotti, abbiamo coinvolto manager responsa-bili delle principali aree aziendali, dagli amministratori delegati, ai direttori generali, ai responsabili di produzione; per quanto riguarda infine i rapporti industria distribuzione hanno partecipato responsabili commerciali, store ma-nager e distributori.

Questa struttura ci ha consentito di affrontare il tema forti di una significa-tiva ricchezza di contributi. I focus group sono stati registrati per poter poi a-nalizzare in dettaglio quanto emerso ed i conduttori, che hanno lavorato per ciascun focus group sulla base della medesima traccia, hanno poi analizzato e discusso le registrazioni, insieme agli autori.

Quello che viene proposto nel seguito è l’insieme dei diversi punti di vista emersi partendo dalle questioni che sono state poste dai moderatori.

Pur essendo i tre capitoli frutto di una elaborazione congiunta da parte de-gli autori, il primo è stato scritto da Antonio Catalani, il secondo da Paola Va-racca Capello e il terzo da Luana Carcano.

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1. L’offerta ed il processo d’acquisto di Antonio Catalani

Questa prima coppia di focus group, partendo dalla ricerca di una defini-zione del gioiello da parte dei partecipanti, ha indagato il processo d’acquisto approfondendo due macro aree: • le motivazioni d’acquisto, distinguendo tra uomo e donna e tra regalo e au-

toacquisto; • i principali fattori che influenzano l’acquisto: tipologia di gioiello, brand,

prezzo, stile, materiali, punto vendita, servizio del punto vendita, etc. 1.1. Il gioiello oggi

Chiedere agli operatori del settore di definire il gioiello significa in qual-che misura chiedere loro di definire l’ambito del loro business. Mai come oggi questo problema è attuale: fino ai giorni nostri infatti il gioiello è sempre stato un oggetto realizzato in metalli preziosi, a volte arricchito da pietre, spesso caratterizzato da qualità di fattura, destinato ad essere ornamento. Dal punto di vista sociale ed economico al gioiello sono state così riconosciute diverse tipologie di valore: da quello economico ed estetico, al valore simbolico e di comunicazione. Tali componenti sono sempre state tutte indissolubilmente le-gate nella definizione di gioiello, a prescindere dal fatto che si privilegi l’importanza dei materiali impiegati, la fattura, la funzione di ornamento per completare la bellezza della persona, ovvero per comunicare qualcosa nel proprio ambito sociale. Abbiamo visto così il gioiello, che è tipicamente dona-to, quindi è connesso ad occasioni ed emozioni, ornare le statue delle divinità, essere riprodotto nei quadri per farci meglio comprendere l’importanza socia-le ed il buon gusto della persona ritratta, monetizzato nei momenti economi-camente difficili, tramandato nelle famiglie per generazioni come ricordo e come valore economico. Il consumatore negli ultimi anni sembra privilegiare il valore di ornamento del gioiello. Sono infatti nate (ed a volte hanno avuto

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successo) collezioni che hanno proposto il gioiello puntando sul suo carattere di ornamento e sulla sua funzione di comunicazione all’interno del gruppo so-ciale cui l’individuo appartiene. In alcuni casi le collezioni sono nate dal mondo della moda, che ha a priori la capacità di proporre il gioiello come ac-cessorio grazie alla forza della marca ed alla specifica cultura del settore. In altri casi le nuove marche hanno rinunciato alla preziosità dei materiali per il design del prodotto. Sembra insomma che i consumatori, particolarmente i più giovani, stiano disaggregando il legame che sembrava indissolubile tra prezio-sità, manifattura, portato simbolico e contenuto di comunicazione, privile-giando questi ultimi a discapito dei primi.

Creativi, produttori, dettaglianti e consumatori sembra insomma che attri-buiscano oggi al gioiello significati differenti, a volte anche contraddittori.

La capacità di differenziarsi attraverso il prodotto, che è nei mercati maturi una delle fondamentali strategie di successo, deriva anche dalla definizione che ogni azienda dà del gioiello, dallo specifico punto di vista e dal modo di interpretarlo. Dai focus group è emerso che ogni azienda ha un proprio con-cetto di gioiello, di conseguenza questo viene creato e comunicato con un lin-guaggio che è per una grande parte patrimonio del settore, ma è anche signifi-cativamente proprio della singola azienda.

Il gioiello è emozione, associazione di significati, linguaggio. Il gioiello è un simbolo di perennità dovuto alla sua particolare natura: l’oro, i

diamanti sono per sempre. Il gioiello è futuro perché è perenne. Il gioiello è un’espressione d’arte che dura da millenni e che sfrutta un materiale

nobile con l’obiettivo di abbellire e portare un dono alle donne. Il gioiello ha valore ed una personalità propria che interagisce con l’anima della

persona. Come si vede tutti gli elementi che fanno parte della definizione tradizio-

nalmente riconosciuta, dalla fattura in materiali preziosi al valore simbolico, sono presenti, pure se con accentuazioni differenti. Un filo conduttore di mol-te definizioni sembra però essere la ricerca dell’emozione attraverso il gioiel-lo.

L’emozione legata al gioiello è vera, è un sentimento forte e serio perché il gioiel-

lo è una cosa seria. Il sentimento del gioiello è diverso dalle emozioni legate ad altri acquisti, perché

segna un momento preciso nella vita dell’individuo (comunione, nascita, matrimo-nio…).

L’emozione è legata al fatto di ricevere un gioiello come dono ed alla pos-

sibilità di perpetuare così nel tempo il ricordo di momenti particolari. Questo

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tipo di emozione non è necessariamente specifica del gioiello, ma può proba-bilmente essere associata anche ad altri beni come ad esempio le borse o altri accessori. Per gli operatori del settore che hanno partecipato agli incontri l’emozione legata al gioiello è unica e sembra essere fortemente connessa alla materia preziosa di cui è fatto.

Il gioiello ha insito in concetto di gioia, già presente nel nome stesso sia per chi

acquista sia per chi lo regala. È qualcosa che comunica gioia e felicità in modo più inteso rispetto ad altri beni. Non è solo istinto o emozione. Il gioiello è emozione e materia.

Lo specifico è la materia, l’inedito è applicare alle materie preziose l’emozione. L’emozione suscitata da un gioiello è sempre collegata a qualcuno o a

qualcosa: a chi fa il regalo, o all’occasione da celebrare e ricordare. Il gioiello, a differenza di una borsa, viene acquistato soprattutto come regalo, quindi porta valori e messaggi diversi dagli oggetti che ognuno abitualmente acquista per sé. Chi invece non opera professionalmente nel settore, ma studia il con-sumatore, dice:

Il gioiello è emozione e materia. L’emozione rimane un portato del gioiello, anche

se la materia non è più nobile: tutto può essere utilizzato e nobilitato dal concetto stes-so di gioiello per impreziosire la persona.

Il concetto di gioiello come accessorio non riguarda più solo gli oggetti in acciaio. Il diamante di fidanzamento sta evolvendo, sta andando verso l’impulso ed il piacere.

Secondo i creativi che hanno partecipato ai focus group invece è proprio la

preziosità della materia la discriminante principale nella distinzione tra gioiel-lo e accessorio moda. Tutti gli oggetti realizzati in materiali non nobili sono percepiti come accessori, anche piacevoli e divertenti, ma pur sempre oggetti.

Il gioiello deve essere di materiale nobile. C’è tanta bellezza nell’oro, nel platino,

nelle pietre, nei diamanti da rappresentare la vera distinzione. Un oggetto, se pur bel-lissimo, è design; il gioiello deve essere di materiale nobile sennò mancherebbe di quella preziosità che ne fa un gioiello.

Si possono chiamare gioielli anche quelli di Armani o di Breil ma di fatto non lo sono e non funzionano come tali nel vissuto del consumatore, mentre un grammo d’oro di DoDo fa la differenza, non per la marca o il design ma per la materia.

La bigiotteria e i gioielli rivestono funzioni diverse: la prima ha una fun-

zione di decorazione, di moda, insomma è qualcosa che facilmente si alterna e si sostituisce. L’accessorio moda, di cui la bigiotteria è parte, assume signifi-cato solo se inserito in un contesto: ha la funzione di completamento del look, accompagna un abito.

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L’accessorio è qualcosa che completa, ma non ha una valenza di per sé, ha biso-

gno di essere sostenuto; invece un gioiello con un diamante sta in piedi da solo. L’accessorio funziona solo se inserito in un contesto. La cintura, la collana di bi-

giotteria servono solo per sottolineare la cosa primaria: il vestito. Usare materiali non preziosi ha impatto anche sull’estro creativo: a volte la

bigiotteria può apparire anche più bella perché il creativo ha maggiore libertà nella forme e nelle dimensioni.

Le linee “entry price” e gli pseudo gioielli-accessori esistono non solo perché il

mercato le richiede ma perché ci si può sbizzarrire maggiormente, fare lanci più velo-ci, perché la gente è più disposta ad acquistare d’impulso.

La bigiotteria può avere le stesse caratteristiche formali del gioiello, pur

essendo realizzata in materiali diversi, anche se poi sono differenti le tecniche produttive (le pietre sono incollate per esempio e non incassate) e sono diver-se le motivazioni d’acquisto (completare l’abito, non acquisto di un oggetto bello e prezioso in quanto tale). Il gioiello invece ha un valore e una persona-lità propria che interagisce con l’anima della persona e rimane a memoria di un evento importante.

Nel gioiello vi è un rapporto intimo tra persona e oggetto. È personificazione, ha

un’anima e parla con la persona e non con ciò che la circonda. C’è sicuramente una parte di tradizione per cui si compera un gioiello perché co-

munque rimarrà. Magari si spendono gli stessi 400 euro per un paio di jeans di Dolce e Gabbana, ma quando vado a comperare la veretta da 400 euro, mi aspetto un certo livello di servizio e rassicurazione dal rivenditore: i jeans potranno anche rompersi invece l’anellino dovrà rimanere in famiglia.

Il luogo d’acquisto (gioielleria/bigiotteria/profumeria) è sempre più impor-

tante per qualificare l’oggetto. Si definisce infatti gioiello (gioiello-ac-cessorio puntualizzano gli addetti ai lavori) un prodotto in acciaio acquistato in gioielleria mentre lo stesso oggetto acquistato allo stesso prezzo in profu-meria viene definito bigiotteria.

Per quanto riguarda i criteri e le modalità di valutazione dei nuovi progetti, i creativi generalmente concordano nel ritenere che la linea che avrà maggiore successo sul mercato in genere è quella che piace di più al creativo stesso, che associa così alla collezione il suo vissuto personale.

La linea di maggior successo è quella che piace di più al creativo, che nasce

dall’immaginare il gioiello su di me (una stilista).

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Il gioiello è sintesi delle sensazioni provate nel momento creativo, che sono natu-ralmente associate al mio vissuto sull’architettura, la natura...

Quando il designer è un professionista esterno alla proprietà ha un approc-

cio più distaccato: in questo caso è importante per chi progetta entrare in un contesto fatto di significati e di segni, il mondo dell’azienda per cui si dise-gna, ed interpretarlo.

Quando si crea un gioiello bisogna entrare in un mondo molto ricco dove le de-

terminanti per la creazione sono complesse e dove vengono coinvolti fattori che van-no al di là della creazione pura.

Per poter inventare qualcosa di nuovo è fondamentale il talento che deve

essere associato al saper fare, al mestiere, all’artigianato. È l’interscambio tra creativi ed artigiani che consente di ottenere un prodotto di successo (si veda par. 2.3.5). Alla creatività che porta ad inventare nuove forme deve associarsi la qualità della realizzazione poiché nel vero gioiello è anche questo che gene-ra il valore.

Il pubblico è sensibile alla manifattura, una cosa ben fatta è premiata. Oggi per il consumatore, il gioiello è cosa diversa a seconda che la funzio-

ne d’uso sia prevalentemente di ornamento della persona o di investimento. Nei due casi anche il processo di acquisto è differente. Se si pensa in termini di investimento si ricerca la pietra preziosa, il materiale nobile e la qualità di fattura, per un oggetto che deve durare nel tempo; l’acquisto in questo caso è meditato, il processo è certamente più lungo. Se invece si pensa al gioiello come accessorio il punto cruciale diventa l’impatto emotivo, la ricerca di qualcosa che dia soddisfazione anche per un periodo breve.

Il gioiello una volta era un investimento. Da me veniva gente del paese che com-

perava un gioiello per darlo in dote alla figlia, adesso invece le cose stanno cambian-do (rivenditore).

Il gioiello (quello per eccellenza) non perde il suo valore nel tempo. Il gioiello de-ve essere creato per essere tramandato tra generazioni. In questa prospettiva, tutti gli oggetti che non rientrano nella definizione sono accessori legati al mercato, fanno moda, tendenza e poi scompaiono.

Al gioiello è associata una valenza simbolica molto forte. Viene considera-

to come un simbolo di: • perennità, per la particolare natura di oggetto realizzato con materie nobili

(“i diamanti sono per sempre”);

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• potere economico, per il valore intrinseco dell’oggetto; • appartenenza culturale, per la sua dimensione estetica; • lusso, perché è “un oggetto superfluo ma con il potere del piacere: deve

dar piacere a chi lo regala e a chi lo riceve”. L’approccio simbolico “al vero” gioiello è complesso e profondo. Avvici-

narsi ad un bene ricco di valori storici e culturali sarà un percorso naturale per le generazioni di giovani, abituati a vivere gioielli “facili, comunicati e poco costosi”?

Alcuni considerano positiva questa tendenza del gioiello per i giovani per-ché vedono l’acciaio come un’iniziazione al gioiello. I giovani diventando a-dulti ed acquisendo maggiori disponibilità economiche passeranno a gioielli veri.

Lo stesso vale anche per gli orologi: si passa dallo Swatch al modello più costoso

fino ad arrivare agli orologi di lusso. Altri invece lo considerano in modo negativo. Il gioiello-accessorio infatti

non ha i codici formali propri della tradizione. Questi giovani che comprano oggetti in materiali non nobili, voluminosi e appari-

scenti, non riusciranno ad apprezzare un gioiello di valore, che, per sua natura, non potrà avere le stesse caratteristiche.

I giovani dovrebbe quindi essere educati a distinguere, in termini di valori

e di contenuti, tra accessorio e gioiello. Il rischio è altrimenti che questi, anda-to perso anche il significato del gioiello di ricordo di importanti ricorrenze, non saranno in grado di attribuire un valore diverso ai due oggetti, finendo per percepire la differenza solo in termini di prezzo. 1.2. I fattori che influenzano l’acquisto del gioiello

A seconda che l’acquirente sia una donna o un uomo, a seconda dell’età e della tipologia di acquisto (regalo o autoregalo, impulso o premeditato, colla-na o anello), i fattori che possono influenzare e condizionare la scelta di un gioiello sono numerosi, così come sono diversi l’ordine in cui questi interagi-scono e l’importanza che assumono.

Di seguito analizzeremo in maniera più approfondita i fattori che sono e-mersi con maggiore frequenza: marca, stile, prezzo e punto vendita. Questo ad esempio può essere il primo o l’ultimo elemento a seconda dell’età

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dell’acquirente e della tipologia di prodotto: è il primo se il cliente ha bisogno di un suggerimento per un acquisto impegnativo, l’ultimo se ha già in mente una determinata marca. In ogni caso, data la non elevata diffusione delle mar-che nel settore, il punto vendita ha spesso quella funzione di rassicurazione e di garanzia di qualità che in altri ambiti viene attribuita alla marca; quindi in alcuni casi parleremo di marca-punto vendita per indicare l’indifferenza dell’uno o dell’altro fattore e il prevalere del bisogno di rassicurazione.

Nel caso di un uomo che vuole fare un regalo, il primo elemento che in-fluenza la scelta è il rapporto con la persona cui il regalo è destinato (moglie, sorella, amante…) e l’influenza e la pressione che questa ha già esercitato sull’uomo per orientarlo. Nella scelta intervengono poi le altre variabili legate all’oggetto che si vuol regalare, quali per esempio la tipologia del gioiello (collana, orecchini, anello…), la marca, lo stile, i materiali, il prezzo ed il punto vendita.

Gli uomini tendono a vivere questa esperienza con una insicurezza di fon-do che cercano di superare grazie al punto vendita (il gioielliere di fiducia, la conoscenza personale, l’esperienza di altri acquisti nello stesso punto vendita) o grazie alla marca.

I fattori che sono emersi certamente hanno un peso diverso anche in fun-zione della fascia d’età degli acquirenti: per i giovani la prima variabile è il prezzo seguito dal materiale e dalla marca, per l’uomo maturo invece prima c’è il punto vendita, seguito da marca e stile.

Per una donna che deve fare un regalo i fattori che interagiscono condizio-nando la scelta sembrano essere la tipologia di prodotto, il prezzo e la marca-punto vendita, seguono poi lo stile ed il consiglio dell’esperto. In pratica os-servando le vetrine, la pubblicità e visitando alcune gioiellerie, la donna si o-rienta ed assume gli elementi necessari per procedere nella scelta sia per ac-quistare il regalo, sia per orientare l’uomo.

Se invece si tratta di un acquisto d’impulso gli elementi che condizionano la scelta sembrano essere lo stile e l’estetica del prodotto (perché un oggetto deve colpire e suscitare l’attenzione), il prezzo in relazione al budget di spesa e la marca.

Di solito chi compera il prodotto di una specifica marca ha già individuato tipologia di prodotto, prezzo e punto di vendita; rimangono quindi da definire solo il modello ed il materiale. Quindi un'azienda che ha una chiara identità stilistica e un vissuto di marca semplifica notevolmente il processo di acquisto ai propri potenziali consumatori. 1.2.1. La marca

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È opportuno premettere che le vere marche in gioielleria sono poche. Solo negli ultimi anni, infatti, un certo numero di aziende di produzione ha concen-trato la propria attenzione verso politiche finalizzate alla creazione della mar-ca. Questo processo, come è ben noto, è lungo, complesso ed oneroso: non basta infatti avere un marchio, una confezione e fare qualche pagina di pub-blicità. La marca è un elemento determinante nel processo di creazione del va-lore e rappresenta il fattore di scelta fondamentale: è garanzia di qualità del prodotto, rassicura il consumatore, rappresenta e veicola un complesso siste-ma di valori sociali ed estetici. Perché questi raggiungano il consumatore in maniera efficace è sempre necessario che l’identità venga confermata dalle caratteristiche del punto vendita, che così diviene il luogo ideale nel quale si entra in relazione con la marca e con il prodotto, anche attraverso il supporto del gioielliere competente ed aggiornato.

La difficoltà nel creare la marca per i produttori del settore deriva da una parte dalle ridotte dimensioni degli investimenti in comunicazione, dall’altra dalla presunta complessità di questo processo nell’ambito del gioiello rispetto ad altri ambiti.

È difficile descrivere un mondo e a maggior ragione comunicarlo al consumatore

finale. Se la marca può condizionare la scelta del punto vendita in cui effettuare

l’acquisto, è poi il gioielliere che ha il ruolo cruciale di indirizzare e guidare il processo e l’esperienza dell’acquisto. Può quindi accadere che tra un oggetto di marca e uno non di marca proposto dal gioielliere, che però colpisce, emo-ziona ed ha un prezzo interessante, alla fine possa essere scelto il gioiello un-branded. In particolare se il destinatario del regalo ama e possiede gioielli, la marca perde rilevanza come elemento di scelta a favore dello stile, alla ricerca di un gioiello particolarmente interessante.

Diverso è invece il discorso per chi si avvicina per la prima volta all’acquisto di un gioiello, in questo caso infatti la marca può essere fonda-mentale, così come può diventare rilevante anche per acquisti “obbligati” co-me le fedi.

La marca, quando si fonda su sistemi di valori ricchi ed articolati, consente anche di segmentare i consumatori, ciò ha dato l’opportunità ad alcuni riven-ditori di aprire un secondo punto vendita dedicato solo ai prodotti di marca per i giovani.

Il brand, pensano alcuni, potrebbe anche rappresentare un fattore di condi-zionamento così forte da rendere quasi ininfluenti i servizi tradizionalmente offerti dai gioiellieri, trasformandoli in meri porgitori di prodotto. La marca infine seleziona le vetrine su cui porre attenzione poiché è difficile immagina-

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re che oggi si possa essere attratti da una vetrina anonima, a meno che la gioielleria non sia nota e qualificata.

È difficile che qualcuno si fermi a guardare vetrine con solo prodotti unbranded.

1.2.2. Il punto vendita Il punto vendita sembra essere il primo fattore che influenza l’acquisto, sia

nel caso dei monobrand “il luogo per eccellenza dove trovare la marca” sia nei multibrand, dove il consumatore può trovare una selezione più ampia di prodotti. Il punto vendita, attraverso la creazione del proprio assortimento, mette a punto il più importante servizio al consumatore. La creazione dell’assortimento in un punto vendita moderno è prima di tutto la creazione attenta e personale di un sistema di marche, ciascuna adeguatamente rappre-sentata in termini di prodotti, per dare vita ad una relazione virtuosa tra la marca prescelta e l’insegna del punto vendita. Entrambe svolgono così una funzione sinergica di rassicurazione e di servizio al consumatore, si pongono reciprocamente in relazione lasciando al consumatore finale libertà di scelta dell’oggetto.

Se si tratta di un regalo pianificato, il punto vendita ha un ruolo fondamen-tale: il gioielliere di fiducia per il consumatore è chi ha esperienza, reputazio-ne e a volte anche tradizione, è quindi colui che rassicura circa il valore e la qualità del prodotto acquistato, indirizza il cliente nel processo d’acquisto con i suoi consigli e le informazioni. Nel caso di acquisto d’impulso l’attenzione del consumatore è concentrata invece sull’oggetto ed in questo caso sono lo stile e la valenza estetica del prodotto ad assumere una rilevanza fondamenta-le.

Entri e respiri un’atmosfera, entrando in relazione con la marca, in questo contesto

l’acquisto è più piacevole… Più la donna diviene autonoma, più sviluppa indipendenza nelle scelte e

negli acquisti; si crea così una nuova possibilità per il gioielliere di trovare un proprio spazio professionale che consenta di proporre e consigliare, riappro-priandosi del suo “mestiere”, di un “saper fare” che, se è adeguato ai nuovi linguaggi ed al nuovo mercato, può generare un nuovo modello di relazione con il consumatore.

1.2.3. La tipologia di prodotto

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Per tipologia di prodotto intendiamo il genere cui questo appartiene: colla-na, anello, orecchino o altro. Questo fattore orienta e condiziona in maniera rilevante l’acquisto. Spesso il cliente ha le idee chiare sul tipo di prodotto che intende regalare: vi è infatti nella tradizione una relazione tra le diverse occa-sioni e le tipologie di prodotto. Esiste un codice non formalizzato per cui ad esempio l’anello è un regalo che impegna, che manifesta un certo tipo di rela-zione, non è quindi adatto per un regalo tra due amiche. Grazie a tale codice, che è ben definito nel caso degli acquisti “obbligati” (matrimonio, fidanza-mento…) si acquista ciò che meglio veicola il messaggio che si vuole trasmet-tere, negli altri casi invece la tipologia di prodotto non è mai così critica per la scelta.

Se ben consigliato il cliente passa da un bracciale ad un collana. Quando la tipologia di gioiello è già definita, il gioielliere ha il compito di

interpretare lo stile dell’acquirente e questo è certamente più semplice quando si conosce il destinatario del regalo o vi è una consuetudine di rapporto con il cliente.

1.2.4. Il prezzo Il prezzo è un fattore che interviene nella scelta in modo sempre più rile-

vante. In genere chi dispone di un budget limitato tende a concentrarsi su pro-dotti classici che durano nel tempo, o su gioielli-accessori.

In ogni caso l’acquirente ha una idea ben precisa dell’importo che è dispo-sto a spendere prima ancora di entrare nel punto vendita e questo rappresenta il punto di partenza nel processo d’acquisto.

L’abilità di chi vende è poi quella di spostare la scelta su altri valori, tutta-via il prezzo determina i volumi di vendita.

Il prezzo è importante fino ad un certo punto; di fronte ad un prodotto di un certo

tipologia, ci possono essere consumatori disposti a rivedere il proprio budget. Vorrei spendere meno, ma metterò insieme due occasioni. … le marche realizzano i volumi maggiori sui prodotti entry level, da circa 2.500

euro. Un prodotto con un prezzo elevato finisce per essere confinato ad un ruolo

di nicchia in termini di volumi, e non riesce ad assumere un ruolo significati-vo rispetto al mercato. Il prezzo è anche un limite per l’autoacquisto, in parti-colare nel mercato USA, in cui tale fenomeno è già ben diffuso, il valore o-scilla intorno ai $2500-3000.

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Per i prodotti di fascia alta di mercato è il servizio in senso lato ed ampio che in-

fluenza l’acquisto più del prezzo. 1.3. Le occasioni d’acquisto

Nella nostra tradizione il gioiello è strettamente legato ad un sistema di oc-

casioni che partono dalla nascita ed accompagnano attraverso gli avvenimenti principali come il fidanzamento, il matrimonio, le ricorrenze e le principali festività, il gioiello come regalo ha il compito di fermare tali eventi nella me-moria. La domanda sembra quindi strutturata attorno a queste occasioni.

L’uomo acquista per consacrare un momento della vita, per vedere un sorriso. La donna invece tende ad acquistare in prevalenza per due motivazioni:

come segno di emancipazione, di autonomia e di indipendenza sociale, oppure acquista d’impulso un gioiello per gratificarsi.

La donna acquista per dimostrare che ce l’ha fatta a comprare senza bisogno

dell’uomo oppure perché un oggetto la emoziona. Le vendite hanno da sempre una precisa stagionalità con picchi a Natale ed

a luglio. Se Natale rappresenta una delle occasioni per eccellenza, luglio può essere forse considerato come il mese in cui si compra per se stessi, legato più alla gioia dell’estate che ad una ricorrenza.

La quota di autoacquisto negli ultimi anni è in crescita, tuttavia non ha compensato la diminuzione, registrata nel mercato, di acquisti per le occasio-ni. Potrebbe quindi essere importante lavorare sulle occasioni per riproporre in chiave fresca ed attuale il collegamento tra regalo, gioiello ed occasione.

Nessuno finora ha proposto un gioiello per i 18 anni o per festeggiare il primo la-

voro. Le feste che nascono da scelte di marketing, legate quindi più agli interessi

commerciali che al sentire delle persone, hanno perso di importanza, fatta for-se eccezione per San Valentino per i più giovani. Le occasioni legate invece a momenti importanti della vita conservano il loro valore e potrebbero consenti-re politiche di promozione del gioiello, se legate a prodotti che non fanno più parte di una generica collezione, ma sono studiati e promossi per quella speci-fica occasione.

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Soprattutto fra i giovani si stanno creando nuove occasioni di celebrazione al di fuori dei momenti tradizionali, come ad esempio il regalo per la laurea da parte di un gruppo di amici; il gioiello in questi casi potrebbe competere con successo con altre tipologie di prodotti. Possiamo immaginare che, grazie alla nuova dimensione sociale, esistano momenti potenziali di acquisto allargati, meno legati alla coppia ed alla sfera degli affetti familiari, più connessi invece all’amicizia. Il network di relazioni e di occasioni di regalo sta cambiando e in questo rinnovato contesto gioielli con un elevato contenuto di moda, o più o-rientati alla funzione di accessorio potrebbero rappresentare il regalo ideale.

1.4. Il processo d’acquisto Il processo d’acquisto, come abbiamo visto, si sviluppa con modalità so-

stanzialmente differenti a seconda che l’attore coinvolto sia donna o uomo, che si tratti di un regalo o di un acquisto per se stessi, oltre ad essere influen-zato dal valore del bene che si intende acquistare.

La decisione di acquistare un gioiello è in genere pianificata, soprattutto per beni di un significativo valore unitario, al punto che in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di un “progetto d’acquisto”. Gli uomini in genere compra-no poco per sé stessi e lo fanno solo quelli più attenti alla moda. L’uomo ac-quista per regalare e si fa donare pezzi classici, come i gemelli.

L’uomo difficilmente compera gioielli da uomo. Compera accessori per connotare

la sua identità, perché li usa come segnale per colpire. Gli uomini italiani amano molto il gioiello, probabilmente anche per il suo

elevato valore simbolico. In Italia l’uomo maturo ha cultura di gioielli, tende ad entrare in gioielleria con le idee chiare coerenti con il proprio gusto perso-nale.

Chi ama alla follia i gioielli, anche se li regala, li sente sempre un po’ suoi, anche

se derivano da indicazioni precise. Le donne che acquistano per sé rappresentano ancora una minoranza. In

genere sono interessate ad oggetti di design, caratterizzati da un buon conte-nuto estetico ed un prezzo limitato. In questo caso la tipologia di prodotto gioca un ruolo importante.

Nell’acquisto della gioielleria con diamante, da sempre supportato da mas-sicci investimenti pubblicitari per valorizzarlo come regalo da ricorrenza, la maggioranza degli acquirenti è composta da uomini. Da una recente ricerca

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inglese sull’esperienza di acquisto maschile è emerso che gli uomini non a-mano particolarmente il momento dell’acquisto, e vivono l’ingresso in nego-zio come un’immersione in un mondo sconosciuto. Vivono invece in modo positivo sia le fasi che precedono l’acquisto, quando la coppia decide il rega-lo, sia il momento del dono. Inoltre per gli uomini sembra assumere una rile-vanza particolare la cura della confezione e la situazione in cui il regalo viene consegnato.

In sintesi, in genere è l’uomo l’acquirente mentre la donna ne influenza la scelta, talvolta selezionando il gioiello in maniera precisa ed è per questo che le aziende rivolgono in prevalenza la comunicazione alle donne.

La donna non riceve orecchini se voleva un bracciale, non riceve un brand se ne

voleva un altro. Il ruolo cui è relegato l’uomo è quindi quello di chi dona il gioiello e gli è

lasciato in genere poco spazio all’immaginazione. Il mese di gennaio si carat-terizza per i cambi merce, conseguenza del fatto, dicono gli addetti ai lavori, che nel periodo natalizio si ha la maggiore concentrazione di clienti uomini che comperano i regali. Le donne, pur avendo indirizzato le scelte dell’uomo su uno specifico brand/prodotto, non sempre accettano la libera interpretazio-ne dell’uomo.

È veramente difficile immaginare un uomo che comperi un gioiello da solo. L’uomo cerca invece di superare l’incertezza di fondo che caratterizza

l’acquisto con la scelta del punto vendita (la conoscenza diretta, la fiducia nel gioielliere) e con la marca.

Sono questi gli elementi portanti e rassicuranti di cui ha bisogno un uomo, come

una guida per l’acquisto che impegna. L’atmosfera che si vive nel momento dell’acquisto è fondamentale, se non è un

piacere non ha ragione d’essere. Abbiamo sintetizzato nelle figure seguenti i due processi: l’acquisto per

un’occasione e l’autoacquisto, con lo scopo di individuare le variabili che de-terminano questo processo e provare poi, nel prosieguo del libro, ad utilizzarle come fattori di segmentazione possibili per la domanda e per l’offerta.

Fig. 1 – Il processo d’acquisto: il regalo

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occasione

Partendo da un’occasione si matura l’idea di regalare un gioiello, a secon-da del tipo di relazione che intercorre e del budget che si è deciso di stanziare si valutano diverse opzioni sulla base dei fattori marca-punto vendita e pro-dotto. Se la relazione è del tipo marito moglie, o analoga, l’influenza della donna è particolarmente elevata, ed arriva fino alla partecipazione diretta all’atto d’acquisto. Fig. 2 – Il processo d’acquisto: l’auto acquisto

Nel caso dell’auto acquisto, che riguarda tipicamente la donna, si parte in-vece dalla funzione che il gioiello può avere, se è legata ad esempio ad un abi-to, ad una occasione particolare o se è invece un vero e proprio momento di

idea funzione

marca

prodotto

punto vendita

budget

idea

marca

prodotto

punto vendita

tipo di relazione

budget

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autogratificazione. Si arriva così all’idea di acquistare un gioiello e si deter-mina il budget che si intende investire. A questo punto la scelta avviene sulla base dei fattori marca-punto vendita e tipologia di prodotto.

1.5. Riflessioni conclusive Nel corso dei primi due focus group sono emersi alcuni fatti peculiari che

ci sembra siano propri della visione degli operatori del settore. Essenziale ap-pare la contrapposizione che si è delineata tra una concezione del gioiello le-gata alla tradizione del mondo orafo, che vede nella preziosità del materiale e nella qualità della sua fattura l’elemento discriminante tra ciò che è gioiello e ciò che appartiene al mondo della bigiotteria. In sostanza, in particolare nelle generazioni più giovani, ma probabilmente in tutto il tessuto sociale, sono in atto vettori legati ai valori emergenti che stanno accentuando il bisogno di raccontarsi e di comunicare attraverso l’insieme dell’abbigliamento. In questa ottica il gioiello sviluppa il suo contenuto potenziale di ornamento che gli è proprio, a discapito magari di altri valori quali la qualità dei materiali e la fat-tura. Il successo presso i giovani delle linee realizzate da alcuni marchi della moda o dei gioielli in acciaio, non necessariamente nega l’uso dei materiali preziosi, ma sposta l’attenzione da una lettura del prodotto che valorizza il dettaglio al design complessivo del gioiello.

Siamo di fronte ad una domanda che privilegia alcuni aspetti, senza che ciò implichi necessariamente che vengano rinnegati quelli propri della tradizione. Il punto è che per accentuare la sua capacità di accompagnare, anche da pro-tagonista, l’abbigliamento quotidiano, il gioiello deve cercare nuovi linguaggi. Il consumatore probabilmente non rinnega i materiali preziosi e le pietre, ma chiede di evolvere l’estetica del gioiello. Pensiamo quindi che vi possa essere sempre spazio per aziende che vogliano conservare i contenuti tipici del setto-re, adattandoli però ad un consumatore che sta modificando profondamente il suo gusto.

La valenza simbolica “tradizionale” si sta trasformando di pari passo con l’evoluzione della società che tende ad attribuire sempre maggiore importanza ai valori intangibili e all’immediato. In questo senso il gioiello non dovrebbe più solo coincidere con qualcosa realizzato con materie preziose secondo ca-noni tradizionali (il cosiddetto valore materiale). Poiché i valori immateriali associati al gioiello (emozione e contenuto simbolico) stanno acquisendo sempre maggiore importanza e stanno assumendo nuove forme, il gioiello de-ve modificarsi, esprimendo un mondo di riferimento, tendendo più alla moda, al piacere, al benessere, alla capacità di comunicare il senso di appartenenza ad un gruppo.

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Un altro aspetto che emerge è una certa cultura autoreferenziale, dimostra-ta peraltro in numerosi interventi. L’idea che il progettista creativo sia il giu-dice del proprio lavoro fa pensare infatti ad un sistema sostanzialmente chiuso nei suoi codici. Evidentemente chi ha il talento per fare innovazione stilistica deve avere questo approccio, poiché la ricerca di una nuova estetica si fonda sulla capacità di progettare una proposta che ha pochi riferimenti in ciò che già esiste, ma generalmente lo sforzo della maggioranza dei creativi consiste nella capacità di mescolare con perizia contenuti innovativi e tradizione con le tendenze in atto nel settore e negli altri ambiti, esercitando sempre una parti-colare attenzione all’evoluzione del consumatore. Il gioiello oggi è un prodot-to e come tale non può appartenere al mondo dell’arte, ma a quello della pro-duzione industriale di design.

In questa ottica l’attenzione alle fasce di prezzo, che riteniamo sia deter-minante per sviluppare volumi, non ci sembra sia emersa con la necessaria e-videnza. L’esperienza della maggior parte dei settori dimostra invece quanto questo fattore influisca sul successo delle aziende.

Per quanto riguarda invece il processo di acquisto ci sembra che stato sia ben descritto, in particolare sono emersi due aspetti: da una parte l’im-portanza crescente della marca, anche se ci sembra che sia vista più come la conseguenza di investimenti pubblicitari che di una coerente politica azien-dale. Dall’altra l’importanza delle occasioni e delle ricorrenze per il settore. Riteniamo che la relazione tra prodotto e sviluppo del mercato attraverso le occasioni tradizionali meriterebbe un approfondimento. Dal punto di vista della comunicazione, ad esempio, la scelta prevalente sembra oggi quella di investire in campagne di taglio eminentemente istituzionale, orientate a promuovere la marca, sviluppate attorno a prodotti che rappresentano o l’eccellenza creativa e produttiva o proposte vicine al mercato in termini di gusto e di prezzo. In questo modo però il processo di costruzione della mar-ca è in qualche misura estraneo alle relazioni prodotto-consumatore ed alla logica strutturale che pone in relazione l’acquisto con una griglia di occa-sioni. Ripensare alla propria offerta attraverso linee che sviluppino temi e-splicitamente legati alle occasioni e promuovere i prodotti secondo tale logi-ca porterebbe ugualmente alla costruzione della marca, ma avvicinerebbe di più l’offerta al consumatore.

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2. Il processo produttivo e lo sviluppo dei nuovi prodotti

di Paola Varacca Capello

Il terzo e il quarto focus hanno indagato principalmente tre tematiche: • il successo dell’azienda; • i processi critici per il suo raggiungimento, con particolare attenzione al

processo produttivo, allo sviluppo dei nuovi prodotti ed all’innovazione in generale;

• il rapporto tra talento e mestiere. 2.1. Il successo aziendale

Il successo di un’azienda può assumere diverse forme: il successo di im-magine, quindi la crescita della notorietà, il successo di mercato, che si misura con lo sviluppo della quota in fatturato o in volumi, ed il successo economico, cioè la capacità di produrre reddito. Pure se di fatto spesso appaiono integrar-si, perseguire l’uno o l’altro comporta scelte ed attività differenti.

Tutti i partecipanti convengono che il fine dell’azienda è il successo eco-nomico, ma la relazione tra le diverse forme che il successo può assumere tro-va i nostri interlocutori discordi: per alcuni vi è un nesso di causalità tra que-ste, mentre per altri i volumi non sono critici, si possono quindi conseguire risultati economici e stabilità anche senza raggiungere particolari dimensioni. Si sottolinea inoltre come l’immagine debba essere costruita non solo nei con-fronti del consumatore finale, ma anche rispetto agli altri interlocutori del si-stema (in primis i punti vendita, poi eventualmente i grossisti). Per i produtto-ri che stanno provando a perseguire una politica di marca, il successo econo-mico è una conseguenza della conquista di uno spazio, anche ridotto, nel-l’arena competitiva.

Non si riesce a sviluppare il mercato se non si è conosciuti.

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Se si vuol cominciare a sviluppare il proprio nome, bisogna avere un prodotto da proporre ma contemporaneamente dei mezzi per comunicarlo e successivamente ave-re dei punti vendita che accettino di distribuirlo. La notorietà e le vendite sono ugual-mente importanti, se non si raggiungono in modo armonico e contestuale, il fine ulti-mo, che è il risultato economico, non si raggiunge.

L’attenzione quindi è fortemente concentrata sull’immagine, sulla notorie-

tà e sul look della marca, più che sulla identità, che invece è correlata alle scelte di fondo in merito ai segmenti di mercato da servire, al concetto di pro-dotto sul quale si vuole costruire l’immagine ed al contenuto della marca stes-sa in termini di valori aziendali.

Per le aziende a carattere industriale i volumi sono fortemente legati alla redditivi-

tà. Non è così per le aziende di tipo artigianale. Nella mia gamma c’è tutto, potrei avere un grande successo di vendita (in termini

di volumi), con un prodotto tipico del marchio, tra i meno costosi, e poi vendere un prodotto “meno commerciale” della gamma, che però mi genera un margine in valore assoluto molto consistente.

I processi che sono alla base del successo sono gli stessi in Italia o nelle al-

tre nazioni: la notorietà presso il trade fa da supporto e sostiene il pubblico che si avvicina per la prima volta al prodotto e all’azienda. La tendenza è quella di costruire un successo in Italia e poi esportarlo all’estero.

Bisogna risistemare bene le fondamenta e poi ripartire, comunicando che ci sono

le basi: ho successo in Italia. Quello che piace in Italia piace anche in altri Paesi. Se sei riuscito ad avere successo in Italia, dove c’è un pubblico che è curioso e preparato, allora è un plus. È un qualcosa che ha a che fare con la percezione della qualità da parte del cliente. Tranne rarissimi casi, l’Italia è una sorta di pietra di paragone; in Giappone viene chiesto “ma in Italia dove siete?”, è una garanzia!

È interessante osservare che il consumatore italiano, considerato da tutti

particolarmente esigente in termini di gusto al punto da diventare il testimone all’estero del successo di un’azienda, è forse una delle ragioni principali che hanno fino ad ora spinto le aziende italiane ad una eccellenza di prodotto che ha garantito loro la possibilità di esportare con successo. Chi, come il grossi-sta, che è ancora una figura importante all’interno del settore, svolge poi un ruolo di intermediazione, deve costruire la propria immagine nei confronti dell’intero “sistema interno”, ovvero nei confronti dei produttori e dei detta-glianti.

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2.2. I processi critici Il successo di una azienda è certamente legato al prodotto, quindi al suo

processo di sviluppo, tuttavia si ritengono determinanti anche la comunicazio-ne e la distribuzione.

In base alla nostra decennale esperienza aziendale, la notorietà si costruisce sia

con l’attività di comunicazione, il più possibile orientata al consumatore finale, perché è da lì che deve partire la domanda, sia con una forte innovazione di prodotto, non so-lo in termini estetici, ma anche con l’innovazione tecnologica. Questa non deve essere solo uno strumento ingegneristico di riduzione dei costi, perché la finalità è quella di creare un prodotto di maggior valore percepibile dal consumatore finale, che tuteli l’innovatore dalla concorrenza.

Pure se consci della criticità dello sviluppo dei prodotti, gli operatori del

settore ritengono di avere gli strumenti per affrontare questo tema in maniera adeguata. La distribuzione invece rimane uno snodo critico, soprattutto per le aziende per le quali i volumi e i fatturati hanno un peso notevole. General-mente il problema è vissuto come inefficienza dei distributori e quasi mai si pone la questione della capacità e della efficienza della gestione delle reti di distribuzione, che è invece un problema interno alle aziende.

Nel passato il ruolo del distributore era meno cruciale, sostengono i nostri interlocutori, ma oggi la competizione è più difficile e quindi la distribuzione, che gestisce il contatto con il consumatore finale, svolge un ruolo determinan-te, al punto che può rendere vani gli investimenti in comunicazione.

Tra gli sforzi aziendali e il cliente, dicono i nostri interlocutori, c’è questo filtro: la casta dei gioiellieri. Si può sopperire con la comunicazione, ma il venditore può orientare il cliente come vuole.

Io farei una distinzione. Metterei ai due estremi: una marca già affermata, che ha i

suoi punti di distribuzione, quindi non si interessa al trade ma si interessa solo del consumatore finale a cui si rivolge con affascinanti pubblicità. Dall’altro lato c’è il piccolo marchio che vuole venire fuori, non ha i mezzi per rivolgersi al mercato, deve dipendere dal trade ed assiste a comportamenti schizofrenici: negozi che assolutamen-te ti vogliono e altri che sono completamente disinteressati. È una contraddizione gra-ve per i piccoli, che devono dividere le risorse, che già sono limitate, tra trade e con-sumatore finale.

Per noi il target finale è il consumatore ma non abbiamo né le dimensioni né la forza per andarci direttamente e quindi dobbiamo utilizzare una struttura intermedia che da una parte minimizza il rischio e gli investimenti ma dall’altra media anche il messaggio e può ridurne la forza. È quindi sempre un discorso di mediazione fra ri-schi, risorse e possibilità di ottenere risultato.

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Tutti concordano sul fatto che il successo nasca nel processo di sviluppo del prodotto, e si fondi nell’integrazione di attività e attori, tra il marketing, il commerciale, i tecnici di produzione e i designer.

La condivisione di un progetto sin dall’inizio ha dato frutti positivi… vi è un certo

rischio di confusione e di deresponsabilizzazione, ma la partecipazione aiuta. Nelle aziende orientate ad una produzione ad alta componente artigiana-

le, dove le lavorazioni manuali sono preponderanti, la gestione dipende dalla capacità imprenditoriale sul piano organizzativo e produttivo. È l’impren-ditore che fa reagire tutte le aree della struttura di produzione nello stesso tempo, che le fa dialogare con lo stesso linguaggio e con un medesimo stan-dard qualitativo.

Nelle aziende familiari i membri della famiglia che hanno incarichi di re-sponsabilità hanno competenze diffuse e quindi il coordinamento sembra più semplice.

Dando per scontata la criticità della creazione e dell’industrializzazione a monte, per i produttori di catene (i cosiddetti catenisti) un processo partico-larmente critico è la programmazione della produzione.

Bisogna far correre il metallo, meno rimane in produzione e meno costa, e poi la

produzione è articolata e complessa; quando arriva un ordine (e si lavora su commes-sa) e bisogna consegnare al cliente più prodotti con cicli diversi (1 settimana di pro-duzione contro 4 di tempo di evasione degli ordini), la programmazione diventa il ful-cro dell’attività.

2.3. La gestione del prodotto

2.3.1. I ruoli Per meglio comprendere le problematiche connesse allo sviluppo prodotti

ci è sembrato importante indagare sull’eventuale presenza di alcuni ruoli e sul background culturale delle persone preposte a svolgerli. In particolare ci sia-mo soffermati sulla figura del responsabile sviluppo prodotti (R&D) che ha fondamentalmente un ruolo di coordinamento, di supporto ai creativi, di svi-luppo dei prototipi e di ingegnerizzazione e sul responsabile del portafoglio prodotti (design manager) cui spetta la definizione dei briefing in funzione degli obiettivi aziendali, dell’offerta, del mercato e dei consumatori, la valuta-zione delle relazioni tra gamma proposta, marca e canale distributivo.

La responsabilità dello sviluppo prodotto è gestita con diverse modalità, sostanzialmente in funzione della dimensione aziendale. Ad esempio nelle

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aziende di dimensioni minori difficilmente esiste una funzione/persona de-dicata; la responsabilità è presidiata da figure che svolgono anche altre atti-vità, magari all’interno di un team. Quando la funzione esiste generalmente è coperta da uno specialista (magari un membro della famiglia, che ha una visione ampia e approfondita dei processi aziendali) affiancato da persone di supporto.

La condivisione dei problemi e il confronto tra chi detiene competenze di-verse sono ritenuti da tutti fattori critici, senza però negare che la gestione fa-miliare, che sembra facilitare la gestione operativa, non sempre agevola il rea-le confronto di idee.

Quando ci si riunisce siamo in cinque: io sono chi propone ed il moderatore e

quindi mi occupo della parte creativa; ci sono altre quattro persone che hanno specia-lizzazioni diverse che vanno dalla conoscenza delle gemme, al sistema di produzione, alla persona che dialoga con il gioielliere e con il committente e di solito si ottiene un ottimo risultato, soprattutto attraverso un esercizio continuo e costante. Ognuno rico-nosce al suo collega la proprie competenze e sente la presenza indispensabile. È un lavoro di gruppo che porta i suoi frutti.

Il background del responsabile (se è una sola persona) è creativo oppure è

uno specialista di prodotto. Il responsabile è mia sorella, ha vocazione creativa, è come un art director, ma ha

la percezione del bisogno e segue anche il lancio. Sono il responsabile, la mia estrazione è cultura di prodotto. Coordino il processo,

anche se ci sono dei responsabili operativi. L’integrazione è molto importante, viene prima di tutto.

In molte aziende orafe è l’imprenditore stesso che si prende cura del pro-

cesso; in molto casi è l’anima originaria dell’azienda ed ha un background di prodotto. Una conseguenza immediata di questa situazione è che non è facile trovare sul mercato persone formate a queste competenze.

In merito al responsabile di prodotto, ovvero se sia opportuna una specifica formazione, tutti sostengono che non è facile trovare chi gestisca in maniera manageriale queste problematiche, anche perché ritengono di ottenere risultati analoghi attraverso l’integrazione delle competenze che si può realizzare tra persone che lavorano in logica di squadra.

Quello che si cerca non è tanto il genio in grado di far tutto, ma piuttosto delle

persone che abbiano la flessibilità mentale in grado di mettersi a confronto con gli al-tri nel momento in cui si prendono delle decisioni, che siano quindi in grado di capire chi è di fronte e le esigenze espresse, che poi in fondo sono quelle dell’azienda.

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Il ruolo di responsabile di gamma (che ovviamente non è proponibile lad-dove si lavori per conto terzi, ma che è determinante per chi si propone al mercato in logica di marca) è sentito da molti come una esigenza recente, le-gata soprattutto alle difficoltà di mercato; poche aziende coprono questa atti-vità in modo strutturato. Nei casi in cui è presente il responsabile ha una for-mazione di marketing, mancando lo specialista in design management. In al-cune situazioni questa responsabilità è coperta da chi si occupa di prodotto, ma spesso i risultati non sono pienamente soddisfacenti.

La gestione della gamma è parte del ruolo del responsabile sviluppo prodotto. Non

era sentito come aspetto primario. La cultura artigiana portava alla proposta di enormi quantità di prodotto, facilmente realizzabili. Una volta, tutto ciò che era producibile veniva prodotto ed assorbito dal mercato, non ci si preoccupava di come il prodotto venisse collocato. Poi pian piano è nata la necessità di vedere come il prodotto viene collocato. Tuttavia, al momento, questo ruolo non funziona ancora bene, forse perché è troppo legato allo sviluppo prodotto.

La razionalizzazione dell’offerta è ormai un’esigenza. Oggi ci sono più persone a coprire questo ruolo e provengono dallo sviluppo prodotto e dal commerciale. C’è il tentativo di pianificare la gamma in modo da avere i prodotti giusti al momento giu-sto. Razionalizzare l’offerta significa sapere su quali prodotti puntare, anche in termi-ni poi di programmazione della produzione.

La gestione della gamma è un processo strategico, ma spesso nelle aziende

manca la sensibilità di gestire l’offerta senza seguire le mille idee creative che nascono quotidianamente, ponendo invece al centro della propria attenzione il mercato e le sue esigenze.

È una funzione specifica, estranea al processo di creatività e di produzione; è un

organo super partes che dà un giudizio al di sopra delle varie funzioni. La creatività è una parte fondamentale dell’azienda, delegare una fase di giudizio può portare l’azienda verso una gestione razionale e meno emozionale.

In una grande realtà di tipo industriale sia lo sviluppo prodotto che la re-

sponsabilità della gamma sono affidate alla direzione marketing e vendite. Quest’ultima rimanda alle indicazioni della direzione generale per quanto ri-guarda l’ampiezza del portafoglio, e coordina persone dedicate alla ricerca e allo sviluppo. Le decisioni sui prodotti vengono condivise con la produzione, e l’ultima parola spetta sempre alla direzione generale.

In una realtà di dimensioni minori, che sta tentando di affermare il proprio marchio è l’imprenditore che decide sull’ampiezza del portafoglio, mentre le decisioni sui prodotti da inserire/mantenere/togliere dal portafoglio sono prese comunque del comitato prodotti (che rappresenta più competenze e che è pre-sieduto dallo stesso imprenditore).

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Le aziende di gioielli che provengono dalla moda generalmente distribui-scono meglio le diverse responsabilità. Vi è un direttore creativo che non ha competenze specifiche per la gioielleria, ma dà un input stilistico. La realizza-zione del prodotto avviene all’interno di strutture dedicate alla gioielleria; la direzione operativa coordina anche lo sviluppo del prodotto attraverso un re-sponsabile di prodotto, che realizza operativamente le indicazioni stilistiche del direttore creativo. La direzione operativa supervisiona lo sviluppo prodot-to per arrivare ad un editing finale, in cui il prodotto viene approvato; segue poi il processo di prototipazione, industrializzazione del prodotto e poi produ-zione. La direzione operativa ha a disposizione un budget per sviluppare un determinato numero di prototipi, che mediamente hanno un certo costo; il bu-dget viene assegnato annualmente. È il marketing che decide l’introduzione e l’estromissione dei prodotti. Per far posto ad un nuovo prodotto o si amplia il portafoglio o si elimina il prodotto con minore vendita.

2.3.2. Le risorse/competenze specifiche Nel processo di sviluppo del prodotto la creatività e la realizzazione dei

prototipi sono sovente esternalizzate o sono sviluppate solo parzialmente all’interno. Sono attività decisamente critiche, che richiedono competenze e-levate. Le scelte di internalizzazione o esternalizzazione dipendono da una se-rie di fattori, in primis la storia e il profilo dell’azienda: se è di natura artigia-nale, se ha una vocazione industriale o se piuttosto è una griffe1.

Chi privilegia il controllo della creatività ritiene che ciò faciliti il rispetto della tradizione aziendale e quindi lo sviluppo di prodotti riconoscibili, con una personalità forte. Inoltre, dicono, il settore della gioielleria non ha una grande cultura di design: vi sono pochi designer specializzati (anche perché il design di gioielleria è fortemente legato al “mestiere”, al saper fare, soprattut-to nella tradizione italiana). Data questa scarsità di competenze sul mercato, per un produttore di gioielli è più difficile attingere all’esterno l’input creati-vo, mentre è più semplice acquisire capacità di realizzazione dei prototipi.

L’uso di creativi esterni è a volte indispensabile ad aziende mature, che soffrono dal punto di vista dello stile, che necessitano una rivisitazione, di un nuovo slancio. In ogni caso ciò che viene dall’esterno deve essere filtrato ri-spetto alla storia stilistica dall’azienda (magari a volte rinunciando ad un reale riposizionamento).

Ancora diverso è il caso delle aziende di grandi dimensioni, che operano su diversi mercati e su diverse fasce.

1 Si intendono le case di moda, le cosiddette maison.

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Individuazione del bisogno

Definizione idea creativa

Progettazione

Prototipia e industrializzazione

Produzione

Lancio

Per noi, dovendo presidiare tanti mercati con un prodotto di fascia media, è più importante la prototipazione e la riproducibilità seriale. Per quanto riguarda lo stile, non avendo una linea stilistica unica perché i mercati che serviamo hanno anche carat-teristiche diverse, abbiamo una struttura di progettazione interna, ma molto spesso riceviamo stimoli dall’esterno in maniera strutturata, cioè conferendo incarichi a desi-gner. A volte veniamo stimolati da esterni che ci portano delle idee. La proposta è molto frequente, ma l’accettazione da parte dell’azienda è molto più selettiva.

Con riferimento alle griffe della moda è evidente che lo stile è da sempre

in primo piano. Vivendo però il mercato anche queste aziende avvertono la necessità di capire, investire e acquisire il know how necessario per creare i prototipi.

In questo senso, creare all’interno la prototipazione, cominciare a conoscere le

tecnologie, a decidere le tecnologie, sta diventando importante. Innanzitutto per ra-gioni di controllo del processo e delle decisioni di make or buy e per non dipendere in senso assoluto da quello che poi il fornitore esterno ti dà.

Perché è l’unico modo per vivere davvero il settore. Questa acquisizione di know-how da una parte e di acculturamento dall’altra è

qualcosa in cui crediamo molto. Stiamo diventando gioiellieri, orefici, argentieri, a seconda della tipologia di prodotto.

Noi abbiamo prodotti che un gioielliere vero non avrebbe mai fatto, ma che, svi-luppando un’idea stilistica, hanno trovato un giusto compromesso. In questo consiste la nostra innovazione, facciamo un prodotto di moda che è un gioiello. Secondo me il giusto equilibrio si realizza tra tre fattori: lo stile che deve dare le linee guida, il mar-keting, che deve fare capire allo stile quello che il mercato richiede, con che fasce di prezzo, con che visibilità, e dall’altra parte l’uomo di prodotto che è in grado di inter-pretare in maniera pratica queste due esigenze. È importante la collaborazione di tutti, pur avendo ciascuno la propria responsabilità. Lo stilista è responsabile dello stile e del prodotto, perché decide quali prodotti escono con il nostro brand, perché ne rap-presentano l’immagine, ma se il prodotto è fatto bene o no, la responsabilità è di chi poi lo sviluppa, ne fa l’industrializzazione, lo produce in termini di qualità. La re-sponsabilità si gioca a vari livelli e quindi il background è diverso ai vari livelli.

2.3.3. Le fasi del processo di sviluppo Le fasi del processo di sviluppo sono solitamente definite secondo la se-

quenza rappresentata di seguito:

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L’individuazione del bisogno può derivare dall’analisi dei dati di vendita, da ricerche di mercato, dalla scoperta di spazi nella propria offerta, dalla sco-perta di nuove tendenze. L’idea si concretizza nella formulazione di un brief ai creativi. La prototipazione consente di dare forma fisica al progetto per procedere ad una valutazione che non solo è estetica, ma è anche di fattibilità produttiva e commerciale, che si conclude con l’industrializzazione, che defi-nisce lo standard di produzione. L’ultima attività è il lancio commerciale del prodotto.

Per quanto riguarda il processo nel suo complesso tutte le aziende seguono questa struttura, anche se difficilmente questo assume una forma sistematica-mente definita, che invece è l’unica che consenta una gestione manageriale. Scadenze e ritmi sono imposti dalle manifestazioni fieristiche che determina-no così i cicli di innovazione dei prodotti. Per quanto riguarda le singole fasi, la maggiore criticità è proprio nella definizione dei bisogni e quindi nel brie-fing ai creativi.

Cosa vuol dire individuazione nel bisogno? Noi partiamo dalle richieste del cliente

(distributore). Vi sono cicli, per orecchini, collane... c’è tutta una gamma di materiali, prezzi, pietre... che sono delle sottospecie di bisogni. A un certo punto è importante sapere cosa produrre in volumi maggiori tra i prodotti in collezione.

Sul problema del bisogno, forse bisogna andare ancora più a monte, ovvero capire il cliente, non solo il reddito, ma anche il gusto… non bisogna solo soddisfare i clien-ti, ma capire e soddisfare i non-clienti.

Nella maggior parte dei casi la definizione dei bisogni ed il briefing sono

subordinati allo slancio creativo, soprattutto se la creatività è al vertice del-l’azienda, come spesso accade nelle aziende familiari orientate al prodotto.

Da noi il processo parte dalla creatività, dall’imprenditore e dall’ufficio stile. Poi

c’è la produzione. Non si parte dal bisogno, ma dalla creatività, spesso si realizzano anche 3-4 prototipi prima di confermare il prodotto.

Di solito il processo inizia con l’idea di prodotto. Il ciclo di collezione durerebbe molto di più se si dovessero prima definire i bisogni, passarli allo stilista nel briefing, etc... anche se forse sarebbe più razionale. In quanti inseriscono un prodotto in base ai bisogni? È più il design che poi viene declinato in funzione dei bisogni.

Tutti convengono nel definire il processo così come l’abbiamo proposto il

flusso logico di attività da svolgere per realizzare il prodotto giusto nel mo-mento giusto. Le difficoltà di mercato degli ultimi anni hanno reso sempre più critiche le fasi iniziali (l’analisi del mercato, lo sviluppo prodotto, la ricerca dello stile).

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Una fase sempre delicata, soprattutto per le produzioni più tipiche della nostra manifattura, che coniuga il mestiere artigianale con le competenze industriali, consiste proprio nel passaggio dal prototipo alla produzione in serie, più o meno limitate.

Vi è un problema al nostro interno: arrivati alla fase tre, il progetto è meccanico e l’idea è artigianale. C’è una vera e propria frattura, che allontana i reparti, non sempre è facile ridurla. Il lancio ne subisce i danni, nel prezzo o nei tempi.

È un momento delicato per noi quello dell’interruzione del processo creativo per trasferire il prodotto all’industria, quindi alla produzione. È un problema di tempi, se lo si consegna troppo presto, il know how diffuso non viene utilizzato in pieno.

2.3.4. L’innovazione di prodotto È necessario distinguere tra innovazioni radicali, che si basano su concetti

totalmente nuovi, e innovazioni incrementali, cioè graduali, che si realizzano evolvendo impostazioni già definite e che quindi sono anticipabili. Si è di-scusso di quali innovazioni caratterizzeranno il settore considerando il prodot-to (soprattutto i materiali), i processi produttivi e la distribuzione.

Per i nuovi attori che si affacciano al mercato il prodotto gioca un ruolo fondamentale, quindi possono e forse devono sviluppare innovazione di pro-dotto. Le realtà già presenti e consolidate nel mercato invece devono conside-rare come un fattore critico lo sviluppo nella continuità della tradizione, dico-no i nostri interlocutori. In un marchio già conosciuto, l’innovazione di pro-dotto deve essere incrementale.

Noi ci siamo sempre basati moltissimo sul discorso di essere marchio, quindi ga-

ranzia del prodotto, del contenuto di metalli preziosi, del processo; è quasi un discorso etico. Noi quindi dobbiamo continuare non tanto nell’inventarci cose completamente nuove, nel voler andare a fare concorrenza a oggetti di forte tendenza, ma continuare in uno sviluppo che rafforzi la percezione che il consumatore finale e il trade hanno della nostra azienda.

Produrre con personalità italiana è proprio quello che io vedo come possibile in-novazione. Cioè, è la tradizione che continua, perché la nostra cultura si fonda sull’integrazione tra mestiere artigianale e produzione industriale, è la personalità ita-liana (la tradizione) che fa distinguere il prodotto e non va stravolta.

Non ci si può allontanare più di tanto dalla propria immagine e dalla propria cultu-ra di prodotto. Alcune volte si è tentato di radicalizzare alcune innovazioni, ma è stato molto difficile, perché il prodotto che il cliente richiedeva era diverso dalla percezione del posizionamento e dell’immagine che aveva. Le cose più brutte che si sono fatte, a volte, sono state proprio quelle suggerite dal cliente e quando venivano realizzate la risposta del cliente era "non è quello che volevo io". Molto spesso quindi scegliere la gamma giusta significa scegliere il proprio posizionamento, non ascoltando ciò che dice il direttore commerciale.

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Per qualcuno è suggestiva l’idea di pensare a materiali diversi, altri sosten-gono l’inutilità di questo tentativo, soprattutto per coloro che hanno una storia nei materiali nobili.

La creatività deve essere asservita al gusto del mercato. L’innovazione potrebbe

essere il miglioramento di ciò che si è sempre fatto, sul quale si è accumulato e inte-riorizzato un certo patrimonio; c’è ancora molto da fare con i nostri materiali in chia-ve moderna, ci sono gli spazi!

L’innovazione sui materiali può essere importante nelle fasce più basse del merca-to; peraltro nei materiali nobili l’innovazione non può che essere incrementale, perché si è già arrivati ai limiti tecnologici con spessori quasi nulli.

Per materiali nuovi molti intendono materiali non preziosi come l’acciaio;

questo fenomeno sembra essere dirompente nella velocità di diffusione ed è molto difficile prevederne lo sviluppo.

Ciò che più conta comunque per tutti è il cambiamento della distribuzione che da molti è ritenuta obsoleta, antiquata e confusa. Bisogna distinguere però il cambiamento nelle scelte distributive, che parte dall’azienda (per esempio con la decisione che alcuni stanno prendendo di passare dal canale grossista agli agenti diretti) e l’evoluzione auspicata nella distribuzione, cioè nella cul-tura e nel modo di fare impresa dei punti vendita.

Qualcuno sostiene che i cambiamenti nella distribuzione e nella commer-cializzazione saranno radicali perché la globalizzazione avrà impatto anche nella settore della gioielleria. Si assisterà ad un’omogeneizzazione che porterà anche in Europa, come già avviene negli USA, le grandi vendite televisive, le vendite su cataloghi e attraverso Internet, o le grandi catene di negozi. Questa evoluzione potrebbe anche essere veloce.

La crescita dei marchi è molto più forte della crescita del mercato (che non cre-

sce); anche l’ingresso delle aziende della moda indurrà cambiamenti nella distribu-zione.

I nostri interlocutori hanno poi affrontato il tema della delocalizzazione pro-

duttiva, distinguendo tra produzioni industriali e produzioni artigianali. Per le prime, la competizione sui costi è molto forte e le innovazioni di prodotto rapi-damente copiate. Per le seconde si ipotizza di mantenere in Italia il laboratorio culturale (ovvero non solo il design ma la visione complessiva, dal progetto al prodotto) e di valutare di volta in volta dove realizzare il manufatto.

Internet è un aspetto controverso: qualcuno ci ha creduto, ma di fatto non ci sono stati grandi risultati di vendita; probabilmente la rete dovrà essere uti-lizzata più per gestire i fornitori, i laboratori e i clienti (punti vendita) e per comunicare al consumatore finale.

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2.3.5. Talento e mestiere Il gioiello è una sintesi di valori estetici e capacità espressive, quelle capa-

cità che consentono di interpretare e dare forma ad un mondo. A questo punto è sorta la questione del rapporto tra artista, che è capace di plasmare qualsiasi materia, preziosa o meno, e gioiello. L’artista che realizza un manufatto di qualità, capace di emozionare attraverso oggetti estetici, può creare gioielli?

Secondo i nostri interlocutori: “Gli artisti partono dal loro punto di vista e non si concentrano su quello dell’oggetto. Sono egocentrici e autoreferiti. Il gioiello deve abbellire ed adornare”.

Chi disegna gioielli deve avere talento: un quid personale che non si inse-gna. Il talento è riconoscibile solo dopo la creazione del gioiello, perché pro-duce successo di mercato, o perché è riconosciuto da un gruppo di referenti o di opinion leader.

Qualsiasi azienda sogna di trovare la formula del talento, ma non si com-pra, non è sul mercato, o si ha il talento o non lo si ha.

Nell’industria orafa ci sono delle regole di produzione come nelle statue dell’arte

classica: si ricerca un equilibrio formale in termini di proporzioni e prospettive, e for-se anche un gusto comune. Il talento consente contemporaneamente di rispettare que-sti canoni andando oltre.

Il mestiere al contrario si impara, non porta all’innovazione ma porta alla possibi-lità di realizzare progetti di talento ed essere sul mercato. Il talento senza il mestiere che è poi la capacità artigianale del fare non realizza nulla.

Chi non ha il mestiere e il talento – che sono parte della vera arte orafa – cerca di creare uno stile, portando avanti concetti più legati alla moda. Si può per esempio giocare col colore, si può ispirarsi allo stile dominante, ma si evadono così le regole del mondo del gioiello.

Il mestiere, la capacità artigianale, le competenze e le abilità manuali, la

conoscenza delle tecniche della tradizione sono fondamentali per sostenere il talento e in questo periodo sembra stiano ineluttabilmente scomparendo.

Per il successo di un’azienda del settore orafo la figura del direttore artisti-co assume quindi una rilevanza particolare. La sua capacità può essere misu-rata in base ai risultati positivi che ha ottenuto, alla risposta del mercato ad un suo progetto, alla velocità di creazione dei prodotti e delle collezioni. La scel-ta del direttore artistico è strettamente legata alla valutazione personale dell’imprenditore.

Oggi in particolare diventa importante progettare tenendo conto del fatto che nel futuro le capacità di realizzazione diminuiranno (come sta già avve-dendo in Italia in altri settori).

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Oggi i risultati di un’azienda non sono solo legati alla capacità creativa, alla competenza nello sviluppo del prodotto. È necessario disporre di una strategia vincente, di una struttura organizzativa e produttiva di altissimo livello; di una capacità distributiva adeguata. Queste, a detta dei partecipanti ai nostri focus, non sono competenze critiche quanto il talento necessario per creare il prodotto, se si ha l’ambizione di dire una parola nuova in questo settore.

Può capitare di avere una fase fortemente creativa e poi una fase in cui si ripropo-

ne sul mercato qualcosa di meno creativo. Se si ha un nome, se si è costruita la marca, si regge sul mercato, così come si può operare con soddisfazione proponendo prodotti corretti, di gusto medio senza raggiungere l’eccellenza. Se l’ambizione è quella di co-struire una parola nuova, per farlo sono necessari il talento ed il mestiere.

Partendo quindi dal presupposto che oggi senza tutti gli ingredienti indi-

spensabili per un completo sistema di impresa diventa difficile anche solo far emergere il talento, la questione diventa se un eccellente sistema di impresa può compensare minori contenuti di talento e di mestiere.

Nel caso delle produzioni a più elevato contenuto industriale, il mestiere crea uno

standard che viene gelosamente custodito, e che consente di conferire ad un prodotto riproducibile in serie l’impressione di autentica artigianalità.

Nelle produzioni di piccole serie invece è l’interscambio continuo tra crea-

tivo ed artigiano che decreta il successo di un prodotto. Chi realizza il prodotto è il prototipista che deve far parte della struttura produtti-

va, spesso sono insostituibili e sono le persone in grado di trasformare le idee del de-signer in un prodotto di successo sul mercato.

Nel nostro caso il direttore marketing, che ha il compito di strutturare il portafo-glio prodotti in una collezione, deve avere talento, non tanto nella capacità di fare quanto interpretando poiché deve “saper leggere il mercato”. Di fatto lavora su un concetto di collezione al cui interno vengono inseriti un numero limitato di prodotti creativi e un portafoglio di oggetti “portabili”.

2.4. Riflessioni conclusive Anche nel corso di questo secondo set di focus group sono emersi alcuni

aspetti particolarmente significativi della cultura del settore che ci sembra in-teressante evidenziare.

Il primo punto, di carattere generale, è la distinzione tra identità ed imma-gine. Quando si parla di successo sul mercato e di marca viene attribuita gran-

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de importanza alla immagine, ma nessuno mai la collega sul piano razionale alla identità, cioè al sistema di scelte e di punti di vista che ogni azienda deve avere e che è la base di molte strategie di differenziazione. È dall’identità in-vece, che, basata su una visione stilistica, su un sistema di valori o su una vi-sione, prendono vita la politica di prodotto, la comunicazione, le scelte di prezzo e di distribuzione. Questa incomprensione porta ad immaginare il pro-cesso di creazione della marca come frutto degli investimenti in pubblicità, che forse possono essere condizione necessaria, ma non sono certo sufficienti a garantire una differenziazione efficace sul mercato.

Dal punto di vista dei processi viene considerato particolarmente critico quello distributivo, attribuendo le difficoltà alla inefficienza dei punti vendita. Ci sembra che non sia sufficiente l’attenzione posta invece alla funzione del responsabile vendite, cui spetta il presidio della rete di agenti o di venditori, l’impostazione delle politiche di selezione ed il controllo dei dettaglianti.

Per quanto riguarda il tema dello sviluppo prodotti, pur condividendo tut-ti gli interlocutori la struttura concettuale da noi proposta, che prende il via dall’individuazione dei bisogni ed arriva fino al lancio, nei fatti la maggior parte delle aziende non ha di questo processo una visione razionale, e di conseguenza il processo non è gestito in chiave manageriale. Pensiamo che ciò evidenzi una palese incongruenza: tutti affermano che il processo di svi-luppo prodotti è critico per il successo dell’azienda, e che certamente è un sistema di attività complesso ed oneroso, ma in buona sostanza questo appa-re gestito in maniera frammentata ed è spesso delegato ai creativi. La so-vrapposizione dei ruoli tra chi inventa e chi gestisce altre funzioni porta ad una palese mancanza di dialettica tra chi deve proporre e chi ha invece il compito di razionalizzare. Manca inoltre la necessaria unitarietà nella visio-ne che consente l’ottimizzazione sia dal punto di vista strategico che eco-nomico. Lo scotto spesso si paga nel passaggio tra la fase artigianale e quel-la industriale, come emerge dalle considerazione di alcuni tra gli interlocu-tori, che, sottolineando questa frattura, evidenziano le conseguenze in termi-ni di mancanza di coerenza con i target price desiderati e difficoltà a gestire i tempi rispetto alle esigenze del mercato.

Nell’ambito dello sviluppo prodotti rileviamo ancora due aspetti che ci sembrano particolarmente critici. Da una parte la mancanza del design ma-nager, o almeno di qualcuno che, indipendente dalla creatività e dal proces-so di sviluppo del prodotto, si assuma la responsabilità di pianificare la gamma in maniera coerente al posizionamento di mercato che si vuol conse-guire. Ciò porta facilmente a cannibalizzazioni tra prodotti, alla presentazio-ne di campionari troppo vasti e poco razionalizzati, con la conseguenza di un sensibile spreco di risorse e di una scarsa chiarezza verso la distribuzione e verso il mercato in merito al ruolo dell’azienda. Dall’altra ci sembra ci sia

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poca attenzione alla analisi dei bisogni sia in termini relativi alla struttura del sistema di prodotto (campionari molto ampi, cioè con numerose soluzio-ni, e poco profondi) sia per quanto riguarda gli aspetti esterni al sistema a-ziendale, cioè al mercato ed al consumatore. Si riconferma in sostanza l’approccio autoreferenziale emerso già nelle riflessioni conclusive sull’of-ferta e sul processo d’acquisto.

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3. I rapporti industria-distribuzione di Luana Carcano

Il quinto e il sesto focus group hanno indagato i rapporti industria-distri-buzione, approfondendo le seguenti tre macro-aree: • i criteri di selezione dei fornitori da parte della distribuzione e quelli dei

distributori da parte delle imprese di produzione, le aspettative e le consue-tudini di ciascun attore,

• il punto vendita e la sua capacità di creare valore per il cliente, • il punto vendita ideale dal punto di vista del consumatore finale secondo la

visione dei partecipanti. 3.1. I criteri di selezione e le aspettative

Nel panorama italiano del settore orafo si ritrovano realtà aziendali diverse e variegate, solo in parte rappresentate dai partecipanti ai focus che apparten-gono certamente al segmento più evoluto del mercato; tuttavia anche in questo ambito, relativamente omogeneo, si possono ritrovare posizioni antitetiche.

Nella gioielleria e nell’oreficeria il numero di aziende con un brand conso-lidato o che sta cercando di emergere è aumentato negli ultimi anni: i nuovi entranti si trovano di fronte a difficoltà legate alla varietà di prodotti presente sul mercato ed alla lunga e consolidata relazione che gli attori storici di norma hanno con i distributori. Ciò costituisce per un nuovo brand una forte barriera all’entrata, in particolare nei punti vendita che fanno tendenza ed accreditano al mercato. Per riuscire a superarla è necessaria un’offerta di prodotti e servizi tale da indurre alla sostituzione di altri brand più conosciuti oppure si deve saper approfittare di un momento di difficoltà di un brand esistente.

Non bisogna però dimenticare che intorno alle diverse realtà distributive, accanto alle marche consolidate, ruota un mondo di riferimento, quello del-l’indotto, delle numerose aziende presenti nei distretti e dei laboratori specia-

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lizzati che producono oggetti unbranded e che di fatto riforniscono in maniera significativa la distribuzione. Le vendite di prodotti di marca, se pure in cre-scita, rappresentano infatti una quota piuttosto limitata del mercato. Il settore si sostiene sulla produzione senza marchio, di buona qualità e manifattura, che viene offerta sul mercato attraverso il canale lungo, passando cioè attraverso il grossista. 3.1.1. Il punto di vista del distributore

I criteri di scelta dei fornitori utilizzati da un distributore sono decisamente

condizionati dal posizionamento del punto vendita stesso. In genere uno dei principali criteri è quello di poter colmare un vuoto, cioè di inserire un nuovo segmento nel proprio assortimento.

Se penso all’ultimo brand che ho inserito in portafoglio, Montegrappa, è un pro-

dotto storico e mi ha affascinato la possibilità di riempire una zona di prodotto che Mont Blanc, per esempio, che è l’altra penna che rappresento, sta lasciando un po’ scoperto nei nostri confronti, perché le penne da collezione ormai vengono vendute solo in boutique. Montegrappa poteva riempire questo segmento.

Partendo da questo criterio, viene poi selezionata, tra tutte le aziende che

offrono una tipologia di prodotto che potrebbe completare l’assortimento, quella che sembra offrire migliori opportunità di sell-out, ovvero che si ritiene consenta un buon livello di vendite sulla base della propria clientela. Questa stima rappresenta la difficoltà maggiore, soprattutto in un momento di consu-mi stagnanti come quello attuale.

Oggi non esce molto prodotto dai negozi, né vecchio né nuovo, soprattutto perché

la gente non viene più a cercare qualcosa. Non so da quanto tempo non entra un clien-te a dirmi “la tal marca di orologi ha proposto una novità, che mi piacerebbe avere”. Il collezionismo, il piacere dell’oggetto, è molto rarefatto.

I nuovi fornitori vengono anche selezionati sulla base di una sorta di affini-tà culturale nella visione del business.

I nuovi (fornitori) nascono innanzitutto da quello che si sente verso un prodotto.

Ho trovato in certe persone un entusiasmo, una disponibilità, un’apertura a forme di collaborazione per cui, piacendomi il prodotto, creandosi feeling con le persone e ve-dendo inoltre che altri prodotti concorrenti e similari erano in contrazione, abbiamo deciso di proporre quel nuovo brand.

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L’affinità è importante ma senza sintonia d’intenti, ovvero senza la condi-visione di un progetto, non sembra instaurarsi un rapporto di collaborazione.

Con altre aziende che offrono un prodotto più o meno simile – stessa fascia prez-zo, stesso materiale – ma senza sintonia, comunione di visione, empatia sarebbe stato diverso. Il prodotto è andato poi anche a riempire un vuoto che si era creato.

Per le gioiellerie di fascia alta, è importante poter avere in assortimento le

marche che qualificano ed identificano il punto vendita senza snaturarlo. È attraverso l’assortimento di prodotto e di marche che questi negozi creano la propria identità. Un punto vendita può anche decidere di introdurre una nuova marca nel proprio assortimento sulla base della stima della propria capacità di attrarre nuovi clienti.

Questo fenomeno della vendita di oggetti da 200-300-400 euro attrae verso la

gioielleria persone nuove che entrano e che poi tornano con amici e parenti.

Oppure, se l’offerta prevede già un certo numero di marche richieste dal consumatore, il punto vendita cercherà nuovi prodotti, non necessariamente di marca, creando, attraverso l’assortimento, la motivazione per il cliente ad en-trare nel negozio.

Abbiamo il desiderio di riappropriarci della nostra professione, ovvero la capacità

di scegliere il prodotto.

Questa capacità di scelta, all’interno di un mix di marche, viene intesa co-me capacità dell’imprenditore commerciale non solo di rispettare i target quantitativi di vendita, ma anche di valorizzare l’identità del gioielliere stesso: un professionista che sceglie i prodotti sulla base del proprio gusto e della propria personalità e che li trasmette al cliente attraverso il proprio back-ground culturale e professionale.

Sono io che scelgo quella veretta, quella montatura; sono io che ti propongo

l’accostamento cromatico di gemme, di colori e attribuisco identità a quel gioiello. In molti casi cerchiamo di farlo punzonare con il brand della nostra società e lo comuni-chiamo come gioiello nostro. Lo trovi da noi perché abbiamo fatto noi le montature, il design. Ti proponiamo oggetti nostri per rafforzare la nostra identità, altrimenti non esisteremmo.

L’assortimento basato anche su prodotti unbranded è importante per tutti i

dettaglianti, compresi quelli che trattano prevalentemente prodotti di marca. È l’attività che i partecipanti ritengono valorizzi la professione del gioielliere, connoti il punto vendita e consenta di conseguire il risultato economico. Nel

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caso delle aziende di marca l’assortimento è frutto di una mediazione tra deci-sioni strategiche del produttore e visione del distributore. Per quanto riguarda i gioielli unbranded si ricercano in genere produttori con un buona struttura organizzativa, che offrono un prodotto di qualità, che accettino di vedere pre-sentate le proprie creazioni come oggetti del dettagliante, garantendo nel con-tempo un buon livello di assistenza post vendita.

Per un punto vendita riconosciuto per il buon rapporto prezzo-qualità dei prodotti, prevalentemente unbranded, il criterio fondamentale di scelta sembra essere la ricerca continua di fornitori nuovi in grado di offrire prodotti aggior-nati stilisticamente, coerenti con le politiche di prezzo del distributore.

Vista la grande prevalenza sul mercato dei prodotti non di marca, la fun-zione principale della gioielleria, che ha fatto la scelta di lavorare in questo segmento, diventa quella di selezionare per il cliente finale «il prodotto giusto con il prezzo giusto» e non solo la marca ed i servizi ad essa correlati. La se-lezione dei prodotti viene fatta spesso nelle fiere specializzate.

Compravo i prodotti di quell’azienda quando non era marca, faceva un bel prodot-

to, vendibile, con un prezzo giusto. Quando ha deciso di diventare marca, aumentando i servizi offerti ma anche il prezzo di vendita al pubblico, ho deciso di non acquistarla più (non essendo più adeguata al mio target di clientela). Sono considerato un negozio che ha prodotti economici e allora il mio cliente pretende un certo di livello di prezzo e di sconto.

In questo caso quindi i fornitori vengono selezionati per la qualità del pro-

dotto, il livello di prezzo e la continua capacità di presentare cose nuove. Se i punti vendita che perseguono queste politiche scegliessero di trattare marche si troverebbero probabilmente in difficoltà con la propria clientela anche da un punto di vista gestionale, nel rispettare, ad esempio, la politica dei prezzi raccomandata dal produttore.

Spesso queste gioiellerie propongono una propria collezione, realizzata an-che con l’acquisto della montatura più di moda o il cui design richiama mo-delli noti al pubblico, su cui successivamente viene incastonata la pietra desi-derata dal cliente.

Fondamentalmente facciamo gioielli nostri. Ci avvaliamo di nostri disegnatori e

laboratori, mentre con riferimento all’oreficeria tendiamo ad acquistare i prodotti of-ferti.

In termini di aspettative, un imprenditore della distribuzione richiede alle

aziende produttrici: un rapporto di collaborazione, un supporto adeguato per la gestione dello stock e l’esclusiva.

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La collaborazione, che è il primo elemento citato da tutti i dettaglianti in-dipendentemente dal posizionamento e dalla collocazione geografica, è anche il fattore che implica tutti gli altri. La collaborazione viene intesa infatti in tut-ti i possibili aspetti: nel servizio al cliente, nella gestione dello stock – valuta-zione dello stock esistente e degli ordini, sell-in e sell-out – nella comunica-zione, nell’agevolazione nei pagamenti e infine nelle esclusive.

Secondo i dettaglianti, la collaborazione non dovrebbe portare ad una “co-strizione nell’ordine” – intesa non tanto con riferimento alla quantità, quanto alla tipologia dei pezzi ordinati – considerando che la funzione primaria di una gioielleria dovrebbe essere quella di vendere e non di creare stock.

Noi sappiamo che cosa, come e a chi possiamo vendere per cui una volta che ab-

biamo uno stock di base, l’agente non ci può costringere a comperare di più del pro-grammato. Noi sappiamo, in un dato momento, quanti articoli di un certo tipo pos-siamo comperare, perché sappiamo già chi sono i nostri clienti.

Collaborazione significa anche riconoscere che il problema dello stock in-

venduto non è solo del dettagliante, ma di tutta la filiera e che la soluzione, secondo i distributori, dovrebbe essere ricercata assieme. Un forte investimen-to in stock riduce le possibilità di investimenti alternativi, per esempio in in-novazione del punto vendita, in formazione del personale etc.

Noi stiamo finanziando i nostri stock con gli utili, per cui i nostri guadagni vanno

a finire nella merce e non in cassa fino ad arrivare ad un punto di rottura. Alcune a-ziende ci stanno venendo incontro, hanno capito. Certo gli stock sono elevati anche per colpa nostra, pochi analizzano i dati.

Nella relazione con i produttori di gioielli di marca, il rapporto di partners-

hip è ancora l’elemento fondamentale ed investe sostanzialmente il budget e lo stock, la comunicazione e il servizio.

I budget andrebbero fatti tenendo conto degli ambienti di riferimento in cui il

gioielliere opera, considerando la potenzialità del bacino di utenza con un certo reddi-to. Anche con l’esclusiva, più di tanto non si riesce a fare.

Tutte quelle azioni che le aziende più aggiornate hanno posto in essere (raccolta

dati, interazione con il punto vendita…) vanno realizzate in modo più diffuso.

Il servizio rimane in ogni caso fondamentale, inteso sia come qualità dell’assistenza sia come rapidità nella soluzione dei problemi.

Quando si scheggia la pietra di un anello lo mando all’azienda produttrice ed il

cliente lo deve ricevere riparato tempestivamente. Io glielo faccio gratis anche se in

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realtà lo pago. È più importante un servizio tempestivo, fatto bene e soprattutto gratui-to piuttosto che venti pagine sul quotidiano locale.

Nel caso di produttori di gioielli unbranded, il rapporto di collaborazione

trova una declinazione prevalentemente centrata sul prodotto. Posso portare come esempio il caso di un fabbricante con cui siamo in contatto e

con il quale si è instaurato un rapporto di collaborazione privilegiato (pietre ad hoc, suggerimenti sul prodotto). La collaborazione è in linea con la visione reciproca. In questo caso, il rapporto di partnership coinvolge anche lo sviluppo del prodotto in termini di tendenze di mercato come colori, dimensioni e qualità.

Infine con riferimento alla distribuzione all’ingrosso, il rapporto di part-

nership sta subendo un’evoluzione alla ricerca di nuove strade. La distribuzione all’ingrosso ha avuto un cambiamento molto particolare, siamo

tornati a distribuire il prodotto classico, non moda. Oggi i produttori non ci chiedono più informazioni sul mercato; il nostro ruolo è in evoluzione.

Per quanto riguarda il tema delle esclusive, queste costituiscono una prassi

per tutte le aziende caratterizzate da una politica di marca consolidata e ven-gono gestite con molta attenzione sul territorio.

Noi facciamo dei contratti di concessione distinti per i due brand e all’interno di

questi contratti ci sono delle clausole classiche di distribuzione. La più importante è quella per cui la concessione viene data esclusivamente al punto vendita a cui si rife-risce il contratto, quindi viene esclusa ogni attività di wholesale (cioè di rivendita) piuttosto che la presenza del prodotto, a cui si riferisce l’esclusiva, in altri punti ven-dita, qualora un’azienda avesse più di punto vendita. Nel contratto, a questa clausola, vengono poi aggiunte anche altre norme di comportamento nell’ambito dell’im-magine, del servizio ecc.

Dal punto di vista sostanziale, però i dettaglianti si aspettano una maggiore

attenzione, pur nel rispetto delle leggi sulla concorrenza, da parte dei produt-tori nel far rispettare l’esclusiva, riducendo l’impatto del mercato parallelo e tutelando così la distribuzione che si comporta in maniera corretta.

Io che sono concessionario DoDo farei parallelo se vendessi ad un altro distributo-

re che non ha DoDo il prodotto con tutto il packaging, i librettini, ecc.

Il parallelo si è sviluppato non solo per i prodotti più prestigiosi delle grandi marche, ma anche per oggetti a basso valore unitario ma con un elevato contenuto di marca; è soprattutto diffuso nei prodotti capaci di sviluppare vo-

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lumi che consentono un flusso di cassa rapido e un tasso di rotazione più alto rispetto a quello medio del mercato.

Il mercato parallelo può anche essere praticato da un concessionario scor-retto o che ha accettato un budget che poi non riesce a rispettare.

In ogni caso fare parallelo su un prodotto significa non investire in stock, poter

concedere sconti più elevati e possibilità di far nero.

È importante però sottolineare che questo fenomeno, tipico dei prodotti molto richiesti, per i quali il consumatore è alla ricerca del prezzo, è soprattut-to diffuso nell’orologeria ed ha un’incidenza minore nella gioielleria. Il paral-lelo è un fenomeno che nasce quando un prodotto o una marca, distribuiti con concessione di esclusiva, sono particolarmente richiesti dal mercato; potrebbe quindi svilupparsi nell’oreficeria e nella gioielleria a mano a mano che si af-fermano nuovi brand. In linea teorica, l’azienda produttrice che si trova a do-ver gestire questo problema può intervenire verificando con più attenzione la congruità dei budget con i potenziali reali e le vendite dei propri distributori, oppure può decidere di ampliare il numero dei propri distributori per control-lare il fenomeno, invece di rinunciare a governarlo.

Prendiamo un’azienda che ha un 20% di distribuzione del prodotto in parallelo.

L’azienda ha ad esempio 100 punti vendita ufficiali mentre ci sono 120 punti vendita che vendono quel prodotto perché c’è il parallelo. Come azienda penso che sia logico allargare la concessione a 115 punti vendita, perché sono sicuro che quei nuovi 15 dovendo sottostare a certe regole, daranno meno fastidio ai 100 punti vendita originari di quelli che lavorano sul parallelo.

Una scelta distributiva di questo genere potrebbe avere effetti positivi sul

mercato, sia perché garantirebbe adeguatamente i distributori, sia perché l’incremento ragionato della numerica della distribuzione è una determinante significativa della quota di mercato dell’azienda, secondo la logica per cui «il prodotto più è visto, più è comprato».

Tutto ciò non risolverebbe però il problema del parallelo se questo è indot-to da una sovrapproduzione che porta ad innalzare artificialmente i budget dei distributori e non da una maggiore richiesta del mercato.

Un altro punto connesso alle esclusive è quello del rispetto dei listini di vendita al pubblico che fa parte della politica di vendita che in genere una marca chiede al concessionario di rispettare. I dettaglianti si aspettano un maggior controllo in questo ambito dicendosi anche propensi ad accettare un inasprimento nelle regole.

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I concessionari Cartier vendono orologi e accessori mentre la boutique vende la gioielleria. Il monomarca vende il sogno, l’emozione. Non vengono fatti sconti. Di-venta importante il servizio e quindi la formazione del personale di vendita.

I dettaglianti comunque si rendono conto che non è semplice per il fornito-re impedire ad altri punti vendita di praticare certi livelli di sconto.

La montatura tra un prodotto brand e un unbranded è la stessa, ma l’unbranded

può essere venduto a un 35%-40% in meno, consentendo un maggiore guadagno al punto vendita.

Il multimarca sembra quindi avere maggiori possibilità di margine unitario

con il prodotto unbranded.

3.1.2. Il punto di vista del produttore Dal punto di vista del produttore, i criteri di selezione dei propri distributo-

ri vanno dalla location all’assortimento di prodotto presente, dalla superficie di vendita alla competenza e motivazione del personale, dando sempre per scontata la solvibilità.

Considerando i criteri di scelta, da un punto di vista metodologico, il punto di partenza per un’azienda dovrebbe essere il piano di distribuzione (dove dobbiamo essere presenti, dove non siamo, dove ci siamo ma potremmo mi-gliorare…). Il piano, che prende in considerazione solo distributori coerenti con la politica dell’azienda, dovrebbe contenere un’analisi quantitativa (nu-mero di punti vendita), qualitativa (qualità del punto vendita) e del giro d’affari potenziale sia per i bacini storici sia per quelli nuovi. L’obiettivo del piano è quello di verificare l’incisività della propria distribuzione e valutare il potenziale di crescita.

Partendo dal piano di distribuzione, il primo fattore di scelta è quindi rap-presentato dal bacino d’utenza del potenziale distributore, sia dal punto di vi-sta geografico che demografico, tenendo anche conto dei flussi dinamici legati alle abitudini di acquisto. Infatti in una stessa città le aree di gravitazione pos-sono variare nel tempo ed aree caratterizzate da un certo segmento di consu-matori possono modificare la loro natura.

I bacini di utenza di una città come Milano e come Roma vent’anni fa non sono i

medesimi di oggi, né dal punto di vista della dislocazione né della numerica.

Il giro d’affari del distributore rappresenta un altro elemento di scelta; per le aziende che perseguono una politica di marca diventa però altrettanto im-

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portante la condivisione, da parte del punto vendita, della strategia dell’a-zienda produttrice.

Di fronte ad un distributore che compra moltissimo, ma che non riesce a portare

avanti la strategia di brand dell’azienda (perché non ci crede, non ha voglia, non è in-teressato, perché la sua strategia di punto vendita è diversa ecc.), una corretta gestio-ne, anche in prospettiva futura, presupporrebbe che sia l’azienda che il distributore si separassero, indipendentemente dal giro di affari generato.

L’elemento prioritario di scelta risulta quindi essere la capacità del detta-

gliante di comprendere e condividere il progetto d’impresa, ovvero di avere tutte quelle caratteristiche qualitative (primo fra tutti il portafoglio clienti), la mentalità e tutti gli altri elementi attraverso i quali il produttore dà forma alla propria strategia verso il consumatore.

Potendo scegliere tra due location, una top ma con un interlocutore non coerente

con la politica dell’azienda o che non è in grado (perché le sue scelte, la sua storia, i suoi credi non collimano) di supportare la politica di marca (“dammi il tuo prodotto perché così la porta si apre venti volte piuttosto che quattro”) ed un’altra location in-vece ragionevole con un interlocutore che però ha voglia di impegnarsi su questa stra-da perché ci crede, scelgo il secondo (almeno oggi).

Anche se la location è il primo elemento di analisi, i criteri di scelta più importan-

ti, anche per un brand giovane come il nostro, sono la condivisione del progetto d’impresa, la sintonia che si crea ed il rapporto con il distributore in termini di fiducia.

Il criterio di selezione principale (dando per scontate le caratteristiche di base) è la

disponibilità a lavorare insieme, a pensare in logica di partnership (il produttore deve conoscere le vendite al consumatore finale per servire meglio il negozio, lavorando insieme sui numeri, sugli assortimenti...).

Noi coltiviamo la stessa filosofia, con una serie di clienti chiave abbiamo la rile-vazione del sell out mensile, non solo per i riassortimenti, ma anche per anticipare i passi successivi in termini di prodotto. Bisogna davvero assumere l’ottica del consu-matore e sviluppare i prodotti un po’ più rapidamente. Poi bisogna anche lavorare sul-la comunicazione, sull’immagine, sul servizio, investendo con i propri partner.

La superficie di cui il potenziale distributore dispone per presentare il pro-

dotto in un certo modo rappresenta un altro criterio di scelta importante. Io richiedo sulle nuove situazioni come must assoluto che ci sia la volontà e la

possibilità (che poi è frutto della volontà, perché ogni negozio è difficile, ognuno vor-rebbe poter esporre tutto ma lo spazio è limitato) di rappresentare verso l’esterno il mondo della mia marca.

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Il mix di prodotti con cui il potenziale distributore lavora è importante ma non fondamentale, anche perché il parco fornitori con brand riconosciuti è li-mitato nella gioielleria. A seconda di come i punti vendita decidono di rappre-sentarle, in uno emergono certe marche, in un altro, con lo stesso parco forni-tori, altre.

La competenza e la motivazione del personale rappresentano un altro si-gnificativo criterio di scelta.

Nelle gioiellerie esiste ancora il preconcetto del look della persona, per cui se en-

tra una persona che sembra avere un buon reddito o è una conoscente, interviene il titolare, mentre per le altre persone ci sono le commesse. La relazione tra il proprieta-rio-titolare e le commesse, mi permetto di dirlo, è ancora del tipo anni ’50: “Maria per favore segui la signora piuttosto che signora Rossi, vengono io da lei.” Questa cosa secondo me è controproducente perché crea delle situazioni di cliente di serie a e serie b e non aiuta a creare motivazione nel gruppo di lavoro.

Tutto il gruppo di lavoro del partner distributivo deve condividere l’im-

portanza della relazione con il consumatore finale, portandola avanti in ma-niera coerente con la visione dell’azienda. Nel punto vendita bisognerebbe far vivere tutti gli elementi che definiscono l’immagine di un brand, che non sono solo la pubblicitaria o il prodotto, ma sono anche il modo di comunicare e lo stile di relazione.

Per esempio, se comunico con una campagna pubblicitaria, un certo mondo tra-

sversale, un certo modo di vivere i sentimenti e l’allegria, piuttosto che l’emozione del brand e in negozio questo discorso è riportato o con la logica del cash and carry, oppure con la logica che “è un prodotto pur sempre di ..., è una garanzia, anche se è un po’ più caro” …noi come azienda abbiamo buttato via soldi e il distributore ha perso un’occasione.

Il rapporto di partnership, la disponibilità a lavorare insieme in logica di

collaborazione, si esplica anche nell’ambito gestionale e nella condivisione delle informazioni.

Bisogna pensare a cosa succede dopo che il prodotto è entrato nel punto vendita;

bisogna pensare alla distribuzione come partner.

La ricerca della coerenza dell’identità di marca, che viene costruita attra-verso la comunicazione, il prodotto, la relazione ed il servizio dovrebbe essere il filo conduttore su cui costruire anche nel punto vendita.

Tutte le volte che il consumatore di fronte ad un messaggio pubblicitario letto sui

giornali, si trova poi una rappresentazione diversa nel punto vendita, si trova davanti una negazione che lo disorienta e alla fine ti scarta.

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3.1.3. La rete di vendita Le aziende di produzione e di distribuzione vogliono condividere un pro-

getto e, soprattutto le marche, vogliono vendere non solo un prodotto, ma un mondo, una cultura, una sensibilità. Come si vede la distanza non appare in-colmabile.

Gli agenti, deputati allo sviluppo del piano di distribuzione, rappresentanti della marca presso il mercato, dovrebbero essere capaci di vendere non solo un prodotto ma anche una politica di marca, ponendola in relazione al proget-to che il rivenditore persegue.

Rispetto a questo, distribuzione e produzione si sono ritrovati concordi. Ognuno deve far bene la sua parte di lavoro, ma la cosa fondamentale è che si

condivida il progetto sul serio, altrimenti rimane retorica pura. Quando diciamo non forziamo il sell-in, tutti applaudono però poi in pratica continuano a impegnarsi nello sviluppo solo i soliti (distributori), gli altri ne approfittano per estendere i loro assor-timenti verso il basso, magari ci utilizzano come generatori di traffico. Questa traspa-renza vale anche per noi perché l’azienda poi non deve dire “… ma mi manca il 10% chi è che compera di più? C’è il signor x che tutto sommato è innamorato di noi…” Questo dobbiamo fare in modo di evitarlo.

In termini generali, secondo la distribuzione, la capacità della rete di ven-

dita di trasmettere e comunicare ai dettaglianti l’identità di marca è poco dif-fusa e dipende non solo dalla professionalità dell’agente, ma anche dalla men-talità dell’azienda stessa.

Se l’azienda ci crede ripone molta attenzione nella formazione dei venditori anche

se poi il risultato finale dipende dall’agente stesso. Ci sono marche che danno le indicazioni ma poi vengono interpretate male e si

capisce che sono fredde e poi ci sono invece marche dove il prodotto e la filosofia dell’azienda sono interiorizzati e come tali vengono riportati alla distribuzione.

Secondo i produttori, invece, la difficoltà maggiore nella relazione con l’agente è da imputarsi alla dicotomia di obiettivi che si trovano a dover per-seguire: l’obiettivo dell’azienda è strategico, di medio-lungo termine, quello dell’agente invece è la provvigione mensile (anche l’azienda tuttavia deve spesso perseguire obiettivi di breve periodo). Il punto vendita si trova quindi a confrontarsi con professionisti della vendita che, pur se hanno interiorizzato l’anima e la filosofia dell’azienda, la interpretano spesso solo nella logica del-la provvigione e delle vendite.

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Lo strumento fondamentale per sviluppare la collaborazione è la capacità dell’azienda di trasmettere anche all’agente che tutto il mondo di riferimento, insieme agli strumenti di comunicazione, rappresenta un’ulteriore possibilità/opportunità di vendita.

Non abbiamo agenti ma dipendenti che chiamiamo trader perché devono con-

frontarsi con le problematiche del trade. Il loro tipo di professionalità nasce dal-l’analisi del punto vendita per arrivare al prodotto e non viceversa. Analizzano la potenzialità del sell-out mese per mese, della redditività economica e della riparti-zione del valore sul pacchetto dei brand. Costruiamo con il dettagliante un percorso tenendo in considerazione: previsione di sell-out mensile, stock di partenza, obietti-vo di stock finale e previsione di vendita mensile. La tabella di marcia così costruita prevede inoltre vari interventi come la formazione del personale, la comunicazione pubblicitaria, un momento di vetrine particolari, l’analisi del passato per cogliere opportunità non sfruttate.

3.2. Il punto vendita oggi Se ogni brand diventasse davvero un mondo di riferimento, il negozio si

potrebbe trovare con un mix di offerta che potrebbe annullare o essere in con-flitto con l’immagine del punto vendita stesso. La sfida diventa quindi quella di riuscire a rappresentare ognuno di questi brand all’interno del negozio sen-za perdere la propria personalità. Il rischio è che tutte le gioiellerie di un certo livello di una città riproducano un certo numero di brand all’interno del pro-prio assortimento, tutte nella stessa maniera, senza però riuscire più a distin-guersi chiaramente l’una dall’altra. Come si concilia questo rapporto tra im-magine del brand e immagine del punto vendita?

La soluzione, secondo la distribuzione, può essere per il dettagliante di di-ventare marca-insegna attraverso l’assortimento (marche e proprie collezioni), il servizio, l’assistenza, la motivazione e la competenza del personale.

Oltre alla marca, offro un insieme di altre cose che prescindono dalla marca, ma

sono connaturate nella mia filosofia, in quel quid in più che offro al cliente (il servi-zio, l’assistenza, la comunicazione, la cultura del mio personale, il nostro aggiorna-mento). Alcuni clienti mi chiedono di avere il pacchetto Swatch con il mio nome per-ché fare un regalo con il mio pacchetto ha un’altra valenza che comperarlo alla Rina-scente. Nella misura in cui si lavora in questo senso, si possono avere in assortimento le marche che hanno gli altri ed anche dei prodotti unbranded che connotano di più il negozio, ma il successo è legato al fatto che si è riusciti ad avere una storia, un’immagine e una marca. Con il servizio, si riesce anche a vendere lo stesso prodotto con minor sconto.

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La cannibalizzazione può esserci, ma se alle spalle hai una storia (come quella che ha ognuno dei nostri negozi), una professionalità acclarata, una solidità fatta da tante cose, può essere evitata. Dobbiamo però sfruttare questi marchi diversi dai nostri co-me delle opportunità.

Il punto vendita è lui stesso una marca. Si serve dei prodotti di marca per far entra-

re un nuovo cliente che poi cerca di fidelizzare. Il nostro cliente storico (quello che compera prodotti unbranded) difficilmente compererà le marche. I prodotti di marca ci servono per far entrare nuove persone in negozio che poi tornano con amici e pa-renti.

Nel panorama distributivo italiano, si ritrovano realtà molto differenziate:

dal monomarca al negozio che offre solo prodotti senza marca. In mezzo a questi due estremi ci sono gioiellerie che, in assortimento, presentano mix di-versi di prodotti e di marche ed attribuiscono pesi diversi ad ognuno di questi fattori. Ogni punto vendita quindi può proporre una propria offerta ben defini-ta, nella quale anche il prodotto unbranded può avere una funzione, se, dietro le scelte, vi è una chiara visione del proprio mercato di riferimento.

Se aumento il numero di brand oltre la soglia della loro utilità, non faccio altro che

ripartire il fatturato su più fornitori e aumentare il magazzino, se invece non faccio questo tipo di processo, posso investire su altre competenze.

Diventa quindi importante governare questo processo che è critico sia per

la produzione sia per la distribuzione. Per la distribuzione al dettaglio, la situazione attuale è il risultato di un

mercato che ha avuto lunghi anni di sviluppo e sul quale hanno continuato a contare tutti, anche quando cominciavano i primi segni di frenata. Facilitati dalla grande polverizzazione produttiva, i distributori hanno cercato di rispon-dere ai primi segnali negativi aggiungendo prodotti e marche al loro sistema di offerta; la produzione, per suo canto, ha potuto compensare le prime fles-sioni incrementando la numerica di distribuzione, non sempre con un adegua-to progetto di sell-out.

A questo punto, dopo aver compreso che non si può più parlare di situa-zioni contingenti, ma che siamo di fronte ad un cambiamento strutturale, i di-stributori hanno cominciato a razionalizzare il parco fornitori.

Se ci sono linee di prodotto simili, il dettagliante deve fare delle scelte, il conflitto

può esserci, sta al venditore scegliere e quindi non fare entrare un fornitore.

La produzione, dal canto suo, mette in evidenza come il tema sia legato al-la capacità di portare avanti scelte che derivano dalla consapevolezza di “chi si vuol essere” sulla cui base vengono scelti i propri interlocutori. Questa scel-

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ta avrà poi un impatto sia in termini di opportunità di crescita, di consolida-mento della strategia attuata, di valutazioni economico-finanziarie che per quanto riguarda la segmentazione del proprio sistema di offerta, i servizi, la distribuzione.

Decidere, vuole dire scegliere, scartare, limitare. Secondo me, è un discorso di

scelta su due piani: uno gestionale, come ottimizzare il numero di fornitori piuttosto che la velocità di rotazione (ci sono brand che possono dare una velocità di rotazione tale che possono essere utili ad alleggerire l’immobilizzo di altri brand) e l’altro di scelta di immagine, cioè di segmentazione.

Il dettagliante deve fare scelte mirate su analisi precise. Attualmente bisogna sot-

tolineare la mancanza di capacità dei punti vendita di analizzare con strumenti un po’ precisi cosa avviene in negozio: se perdo dove perdo, se guadagno dove guadagno, il brand mi fa perdere o guadagnare. La gioielleria deve avere la sua identità, bisogna sapere quanta gente entra, cosa compra, quanti tornano ecc.

Dire “diventeremo supermercati dei brand” significa non aver fatto una scelta.

Oggi la scelta viene fatta anche dai supermercati (chi decide di proporre Mulino Bian-co alleggerisce il proprio brand, chi invece vuol sviluppare il proprio brand espone solo i prodotti clone del Mulino Bianco). Bisognerebbe guardare agli aspetti distribu-tivi in una logica un po’ diversa, io ho incoraggiato i miei collaboratori a guardare tut-to per le strade “andate a vedere la libreria Feltrinelli, come mai espone i libri di fac-ciata, quando i libri storicamente vanno messi di costa perché uno legge il titolo, ne contiene di più…”. Le gioiellerie propongono articoli belli e ricchi, che offrono sta-tus... ma in realtà lo status, l’investimento non ci sono più. Sono cose che non pos-siamo decidere noi ma che sono decise dal mercato; le emozioni cambiano nel mo-mento culturale, nell’età, nelle difficoltà. Ognuno di noi, in un dato momento, ha le sue emozioni: per me oggi un’emozione può essere il piacere di sentirmi un concerto insieme a cari amici, mentre lo scorso anno poteva essere il piacere di un viaggio in luoghi esotici. Non ci sono dei canoni definiti e quindi ci vuole una duttilità sul mer-cato dell’azienda insieme alla distribuzione; perché il rivenditore di una città coglie delle sfumature quotidiane che l’azienda non può cogliere, però contemporaneamente il negozio può avere una visione limitata perché vive solo quella realtà. Bisogna un po’ infrangere questa barriera individualistica, per cui, se sotto braccio, insieme lavo-riamo sul consumatore forse qualcosa, un panino, tutti i giorni riusciamo a mangiarlo e forse ogni tanto un pezzo di torta.

3.3. Il punto vendita ideale In quest’ultima parte, l’attenzione si sposta sul consumatore finale, così

come lo vedono produttori e distributori, con l’obiettivo di arrivare a definire i

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principali fattori che condizionano la scelta di una gioielleria da parte dei po-tenziali clienti.

È convinzione diffusa che il primo servizio che un negozio indipendente debba fornire al proprio cliente sia la competenza e la professionalità, ma in realtà la ragione stessa dell’esistenza di un esercizio commerciale è l’as-sortimento che si legge già nelle vetrine. Questo infatti è il primo elemento che spinge un cliente ad entrare in un negozio indipendente.

Per la distribuzione al dettaglio i tre principali fattori di scelta da parte del consumatore sono: assortimento (espresso nelle vetrine anche attraverso il mix di marche rappresentate o la scelta di prodotti unbranded con un buon rapporto qualità-prezzo); la storia e la tradizione (intesa come fiducia verso il punto vendita in termini di serietà e garanzia) ed il servizio offerto.

Io sono un negozio atipico, non vendo marche e non lavoro sulle vetrine; il mio

cliente entra nel negozio, senza guardare le vetrine, ma all’interno vuole poter vedere tutto l’assortimento, soprattutto di novità. L’assortimento quindi per me rappresenta l’elemento fondamentale.

Fiducia, marca e servizio. Per fiducia intendo l’immagine offerta dal mio negozio

di serietà, di garanzia. Quindi il cliente che viene da me perché sa chi sono, arriva perché ha fiducia. Le marche presenti nel negozio (sia gioielleria sia orologeria) sono un’attrattiva importante, perché il cliente sa che nel mio negozio ci sono marche di tutti i tipi possibili, per cui se questa marca non gli da quello che vuole, prova con quell’altra e così via. E poi il servizio a cui credo sommamente. Ritengo sia importan-tissimo, il mio personale frequenta corsi di formazione continuamente perché lo riten-go basilare.

Location, cordialità, professionalità, disponibilità e servizio post vendita, che è

un’argomentazione di vendita. La disponibilità significa che se un cliente viene con un problema, io devo risolverlo, costi quello che costi.

Per me la location è una cosa fondamentale così come l’impatto visivo delle vetri-

ne che ti da già una forza, il prodotto presentato bene, pulito, e vetrine sempre belle brillanti, il personale all’interno del negozio con una certa preparazione, disponibile e cordiale.

La distribuzione all’ingrosso ha messo in evidenza sostanzialmente gli

stessi tre fattori: assortimento (inteso specificamente come rapporto tra pro-dotti marca e prodotti con un buon rapporto qualità-prezzo), affidabilità e as-sistenza post vendita.

Il consumatore è sempre più attento, ecco perché ho messo per primo il rapporto

qualità/prezzo, sia per la marca che per l’unbranded, poi voglio evidenziare il proble-ma della certificazione, per le pietre questa è davvero una esigenza, poi l’assistenza.

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Secondo la produzione i tre principali fattori di scelta per il consumatore sono: l’immagine del punto vendita (intesa non solo come quella che emerge dalle vetrine ma quella complessiva del negozio, compreso il personale ed an-che il rapporto di fiducia che il punto vendita ha saputo sviluppare con il con-sumatore); l’assortimento e il servizio post vendita (includendo anche la rea-lizzazione di eventi per avvicinare il cliente alla gioielleria).

Il primo, secondo me, è quello che il consumatore vede dal marciapiede, è

l’atmosfera che percepisce. Questa atmosfera dovrebbe cambiare nel tempo, ma que-sto dinamismo non esiste in gioielleria perché in vetrina ci sono sempre gli stessi grandi marchi. In effetti, mettendosi in un angolo, si vede che chi cammina in una strada commerciale di una città, dedica alle vetrine delle gioiellerie mediamente meno interesse rispetto agli altri esercizi commerciali. Secondo punto, l’impatto del cliente con il gruppo di lavoro (accoglienza – molti mi dicono siamo gentili, ma la gentilezza è la base non è un optional). Come terzo punto, la conduzione della relazione stessa, che considero come vendita della relazione, che deve avere come capisaldi la compe-tenza e la capacità o empatia di analizzare il bisogno, di capire l’emozione e di evitare gli stereotipi. Il quarto punto è il servizio post vendita che non deve essere richiesto ma deve essere usato come argomento di vendita, dopo il prezzo e prima della battuta di cassa.

Il rapporto con il dettagliante (la fiducia, la competenza...) in questo settore ha un

suo peso così come l’immagine del punto vendita, non solo quella che si vede nella vetrina ma anche quella che si percepisce all’interno. Andando un po’ in giro con spi-rito critico, mi rendo conto che ci sono situazioni molto diverse: climi troppo freddi che respingono, climi troppo vecchi.

L’immagine è anche la capacità di mixare i brand, i prodotti, in maniera sensata,

dando una proposta univoca e non spiazzante (ovvero proponendo oggetti completa-mente diversi). Ed infine immagine sono anche le occasioni e gli eventi che il negozio della tua città crea per avvicinarti alla gioielleria.

Lo standing e la competenza del personale di vendita sono importanti e tut-

ti affermano di dedicare molta attenzione alla formazione dei venditori «le no-stre persone devono sapere cosa stanno vendendo, di cosa parlano».

3.4. Riflessioni conclusive Il tema dei rapporti tra industria e distribuzione è certamente di grande at-

tualità nella maggior parte dei settori, ci è sembrato quindi importante analiz-zarlo anche nel settore orafo. Di fatto vi è un conflitto che investe il tema dei ruoli e la ripartizione del valore creato tra i diversi attori. Questa situazione è accentuata dalla grande frammentazione produttiva e distributiva che caratte-

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rizza il nostro paese, in presenza di un consumatore che non ha più bisogni elementari da soddisfare, che ha ampie possibilità di risolvere anche bisogni immateriali più evoluti e che quindi è nella condizione di stabilire a quali condizioni acquistare un prodotto.

Dal punto di vista dei ruoli, il gioielliere rivendica la sua funzione storica di “consigliere e amico” del cliente, capace quindi di interpretare le necessità di ognuno, componendo il proprio assortimento a seconda del suo gusto, della sua competenza e dell’esperienza. Vuole essere libero di proporre e a volte crea assortimenti nei quali si trovano brand ben note, marchi di fantasia, gioielli originali e prodotti che riecheggiano scelte stilistiche di altri, tutto ciò per disporre del “prodotto giusto al prezzo giusto”. La marca è quasi un “male necessario”, è utile perché aiuta a generare traffico, serve per far capire me-glio al consumatore il posizionamento del punto vendita o per sottolineare il ruolo storico della gioielleria.

La produzione di marca e, ancora di più, le numerosissime aziende che hanno intrapreso la strada verso la marca, chiedono invece al gioielliere una presenza significativa nel punto vendita. Vogliono trovare uno spazio adegua-to in vetrina, ma soprattutto richiedono un assortimento sufficientemente am-pio e rappresentativo della propria collezione, per riuscire a soddisfare il con-sumatore ed essere ripagati dei propri sforzi. Le aziende di produzione in-somma chiedono che la loro marca sia proposta nelle migliori condizioni pos-sibili per valorizzare gli investimenti effettuati.

Dal punto di vista concettuale, è necessario comprendere che un mercato che ha subito un così profondo cambiamento strutturale richiede, anche ope-rando come imprenditori indipendenti, la capacità di aggregare risorse e com-petenze, per creare valore per il cliente. Alla base del problema c’è la chiarez-za della propria strategia competitiva, quindi la scelta del segmento di consu-matori e di conseguenza la creazione degli assortimenti. Ognuno deve sceglie-re chi essere sul mercato e deve trasformare questa scelta in prodotti e servizi. La logica del cercare di piacere a tutti, quasi sempre porta a non piacere a nes-suno. Collezioni ed assortimenti verticali, nei quali è possibile trovare di tutto in termini di stile, di gusto e di tipologia di prodotto non aiutano a conquistare il consumatore. Non è “srotolando” prodotti sul banco che si riesce a convin-cere il cliente. Tutte le professionalità evolvono: trattando prodotti di marca in maniera adeguata il gioielliere non perde il proprio ruolo, non diventa un por-gitore di prodotti, poiché oggi è prima di tutto imprenditore commerciale, quindi impegnato a fare le scelte più opportune per sviluppare la propria im-presa, in termini di sistema di marche trattate, servizi offerti al cliente e ge-stione delle risorse.

69

Parte seconda – Sfide competitive e dinamiche strutturali

Questa seconda parte si articola in tre capitoli che rispettivamente affron-

tano: • la situazione attuale e le trasformazioni strutturali; • le strategie perseguite da alcune imprese e le loro performance; • le diverse modalità di segmentazione possibili nell’ambito della gioielleria

e dell’oreficeria.

Il capitolo quarto analizza l’evoluzione del settore orafo in un’ottica di lungo periodo e successivamente inquadra il commercio mondiale di orefice-ria; attraverso i dati del censimento 2001 fotografa la struttura del settore dal punto di vista dimensionale e di concentrazione territoriale.

Il capitolo quinto analizza la relazione esistente tra le scelte di strategia e posizionamento attuate dalle imprese ed i risultati aziendali conseguiti. È at-traverso l’analisi dei dati di singole aziende che emerge con chiarezza come, a fronte di una situazione competitiva settoriale comune, le diverse scelte di po-sizionamento attuate dalle imprese hanno consentito ad alcune di percorrere strade di successo, mentre altre sembrano incontrare maggiori difficoltà.

Il capitolo sesto è dedicato all’analisi del settore dal punto di vista del-l’individuazione di segmenti omogenei, ovvero delle arene competitive in cui si realizza il confronto tra i concorrenti. Questo è il presupposto che consente di indicare nel seguito le opzioni strategiche praticabili dalle aziende con un approccio realistico ed operativo. La segmentazione infatti genera raggrup-pamenti, o cluster, che rappresentano il modello di partenza per il valutare le scelte di strategia.

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71

4. Il settore orafo in Italia: situazione attuale e tra-sformazioni strutturali∗

di Stefania Trenti∗*

4.1. Il settore orafo in Italia: l’evoluzione di lungo periodo

4.1.1. Una battuta d’arresto dopo una lunga crescita Il settore orafo italiano rappresenta una realtà importante all’interno delle

industrie tipiche del Made in Italy, avendo costituito per anni un punto di for-za del saldo di commercio con l’estero. Il saldo del settore è stato nel 2003 di 3067 milioni di euro, rappresentando il 14% del saldo del Sistema Moda (fon-te Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa)1.

Sono localizzate in Italia il 35% delle imprese attive nel settore in Europa e oltre il 40% della produzione europea. Fatto cento il peso del settore del-l’oreficeria sul totale del manifatturiero europeo (compresi i nuovi membri dell’Unione), si evidenzia come il peso della produzione orafa italiana, sul to-tale delle aziende manifatturiere italiane, è quasi tre volte maggiore rispetto al valore medio europeo.

∗ Le opinioni contenute in questo lavoro sono quelle dell'autore e non rispecchiano necessaria-mente quelle di Banca Intesa. ∗* Stefania Trenti è Responsabile dell’Industry Research del Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa. Autore di diverse pubblicazioni, svolge attività di ricerca nell’ambito dell’economia in-dustriale, in particolare sui temi della competitività e dell’innovazione tecnologica. È responsa-bile del Rapporto “Analisi dei Settori Industriali”, trimestrale di previsione sui settori manifat-turieri italiani, in collaborazione con Prometeia. 1 Con il termine Sistema Moda, il Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa individua tutta la filiera del tessile/abbigliamento, della concia/calzature, dell’occhialeria includendo anche l’oreficeria stessa.

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Tab. 1 – Il peso dell’oreficeria italiana in Europa (2001) Paese N. imprese Valore della

produzioneIndice di specializzazio-

ne (val. produzione)(*) Italia 35% 42% 278 Germania 10% 10% 41 Spagna 10% 7% 92 Francia 10% 12% 73 Regno Unito 5% 11% 86 Portogallo 4% 2% 174 Altri 26% 16% Unione Europea 25 100% 100% 100 Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati Eurostat. (*) l’indice di specializzazione descrive l’importanza dell’industria produttiva orafa nei singoli Paesi europei, ovvero quanto i diversi Paesi sono specializzati nella produzione di oggetti orafi. Il termine di confronto è rappresentato dal valore associato all’importanza dell’oreficeria in Eu-ropa rispetto al totale della produzione manifatturiera.

Dopo aver registrato una espansione significativa nel corso degli anni ’90,

nel biennio 2002-’03 il settore ha subito una battuta d’arresto significativa (fig. 1). Fig. 1 – Evoluzione di lungo periodo fatturato e saldo commerciale

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1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

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Fatturato (mil.€ sc.sin.) Saldo commerciale (mil.€ sc.ds.)

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT e di bilancio. (*) sc.sin individua scala sinistra; sc.ds, si riferisce alla scala destra.

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I dati dell’ISTAT relativi al commercio con l’estero e l’evoluzione del fat-turato delle imprese del settore concordano nell’indicare un andamento forte-mente negativo della dinamica settoriale, soprattutto nel 2003 (tab. 2).

Tab. 2 – Sintesi delle principali variabili economiche del settore orafo italiano (valori in milioni di Euro, prezzi correnti) Voci 1991 1996 2001 2002 2003 Fatturato* 4739.5 6299.3 8700.4 7785.2 6233.6 Esportazioni 2302.7 3768.4 5347.4 4987.3 3854.8 Importazioni 273.1 481.3 931.3 804.3 787.8 Consumo apparen-te**

2709.9 3012.2 4284.3 3602.3 3166.5

Export/fatturato (%) 49% 60% 61% 64% 62% Import/consumo apparente (%)

10% 16% 22% 22% 25%

Tasso di crescita (var. %)

1996/1991 2001/1996 2002/2001 2003/2002

Fatturato 6.6 7.6 -10.5 -19.9 Esportazioni 12.7 8.4 -6.7 -22.7 Importazioni 15.3 18.7 -13.6 -2.1 Consumo apparente 2.2 8.4 -15.9 -12.1

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT e di bilancio. * Stima relativa al fatturato ex fabbrica. ** Calcolato come somma tra fatturato non esportato ed importazioni.

4.1.2. Il recente crollo dell’export e gli effetti del cambio Considerata l’elevata propensione all’export delle imprese del settore, il

dato più preoccupante riguarda l’andamento delle esportazioni che erano state lungo tutti gli anni ’90 uno degli elementi trainanti della crescita settoriale. L’andamento negativo è stato concentrato soprattutto sull’oro da indosso, la voce prevalente delle esportazioni italiane, mentre altri prodotti (platino, pie-tre, ecc.) hanno mostrato un andamento più vivace.

Analizzando le esportazioni per paese di destinazione emerge chiaramente il ruolo degli Stati Uniti, paese verso cui è diretto circa il 30% dell’export ita-liano. Le vendite su tale mercato, che rappresenta da molti anni il principale sbocco delle esportazioni italiane, sono calate nel 2003 del 35%, dopo il calo del 3% già registrato nel 2002.

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Tab. 3 – Le esportazioni nei principali paesi di sbocco (valori in Euro, prezzi e tassi di cambio a valori correnti) Nazione 2001 2002 2003 Peso%

2003 Var.% 03

Stati Uniti 1,775,054,720 1,715,833,826 1,116,995,861 29% -34.9 Svizzera 367,309,815 266,565,114 293,927,266 8% 10.3 Regno Unito

330,912,672 330,594,872 261,378,544 7% -20.9

Emirati Arabi Uni-ti

362,891,345 336,619,047 260,546,686 7% -22.6

Francia 286,295,464 274,456,729 231,811,120 6% -15.5 Hong Kong

224,895,681 252,207,206 176,961,724 5% -29.8

Spagna 178,861,606 170,602,615 135,401,052 4% - 20.6 Germania 197,456,278 183,470,023 125,394,119 3% - 31.7 Giappone 125,659,377 120,778,298 108,041,548 3% -10.5 Cina 97,983,145 80,366,095 96,970,272 3% 20.7 Messico 78,919,485 95,553,858 84,428,639 2% -11.6 Panama 149,884,092 103,876,924 60,189,025 2% - 42.1 Turchia 37,675,380 56,873,411 55,771,431 1% -1.9 Canada 47,464,604 59,388,874 54,306,944 1% 8.6 Australia 53,732,747 59,197,803 53,697,692 1% 9.3

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT.

È da sottolineare come, dall’analisi delle esportazioni, emerga che circa l’80% delle vendite all’estero vengono effettuate nei paesi individuati in tabel-la. La presenza di prodotti italiani in altre nazioni è solo marginale.

È assai probabile che parte di tale evoluzione negativa del valore del ven-duto sia legata all’effetto del cambio. L’andamento euro/dollaro, tuttavia, non sembra da solo sufficiente a spiegare interamente la dinamica delle esporta-zioni. I dati relativi alle quantità esportate, infatti, indicano anch’essi un calo significativo (sia pure meno intenso, pari a circa il 15%) mentre la dinamica delle vendite al dettaglio di gioielli sul mercato Usa mostra una ripresa della domanda per questi prodotti, dopo la battuta d’arresto seguita allo scoppio della bolla speculativa sui titoli di borsa del Marzo 2001 (si veda fig. 2).

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Fig. 2 – Andamento delle esportazioni di gioielli verso gli USA, delle vendite al dettaglio e del cambio €/$ Fonte: Servzio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT e BLS.

Tra le principali province con maggiore concentrazione di aziende specia-

lizzate nel settore, appaiono particolarmente negative le esportazioni di Arez-zo e Vicenza mentre i dati di Alessandria, grazie soprattutto alla maggiore ri-levanza del Medio Oriente come mercato di sbocco, sono risultati, seppure in flessione, meno negativi. Tab. 4 – Le esportazioni delle principali province di specializzazione (valori in milioni di Euro) Provincia 2002 2003 Var% Peso export 2003 sul totale Italia Vicenza 1859.9 1300.8 -30.1 34% Arezzo 1614.2 1201.2 -25.6 31% Milano 505.6 403.6 -20.2 10% Alessandria 391.4 367.0 -6.2 10% Treviso 182.1 148.6 -18.4 4% Roma 80.2 89.4 11.4 2% Firenze 84.8 67.6 -20.2 2% Padova 48.8 45.3 -7.2 1% Varese 34.1 30.3 -11.0 1% Napoli 21.0 16.4 -22.2 0%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT.

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4.1.3. Domanda interna ed importazioni L’andamento fortemente negativo delle esportazioni nell’ultimo biennio

non è stato compensato da una performance soddisfacente delle vendite sul mercato interno. Anche in questo caso, come per quello delle vendite sui mer-cati esteri, è possibile rintracciare una spiegazione di tipo congiunturale nell’evoluzione non brillante. Durante il triennio 2001-’03 l’evoluzione dei consumi complessivi di manufatti sul mercato italiano è stata decisamente contenuta, in particolare per le voci dedicate al Sistema Moda nel suo com-plesso.

L’andamento del reddito disponibile e la contrazione della ricchezza finan-ziaria (seguita al calo della borsa) hanno influenzato in modo negativo gli ac-quisti di gioielli. Il ruolo di “bene rifugio”, a fronte di una certa disaffezione nei confronti degli investimenti finanziari, sembra essere stato giocato soprat-tutto dalla casa (come testimoniato dal boom immobiliare) mentre l’ore-ficeria è stata percepita prevalentemente come una spesa “voluttuaria” e dunque pe-nalizzata a favore o di spese più necessarie o di prodotti più innovativi (si pensi al forte incremento delle vendite di prodotti dell’elettronica di consumo, anche sui segmenti a maggiore valore unitario).

I fattori congiunturali non sembrano quindi essere sufficienti a spiegare in-teramente l’andamento dei consumi interni di oreficeria. L’evoluzione di lun-go periodo mostra, infatti, un andamento non brillante della domanda interna. Il mercato orafo italiano è da considerarsi un mercato maturo al cui interno convivono sia segmenti in declino (spille e parure per esempio) sia segmenti in crescita (per esempio l’oreficeria maschile e la gioielleria in argento o mista con altri materiali).

La dinamica stazionaria dei consumi viene generalmente motivata all’in-terno del settore sia con una generale disaffezione soprattutto tra i giovani verso il prodotto orafo, con conseguente calo dei consumi medi a favore di altri beni sostituti, sia con un cambiamento delle abitudini di acquisto soprat-tutto con riferimento alle ricorrenze. Più che un vero e proprio declino quella che emerge è una modifica nella tipologia di acquisto: da bene per ricorrenze e “rifugio” ad “acquisto d’impulso”, con una conseguente maggiore necessità di stimolare i clienti, con opportune strategie di comunicazione e di immagine e con politiche di innovazione di prodotto.

Tale fenomeno è peraltro relativamente comune ad altri paesi. L’analisi dell’inchiesta sulle spese delle famiglie (di cui a livello internazionale l’ultimo dato reso disponibile dall’Eurostat è riferito al 1998) mostra una sostanziale stabilità della quota di spesa destinata al capitolo gioielli negli anni ‘90, a fronte di modificazioni, anche significative, in altre voci di consumo, con un

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peso crescente delle spese per servizi e prodotti innovativi, a scapito delle vo-ci tradizionali come alimentare e vestiario (tab. 5). Tab. 5 – Composizione dei consumi delle famiglie in Europa UE Italia 1994 1998 1994 1998 Alimentare, bevande e tabacco 16.6% 14.2% 21.6% 19.3% Vestiario e calzature 7.1% 6.3% 7.5% 7.6% Abitazione 25.4% 28.6% 24.6% 25.2% Mobili, elettronica, servizi per la casa 7.2% 7.0% 6.3% 7.7% Sanità 3.1% 3.2% 3.1% 4.5% Trasporti 13.5% 13.8% 13.4% 14.0% Comunicazioni 2.0% 2.5% 1.9% 2.5% Ricreazione e cultura 9.7% 10.2% 8.2% 6.4% Istruzione 0.7% 0.8% 0.6% 0.8% Ristoranti e alberghi 6.6% 6.3% 5.2% 4.7% Altri beni e servizi 8.1% 7.2% 7.6% 7.2% di cui gioielli 0.4% 0.4% 0.3% 0.4%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati Eurostat.

Tab. 6 – La spesa delle famiglie italiane 2000 e 2002 in gioielleria, argenteria ed orologi (€ al mese e % sul totale della spesa mensile) Totale Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole 2002 6.93 7.01 7.40 7.65 6.73 5 0.32% 0.29% 0.31% 0.33% 0.38% 0.27% 2000 8.00 7.99 9.56 8.15 7.8 5.49 0.37% 0.34% 0.38% 0.38% 0.42% 0.32%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da dati ISTAT.

Per quanto riguarda le famiglie italiane, le inchieste più recenti, disponibili anche per il 2000 ed il 2002 ma con un aggregato più ampio che comprende anche gli orologi, evidenziano, nel periodo più recente una maggiore disaffe-zione delle famiglie italiane, con un calo della spesa mensile destinata a que-sta voce diffusa in tutte le macro-regioni, ma particolarmente evidente nelle famiglie del Nord-Est che perdono il loro primato a favore delle famiglie del Centro Italia.

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Fig. 3 – Evoluzione dell’import penetration (valore delle importazioni sul consu-mo apparente di oreficeria)

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15%

20%

25%

30%

1991-95 1996-00 2003

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT.

Nonostante l’andamento non brillante delle vendite sul mercato interno le importazioni di oreficeria e gioielleria in Italia hanno accresciuto il loro peso sulla domanda interna. L’incremento dell’import penetration, nonostante la diminuzione dei valori importati nel biennio 2002-2003, è proseguita lungo tutti gli anni ’90.

Limitando l’analisi alla voce dei gioielli in oro ed altri metalli preziosi (escluso l’argento), si nota, innanzitutto, che a differenza di quanto emerge per l’aggregato complessivo (tab. 2), nel caso specifico le importazioni han-no continuato a crescere anche negli anni più recenti (tab. 7). I principali pa-esi di provenienza delle importazioni di oro da indosso sono sia paesi di “smistamento”, come la Svizzera, sia paesi produttori, importanti competi-tors dell’Italia sui mercati esteri, come la Turchia e la Cina (si veda il para-grafo 4.2 interamente dedicato alle dinamiche del commercio internaziona-le).

Quanto alla destinazione territoriale delle importazioni, i dati, a livello provinciale, disponibili sono più aggregati ed espressi in valore. È significati-vo notare che le province a maggiore assorbimento di importazioni sono an-che quelle maggiormente specializzate (Vicenza, Arezzo e Alessandria). Tale risultato è spiegabile in parte per la presenza in questi territori, a cui si ag-giunge la piazza di Milano, non solo di produttori ma anche di un ricco tessu-to di servizi connessi, dagli spedizionieri specializzati ai grossisti, ai distribu-tori. Dall’altro lato questo dato testimonia anche di una crescente apertura del-

2002-2003

79

le filiere produttive, un tempo interamente contenute nel territorio distrettuale, anche a livello internazionale.

Tab. 7 – Struttura delle importazioni Gioielli in oro e loro parti (Codice 71131900)(*)

2003 2003 Paesi Valori (€) Var. % Peso % Paesi Quantità

(kg)Var. % Peso %

Svizzera 97,439,730 17.6 34% Turchia 4443 52 22% Turchia 37,278,452 46.5 13% Svizzera 3265 17 16% Francia 26,615,205 -19.3 9% Francia 1513 -25 7% Tailandia 19,526,310 37.2 7% Cina 1439 262 7% Stati Uniti 18,048,799 -14.4 6% Stati Uniti 1344 -19 7% Hong Kong 12,643,662 41.6 4% Tailandia 904 86 4% Regno Unito 12,237,955 -13.7 4% Hong Kong 834 6 4% Cina 10,448,018 38.6 4% Croazia 734 n.d. 4% Totale 285,204,582 10.5 100% Totale 20378 19 100%

Gioielleria ed oreficeria (Codice ATECO 362)(**) 2003 2003 Paesi Valori (€) Var. % Peso % Paesi Quantità

(kg)Var. % Peso %

Belgio 183,323,013 -18.9 23% Cina 348,688 16 26% Svizzera 157,720,998 4.1 20% India 334,114 25 25% Israele 53,164,747 34.0 7% Brasile 133,433 -12 10% Tailandia 46,740,869 7.0 6% Germania 118,159 372 9% Cina 39,865,699 11.7 5% Spagna 63,195 648 5% Turchia 38,530,347 46.2 5% Tailandia 63,020 50 5% Stati Uniti 37,081,716 -6.4 5% Hong Kong 57,262 13 4% Francia 36,343,442 -22.6 5% Paesi Bassi 37,525 n.d. 3% Totale 787,781,861 -3.5 100% 1,353,304 18 100%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT. (*) il codice di nomenclatura combina-ta 71131900 si riferisce a minuterie ed oggetti di gioielleria e loro parti, di metalli preziosi di-versi dall'argento, anche rivestiti, placcati o ricoperti di altri metalli preziosi (esclusi. quelli > 100 anni di età). (**) il codice ATECO 362 si riferisce alla voce “gioielleria ed oreficeria” che include le seguenti voci: lavorazione pietre preziose e semipreziose per gioielleria ed uso indu-striale, fabbricazione di oggetti di gioielleria ed articoli annessi; gioielleria ed oreficeria di me-talli preziosi o rivestiti di metalli preziosi e coniazione monete e medaglie.

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Tab. 8 – Il peso delle province sul totale delle importazioni italiane da alcuni Pa-esi

Totale (%) Hong Kong (%) Cina(%) Tailandia (%) India (%) Ales-sandria

26 Vicenza 36 Milano 17 Vicenza 30 Milano 45

Milano 23 Milano 25 Vicenza 15 Roma 18 Ales-sandria

20

Vicenza 13 Ales-sandria

9 Arezzo 14 Ales-sandria

14 Roma 8

Roma 11 Padova 6 Roma 13 Milano 13 Vicenza 6 Arezzo 5 Arezzo 3 Ales-

sandria 10 Arezzo 5 Verona 3

Firenze 5 Napoli 3 Firenze 5 Padova 5 Padova 2 Altri 17 Altri 18 Altri 26 Altri 15 Altri 16 Totale 100 Totale 100 Totale 100 Totale 100 Totale 100

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT.

4.2. Il commercio mondiale di oreficeria I dati negativi relativi al 2003 appaiono particolarmente preoccupanti. Da

un lato, come sottolineato nel paragrafo precedente, sono in parte imputabili a fenomeni di tipo congiunturale, in primis la rivalutazione dell’euro nei con-fronti del dollaro. Dall’altro lato, tuttavia, sono anche il risultato di elementi di tipo più strutturale che affondano le origini negli anni passati. In sintesi, l’analisi di lungo periodo del commercio internazionale di orefice-ria fa emergere due fenomeni che potrebbero, al di là della congiuntura attua-le, influenzare l’andamento delle vendite all’estero dei produttori italiani an-che nel prossimo futuro. • L’analisi delle quote di commercio mondiale fa emergere nuovi soggetti;

questo fenomeno è partito più tardi rispetto ad altri comparti del Made in Italy ma ha avuto una forte accelerazione negli anni più recenti.

• L’export italiano del settore è stato caratterizzato da una lunga fase di cre-scita nel corso degli anni ’90, legata non tanto ad una crescente capacità di penetrazione di nuovi mercati quanto all’andamento positivo del mercato USA. Il ripiegamento appare pertanto, almeno parzialmente, il frutto dell’esaurimento degli spazi di mercato, sia geografici sia di “nicchia”. È pur anche vero che negli ultimi anni gli spazi di manovra sui mercati inter-nazionali sembrano essersi ridotti non soltanto per la crescita degli emer-genti ma anche per il processo di concentrazione geografica delle vendite, probabilmente anche per effetto di trasformazioni nella fase di distribuzio-ne a valle. Tali processi rendono sempre più difficile la ricerca di nuovi sbocchi di mercato, una volta diventato più competitivo il mercato Usa.

81

4.2.1. I principali esportatori mondiali di oreficeria Nel corso della seconda metà degli anni ’90 sono emersi con forza, nel

commercio internazionale di prodotti dell’oreficeria, nuovi attori. La loro cre-scita ha intaccato, ma non ancora rimesso in discussione, la posizione di lea-dership detenuta dagli esportatori italiani.

Tale fenomeno appare meno pubblicizzato rispetto a quanto avvenuto in altri comparti del Made in Italy e del Sistema Moda in particolare. Se nel settore del-le calzature, dell’abbigliamento o delle piastrelle il processo di crescita degli emergenti, e della Cina in particolare, ha portato alla perdita di leadership dei produttori italiani, nel settore dell’oreficeria la loro presenza appare più recente, ma non per questo meno rilevante. I tassi di crescita sulle esportazioni mondiali appaiono, infatti, molto elevati e contribuiscono a spiegare l’erosione delle po-sizioni delle esportazioni italiane subita negli anni più recenti.

I dati delle Nazioni Unite sul commercio internazionale consentono di quantificare tale fenomeno ad un buon livello di dettaglio. Abbiamo pertanto considerato i flussi di interscambio sia dei prodotti in oro (codice 71 13 19 00) sia, per comparazione, quelli in argento (codice 71 13 11 00). È bene precisare che tali dati sono espressi in valore del venduto in dollari e che, pertanto, ri-sultano influenzati in modo rilevante dall’andamento relativo dei cambi.

Tab. 9 – Quote di esportazioni sul commercio mondiale per i gioielli in oro e altri metalli preziosi (non argento) Nazioni 1995 2000 2003 Italia 30% 29% 18% USA 3% 7% 10% Svizzera 12% 8% 9% India 3% 6% 9% Hong Kong 6% 9% 9% Regno Unito 8% 5% 8% Cina 6% 9% 6% Corea 0% 2% 4% Tailandia 5% 4% 4% Turchia 0% 2% 3% Francia 3% 4% 3% Germania 4% 3% 3% Malaysia 3% 3% 2% Singapore 4% 1% 2% Israele 3% 2% 2% Altri 10% 6% 8% Totale 100 100 100 Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati UNCTAD – Comtrade.

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Come si nota dalla tab. 9, che riporta i dati sulle quote di esportazioni dei gioielli di oro (e loro parti), gli ultimi anni la quota dell’Italia è notevolmente diminuita, mentre sono in costante crescita le posizioni di alcuni paesi a basso costo del lavoro, innanzitutto l’India e l’Estremo Oriente (Cina, Corea, Hong Kong). Gli Stati Uniti nel periodo in esame hanno saputo aumentare la quota delle loro esportazioni, passato dal 3% del 1995 al 10% del 2003. Anche la Turchia, paese praticamente assente fino a pochi anni fa nei flussi di esporta-zioni mondiali, è stata in grado di conquistare rapidamente una posizione di rilievo.

Tale fenomeno è evidente anche nel caso dei gioielli in argento (tab. 10), dove la forte crescita di Hong Kong, Cina e India ha eroso le posizioni non solo di un paese ad alto reddito come l’Italia ma anche, sia pure in misura me-no netta, della Tailandia, tradizionale fornitore di gioielli in argento. Nel pe-riodo in esame, gli scambi di prodotti in argento si sono progressivamente concentrati. Nel 2003, le esportazioni dei quindici paesi analizzati hanno rap-presentato il 92% del totale degli scambi mondiali di prodotti di argento. Nel 1995 invece la quota degli stessi paesi era stata pari all’86%.

Tab. 10 – Quote sul commercio mondiale dei gioielli in argento* Nazioni 1995 2000 2003 Italia 30% 28% 20% Tailandia 23% 17% 19% Hong Kong 2% 11% 17% Cina 2% 4% 7% India 2% 3% 5% USA 6% 5% 5% Germania 5% 4% 4% Messico 4% 4% 4% Regno Unito 2% 2% 2% Francia 1% 2% 2% Spagna 3% 2% 2% Polonia 2% 2% 2% Danimarca 2% 2% 1% Indonesia 1% 1% 1% Svizzera 1% 1% 1% Altri 14% 12% 8% Totale 100 100 100

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati UNCTAD – Comtrade. * Codice di Nomenclatura Combinata 71131100: Minuterie ed oggetti di gioielleria e loro parti, di argento, anche rivestiti, placcati o ricoperti di altri metalli preziosi (esclusi quelli > 100 anni di età).

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L’analisi dei flussi di commercio internazionale non consente, purtroppo, di disaggregare i prodotti finiti dalle semplici parti, impedendo di monitorare gli effetti della apertura internazionale delle filiere produttive. Non è dunque possibile verificare quanto la crescita di peso delle esportazioni dei paesi e-mergenti sia legata alla terziarizzazione delle lavorazioni più labour intensive e quanto, invece, riguardi prodotti concepiti e finiti in questi paesi.

Il confronto tra Italia, India e Cina – considerata congiuntamente con Hong Kong come un’unica realtà economica dopo aver depurato la somma delle esportazioni dai flussi interni ai due paesi – evidenzia come tali paesi abbiano saputo molto rapidamente inserirsi (o come subfornitori o come produttori di beni finiti) nei flussi internazionali di commercio internaziona-le. Soprattutto dopo il 2000, anno di picco dell’export italiano di gioielli in oro, l’accelerazione dell’export dall’Estremo Oriente e la costante crescita di quello indiano hanno portato ad un forte avvicinamento delle posizioni delle tre aree.

Fig. 4 – Evoluzione delle esportazioni di Italia, India, Cina/Hong Kong (valori in milioni di dollari correnti) Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati UNCTAD-Comtrade.

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È interessante notare anche il ruolo assunto dagli Stati Uniti, primo paese di destinazione dei flussi mondiali di oro da indosso e, al tempo stesso, in for-te crescita anche dal lato delle esportazioni. Gli Stati Uniti, oltre ad essere uno dei principali consumatori di gioielli in oro, svolgono anche un ruolo di tra-der. Basti pensare che nel 2003 un terzo circa delle esportazioni di gioielli in oro (e loro parti) dagli Stati Uniti sono classificate come riesportazioni di pro-dotti precedentemente importati da altri paesi e come di queste riesportazioni la maggior parte venga diretta verso paesi considerabili, a loro volta, come centri di smistamento (Svizzera, Regno Unito, Hong Kong). 4.2.2. Le esportazioni italiane di oreficeria: quali potrebbero

essere i nuovi sbocchi? Come abbiamo già sottolineato, nel corso degli anni ’90 le imprese italiane

del settore orafo sono state in grado di incrementare in modo significativo le proprie vendite sui mercati esteri. Il tasso annuo di crescita nominale delle e-sportazioni è stato, nella media del periodo 1991-2001, di poco inferiore al 10%.

Tab. 11 – L’evoluzione dei primi dieci mercati di sbocco delle esportazioni italia-ne (peso percentuale sul totale delle esportazioni del settore italiane) 1994 1997 2000 2003 1 Stati Uniti 33% Stati Uniti 27% Stati Uniti 33% Stati Uniti 29% 2 Germania 8% Panama 8% Emirati

Arabi Uniti 8% Svizzera 8%

3 Hong Kong 6% Svizzera 7% Regno Unito

6% Emirati Arabi Uniti

8%

4 Emirati Arabi Uniti

6% Emirati Arabi Uniti

6% Svizzera 6% Regno Unito

7%

5 Panama 6% Germania 5% Francia 5% Francia 6% 6 Svizzera 5% Regno Unito 5% Hong Kong 4% Hong

Kong 5%

7 Giappone 4% Hong Kong 5% Germania 4% Spagna 3% 8 Francia 4% Francia 5% Panama 3% Cina 3% 9 Regno

Unito 4% Spagna 3% Spagna 3% Giappone 3%

10 Spagna 3% Giappone 3% Antille Olandesi

3% Germania 3%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT.

Tale crescita è legata soprattutto ad un andamento positivo del mercato USA mentre si è assistito nel corso degli anni ’90 alla forte diminuzione del

85

peso della Germania: nel 1994 il mercato tedesco pesava circa l’8% sul totale delle esportazioni di oreficeria italiana mentre nel 2003 tale peso era ridotto a circa il 3%.

La diversificazione geografica dei mercati di sbocco del settore orafo ita-liano è decisamente inferiore rispetto a quella dell’industria manifatturiera nel suo complesso (fig. 5). In parte questo fenomeno è legato alla natura di beni oggetto di scambio che potrebbe limitare gli spazi di vendita nei paesi a mag-giore reddito pro-capite. Anche altri beni di consumo appartenenti alla filiera della Moda (che nel caso italiano sono molto spesso concepiti come prodotti di alta gamma) mostrano, infatti, una concentrazione delle vendite più alta ri-spetto a quella media dell’industria.

Fig. 5 – Indice di diversificazione geografica dei mercati di sbocco delle esporta-zioni

40

42

4446

48

50

52

54

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002

Industria Moda Oreficeria

Fonte: Banca Intesa e Banca Intesa-Prometeia (aprile 2003). Il settore orafo, tuttavia, oltre ad avere una minore diversificazione rispetto

a quella degli altri prodotti della moda mostra una tendenza decisamente op-posta a quanto riscontrato per l’industria e per il sistema moda. Come si vede dalla fig. 6. negli anni più recenti, infatti, la ricerca di nuovi mercati di sbocco sembra essere diminuita, nonostante, il progressivo affievolirsi della spinta proveniente dal mercato statunitense, dopo il picco raggiunto nel 2000.

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Due elementi ci aiutano a capire le specificità del settore dell’oreficeria per quanto riguarda la possibilità di nuovi mercati di sbocco.

È, infatti, da sottolineare, in primo luogo, come il fenomeno di crescente concentrazione dei flussi di commercio internazionale sia riscontrabile non solo per quanto riguarda le esportazioni italiane, ma sia un fenomeno comu-ne al complesso dell’interscambio mondiale. Nel periodo dal 1995 al 2003 la concentrazione delle importazioni dei primi cinque paesi di sbocco è cre-sciuta di tre punti percentuali, in seguito soprattutto al ruolo di pivot degli Stati Uniti. La diversificazione di un paese nostro concorrente come l’India è ancora più bassa di quella italiana ed in costante diminuzione, anche in questo caso per il crescente peso degli USA tra i mercati di sbocco dell’oro da indosso indiano.

È, in secondo luogo, da considerare che, a differenza di altri comparti, il settore orafo presenta un’elevata importanza di paesi considerabili come “cen-tri di smistamento” verso altre destinazioni. Se si considera la tab. 11, si nota che nell’elenco dei primi 10 paesi di sbocco il peso di alcuni paesi (Svizzera, Emirati Arabi, Panama, Antille Olandesi e, in misura minore, Hong Kong) non corrisponde con le dimensioni del potenziale del mercato interno. Questo fenomeno porta a sottostimare il grado di diversificazione delle esportazioni italiane di oreficeria, poiché risulta impossibile, sulla base delle statistiche esi-stenti, ricostruire quanta parte del venduto in tali paesi sia poi riesportato ver-so altre destinazioni2. Tale ricostruzione per gli Stati Uniti, come già visto nel paragrafo precedente, mostra come anche questo paese possa essere in parte considerato come centro di smistamento poiché il 30% dell’export di orefice-ria Usa, nel tempo diventato il secondo esportatore mondiale, è costituito da prodotti provenienti da altri paesi e poi riesportati.

Questi elementi portano a considerare con maggiore attenzione la possibi-lità che i legami con il mercato e con i buyer americani dei produttori italiani – a lungo uno dei fattori propulsivi dell’export settoriale – si stiano rivelando nel tempo anche un limite, vista la crescente preferenza dimostrata verso i prodotti di altri paesi, in primis quelli indiani, che hanno conquistato oramai la leadership sulle importazioni verso gli USA (si veda la fig. 6).

2 La banca dati Comtrade delle Nazioni Unite non riporta il dato sulle riesportazioni per i prodotti orafi di tali paesi, ma solo le esportazioni. A solo titolo di esempio si può notare che le esportazioni di tali prodotti da Panama sono quasi interamente destinate al mercato USA.

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Fig. 6 – Quote sulle importazioni statunitensi di oro da indosso 1995 e 2003 (dol-lari correnti) Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati Comtrade.

Risulta peraltro difficile, viste le peculiarità dell’approccio al mercato di

questo settore (legato anche al ruolo ancora significativo delle fasi a valle co-me “garanti” della qualità ed autenticità dei gioielli) indicare con precisione su quali mercati e con quali strategie sia possibile per le imprese orafe italiane contrastare efficacemente la perdita di quote registrata negli ultimi anni. A priori esistono ancora molti spazi di crescita in alcuni mercati più lontani e complessi, come la stessa Cina o, per restare in ambito europeo, nei paesi nuovi aderenti all’UE e più in generale nei paesi dell’Est Europa, compresa la Russia. Su questi mercati la maggior parte delle analisi concordano nel-l’identificare buone prospettive per i produttori italiani di beni di consumo, in generale, e di quelli più legati allo “stile” italiano in particolare, di cui l’oreficeria italiana è uno dei rappresentanti di punta.

Il processo di crescita del reddito disponibile e di progressivo avvicina-mento agli standard di consumo dei vicini dell’Europa Occidentale fanno que-sti paesi i probabili futuri mercati di sbocco più promettenti per l’export ita-liano. Sarà da verificare nei prossimi anni se tali opportunità riusciranno a concretizzarsi, anche in funzione delle specificità della relazione produzione-distribuzione in campo orafo e le caratteristiche della struttura produttiva ita-liana, ancora caratterizzata dalla presenza di molte imprese di piccole e picco-lissime dimensioni.

88

4.3. Il settore orafo nel censimento 2001 4.3.1. Una crescita significativa

A fronte di queste dinamiche sui mercati esteri, il settore non sembra aver

reagito attraverso modificazioni di tipo strutturale. I dati del Censimento I-STAT3., relativi al 2001 e resi disponibili nel marzo 2004, consentono di met-tere in luce il permanere all’interno del settore di una struttura prevalentemen-te basata su piccole e piccolissime imprese. Nel decennio coperto dalle rileva-zioni censuarie (1991-2001) il settore è stato in grado, a differenza di altri set-tori tradizionali del Made in Italy, di accrescere l’occupazione, anche grazie al fatto che fino al 2001 l’andamento della produzione orafa è stato positivo.

Il settore orafo italiano ha registrato dal 1996 al 2001 una crescita nel nu-mero di addetti pari a circa il 12%. Tale crescita appare considerevole soprat-tutto se confrontata con l’andamento, nello stesso periodo, degli addetti occu-pati in altri comparti del Made i n Italy (come mostrato dalla fig. 7).

Nella seconda metà degli anni ’90 alcuni settori, come la maglieria o le calzature, sottoposti prima dell’oreficeria alle pressioni competitive prove-nienti dai paesi emergenti hanno visto sensibilmente ridotta l’occupazione4. Fig. 7 – Occupazione in alcuni settori del Made in Italy (variazioni % 1996-2001)

3 Il codice ATECO utilizzato nella maggior parte delle tabelle è il 3622 definito come “Fabbri-cazione di gioielleria e oreficeria” che comprende sia la lavorazione di oggetti di gioielleria ed oreficeria sia la lavorazione delle pietre preziose, escludendo la fabbricazione di monete (codi-ce 3621) che invece sono state considerate nella stima del fatturato presentata nella tabella 1. Questo discosta di poche centinaia di addetti rispetto al dato complessivo relativo al codice 362. 4 Il risultato di questi processi ha portato il settore dell’oreficeria a raggiungere, in termini di addetti occupati, altri settori in precedenza assai più rilevanti come ad esempio la maglieria e superarne altri come la pelletteria.

89

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1996 e 2001.

4.3.2. Il settore si è rafforzato? Processi di crescita dimen-sionale

A fronte del processo di crescita dell’occupazione non emergono, invece,

modificazioni nella struttura delle imprese. Il settore ha continuato a crescere mantenendo la propria caratteristica di forte presenza delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni.

Il confronto con i due censimenti precedenti (1991 e 1996) non fa emerge-re differenze rilevanti. Vi è una diminuzione del peso percentuale degli addetti che lavorano nelle imprese più piccole a favore soprattutto delle imprese me-die ma tale modificazione appare marginale alla luce del forte peso che ancora rivestono i soggetti collocati nella classe 1-49 addetti (tab. 12).

La dimensione media (addetti per unità locale) è solo di poco aumentata passando ad un valore di 4,6 addetti per unità locale.

Tab. 12 – Composizione per classe dimensionale 1991-1996-2001

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Classi 1991 1996 2001 UL (*) Addetti Dim.

medie UL Addetti Dim.

medie UL Addetti Dim.

medie 1-49 9.573 37.386 3.9 10191 38832 3.8 10703 42655 4.0 50-249 52 4.431 85.2 57 4654 81.6 72 5906 82.0 250 e più 1 723 723.0 1 636 636.0 2 775 387.5 TOTALE 9626 42540 4.4 10249 44122 4.3 10777 49336 4.6

Classi Var.% 1991-1996 Var.% 1996-2001 Var.% 1991-2001 UL Addetti Dim.

medie UL Addetti Dim.

medie UL Addetti Dim.

medie 1-49 6.5 3.9 -2.4 5.0 9.8 4.6 11.8 14.1 2.0 50-249 9.6 5.0 -4.2 26.3 26.9 0.5 38.5 33.3 -3.7 250 e più 0.0 -12.0 -12.0 100.0 21.9 -39.1 100.0 7.2 -46.4 TOTALE 6.5 3.7 -2.6 5.2 11.8 6.3 12.0 16.0 3.6

Composizione % addetti 1991 1996 2001 1-49 88% 88% 86% 50-249 10% 11% 12% 250 e più 2% 1% 2% TOTALE 100% 100% 100%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1996 e 2001. (*) UL, unità locali.

L’elevato peso delle imprese di piccole dimensioni è un elemento tipico della struttura produttiva italiana, in particolare nei settori tradizionali. In al-cuni settori della Moda, dove si è riscontrata una forte diminuzione dell’occupazione, si è assistito nella seconda metà degli anni ’90 ad una modi-ficazione che ha portato le imprese di piccole dimensioni a ridurre considere-volmente il loro peso. Tale fenomeno non si è ancora verificato nel campo dell’oreficeria, anche perché, fino alla data dell’ultima rilevazione censuaria, le sfide apportate dai paesi emergenti e i processi di terziarizzazione di alcune fasi produttive a maggiore intensità di lavoro hanno interessato marginalmen-te il settore. 4.3.3. Lo sviluppo delle aree distrettuali ed i processi di

concentrazione territoriale A fronte della crescita numerica (addetti ed unità locali) e della sostanziale

non modificazione delle caratteristiche strutturali del settore, emerge, invece, una modificazione dal punto di vista territoriale.

91

Nei dieci anni intercorsi tra una rilevazione censuaria e l’altra il settore è stato, infatti, interessato da un fenomeno di concentrazione territoriale. Le prime tre province specializzate nel settore orafo (Arezzo, Vicenza ed Ales-sandria) sono state protagoniste di una crescita occupazionale che le ha porta-te a incrementare la propria quota sul totale degli addetti del settore dal 58% del 1991 al 65% del 2001.

Tab. 13 – Le principali province di specializzazione (% degli addetti occupati nel settore orafo sul totale nazionale) Province 1991 1996 2001 Arezzo 19.8% 22.3% 23.6% Vicenza 21.9% 23.3% 23.6% Alessandria 16.8% 15.4% 17.6% Firenze 5.7% 5.1% 4.6% Milano 5.9% 4.9% 4.3% Napoli 2.3% 2.9% 2.1% Padova 2.4% 2.6% 2.1% Altre 25.3% 23.5% 22.0% TOTALE 100% 100% 100%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1991, 1996 e 2001. Tab. 14 – Composizione dell’occupazione per classi di addetti nelle principali province di specializzazione (1996-2001) Province 1996 2001 TOTALE Addetti 1-49 50-249 250 e

più 1-49 50-249 250 e più %

Arezzo 90% 4% 6% 89% 7% 4% 100% Vicenza 78% 22% 0% 76% 24% 0% 100% Alessandria 95% 5% 0% 89% 8% 3% 100% Firenze 89% 11% 0% 92% 8% 0% 100% Milano 89% 11% 0% 84% 16% 0% 100% Napoli 96% 4% 0% 95% 5% 0% 100% Padova 81% 19% 0% 73% 27% 0% 100% Altre 91% 9% 0% 92% 8% 0% 100% TOTALE 88% 11% 1% 86% 12% 2% 100%

Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1996 e 2001.

La visione provinciale consente, inoltre di mettere in luce come, a fronte della prevalenza delle imprese di piccole dimensioni, il polo orafo di Vicenza-Padova sia caratterizzato da una maggiore rilevanza dei soggetti medi (50-249

92

addetti) mentre emerge chiaramente la presenza delle imprese leader di Arez-zo e di Alessandria (UnoAErre e Damiani).

A livello provinciale, inoltre, sono visibili alcuni, sia pure ancora lievi, e-lementi di rafforzamento delle classi di addetti più grandi (da 50 addetti in su) che, invece, a livello nazionale non emergono. Dai dati della tab. 14, si nota ad esempio la diminuzione della quota di addetti occupati in soggetti molto piccoli nel caso di Vicenza e di Alessandria, anche se in quest’ultimo caso il dato del 2001 risulta ancora superiore a quello nazionale.

93

5. Le imprese orafe italiane: strategie e risultati

di Luana Carcano

5.1. Le aziende orafe: uniformità e differenze Le circa diecimila imprese orafe di produzione operanti sul territorio ita-

liano sono accomunate da alcune uniformità: • operano prevalentemente nella fascia media e medio-alta della produzione

di gioielleria ed oreficeria; • sono di dimensioni prevalentemente piccole; • sono in genere di proprietà e a conduzione familiare.

Accanto a tali uniformità, si manifestano anche importanti differenze che

devono essere prese in considerazione quando si analizza questo settore per meglio comprenderne la realtà. I criteri rilevanti per classificare le imprese orafe sono molteplici e la loro applicabilità pratica non risulta sempre facile a causa della difficoltà di accedere ad alcune informazioni. Trattasi di criteri quali: • le tecnologie; l’utilizzo di tecnologie diverse comporta strutture produttive

diverse. Le aziende di catene per esempio tendono ad essere più strutturate, più automatizzate, realizzando il ciclo di lavorazione completo, mentre le aziende che producono oreficeria/gioielleria (dove è ancora presente una certa manualità nelle lavorazioni) possono sia lavorare a ciclo completo sia far ricorso a terzisti specializzati, realizzando internamente le ultime fasi di lavorazione (finitura, pulitura…), che sono quelle a maggiore valore ag-giunto;

• il grado di integrazione verticale; si individuano sia aziende integrate ver-ticalmente, che svolgono al proprio interno tutte le fasi del ciclo produtti-vo, sia imprese a bassa integrazione, specializzate in una o più fasi di lavo-razione. Le aziende che si confrontano con il mercato, con propri punti vendita monomarca, tendono ad essere in numero limitato;

94

• il grado di diversificazione1; operano nel settore sia aziende specializzate nella produzione di determinati prodotti (oreficeria/gioielleria) o semilavo-rati orafi, sia aziende diversificate che hanno esteso il proprio campo d’azione ad altri business, come per esempio orologeria, pelletteria ed ac-cessori;

• le strutture proprietarie e i modelli manageriali; la maggior parte delle im-prese orafe in realtà tende ad essere a conduzione familiare. Sono meno numerose le strutture manageriali composte da professionisti esterni alla famiglia di controllo. Altri elementi che si possono prendere in considerazione per distinguere e

rappresentare sottoinsiemi di aziende orafe sono: le dimensioni (piccole, me-die e grandi, ovvero con più di 100 addetti), la localizzazione (in aree distret-tuali, come Valenza, Vicenza ed Arezzo o non distrettuali), la specializzazio-ne produttiva prevalente (catene, oreficeria, gioielleria ecc.).

Come accade per tutti gli insiemi di aziende che formano economie locali, anche le imprese orafe tendono ad essere caratterizzate da un intreccio di rela-zioni di cooperazione e concorrenza. La cooperazione risulta necessaria per il coordinamento delle attività sequenziali svolte dalle varie aziende e per mas-simizzare i vantaggi derivanti dall’essere parte di un sistema di imprese. La concorrenza invece è condizione strutturale per aziende che operano sugli stessi mercati rivolgendosi agli stessi clienti con prodotti similari.

Le dinamiche competitive delle aziende orafe possono essere lette anche attraverso l’analisi della struttura e delle performance economiche delle a-ziende stesse. Tale tipo di analisi si basa sui dati delle imprese rilevati dai bi-lanci ufficiali.

Il bilancio depositato dovrebbe fornire informazioni attendibili sulla situa-zione patrimoniale dell’impresa, la sua evoluzione, il risultato della gestione in un certo periodo, dando anche indicazioni sulle prospettive future di reddi-tività, di sviluppo e sul grado di rischio dell’attività. Le informazioni in esso contenute rappresentano dati ufficiali, disponibili e confrontabili e forniscono indicazioni preziose specie nelle comparazioni intertemporali e interaziendali.

È bene sottolineare che le valutazioni che vengono presentate risentono comunque degli eventuali limiti di attendibilità dei bilanci depositati, legati

1 Un’impresa viene definita diversificata quando opera in settori diversi (per esempio gioielleria e pelletteria). Un’azienda può diversificare in un settore similare (per esempio gioielleria ed orologeria) ed in questo caso si parla di diversificazione correlata; oppure può decidere di ope-rare in un settore più lontano da quello originario (gioielleria ed arredamento) ed in questo caso si parla di diversificazione non correlata. La diversificazione può avvenire per crescita interna oppure esterna, attraverso acquisizioni.

95

alla prassi di una non completa rilevazione in esso degli accadimenti aziendali avvenuti nel periodo in esame.

5.2. Gli effetti della crisi di mercato sulle imprese orafe ita-liane

I dati di bilancio relativi ad un ampio campione di imprese orafe italiane

consentono di declinarne le specificità, all’interno del più generale contesto di riferimento delineato nel capitolo precedente.

Il campione analizzato comprende esclusivamente società di capitali, a re-sponsabilità limitata o per azioni, la cui attività prevalente è la produzio-ne/lavorazione di gioielleria ed oreficeria. Sono state escluse dall’analisi, le aziende specializzate soltanto in una o più fasi di lavorazione (cosiddette “ter-ziste”) a causa delle notevoli differenze – in termini di volumi d’affari, di cicli produttivi e di mercati di sbocco serviti – tra queste e le aziende di produzione (branded o unbranded) che si rivolgono direttamente al mercato.

Il campione esaminato è rappresentato da un gruppo esteso (429 imprese) di cui sono disponibili i bilanci per il triennio 2001-20032. La tab. 1 riporta alcune statistiche descrittive del campione. Per mitigare gli effetti delle flut-tuazioni annuali del ciclo economico e delle politiche aziendali di rappresen-tazione in bilancio, per ciascun indicatore è stato calcolato il valore medio nel periodo 2001-2003. Sui valori medi sono poi state calcolate la mediana e i quartili.

Si è preferito usare come indicatore sintetico la mediana (anche detto “va-lore centrale”). La mediana rappresenta il valore associato all’osservazione che numericamente divide il campione (ordinato in modo non decrescente), in due sottogruppi di uguale numerosità: al primo appartengono tutte le aziende con valori uguali o inferiori alla mediana, al secondo quelle con valori supe-riori. Ad esempio, in un campione con 11 osservazioni ordinate in modo non decrescente, la mediana corrisponde al valore associato alla 6a osservazione. In pratica si ha il 50% di probabilità di avere un’osservazione di valore infe-riore o uguale alla mediana, il restante 50% superiore alla mediana. A diffe-renza della media, la mediana mitiga gli effetti di valori atipici o eccezionali, dando un quadro sintetico di riferimento più rappresentativo della generalità del campione. L’uso della mediana inoltre consente anche di utilizzare i quar-tili come ulteriori indicatori di sintesi. I quartili suddividono il campione in 4 sottogruppi di uguale numerosità. Il primo quartile è il valore associato all’osservazione che numericamente individua il primo 25% del campione, il

2 I dati sono stati forniti dal Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa.

96

secondo quartile corrisponde alla mediana, il terzo al 75% del campione, su un campione di 11 osservazioni, il primo quartile corrisponde al valore asso-ciato alla 3a osservazione, il terzo quartile al valore associato alla 9a osserva-zione. Questa tecnica consente di attenuare l’impatto dei valori delle aziende più grandi e di maggiori dimensioni inserite nel campione, sempre al fine di ottenere dati di sintesi per la pluralità di aziende e di comportamenti rappre-sentati nel campione stesso.

Come si nota, il campione di imprese è composto da imprese relativamente piccole (la mediana riporta un fatturato di 3,6 milioni di euro e di 31 addetti), anche se di dimensioni superiori rispetto alla media che emerge dai dati di censimento, illustrati nel capitolo precedente.

Il fatturato realizzato all’estero (dato purtroppo disponibile solamente per 37 imprese, ovvero il 10% del campione) è elevato, arrivando per l’ultimo quartile della distribuzione (ovvero per nove aziende) ad un valore superiore al 90%. Il costo unitario del lavoro varia dai ventiduemila euro del primo quartile ai trentamila del terzo.

Tab. 1 – Una descrizione del campione Variabili oggetto di analisi Campione Primo

quartile Mediana Terzo

quartile Totale attivo (migliaia euro) 429 1409 2602 5287 Fatturato (migliaia euro ) 429 1999 3668 7886 Numero dipendenti 168 21 31 58 Integrazione verticale (valore aggiunto/fatturato) (%)

429 12% 20% 29%

Export/fatturato (%) 37 42% 72% 91% Immobilizzazioni materiali nette pro capite (migliaia euro)

168 8.1 18.8 35.6

Immobilizzazioni materiali nette/ totale attivo (%)

429 5% 11% 21%

Costo medio unitario del lavoro (migliaia euro)

168 22.1 25.1 30.3

Magazzino/produzione (%) 429 8% 18% 36% Fonte: SDA Bocconi.

La composizione del campione è rappresentativa dell’universo delle azien-

de italiane di produzione, anche se sono relativamente più numerose le impre-se con sede nella provincia di Arezzo, che rappresentano circa un terzo del to-tale (tab. 2). Questo è coerente con la specializzazione produttiva del distretto (prevalentemente oreficeria industriale) che richiede un ciclo di lavorazione completo e industrializzato. Le aziende aretine tendono quindi ad avere un vo-lume d’affari maggiore e ad essere più strutturate.

97

Tab. 2 – Composizione del campione per località Campione Alessandria Arezzo Vicenza Altre località Totale Numerosità 72 132 117 108 429 % 17% 31% 27% 25% 100% Fonte: SDA Bocconi.

La tab. 3 mostra le performance delle imprese sia con riferimento alla cre-

scita (del fatturato e dell’attivo) sia ad una serie di indicatori finanziari3. Per quanto riguarda il fatturato, coerentemente con gli andamenti generali, il dato mediano registra una diminuzione del 12%, che tuttavia è inferiore a quella del comparto nel suo insieme. Il dato relativo all’attivo invece è positivo, in-dicando, come a fronte delle difficoltà incontrate sui mercati si sia messo in atto un processo di rafforzamento dal punto di vista patrimoniale che, pur non riguardando tutte le imprese (il primo quartile della distribuzione evidenzia, infatti, una diminuzione dell’attivo) sta comunque interessando un numero ampio di operatori.

Tab. 3 – Le performance delle imprese del campione (valori mediani) Indicatori economico/finanziari Primo quartile Mediana Terzo quartile Crescita totale attivo -6% 7% 24% Crescita fatturato -28% -12% 8% MOL(*)/fatturato 3% 6% 10% MOL/totale attivo 5% 9% 14% Redditività degli investimenti netti(ROI) -6% 1% 9%

Fonte: SDA Bocconi. (*) MOL= margine operativo lordo che rappresenta il risultato operativo di gestione.

Il margine operativo lordo (MOL) è dato dalla differenza tra il fatturato e il

costo di produzione (includendo anche il costo del lavoro) dei beni/servizi venduti. Rappresenta il risultato operativo della gestione. La percentuale di incidenza del margine operativo lordo sul fatturato rende possibile il confron-to tra il singolo dato aziendale e quello medio del settore al fine di esprimerne un giudizio di congruità. Questo confronto attraverso un indicatore sintetico consente inoltre di valutare la performance aziendale. In particolare, il secon-do ed il terzo quartile evidenziano valori positivi nella gestione dell’attività di realizzazione del prodotto decisamente superiori rispetto al primo.

Quanto alle performance finanziarie emerge una certa uniformità per quan-to riguarda i margini operativi, sia in percentuale del fatturato sia in percen-

3 Il dato riporta la crescita cumulata di fatturato e attivo tra il 2001 ed il 2003 mentre per gli indicatori finanziari le statistiche si riferiscono al dato medio dei tre anni (2001, 2002 e 2003).

98

tuale dell’attivo. Si evidenzia, invece, una vera e propria divaricazione per quanto riguarda l’indicatore della redditività degli investimenti netti (ROI). A fronte di un quarto delle imprese in esame che risulta avere una redditività complessiva, al netto delle imposte, inferiore o uguale a –6%, vi è un numero significativo di soggetti (rappresentato dal terzo quartile) che ottengono risul-tati decisamente positivi (con un ROI netto superiore o uguale al 9%).

Le performance appaiono diverse se si tiene conto della localizzazione ter-ritoriale delle aziende del campione. Questo risultato sembra essere legato non solo alla specializzazione produttiva prevalente, ma anche ad altri fattori. Coe-rentemente con un andamento delle esportazioni in lieve calo (si veda capitolo 4) ed una minore esposizione verso il mercato statunitense, le imprese localiz-zate nel distretto alessandrino di Valenza risultano avere sia un andamento del fatturato lievemente meno penalizzante sia, soprattutto, una redditività com-plessiva superiore. È da mettere in evidenza, comunque, che le imprese non appartenenti a distretti, registrano le performance migliori, ovvero un anda-mento negativo più contenuto, rispetto a quello delle imprese localizzate nei distretti storici di Alessandria, Arezzo e Vicenza.

Tab. 4 – Le performance delle imprese del campione per aree territoriali (valori mediani) Indicatori economico/finanziari Alessandria Arezzo Vicenza Imprese non

distrettuali Crescita totale attivo 10.2% 5.8% 6.0% 6.1% Crescita fatturato -11.1% -14.4% -13.1% -8.8% MOL/fatturato 9.0% 5.1% 5.1% 7.3% MOL/totale attivo 8.0% 10.6% 8.6% 7.5% Redditività degli investimenti netti 6.1% 1.3% -0.3% 2.4% Fonte: Sda Bocconi.

Da questa analisi, sembrerebbe emergere una perdita di competitività delle

realtà distrettuali italiane. La spinta all’innovazione nei modelli di business sembra essere maggiore nelle aziende esterne ai distretti che hanno saputo co-struirsi il proprio percorso anche allontanandosi dalle prassi e dalle consuetu-dini del settore. Il distretto sembrerebbe non aiutare nelle innovazioni radicali nel modo di competere necessarie in un momento di cambiamento. Rompere gli schemi consolidati sembra non appartenere “al dna” delle imprese di una realtà distrettuale.

5.3. Caratteristiche strutturali delle imprese orafe

99

Dall’analisi del conto economico si possono evidenziare, indipendente-mente dagli andamenti della congiuntura, le caratteristiche strutturali (sinte-tizzate in tab. 5) delle aziende orafe:

Tab. 5 – Alcune voci di conto economico (valori mediani)

Incidenza percentuale sui ricavi netti 2001 2002 2003

Acquisti di materie prime 61,4 59,7 58,9

Lavorazioni di terzi 18,1 19,0 20,0

Valore Aggiunto (*) 20,0 19,6 21,4

Costo del personale 11,6 12,3 14,4

Margine operativo lordo 6,9 6,0 5,7

Ammortamenti e accantonamenti 1,2 1,2 1,4

Risultato operativo (**) 4,9 4,0 3,8

Fonte: SDA Bocconi. (*) Valore differenziale tra i ricavi ed i costi sostenuti per beni e servizi necessari alla produzione. (**) Rappresenta la quota di profitto destinata a remunerare il capito-lo investito.

Dall’analisi precedente emerge:

• un’elevata incidenza (circa 60 % dei ricavi netti), per altro strutturale, del costo delle materie prime, ossia dei metalli preziosi e delle pietre, seppur in diminuzione nel periodo in esame;

• una rilevanza delle lavorazioni in conto terzi spiegata dal ricorso all’esternalizzazione di alcune fasi di lavorazione;

• come conseguenza dei primi due punti, una certa flessibilità della struttura dei costi; i costi fissi della gestione caratteristica (personale e ammorta-menti) rappresentano circa il 15% del fatturato ed in particolare gli ammor-tamenti non superano la soglia del 2%;

• una riduzione, nel triennio, del margine operativo lordo, che rappresenta, come detto, il risultato della gestione dell’attività di realizzazione del pro-dotto/servizio tipica dell’impresa, superiore al punto percentuale. Tale ri-duzione è da imputarsi prevalentemente sia al maggiore peso percentuale assunto dalle lavorazioni di terzi sia al maggiore costo del lavoro;

• un risultato operativo intorno al 4% in calo costante nel periodo in esame; ovvero la quota di profitto destinata a remunerare il capitale investito in un triennio si è ridotta di quasi un punto percentuale.

Tab. 6 – Alcune voci dello stato patrimoniale (valori mediani)

Attivo 2001 2002 2003

100

Immobilizzazioni immateriali Immobilizzazioni materiali Attivo finanziario immobilizzato

Totale attivo immobilizzato Rimanenze Crediti Disponibilità liquide Liquidità

Totale corrente

1%11%

0%16%28%43%

0%3%

84%

1%11%

0%16%29%43%

1%3%

84%

1%11%

0%15%29%41%

0%2%

85%Totale attivo 100,0% 100,0% 100,0%Passivo 2001 2002 2003Capitale versato Riserve Utile (perdita) di esercizio

Patrimonio netto Fondi per rischi e TFR Debiti consolidati

Totale capitale permanenti Debito entro esercizio successivo Altre passività

Totale passivo corrente

7%7%1%

20%5%4%

39%60%

1%61%

6%7%0%

20%5%5%

40%59%

1%60%

6%8%0%

20%6%7%

41%57%

0%59%

Totale passivo 100% 100% 100%

Fonte: SDA Bocconi.

Dall’analisi degli stati patrimoniali (tab. 6), emerge che le imprese orafe

sono caratterizzate da un livello di immobilizzazioni relativamente basso (con l’eccezione delle aziende che producono catene); gran parte dell’attivo è com-posto da attività liquide e magazzino che evidenziano un andamento parallelo al ciclo di fatturato. Il passivo è per lo più corrente e l’indebitamento a lungo termine rappresenta una percentuale ridotta sul totale delle fonti. La patrimo-nializzazione delle aziende sembrerebbe una conferma del prevalere del mo-dello “impresa povera famiglia ricca”4.

4 L’espressione è tratta da Demattè C., Corbetta G., I processi di transizione delle imprese fa-miliari, Mediocredito lombardo, 1993, § 2.5.2.: “La famiglia proprietaria preferisce aumentare la consistenza del patrimonio extra aziendale, magari da reimpiegare nell’impresa in tempi suc-cessivi sotto varie forme”.

101

5.3.1. Alcuni indicatori sintetici della validità della strategia aziendale

L’analisi degli indici di bilancio ci consente di valutare la validità della

strategia attuata dal campione delle imprese in esame. Si farà riferimento a quattro diverse tipologie di indici – definiti di liquidità, di solidità, di sviluppo e di redditività – che consentono di valutare la performance aziendale, met-tendone in luce le caratteristiche economico-finanziarie. La scelta di presenta-re questi indici è legata all’esigenza di contenere il numero di indicatori su cui focalizzare l’attenzione senza, però, compromettere una rappresentazione completa delle interrelazioni che li legano.

Per situazione di liquidità si intende la capacità dell’impresa di far fronte tempestivamente e con convenienza ai propri impegni scadenti nel breve ter-mine. Quanto maggiore è la grandezza degli indicatori che esprimono la situa-zione di liquidità di un’impresa (quoziente di liquidità, indice di disponibilità e capitale circolante netto), tanto più appare elevata la capacità (definita anche come grado di flessibilità monetaria) dell’impresa di cogliere opportunità (ad esempio ingresso in mercati esteri promettenti) che si possono presentare nel breve termine.

In tab. 7, gli indicatori di liquidità sono rappresentati attraverso il quozien-te di liquidità, l’indice di disponibilità ed il valore del capitale circolante netto. In particolare, il quoziente di disponibilità è dato dal rapporto tra attività cor-renti e passività correnti. Questo indicatore è considerato accettabile quando supera almeno l’unità. Il capitale circolante netto esprime il valore differen-ziale tra le attività correnti e le passività correnti.

Per solidità si intende invece la capacità patrimoniale dell’impresa di resi-stere e di assorbire fatti avversi rilevanti. Gli indici di solidità sono indicatori della capacità di investimento di lungo periodo, evidenziando il grado di di-pendenza dell’azienda da terzi ed il connesso rischio finanziario. In tab. 7 la situazione di solidità viene rappresentata dall’analisi del grado di indebita-mento, dell’indice di copertura delle immobilizzazioni e del margine di strut-tura. In particolare, il quoziente di indebitamento è un indicatore della struttu-ra finanziaria dell’azienda: quanto più è elevato, tanto meno tale struttura ri-sulta equilibrata, perché è maggiore la dipendenza da terzi finanziatori.

Gli indici di redditività rappresentano la capacità dell’azienda di produrre reddito, remunerando l’investimento. In tab. 7 sono rappresentati dai seguenti indicatori: tasso di rotazione degli investimenti, ROS, ROI e ROE. In partico-lare, il ROS (return on sales) rappresenta la redditività delle vendite mentre il ROI (return on investment) sintetizza la redditività delle attività fondamentali dell’azienda (ovvero la gestione caratteristica), indipendentemente dalle fonti

102

di capitale. Infine il ROE (return on equity) indica la capacità di remunerazio-ne del capitale di rischio.

Infine con il termine sviluppo si intende solitamente la capacità di cresci-ta dimensionale dell’impresa. Gli indicatori di sviluppo (o della dinamica delle dimensioni aziendali) sono quindi indici del successo competitivo re-gistrato da un’impresa e consentono di apprezzarne lo sviluppo della dimen-sione strutturale (tasso di variazione dell’attivo) e della dimensione operati-va (fatturato).

Tab. 7 – Alcuni indici delle imprese orafe italiane (valori mediani dell’intero cam-pione d’imprese)

Indicatori economico-finanziari 2001 2002 2003 Indici di liquidità Indice di liquidità (1) 4,5% 4,1% 4,2% Indice di disponibilità (2) 1,30 1,29 1,36 Capitale circolante netto (000 €) (3) 401 419 488

Indici di solidità 2001 2002 2003 Grado di indebitamento (4) 3,4 3,3 3,5 Indice di copertura delle immobilizzazioni (5) 1,115 1,114 1,113 Margine di struttura (6) 32 26 34

Indici di redditività 2001 2002 2003 Tasso di rotazione degli investimenti (7) n.d. n.d. n.d. ROS (8) 6,9% 6,0% 5,7% ROI 1 (9) n.d. n.d. n.d. ROI 2 (10) 11% 8% 6% ROE (11) 4,0% 1,9% 0,8%

Indici di sviluppo: 2002 2003 Tasso di crescita attivo totale 3,7%

1,6%

Tasso di crescita Patrimonio netto 1,7% 0,9%

Fonte: SDA Bocconi. Note: 1. liquidità (attività finanziarie + disponibilità liquide)/Totale passivo corrente; 2, Totale attivo corrente/Totale passivo corrente 3. Totale attivo corrente - totale passivo corrente 4. (De-biti consolidati + totale passivo corrente)/Patrimonio netto 5. Patrimonio netto/Totale attivo immobilizzato 6. Patrimonio netto - Totale attivo immobilizzato 7. Ricavi/Attivo netto 8. Mar-gine operativo lordo/Ricavi 9. Margine operativo lordo/attivo netto 10. Margine operativo net-to/(Immobilizzazioni immateriati e materiali + Rimanenze e crediti commerciali) 11. Margine operativo netto/Patrimonio netto.

103

Coerentemente con l’andamento generale del settore, le aziende del cam-pione evidenziano indici di sviluppo in diminuzione nel periodo in esame (per esempio, il tasso di crescita dell’attivo totale è sceso in un anno dal 3,7% all’1,6% e il tasso di crescita del patrimonio netto dall’1,7% allo 0,9%). Que-sto dato inoltre è da porsi in connessione con la riduzione della redditività e-videnziata dagli indicatori di redditività che mostrano un peggioramento del rendimento sull’investimento e sul capitale investito (il valore medio del ROI è sceso dall’11% al 6% nel periodo in esame e quello del ROE dal 4% all’08%).

Il settore sembra aver perso la sua attrattività, almeno per gli attori tradizio-nali, considerando invece che altri operatori di settori affini, come la moda e il design, hanno cominciato ad investire nel settore orafo proprio negli anni di maggiore difficoltà strutturale dello stesso, ottenendo soddisfacenti risultati.

Inoltre il tasso di crescita dei mezzi propri più basso del tasso di crescita dell’attivo evidenzierebbe una diminuzione della solidità e quindi della capa-cità di sviluppo; mentre gli indici di solidità, in apparente contraddizione, mo-strano invece valori sostanzialmente stabili nel periodo in esame, evidenzian-do un grado di dipendenza da terzi non particolarmente elevato. Sembrerebbe che le imprese abbiamo mantenuto, nel periodo in esame, la propria capacità di investimento nel lungo periodo, oltre che la capacità di far fronte agli im-pegni a breve.

Le aziende sembrano quindi aver conservato la solidità dal punto di vista finanziario, come evidenziano le performance finanziarie sintetizzate negli in-dicatori di liquidità e solidità, mentre invece hanno conosciuto un progressivo peggioramento dei propri risultati economici, come sottolineato dalle perfor-mance negative degli indicatori di sviluppo e di redditività.

Le aziende orafe sembrano aver perso la tensione alla crescita. Quest’analisi sugli indici andrebbe completata con una declinazione a li-

vello di singola impresa, mettendo i diversi indici in relazione tra loro e con la strategia aziendale attuata. Le scelte strategiche, a livello competitivo, hanno un impatto sulle decisioni di investimento e quindi incidono sul tasso di varia-zione del capitale investito, che a sua volta, incide sul grado di indebitamento e sul tasso di variazione dei mezzi propri. Eventuali decisioni di finanziamen-to possono incidere sia sul grado di indebitamento sia sul tasso di variazione dei mezzi propri. Prendendo per esempio le scelte di diversificazione, queste hanno un impatto sulle scelte di investimento e quindi sugli indici di sviluppo, di solidità e di redditività diverso in funzione della modalità di ingresso nel nuovo business prescelta, crescita interna o crescita esterna. Solo un’analisi quantitativa e qualitativa sulla singola realtà aziendale può consentire di met-tere in evidenza le relazioni tra gli indicatori e gli aspetti più qualitativi dell’analisi della strategia.

104

5.4. Le imprese nei diversi segmenti: performance di merca-to e finanziarie

Al di là del dato mediano risulta particolarmente interessante verificare le

caratteristiche e le performance delle imprese a seconda della tipologia di prodotto realizzata e della scelta di perseguire politiche di marca.

Per esplorare questi temi le imprese di maggiori dimensioni sono state rag-gruppate in sottogruppi diversi in funzione della specializzazione produttiva prevalente (catename, gioielleria, oreficeria) e dell’adozione o meno di strate-gie di sviluppo del brand (branded e unbranded). Le imprese classificate sono 102 e sono state distribuite in modo tale da formare cinque segmenti, come mostrato nella tab. 8.

Le aziende sono state inserite nelle diverse categorie di prodotto (catena-me, oreficeria, gioielleria) sulla base della specializzazione produttiva preva-lente. La distinzione tra unbranded e branded invece è stata fatta sulla base della riconoscibilità della marca aziendale da parte del consumatore finale ba-sandosi su ricerche esistenti in merito.

Tab. 8 – I segmenti identificati (numerosità del campione) Numerosità campione Branded Unbranded Totale Catename - 9 9 Gioielleria 13 6 19 Oreficeria 5 69 74 Totale 18 84 102 Composizione campione per tipologia produttiva Branded Unbranded Totale Catename - 11% 9% Gioielleria 72% 7% 19% Oreficeria 28% 82% 73% Totale 100% 100% 100% Composizione campione per strategia di brand Branded Unbranded Totale Catename - 100% 100% Gioielleria 68% 32% 100% Oreficeria 7% 93% 100% Totale 18% 82% 100%

Fonte: SDA Bocconi. Per quanto riguarda la produzione di gioielli e di oreficeria, la tab. 9 mo-

stra chiaramente l’importanza della marca per far crescere il fatturato. Anche in un periodo di forte sofferenza per il settore, come quello 2001-’03, le im-prese con un brand ben definito e riconosciuto sono state in grado di espande-

105

re i propri ricavi. Bisogna però tenere in considerazione che le aziende che perseguono una strategia di marca tendono a realizzare la maggior parte del proprio fatturato in Italia e, come visto in precedenza, il miglior risultato po-trebbe essere messo in relazione anche a questo aspetto. Il calo di fatturato e-videnziato dal comparto orafo italiano sembra infatti da attribuirsi in modo particolare alla riduzione delle vendite registrate sui mercati esteri.

Per quanto riguarda invece i produttori di catene non vi è la controprova dell’efficacia della marca, non essendo state rilevate aziende che perseguono tale strategia.

Tab. 9 – Crescita del fatturato per segmento (valori medi 2001-2003) Segmenti Branded Unbranded Totale Catename - -5.7% -5.7% Gioielleria 9.0% 2.9% 7.1% Oreficeria 3.3% -4.4% -3.9% Totale 7.4% -4.0% -2.0%

Fonte: SDA Bocconi. Al contrario, invece, il legame tra brand e redditività appare meno chiaro

(tab. 10)5. Se consideriamo la media dei tre anni (2001-’03) emerge, ad esem-pio, che il segmento che ha mostrato una redditività operativa migliore è quel-lo della gioielleria, sia branded che unbranded, mentre i produttori di orefice-ria e quelli di catename mostrano un dato mediano inferiore. Soprattutto le a-ziende di catename presentano strutturalmente una marginalità più bassa ri-spetto agli altri operatori del settore.

Tab. 10 – Redditività per segmento (valori mediani) Segmento BRANDED UNBRANDED Tipologia produttiva Gioielleria Oreficeria Gioielleria Oreficeria Catename MOL/fatturato 7.1% 2.8% 8.2% 3.8% 3.3% MOL/totale attivo 5.9% 4.7% 7.4% 8.5% 8.5% ROI 2.4% 1.2% 3.2% 1.9% 2.8%

Fonte: SDA Bocconi. Per quanto riguarda la redditività del capitale investito, addirittura, sembre-

rebbe emergere, nel periodo considerato, una relazione negativa con l’ado-zione di strategie di branding (efficaci, ma costose): se si considera il ROI, ad

5 Per quanto riguarda la redditività si è preferito utilizzare il dato mediano per la presenza di alcuni valori anomali ed eccezionali che rendono il dato medio di più difficile interpretazione.

106

esempio, il segmento delle aziende unbranded risulta avere una redditività su-periore ai produttori branded (sia di gioielleria che di oreficeria).

5.4.1. Caratteristiche strutturali delle imprese che perseguo-no una politica di marca

Data l’enfasi che in questi ultimi anni l’attuazione di una politica di mar-

ca ha avuto nel settore, in questo capitolo si analizzano le performance eco-nomiche e finanziarie delle imprese di marca incluse nel campione in esame, evidenziandone, laddove possibile, le differenze rispetto alle imprese un-branded.

Le imprese che perseguono una politica di marca tendono ad avere una maggiore intensità di immobilizzazioni immateriali e una minore intensità di immobilizzazioni materiali, coerentemente con la struttura produttiva flessibi-le di cui mediamente sono dotate. In genere, infatti, le aziende branded tendo-no a fare ampio ricorso a politiche di esternalizzazione di fasi di lavorazione a minor valor aggiunto.

Queste imprese hanno un costo del lavoro unitario maggiore (assunto co-me indicatore approssimativo del capitale umano) che indica, con buona ap-prossimazione, la maggiore strutturazione/managerializzazione in media pre-sente nelle aziende che perseguono una politica di marca.

Il maggiore costo del lavoro potrebbe però essere correlato anche alla pre-valente specializzazione produttiva nel segmento della gioielleria, caratteriz-zato da una maggiore incidenza di manodopera artigianale specializzata.

Tab. 11 – Valori mediani dell’intero campione d’imprese Indicatori economico-finanziari Numero Branded Numero Unbranded Totale attivo (migliaia euro) 18 18342 87 7210 Immobilizzazioni immateriali/ totale attivo (%)

18 2.4% 87 1.1%

Immobilizzazioni materiali nette/ totale attivo (%)

18 5% 87 13%

Leva finanziaria (%) 18 69% 87 60% Fatturato (migliaia euro) 18 19019 87 13484 Export/fatturato (%) 6 44% 18 88% Costo medio unitario del lavoro (migliaia di euro)

16 33.0 67 26.3

Integrazione verticale (valore aggiunto/fatturato) (%)

18 14.9% 87 11.0%

Fonte: SDA Bocconi.

107

Le aziende branded sembrano avere dimensioni maggiori e presentano un’incidenza dell’export sensibilmente inferiore. Tali aziende infatti tendono a concentrare maggiormente i propri investimenti sul mercato italiano; l’espansione internazionale viene perseguita solo dopo aver ottenuto l’affer-mazione del proprio marchio in Italia. Queste imprese inoltre tendono ad esse-re integrate verticalmente a valle con negozi monomarca e sono un po’ più in-debitate delle altre, conseguenza anche degli investimenti necessari per svi-luppare la politica di marca.

Dall’analisi di alcune voci di conto economico (tab. 12), emerge con chia-rezza la differenza di struttura adottata dalle aziende in funzione della strate-gia realizzata. Tab. 12 – Alcune voci di conto economico riferite ai cinque segmenti individuati (valore mediano 2001-2003) Incidenza percentuale sui ricavi netti

TotaleCampione

Branded Unbranded Gioielleria Oreficeria

Acquisti di materie prime e semilavorati

72% 59% 73% 58% 74%

Lavorazioni di terzi/servizi

16% 27% 13% 27% 16%

Costo del personale 7% 8% 6% 8% 6%

Fonte: SDA Bocconi. Le aziende che perseguono una politica di branding evidenziano un’in-

cidenza delle materie prime, pur se elevata, comunque di molto inferiore ri-spetto alla media del campione (59% verso 72%). Tale valore potrebbe essere comunque condizionato dai prezzi di vendita, tendenzialmente più alti, dei prodotti con pietre rispetto agli oggetti senza pietre. Queste aziende inoltre tendono a ricorrere maggiormente all’esternalizzazione delle lavorazioni, pre-valentemente a basso valore aggiunto, come evidenziato dal peso della voce lavorazione di terzi/servizi (27% verso il 16% del dato medio del campione).

L’incidenza del costo del personale tende ad essere maggiore nelle aziende branded, sia per la maggiore presenza di una struttura manageriale sia proba-bilmente per la specializzazione produttiva prevalente.

Dall’analisi in dettaglio delle stesse voci di conto economico, ma suddivise per tipologia produttiva (tab. 13), si evidenzia come l’incidenza delle materie prime risulti essere particolarmente rilevante per i prodotti di oreficeria bran-ded e per le catene. Questo elemento, in particolare assieme alla prevalenza del ricorso ad intermediari e grossisti per la vendita dei propri prodotti, spie-gherebbe anche la maggiore difficoltà evidenziata dalle aziende produttrici di catene nel perseguimento di una politica di marca.

108

Tab. 13 – Alcune voci di conto economico distinte per tipologia produttiva (valore mediano 2001-2003) Incidenza percentuale sui ricavi netti Campione Gioielleria Oreficeria Catene Presenza o assenza politica di marca B U B U Acquisti di materie prime e semilavorati 72% 54% 67% 81% 73% 80% Lavorazioni di terzi/servizi 16% 28% 17% 10% 17% 5% Costo del personale 7% 8% 8% 7% 6% 6%

Fonte: SDA Bocconi. Dai dati inoltre emerge un maggior ricorso all’esternalizzazione per la

gioielleria, soprattutto se di marca. Questo risultato è da ricollegare anche al carattere prevalentemente artigianale delle produzioni, su piccola scala, che richiede il ricorso a manodopera specializzata (per esempio nell’incassatura delle pietre). Infine, il costo del personale tende ad avere un impatto limitato nel caso della produzione di catene, prevalentemente meccanizzata.

5.5. Strategia, competitività e successo economico Le analisi svolte usando dati, medi o mediani, di campioni di aziende non

riescono a far emergere la varietà dei comportamenti dei singoli attori. È attraverso l’analisi dei dati di redditività delle singole aziende del cam-

pione che emerge con chiarezza come, a fronte di una situazione competitiva settoriale comune, le diverse scelte di posizionamento attuate dalle singole imprese hanno consentito ad alcune di percorrere strade di successo, mentre altre sembrano incontrare maggiori difficoltà in questo momento storico.

In questo paragrafo si vuole mettere in evidenza la relazione esistente tra le scelte di strategia e posizionamento attuate dalle imprese ed i risultati azienda-li conseguiti (non solo economico-finanziari in senso stretto, ma anche com-petitivi, ovvero di successo sul mercato di riferimento). L’obiettivo è quello di evidenziare come, indipendentemente dalla situazione generale di un settore, siano le scelte aziendali a condizionare i risultati conseguiti dal-l’azienda stes-sa e a decretarne il successo (o l’insuccesso) nel tempo.

Per poter approfondire questa relazione, verranno analizzate le scelte strate-giche attuate dalle aziende operanti nel settore, anche in termini di percorsi evo-lutivi. Il focus dell’analisi si sposta quindi in questa parte sulla singola realtà imprenditoriale, per poter indagare e comprendere le cause del successo o dell’insuccesso evidenziandone quindi anche le necessità di cambiamento. Non si può in questo caso fare a meno di ripercorre la storia dell’azienda e del setto-re; tale prospettiva consente di ricostruire i percorsi evolutivi contribuendo a spiegare come e perché quell’azienda sia riuscita ad occupare certe posizioni.

109

Il punto di partenza della metodologia proposta è rappresentato dalla rileva-zione e dalla valutazione dei risultati conseguiti dalle singole imprese sia di mercato (risultato competitivo) sia reddituali (risultato economico-finanziario).

La matrice proposta (Mazzola, 1996, fig. 1) consente di esprimere un giudi-zio sulla validità della strategia competitiva attuata dalla singola azienda valuta-ta attraverso il confronto con l’evoluzione dei risultati reddituali e competitivi conseguiti dall’insieme delle aziende assunto come campione. In linea generale, con riferimento alla dimensione competitiva del successo, il giudizio viene e-spresso sulla base di manifestazioni rilevabili a livello di risultati (come la quota di mercato assoluta o relativa o il grado di copertura del mercato) e non sulla base dei singoli comportamenti. La dimensione reddituale del successo viene valutata attraverso l’indicatore della redditività del capitale investito netto (ROI).

Fig. 1 – La matrice diagnostica: una chiave di analisi

Alti

Strategia realizzata parzialmente valida

II

Strategia realizzata valida

I

Ris

ulta

ti co

mpe

titiv

i

Bassi

IVStrategia realizzata mediocre

III Successo economico ga-rantito da condizioni e-sterne favorevoli o dallo sfruttamento del patri-monio aziendale

Bassi Alti

Risultati reddituali

Fonte: Mazzola, 1996.

Le imprese che hanno successo sia competitivo che reddituale (quadrante

I), sono riuscite a realizzare una strategia valida, ovvero hanno saputo identi-ficare un segmento di mercato a cui rivolgersi, costruendo un vantaggio ri-spetto ai concorrenti in termini di sistema di prodotto che viene offerto al segmento di consumatori identificato; ed infine si sono dotate di una struttura ben dimensionata, investendo nello sviluppo di competenze chiave per il bu-siness in cui competono.

Diverso è il caso invece delle aziende che evidenziano un sostanziale suc-cesso reddituale senza però conseguire una rilevante affermazione sul mercato

110

(quadrante III). Condizioni esterne favorevoli (come una posizione di vantag-gio nel canale distributivo, barriere legislative favorevoli, ecc.) tendono a faci-litarne la strategia aziendale.

Invece le imprese che hanno successo competitivo ma non economico (quadrante II), presentano una strategia definita, anche complessa, in termini di segmenti di mercato serviti, sistema di prodotto offerto e struttura aziendale che consente di ottenere il successo di mercato. La mancanza di risultati eco-nomici però evidenzia, nella realizzazione della strategia, incoerenze interne, come per esempio un differenziale di qualità dei prodotti non adeguatamente valorizzato in termini di prezzo di vendita dei prodotti stessi o ancora uno squilibrio tra il segmento di mercato a cui l’azienda vuole rivolgersi e la capa-cità produttiva dell’azienda stessa.

Infine le aziende che non hanno successo né sul piano competitivo né su quello economico (quadrante IV) evidenziano come il mercato di riferimento non gli riconosca una “ragion d’essere”6. Manca validità nell’idea strategica alla base dell’impresa.

Il campione preso in esame è costituito dalle prime cento imprese (appar-tenenti al macrocampione di 429 aziende analizzate in precedenza), con un fatturato 2003 superiore ai 7 milioni di euro.

Nel caso specifico, i risultati reddituali sono stati apprezzati attraverso il rapporto tra la redditività del capitale investito netto (ROI) dell’azienda e la redditività media del campione nei tre anni in esame (2001-2003). I risultati competitivi vengono analizzati attraverso la variazione della quota di mercato relativa, misurata come la variazione del fatturato della singola azienda rispet-to ai ricavi totali delle imprese del campione, considerati nell’analisi come approssimazione del mercato di riferimento. Un’azienda che, nel periodo in esame, evidenzia un aumento di fatturato superiore rispetto alle altre aziende del campione, registrerà una variazione positiva della quota di mercato relati-va. Data l’elevata frammentazione del settore, si è scelto di non utilizzare co-me indicatore la quota di mercato media del campione. Tale dato infatti non avrebbe consentito di evidenziare strategie di successo focalizzate su nicchie di mercato.

In ottica dinamica (ovvero nei diversi anni considerati), uno spostamento nella matrice verso destra deriva da una crescita (o diminuzione) annua del ROI della singola impresa superiore (o inferiore) a quella dell’intero campio-ne; uno spostamento verso l’alto si registra quando il tasso di crescita (o ridu-zione) del fatturato annuo di una singola impresa è superiore (o inferiore) al tasso di crescita (o riduzione) del fatturato dell’intero campione.

6 Vittorio Coda “ La valutazione della formula imprenditoriale”, Sviluppo e Organizzazione, n. 82, 1984.

111

La fig. 2 illustra il posizionamento delle aziende orafe del campione rispet-to ai tre anni oggetto di analisi. L’inserimento all’interno della matrice dia-gnostica ci consente di identificare le diverse classi di aziende e di proporre alcune prime ipotesi in merito alle scelte competitive attuate dalle stesse.

Le aziende presenti nel quadrante in alto a destra (il 37% delle aziende del campione) sono caratterizzate da risultati reddituali superiori alla media del campione e da risultati competitivi elevati (quadrante I). Si tratta, in prima ana-lisi, di aziende che operano in contesti di mercato sufficientemente ampi all’interno dei quali hanno generato un vantaggio competitivo valido e ricono-sciuto come tale dal mercato, oppure che operano in ambiti ristretti ma con una strategia di focalizzazione riconosciuta dal mercato e remunerata. Con riferi-mento alla dimensione, le imprese più grandi di questo quadrante sono realtà strutturate, che stanno perseguendo una politica di marca, mentre le imprese di dimensioni più contenute, hanno saputo costruirsi una politica di focalizzazione sostenibile nel tempo che ha assicurato loro buoni risultati. Con riferimento alla segmentazione precedentemente introdotta, si ritrovano in questo quadrante sia aziende della gioielleria sia dell’oreficeria. Sono imprese che in genere hanno saputo delimitare il proprio ambito competitivo, si sono organizzate e strutturate per competere con successo nel segmento individuato offrendo il sistema di prodotto richiesto dalla clientela a cui prevalentemente si rivolgono.

Un buon numero di aziende (pari al 26% del campione) presenta risultati competitivi soddisfacenti, ma risultati reddituali inferiori alla media del cam-pione (quadrante II). In questo caso si tratta di aziende che finora non sono state in grado di esprimere un vantaggio competitivo tale da poter essere pre-miato dal mercato oppure sono aziende che perseguono vantaggi di costo con una struttura non adeguata ed eccessivamente costosa o ancora aziende che stanno perseguendo una politica di marca e di sviluppo (prevalentemente di gioielleria) e per questo risultano penalizzate rispetto ai risultati reddituali. Sinteticamente, si è in presenza di imprese la cui strategia evidenzia delle in-coerenze interne o non è ancora stata pienamente realizzata.

Nel terzo quadrante, in basso a destra, si ritrovano le imprese (pari al 17% delle aziende del campione) che evidenziano risultati reddituali superiori alle media, pur in presenza di risultati competitivi inferiori. Il successo in questo caso sembra essere garantito dallo sfruttamento del patrimonio aziendale e delle posizioni acquisite. A questo quadrante appartengono però anche produt-tori in conto terzi, di medie dimensioni, che propongono una propria collezio-ne sul mercato. In questo caso, il risultato sconta la prevalente competenza produttiva e la dispersione di risorse su due business diversi.

Infine relativamente numerose (pari al 20% del campione esaminato) sono anche le imprese collocate nel quarto quadrante, che evidenziano sia risultati reddituali che competitivi inferiori alla media del campione. Si tratta di azien-

112

-1,0%

-0,8%

-0,6%

-0,4%

-0,2%

0,0%

0,2%

0,4%

0,6%

0,8%

1,0%

-30,0% -20,0% -10,0% 0,0% 10,0% 20,0% 30,0% 40,0%

AltroCatenameOreficieriaGioielleria

ROI Medio 2001-2003

Varia

zion

e qu

ota

di m

erca

to 2

003-

2001

Quadrante II Quadrante I

Quadrante IV Quadrante III

de orafe che hanno attuato una strategia di imitazione di altre aziende, oppure che non hanno saputo costruirsi una strategia di differenziazione. Tenden-zialmente di medie dimensioni, offrono prevalentemente un prodotto di orefi-ceria, di livello medio, indifferenziato.

Fig. 2 – I risultati conseguiti dalle imprese del campione Fonte: SDA Bocconi.

5.5.1. Alcuni percorsi evolutivi Da un punto di vista metodologico, dopo aver posizionato le aziende del

campione nella matrice, si è cercato di analizzare i motivi del posizionamento stesso, evidenziandone i percorsi di crescita e di crisi. In chiave prospettica, è rilevante valutare se il posizionamento conseguito sia mantenibile o migliora-bile nel tempo. Per esempio, un posizionamento di successo, in un dato mo-mento, potrebbe essere minato da minacce future che richiedono all’azienda un ripensamento della propria strategia. Se tale cambiamento non venisse at-tuato, l’azienda potrebbe trovarsi coinvolta in un percorso di crisi che potreb-be minacciarne la sopravvivenza.

I dati a disposizione hanno permesso di ricostruire i percorsi evolutivi di singole imprese, rappresentate nella fig. 2. Di seguito si presentano alcuni casi

113

emblematici che possono essere utili per la riflessione strategica degli im-prenditori del settore.

La fig. 3 esprime un percorso tipico di una “strategia di focalizzazione”di nicchia: l’ambito dell’attività è focalizzato su un determinato segmento di prodotto, pur operando in un ambito geografico ampio. L’azienda, fondata negli anni ’70 e localizzata nel distretto arentino, è di medie dimensioni (50 dipendenti nel 2003). Ha saputo crescere in termini di fatturato (quasi raddop-piato nel periodo in esame), conseguendo risultati reddituali superiori alla media (anche se in calo) pur rimanendo focalizzata nel proprio ambito di atti-vità – produzione di accessori (chiusure per collane, bracciali ed orecchini) per il settore orafo – anche in un momento in cui tale segmento è messo sotto pressione dalla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro, grazie al valore aggiunto apportato alle proprie produzioni.

Fig. 3 – Percorso di focalizzazione

1998

19992000

2001

2002

2003

10000

15000

20000

25000

30000

20% 25% 30% 35% 40% 45% 50%ROI

Fattu

rato

Fonte: SDA Bocconi.

L’azienda ha infatti saputo innovare il proprio processo produttivo; attra-

verso un ciclo di lavorazione completamente automatizzato e sfruttando le possibilità offerte dalla tecnologia CAD-CAM è in grado di realizzare oggetti di diverse dimensioni, stili e materiali (oro e placcato oro, argento, ottone, pla-tino). L’innovazione, in questo caso di processo, sembra aver consentito all’azienda di mantenere le proprie quote di mercato, in un ambito sempre più competitivo.

114

L’azienda infatti evidenzia, nel periodo in esame, un ROI medio elevato considerando che il dato mediano del campione è stato pari a circa il 6% nel 2003.

Le figg. 4 e 5 invece rappresentano due percorsi di crescita di differente in-terpretazione.

La fig. 4 mostra un percorso di crescita sostenuto sia dal punto di vista del fatturato che dei risultati reddituali. Si tratta di un’azienda di grandi dimensio-ni per il settore (circa 250 dipendenti), non localizzata in un’area distrettuale. L’impresa – specializzata in oreficeria artigianale – ha negli anni in analisi consolidato la propria strategia di marca, introducendo nel settore il concetto della “collezione” mutuato dalla moda. La costruzione dell’identità di marca è stata sostenuta dall’apertura di negozi monomarca e corner e da una coerente strategia di comunicazione. Lo sviluppo, strutturale e manageriale, del-l’azienda è stato accompagnato anche dall’introduzione di logiche di business e sviluppo prodotto proprie di altri settori ad alta intensità simbolica. L’azienda è rimasta focalizzata sul proprio core business, ovvero oreficeria, con limitate diversificazioni, in segmenti correlati (orologeria).

Fig. 4 – Percorso di crescita

1998

1999

2000

2001

2002

2003

50000

55000

60000

65000

70000

75000

80000

5% 10% 15% 20% 25% 30% 35%ROI

Fattu

rato

Fonte: SDA Bocconi.

115

Il secondo percorso di crescita invece rappresenta una differente strategia che ha consentito di ottenere buoni risultati competitivi e reddituali, anche se quest’ultimi inferiori ai primi. È un’azienda, fondata negli anni’60, di medio- piccole dimensioni (circa 25 dipendenti), a carattere familiare, specializzata nella produzione di gioielleria di fascia alta, collocata in uno dei distretti pro-duttivi. L’azienda fa della qualità delle pietre preziose selezionate e dei pro-cessi di finitura manuale i propri punti di forza.

Nel periodo in esame, ha iniziato a sostenere il proprio prodotto con una politica di marca, supportata da forti investimenti in comunicazione, con la presenza sulle principali riviste italiane femminili, che parzialmente potrebbe-ro giustificare i risultati reddituali in decrescita. Inoltre di recente, l’azienda ha introdotto una seconda linea di prodotti “più accessibili” (con prezzi infe-riori ai mille euro), destinati ad un segmento di mercato più giovane, pur nel rispetto della filosofia aziendale: si tratta di prodotti di mini gioielleria, carat-terizzati dalla presenza di pietre preziose di dimensioni più contenute, ma di alto livello qualitativo. L’azienda, non ha attualmente negozi di proprietà, ma i propri prodotti sono presenti in circa un migliaio di punti vendita, anche a livello internazionale.

Fig. 5 – Percorso di crescita

1998 1999

20002001

2002

2003

10000

12000

14000

16000

18000

20000

22000

24000

26000

1,0% 2,0% 3,0% 4,0% 5,0% 6,0% 7,0% 8,0%ROI

Fattu

rato

Fonte: SDA Bocconi.

116

Le figg. 6 e 7 invece rappresentano due percorsi di crisi. Il primo si riferi-sce ad un’azienda, sul mercato dagli anni’80, di medie dimensioni (60 dipen-denti circa), operante in uno dei distretti industriali e specializzata nella pro-duzione di oreficeria industriale. Da una produzione artigianale specializzata, è passata negli anni ad una lavorazione prevalentemente meccanizzata, per-dendo così probabilmente uno dei suoi punti di forza, ovvero il legame con la competenza chiave dell’azienda. Nel periodo in esame, la perdita di fatturato (quasi dimezzato) si collega anche a risultati reddituali inferiori alla media.

Fig. 6 – Percorso di crisi

1998

1999

2000

2001

2002

2003

30000

40000

50000

60000

70000

9% 11% 13% 15% 17% 19% 21%ROI

Fattu

rato

Fonte: SDA Bocconi.

La produzione di articoli “indifferenziati”, necessaria per sostenere i volumi

di produzione richiesti da una struttura più industrializzata, sembra aver incon-trato difficoltà sempre più crescenti nel mercato internazionale non potendo più godere di vantaggi collegati al Made in Italy. Una strategia basata sui volumi e sui costi non sembra più sostenibile in questo momento storico. Per avere suc-cesso, diventa importante riuscire a differenziarsi anche in un segmento “più di volumi” come quello della produzione di catene. Inoltre l’azienda attualmente distribuisce i propri prodotti esclusivamente attraverso intermediari (grossisti ed aziende di import-export), rivolgendosi prevalentemente al mercato nord ameri-cano. La mancata conoscenza del cliente finale di riferimento, che deriva da un

117

tale politica, e la focalizzazione su un mercato di sbocco dove la concorrenza dei produttori a più basso costo del lavoro si fa maggiormente sentire, comple-tano il quadro del percorso involutivo presentato.

Il secondo percorso mostra invece un’azienda della gioielleria di fascia al-ta, di medie-grandi dimensioni (circa un centinaio di dipendenti) con una pro-pria politica di marca, che sta conoscendo un momento di difficoltà, con ritor-no del fatturato ai valori del 1998 e con risultati reddituali negativi. L’azienda ha saputo costruirsi nel tempo un’immagine di marca consolidata attraverso l’offerta di collezioni con una chiara identificazione stilistica e supportate da un’efficace comunicazione pubblicitaria. I prodotti e la comunicazione stessa sono fortemente identificati con la figura dell’imprenditore che è anche il cre-atore delle collezioni.

L’azienda ha di recente aperto negozi monomarca in Italia e nel mondo, per sostenere la propria immagine anche presso il consumatore finale.

Le relativamente contenute dimensioni strutturali sembrerebbero essere state un freno alla crescita generando un loop negativo sia in termini di merca-to sia reddituali. La sola strategia di marca di per sè non è garanzia di succes-so, se non è supportata da una serie di elementi, tra cui anche l’evoluzione della struttura aziendale.

Fig. 7 – Percorso di crisi

1998

1999

2000

2001

2002

2003

15000

17000

19000

21000

23000

25000

27000

-3% 2% 7% 12% 17% 22% 27% 32%ROI

Fattu

rato

Fonte: SDA Bocconi.

118

Questi esempi sintetici dimostrano che le singole imprese possono adottare strategie molto differenti, pur se parte di uno stesso settore, da cui derivano risultati competitivi ed economici molto diversi pur nello stesso periodo stori-co. In un momento di settore favorevole, è relativamente facile per un’azienda aver successo anche solo con una strategia imitativa o talvolta anche senza una strategia. In un settore maturo, come quello orafo, tali politiche non sono più sufficienti per sopravvivere. Diventa necessario dotarsi di una strategia definita (di differenziazione ampia o focalizzazione) per assicurarsi quel van-taggio che rappresenta la maggior garanzia di continuità aziendale. Un’azienda di successo è tale se è in grado di essere redditizia e remunerativa per un lungo periodo di tempo.

5.6. Riflessioni conclusive Ogni imprenditore o team manageriale aspira ad ottenere successo attra-

verso la propria attività. Possono esserci però modalità molto diverse di con-cepire e perseguire il successo: potrebbe essere semplicemente lo sfruttamento di breve di un’opportunità sul mercato o ancora la capacità di cogliere un momento favorevole per entrare in un settore e poi svilupparsi e consolidarsi o ancora potrebbe essere la costruzione di un vantaggio rispetto ai concorrenti, sostenibile nel tempo e duraturo.

Il successo a lungo termine, che dovrebbe rappresentare il fine ultimo di ogni attività imprenditoriale, si costruisce con continuità attraverso un cam-mino di apprendimento e cambiamento continuo. I marchi storici della gioiel-leria competono sul mercato con successo spesso da più di un secolo.

Come emerge dall’analisi precedente, anche in una situazione struttural-mente non favorevole, si ritrovano aziende che hanno saputo svilupparsi e crescere, mentre altre, che non hanno colto i processi di cambiamento in atto, vedono progressivamente peggiorare i propri risultati, sia competitivi sia red-dituali.

Per prosperare, un’azienda deve riuscire a costruirsi una strategia coerente, attraverso l’identificazione di un segmento di mercato di riferimento a cui of-frire una “soluzione di prodotto” adeguata (composta non solo dal prodotto di per sé, ma anche da tutti gli elementi che influenzano l’esperienza d’acquisto ed anche di consumo del prodotto stesso) attraverso una struttura aziendale coerente con il posizionamento e dotata delle risorse e competenze necessarie per operare nel segmento identificato. L’azienda deve quindi compiere delle scelte in merito al mercato in cui operare, al sistema di prodotto che vuole of-frire e alla struttura di cui dotarsi. È la coerenza fra queste scelte che assicura all’azienda il successo, non elementi esterni favorevoli (andamento favorevole

119

del settore, protezioni legislative ecc.), che possono si facilitarlo ma non so-stenerlo nel tempo.

Risultati economici superiori rispetto ai concorrenti scaturiscono dalla ca-pacità dell’azienda di differenziare il proprio sistema di prodotto, ma anche dalla modalità di svolgimento delle attività aziendali7, rispetto ai propri con-correnti di riferimento. Le manifestazioni dei risultati aziendali tendono ad emergere lentamente, condizionate anche dall’andamento del settore, ma una volta che si evidenziano, soprattutto se negative, hanno un impatto importante e non solo sulla singola azienda. L’analisi delle relazioni tra strategia e risulta-ti conseguiti diventa quindi un’importante strumento di analisi e diagnosi an-che in chiave prospettica.

7 P. Russo, Posizionamento strategico e risultati aziendali, Egea, 2004.

121

6. La segmentazione del settore di Antonio Catalani e Paola Varacca Capello

Premessa

Il settore orafo è costituito da un grande numero di aziende, prevalente-mente di dimensioni contenute, caratterizzate da profili competitivi assai vari. Inoltre l’oreficeria e la gioielleria comprendono tipologie di prodotti molto diverse l’una dall’altra.

Per ragionare in termini strategici su questo settore è quindi necessario scomporlo in segmenti omogenei, ovvero in business specifici, identificando le arene competitive nelle quali si svolge un confronto diretto tra gli attori del sistema. Sarà così possibile individuare gruppi di aziende operanti nei singoli segmenti che condividono problemi e per le quali è possibile individuare per-corsi di consolidamento.

La finalità prima è quindi quella di proporre una matrice di segmentazione, che riesca ad interpretare la ricchezza e la complessità del settore. Il capitolo si pone anche l’obiettivo di illustrare una serie di concetti, anche per condivi-dere, sul piano terminologico, le definizioni utilizzate.

6.1. La segmentazione

Prima di considerare possibili criteri di suddivisione degli attori del settore è necessario precisare il significato di segmentazione. È possibile infatti seg-mentare sia il settore che la domanda.

Segmentare il settore significa individuare comparti omogenei (Porter, 1987), quindi distinguere, attraverso ad esempio la classificazione delle tipo-logie di prodotto, arene competitive diverse, caratterizzate da fattori critici di successo specifici.

122

Segmentare la domanda significa individuare gruppi di consumatori omo-genei1 secondo criteri ritenuti rilevanti per le scelte e i comportamenti di ac-quisto. In prima approssimazione le modalità di segmentazione della domanda si rifanno a criteri descrittivi o comportamentali.

Anche per quanto riguarda le aziende operanti in un settore è necessario, nel caso in cui esse presentino profili competitivi differenti (dal punto di vista della dimensione, del livello di integrazione, dell’ampiezza del portafoglio, dei vantaggi competitivi perseguiti, ecc…), tentare di individuare dei rag-gruppamenti strategici (Porter, 1982), ovvero insiemi di aziende che perse-guono strategie simili2.

Diverso è il concetto di posizionamento: ”il processo di posizionamento riguarda la collocazione del sistema di prodotto, o meglio della marca, all’interno di un sistema definito di percezioni del target selezionato, con l’obiettivo ultimo di generare una differenziazione, possibilmente sostenibile e duratura, tra l’attività dell’azienda e quella dei concorrenti” (Saviolo e Te-sta, 2000).

Con l’espressione mappa di posizionamento si intende quindi una rappre-sentazione che mostri come sono collocati i sistemi di offerta o le marche pre-senti in un settore/segmento, secondo le valutazioni di un target di consumato-ri, ricorrendo a variabili di differenziazione percepibili dal mercato.

La finalità del capitolo è quella di proporre una matrice di segmentazione del settore con riferimento ai sistemi di prodotto delle aziende in esso operan-ti. Questa scelta scaturisce dal fatto che l’individuazione di segmenti rende più semplice un’eventuale analisi del posizionamento poiché stabilisce dei criteri di base per collocare il prodotto e la marca, consente quindi in maniera più mirata di suggerire raccomandazioni in merito alle scelte strategiche praticabi-li partendo dal posizionamento attuale.

D’altra parte ricordiamo che nello sviluppo di questo libro abbiamo assun-to, attraverso i focus group, il punto di vista degli operatori del settore per analizzare la cultura, i modelli organizzativi ed i comportamenti, le dinamiche ed i fenomeni che stanno caratterizzando il settore orafo italiano, alla luce di una serie di dati che lo descrivono e consentono una interpretazione di tipo quantitativo. Non disponiamo quindi di analisi sui comportamenti dei consu-matori, ma possiamo ipotizzare di interpretarne dinamiche e bisogni conside-randone i comportamenti d’acquisto.

1 La letteratura sulla segmentazione è molto vasta. Citiamo Kotler P., Armstrong G., Saunders J., Wong V., (2001), I principi di marketing, Isedi, Torino. In bibliografia sono indicati altri testi di riferimento. 2 Per un’analisi dei raggruppamenti strategici nel settore si veda il capitolo 1 del libro: L. Car-cano, E. Corbellini, G. Lojacono, P. Varacca Capello, (2002), Il settore orafo tra tradizione e innovazione, Etas, Milano.

123

6.2. Le variabili per la segmentazione Le variabili che si utilizzano per l’individuazione dei segmenti sono classi-

ficate in letteratura (Porter, 1987): fanno riferimento alla varietà di prodotto, al tipo di acquirente e di canale, alla collocazione geografica dell’acquirente. Qui si considerano direttamente quelle più rilevanti per il settore: il tipo di materiale e la presenza di pietre preziose, il prezzo, lo stile, la marca, il tipo di prodotto e le funzioni d’uso, le scelte di canale e i tipi di punti vendita.

Tipo di materiale e presenza di pietre preziose. Questa è la variabile se-

condo la quale il settore è tradizionalmente suddiviso: si considerano i mate-riali non nobili (ad esempio l’acciaio), i meno nobili (argento, pietre dure), poi i monili di oro o di platino (distinguendo tra oreficeria industriale – nel cui ambito è rilevante la produzione di catene – e artigianale), per poi passare alla gioielleria (con pietre), divisa in mini-gioielleria e gioielleria vera e propria. L’utilizzo di materiali non nobili è tipico della cosiddetta bigiotteria, che può essere ripartita in due grandi famiglie di prodotto: la bigiotteria di imitazione e quella “fantasia”. La prima riproduce, in metalli non nobili e con pietre sinte-tiche, i veri gioielli. La seconda, utilizzando materiali di vario genere, dalle resine, al vetro, all’osso, alla madreperla, realizza monili di fogge e colori molto vari, in cui la funzione ornamentale e di accessorio moda è assoluta-mente predominante. Vi è un’ulteriore categoria di monili, che si distinguono dalla bigiotteria perché utilizzano pietre naturali soprattutto grezze e a volte argento, con lavorazioni assolutamente artigianali: si tratta del cosiddetto pro-dotto etnico o di artigianato locale.

Un aspetto assai rilevante per questi prodotti è la considerazione del canale di vendita. La bigiotteria e i prodotti “etnici” non vengono infatti venduti nelle gioiellerie, ma nelle profumerie e in negozi specializzati, che trattano spesso altre categorie merceologiche (accessori vari e abbigliamento), o addirittura in altri canali (mercatini ecc…). Saranno per questa ragione esclusi dalla nostra analisi, che si concentrerà sugli articoli comunque venduti attraverso il canale tradizionale del prodotto orafo e di gioielleria. In questo senso invece saranno compresi tutti quegli articoli in cui la materia prima prevalente è l’acciaio (magari con dettagli e particolari in oro), e che vengono comunque distribuiti attraverso le gioiellerie.

Il prezzo è una variabile fondamentale per la segmentazione, esistono tut-

tavia una serie di limiti al suo utilizzo, legati all’individuazione dei segmenti omogenei e successivamente alla collocazione del portafoglio prodotti delle singole aziende nei segmenti individuati.

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Abbiamo preferito utilizzare descrizioni quali: accessibile, medio, alto (an-che lusso/prestigio) per una serie di motivi. In primo luogo il prezzo (ad e-sempio 200 euro) o gli intervalli di prezzo (da 150 a 250 euro) non sono effi-caci perché portano a collocare nello stesso segmento prodotti per loro natura diversi, non si può prescindere infatti dalla distinzione tra anelli, orecchini, ciondoli, bracciali e girocolli, con o senza pietre preziose. Inoltre la valutazio-ne di un prezzo (in termini puntuali o come fascia) è relativa all’acquirente, al suo livello di reddito e all’occasione di acquisto. Il prezzo riveste certamente un ruolo fondamentale, soprattutto per i consumatori a più basso reddito.

Dobbiamo poi sottolineare che vi sono aziende che offrono collezioni ab-bastanza omogenee dal punto di vista del livello di prezzo e altre che hanno un’offerta molto ampia, che spazia da articoli “accessibili” a gioielli molto co-stosi (ad esempio Tiffany). Una corretta segmentazione delle aziende sulla ba-se del prezzo dovrebbe partire dai prezzi delle collezioni/articoli più venduti in termini di sell-out, che costituiscono cioè il core commerciale dell’azienda, e utilizzarli come riferimento per la segmentazione. Molte marche infatti pro-pongono gioielli di immagine, ma costruiscono fatturati e margini con altri prodotti (alcuni con margini unitari rilevanti rispetto al prezzo di vendita, altri che generano volumi consistenti). Un’ultima considerazione: spesso è proprio la fascia prezzo che dovrebbe indirizzare le scelte di sviluppo di prodotto, o perché si rileva inadeguatezza della propria offerta in una fascia prezzo ritenu-ta potenzialmente interessante, o per carenza di gioielli appartenenti ad una certa tipologia nel proprio portafoglio prodotti.

Lo stile è un elemento cruciale, non solo per segmentare le diverse offerte,

ma perché da molti è ritenuta una delle possibili leve competitive per rivitaliz-zare l’intero settore.

L’analisi dello stile può avvenire a diversi livelli: si possono considerare la cosiddetta “ cifra stilistica”, lo stile rispetto alla dimensione temporale e le ca-ratteristiche distintive (codici) di alcune aziende/marche, ovvero gli identifica-tori che caratterizzano i prodotti. La “cifra stilistica” è il sistema di regole e-stetiche che governa la forma del prodotto (ad esempio il richiamo è a precisi stili anche architettonici: barocco, liberty, ecc…). Rispetto al tempo si defini-scono gli stili: classico, tradizionale, moderno/contemporaneo, innovativo. Lo stile classico si distingue per la sua atemporalità e caratterizza oggetti sempre attuali: l’esempio per tutti è Cartier.

Lo stile tradizionale reinterpreta i canoni stilistici del passato, dando un’impronta attuale: è lo stile che caratterizza molte collezioni unbranded, so-prattutto quelle senza particolare identità, fatte per essere vendute a numerosi punti vendita, partendo dal presupposto di dare loro un servizio per completa-re l’assortimento.

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Lo stile moderno/contemporaneo si fonda su elementi contemporanei all’interno di una visione classica del gioiello: Pomellato ne è l’emblema.

Lo stile innovativo si distingue per la ricerca di nuove soluzioni nelle for-me: Pianegonda è, tra le marche conosciute al grande pubblico, quella che ben rappresenta questa impostazione.

A proposito di stile è necessario anche definire i cosiddetti “brand identi-fier”, ovvero gli elementi formali “invarianti” che nel tempo divengono i co-dici di riconoscimento della marca: ad esempio la C di Cartier, così come le forme rotondeggianti e smussate, le pietre colorate e i tagli speciali che carat-terizzano Pomellato3.

Il gioiello consente di individuare alcune mode specifiche (per esempio in termini di colore dell’oro, grandezza e tipo di pietre, dimensioni dei monili ecc…), ma il ritmo del cambiamento nel settore è sicuramente più lento di quello della moda, proprio perché per loro natura i gioielli sono durevoli. I prodotti classici e di tradizione occupano uno spazio molto importante all’interno del settore. Dal punto di vista della offerta, le aziende tendono si-stematicamente ad aggiungere ad una collezione che ha preso forma nel tem-po prodotti nuovi che sostituiscono altri. Pochi, tra cui Pomellato, perseguono una strategia di offerta moderna, basata sulla proposta di mini collezioni nuo-ve e di tendenza, presentate con cadenze definite, avvicinandosi, in questo modo, alle logiche più propositive della moda.

La marca. Parleremo di aziende di marca se, all’interno di un determinato

gruppo di consumatori la cui dimensione dipende dal segmento di domanda cui si fa riferimento come target potenziale dell’azienda, vi è una significativa quota di questi che riesce ad attribuire in maniera chiara quel brand ad una merceologia, e gli riconosce, anche in modo non esplicito, un sistema di valori che lo distingue dai competitori. Si può quindi segmentare il prodotto di mar-ca da quello unbranded (che può appartenere, come vedremo meglio in segui-to, a tutte le fasce di prezzo); nel settore orafo in generale le marche ricoprono una quota ancora molto modesta4, anche se in espansione; tra le marche è i-noltre opportuno separare le marche di oreficeria e gioielleria da quelle che appartengono ad altri settori, alla moda ad esempio, all’orologeria, all’og-gettistica (ad esempio Lalique, piuttosto che Swarowski). Come in altri setto-ri, anche nell’orafo l’identità di marca affonda spesso le sue radici nella storia dell’azienda, nelle scelte relative allo stile, all’immagine ed alla distribuzione. 3 Sul concetto di identità stilistica si vedano anche Saviolo S., Testa S. (2000), Le imprese del sistema moda – il management al servizio della creatività, Etas, Milano (cap. 7) e G. Comboni, F. Molteni, Prodotto moda e isola stilistica, Economia & Management, n. 2, 1994. 4 Si vedano gli “Atti” del Forum del Gioiello, svoltosi presso l’Università Bocconi il 23 ottobre 2002, in collaborazione tra SDA Bocconi e Club degli Orafi Italia, L’Orafo Italiano Editore.

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La tipologia di prodotto e le funzioni d’uso. Possiamo distinguere tra anelli, bracciali, collane, collier, spille, catene, pendenti, orecchini e così via. Ciascuno di questi oggetti ha visto nel corso degli anni momenti di grande successo nella domanda del consumatore oppure fasi di declino. Questi anda-menti spesso sono legati alle valenze simboliche che vengono di volta in volta attribuite, e possono quindi essere ben connesse alle ricorrenze. Le valenze simboliche si riferiscono a quegli attributi del prodotto che vanno al di là delle prestazioni funzionali quali il messaggio che si intende trasmettere, il mondo di riferimento che la marca rappresenta, gli elementi estetici in cui l’acquirente si riconosce e la funzione d’uso (di investimento, ornamento, o-stentazione). Questi elementi si fondono nel processo d’acquisto, creando un unicum che contiene, forse meglio di altri, la dimensione del target di consu-matori.

Le scelte di canale e i tipi di punti vendita. Nel settore orafo, a causa del-

la frammentazione della produzione e della numerosità dei punti vendita, è ancora molto diffuso il canale lungo. Lo sforzo di molte aziende di perseguire una politica di marca sta sviluppando il ricorso al canale breve attraverso reti di agenti plurimandatari. Rari ma in crescita sono invece i punti vendita mo-nomarca. Per quanto riguarda i punti vendita ci sono numerosi criteri per la loro classificazione, dalla superficie al numero di addetti, quelli più comune-mente utilizzati nel settore sono la location e l’assortimento5.

L’assenza di marche e la natura prevalentemente artigianale della produ-zione hanno portato nel tempo alla nascita di punti vendita-marca, collocati in posizioni centrali delle nostre città, gestiti spesso dalla stessa famiglia per molto tempo, che si sono conquistati una reputazione eccellente e che, grazie alle forti competenze detenute, da sempre garantiscono e rassicurano sul valo-re intrinseco dei loro prodotti. Questo fenomeno è molto diffuso nel settore ed oggi spesso coincide con gioiellerie caratterizzate da location ed assortimenti di grande impatto. Nel tempo, accanto a questi, si è strutturata la distribuzione ed oggi possiamo quindi distinguere tra punti vendita-marca, (che propongono di norma un ristretto numero di marche, e che vengono ricercati proprio in un’ottica di affermazione dalle “aspiranti marche”), monobrand, negozi ade-renti a catene di distribuzione, tipicamente orientati al mercato più economico, distributori mediamente qualificati con assortimenti vari di prodotti branded e unbranded e i punti vendita convenience (che si distinguono per qualche a-spetto di convenienza e di vicinanza).

5 Per un’analisi della distribuzione si veda il capitolo 4 del libro: L. Carcano, E. Corbellini, G. Lojacono, P. Varacca Capello, (2002), op. cit.

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tipo di relazione materiali stile

occasione tradizione

funzione mode

budget soggettivo/relativo

Tipologia di prodotto punto vendita

marca

tipologie

prodotto

6.3. Il processo di acquisto e le variabili di segmentazione Abbiamo sintetizzato nello schema seguente il processo d’acquisto che era

stato analizzato separatamente nel caso del regalo e dell’auto acquisto nel pa-ragrafo 1.4, con lo scopo di verificare se, per un’efficace segmentazione dell’offerta, abbiamo tenuto conto di tutte le variabili principali che indirizza-no la scelta del consumatore.

Fig. 1 – Il processo di acquisto

Quando si acquista un regalo la decisione in merito al tipo di prodotto da acquistare è influenzata dalla persona cui questo è destinato. In particolare in-tervengono in maniera difficilmente ponderabile i seguenti fattori: • la relazione che lega acquirente e destinatario (parentela, affetto, affari…), • l’occasione del regalo (con i relativi codici in funzione delle tradizioni), • le mode, le tendenze, ed il gusto di entrambi, • il budget di spesa (che dipende dal reddito e da aspetti di tipo culturale).

Ad esempio si vuol regalare per una ricorrenza un orologio (quindi si parte dall’idea del prodotto), si raccoglieranno informazioni facendo una serie di

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visite in alcuni punti vendita (selezionati in funzione degli assortimenti e della localizzazione), si effettuerà una scelta del punto vendita e del prodotto (ri-spetto al budget previsto, anche se ci potranno essere aggiustamenti legati alle motivazioni precedenti). Ancora, se si vuol fare un regalo a qualcuno che ama una marca in particolare, o un punto vendita in particolare, si parte dalla mar-ca o dal punto vendita e, a seconda del tipo di relazione e del budget si proce-de con la selezione del prodotto.

In sintesi nel regalo si propone la sequenza: occasione, tipologia di prodot-to (determinata da tipo di relazione e budget di spesa), cui seguono, marca, prodotto, punto vendita, ciascuna delle quali assume una posizione precisa nella sequenza a seconda delle situazioni contingenti o del gusto individuale.

Nell’autoacquisto, fenomeno in espansione soprattutto per quanto riguarda le donne, il punto cruciale è la motivazione d’acquisto, legata alla funzione che il prodotto assolverà. Anche in questo caso si parte dall’idea, che può consistere in un tipo di prodotto, un gioielliere che ha una vetrina interessante, una marca vista in pubblicità. Poi interviene il costo rispetto al budget che si è ipotizzato, che è evidentemente influenzato dal reddito e da altri aspetti di tipo culturale e simbolico.

Nell’auto-acquisto quindi si propone la sequenza: motivazione/funzione, tipologia di prodotto (determinata dal budget di spesa), cui seguono marca, prodotto e punto vendita, ciascuna delle quali assume una posizione precisa nella sequenza a seconda delle situazioni contingenti o del gusto individuale.

L’analisi del processo di acquisto ci consente di dedurre che i criteri rile-vanti per la segmentazione possono essere: la tipologia di prodotto, il prezzo, la marca, il punto vendita ed i caratteri specifici del prodotto intesi come stile, materiali e, per quanto valutabile dal consumatore, la fattura. 6.4. Un’ipotesi di segmentazione del settore orafo

Utilizzando questi criteri di segmentazione è possibile creare matrici diver-se a seconda degli scopi dell’analisi. Si può quindi costruire una matrice per valutare il portafoglio prodotti di un’azienda, piuttosto che per l’assortimento di un punto vendita; in funzione del fenomeno che si vuole esplorare si tratte-rà di scegliere le variabili più appropriate. Per realizzare la matrice di segmen-tazione del settore orafo abbiamo escluso la tipologia di prodotto, cioè se si tratta di un anello piuttosto che di una collana, poiché le aziende generalmente offrono un ampio assortimento di questi prodotti. Abbiamo inoltre escluso le variabili legate alla distribuzione, cioè le diverse tipologie di punti vendita, sia per non rendere troppo complessa la matrice, sia perchè generalmente le scelte

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di distribuzione sono influenzate dal tipo di marca, dalla fascia prezzo e dallo stile delle singole aziende.

La matrice consente di identificare comparti del settore all’interno dei qua-li operano aziende che, pur potendosi distinguere per altri caratteri quali la dimensione, l’integrazione verticale, le politiche di internazionalizzazione, ecc., condividono alcune criticità strategiche. In altre parole, in ciascun busi-ness ritenuto rilevante è possibile individuare problematiche strategiche speci-fiche e fattori critici di successo, rispetto ad archetipi di aziende.

Le variabili considerate sono quattro: il prodotto, se è di oreficeria o di gioielleria, lo stile, l’essere marca per il consumatore e la fascia prezzo.

La distinzione tra oreficeria e gioielleria è rilevante in termini di tipo di prodotto, processi produttivi e struttura economica delle aziende (si veda il capitolo 5); gli operatori del settore sono sovente specializzati nell’una o nell’altra produzione, anche se talvolta le collezioni sono miste. Marca e fa-scia prezzo ci sembrano le variabili più critiche da utilizzare sia per l’impatto che questo genere di variabili ha nella maggior parte dei mercati, sia per le implicazioni che queste hanno sulla gestione dell’impresa e sulla sua capacità di competere.

Abbiamo considerato inoltre lo stile, perché l’evoluzione del consumatore, l’ingresso delle marche della moda e lo sviluppo del segmento dei clienti più giovani hanno sicuramente creato spazi per prodotti caratterizzati da innova-zione stilistica, rimettendo in discussione i canoni del settore.

MARCA PREZZO STILE

Classico Tradizionale Moderno Innovativo O G O G O G O G

Accessibile Medio Alto

Unbranded

Lusso Accessibile Medio Alto

Marca

Lusso Accessibile Medio Alto

Brand Moda e Altri

Lusso Il mondo dell’unbranded è, a tutt’oggi, estremamente rilevante, soprattut-

to in termini di volumi. Comprende monili senza marca o firmati da aziende non conosciute dal consumatore (generalmente note soltanto dalla distribuzio-ne).

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Esso è presente e rilevante in ogni fascia prezzo, propone oggetti realizzati con ispirazioni stilistiche varie. Esiste, e forse è destinato a crescere, un un-branded di fascia alta e altissima (la pietra di valore fatta montare su disegno del cliente o del gioielliere), anche se generalmente i prodotti anonimi più dif-fusi appartengono alla fascia di prezzo medio (dove il prodotto di imitazione è protagonista…) o l’unbranded più accessibile, caratterizzato di solito da un gusto decisamente tradizionale. Nelle fasce più basse il prodotto è anonimo ed è venduto a peso. Grande parte della produzione di catene rientra in questo segmento. Qui sono presenti operatori di dimensioni significative. Le compe-tenze che caratterizzano questo segmento sono tipicamente relative alla ge-stione della produzione e al controllo dei costi.

Per quanto riguarda la distribuzione, tanto più il prodotto è unbranded, tan-to più il ruolo del gioielliere è fondamentale: egli infatti in questo caso è l’unico garante del valore del prodotto.

Le marche di oreficeria e gioielleria: questo è un segmento al quale molti operatori, anche di piccole dimensioni, con profili assai diversi, cercano di ac-cedere. In primo luogo è opportuno distinguere tra marche affermate, caratte-rizzate cioè da una adeguata conoscenza di marca e da un chiaro posiziona-mento presso il loro target, e marche che, pure essendo già sufficientemente note al punto da costituire un elemento di differenziazione nel mercato, stanno tentando di migliorare la copertura del loro target o la loro connotazione.

Le marche che appartengono al segmento del lusso/prestigio sono certa-mente quelle più note; al di là dell’ampiezza della loro offerta il loro posizio-namento è indiscusso: Bulgari, Buccellati, Cartier, Mikimoto, Tiffany, Van Cleef & Arpels, per citarne alcune, sono conosciute a livello internazionale, anche se in misura diversa.

I segmenti alto e medio si distinguono in funzione della notorietà della marca e per il tipo di collezione: oreficeria piuttosto che gioielleria. Sono pre-senti tutti gli stili e il segmento viene generalmente indicato in maniera im-propria come Pret a Porter6, poiché nella moda il riferimento immediato è a prodotti con un breve ciclo di vita, mentre il gioiello, specie in questo seg-mento, è destinato ad una durata maggiore.

Il segmento alto e medio-alto si caratterizza sostanzialmente per una pro-duzione a cera persa, piuttosto che per un tipo di produzione industriale, con piccole serie di qualità, dove emergono tre diverse aree di competenza: il de-sign o lo stile del prodotto, la produzione, e il marketing. In questo segmento troviamo aziende generalmente caratterizzate da una chiara identità stilistica.

6 Nella moda il PAP è il segmento che viene immediatamente dopo l’Haute Couture, in termini di prezzo e di esclusività.

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Certamente questo segmento ha un potenziale di crescita in termini di do-manda, anche se il consumatore può essere attratto da competitori forti rap-presentati da marche provenienti dal mondo della moda. Le aziende che com-pongono questo segmento generalmente si affidano ad una distribuzione selet-tiva, con la presenza di qualche negozio monomarca, che contribuisce al-l’immagine presso il consumatore.

Il prodotto di marca di prezzo medio e medio basso appartiene invece a tre segmenti differenti dal punto di vista delle stile, dei materiali e della distribu-zione.

I produttori della cosiddetta mini gioielleria, sono generalmente caratteriz-zati da un stile classico-tradizionale e da una distribuzione ampia e non parti-colarmente qualificata.

Vi sono le marche specializzate nei materiali non preziosi, nell’acciaio ad esempio, che non sempre provengono dal settore. Il loro target di riferimento sono i giovani, che vivono il gioiello come ornamento ed accessorio. Questo è un segmento che appare in forte in espansione (Breil, Morellato, Nomination, Rebecca…). Le aziende che fanno parte di questo gruppo propongono assor-timenti differenziati soprattutto in termini di ampiezza delle collezioni e scelte stilistiche, mentre sono notevolmente focalizzate in termini di prezzo.

Ed infine le catene di punti vendita, non ancora così diffuse nel nostro pae-se, che propongono assortimenti molto ampi, appartenenti alla fascia di prezzo più bassa (ad esempio Vendoro, Splendori).

Le marche della moda e provenienti da altri settori: questo segmento è

relativamente giovane e in espansione, proprio per l’evoluzione della doman-da (tendenza all’acquisto di gioielli moderni che sono vissuti anche come ac-cessori moda) e la lentezza con cui le marche e i produttori tradizionali stanno reagendo a questi stimoli.

Il segmento più importante è quello delle marche della moda. Troviamo pro-dotti appartenenti alle diverse fasce prezzo caratterizzati da diversi stili (coeren-temente con i concetti stilistici di origine). La distribuzione è basata su un mix di canali, ed i monomarca (dove si vendono le diverse merceologie che fanno capo alla marca) sono sempre più spesso abbinati ai multimarca d’immagine.

L’approccio delle marche della moda che hanno realizzato la brand exten-sion in questo settore è, fondamentalmente, di due tipi: • rafforzamento della marca, con un prodotto di fascia alta o altissima, coe-

rente con un posizionamento di Haute Couture. Le griffe francesi hanno perseguito questa strategia, anche se con una diversa focalizzazione sul-l’alta gioielleria e nelle scelte relative ai canali distributivi;

• sfruttamento della marca, con un prodotto di prezzo relativamente accessi-bile, che rappresenta un completamento all’offerta del brand. Emporio

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Armani, che propone monili di argento e pietre dure, è un esempio di que-sta impostazione.

I gioielli sono sempre stati tra le passioni di Gabrielle Chanel7 (si dice che

la stilista si facesse riprodurre, in oro e platino e pietre preziose, le più belle creazioni della sua bigiotteria). Nel 1932, Gabrielle Chanel è scelta per in-terpretare la ricchezza dei diamanti dall’Associazione dei Produttori Dia-mantiferi: una mostra con le sue creazioni viene inaugurata a Parigi il 7 no-vembre di quell’anno. I gioielli creati per quell’occasione rispecchiano tre temi molto cari alla stilista: il nodo, la stella e la piuma. Ancora oggi, alcuni di quei pezzi riprodotti sono proposti al pubblico. Inoltre, i gioielli creati per la mostra presentano delle caratteristiche tecniche particolari: a parte l’uso del platino (metallo per eccellenza raro, puro e prezioso), le chiusure non so-no visibili, i colliers si trasformano in spille e bracciali, i girocolli diventano diademi e i ciondoli si trasformano in clips.

Chanel, nel 1987, decide di avviare la produzione di orologi. Si tratta di o-rologi gioiello, con brillanti, che rispettano la tradizione Chanel (caratterizzata dall’assenza di licenze e di strategie di brand extention verso segmenti di mer-cato “più accessibili”): qualità elevata, creatività, prezzo elevato. Gli orologi vengono venduti ovunque. Nel 1993 Chanel lancia la gioielleria (nella boutique di Place Vendôme al numero 7, dove già si vendeva l’orologeria) e nel 1997 si apre la grande boutique al numero 18, dopo l’acquisizione da parte di Chanel dell’intero palazzo. Oggi le collezioni sono basate appunto su modelli storici (al limite rivisitati) e su nuove proposte più moderne, che richiamano diversi stili, sempre legati alla storia di Mademoiselle. Vi è una laboriosa e attenta ri-cerca per pietre e perle, volta a utilizzare varietà preziose e rare. Le collezioni sono studiate da un team di designer di alto livello, legati a laboratori francesi specializzati in creazioni di grande manifattura. La divisione orologeria e gioielleria ha il suo quartier generale a Place Vendôme, mentre la direzione della moda, degli accessori e dei bijoux (supervisionate da Karl Lagerfeld) hanno una sede diversa, in Rue Cambon.

Ogni anno si aggiungono nuove creazioni, che vanno ad ampliare le colle-zioni esistenti, che ruotano comunque intorno a temi e soggetti legati alla tradi-zione Chanel. Le collezioni sono: Cometes, Matelassèe (ispirata alla “trapun-tatura” delle borse Chanel), Camelia (il fiore preferito da Coco Chanel), Ma-demoiselle (che racchiude i simboli più cari di Coco Chanel), Coco (composta principalmente da gioielli di ispirazione barocca-bizantina), Engagement Bri-dal, Elements, Divers.

7 Si veda: F. Baudot, Chanel Joaillerie, Editions Assouline, Parigi, 1998.

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L’orologeria e la gioielleria sono vendute esclusivamente nelle gioiellerie Chanel (o presso concessionari, solo per quanto riguarda gli orologi) in tutto il mondo (ad oggi si contano 30 monomarca, di cui 5 flagship a Parigi, Mila-no, New Jork, Londra e Tokio). La strategia è chiaramente definita: si sono conquistate una legittimazione e uno spazio nell’alta gioielleria, dove i con-correnti di riferimento sono le grandi marche storiche (Cartier, in primis)8.

Dior Joaillerie viene lanciata nel 1998. I gioielli delle collezioni sono ven-duti esclusivamente nelle boutique monomarca (insieme alla altre collezioni Dior), che ad oggi sono 41 (tra Europa, Usa, Giappone e Far East) e in spe-ciali corner (come ad esempio da Harrod’s). A Parigi vi sono anche due gioiellerie Dior. Vengono presentati in spazi ad hoc, in modo da richiamare l’ambiente di un castello, per rispecchiare così il sogno, la fiaba, l’essenza romantica che la marca vuole rappresentare.

La creatrice di Dior Joaillerie, Victoire de Castellane, ha lavorato per 14 anni da Chanel, disegnando la custome jewellery con Karl Lagerfeld. Le col-lezioni proposte sono variegate, sia per quanto riguarda le fasce prezzo che per lo stile e i motivi ispiratori, che riprendono comunque i soggetti e i temi sviluppati a suo tempo da Christian Dior. Vi sono anche piccole serie limita-te, che non vengono riprodotte, mentre i “pezzi unici” in collezione possono essere acquistati su ordinazione dei clienti. La produzione è realizzata in Francia, presso laboratori specializzati, gestiti dalla casa madre.

Le dodici linee in cui è declinata la proposta Dior Joaillerie esprimono in modo immediato i motivi ispiratori della gioielleria: Les Ludiques, Les E-xcentriques, Les Codes Dior, Les Gri Gri, Le Bestiaire Fantastique, La Cou-ture, Milly la Foret, La Fiancèe du Vampire, Le Harem, Le Coffret de Victoi-re, les Petites Séries Limitèes, les Suivez-Moi. Vi sono parure classiche, ele-ganti e semplici, altre con forme più moderne, altre volutamente “spiri-tose”, eccentriche o stravaganti, altre ancora estremamente ricercate nella forma, nei colori, nei soggetti, nelle pietre colorate di grandi dimensioni attorno alle quali prende forma la fantasia della designer. Ogni anno si aggiungono dei nuovi gioielli.

L’offerta è strutturata in quattro fasce prezzo: small (da 400 a 2000 euro), middle (fino ai 13.000-14.000 euro), high e special orders (a salire). Tutte le linee riscuotono un notevole successo: tra il 2002 e il 2004 la crescita del fat-turato è stata pari al 50%9.

Louis Vuitton è presente nel mondo del gioiello dal 2002, quando, per le vendite natalizie, si realizza un braccialetto con una maglia particolare, con

8 Si ringrazia Raffaella Milione per le informazioni fornite. 9 Si ringrazia Susanna Barbuio per le informazioni fornite.

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una serie di ciondoli legati al mondo LV e a Parigi. L’idea è quella di pro-porre collezioni di alta gioielleria, a sé stanti rispetto al mondo della moda, ma supervisionate da Marc Jacob, art director della griffe. La gamma si ar-ricchisce di alcune proposte, essenziali e moderne e, a settembre 2004, viene presentata la nuova collezione Emprise, che si articola su tre temi: Clou (chiodo), Mini Malle (baule), Fleur (fiore), combinando, con l’oro e i dia-manti, pietre colorate, ottone, cuoio, legno. La collezione è composta da gioielli particolari, nuovi, d’impatto (nel tema Fleur vi sono orecchini asim-metrici e anelli “smisurati”): si parte da articoli sotto ai 1.000 euro, per rag-giungere cifre notevoli, superiori ai 100.000 euro.

La distribuzione avviene esclusivamente nelle boutiques LV (come del re-sto per tutte le altre collezioni LV), ma non in tutte le boutiques è possibile acquistare i gioielli, mentre la presenza della custome jewellery, più legata alla moda, è più ampia. La strategia, ad oggi, è quella di una crescita nel tempo, legata ad una legittimazione progressiva nel mondo della gioielleria10.

Le due strategie descritte esprimono due alternative (estreme) di posizio-namento, che non necessariamente si precludono nel tempo, come dimostra il caso Gucci.

La presenza di Gucci in gioielleria inizia intorno al 1998, con prodotti e-sclusivamente in argento a prezzi decisamente accessibili.

Nel 2001 Gucci implementa un piano per l’ingresso nel mercato della gioielleria con la progressiva introduzione di prodotti in oro e oro e pietre preziose.

Oggi questi rappresentano oltre il 70% dell’offerta con una etichetta me-dia intorno a 750-1.500 euro. Il restante 30% è invece costituito da argento con pietre dure e semipreziose.

Il design di questi prodotti è di Frida Giannini (Direttore Creativo degli accessori Gucci) ed è evoluto da uno stile molto lineare, semplice e pulito verso qualcosa di più sensuale, femminile e fortemente caratterizzato da quel-li che sono i segni iconici del design Gucci quali ad esempio l’Horsebit ed il Bambolo. La produzione è affidata ad aziende italiane presenti nell’area di Valenza, Firenze ed Arezzo. La distribuzione dei gioielli è quasi esclusiva-mente attuata nelle boutique monomarca e in un ristrettissimo network di gioiellerie indipendenti. Il futuro vedrà Gucci sempre più presente nel settore gioielleria con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti preziosi, un innalzamento dell’etichetta media ed un maggiore focus distributivo nei pro-pri punti vendita con l’apertura di veri e propri negozi di gioielleria11. 10 Si ringrazia Jean Battiste Debains per le informazioni fornite. 11 Si ringrazia Alessandro Fabrini per le informazioni fornite.

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Le marche che hanno origine da settori diversi (dall’orologio all’ogget-tistica) hanno perseguito strategie di brand extension mantenendo una forte coerenza con il vissuto originario della marca e le specifiche competenze: i cristalli per Swarowski; il vetro per Lalique; il colore, la fantasia, l’allegria per gli accessori Swatch; l’aggressività e la modernità per gli accessori Breil; la qualità, la tradizione, la classicità per i gioielli Piaget e Chaumet. Queste marche sono presenti quindi nelle diverse fasce e con proposte stilistiche for-temente differenziate.

Rispetto ad un target di giovani e teenagers, alcune di queste sono in com-petizione con i brand di oreficeria/gioielleria del segmento accessibile per il portato simbolico simile.

Il prezzo è una variabile fondamentale nel processo di acquisto; la concor-renza si svolge infatti all’interno di una determinata fascia prezzo, dove poi la marca, il prodotto e la distribuzione giocano ruoli diversi. Per tutti i segmenti individuati all’interno della matrice la gestione del pricing sta diventando sempre più indispensabile. È necessario definire in maniera univoca la linea prezzi, il prezzo massimo ed il core price della collezione, cioè il prezzo al quale corrisponderà il maggior numero di gioielli. Questa decisione è un ele-mento determinante all’interno del brief sui prodotti poiché segmenta i con-sumatori ai quali l’azienda intende rivolgersi e le occasioni d’acquisto che in-tende soddisfare. In termini di pricing le strategie perseguibili sono sostan-zialmente due: la costruzione della collezione all’interno di una linea di prezzi corta, cioè tutti i prodotti della collezione che appartengono alla stessa tipolo-gia (anelli, bracciali, collane) sono compresi in un ambito di prezzi ristretto e ben definito, oppure una linea di prezzi lunga, cioè con una differenza sensibi-le tra il prezzo più alto e quello più basso.

Nel primo caso la segmentazione è molto precisa, l’abilità dei creativi e di chi gestisce l’industrializzazione è determinante per riuscire a creare il mag-gior valore percepito nell’ambito della fascia di prezzo ed il risultato è certa-mente una maggiore chiarezza nelle argomentazioni di vendita nei confronti della distribuzione. La seconda soluzione è particolarmente indicata per a-ziende che hanno un posizionamento sul mercato ben individuato e che inten-dono estendere il loro target di consumatori verso gruppi più giovani o, più in generale, vogliono utilizzare la marca per conquistare nuovi segmenti. Per le marche di grande tradizione orafa questo è uno dei temi strategici più attuali: la possibilità di proporre oggetti di lusso “accessibile”, anche se tale visione non è condivisa e perseguita da tutti. Nel caso di linee prezzo lunghe, la posi-zione del core price è determinante per i volumi: infatti, se questo è vicino al prezzo più basso, vi è la possibilità di sviluppare le quantità; nello stesso tem-po è possibile accrescere l’immagine della marca con prodotti di grande im-patto creativo, corrispondenti al prezzo più alto.

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Lo stile e le scelte relative al prodotto nel suo complesso (stile, materiali, tipologie, ecc.) sono l’ambito immediatamente complementare alla gestione delle politiche di prezzo. Questo fattore è critico per l’identità dell’azienda perché attraverso la continuità stilistica (o costanti innovazioni incrementali dello stile) si può rafforzare l’identità di marca; inoltre la scelta di aderire a trend estetici che si trovano in una fase di sviluppo ha immediate implicazioni sui volumi di vendita. L’innovazione stilistica consente, se incontra il favore del consumatore, un premium price che deve essere sempre in grado di pagare i costi della differenziazione attraverso una politica basata sui margini unitari o sui volumi di vendita. Per quanto riguarda un approfondimento in merito al tema delle scelte estetiche si rimanda al capitolo 9.

Per le aziende della moda e per quelle che provengono da altri ambiti, che non hanno una tradizione e una storia nel settore (pur disponendo di altre risorse e competenze critiche), il processo creativo e l’industrializzazione del prodotto sono determinanti. La brand extension non è un processo che porta automati-camente al successo, come l’esperienza dimostra, ed il gioiello, come avviene nella maggior parte dei casi, ha i suoi canoni e le sue regole per cui non è facile ottenere la legittimazione dal mercato, pur possedendo una marca forte.

Combinando la variabile marca e la fascia prezzo, si individuano una serie di segmenti, per alcuni dei quali si possono elaborare alcune riflessioni speci-fiche rispetto al comportamento delle aziende del settore.

Per quanto riguarda le marche di gioielleria, a nostro avviso poche azien-de italiane hanno percorso la strada della presenza su fasce prezzo diverse, o articolando la loro offerta in linee, ciascuna con un nome specifico, o svilup-pando la collezione. Crediamo che ciò sia principalmente dovuto al fatto che le nostre aziende si sono caratterizzate sempre per l’uso di determinati mate-riali e di specifiche tecniche di manifattura; il prezzo nasceva come conse-guenza di tali scelte.

Nell’ambito del gruppo delle aziende unbranded, soprattutto quelle di fa-scia media e bassa, le opzioni strategiche perseguibili sono legate da una parte alla delocalizzazione produttiva, che è una scelta onerosa e certamente com-plessa, ma che può consentire una maggiore aggressività in termini di prezzi. Dall’altra c’è la possibilità di produrre per conto terzi o di porsi al servizio di una o più organizzazioni distributive. Anche in questo caso è necessario pun-tare sulle proprie competenze distintive, concentrandosi su ciò che si sa fare meglio, dopo aver individuato ciò che è importante per il mercato. La scelta di eccellere in un fattore critico, che sia una specializzazione di prodotto o un certo tipo di servizio può consentire di creare valore per il cliente intermedio e di far nascere una presenza più definita e puntuale nel panorama dell’offerta.

La aziende invece che hanno intrapreso il percorso della creazione della marca o che hanno intenzione di farlo, a qualunque segmento di prezzo deci-

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dano di appartenere, devono innanzi tutto individuare le proprie competenze distintive impegnandosi costantemente per raggiungere in questo ambito livel-li di eccellenza. È necessario inoltre che il management formuli un progetto chiaro, perfettamente definito in termini di segmenti di clienti, tipologie di prodotto, prezzi, servizi, modelli organizzativi e così via. L’esperienza inse-gna che un business plan adeguatamente preparato è un indispensabile stru-mento che consente di tenere la rotta o di individuare per tempo gli inevitabili errori. Si tratta di un percorso che richiede archi temporali adeguati e che ge-neralmente produce risultati apprezzabili nel medio periodo, quindi deve esse-re posta molta attenzione alle risorse umane ed economiche disponibili, per evitare di dover rallentare o fermare il processo o per non essere indotti a cer-care scorciatoie, che inevitabilmente rischiano di vanificare l’azione. La com-petizione si svolge su diversi fronti: il prodotto in primis, bisogna perciò defi-nire chiaramente la propria identità e le modalità con cui si intende trasferirla al mercato, considerando con attenzione le tendenze in termini di valori socia-li e di stili. È necessario evitare la tentazione di produrre di tutto pur di vende-re, poiché ciò va a discapito della chiarezza del progetto, ed investire in com-petenze di marketing per conoscere meglio le tendenze e segmentare il cliente. Grande attenzione deve essere posta alla gestione della rete distributiva: il punto vendita ha bisogno di progetti, anche se non sempre ne è cosciente, per ricoprire meglio il proprio ruolo imprenditoriale. A fronte di un programma chiaro e perseguito con costanza è sempre possibile trovare partner che condi-vidano i nostri interessi.

Dal punto di vista delle problematiche di carattere generale uno degli a-spetti fondamentali per tutte le aziende del settore è l’internazionalizzazione commerciale e produttiva. Non è più sufficiente avere clienti nelle diverse na-zioni, bisogna costruire un sistema di relazioni più articolato e diretto, basato su un approccio manageriale con la distribuzione.

È necessario conoscere e segmentare la potenziale clientela e la distribu-zione, investire nella comunicazione della propria identità, continuare a punta-re sul prodotto e sull’innovazione. Non esistono segmenti di mercato che sia-no più promettenti in assoluto: il successo della singola azienda si basa sulla coerenza degli elementi che caratterizzano la sua strategia.

Le questioni di fondo, del capitolo 9 propongono spunti di riflessione utili per tutte le aziende, soprattutto per quelle che sono impegnate a realizzare una puntuale strategia di differenziazione.

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Parte terza – Questioni di fondo

Premessa Questa terza parte si propone di riflettere sugli elementi, di tipo quantitati-

vo e qualitativo, approfonditi attraverso i focus e l’analisi del settore, compiu-ta nella seconda parte.

Il capitolo 7 affronta il tema dell’internazionalizzazione e della struttura del nostro sistema produttivo. Il capitolo 8 discute se esista e soprattutto sia riconosciuta una identità del gioiello italiano, e se questa sia spendibile sui mercati internazionali. Inoltre, nell’appendice, si trattano alcuni aspetti “tec-nici”, legati alle normative esistenti in Italia e negli altri paesi e alle caratte-ristiche dei prodotti (contenuto di metallo prezioso, origine del prodotto, ecc.).

L’ultimo capitolo chiude il lavoro proponendo una serie di questioni di fondo. Si pone l’accento su alcune aree critiche per il settore (il cambiamento del consumatore, l’atteggiamento nei confronti del cambiamento, le strategie competitive, la marca, la distribuzione); l’autore si propone di indicare rifles-sioni e percorsi utili per realizzare concrete strategie di differenziazione.

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7. Il gioiello italiano nel mondo di Luana Carcano

Il settore orafo si può considerare un settore internazionale, sia per i rile-

vanti flussi di importazione ed esportazione su scala mondiale sia per la cre-scente apertura ed omogeneizzazione dei gusti e dei mercati. È caratterizzato dalla presenza di pochi player riconosciuti a livello internazionale (tra i quali Bulgari, Cartier, Mikimoto, Tiffany, Van Cleef & Arpels) che competono fra di loro nella maggioranza dei mercati evoluti e da una miriade di attori con una ridotta presenza internazionale che competono prevalentemente su scala nazionale. In termini di mercato e relativi consumi, si evidenziano disparità anche tra paesi che possono essere considerati appartenenti a classi geografi-che, culturali e/o di reddito analoghe. Queste disomogeneità sono legate sia ai diversi driver del processo di acquisto tipico dei consumatori locali (status symbol, accessorio moda…) sia alle modalità distributive prevalenti sul mer-cato sia infine anche alle caratteristiche della competizione locale.

7.1. L’Italia in un confronto europeo Dal confronto tra la realtà italiana ed i principali paesi concorrenti all’in-

terno della comunità europea, emerge come l’Italia sia il paese con il maggior numero di imprese attive e con il livello di occupazione più elevata. La produ-zione ed il fatturato della totalità delle imprese italiane rappresentano più del 40% di quelli dell’intera comunità europea. Finora l’Italia ha saputo preserva-re le proprie realtà produttive, a cui viene riconosciuto un primato indiscusso, nella fascia medio-alta di prodotto.

L’Italia si colloca invece sotto la media europea per dimensione media di addetti e per fatturato per dipendente, coerentemente con le caratteristiche strutturali delle aziende nazionali. In particolare, il fatturato per addetto rea-lizzato dalle imprese italiane risulta inferiore sia al dato francese che a quello inglese, a conferma ulteriore delle ridotte dimensioni delle aziende orafe na-zionali e della conseguente polverizzazione produttiva in una miriade di pic-cole e piccolissime aziende.

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Tab. 1 – Il settore orafo europeo: un confronto tra i principali paesi Indicatori (in ml di euro se non indica-to diversamente)

Totale Eu (25)

Regno Unito

Germa-nia

Francia Italia Portogallo Spagna

Imprese (n°) 30.141 1617 3120 3025 10479 1159 3009 Dipendenti (n°) n.d. 10099 16660 13165 48984 4519 12453 di cui assunti (n°) n.d. 8246 13439 11936 34310 3697 9964 Produzione 13287,3 1456,08 1349,09 1602,07 5520,08 287,06 872,04 Fatturato 14046,7 1482,06 1412 1809 5515,04 309,09 898,01 Fatturato per dipendente

n.d. 146,8 84,8 137,4 112,6 68,4 72,1

Acquisti totali (beni e servizi)

n.d. 875,06 809,01 1290,05 4316,09 254,02 650,03

Margine operativo lordo (MOL)

1713,03 378,03 204,08 120 598 23,08 85,08

MOL/fatturato 12,2 25,5 14,05 6,06 10,08 7,07 9,06 MOL per dipenden-te

n.d 37,4 12,2 9,1 12,2 5,1 6,8

Valore aggiunto (al costo dei fattori)

3982,07 614,04 574,07 522,08 1306 65,01 277,05

Valore aggiunto per addetto

30,03 60,08 34,05 39,07 26,07 14,04 22,03

Variazione magaz-zini prodotti finiti e semilavorati

n.d 11,0 -9,4 -14,1 101,9 -0,4 4,07

Costo del personale 2269,03 236 369,09 402,08 708 41,02 191,07 Incidenza % contri-buti sociali

11,9% 17% 29,05% 27,06% 23,01% 21,06%

Salari e stipendi n.d 264,03 284,01 512,04 31,07 209,01 % costi personale su produzione

17,01 16,02 27,04 25,01 12,08 14,03 22

Investimento lordo in immobilizzazioni materiali

n.d 36,08 28,06 33,09 133 6,02 36,08

di cui in macchinari ed attrezzature

n.d. - - - 105,02 5,01 13,01

Tasso di investi-mento (investimen-ti/valore aggiunto)

6 5 6,05 10,02 9,05 9

Fonte: elaborazione SDA Bocconi su dati Eurostat (2001-2002).

Ulteriore conferma della ridotta presenza di imprese di più grandi dimen-

sioni sul territorio italiano è data anche dal valore dell’indicatore che esprime l’integrazione verticale cioè il ricorso al decentramento produttivo, cui le im-prese nazionali ricorrono ampiamente (valore aggiunto/fatturato). Il dato regi-strato dalle imprese italiane risulta essere inferiore alla media europea, ma so-prattutto sensibilmente più contenuto rispetto a quello registrato dalle imprese inglesi, francesi e spagnole.

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Tale flessibilità produttiva, collegata alle ridotte dimensioni aziendali e al ricorso all’esternalizzazione, potrebbe non rappresentare più in futuro un ele-mento di forza su cui costruire un vantaggio ma un freno, per esempio, alla possibilità di acquisire nuovi clienti di grandi dimensioni e di incrementare i volumi produttivi, passando da una produzione artigianale ad una industrializ-zata, pur nel rispetto della tradizione manifatturiera italiana.

Nel confronto comparativo europeo, l’Italia occupa posizioni di rilievo an-che con riferimento agli indicatori di produttività mentre il valore aggiunto per addetto italiano risulta più basso rispetto alla media europea e al valore francese, appunto perché le nostre aziende fanno maggior ricorso al decen-tramento e alla subfornitura. Tale valore aggiunto comprende la remunerazio-ne del capitale – dell’imprenditore e dei suoi coadiuvanti familiari – ed il co-sto del lavoro, ovvero la quota associata ai dipendenti comprensiva anche dei contributi sociali a carico dell’impresa.

L’incidenza percentuale del costo del personale (pur in presenza di un peso dei contributi sociali sostanzialmente similare) sul valore della produzione ri-sulta inferiore non solo al dato francese ma anche alla complessiva media eu-ropea, così come il costo del lavoro per addetto.

Con riferimento al margine lordo sui beni rivenduti, il valore italiano, pur se nettamente superiore agli altri concorrenti europei, risulta circa la metà di quello francese. Le aziende francesi hanno saputo storicamente supportare la propria politica di marca con l’apertura di negozi monomarca che di fatto con-sentono alla produzione di appropriarsi anche dei margini della distribuzione. D’altro canto però la redditività del punto vendita rappresenta poi un altro e-lemento da tenere in giusta considerazione.

Le imprese italiane invece, utilizzando il canale distributivo lungo, ricor-rono in prevalenza ad intermediari commerciali per distribuire i propri prodot-ti; questo di fatto limita il mark-up a disposizione delle aziende di produzione, però nel contempo consente di avere una distribuzione più ampia.

Le aziende orafe nazionali infine sono quelle che, in Europa, presentano un tasso di investimento relativamente più alto, sia rispetto a paesi storici come Germania e Francia sia a quelli emergenti ed in crescita come la Spagna.

Come ben emerge dalla tabella precedente, parlare di orafo in Europa, in termini di produzione e di fatturato, significa parlare di Italia. Le aziende ita-liane dovrebbero inoltre considerare la comunità europea come un unico grande mercato, per riuscire ad affermare la leadership finora riconosciuta prevalentemente a livello produttivo, anche sui mercati di consumo.

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Tab. 2 – L’Europa nel commercio mondiale di oro (quota) Macro aree 1995 2003 Europa 57% 44% di cui Italia 30% 18% Asia 27% 36% di cui India 3% 9% America 3% 10% Altre 13% 10% Fonte: SDA Bocconi su dati Comtrade.

Analizzando le quote sul commercio mondiale di oro per macro aree geo-

grafiche, si nota come nel periodo in esame l’Europa, nel suo complesso, ab-bia perso circa il 15% di quota a favore dell’Asia e del Nord America.

Il calo europeo è da attribuirsi in prevalenza a quello italiano e svizzero, mentre Francia, Germania e Gran Bretagna hanno mantenuto invariata la loro quota, accrescendo, in proporzione, la propria importanza.

L’incremento nord americano è legato principalmente agli Stati Uniti (che hanno triplicato la quota propria nel periodo in esame) mentre quello asiatico all’incremento di quota della Corea e dell’India. La Tailandia e la Cina invece hanno conservato invariate le proprie quote, anzi la Cina dal 2000 al 2003 ha registrato un calo. È bene precisare che il dato si riferisce sia ai prodotti finiti sia alle parti e quindi non consente di distinguere l’incidenza dei semilavorati.

Se da un lato le condizioni ambientali sono state negli ultimi dieci anni po-co favorevoli, sia per il declino registrato dalla domanda interna europea sia per il lieve peggioramento dei flussi commerciali con l’estero, dall’altro le a-ziende italiane sembrano non aver saputo cogliere le opportunità di crescita in altri mercati a maggior sviluppo, attraverso strutturate strategie di internazio-nalizzazione.

Partendo dai risultati emersi dall’analisi sul settore e dal confronto europe-o, le riflessioni successive si concentreranno su due macro aree che appaiono di rilevante importanza per lo sviluppo del settore: l’importanza del sistema paese e la sfida dell’internazionalizzazione.

7.2. L’importanza del “Sistema Paese” Come si desume dai dati statistici evidenziati in precedenza, l’Italia conti-

nua ad essere uno dei principali paesi trasformatori mondiali di oro, mante-nendo la leadership nella produzione di catene prodotte a macchina e a mano. In particolare, l’industria italiana è specializzata nella lavorazione dell’oro e nella realizzazione di oreficeria e gioielleria di fascia medio-alta e alta. Di-

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pende invece dall’estero sia per la fornitura di metalli preziosi sia per la lavo-razione ed il taglio delle pietre.

Come emerso dalle analisi precedenti, l’Italia conserva la quota maggiore di scambi nel commercio internazionale, sia di oro sia di argento, seguita dagli USA. È importante notare che finora il “Sistema Paese” Italia ha beneficiato di un vantaggio competitivo a livello di nazione, legato alla combinazione fa-vorevole di diversi elementi: la dinamica della domanda interna, la presenza di forti settori correlati, la competizione interna (fig. 1).

Fig. 1 – Il diamante del vantaggio nazionale

Fonte: M. Porter, 1991.

Le aziende possono beneficiare di un vantaggio competitivo dall’essere lo-

calizzati in una certa nazione1, che nasce dall’interazione di quattro fattori: • la presenza di una domanda sofisticata ed avanzata che favorisce qualità ed

innovazione; • la presenza di fattori di produzione favorevoli (ci si riferisce non solo al

costo della manodopera, ma anche in generale a tutte le caratteristiche dell’offerta e i servizi connessi e alle infrastrutture necessarie per compete-re in un settore come credito e strutture formative; alla presenza di mano-dopera qualificata ecc.);

• la presenza di settori industriali fornitori o correlati che siano internazio-nalmente competitivi e/o coprano l’intera filiera (per esempio la presenza di fornitori di macchinari qualificati);

• la strategia e la struttura delle imprese nazionali e la forte competizione in-terna. Queste quattro determinanti creano il contesto in cui operano le imprese

nazionali e dove imparano a competere. Il “diamante” come sistema può faci-

1 M. Porter, Il vantaggio competitivo delle Nazioni, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1991.

Condizioni dei fattori

Condizioni della domanda

Settori industriali correlati e

di supporto

Strategia, struttura erivalità delle imprese

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litare il successo internazionale di un’impresa. È poi la singola impresa che deve ricercare il proprio vantaggio, attraverso soluzioni innovative e nuovi modi di fare le cose, per esempio rinnovando i modelli o migliorando il pro-cesso produttivo. Prima o poi sorgono nuovi concorrenti in grado di fare più o meno le stesse cose; diventa quindi importante, per la singola azienda, conti-nuare a migliorare, in un processo di cambiamento continuo.

Il vantaggio nazionale può aiutare le aziende a mantenere questa tensione competitiva ed innovativa. È il contesto nazionale, per esempio, che può ren-dere disponibili risorse e capacità specializzate rapidamente, fornire informa-zioni e idee sui prodotti e sui processi. Se i clienti nazionali sono esigenti, so-fisticati, competenti, le imprese sono stimolate ad innovare nei prodotti e nei servizi, a migliorare continuamente, arrivando magari anche ad anticipare bi-sogni futuri dei consumatori di altri paesi.

Ogni punto del diamante è collegato ad un altro con un effetto sistema che può creare sia circoli virtuosi che viziosi. Per esempio, avere una clientela so-fisticata non si traduce necessariamente nella realizzazione di prodotti com-plessi, sempre nuovi, se poi le aziende non riescono ad interpretare le necessi-tà della clientela stessa e a realizzare i prodotti richiesti dal mercato. In parti-colare, la concorrenza interna è l’elemento del diamante che da sola tende a promuovere il miglioramento anche degli altri fattori. Di fatto promuove la formazione di industrie collegate e di supporto e spinge le aziende a creare e lanciare nuovi prodotti sul mercato con rapidità per differenziarsi dai concor-renti nazionali.

Applicando il diamante al settore orafo, si evidenzia come l’assenza di ma-terie prime abbia rappresentato finora uno stimolo all’innovazione, supportata anche dagli altri elementi del diamante. Le imprese orafe hanno potuto conta-re inoltre sulla possibilità di reperire manodopera specializzata, su un mercato interno sofisticato, su forti industrie collegate e di supporto, e sono favorite anche dalla localizzazione in aree distrettuali specializzate.

Dei quattro elementi individuati, sia la presenza di settori correlati di alto valore sia la forte concorrenza interna sembrano al momento aver perso la propria forza propulsiva per il settore orafo italiano.

Una modalità utilizzata per contenere le tensioni competitive a livello nazionale è stata la diversificazione geografica dei mercati di sbocco. Le imprese italiane di oreficeria tendono a realizzare all’estero oltre il 25% del loro fatturato in mercati minori2. Questa strategia però potrebbe aver portato anche a una dispersione delle risorse su mercati non rilevanti per l’af-fermazione di un posizionamento internazionale; ciò giustificherebbe la re-lativamente ridotta notorietà dei brand italiani all’estero, che appare in forte

2 Prometea Srl, Oreficeria e gioielleria, Rapporto Prometea 2003.

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contrasto se confrontata con l’importanza nel commercio internazionale as-sunta dall’Italia.

Le aziende orafe italiane sono sempre riuscite a crescere all’interno del trend positivo del mercato, ma sembrano non essere riuscite a consolidarsi in posizioni competitive forti, tranne poche eccezioni. I mercati più evoluti ri-chiedono alle aziende italiane prodotti in grado di attrarre i consumatori per-ché “raccontano qualcosa di interessante e diverso dai prodotti locali”. Tutto questo però comporta idee chiare, dimensioni ed investimenti.

Inoltre, la relativamente migliore redditività registrata dalle aziende non presenti in distretti, potrebbe evidenziare il progressivo ridursi dell’im-portanza delle realtà distrettuali che spingono in genere le aziende ad attuare comportamenti simili. Le aziende non presenti in un distretto invece, meno ancorate alla tradizione del territorio, agli usi e alle abitudini, sembrano più propense ad implementare una strategia competitiva innovativa. La concen-trazione territoriale che dovrebbe esaltare la concorrenza tra le imprese, sem-bra invece, in questo periodo, essersi spostata maggiormente verso la coopeti-zione, un misto di cooperazione e competizione.

Con riferimento ai settori di supporto, se le aziende più innovative tendono ad essere localizzate in altri paesi, le imprese italiane fornitrici di macchinari si rivolgono all’esterno. Diminuisce così il vantaggio collegato allo scambio di informazioni, alla relazione continua di collaborazione con i fornitori, che spesso crea innovazioni incrementali e soluzioni personalizzate, difficilmente imitabili. Quanto pesa la tecnologia e quanto il know-how in questo mix? È sufficiente esportare tecnologia per creare concorrenza potenziale?

Considerando invece le condizioni dei fattori, emerge invece come il set-tore presenti processi produttivi consolidati; il successo di mercato è più spesso legato ad un concetto di prodotto innovativo più che ad una nuova tecnologia. Il prodotto deriva dalla capacità del saper fare, ovvero dal me-stiere. È il mestiere, il saper fare, la capacità che maggiormente va difesa, perché è più difficile da imitare da parte dei concorrenti. Cosa succederà quando i “vecchi” maestri artigiani andranno in pensione?

Disporre di manodopera specializzata non è di per sé sufficiente a garantire il successo anche in futuro, se questo valore non viene impiegato e potenziato in funzione delle mutate esigenze. È il trasferimento di conoscenze, l’appren-dimento basato sulle persone e non sulle macchine, la sfida da cogliere.

Un fattore rilevante sembrano essere le piccole dimensioni degli attori (produzione e distribuzione) oltre che la scarsa propensione all’associazio-nismo. In parte sembrerebbe quindi un problema di frammentazione. Un’al-ternativa percorribile in questi casi è l’aggregazione, in teoria attuabile nel set-tore attraverso i tre principali distretti. In pratica però i tre distretti non hanno finora messo in atto sinergie strutturali; ognuno è rimasto focalizzato sulla

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propria realtà, dando vita ad iniziative d’aggregazione a livello prevalente-mente locale. La frammentazione sembra essere quindi non solo un problema di tipo aziendale ma anche strutturale del sistema Paese.

Per concludere, la competitività dell’industria orafa nazionale deve essere preservata anche sul mercato nazionale perché è il contesto interno che deve mantenere il ruolo di propulsore dinamico verso il futuro. Le differenze na-zionali fra culture, valori, strutture economiche possono contribuire al succes-so di una singola impresa, ma la competitività della nostra industria orafa nel suo insieme dipende fortemente dalla capacità delle singole imprese di inno-vare e migliorare continuamente in una prospettiva internazionale.

7.3. Il platino: una nicchia globale non completamente pre-sidiata

Parlare di sistema orafo italiano significa parlare in prevalenza di aziende

che trasformano oro e argento. Anche se l’Italia è posizionata nella fascia me-dio-alta del mercato, l’incidenza delle aziende che lavorano e realizzano og-getti in platino è ridotta.

Saper lavorare e vendere il platino richiede sia competenza specialistica sia capacità di relazione con il punto vendita, che possono rappresentare delle chiavi di miglioramento anche nel segmento oro e argento.

Il platino è il metallo puro e prezioso per eccellenza. La gioielleria in pla-tino, venduta nei mercati più evoluti, è costituita al 90-95% di puro metallo, a differenza invece degli oggetti in oro a 18 carati che contengono solo il 75% di metallo prezioso, che viene poi legato con altri metalli da cui dipende la co-lorazione. Nessun metallo in gioielleria è completamente puro, ma tutti sono composti da una miscela di metalli; il platino, a differenza dell’oro, ha poche leghe.

Tab. 2 – Carature e punzoni Paese Carature Punzoni Italia 950 e oltre (ma la normativa

europea prevede 850, 900, 950 e oltre)

Pt 950 talvolta seguito dalla parola plati-no (la punzonatura viene effettuata dal fabbricante)

Cina 900, 950 Pt Germania 950, 999 Pt 950, Pt 999 Giappone 850, 900, 950, 999, 1000 Pt, seguito dal titolo India 950 Pt 950 (apposto dall'ufficio saggi) USA 850, 900, 950 + Platinum, pt, plat (nessuna definizione

standard) Fonte: Platinum Guild Italia.

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La preziosità del platino deriva anche dal ridotto numero di miniere nel mondo: ogni anno, in media, vengono trasformate in gioielli 2.700 tonnellate di oro e 90 tonnellate di platino. Il platino può quindi essere considerato trenta volte più raro dell’oro. Inoltre, per ottenere un’oncia, pari a 31,1 grammi, di platino, occorrono 10 tonnellate di roccia; per ottenere la stessa quantità di oro vengono estratte invece la metà delle tonnellate. Il platino si trova in pochis-simi giacimenti al mondo (il rapporto con le miniere di oro è di 10 a 1), so-prattutto in Sud Africa e Russia ed, in misura minore, in Canada e Sud Ame-rica.

Inoltre la colorazione bianca del platino è naturale e le caratteristiche fisi-che del metallo lo rendono la sede privilegiata per l’incassatura dei diamanti e delle pietre preziose3. Tutti i gioielli antichi per eccellenza sono stati montati in platino, come per esempio le uova di Fabergè, i pezzi in stile “ghirlanda” di Cartier degli inizi del XX secolo. Anche alcune delle gemme più preziose, come il diamante Koh-i-noor che fa parte dei gioielli della Corona inglese, sono incastonate in platino.

Queste caratteristiche, di per sé, sono sufficienti per considerare il platino il metallo per i gioielli di fascia alta e medio-alta.

Ci si aspetterebbe di trovare l’Italia nelle prime posizioni, ma dall’analisi delle statistiche sull’uso di platino nella produzione della gioielleria, emerge, invece, come la leadership sia detenuta dal Giappone, seguito dagli USA. Il platino è il metallo più ricercato proprio nei mercati più avanzati (Giappone, Nord America ed Europa) e sta crescendo l’interesse anche in Cina.

Da un punto di vista storico, l’uso della gioielleria in platino è diminuito negli anni 30 quando il metallo fu calmierato. La richiesta riprese negli anni 60 proprio in Giappone che ben presto ne è diventato il mercato di riferimen-to. In Europa, i consumi di gioielli in platino si affermarono successivamente, negli anni 70, prima in Germania – dove le imprese nazionali riuscirono anche a dare ai prodotti una maggiore connotazione stilistica, con l’introduzione del-la finitura satinata – e poi in Italia e Svizzera. Negli anni 90 si è aperto il mer-cato americano, soprattutto nel segmento fedi nuziali, e, a metà anni 90 anche la Cina, dove il platino viene associato alla modernità.

Con riferimento ai dati sulla domanda di platino per la produzione di gioiel-leria evidenziati in tab. 3, si può notare, nel decennio in esame, una progressiva riduzione d’importanza del Giappone, una sostanziale stabilità dell’Europa ed un incremento sia degli Stati Uniti (passato da 2 a 9 tonnellate) sia del resto del mondo, tra cui in primis la Cina (passata da 4,5 tonnellate a 33,1).

3 Il platino presenta una densità ed un peso specifico che lo rendono più duraturo di altri metal-li. È resistente agli acidi e al calore. Per questo il platino non si consuma e offre garanzie supe-riori di sicurezza per l’incastonatura delle pietre.

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È importante inoltre evidenziare come nel 2003 per la prima volta, dopo oltre vent’anni, il prezzo del platino abbia superato la soglia dei 700 dollari per oncia. Tale prezzo è determinato dalla domanda del metallo, dall’attività speculativa e dall’acquisto delle società di investimento, oltre che dalle notizie di vario genere provenienti dall’industria stessa.

Tab. 3 – Produzione di platino per la gioielleria a livello mondiale (1995-2004)

Volume (tonnellate) 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Estrazione (*) Sud Africa 104,8 105,4 115,1 114,5 121,3 118,2 127,5 138,1 144,0 154,9

Russia 39,8 37,9 28,0 40,4 16,8 34,2 40,5 29,6 32,6 26,4

Nord America 7,5 7,5 7,5 8,9 8,4 8,9 10,9 11,0 9,2 11,2

Altri 3,1 4,0 3,7 4,2 5,0 3,3 3,4 4,2 7,0 7,5

Totale estrazione 155,2 154,9 154,3 168,0 151,5 164,6 182,3 182,9 192,8 200,0 Domanda (produ-zione)

Europa 3,7 3,9 4,7 5,0 5,7 5,9 5,3 5,3 5,3 5,3

Giappone 46,0 46,0 43,2 40,1 41,1 33,0 22,1 22,9 20,7 20,8

Nord America 2,0 2,8 5,0 7,8 10,3 11,8 8,7 9,6 9,6 9,2

Resto del mondo 4,5 9,2 14,3 22,1 32,5 37,3 43,2 48,7 40,3 33,1

Totale gioielleria 56,3 61,9 67,2 75,6 89,6 88,0 79,3 86,5 75,9 68,4 Domanda platino Totale (**) 150,5 154,3 159,6 167,0 173,9 176,7 191,3 198,1 199,7 201,3

Variazioni negli stock 4,7 0,6 -5,3 0,9 -22,4 -12,1 -9,0 -15,2 -6,9 -1,3

155,2 154,9 154,3 168,0 151,5 164,6 182,3 182,9 192,8 200,0

Fonte: elaborazioni SDA Bocconi su dati Johnson Matthey (*) dato derivato dalle stime delle vendite delle principali miniere di platino. (**) Il platino viene usato anche nel settore automo-bilistico (fabbricazione marmitte catalitiche) e in medicina per le sue qualità anallergiche (pa-cemakers).

La lavorazione del platino richiede non solo investimenti in macchinari

ed attrezzature specifiche, considerando che fonde ad una temperatura supe-riore rispetto all’oro, ma anche una competenza ed un know-how specifico, per esempio nella fase di pulitura. Inoltre la duttilità del metallo, abbinata alla durezza, permette di creare pezzi e lavorazioni non realizzabili con altri metalli.

Sono relativamente poche le imprese italiane che hanno investito in questo tipo di lavorazione, spesso focalizzandosi completamente nella produzione di oggetti in platino. Solo i grandi gruppi internazionali tendono a realizzare og-getti sia in platino sia in oro e negli altri metalli preziosi. Di nuovo, la ridotta dimensione delle imprese italiane, focalizzate prevalentemente sul prodotto,

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ha reso difficile l’affermazione delle nostre aziende in questo segmento, men-tre nuovi concorrenti stanno emergendo, tra cui la Cina.

Nonostante l’uso del platino nella gioielleria di altissimo livello sia storico, è recente la diffusione del platino anche in prodotti più accessibili (come le fedi o gli anelli di fidanzamento). Il platino rappresenta attualmente il metallo di moda e giovane (insieme all’oro bianco). Non proporre nel proprio assorti-mento o nella propria collezione oggetti in platino significa non aver colto il trend e le richieste del mercato, ovvero essere rimasti ancorati alla tradizione del metallo aureo.

7.4. Le sfide da vincere sui mercati internazionali I dati relativi alle esportazioni italiane di gioielleria e alle quote di com-

mercio internazionale evidenziano il ruolo di primo piano dell’Italia. Diversa è invece la situazione con riferimento all’internazionalizzazione. Si possono contare sulle dita di una mano le aziende italiane che hanno saputo crearsi una riconoscibilità internazionale. La maggior parte dei brand nazionali invece ri-mane molto ancorata alla realtà locale e fatica a farsi conoscere sui mercati esteri.

Il prodotto italiano si distingue per la creatività e per il contenuto anche ar-tigianale della lavorazione; peraltro gran parte delle nostre esportazioni sono costituite da articoli classici e semplici, il cui livello di differenziazione talvol-ta non è sufficiente per implementare una strategia di branding. Può quindi capitare che gli stessi prodotti (come per esempio un bracciale tennis) possano essere realizzati anche da industrie locali, ad un minor costo di produzione, anche solo per la vicinanza logistica, e con il vantaggio di avere una forte co-noscenza del canale distributivo locale; al contrario invece della maggioranza delle aziende italiane che ricorre in prevalenza alla distribuzione attraverso intermediari.

Questi elementi di semplicità e ricercatezza associati al prodotto sono rile-vanti perché ogni mercato ha un proprio tipo di esigenze: in linea generale, i prodotti più semplici sono i più facili da vendere, ma sono anche quelli sog-getti alla maggiore concorrenza. Mentre i prodotti con un design più ricercato e più facilmente riconoscibile tendono invece ad essere rivolti ad una nicchia di mercato.

Le imprese italiane si trovano quindi a dover fronteggiare due tipi di con-correnti: quelli caratterizzati da elevate competenze tecnologiche e con forte know-how industriale, con un brand affermato a livello internazionale ed una storia ed una tradizione consolidate e concorrenti nuovi ed emergenti, attori che per il momento attuano strategie competitive basate sui costi, sfruttando

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opportunamente il più basso costo della manodopera e che propongono colle-zioni con modesti contenuti di innovazione stilistica.

Negli ultimi anni, infatti, il mercato internazionale è diventato sempre più competitivo. Si sta assistendo ad un progressivo aumento della concorrenza da parte dei paesi asiatici (in particolare Thailandia e Vietnam per la gioielleria e Turchia ed India per l’oreficeria) che possono contare sia su un minore costo del lavoro, sia sulla vicinanza dei mercati di estrazione e lavorazione delle materie prime, sia anche su agevolazioni doganali. La produzione di questi paesi è per ora concentrata sulle fasce medio-basse, anche se la qualità dei manufatti evidenzia un miglioramento progressivo.

Il distretto cinese di Panyu di Guangzhou – un’area a basso costo del lavoro ma

con manodopera specializzata – conta la presenza di circa 200 unità produttive orafe di proprietà di aziende di Hong Kong, che danno lavoro a più di 50.000 addetti. La produzione annua del distretto è di circa 604 milioni di dollari USA e gli impianti so-no in grado di trasformare più di 100 tonnellate di oro e platino ogni anno. Il 95% del-la gioielleria prodotta in quest’area è destinata al mercato di Hong Kong ed anche all’esportazione in Europa e Oceania.

Di fatto sui mercati internazionali questi paesi emergenti stanno erodendo

quote di mercato ai produttori europei, spostando la competizione sui prezzi e ponendo una forte pressione sui margini. Le imprese italiane hanno finora ri-sposto posizionandosi sulle fasce più alte del mercato che però per definizione sono riservate a poche aziende. Questa considerazione risulta tanto più vera se messa in relazione con la relativamente scarsa capacità delle nostre aziende di sostenere una strategia di posizionamento a livello internazionale.

Bisogna ricordare come nel settore l’innovazione di prodotto (che può es-sere coperta da brevetto ornamentale e da registrazione del modello)4 sia scar-samente difendibile se non è accompagnata dalla creazione di un sistema di offerta innovativo e differenziato.

Questi stessi paesi concorrenti, in particolare la Cina e l’India, potrebbero però rappresentare, nel lungo termine e non per tutte le aziende, un’oppor-tunità come mercati di sbocco sia per il progressivo miglioramento degli stan-dard di vita sia per l’ancora forte significato che viene attribuito ai prodotti orafi come beni da ricorrenza e rifugio. Anche se spesso il mercato non è an-cora così evoluto come si potrebbe pensare.

La produzione cinese di oro è stata pari, nel 2003, a 24,1 miliardi di dollari ameri-

cani in valore ed il settore conta più di 5 milioni di addetti. Nonostante questi numeri,

4 L. Carcano, E. Corbellini, G. Lojacono, P. Varacca Capello, Il mondo orafo tra tradizione ed innovazione, Etas, 2002.

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però, il mercato cinese è ancora di difficile accesso per le imprese non cinesi. Le ven-dite di prodotti orafi sono in aumento, ma gli oggetti contraffatti sono molto diffusi. Il consumatore cinese deve essere educato, solo così il mercato locale potrà evolversi.

L’India può contare su circa 150.000 gioiellerie e più di 15 milioni di artigiani.

Le principali aziende indiane di produzione (Canibon, Oyzterbay, Gili, Tren-dsmith...) stanno cercando di affermare una propria strategia di marca. Per esempio, Tanisq conta attualmente circa 70 negozi in 54 città indiane, con un piano di espan-sione che prevede 30-40 aperture ulteriori prima della fine del 2005. Tanisq detiene circa il 30% della quota di mercato di marca indiano, ma solo l’1% della totalità del mercato orafo.

Dall’analisi dei principali mercati di esportazione orafa italiana, si deduce

come la quota destinata ai mercati dell’ Europa Occidentale sia bassa (intorno al 30%, di cui l’8% verso la Svizzera) rispetto a quella evidenziata dal totale dell’industria manifatturiera italiana. Le esportazioni orafe sono dirette, in primis, per il 35% verso il Nord-Centro America, prevalentemente Stati Uniti, che contano da soli per il 30% delle esportazioni italiane. È invece pari all’11% la quota coperta dall’Asia (Hong Kong, Cina e Giappone) un valore quasi simile a quello dei soli Emirati Arabi (circa il 7%).

I consumatori statunitensi nel 2004 hanno speso circa 57,4 miliardi di dollari in

acquisti di gioielleria ed orologi. Le vendite di questi prodotti hanno conosciuto un tasso di incremento superiore a quello di altri beni durevoli. Il pubblico di riferi-mento si conferma prevalentemente femminile, tra i 20 ed i 50 anni, con un alto reddito; però il retailer con il fatturato maggiore è risultato essere Wal-Mart. I seg-menti a maggiore sviluppo sono stati, da un lato, l’alta gioielleria per il pubblico femminile e l’orologeria per quello maschile e dall’altro il segmento della bigiotte-ria e degli orologi fashion.

Le aziende orafe confermano la loro spiccata propensione all’esportazione

anche attraverso le vendite verso mercati più lontani (Medio Oriente, Nord Africa e Nord America in primis). Ancora una volta questo atteggiamento strategico può avere una duplice lettura, sia di alta propensione ai mercati e-steri sia di assenza di una strategia internazionale ben definita, ma basata in-vece sul cogliere le opportunità che si presentano. Ad eccezione del Nord America, gli altri mercati si caratterizzano per la presenza di una struttura di-stributiva che richiede di operare con partner locali, confermando la natura di prevalente esportazione indiretta degli scambi delle aziende italiane.

Invece che continuare a focalizzarsi sui nuovi mercati in crescita, da un punto di vista gestionale, le aziende orafe dovrebbero investire per consolidar-si e competere con successo sui mercato evoluti (Europa, USA e Giappone),

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definendo nel contempo una strategia per i mercati emergenti. La sfida aperta è proprio quella di riuscire a crescere in Europa e negli Stati Uniti.

La concorrenza internazionale comincia però anche a sentirsi sul mercato nazionale. Dai dati sulle importazioni di prodotto finito, emerge come i seg-menti più bassi, sia della gioielleria sia dell’oreficeria, tendano ad essere co-perti da concorrenti provenienti da paesi a più basso costo della manodopera ma a grande tradizione locale come l’India e la Tailandia.

In un decennio, le importazioni di prodotti finiti in Italia sono passate dal 10% al 25% del totale dei consumi nazionali. Per quasi la metà provengono dall’Europa (di cui circa il 34% dalla Svizzera ed il 9% dalla Francia); seguo-no l’Asia con un 15% e la Turchia da sola con un 13% in valore ed un 22% in volume.

A differenza di quanto avviene in altri settori, il ricorso alla delocalizza-zione produttiva è ancora scarso con l’unica eccezione delle fasi altamente standardizzate. L’artigianalità che caratterizza la maggior parte delle fasi di lavorazione, le serie di piccole dimensioni e la struttura familiare di per sé rappresentano un vincolo allo spostamento di fasi di produzione fuori dai con-fini nazionali.

L’investimento in delocalizzazione può trasformarsi in una modalità per creare valore sia per il consumatore finale sia per l’azienda stessa. La riduzio-ne dei costi di produzione, infatti, non deve necessariamente tradursi in una riduzione di prezzo per il consumatore finale; l’azienda può sfruttare il diffe-renziale con i costi produttivi, mantenendo invariati i propri prezzi, per inve-stire in politiche di crescita. Il consumatore tende sempre di più ad acquistare i prodotti che vengono comunicati – sia attraverso la pubblicità, sia dal gioiel-liere di fiducia – ed esposti nelle vetrine. Raggiungere certe economie di sca-la, diventa importante per assicurarsi le risorse da investire in creazione del valore per il punto vendita e per il consumatore. Essere piccoli può trasfor-marsi in un vincolo forte.

Se il gioiello è di buona fattura e livello qualitativo – come può avvenire quando, per esempio, il prodotto viene realizzato fuori dai confini nazionali ma su disegno del committente e con il controllo qualitativo effettuato in Italia – al consumatore non interessa dove viene prodotto il gioiello.

Nell’immaginario collettivo, il gioiello è “Made in Italy”, ma quanti sono i clienti che controllano la punzonatura (ovvero l’identificativo di fabbrica) prima dell’acquisto? La marca del produttore, l’insegna del punto vendita o la competenza del gioielliere rappresentano la garanzia principale per l’ac-quirente.

La delocalizzazione inoltre non deve essere pensata solo in termini di ridu-zione di costi aziendali e di differenziali nei costi di manodopera. Nel proces-so decisionale entrano altri aspetti, come per esempio, la gestione ed il costo

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della logistica, per prodotti a basso volume, e la necessità di polizze assicura-tive ad hoc. Le opportunità che un’area geografica potrebbe offrire, la tipolo-gia di prodotto che si pensa di realizzare, le caratteristiche della distribuzione locale sono altri elementi che devono essere considerati e valutati.

Il centro decisionale, le funzioni vitali, devono essere mantenute in Italia, così come tutte le competenze (tecniche, di design, di ricerca) chiave per l’azienda, ma le fasi a minor valore aggiunto possono essere spostate in altri mercati, senza per questo minare, agli occhi dei consumatori, la credibilità del prodotto che viene offerto e la competitività del territorio stesso.

La sfida da cogliere è quella di riuscire a capitalizzare l’intuizione geniale dell’imprenditore all’interno di strutture manageriali, pur se di proprietà fami-liare. Il salto che la competizione internazionale richiede alle aziende italiane è quello di riuscire ad associare alla creatività e alla spontaneità – tipicamente artigianali, che finora hanno caratterizzato le iniziative nazionali – la dimen-sione e la cultura da industria.

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8. Il valore del gioiello Made in Italy di Erica Corbellini∗ 8.1. Il gioiello Made in Italy: una realtà economica importan-

tissima… peccato che a saperlo siano solo gli addetti ai lavori

L’Italia è il più importante produttore orafo europeo per numero di impre-

se, addetti e valore della produzione. A livello mondiale è uno dei principali trasformatori di oro ed è leader nella produzione di catene prodotte a macchi-na e a mano1. In cifre, la produzione italiana di gioielleria rappresenta più del 71% di tutta la produzione europea e il 15% del mercato mondiale2.

Il problema è che negli ultimi trent’anni si è prodotto molto, ma non altret-tanto si è lavorato per promuovere e tutelare il Made in Italy. Come risultato oggi, quando bisognerebbe recuperare a valore i punti persi nelle quantità per effetto della competizione dei paesi emergenti a basso costo della manodope-ra, il nostro patrimonio di gusto e saper fare rischia di non trovare valorizza-zione in termini di premium price.

Dopo anni di crescita ininterrotta, nel 2001 il settore ha visto una significa-tiva contrazione ed ha toccato nel 2003 il punto più basso.

Si tratta di una crisi strutturale, non di una fase ciclica, che mette in discus-sione la regola aurea su cui si era basata la crescita: l’idea che il prodotto fos-se sovrano e che per vendere fosse sufficiente produrre. Oggi la montagna non va più a Maometto: produrre non basta più, bisogna sapere vendere, e vendere non è sufficiente se non si sa anche guadagnare con margini e risorse. È un

∗ Erica Corbellini è docente dell’Area Strategia presso la SDA Bocconi, dove insegna manage-ment della moda. Si occupa del processo di comunicazione con particolare riferimento alle im-prese che producono beni ad elevata intensità simbolica (moda, gioielleria, cosmetica). 1 Per un’analisi più dettagliata si rimanda al capitolo: “Il settore orafo in Italia: situazione attua-le e trasformazioni strutturali”. 2 Fonte: Confindustria 2004.

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problema di dimensioni3, che ne sottintende un altro di assenza di manage-ment e risorse finanziarie. La creazione di marche rappresenta una soluzione per alcune aziende ma non può essere la risposta per l’intero comparto mani-fatturiero (anche perché la marca tende ad essere apolide: nel Made in Gucci, per esempio, c’è in parte l’Italia ma c’è, anzitutto, il potere della marca). Di-fendere il prodotto orafo Made in Italy dovrebbe significare, infatti, difendere anche la maggioranza di volumi di oro trasformato legati alla produzione di catename unbranded e di fascia media. Con un problema di fondo: diversa-mente da quanto avviene nella moda (abbigliamento e accessori) il marchio Made in Italy non sembra essere un elemento qualificante per il consumatore finale.

Non solo l’assenza di marche priva il prezioso italiano di quegli elementi simbolici ed emozionali che sono oggi il vero cardine del premium price, ma il Made in Italy nel gioiello non viene utilizzato neppure come certificatore di qualità in un ruolo informativo. L’identità del prodotto orafo italiano, univer-salmente riconosciuta dalla distribuzione (per anni Made in Italy è stato sino-nimo di eccellenza indiscussa nella produzione), è scarsamente o per nulla percepita dal consumatore finale.

L’Italia del gioiello non è riuscita a controllare la distribuzione, vista al più come un cliente da finanziare (e il risultato è che oggi il mercato penalizza i produttori italiani, sostituendoli nella fornitura, senza peraltro saldare gli e-normi debiti accumulati nei loro confronti) e non, invece, come un partner da fidelizzare investendo per crescere insieme. Ciò anche perché non è mai stato comunicato istituzionalmente il concetto del gioiello Made in Italy. Così le sorti del settore orafo sembrano essere un tema solo per gli addetti ai lavori: operatori, associazioni e stampa specializzata. Non interessano ai consumatori finali che, diversamente da quanto avviene per la moda non sono consapevoli dell’importanza del settore per l’economia del paese. E, storicamente, poco hanno contato anche per la politica, basti pensare che l’Italia, il principale produttore orafo europeo, non è nemmeno riuscito a far accettare a livello in-ternazionale i propri standard sulla punzonatura4 (si veda, a tal proposito, l’allegato “Tutelare il Made in Italy: la lunga battaglia del settore orafo”).

Siamo un paese con la vocazione a produrre per terzi? Forse... finché ce lo lasceranno fare.

3 Per approfondimenti si veda il capitolo 4. 4 Il termine punzonatura indica il marchio impresso sul prodotto finito che riporta il contenuto di metallo prezioso presente nell’oggetto e il numero identificativo del produttore attribuito dal-lo Stato. Il punzone viene applicato dall’azienda sotto la propria responsabilità, ovvero non esi-stono forme di controllo obbligatorio da parte di enti terzi per la validazione dei contenuti dei titoli dei metalli preziosi.

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8.2. I tratti distintivi del prodotto orafo Made in Italy: una creatività che deriva dal saper fare

In senso generale, il Made in Italy richiama tanto dei contenuti intrinseci

di prodotto (bello, ben fatto e utile), quanto dei valori intangibili legati ad uno stile di vita (acquistare un prodotto italiano significa acquistare non solo un articolo di moda ma anche la chiave d’accesso ad una comunità che trova il suo collante nel bello e nel gusto). I prodotti italiani non vengono riveriti come opere d’arte, da guardare ma non toccare, come quelli francesi, ma so-no apprezzati per la loro usabilità e funzionalità, per la capacità di dare una dimensione estetica al quotidiano. Quello italiano è un prodotto che, se è formale mantiene comunque una funzionalità, un comfort, un’indossabilità forti, se, invece, è informale lo è in un modo elegante. E dove molto forte è la componente di manualità e qualità percepita. I contenuti intrinseci del prodotto sono importantissimi: molto più di quanto avviene per altri celebri Made in (come il Made in France o il Made in USA) nel mondo del-l’abbigliamento, del design e degli accessori il Made in Italy è identificato anche come una garanzia. Al prodotto moda Made in Italy viene riconosciu-to un contenuto di innovazione, intesa non tanto come sperimentazione stili-stica quanto come creatività applicata che porta ad “un miglioramento dure-vole nella funzionalità, nell’usabilità, nel rapporto qualità/prezzo del prodot-to”5. È un prodotto caratterizzato anche da una grandissima varietà, frutto di una cultura artigiana. Un’eccellenza che si esprime spesso nell’unicità, e questo diventa anche un limite (si pensi al fatto che, pur avendo i migliori ristoranti, pizzerie, gelaterie e panifici del mondo, non siamo riusciti a crea-re nessuna catena).

Ma, come si diceva, è un concetto di complessa definizione perché alla componente tangibile se ne accompagna una intangibile altrettanto forte. Il Made in Italy evoca, infatti, soprattutto uno stile di vita, un modo di essere, di vedere le cose (l’effetto Rinascimento, conseguenza del vivere nel museo a cielo aperto più grande del mondo, che influenza la sensibilità estetica degli italiani). È un immaginario che si identifica con la dolce vita, intesa come arte di saper vivere bene, buon cibo, compagnia, ospitalità e generosità, del pae-saggio che riempie gli occhi.

E proprio per questa compenetrazione di elementi, il Made in Italy per es-sere compreso richiede un’esperienza diretta: il prodotto italiano va toccato, gustato, indossato, vissuto. È una fruizione al contempo funzionale e culturale

5 S. Saviolo, “Made in Italy e innovazione”, Economia & management, 5/2004.

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che necessita di un’educazione alla grande varietà e alla preziosità intrinseca e non ostentativa6.

Alla luce di quanto esposto, esiste un gioiello Made in Italy? E quali sono i suoi tratti distintivi?

Così come nella moda il Made in Italy trova tante espressioni quanti sono i modi di interpretare il bello (e lo spirito dei luoghi che ne costituiscono l’ispirazione) – dalla Magna Grecia di Versace, all’eleganza sofisticata mila-nese di Prada e Giorgio Armani, dall’esuberanza fiorentina di Roberto Caval-li, al barocco siciliano di Dolce & Gabbana – anche il gioiello italiano non si identifica con nessuno stile preciso, pur avendo un tratto comune nella con-temporaneità. Il Made in Italy nell’orafo è, soprattutto, eccellenza manifattu-riera: prima ancora della maestria artigiana di Gianmaria Buccellati o del lus-so audace di Bulgari, l’oreficeria italiana si identifica con realtà come Crova o Vendorafa che producono per i marchi più prestigiosi a livello mondiale. Un primato manifatturiero nato dall’aver saputo interpretare con fantasia dei vin-coli (la possibilità di passare dal prototipo all’industrializzazione) estrema-mente rigorosi. È, pertanto, un’intelligenza che deriva dal saper fare: non solo creatività ma anche capacità di industrializzare tale creatività (che è pure un atto creativo).

Quello tra un indotto fatto di artigiani e un prodotto prevalentemente indu-striale è un equilibro difficile. Da una parte l’impossibilità di generare volumi del laboratorio artigiano, dall’altra il rischio di standardizzazione produttiva della catena industriale. E proprio la capacità di conciliare gli opposti – ren-dendo applicata la creatività e combinando i volumi con la qualità – è la ra-gione di successo del sistema Italia. Quella italiana è una produzione concet-tualmente artigiana che ha saputo poi industrializzarsi: più che un prodotto in-dustriale è un prodotto realizzato. L’imprenditore orafo non è uno stilista ma un artigiano che conosce sia l’oro sia la meccanica e che, proprio in virtù della conoscenza tecnica, è in grado di inventare dei prodotti creativi. È una creati-vità sistemica, dove le invenzioni (dalle leghe per vendere titoli diversi dai 18 carati al girocollo che pesa due grammi) sono sempre state il risultato tanto della competenza sulle caratteristiche del metallo degli orafi quanto delle co-noscenze tecniche di chi produceva i macchinari. È una capacità di innovazio-ne incrementale, di continuo affinamento della tecnologia, di ridisegno dei processi, con il fine di aumentare la qualità della lavorazione, trovare nuove combinazioni dei materiali ed effetti estetici, ottenere diversi pesi, migliorare il rapporto qualità/prezzo. È anche un’innovazione che, non essendo quasi mai

6 Per una disanima più articolata del concetto di Made in Italy, si rimanda a: E. Corbellini, S. Saviolo, La scommessa del Made in Italy, Etas, 2004.

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brevettabile, ha permesso agli altri di entrare in corsa e raccogliere senza so-stenere i costi di sviluppo.

Creatività applicata, innovazione, dinamismo, contemporaneità: questi i tratti distintivi del prodotto orafo italiano. Peccato che, con l’eccezione di al-cuni singoli, il sistema non sia stato in grado di “griffarli”. Il risultato è che nel gioiello la denominazione di origine assume scarsa o nulla rilevanza sim-bolica per il consumatore finale. Anche nella moda il Made in Italy è un con-cetto che è stato codificato anzitutto dagli stranieri (i grandi department store americani). Nel settore orafo, però, diversamente dall’abbigliamento e dai suoi accessori derivati, è mancato il volano di immagine degli stilisti. Il terzi-smo, una fase fortemente correlata al brand del Made in Italy (e non solo nell’orafo), non ha un’identità. Sostituita nelle vetrine della distribuzione in-ternazionale, l’Italia della gioielleria ha perso la capacità di fare tendenza.

La costruzione di un’identità: Pomellato Il successo di Pomellato è legato al concetto di gioiello prêt-à-porter, un accessorio

di lusso che del lusso condivide il contenuto simbolico, la creazione di emozioni nel quotidiano. È anche un successo italiano che nasce dalla capacità di chi crea di dialo-gare con chi produce, utilizzando la tecnica di stampo artigianale della cera persa, e dall’elasticità mentale che, a chi utilizza la cera persa, deriva dall’essere cresciuto in Italia e non altrove7.

La cera persa (una tecnica manifatturiera che consente una grande elasticità e dut-tilità nella creatività ma ha dei precisi vincoli legati ai quantitativi) non può essere la soluzione per l’intero sistema: la gran parte della produzione italiana, e alcuni marchi del lusso che ambiscono ad una forte presenza internazionale, hanno bisogno di vo-lumi e quindi di ricorrere a soluzioni industriali compatibili sia con la qualità dell’artigianalità sia con i volumi (per esempio quelle offerte dalle macchine a cinque assi). Tuttavia, tale tratto distintivo, unito ad un’estrema coerenza nella declinazione del marchio a livello di prodotto, immagine e distribuzione, ha permesso a Pomellato di costruire un posizionamento unico e difendibile. E che non può esistere difendibilità senza differenziazione è una lezione che dovrebbe essere fatta propria da tutto il si-stema Italia.

8.3. L’immaginario del gioiello francese: Rue de la Paix e Place Vendôme

Uno dei motivi più importanti della mancata comunicazione del gioiello

Made in Italy è da ascriversi all’assenza di marche. Il marchio ombrello può, infatti, certificare la qualità ma sono poi i marchi che veicolano, anche a bene-

7 Francesco Minoli, in un’intervista all’autrice in data 02/11/2004.

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ficio dell’intero sistema, quegli elementi simbolici ed emozionali su cui si fondano gli immaginari. La scarsità di marchi è un problema che riguarda non solo l’Italia ma la gioielleria in generale: i nomi di reale prestigio e diffusione internazionale si contano sulle dita di una mano (Bulgari, Cartier, Tiffany e pochissimi altri).

Degno di nota è, poi, il fatto che i pochi grandi marchi della gioielleria fos-sero all’origine dei retailer che commissionavano i loro prodotti ad artigiani, e non dei produttori. Un modello di business lontano da quello tipico del siste-ma Italia ma condiviso da tutti i grandi nomi francesi: Boucheron, Chaumet, Van Cleef & Arpels, Cartier sono tutti gioiellieri che hanno creato la marca sul punto vendita.

Cartier è, anzitutto, Cartier Paris; poi Rue de la Paix 1847 la prima bouti-que; infine i grandi clienti: dalle corti (le imperatrici austriache, le regine in-glesi, i granduchi russi, i principi persiani, i maragià indiani), a “les nouveaux riches” (i banchieri, gli industriali, le ereditiere americane), fino allo star sy-stem hollywoodiano (il diamante Taylor-Burton). È l’esaltazione dell’imma-ginario francese: gioielleria (e non oreficeria come in Italia, è la pietra l’elemento cardine); Parigi e, in particolare, due luoghi, Rue de la Paix e Place Vendôme; il sogno e il superlusso.

L’immaginario di riferimento francese, anche nei gioielli, è quello della haute couture, della creazione su misura per l’occasione speciale rivolta a po-chissime privilegiate dove lo sfarzo e l’esteriorità sono ai massimi livelli. In realtà è più un percepito che una reale fotografia: così come la couture assurge oggi al ruolo di mero evento comunicativo, una provocazione creativa che o-gni stagione, tramite la stravaganza delle sue proposte stilistiche, deve accen-dere i riflettori sul marchi al fine di giustificare la vendita di profumi, alcolici e borse griffate, ugualmente nel gioiello il marchio blasonato aiuta a costruire la leva aspirazionale ma poi la maggior parte del business viene realizzata con etichette medie molto più accessibili.

Anche Bulgari è all’origine un retailer che è diventato marca nel periodo della dolce vita quando tutto lo star system ruotava intorno a Roma. Analogo è il percorso seguito dalle marche svizzere: Chopard serviva dalla piazza di Ginevra i clienti arabi.

Orfane dei principi di Place Vendôme e delle star Hollywoodiane di Bul-gari e dei marchi americani, la maggior parte delle imprese orafe italiane – per natura produttori e quindi non visibili – non ha trovato nessun concetto, nes-suna eredità del Made in Italy alla quale ancorare la propria immagine.

Milano Collezioni e il Salone del Mobile hanno un’eco fortissima sui con-sumatori finali; Vicenza è una fiera specialistica per addetti ai lavori. Il gioiel-lo lo indossano i consumatori ma è come se le imprese vedessero il mercato solo come un business to business.

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8.4. Rimettere l’azienda di produzione Italia al centro dell’at-tenzione

In un settore ad elevatissimo grado di dispersione, quale quello orafo ita-

liano, l’unione fa la forza. In questo senso, in modo vario, si muovono le nu-merose associazioni imprenditoriali presenti nel settore;8 tra queste il Club degli Orafi è il punto di riferimento per la condivisione della conoscenza e delle pratiche manageriali tra le realtà eccellenti del comparto.

Bisogna fare squadra perché il problema non è più quello di farsi la guerra in Italia: la competizione oggi viene da fuori, da qualcuno che non parla la stessa lingua, non vede il business allo stesso modo e, spesso purtroppo, non segue neppure le stesse regole. Insieme o da soli, i produttori italiani devono porsi la priorità di raggiungere una taglia che permetta loro di competere in-ternazionalmente, sia come marchio sia come partner industriale di filiera.

È necessario anche uno scatto creativo: mantenere la rilevanza dell’Italia nel mondo del gioiello significa riproporre con continuità le ragioni del suc-cesso – la qualità di sistema, l’innovazione continua, la velocità, la sensibilità estetica che diventa propositività stilistica – ma servono anche la visione e i talenti imprenditoriali per trovare nuovi modelli di business e per rendere fi-nalmente protagonista la comunicazione.

Servono nuovi modelli di business per cogliere la sfida di un mondo dei gioielli sempre più vicino all’area dell’accessorio moda, un’area in cui l’Italia, leader della moda mondiale, parte avvantaggiata. Finora l’avvicinamento al gioiello è venuto prevalentemente dalla moda – che si è scontrata però con lo-giche molto diverse (dalla stagionalità al mark up) – ora tocca ai produttori del gioiello trovare forme innovative di collaborazione: da una parte la firma, la forza della marca, l’aspirazionalità della moda, dall’altra la capacità di esal-tare l’idea creativa industrializzando l’artigianalità del settore orafo. Il legame con la moda è una carta da giocare, anzitutto, in ottica di comunicazione. Il Made in Italy nella moda è riconosciuto universalmente e Milano è il suo pal-coscenico mondiale. È giunta l’ora per il settore orafo di abbandonare i locali-smi: non è più forse sufficiente portare il mondo a Vicenza; bisogna portare Vicenza fuori. Milano, in quanto incubator di creatività, luogo dove il design diventa business, potrebbe rappresentare una grande vetrina di immagine (e

8 Federorafi (la Federazione Nazionale Orafi Gioiellieri Fabbricanti) è attivamente impegnata nella salvaguardia degli interessi del settore manifatturiero e nella promozione della ricerca e dell’internazionalizzazione del settore. Tra le iniziative più recenti si ricorda l’istituzione della Federazione dell’accessorio insieme alle associazioni di categoria della pelletteria, delle calza-ture e degli occhiali con l’obiettivo di portare avanti operazioni congiunte di promozione. Si ringraziano Alessandro Biffi e Stefano De Pascale per le informazioni fornite con riguardo all’allegato 1.

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affari) per il gioiello, nella consapevolezza che un’immensa opportunità nei mercati mondiali è quella di rappresentare la città Italia.

Infine, difendere, promuovere e rilanciare il settore orafo significa ribadire che il successo del Made in Italy è nato dal connubio tra il saper leggere e il saper fare: il gioiello Made in Italy deve essere pensiero, ma anche manifattu-ra. Oggi, strangolate dalla competizione internazionale, parte di un sistema poco attrattivo per i giovani, senza management e risorse finanziarie, le im-prese orafe rischiano di non sapere più fare. Pensiero e manifattura: riuscire-mo ancora a generare delle idee quando non sapremo più fare?

Allegato 1 – Tutelare il Made in Italy: la lunga battaglia del settore orafo

Dal punto di vista normativo, il settore orafo è impegnato nella battaglia

plurisettoriale per l’introduzione dell’indicazione obbligatoria dell’origine dei prodotti nell’Unione Europea. In quest’ottica si inseriscono anche le richieste di specifici controlli a livello di dogane e di sorveglianza sul mercato.

Diversamente da quanto avviene per altri paesi (come gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina), infatti, sia la legislazione italiana che quella comunitaria non prevedono disposizioni specifiche che impongano di apporre ai prodotti etichette con l’indicazione di provenienza geografica né ai beni importati né a quelli domestici. La denominazione di origine è, dunque, facoltativa. Esisto-no, al contrario, norme, sia italiane che internazionali, che espressamente vie-tano l’apposizione sui prodotti di indicazioni non veritiere9 o di indicazioni che possano trarre in inganno il consumatore sulla reale origine del prodotto10.

Infine, le norme stabiliscono che è possibile apporre legittimamente l’e-tichetta Made in oltre che sui prodotti interamente realizzati in un determinato stato membro, anche su quei prodotti la cui ideazione, creazione, progettazio-ne e montaggio avvengano nello stato membro considerato. In base a tali norme, pertanto, la realizzazione di fasi del ciclo produttivo caratterizzate da un minor valore aggiunto al di fuori dei confini nazionali non toglie legittimi-tà all’apposizione del marchio Made in quale certificato di origine. L’ac-quisizione del marchio Made in presuppone, quindi, due condizioni principali: una “trasformazione o lavorazione sostanziale” e una “trasformazione econo-micamente giustificata”. Nell’orafo (origine non preferenziale: regole utilizza-te per attribuire l’origine comunitaria ai prodotti esportati verso i paesi non

9 Art. 517 cod. penale che prevede la pena della reclusione fino ad un anno per false dichiara-zioni. 10 Disposizioni sulle false indicazioni di origine contenute nell’Accordo di Madrid.

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legati all’Unione Europea da accordi tariffari particolari) è necessario che venga realizzato in Italia almeno il 40% del valore del prodotto (ad esclusione della materia prima).

Allo stato attuale, quindi, due sono le marcature del gioiello richieste dalla legge italiana: la responsabilità del produttore (marchio di identificazione) e il titolo che definisce il contenuto aureo (che varia a seconda dei mercati: dai 9 carati inglesi pari a 375 millesimi di oro, fino ai 14 carati americani o ai 24 di alcuni mercati arabi pari a 1000 millesimi di oro). Il marchio di origine è un elemento solo facoltativo, un’informazione in più data al consumatore.

Quella per l’introduzione obbligatoria della denominazione di origine è una lunga lotta: in Europa i paesi che hanno interesse a salvaguardare la manifattura sono pochi, prevalentemente quelli dell’area mediterranea e, an-che al loro interno, vi sono imprese che si avvantaggiano dell’attuale buio legislativo.

Gli ultimi orientamenti della commissione europea sembrerebbero favorire un approccio settoriale (introduzione dell’obbligatorietà dell’indicazione di origine sulle merci importate solo per alcuni comparti). Il settore orafo-ar-gentiero, inizialmente escluso, è stato successivamente inserito nella lista dei settori che beneficerebbero dell’obbligatorietà del marchio (tessile/abbiglia-mento, calzatura, pelle, gomma, ceramica, arredo/legno, occhialeria e, appun-to, oreficeria) anche grazie all'intervento delle autorità competenti11, che han-no debitamente sollevato la questione in sede europea.

Con l’obiettivo di tutelare l’arte orafa nazionale – impedendo l’esporta-zione o l’importazione di prodotti impropriamente muniti della marchiatura peculiare degli oggetti fabbricati in Italia ma che in realtà risultano realizzati, in imitazione, in paesi extra Spazio Economico Europeo – è attualmente in at-to un progetto di revisione normativa in materia di titoli e marchi di identifi-cazione dei metalli preziosi (legge n. 251 del 22/5/99: “Disciplina dei Titoli e dei Marchi di Identificazione dei metalli preziosi” e relativo Regolamento). Le proposte sono tese da un lato a migliorare l’applicazione della legge e dall’altro a semplificare le procedure per le imprese (registrazione marchi commerciali, marchiatura laser etc.). In particolare, le richieste vertono su: • una differenziazione della conformazione dei marchi tra i produttori pro-

priamente detti e gli altri soggetti che operano nel settore (venditori di ma-terie prime, importatori, commercianti); tale modifica è volta a fronteggia-re i diffusi casi di oggetti fabbricati all’estero, introdotti in Italia per la sola

11 Dal 1996 Federorafi ha creato e finanzia la struttura di rappresentanza dell’industria orafa europea con sede a Bruxelles, E-Jag (European Jewellers Associations’ Group), impegnata nel-la difesa degli interessi dell’industria orafa europea con particolare riferimento alla problemati-ca dei dazi doganali e delle barriere tecnico-commerciali.

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punzonatura e successivamente esportati all’estero come prodotto Made in Italy;

• una nuova disciplina delle importazioni che preveda l'obbligo di evidenzia-re sugli oggetti provenienti fuori dallo Spazio Economico Europeo lo stato dove gli stessi sono stati prodotti e imponga precisi doveri per gli importa-tori;

• una più ampia articolazione della disciplina sanzionatoria, fondata su nuo-ve fattispecie di illeciti e su un generalizzato aumento degli importi delle sanzioni (con la proposta di destinare il 50% dei proventi al finanziamento dell'attività di sorveglianza e il rimanente 50 ad iniziative di promozione e sviluppo della qualità nel comparto orafo-argentiero). Vi sono poi una serie di misure atte a semplificare le procedure che gli as-

segnatari dei marchi di identificazione sono attualmente tenuti a svolgere: • la possibilità di procedere ad una marchiatura degli oggetti, diversa dalla

punzonatura, realizzata mediante l’utilizzo di apparecchi laser, ove questi permettano la riproduzione di impronte che definiscano in maniera univoca il soggetto che le ha apposte;

• una riduzione dei tempi di riproduzione dei punzoni relativi al marchio di identificazione, mediante la messa a disposizione delle matrici, da parte delle camere di commercio, nel termine massimo di trenta giorni;

• la facilitazione degli adempimenti correlati all'apposizione dei marchi tra-dizionali di fabbrica sugli oggetti prodotti. Infine le Associazioni richiedono l’utilizzo, in sede di sorveglianza, di una

tecnica di analisi preliminare non distruttiva degli oggetti, basata sull’uso di spettrometri a raggi X (a condizione che assicurino un errore di indicazione del titolo non superiore al tre per mille).

Critica è, poi, la battaglia giuridica per l’introduzione di un’armonizza-zione all’interno dell’Unione Europea nei sistemi di riconoscimento della punzonatura. La legge settoriale italiana (251/99 e relativo regolamento) ha, in primo luogo, il limite di creare un equivoco tra chi produce direttamente e chi, invece, fa produrre importando da un paese extra UE perché il marchio è iden-tico (l’equivoco verrà superato quando verranno approvate le proposte di mo-difica della legge prima riportate). Inoltre, fatto ancora più grave, la punzona-tura del principale produttore europeo non è riconosciuta da una serie di stati membri. Portogallo, Spagna, Francia, Irlanda, Gran Bretagna e Olanda preve-dono, infatti, un’imposizione obbligatoria di marchi e di altri controlli aggiun-tivi (cosiddetto sistema dei doppi controlli “hallmarking”) sui prodotti in me-tallo prezioso prima della loro commercializzazione sul proprio territorio, an-che se sono stati legalmente realizzati e controllati in un altro paese membro.

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Non vale il principio del reciproco riconoscimento. La mancata armonizza-zione legislativa e tecnica è all’origine di una serie di problemi per le aziende italiane (diversità nei titoli ammessi, tolleranze, saldature, differenze nei me-todi di controllo di analisi campioni) e costi aggiuntivi per i doppi controlli (pagamento controlli, oneri per ritardata consegna e danneggiamento prodot-ti). Se a tali problemi si aggiungono l’assenza di una reciprocità di trattamento tariffario e non (dazi doganali e barriere tecniche e commerciali), che crea si-tuazioni di grave squilibrio per la nostra industria orafa nei confronti sia dei paesi industrializzati (per esempio Stati Uniti) sia di quelli cosiddetti in via di sviluppo (per esempio Cina), i notevoli danni che derivano a fabbricanti e commercianti (e consumatori finali) dalla contraffazione (imitazione fraudo-lenta di un prodotto e fallace indicazione di origine), la sostanziale difficoltà nell’applicazione di controlli e sanzioni, si comprende perché il settore orafo sia in assoluto uno dei meno tutelati.

La strada verso la libera concorrenza è ancora in salita.

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9. Questioni di fondo di Antonio Catalani

La ricerca effettuata e le riflessioni che sono emerse nel corso dei focus group ci hanno portato ad individuare alcune questioni di fondo legate alla cultura, alla tradizione e alla natura specifica del settore orafo italiano. Si trat-ta in sostanza di alcuni aspetti che spesso, se rimessi in discussione, possono dare vita a nuovi punti di vista e quindi a nuovi approcci al settore.

Il cambiamento di prospettiva è un fatto che avviene naturalmente in ma-niera evolutiva, cioè è graduale e continuo. In alcuni momenti, e questo ci pa-re tra quelli, è indispensabile accelerarlo, proprio perché il contesto subisce mutazioni sostanziali, che sono difficilmente comprensibili senza rimettere in discussione quelle convinzioni che rischiano di essere diventate solo degli ste-rili e dannosi a priori.

Abbiamo pertanto ritenuto necessarie alcune riflessioni di carattere genera-le che attengono al tema del cambiamento, cioè all’insieme di modifiche più o meno radicali che si verifica in un arco temporale piuttosto breve e che in più ambiti sta interessando la società. Tali cambiamenti possono di volta in volta essere letti come risultanti di un ciclo economico meno prospero, di una ridu-zione delle somme disponibili per l’acquisto di certe categorie di prodotti a favore di altre, piuttosto che essere attribuiti alla erosione del valore simbolico che si attribuisce ad alcune tipologie di prodotti. Pensiamo tuttavia che solo tenendo in considerazione questi fattori nel complesso si possa interpretare meglio il cambiamento radicale che ha coinvolto negli ultimi anni i modelli di consumo e che difficilmente è spiegabile utilizzando uno solo di questi. La nostra lettura del settore orafo deve pertanto tener conto del contesto.

I settori possono essere visti come insiemi di aziende, che presentano ana-logie non solo merceologiche ma anche strategiche, ovvero propongono ana-loghi sistemi di offerta. Quando un settore attraversa un periodo di espansione generalmente tutte le aziende che adottano un comportamento similare, che in genere è quello richiesto in quel momento dal mercato, tendono ad avere ri-sultati positivi, pure se con diversi gradienti. Durante i momenti negativi di un settore invece la situazione cambia: ci possono essere aziende che ottengono

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risultati negativi, e sono la maggioranza, altre invece crescono e si affermano. Ciò avviene perché il consumatore tende a orientare la propria attenzione e le proprie risorse verso quei sistemi di offerta che meglio soddisfano i suoi biso-gni. Quando un settore entra in una fase di contrazione, le aziende devono quindi ripensare alla propria sintonia con il consumatore, e nulla è più perico-loso che il nascondersi dietro all’alibi della “situazione del settore”. Quello che chiamiamo “Made in Italy” può aggiungere valore al sistema d’offerta dell’azienda solo se l’azienda è efficace ed efficiente; da solo non rappresenta certo un adeguato strumento competitivo. Pensiamo quindi che sia utile af-frontare in questo capitolo alcuni dei temi principali che sono emersi nel corso dei nostri incontri con gli operatori del settore, per suggerire una visione più organica ed attuale.

9.1. Il cambiamento nei consumi e la gestione del cambia-mento

In questi ultimi anni il modello di consumo è profondamente cambiato e

sta emergendo un nuovo paradigma sintetizzabile nel “pretendere il massimo, spendendo il meno possibile”, il consumatore sembra orientato in questa dire-zione anche quando acquista prodotti di lusso.

Questa evoluzione è legata a due fattori. Da una parte la nostra società ha già pienamente soddisfatto i principali bisogni materiali: potremmo parados-salmente smettere di produrre la maggior parte dei beni per alcuni anni senza che il nostro tenore di vita ne risenta in maniera sostanziale. Dall’altra il con-sumatore è più esperto, più informato, oggi conosce i prodotti a differenza di quanto avveniva anni fa, quando si avvicinava per la prima volta a certi acqui-sti: tutti i beni sono noti e sono diventati beni “comuni”, anche quelli che de-finiamo di lusso.

Anche nell’oreficeria pretendere il massimo evidentemente va oltre le pre-stazioni e le qualità fisiche del prodotto stesso, che sono date per scontate, e coinvolge ormai tutti gli aspetti dell’esperienza, al punto che l’atto di acquisto si conclude solo se l’acquirente crea una buona relazione con il venditore, che vede così ampliare la propria responsabilità dalla originaria funzione logistica (cioè del rendere disponibili i prodotti) ad attivo operatore nella creazione del valore per il cliente.

Il processo di acquisto oggi, non essendovi più alla base i bisogni primari, è spinto da un motore che ha valenze sociali e culturali. Lo stesso aumento dei viaggi, l’accorciarsi delle distanze, le nuove tecnologie digitali, hanno portato ad un cambio nella percezione dei beni stessi. Sempre più l’acquisto appare

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legato alla qualità della relazione prodotto-marca-punto vendita-consumatore, ad uno scambio di valori che non è meramente monetario.

“Pretendere il massimo, spendendo il meno possibile” non è solo frutto di un crescente stato di incertezza per il futuro che sembra caratterizzare sempre più la società contemporanea a causa del ridimensionamento dello stato socia-le. Né basta a giustificarlo la competizione tra le diverse categorie di beni per accaparrarsi fette crescenti di un reddito disponibile che rimane sostanzial-mente stazionario; in tale competizione certamente il gioiello non esce da vin-citore. Questo comportamento è anche frutto di un cambiamento culturale: se prima era importante far sapere che era stata spesa una somma importante per acquistare un prodotto, poiché questo denotava successo e ricchezza, oggi in-vece il possesso di molti beni e la capacità di essere riusciti ad ottenere uno sconto denotano intelligenza.

Un altro importante fattore di cambiamento nei consumi deriva da una frat-tura profonda che si è verificata nel tessuto sociale: il passaggio da una società piramidale, dove i modelli di acquisto tendevano ad essere verticali e stabili, ad un modello a rete, dove le tendenze possono nascere ovunque, in qualsiasi momento.

G. Simmel e T. Veblen alla fine dell’800 affermano che, essendo la società strutturata in forma piramidale, l’acquisto di certi beni, in particolare di quelli ad elevato contenuto simbolico, è un potente forma di affermazione sociale, propria delle classi economicamente più agiate. Le classi inferiori si adeguano a tali modelli di consumo per accreditarsi nel contesto sociale; le classi agiate devono di conseguenza modificare i loro consumi per continuare a manifesta-re la loro superiorità.

A partire dagli anni ’80 si è sviluppato un modello di consumo orizzontale, più individuale, che deriva prima di tutto dalla frammentazione della società in più nuclei, dall’emergere di sottoculture, oggi pienamente legittimate (Hebdige 1979), per cui i comportamenti di consumo e gli stili vengono scelti in quanto manifestano l’adesione estetica e valoriale ad un modello che non è più universale. Tale cambiamento ha avuto anche impatto sulla definizione di oggetti di lusso1; si è passati infatti da una accezione per così dire oggettiva, legata a valori misurabili quali la rarità, la qualità di fattura, il costo, ad un portato decisamente soggettivo, legato al piacere che deriva dalla relazione tra l’acquirente e l’oggetto acquistato.

Un prodotto non si diffonde più quando se ne appropriano le classi sociali superiori, ma quando entra nel mondo degli innumerevoli segmenti che costi-tuiscono la società contemporanea. Queste “tribù” sono dinamiche, volubili; 1 Oggi più che mai diviene importante distinguere tra beni di lusso e beni che potremmo defini-re di prestigio, che si caratterizzano rispetto a quelli cosiddetti di lusso perché, oltre ad un por-tato di rarità, incorporano anche valori culturali o di sensibilità sociale.

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ciascuno di noi appartiene contemporaneamente a più gruppi, ed in ogni grup-po ha una diversa funzione: qui puoi essere leader, ma in quell’altra tribù sei gregario; oggi proponi tu una tendenza, domani la copierai. Per riuscire dav-vero innovare, non dal punto di vista tecnologico, ma dal punto di vista esteti-co, non basta accettare questa situazione sul piano teorico, ma bisogna farla veramente propria, al punto da ridisegnare le proprie strategie verso il merca-to: bisogna gettare via definitivamente la vecchia visione.

In settori caratterizzati da un elevato grado di frammentazione quale quello

orafo, perché un progetto innovativo abbia successo è importante che ci sia qualcuno che se ne faccia portatore. Per una impresa ciò vuol dire gestire la propria capacità di cambiamento e quella degli altri attori della filiera, coin-volgerli, creare assieme nuove visioni e nuove regole del gioco competitivo, tutti convinti della necessità di rimettere in discussione i propri presupposti.

Di fronte al cambiamento il valore della tradizione, così importante per molte tra le aziende orafe italiane, non deve rappresentare un alibi dietro cui nascondersi. Tutelare le tradizioni non vuol dire rimanere ancorati ad un mon-do passato, alla propria storia, senza la capacità di evolvere, ma significa ave-re la capacità di gestire ciò che rende unica la propria storia, insieme alla ca-pacità di essere contemporanei. Insomma tutelare la tradizione non vuol dire arroccarsi, ma gestire la sintesi necessaria tra tradizione e cambiamento. Si tratta di decidere quali sono i valori intoccabili da portare avanti ed esaltare e quali sono invece i preconcetti che devono essere superati e non aggirati. Co-struire un modello alternativo di sviluppo significa rimuovere il vecchio per introdurre nuovi valori.

Nei mercati il cambiamento oggi riguarda tutta la filiera: non si vince da

soli, proprio perché tutti gli attori partecipano al processo di creazione del va-lore per il cliente. Gestire il cambiamento vuol dire assumere una leadership, indicare una direzione, dare agli altri punti di riferimento nuovi. La gestione del processo quindi non è più solo tecnica ma diventa anche politica.

I processi di cambiamento sono sempre frutto di tensioni tra forze diverse e per ottenere il risultato desiderato bisogna innescare energia in forma di ri-sorse di ogni genere, di progetti che nascono da una visione, ma sono suppor-tati da fatti e da numeri. Occorre costruire una base oggettiva e darne un’interpretazione. La visione deriva dalla capacità di intuire prima l’evo-luzione del sistema competitivo ed è diversa dalla missione che invece ne consegue, e definisce il posizionamento all’interno di un certo sistema compe-titivo. Spesso l’insuccesso è legato all’inerzia e alla lentezza, altre volte a scarsa determinazione.

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Nel comportamento del settore orafo italiano possiamo identificare tre momenti. Il primo, agli inizi degli anni ’90, si può sintetizzare nella frase “a-spetto la ripresa”. Memori delle precedenti fasi cicliche del settore, gli im-prenditori erano convinti che fosse solo uno dei momenti congiunturali nega-tivi. L’atteggiamento diffuso è stato proprio quello di attesa della ripresa. Nel-la maggior parte dei casi è mancata una adeguata riflessione sulla situazione reale del mercato. Non ci si è accorti che il settore era entrato in una fase di maturità, dopo anni di espansione, e che nuovi attori stavano entrando nel mercato, dalle nazioni che tradizionalmente avevano prodotti di bassa qualità (che stavano innalzando il livello delle loro produzioni, forti anche di un bas-so costo della manodopera), ad aziende che provenivano da altri settori come la moda, o che già erano presenti nel canale distributivo, che avrebbero potuto realizzare brand extension o lanci di nuove linee. Intorno alla metà degli anni ’90, il settore si è trovato diviso tra aziende che continuavano ad avere buone performance competitive (poche) ed aziende in difficoltà. L’at-teggiamento più diffuso è stato quello di “imitare le strategie ed i comportamenti” perse-guiti delle aziende di maggior successo economico e di mercato, senza riusci-re a farli realmente propri e senza rendersi conto che i nuovi segmenti aperti da quelle aziende erano di fatto già occupati.

Solo agli inizi di questo decennio i fattori di crisi sono comparsi in tutta la loro evidenza ed il settore si è reso conto di essere entrato in una fase di cam-biamento strutturale. Ciò ha colto impreparate la maggior parte delle aziende che non sono per ora riuscite a cogliere appieno il potenziale di questo cam-biamento.

9.2. Il gioiello oggi Gli operatori del settore che abbiamo incontrato danno del gioiello una de-

finizione che è sostanzialmente convergente: un oggetto di elevata qualità e-stetica, grazie alla manifattura ed all’uso di materiali preziosi, destinato all’ornamento.

Il gioiello è il risultato di un processo di design, che è possibile descrivere utilizzando tutte le categorie della fenomenologia del design, dalla progetta-zione, alla produzione, alla distribuzione ed al consumo. Tale processo ha per fine la bellezza del prodotto, che infatti viene acquistato quando, per la sua piacevolezza, per il suo valore e per il suo contenuto simbolico si ritiene costi-tuisca un dono gradito dalla persona che poi lo indosserà; rientra quindi nella categoria degli oggetti estetici e non artistici. Ciascuno di questi attributi ha da sempre partecipato alla definizione di ciò che si intende per gioiello, ma il si-gnificato ed il valore di questi è evidentemente un portato della cultura del

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consumatore, di fenomeni sociali complessi che non possono essere sfuggiti al cambiamento strutturale che caratterizza il nostro modello di consumo. Pos-siamo infatti affermare che da una parte il gioiello deve possedere delle quali-tà che lo rendano tale, dall’altra siamo noi stessi che gliele conferiamo attra-verso la nostra cultura. Come per la maggior parte delle categorie di beni pos-siamo considerare una convenzione la definizione di ciò che è un gioiello. A causa della frammentazione che caratterizza la società contemporanea, questa non è più una convenzione universalmente accettata e condivisa, ma diviene specifica per ciascun gruppo di consumatori, in funzione della sottocultura cui appartengono2.

Il piacere estetico è conseguenza della forma e dei materiali impiegati.

Questi derivano sempre da qualcosa che già esiste nella natura, che è stata la prima fonte di ispirazione dell’uomo, oppure dalle forme già sviluppate da al-tri nella stessa categoria dell’oggetto (non si parla qui di imitazione o copia), o ancora derivano da altri settori. Il designer trova in questi ambiti le sue fonti di ispirazione e crea qualcosa di nuovo adattando le forme originali al suo sti-le, all’identità dell’azienda ed alla funzione cui l’oggetto è destinato.

Nel corso della sua storia l’oreficeria ha creato, come qualsiasi arte appli-cata, una sua norma, un modo di fare le cose che non determina il modo in cui saranno realizzati i nuovi prodotti, ma costituisce il punto di riferimento con cui confrontarsi. Ogni oggetto si misura con questa norma, quindi assume forme che divengono sempre più sofisticate nella realizzazione. In prima ap-prossimazione il suo valore tangibile, che dipende dai materiali utilizzati e dalla fattura, deriva da proprio da questo. A pari impiego di materiali preziosi un oggetto vale di più se la sua realizzazione è di qualità superiore alla media. Al contrario, a pari qualità di esecuzione rispetto alla norma vale di più se si utilizzano materiali di maggiore pregio.

Il gioiello tende anche a rappresentare qualcosa, ha un valore di comunica-zione, è un segno che assume un senso solo se fa parte dei codici e dalla cono-scenza di chi lo acquisterà.

Sia dal punto di vista della conformazione che della capacità simbolica un prodotto ci attrae quando ha un adeguato livello di novità: ciò che ci sembra troppo diverso da quello che già conosciamo non ci dà piacere, esattamente come ciò che ci sembra non abbia nulla di nuovo.

Avremo così il cliente esperto nel gioiello o quello che si lascia guidare a comprenderlo, per il quale una particolare soluzione, il colore di una pietra, 2 D. Hume, A Treatise on Human Nature, Longman, London, “…la bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente umana che la contempla, e ogni mente perce-pisce una diversa bellezza. Ma pur entro la varietà ed i capricci del gusto vi sono certi principi generali…” (1757).

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una lieve infrazione alla tradizione che porta ad una squisita eccezione, costi-tuiscono certamente motivo di apprezzamento. Ma vi è anche un cliente che non conosce il settore, che certamente trova la bellezza del prodotto nella sua fattura, ma soprattutto nel suo portato simbolico e di comunicazione, che rap-presentano i suoi veri bisogni: in questo caso la marca, il linguaggio, gli aspet-ti immateriali determinano il gradimento per il consumatore.

Per quanto riguarda gli altri aspetti che caratterizzano la tradizionale defi-nizione, il gioiello è sempre stato considerato un bene rifugio facile da portare con sé, sempre disponibile. Tradizionalmente ha sempre rappresentato un va-lore economico tramandato all’interno della famiglia per il suo contenuto pa-trimoniale, oltre che di memoria; impegnato o venduto nei momenti difficili, capace di difendere l’investimento quando il prezzo delle materie prime cre-sceva o quando la valuta perdeva di valore. Il gioiello stava anche a simboleg-giare il potere economico, la ricchezza della famiglia, la sua appartenenza ad una classe sociale.

La società contemporanea è più portata al gusto edonistico ed all’effimero, privilegia più l’abbigliamento nel suo complesso e l’immagine che il valore dei singoli elementi che entrano a costituire l’immagine stessa. Ecco perché si afferma sempre più il vissuto del gioiello come accessorio da coordinare, piut-tosto che come oggetto in sé. È una società nella quale prevale l’in-certezza, poiché oggi è impossibile garantire quello stato sociale cui eravamo abituati, che ha dato vita, accanto alle forme tradizionali di patrimonio (prima tra tutte la casa), a innumerevoli modalità di investimento, magari non così permanen-ti, ma certamente declinabili meglio a seconda delle necessità individuali. Il nostro costume come consumatori è cambiato: siamo orientati alla possibilità di disporre di tante cose, quindi all’accesso ai beni e non al loro possesso; si diffonde l’“usa e getta”.

A questo punto è necessario chiedersi chi decide cosa è un gioiello, o me-glio, chi decide cosa è un bel gioiello. Se un anello o una collana corrispondo-no per il consumatore ad un’emozione, ad un linguaggio, ad una associazione di significati, ebbene questi oggi sono profondamente diversi da quelli tradi-zionali; non è più possibile definire queste emozioni in un modo universal-mente accettato. Nella nostra società mutevole ed articolata possono essere individuati solo guardando fuori dal proprio ambito, attingendo a concetti che provengono da altri settori per poi declinarli seguendo la tradizione.

Bisogna quindi imparare a segmentare prodotti e consumatori utilizzando più criteri: il gusto, il prezzo, la fascia d’età, la funzione, l’occasione d’uso e l’evento, seguendo il consumatore poiché questi, attraverso l’acquisto, decide cosa è un bel gioiello. Solo così potremo valorizzare ancora una volta su tutti i mercati, la nostra leadership. La nostra posizione a livello internazionale di-scende dalla qualità dei nostri prodotti, dall’eccellenza nella capacità di fare,

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dall’aver offerto al mercato i prodotti che desiderava, ma non ci spetta di dirit-to: oggi dobbiamo assumerci la responsabilità, per difendere il nostro ruolo, di continuare ad innovare, prima di tutto nella politica di prodotto per soddisfare ancora i bisogni del consumatore. Certo è un problema di dimensioni, di costi, di regolamenti internazionali, ma non sarà solo attraverso regolamenti relativi al commercio internazionale, pure indispensabili, che difenderemo il nostro ruolo sul mercato. Dovremo ancora una volta attingere alla principale risorsa del nostro paese: la voglia e la capacità imprenditoriale di rimettersi in gioco.

9.3. Le strategie competitive La competizione con i paesi emergenti, caratterizzati da bassi costi, è cer-

tamente il fenomeno più appariscente che crea tensioni al settore orafo italia-no. A questo proposito le politiche di prodotto, in particolare la capacità di proporre linee o collezioni che dal punto di vista simbolico riescano a soddi-sfare meglio i bisogni del consumatore, non sono da sole in grado di risolvere, né ci sembra che tecnologie produttive più raffinate possano creare una suffi-ciente barriera: il prodotto è rapidamente imitato, o in alternativa si rischia di spingere ancora di più il prodotto in nicchia poiché si inducono costi che au-mentano il divario con i competitori. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la produzione di catene, che rappresenta la maggior parte delle nostre esportazioni: di fatto questo prodotto è unbranded, distribuito da grossisti o acquistato da buyer che hanno facile gioco nella sostituzione delle fonti pro-duttive e che sono generalmente orientati ad una politica di prezzi. Sembra quindi che la grande competenza produttiva ed il gusto che caratterizzano il prodotto orafo italiano siano destinate ad un inarrestabile declino. Certo vi so-no fatti strutturali interni, primi fra tutti la frammentazione produttiva, la pic-cola dimensione delle nostre aziende che per lungo periodo ha garantito fles-sibilità al sistema, ma che non ha consentito di raggiungere adeguate dimen-sioni competitive e strutturali, ed il fatto che non si sia mai puntato sulla com-petitività del sistema azienda. Anche una possibile soluzione quale la deloca-lizzazione produttiva, che può ridurre la pressione sui costi, risulta quindi po-co praticabile e molto complessa da gestire. Sostanzialmente le nostre aziende orafe per la gran parte hanno affinato nel tempo le loro capacità produttive, ma non si sono dotate della cultura manageriale per ridisegnare o adeguare l’impresa a fronte di cambiamenti strutturali che implicavano maggiori com-petenze nella gestione del mercato. Non vogliamo qui affermare che questa scelta possa salvare l’intero settore dalla pressione competitiva dei paesi e-mergenti, poiché tutti i settori sono soggetti alla crisi strutturale a causa dell’attuale andamento del commercio internazionale, ma politiche orientate

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al raggiungimento di una maggiore dimensione e strutture manageriali avreb-bero certamente consentito una risposta migliore nel momento in cui non è solo necessario saper produrre, ma diviene indispensabile saper vendere e sa-per gestire in un modo più complesso e raffinato l’azienda.

La competizione nei mercati si basa essenzialmente su costi e differenzia-zione. Il perseguire strategie di differenziazione non esime dalla ricerca del prezzo più competitivo, poiché abbiamo visto che l’attenzione del cliente ver-so il prezzo è crescente. Sia per le aziende di produzione che per quelle di di-stribuzione questa strategia si basa sulla capacità di essere percepiti dagli atto-ri della filiera e dal cliente finale come differenti. Le aziende devono riuscire a costruire un vantaggio competitivo percepito e percepibile, valorizzando le proprie competenze a cui il mercato è disposto ad associare un premium price. Perché tale strategia abbia successo è però necessario che il premium price sia superiore rispetto ai costi complessivi sostenuti per implementare la strategia di differenziazione. Questa strategia si basa sulla costruzione di un plus che può essere importante per la distribuzione, in termini di servizi offerti per e-sempio, di identità, di traffico generato o di tasso di riordino, oppure che sia percepibile e rilevante per il cliente finale in termini di benefici materiali o immateriali associati al prodotto.

Realizzare un’efficace strategia di differenziazione quindi vuol dire fare delle scelte capaci di risolvere in maniera sensibile i bisogni del cliente inter-medio o del consumatore. Data una fascia di prezzo ed un insieme di beni che considera equivalenti, il consumatore acquisterà il prodotto il cui valore per-cepito, che è influenzato dal bisogno, gli sembra più elevato rispetto al prezzo richiesto.

Alla fine degli anni ’90 in numerosi settori, in particolare nella moda, le aziende della cosiddetta fascia alta, vale a dire quelle caratterizzate da mar-che molto note, qualità e costi elevati, sono cresciute, forti della loro imma-gine, perché il consumatore accettava tutto ciò che queste gli proponevano in termini di prodotto, servizio, prezzo e la loro crescita ha coperto tante i-nefficienze.

Il contesto generale nel quale le aziende competono sta subendo profonde modifiche. Negli anni ’80 la struttura complessiva dell’offerta era descrivibile attraverso una forma piramidale. In alto i prodotti di lusso destinati a pochi, a mano a mano che si scende verso il basso il mercato si allarga proporzional-mente fino a raggiungere la fascia bassa, che è la più ampia e numerosa. In questa piramide ideale la qualità dei prodotti decresce procedendo verso il basso, ed in parallelo diminuisce il prezzo degli stessi.

Oggi invece la struttura dell’offerta, a causa del cambiamento economico e sociale, tende ad assumere una forma diversa: in alto i consumi legati al mon-do del lusso crescono, pure se in misura relativa alla dimensione di questo

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segmento; la fascia medio alta ed alta dei consumi si ridimensiona sensibil-mente, mentre crescono in maniera notevole l’area media e medio bassa, an-che per il maggiore valore che le aziende che appartengono a questi segmenti hanno saputo far percepire ai consumatori (si pensi ad esempio a H&M o Zara nell’abbigliamento). Il segmento più basso invece si comprime grazie alla tendenza di fondo del consumatore ad un acquisto più evoluto.

Un elemento che sembra caratterizzare questo andamento è che se il prez-zo decresce procedendo verso il basso, la qualità media e soprattutto il valore percepito non decrescono nella stessa maniera, oggi infatti è possibile, in tutti i settori, trovare prodotti che appartengono alla fascia media di prezzo con un eccellente contenuto estetico e buona qualità.

È presumibile che questo processo di compressione continui nei prossimi

anni senza escludere che nella fascia più alta da parte del consumatore ci sia-no, con il passare del tempo, fondati distinguo per selezionare solo ciò che è realmente lusso.

Oggi il consumatore è meno interessato ad acquistare forsennatamente, si aspetta prezzi più bassi, è interessato da chi è capace di proporre costantemen-te novità. Nel corso degli ultimi anni sono cresciute molte aziende che traggo-no i loro punti di forza da una competitività basata sulla ricerca di prodotti meno innovativi, ma sempre nuovi, sulla velocità di proposta, su un’immagine più giovane; aziende che hanno saputo costruire un’immagine forte in un segmento di prodotti particolarmente aggressivo.

La produzione orafa italiana, in ottica internazionale, appartiene ai seg-menti alto e medio alto, quindi è particolarmente soggetta ad un’elevata pres-sione competitiva. Difficilmente le nostre aziende potranno accedere ad una competizione basata solo sul prezzo sia per fattori strutturali, sia perché sono fondate su un presupposto qualitativo che può costituire, se arricchito dalle

lusso

altamedio-alta

media

medio-bassa bassa

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necessarie competenze manageriali e supportato da adeguate risorse, un pre-supposto per un sostanziale riposizionamento.

Partendo da questo quadro di riferimento che è valido sia per le imprese di produzione che di distribuzione, diventa importante perseguire una strategia di differenziazione che le porti alla creazione di un’identità aziendale precisa.

L’identità di un’azienda è un elemento della percezione del consumatore o del cliente intermedio, ed è una sintesi, frutto di un articolato sistema di scelte, che ci porta a far corrispondere al nome di quell’azienda un sistema d’offerta fatto di prodotti, comportamenti, servizi e così via. In pratica un’azienda ha identità, quando una individuo in target le attribuisce alcune caratteristiche che a suo giudizio la rendono diversa dalle altre.

Queste caratteristiche, se riferite al consumatore, possono riguardare il prodotto e/o la marca.

Dal punto di vista del prodotto l’identità può essere costruita attraverso l’uso di una particolare tecnologia o di un determinato materiale, che consen-tono di ottenere un prodotto identificabile dal consumatore; piuttosto che pri-vilegiando la funzionalità, cioè l’attenzione ad aspetti di ergonomia, affidabi-lità o prestazioni. Il fattore che più si presta nei settori nei quali il valore si co-struisce attraverso il gusto e la percezione estetica come l’oreficeria è lo stile: l’insieme di scelte progettuali che sono riassumibili in alcuni attributi del pro-dotto, il cui mix rende identificabile il prodotto stesso. Leggero, colorato, morbido, tattile, o i loro contrari, assieme ad innumerevoli altri aggettivi, pos-sono entrare a costituire la cifra stilistica che sostiene l’identità del prodotto. Lo stile può derivare solamente dal gusto, ma più comunemente trova origine in alcuni presupposti legati alla visione del designer, alla sua idea di eleganza in un determinato contesto o per un certo tipo di donna, a come intende valori quali l’amore, l’amicizia, la felicità che i suoi gioielli devono celebrare. Il gu-sto estetico diviene così il modo in cui l’idea è interpretata fondendo assieme forme ed emozioni.

L’identità creata attraverso le scelte progettuali diviene utile quando è col-legabile ad un nome: la marca. Così come una persona ha una sua identità rappresentata dal nome, dall'aspetto fisico e dall’insieme delle sue idee e dei suoi valori, anche i prodotti assumono un’identità attraverso elementi materia-li ed immateriali. L’identità di marca è portata sul prodotto attraverso un si-stema di segni che tende ad essere costante nel tempo e che costituisce i co-siddetti identificatori, che spesso si integrano nel prodotto anche attraverso il packaging, che assume, oltre alla funzione di proteggere, una fondamentale valenza comunicativa per identificare il prodotto attraverso il marchio, la for-ma, i colori e tutti gli altri elementi che fanno parte dell’immagine coordinata. Per oggetti che sono spesso destinati al regalo, la confezione assume un eleva-tissimo portato simbolico.

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L’identità dal prodotto migra alla marca che infine diviene un elemento simbolico-estetico che ha successo quando è associata all’uso di nuovi sistemi di segni, di nuovi linguaggi e di nuovi valori, che trovano il consenso di un numero adeguato di consumatori.

L’identità percepita, com’è evidente, è un problema di comunicazione; il suo fine è quello di dare forma ad una delle possibili strategie di differenzia-zione. In alcuni casi la marca può essere il risultato di un’attività di comunica-zione slegata dalle scelte stilistiche, fondandosi sull’associazione ad un siste-ma di valori che si ritiene proprio delle sottoculture in cui il consumatore si identifica, come l’orgoglio di possesso, l’appartenenza ad un gruppo, lo status sociale. Evidentemente uno forte relazione tra stile e marca è certamente più appropriata quando è lo stile stesso il primo beneficio per il consumatore, co-me è oggi nell’oreficeria.

È anche possibile costruire un’identità forte per la distribuzione, in questo caso divengono indispensabili i servizi che sono forniti, tuttavia noi crediamo che il migliore servizio che un’azienda possa rendere al mercato è quello di creare un’adeguata vendibilità che premia la distribuzione ed il consumatore, che così trovano, entrambi, soddisfazione ai propri bisogni.

Solo dopo aver definito in modo chiaro e coerente l’identità aziendale, è possibile declinare le strategie di comunicazione e di distribuzione che con-sentono di gestire il proprio posizionamento.

È importante distinguere tra identità ed immagine. L’identità, come detto, si riferisce a tutto ciò che crea, a diversi livelli, una differenza percepibile ri-spetto ad altri prodotti/aziende (per esempio pubblicità, distribuzione, packa-ging). L’immagine invece è il risultato di un sistema di messaggi, finalizzato porre delle aggettivazioni accanto alla identità ed alla marca. Nel caso dell’auto, ad esempio, l’identità di una marca è costruita attraverso lo stile u-nico delle sue automobili, gli identificatori (fanalerie, griglie di raffreddamen-to, simboli, e così via), l’architettura delle concessionarie, i materiali grafici di supporto. Ma tutto ciò ha a che fare con la sua immagine di affidabilità solo parzialmente: ciò che distingue una Mercedes da una BMW non è l’immagine, ma è l’identità. Dal punto di vista dell’immagine diremo poi che la prima si associa a valori quali l’affidabilità, la seconda invece all’ag-gressività ed alla tecnologia.

Ikea e Cassina hanno due diverse identità ed è anche diversa l’immagine, poiché la prima evoca un mondo nord europeo fatto di semplice buon gusto e di convenienza; la seconda invece richiama i classici internazionali del-l’arredamento, il design italiano, la qualità dei prodotti. In questo caso è evi-dente che non vi è relazione tra immagine, identità e fascia di prezzo. Non è che siccome i prodotti Ikea sono poco costosi l’identità e l’immagine di questa marca siano inferiori a quelli di Cassina.

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Identità ed immagine sono possibili e indispensabili per qualsiasi azienda che voglia realizzare una strategia di differenziazione basata sulla marca.

La pubblicità è uno strumento per incrementare la conoscenza di marca. Veicola, ma non crea da sola identità. Soprattutto oggi il successo di alcuni prodotti è dovuto al passaparola, all’opinione di consumatori che raccoman-dano ad altri i prodotti che essi conoscono. Non sono rari in tutto il mondo i casi di libri o di film realizzati con grandi mezzi, supportati da costose cam-pagne di lancio e dalla critica specializzata, che non riescono ad affermarsi sul mercato, mentre altri diventano successi grazie alla comunicazione interper-sonale.

Un’immagine di successo non garantisce il successo nel mercato, anche se ne può rappresentare un prerequisito, e non assicura neanche il successo eco-nomico.

Possiamo quindi concludere affermando che nel settore orafo italiano, che già possiede elevate competenze di prodotto e di produzione, è necessario svi-luppare competenze di gestione del processo che porta i prodotti verso il mer-cato, in particolare la capacità di dotarsi di una adeguata identità, correlata con l’offerta. Tali competenze possono anche essere mutuate dall’esperienza di altri settori affini in termini di approccio estetico-simbolico.

Per quanto riguarda la presumibile evoluzione del mercato, pur senza voler ipotecare il futuro, è presumibile che il segmento del lusso, o meglio dei beni di alto pregio, vale a dire prodotti costosi, di elevato livello qualitativo per i materiali e per la fattura, spesso realizzati su commessa o legati a brand carat-terizzati da forti valenze culturali, troverà nuovi spazi nei mercati emergenti, mentre rimarrà sostanzialmente stabile nelle altre nazioni.

La fascia alta e medio alta, spesso legata alle marche più famose, dovrà competere rendendo più efficiente e razionale il proprio sistema azienda, segmentando meglio i bisogni dei consumatori, proponendo prodotti con prezzi più aggressivi, articolando la propria offerta su proposte continue e mi-ni collezioni estremamente focalizzate. Il mercato premierà quelle aziende che sapranno dotarsi di una identità fortemente distintiva a prezzi competitivi.

Il segmento medio subirà un’ulteriore contrazione, caratterizzato da azien-de che non hanno saputo sviluppare un efficace politica di differenziazione, aggredito dalla fascia medio bassa che migliorerà sostanzialmente la propria qualità percepita ed il proprio valore grazie alle forti identità ed alle politiche d’immagine. Spesso si tratterà di catene di negozi capaci di abbinare gusto del prodotto e velocità di reazione ai bisogni del consumatore.

L’imprenditore deve essere capace di rimettere in discussione contempo-raneamente tutta la struttura del proprio sistema di offerta rompendo le abitu-dini cristallizzate, ma deve anche saper manifestare in maniera persuasiva la propria visione a tutti gli attori della filiera per raggiungere in maniera più ef-

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ficace il consumatore. Gli investimenti in innovazione e ricerca di un’azienda manifatturiera, di fatto, sono inutili se i vantaggi che ne derivano non sono trasferiti al consumatore finale.

La distribuzione, grazie al cambiamento in atto, non riesce più da sola a costruire valore se non può contare su una filiera a monte efficace. La crea-zione di valore è a due vie: da un lato il flusso di prodotto verso il basso e dall’altro in senso inverso i flussi informativi di ritorno. Diventa quindi im-portante che tutti gli attori (dal fornitore di materie prime fino al rivenditore) condividano un progetto complessivo, investendo ognuno le proprie risorse nella stessa direzione. È necessario instaurare un rapporto dialettico e non conflittuale con gli altri attori. Nella fase di cambiamento spesso le mediazio-ni sono dannose; per riuscire ad implementare un progetto innovativo è neces-sario generare un consenso forte: il rischio è la diluizione delle idee. È l’azienda produttrice che deve riuscire ad assumere il ruolo di facilitatore di questo processo, incanalando le energie sia dei designer sia degli agenti e dei rivenditori nella stessa direzione.

9.4. La creazione del valore e la marca La marca è la risultante di un sistema di segni e di comportamenti capace

di creare un valore percepibile dal consumatore, mettendo in relazione il pro-dotto e il prezzo con un sistema astratto.

Ogni marca ha impliciti dei benefici, materiali o immateriali, quindi equi-vale ad una promessa, al racconto di un mondo possibile che, se è condiviso dal consumatore, consente di ottenere un premium price. La sua natura deriva essenzialmente da tre fattori: • benefici funzionali, legati cioè ad una modalità specifica di risoluzione di

un problema (confort, peso, vestibilità…); • valori che possono essere rappresentativi di una visione individuale (ami-

cizia, fedeltà, amore) o che fanno riferimento al modo con cui un individuo si vede proiettato nel mondo sociale (successo economico, status, cultura);

• stile come conseguenza della scelta di utilizzare specifiche forme ed ap-propriati identificatori. Non bisogna però dimenticare che la marca è il risultato della percezione

di un target group. È la costruzione di una relazione tra un sistema di immagi-ni capaci di trasmettere un significato e un repertorio di significati presenti nella mente e nella cultura del consumatore.

La marca è quindi un valore simbolico associato al prodotto che è di per sé capace di moltiplicare i valori di scambio, d’uso e di comunicazione insiti ne-

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gli oggetti. Non esistono marche tanto potenti da poter imporre un prezzo che non ha relazione con il contenuto del sistema di offerta.

Diventa quindi importante lavorare sulle percezioni al fine di creare valore per i consumatori. È possibile influenzare queste percezioni con informazioni, per esempio legate alla qualità, alla attualità del prodotto, alla convenienza, al punto anche da far cambiare opinione al consumatore. Questo avviene per e-sempio nel punto vendita, quando il cliente chiede un certo prodotto e alla fi-ne, grazie alle informazioni fornitegli dal venditore, finisce per acquistare un altro prodotto.

Nel concetto originale di lusso la rarità, l’unicità, l’estrema sofisticazione della fattura, rappresentano un elemento caratterizzante e distintivo. Oggi do-vremmo parlare di mass luxury poiché un abito o una borsa, spesso realizzati industrialmente in migliaia di pezzi, tolgono il contenuto di rarità: il concetto di lusso è sempre più legato in maniera soggettiva al rapporto tra desiderio di possesso e di uso, oppure unicamente al prezzo.

Una marca per essere efficace deve essere basata su un sistema di valori forti e condivisi che, per essere percepiti, devono essere adeguatamente co-municati; deve fondarsi sulla promessa di benefici significativi per il target di riferimento ed infine deve trovare coerente espressione in tutte le manifesta-zioni aziendali. In sintesi, dar vita ad una marca oggi significa creare un mix di messaggi che genera un’unicità fondata sui valori del consumo.

Il consumatore è sempre più esperto ed informato, non sempre dal punto di vista della qualità merceologica, ma ha pratica del processo di acquisto ed ha già direttamente o indirettamente informazioni sull’uso dei prodotti. La marca svolge in questo contesto una funzione di sintesi, collocando quel tipo di pro-dotto in certo segmento, facilitandone l’identificazione per creare il valore percepito più alto possibile.

Spesso la marca è conseguenza del successo di un prodotto ed in questo si identifica: dare concretezza e forma fisica ad una filosofia produttiva attraver-so un bene, agevola fortemente la diffusione ed il successo e può costituire una piattaforma per la vendita di altri prodotti. Di contro ciò crea un vincolo poiché questo prodotto entra a costituire l’identità dell’azienda, quindi il con-sumatore riconoscerà a quella marca solo una categoria di prodotti. Durante la fase di costruzione della marca uno degli errori più diffusi è proprio quello di proporre al mercato collezioni ampie aggiungendo prodotti comuni o non coe-renti ai prodotti innovativi o continuativi, che invece sono allineati alla identi-tà dell’azienda, contando sul fatto che, assieme gli uni, il distributore acquiste-rà anche gli altri. Di qui la cattiva abitudine di “srotolare” campionari troppo ampi che non danno identità, che distraggono gli agenti dalla loro attività principale: realizzare vendite costruendo la marca. Altro è la brand extension, che è possibile solo per marche molto note e chiaramente posizionate, relati-

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vamente a merceologie coerenti con l’identità conquistata. La marca obbliga tutti gli attori della filiera ad adeguarsi ad uno standard, che non significa ec-cellenza, ma costanza nei prodotti, nelle fasce prezzo, nel servizio.

9.5. La distribuzione Il sistema distributivo orafo italiano, come peraltro accade in altri settori,

discende generalmente dalla nostra tradizione artigianale. Molti punti vendita nascono infatti come laboratori di oreficeria, altri come riparatori di orologi, formati alla scuola dei centri delle principali marche, solo in un numero ridot-to di casi il punto vendita nasce con una precisa vocazione commerciale. I primi dettaglianti avevano quindi una forte competenza tecnico-produttiva ed una buona conoscenza merceologica in merito ai prodotti ed alle loro modalità di realizzazione. Nel tempo l’attività si specializza e prevale la funzione di-stributiva rispetto a quella artigianale, in particolare con il coinvolgimento nella gestione delle generazioni successive che si concentrano maggiormente sulle attività relative alla gestione.

La distribuzione italiana è costituita da circa 25.000 operatori, si tratta in genere di piccoli o piccolissimi punti vendita, gestiti in gran parte da imprese familiari i cui membri sono spesso molto capaci dal punto di vista relazionale, ma non sempre dotati di adeguate competenze manageriali. Queste caratteri-stiche strutturali, assieme alla diffusa proprietà degli spazi del punto vendita, alla frammentazione produttiva che facilita il reperimento dei prodotti ed alla ridotta trasparenza, danno alla distribuzione orafa italiana un elevato grado di flessibilità: anche a fronte di una riduzione della domanda non si assiste infatti ad una significativa concentrazione del numero degli sbocchi di vendita. Pol-verizzazione produttiva e distributiva si alimentano a vicenda ed i processi di concentrazione, così necessari per raggiungere dimensioni competitive ade-guate, vengono procrastinati.

A farne le spese è tutto il comparto, è vero infatti che questo stato di cose consente alla maggioranza degli attori di sopravvivere, ma contemporanea-mente porta ad una diminuzione complessiva della capacità di competere e rende difficile lo sviluppo di marche forti sia nell’ambito della produzione che della distribuzione. La concorrenza selvaggia e disordinata rende particolar-mente complesso il lavoro di chi vende e di chi produce; la conquista dell’identità, che è il presupposto per le strategie di differenziazione, è resa difficile dal fatto che la maggior parte dei punti vendita appaiono uguali al consumatore, offrano prodotti simili a prezzi simili e quindi sia critico trasfe-rire al cliente la corretta percezione del rapporto prezzo valore. La sensazione diffusa è che tutti abbiano tutto a tutti i prezzi. Poiché il cliente attribuisce ad

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ogni bene un valore che è legato alla sua percezione, questo stato di cose non facilita certo la competizione all’interno del settore orafo e quella rispetto agli altri settori meglio organizzati e più attraenti per il consumatore.

In termini generali, le funzioni principali che un punto vendita svolge sono tre: • la funzione logistica, cioè la predisposizione di un assortimento adeguato

al segmento di consumatori che si è deciso di servire, attraverso la selezio-ne dei produttori e dei prodotti. Questa funzione, che è l’origine stessa di qualsiasi attività commerciale, è anche il principale servizio offerto al mer-cato e costituisce la base per una efficace politica di differenziazione dai competitori. Infatti è sulla base della comunicazione dell’assortimento che avviene attraverso la vetrina che il consumatore decide di visitare un punto vendita, mentre l’acquisto si realizza solo se il cliente trova il prodotto che soddisfa i suoi bisogni;

• la funzione informativa, cioè l’attitudine e le competenze che consentono di fornire indicazioni, suggerimenti, o fatti capaci di aiutare il cliente a soddisfare adeguatamente i propri bisogni;

• la funzione di rappresentazione, cioè la capacità di far vivere nel punto vendita una relazione ricca o almeno soddisfacente tra il consumatore e la marca o il prodotto, creando il contesto adeguato ad una esperienza di ac-quisto che valorizzi l’offerta. In questa ottica si stanno modificando sia la realtà fisica, cioè le strutture stesse come gli arredi, l’illuminazione, il merchandising, che quella relazionale del punto vendita. Dal punto di vista della gestione invece gli aspetti critici del punto vendita

sono sempre più legati alla analisi del contesto competitivo. Assieme alla let-tura dei risultati economici è necessario utilizzare adeguati strumenti di moni-toraggio per avere una sistematica lettura della situazione competitiva e quindi una migliore possibilità di pianificazione strategica. La costante verifica del proprio posizionamento in termini di sistema di offerta, il monitoraggio dell’evoluzione dei competitori e delle aziende per riuscire ad individuare prontamente quelle che stanno avviandosi verso strategie con migliori capaci-tà di successo. Insomma una valutazione che non si fermi alle sole analisi e-conomiche, ma che tenga nel dovuto conto anche il numero di visitatori e di clienti, la loro fedeltà, l’evoluzione dei loro bisogni, sono alcune tra le attività indispensabili ad una impresa commerciale efficiente.

In realtà, in questo come in altri settori, dominano le abitudini: si ricevono sempre gli stessi rappresentanti, si trattano sempre le stesse aziende, troppo spesso chiusi in una visione legata al passato, ad assortimenti che non perde-vano valore nel tempo, a prodotti con scarso contenuto di innovazione. Il nuo-vo fatica ad entrare nel mercato proprio oggi che il consumatore ha bisogno di

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idee nuove. Difficilmente le aziende vengono valutate dal distributore sulla base della loro visione strategica, del portafoglio prodotti, della loro capacità di fornire servizi. I gioielli sono scelti per la loro presunta vendibilità sulla ba-se del prezzo e della qualità apparente, contando sulla propria capacità rela-zionale per “convincere” il consumatore. In realtà il mercato oggi richiede for-te cooperazione tra produzione e distribuzione per riuscire a creare valore per il cliente e tale cooperazione non consiste nel saturare la distribuzione di pro-dotti scarsamente differenziati, senza alcun supporto di marketing, ma nem-meno nell’utilizzare gli investimenti della produzione destinati a creare marca solo per generare traffico.

Un tema particolarmente rilevante nelle relazioni industria distribuzione è quello della gestione dell’invenduto. I distributori mettono in evidenza che nel corso degli ultimi anni le giacenze dei punti vendita sono mediamente aumen-tate e chiedono alle aziende di intervenire attraverso la sostituzione dei pro-dotti o il finanziamento. Questo fenomeno deriva da tre fattori principali: • la riduzione dei consumi che ha interessato il settore; • il proliferare delle aziende che hanno tentato di costruire una propria marca

senza un adeguato approccio e quindi con scarsi risultati di vendita; • l’esigenza delle aziende di marca di offrire al consumatore il loro assorti-

mento che le porta a richiedere la presenza di una gamma adeguata nel punto vendita. Evidentemente la situazione deve essere letta caso per caso, lasciando la

soluzione alle valutazioni di ciascun operatore, tuttavia è difficile immaginare come principio nella relazione tra due operatori indipendenti la responsabilità dell’uno sulle scelte dell’altro. Senza dubbio in alcuni casi le aziende tendono a forzare nella definizione dell’ordine, ma è anche vero che spesso i prodotti di marca vengono utilizzati per generare traffico, orientando la vendita al con-sumatore su prodotti unbranded, ovvero che nella selezione dei fornitori si fa incetta di marche senza riflettere sulla loro coerenza rispetto al proprio seg-mento di consumatori o alle proprie scelte di strategia competitiva.

Dal punto di vista dei produttori la relazione con la distribuzione è un ele-mento chiave del successo della strategia aziendale. Diventa quindi sempre più importante la capacità da parte dell’azienda di razionalizzare le proprie scelte e di coinvolgere e motivare il dettagliante a partecipare a progetti di marca che lo vedono come uno degli attori principali, ma non come il regista.

Dal punto di vista strategico le scelte irrinunciabili attengono alla defini-zione del segmento di utenti e della tipologia di prodotti da trattare, poiché cercare di soddisfare tutti non è possibile e produce soluzioni mediocri e poco differenzianti. Dal punto di vista degli investimenti, invece, per realizzare strategie di crescita la distribuzione può decidere di ampliare la superficie del

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punto vendita esistente, aumentare il numero di punti vendita di proprietà, di-ventando in certo senso “catena”, oppure di aggregarsi ad altri operatori ana-loghi per creare sinergie. Il passaggio generazionale che sta interessando mol-te aziende italiane, se ben governato, può rappresentare una grande opportuni-tà per innovare il proprio progetto imprenditoriale.

Se le scelte strategiche ed i modelli gestionali sono simili per tutti, se i punti vendita tendono a comportarsi in modo uguale, il risultato sarà sempre più quello di avere molti punti vendita che si assomigliano. Per riuscire a di-stinguersi bisogna uscire dagli stereotipi del settore e provare a guardare il proprio punto vendita con gli occhi del consumatore, una volta definito il pro-prio target di riferimento.

Una differenziazione per essere efficace deve essere percepita dal consu-matore. La sua costruzione passa attraverso quattro elementi fondamentali: assortimento, format commerciale, identità ed immagine, sistema di servizi offerto.

L’assortimento assume grande importanza sia perché assorbe risorse fi-nanziarie, sia perché, come abbiamo già detto, è il principale servizio al clien-te. La sua pianificazione può essere realizzata attraverso griglie di segmenta-zione per marca o azienda fornitrice, attribuendo a ciascuna un preciso ruolo: creazione del traffico, differenziazione rispetto ai competitori, penetrazione in determinati segmenti di clientela, creazione di un extra margine e così via, nella logica moderna di assortimento come sistema di marche. Queste griglie sono strumenti semplici ma efficaci, adatti non solo per valutare gli investi-menti, ma anche la qualità dell’assortimento. Tale approccio consente anche il monitoraggio dei risultati di modo che il punto vendita, attraverso analisi det-tagliate, può capire come utilizzare meglio i diversi prodotti/marche per creare la propria strategia di differenziazione. Attraverso modelli analoghi si possono definire ampiezza e profondità dell’offerta per tipologia di prodotto, per evita-re sovrapposizioni tra i prodotti.

Nei prossimi anni, a prescindere dall’andamento dell’economia in genera-le, in ogni caso ci saranno opportunità per chi ha intenzione di crescere: il mercato è grande e frazionato, lo sviluppo può avvenire, a condizione di sot-trarre ogni giorno un po’ di spazio ai competitori che non hanno scelto accura-tamente il proprio consumatore, a chi non ha definito un progetto chiaro per differenziare la propria offerta. La distribuzione è uno spazio competitivo de-terminante, il concetto stesso di punto vendita deve essere continuamente ri-messo in discussione poiché per avere successo un negozio non deve essere solo bello, ma deve essere una macchina pensata per la vendita.

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