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IL FILOSOFO DIOGENE 60 N. 18 Marzo 2010 Gandhi e il jainismo a figura di Gandhi continua ad affascinare ancora dopo molti anni dalla sua morte. Le sue lotte non violente per la libertà del- l’India e per l’abolizione del si- stema castale sono tuttora d’esempio e ispirazione per tutti coloro che inten- dono impegnarsi per i diritti politici e civili, confidando che ogni futura rivo- luzione possa compiersi attraverso la forza delle idee invece che mediante il ricorso alle armi. Quello che ci interessa, al di là della fi- gura esemplare del Mahatma, è il fon- damento filosofico del suo pensiero, che trova le sue lontane radici nel jainismo, una tradizione di pensiero a metà strada tra filosofia e religione. Gandhi non fu praticante jainista in senso stretto, ma fu senz’altro influen- zato da questa dottrina. Il codice etico del jainismo, che consta di cinque giu- ramenti fondamentali, fu abbracciato dal Mahatma, in particolare per quel che riguarda l’applicazione dei principi della non violenza (ahimsa) e la castità (brahmacharya). La castità consiste, per un laico, nel confinare l’attività sessuale all’interno del matrimonio. Un jainista, poi, pratica rigorosamente la non vio- lenza. La non violenza prevede anche un’adesione al vegetarianesimo, i cui principi Gandhi conobbe mentre era studente a Londra. Un’altro dei principi jainisti che secondo Gandhi rivestiva massima importanza è la Verità (satya). K A cura della redazione Il fondamento filosofico e religioso del pensiero gandhiano può essere ritrovato nell’antica dottrina jainista. Una ricerca attraverso la vita, gli scritti, la famiglia, l’abbigliamento e i vizi segreti del Mahatma. Gandhi, elaborazione grafica da un suo ritratto. L

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DIOGENE60N. 18 Marzo 2010

Gandhi e il jainismo

a figura di Gandhi continua adaffascinare ancora dopo moltianni dalla sua morte. Le sue lottenon violente per la libertà del-l’India e per l’abolizione del si-

stema castale sono tuttora d’esempio eispirazione per tutti coloro che inten-dono impegnarsi per i diritti politici ecivili, confidando che ogni futura rivo-luzione possa compiersi attraverso laforza delle idee invece che mediante ilricorso alle armi.Quello che ci interessa, al di là della fi-gura esemplare del Mahatma, è il fon-damento filosofico del suo pensiero, chetrova le sue lontane radici nel jainismo,una tradizione di pensiero a metà stradatra filosofia e religione.Gandhi non fu praticante jainista insenso stretto, ma fu senz’altro influen-zato da questa dottrina. Il codice eticodel jainismo, che consta di cinque giu-ramenti fondamentali, fu abbracciatodal Mahatma, in particolare per quelche riguarda l’applicazione dei principidella non violenza (ahimsa) e la castità(brahmacharya). La castità consiste, perun laico, nel confinare l’attività sessualeall’interno del matrimonio. Un jainista,poi, pratica rigorosamente la non vio-lenza. La non violenza prevede ancheun’adesione al vegetarianesimo, i cuiprincipi Gandhi conobbe mentre erastudente a Londra. Un’altro dei principijainisti che secondo Gandhi rivestivamassima importanza è la Verità (satya).

K A cura della redazione

Il fondamento filosofico e religioso del pensiero gandhiano può essereritrovato nell’antica dottrina jainista. Una ricerca attraverso la vita, gli scritti,la famiglia, l’abbigliamento e i vizi segreti del Mahatma.

Gandhi, elaborazione grafica da un suo ritratto.

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L’eredità politica e culturaleDiscusso da alcuni, e tuttavia universalmente rispettato, al di là delleimmagini agiografiche, Gandhi resta una delle grandi figure, e delle pochepositive, di un secolo che ha conosciuto orrori e genocidi. La sua ereditàappartiene, ancora oggi, a noi tutti.

siste uno stereotipo sul Ma-hatma. Gandhi sarebbe unasorta di santo, utopista e gene-roso. Un po’ bizzarro. Proprio inquanto santo avrebbe saputo

toccare le corde religiose del suo po-polo per unificarlo e condurlo alla vit-toria contro gli inglesi. Dall’altra parte,una storiografia recente ha insistito suun Gandhi uomo politico, rotto alleastuzie del potere, come dimostrerebbela sua vittoriosa azione volta a conqui-stare il controllo del Partito del Con-gresso negli anni immediatamentesuccessivi alla Grande Guerra.Interpellato su questo tema, se fossesanto o politico, nel 1920, Gandhiscrisse un articolo per sostenere di nonessere né l’una né l’altra cosa. La san-tità gli appariva concetto troppo ele-vato e sacro per applicarlo a un uomoche vive sulla Terra e deve affrontarnequotidianamente i problemi, “a unumile ricercatore della verità, che co-nosce i propri limiti, fa errori, non esitamai ad ammetterli quando li com-mette”. Ma Gandhi negò anche di es-sere un politico nel senso tradizionaledel termine. Sono, disse, un politico checerca d’introdurre nella politica la reli-gione. Quale religione? Quella di Gan-dhi, naturalmente, e cioè la ricercadella verità. Era, insomma, un politicoche mutava le regole del gioco: che ri-fiutava, per esempio, l’idea che il finegiustifichi i mezzi.

Il mezzo e il fine

“Il mezzo”, aveva scritto nel 1909, “puòessere paragonato a un seme, il fine a unalbero: tra il mezzo e il fine vi è ap-

punto la stessa inviolabile relazione cheesiste tra il seme e l’albero. Raccogliamoesattamente ciò che seminiamo”. Gan-dhi usò sempre estrema trasparenza nelcondurre e nello spiegare le sue linee ele sue iniziative politiche. Anche neiconfronti degli stessi inglesi seguì sem-pre questo atteggiamento di chiarezzae lealtà unite a grande fermezza.Ma aveva anche un acuto senso del-l’organizzazione ed era capace di farpolitica in senso più tradizionale. Unviceré britannico che ebbe modo ditrattare con lui disse: “sarà un santo,sarà un profeta, ma è l’ometto piùastuto, più abile nel negoziare, dotatodel più sottile senso politico che abbiamai conosciuto”. Gandhi “fece poli-tica”, a volte, quando questo gli appa-riva necessario per porre le basi del tipodi azione che più gli stava a cuore, manon tale da imporgli prezzi troppo ele-vati, difficilmente giustificabili alla lucedella sua etica. Più volte, quando gli parve che questilimiti fossero sul punto di essere vali-cati, si ritirò da cariche politiche perchiudersi nel suo ashram o percorrerel’India dei villaggi per propagandarvi lesue idee. Nell’insieme della sua attivitàindiana, dal 1915 alla morte, fu assaipiù raramente un capo politico in sensostretto che una sorta di grande consi-gliere del Congresso, con il quale ebbeperò periodi di conflitto e di distacco, edi leader popolare carismatico e fanta-sioso, capace d’inventare al momentogiusto imprevedibili iniziative.Uomo di rara coerenza, era tuttaviacontrario a quello che chiamava il fe-ticcio della coerenza. “Nella mia ricerca

K Gianni SofriDocente di Storia presso l’Universitàdi Sassari e di Bologna. Collaboratoredi quotidiani e riviste, è uno dei mas-simi esperti italiani di storia e politicadei Paesi afroasiatici.

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della verità, ho abbandonato molte ideee appreso molte cose nuove”, scrisse.“Vecchio come sono, tuttavia non sentoaffatto di avere smesso di crescere inte-riormente. Quello che mi interessa è lamia prontezza a obbedire al richiamodella verità, che è il mio dio, di mo-mento in momento”.C’è nell’autobiografia di Gandhi unepisodio che lo mostra un po’ meno ri-goroso del solito, un po’ meno “santo”, eche aiuta a sottrarlo al suo stereotipo.Nel 1912 aveva fatto voto di astenersidal bere latte, all’interno del suo vege-tarianesimo integrale. Alcuni anni doposi ammalò gravemente e i medici nonriuscivano a farlo riprendere, soprat-tutto a causa delle sue limitazioni ali-mentari. Gandhi aveva una gran vogliadi guarire per intraprendere una cam-pagna satyagrahi che gli stava molto acuore. Su suggerimento di sua moglie,Kasturbai, si convinse che il voto ri-guardava il latte di vacca e di bufala, manon quello di capra. Grazie al latte dicapra, si riprese e guarì. Soffrì poi disensi di colpa per quello che conside-rava un tradimento in malafede ai suoiprincìpi. Ma la cosa era fatta.

La concezione della non violenza

Alla base della concezione gandhianadella non violenza c’è un convinci-mento etico. Gandhi era molto influen-zato da tendenze presenti nel pensieroindiano, nell’induismo, nel jainismo, checondannavano non solo l’uccidere, mail nuocere, il far male, l’infliggere soffe-renze a ogni essere umano, anzi a ogniessere vivente. Ma era influenzatoanche da testi di altre religioni, come ilVangelo: il Sermone della montagna loaveva molto impressionato per il suo in-vito ad amare il proprio nemico e a rea-gire all’offesa porgendo l’altra guancia.Al convincimento etico si aggiungeva inlui l’esperienza. Gandhi non era unpensatore organico e sistematico. Inti-tolò la propria autobiografia Storia deimiei esperimenti con la verità. E di fattomolte volte nella sua vita ebbe occa-sione d’insistere su questo ruolo impor-tante dell’esperienza. Nel 1936 scrisse: “le opinioni che misono formato e le conclusioni alle qualisono giunto non sono definitive. Potreimodificarle in qualunque momento”.

Ai principi etici si accompagnavaquindi in Gandhi l’osservazione deifatti storici: per esempio, la conoscenzadiretta della violenza, che egli ebbemodo in più occasioni d’incontrare.Non si pensi comunque al satyagrahagandhiano come a una dottrina della

rassegnazione. Gandhi intendeva modi-ficare il mondo, non accettarlo. Inten-deva opporsi attivamente al male persconfiggerlo. Intendeva combattere l’in-giustizia. Egli non negava i conflitti, masolo l’uso della violenza per risolverli.Gandhi rifiutava la violenza con moltebuone ragioni. La violenza, egli sosteneva, non con-duce mai a soluzioni stabili e durevolidei conflitti. Il suo impiego tende a ge-nerare ulteriore violenza e a brutaliz-zare entrambe le parti. Tende a portarealla ribalta uomini autoritari, che conti-nuano a esercitare la violenza a vittoriaottenuta. Comporta, inoltre, segretezzae sospetto, falsità, unilateralità, sempli-ficazioni eccessive della verità. E, conquesto, perpetua una cultura e unamentalità vecchie, anziché favorire losviluppo di un tipo d’uomo migliore,più sincero e sereno, altruista e disinte-ressato, libero e tollerante. Gandhi rifiuta anche una concezione li-mitata, tattica della non violenza, chelui chiama non violenza del debole. Rifiuta cioè il ricorso alla non violenzaesclusivamente come scelta opportuni-stica, fatta da chi non è in grado di bat-tersi con altri strumenti perchéverrebbe sconfitto. Rifiuta una conce-zione solo difensiva della non violenza,

usata per limitare le perdite di fronte aun oppressore, a un nemico più forte.Per questo, nel corso degli anni, usòsempre meno l’espressione “resistenzapassiva”, che gli appariva equivoca. PerGandhi, la non violenza doveva esserequindi l’arma dei coraggiosi, non loschermo dei codardi. Arrivò a dire, inqualche momento, che la violenza glipareva preferibile alla vile e rassegnataaccettazione dell’ingiustizia. Arma d’at-tacco, dunque, la non violenza gan-dhiana, volta a sconfiggere e aconvertire il nemico mettendolo difronte allo spettacolo della propria de-terminazione a lottare e a soffrire.Il vero satyagrahi, il vero combattentenon violento, lotterà non solo per sé maanche per il proprio nemico. Rispetteràil proprio nemico, cercherà di com-prenderne le ragioni, perché molte sonole verità, e si asterrà da ogni forma dilotta diretta a distruggerlo o a infligger-gli sofferenze che non siano la perditadei suoi indebiti privilegi. Si lotta perristabilire la verità e la giustizia, non percreare nuova ingiustizia o per cercarevendette da cui nuove violenze nasce-rebbero inevitabilmente. Gandhi conduceva le sue lotte con in-credibile lealtà. Ecco perché non usavamai la sorpresa: prima d’intraprendereun’iniziativa ne informava sempre l’av-versario. Se esistono più verità, se il ne-mico non va distrutto, la soluzione diogni lotta è un compromesso. Ci sono,su questo, bellissime citazioni gan-dhiane: egli, dopo aver difeso in tribu-nale la sua prima causa importante,disse: “Mi ero reso conto che la verafunzione di un avvocato era quella diriaccostare le parti in disaccordo”.Ancora nella sua autobiografia scrisse:“sempre nella vita proprio la mia pas-sione per la verità mi ha insegnato adapprezzare la bellezza del compro-messo”. E al suo biografo Louis Fischerdisse: “Sono essenzialmente un uomoincline al compromesso perché nonsono mai sicuro di essere nel vero”.Anche se, occorre aggiungere, egli pre-cisò più volte che il compromesso nonpuò mai darsi sui princìpi, e non puòmai significare puro tatticismo. K

Tratto da: G. Sofri, Gandhi e l’India,Giunti, Firenze, 1996.

“Non sento affatto diaver smesso di crescereinteriormente.Quello che mi interessa è l’obbedire al richiamo della verità,che è il mio dio”.

Gandhi

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Le problematiche religiose

La visione religiosadi Gandhi risentedi moltepliciinfluenze e sisviluppa in moltedirezioni, nonsempre senzacontraddizioni eambiguità.

uando approda in Inghilterraper completare la propriaformazione culturale, nell’ot-tobre del 1888, Gandhi ha leidee ancora poco chiare infatto di religione. Proviene

da una famiglia devota a Vishnu e allesue incarnazioni, avatar, tra cui Rama eKrishna, ed è cresciuto in uno Stato, ilGujarat, nel quale molto diffuso è il jai-nismo, la religione indiana che più dellealtre enfatizza il valore dell’ahimsa,l’astensione dalla violenza nei confrontidi ogni essere vivente. Il padre, Kaba, èun uomo pratico, riveste un’importantecarica politica e non ha un grande inte-resse per le faccende religiose, anche segli piace discutere con jainisti, parsi emusulmani, dando al figlio un primoesempio di tolleranza; la madre, PutaliBa, è una donna dalla religiosità rigida,austera, che al figlio appare quale in-carnazione della santità stessa.

Agli occhi di questo mondo ancorafortemente tradizionalista l’Inghilterrae l’Occidente in generale si presen-tano come luoghi dell’immoralità edell’irreligione. È così che, quando ilgiovane Gandhi annuncia di voler an-dare a studiare in Inghilterra, la suasottocasta, quella dei modh banya, sioppone fortemente, e di fronte alla ca-parbietà del giovane giunge a scomu-nicarlo, mentre la madre acconsentealla sua partenza solo dopo il solenneimpegno a non contaminarsi con ilvino, la carne e le donne.L’Inghilterra si dimostrerà invece luogodella formazione spirituale, più chedella tentazione carnale. Esiste ormainel Paese un forte interesse nei con-fronti della religione indiana, così comecomincia a diffondersi la pratica del ve-getarianesimo. A favorire entrambi è lateosofia, corrente religiosa ed esote-rica che ha esercitato non poca in-

K Antonio Vigilante Docente di Scienze sociali nei licei,collabora con l’Università di Bari e con la rivista “Azione Nonviolenta”.

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Gandhi, Martin Luther King e madre Teresa di Calcutta, vetrata, 1966, Sant Andrew’s United Church, City of Moose Jaw,Canada, cortesia www.flickr.com.

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fluenza tra Ottocento e Novecento. Ègrazie all’invito di due amici teosofiche legge per la prima volta la Bhaga-vad Gita, il poema, parte del Maha-bharata, che costituirà per tutta la suavita la principale fonte d’ispirazionespirituale e religiosa.In un’opera di Madame Blavatsky, fon-datrice della teosofia, trova per la primavolta l’idea dell’unità delle religioni,espressa con una metafora che farà sua:come un albero ha molti rami ma unsolo tronco e una sola radice, così le re-ligioni sono molte, ma hanno un fondocomune che le trascende tutte. Nonsolo: in quell’opera il giovane Gandhitrova anche l’idea che una profonda evera trasformazione sociale è possibilenon attraverso una rivoluzione violenta,ma solo grazie a un cambiamento inte-riore, a una riforma della vita indivi-duale che renda impossibile il sussisteredelle vecchie strutture sociali. Idea cheè alla base di tutto il pensiero sociale epolitico del Gandhi maturo.L’influenza della teosofia è stata dun-que notevole, anche se Gandhi sembraavere qualche difficoltà ad ammetterlo,per due ragioni: la prima è l’aspetto eso-terico della teosofia, che non può cheinfastidire chi come Gandhi considerala chiarezza e la razionalità come trattidistintivi della verità; la seconda è poli-tica: l’altra grande rappresentante dellateosofia, Annie Besant, è stata ancheuna leader del movimento per l’indi-pendenza indiana, opponendosi però almetodo gandhiano della non coopera-zione, che implicava a suo parere il ri-schio di una mobilitazione delle masse,con la possibilità che il movimento de-generasse nella violenza.

Gandhi e Tolstoj

Il secondo luogo della formazione reli-giosa di Gandhi è il Sudafrica. Vi arrivanel 1893 per difendere come avvocatouna causa di una ditta indiana, trovan-dosi presto impegnato nella più impor-tante causa dei diritti civili dei suoiconnazionali. È in Sudafrica che Gan-dhi intensifica i suoi contatti con i cri-stiani, frequentando una famigliaappartenente alla setta protestante deiPlymouth Brethen e giungendo alle so-glie della conversione. Una soglia maioltrepassata per via delle sue perplessità

riguardo alla figura del Cristo. Che senso ha, si chiede, parlare di un fi-glio di Dio? Non sono forse tutti gli uo-mini figli di Dio? Gandhi apprezza laprofondità morale del Vangelo, il mes-saggio altissimo del Sermone dellamontagna, ma la concezione di un figliodi Dio che fa miracoli, resuscita, muoreper la salvezza dell’umanità gli sembrairrazionale e in ultima analisi inaccetta-bile. La resurrezione comporterebbeun’infrazione delle leggi della natura,che invece sono fisse e immutabili. IlCristo di Gandhi è il maestro di una su-blime morale, più che una vera e pro-pria figura divina. Su questa interpretazione non poco hainfluito la lettura, nel 1894, de Il Regnodi Dio è dentro di voi di Lev Tolstoj. Ilgrande romanziere russo in quell’operatentava una lettura radicale del Vangelo,come messaggio e annuncio di amore edi non violenza, che poco si conciliacon la vita dei cosiddetti cristiani, men-tre la prassi del clero ortodosso ne co-stituisce addirittura la negazione. Esserecristiani non vuol dire credere nella di-vinità del Cristo e per il resto curare ipropri interessi egoistici, magari te-nendo il popolo in soggezione attra-verso una fitta rete di superstizioni; ècristiano chi segue il bene senza accet-tare compromessi, chi non risponde almale con il male e tuttavia si opponecon forza a esso.

Lotta non violenta e fede in Dio

Formulando con chiarezza il principiodell’obiezione di coscienza, Tolstoj af-ferma che è lecito, anzi doveroso, di-subbidire allo Stato quando le sue leggisono in contrasto con le più alte leggi diDio. Se Gandhi trovò nel libro unachiara formulazione delle idee che manmano si erano presentate alla sua co-scienza, il vecchio scrittore russo rico-nobbe dal canto suo nella prassi delgiovane avvocato indiano la più impor-tante realizzazione della sua idea dellaresistenza al male.Quando torna in India, nel 1915, Gan-dhi ha ormai le idee ben salde in fattodi religione, ma soprattutto ha elabo-rato e sperimentato con successo il sa-tyagraha, il suo metodo di lotta nonviolenta. Tra le due cose c’è un rapportoche non sempre è stato riconosciuto e

La Società Teosofica, fondata nel1875 a New York da Helena Pe-trovna Blavatsky insieme al colon-nello Henry Steele Olcott, siproponeva di rintracciare l’essenzaultima di tutte le religioni. Nei ponderosi otto volumi di La sto-ria segreta, la sacerdotessa del movi-mento sosteneva di aver acquisitotale verità suprema da alcuni ascetiorientali, i Maestri della FratellanzaBianca, durante un viaggio in Tibet,regione allora quasi del tutto scono-sciuta. Questi le avrebbero per-messo di consultare il Libro diDzyan, un antico testo, scritto in lin-gua senzar su foglie di palma inalte-rabili al fuoco, all’aria e all’acqua, incui sarebbe contenuta la storia del-l’umanità dai primordi sino alla di-struzione di Atlantide. In realtà di tale manoscritto non èmai stato prodotto alcun esemplare,così come del tutto ignota rimaneagli storici e ai linguisti la prodigiosalingua iconografica senzar in cui sa-rebbe stato scritto. La teosofia rimane in sostanza unariedizione moderna delle antiche fi-losofie gnostiche ed ermetiche.

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Una vera e propria vita privata, Gandhi non l’ebbe mai. Si era sposato giovanis-simo, ma vivendo per lunghi periodi separato dalla moglie. Più tardi, inserì la suafamiglia nella vita comune degli ashram sudafricani o indiani, e nel 1906 fece ilvoto di brahmacharya (che impone la castità assoluta), mettendolo in atto conuna forza d’animo e un rigore che lasciano stupefatti. Molti aspetti della vita af-fettiva di Gandhi e del suo rapporto con la teoria della non violenza hanno at-tratto l’attenzione di studiosi di psicoanalisi.La moglie di Gandhi, Kasturbai, era una donna di poca cultura, ma tenace e pa-ziente. Gandhi avrebbe voluto in lei una compagna che ne condividesse intera-mente i fini e le aspirazioni, ma in questo fu almeno in parte deluso. Kasturbaivisse più volte con fatica le scelte del marito, e conservò sempre la nostalgia diuna famiglia “normale”, della quale cercò di ricreare almeno l’apparenza. Mogliedevota, accettò per sé una posizione silenziosa e discreta, lasciando alle altredonne dell’ashram ruoli più ambiti e impegnativi di collaboratrici intellettuali.Non senza un pizzico di cattiveria, Miss Slade la definì, parlandone a RomainRolland, “una donna da interni”. Tuttavia, in più occasioni partecipò alle lottedel marito, e andò lei pure in prigione. La sua scomparsa, nel 1944, provocò aGandhi un immenso dolore. Verso la fine della sua vita, Gandhi fu protagonista di un episodio che produsseallora un certo scandalo (pur se attenuato dalla venerazione di cui era circon-dato), e che ha dato non pochi problemi ai suoi interpreti. Nel biennio1946−1947 il Mahatma, ormai settantasettenne, era debole e stanco, e profon-damente angosciato dal conflitto tra indu e musulmani, alla cui difficile solu-zione dedicava le sue ultime energie. Fu in quel periodo che uno dei suoicollaboratori lo trovò una mattina nello stesso letto con la giovane pronipoteManubehn. Erano entrambi nudi e stavano parlando tra di loro. Risultò cheanaloghi episodi si erano verificati, nello stesso periodo, con altre giovani se-guaci. La storia venne risaputa e se ne discusse pubblicamente, come sempreera stato per ogni aspetto della vita di Gandhi. Il Mahatma negò di essere venuto meno ai suoi doveri di brahmacharin. Ad-dusse spiegazioni diverse, e non molto chiare, che andavano da un bisognodi essere aiutato a vincere il freddo (fisico e morale) che lo squassava, altentativo di compiere un grande esperimento religioso destinato a fare dilui un “eunuco di Dio” e un essere completamente asessuato, dotato del-l’innocenza di un fanciullo. Gandhi aveva peraltro sempre impressionatochi gli era vicino per quanto c’era di femminile nel tipo di seduzione dalui esercitato, e anche per una sorta di desiderio di maternità presentein lui. L’episodio rimase misterioso. Alcuni ne furono turbati e si allon-tanarono da Gandhi, altri lo accusarono quanto meno di stravaganza edi scarsa opportunità; altri accolsero le sue spiegazioni, che sembra-vano avvalorate dalla serietà e sincerità con cui venivano fornite. In ge-nerale, alla vicenda si prestò più attenzione da parte di biografioccidentali (senza nascondere, a volte, qualche sorriso ironico) cheda parte di quelli indiani. Ciò che più colpisce in essa, al di là del ne-cessario rispetto, è l’ambiguià che la caratterizza, e che induce a se-gnalare alcuni rischi e contraddizioni. Come quella, per esempio,che segna spesso il rapporto tra un maestro e i suoi fedeli (indi-pendentemente dalla bontà di una dottrina) in situazioni di ten-sione emotiva. O come la drammatica incoerenza che può nascereda soluzioni troppo rigide del problema della sessualità.

Tratto da: G. Sofri, Gandhi e l’India, Giunti, Firenze, 1996.

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approfondito dagli studiosi.Come è possibile vincere il male senzaricorrere alla violenza? Non sarà desti-nato a soccombere chi rifugge le armi?No, risponde Gandhi. Se così fosse, si-gnificherebbe che il mondo è in baliadel caos, se non del male stesso. Ma il mondo è governato da Dio, e Dioè il bene. Non può accadere, dunque,che il male vinca sul bene: “un efficacesatyagraha non è concepibile senzaquesta fede”. E tuttavia si tratta di unafede che pone non pochi problemi.Quello di Gandhi è un tentativo di fon-dazione metafisica dell’etica che ri-corda molto da vicino i numerosi

La vita sessuale del Mahatma

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tentativi fatti in Occidente e culminatinel sistema di Hegel. Tentativi che oggi appaiono particolar-mente problematici. L’obiezione deci-siva è quella del male. Se l’universo ègovernato dal bene, perché esiste ilmale? Il satyagraha è fondato sulla fi-ducia nella vittoria del bene sul male,ma la storia dimostra che infinite volteil male prevale sul bene, che la spe-ranza del giusto resta frustrata, che gliinnocenti muoiono e le loro preghiererestano inascoltate. Sostenere un taleottimismo metafisico vuol dire nascon-dersi la presenza del male, o giungere agiustificarlo. Quando un terremotoscuote il Bihar, nel 1934, Gandhi cosìcommenta la tragedia: “Io condividocol mondo intero, civilizzato e non ci-vilizzato, la convinzione che le cala-mità giungono sugli uomini comepunizione per i loro peccati”. Conside-rate le premesse generali del suo pen-siero, non può giudicare diversamente,e tuttavia oggi un giudizio del generesusciterebbe unanime disapprovazione,se non indignazione.

Dio e verità

La più matura e nota formulazione teo-logica di Gandhi si trova in un discorsotenuto a Losanna l’8 dicembre del1931: “Per quelli che dicono che Dio èamore, vorrei dire che Dio è amore. Manel profondo io dico che Dio può essereamore, ma è verità. Se è possibile per lalingua umana dare la più completa de-scrizione di Dio, per quanto mi riguardasono giunto alla conclusione che Dio èla verità. Ma due anni dopo ho fatto unpasso ulteriore ed ho detto che la veritàè Dio”. Vediamo le ragioni di questa suaformulazione. Se si afferma che Dio è Vishnu, o Allah,o Jahwè, o gli si attribuisce una qualsiasicaratteristica distintiva, si cade nelloscontro tra fedi diverse, tra percezionidel divino apparentemente incompati-bili. Ciò di cui Gandhi è alla ricerca èuna definizione di Dio che renda possi-bile la comprensione e la fratellanza.Identificare Dio con la verità gli sembrauna mossa che rende possibile non solol’assenso dei fedeli di ogni religione,ogni credente pensa che Dio sia la ve-rità, ma l’adesione degli stessi atei.Anche nell’ateismo c’è un’esigenza di

verità: se nega Dio, è perché pensa chenon esista, appunto; lo fa per affermarela verità della sua non esistenza. Ne-gando Dio, l’ateo inconsapevolmenteafferma quel Dio che è la verità.Una tale identificazione di Dio e veritàpone in realtà più problemi di quanti

non ne risolva. Se ogni verità è Dio, al-lora tutto è uguale, e la verità stessa fi-nisce per scomparire. Allora l’innocenteche prega Dio di salvarlo e il carneficeche lo manda nella camera a gas con lafanatica convinzione che Dio voglia losterminio (il Gott mit uns dei nazisti)sono sullo stesso piano. In realtà non èpossibile parlare di verità se non allaluce di un metodo. È vero ciò che vienescoperto o accertato attraverso un ade-guato metodo di ricerca. Gandhi ne èconsapevole, ma la formulazione delsuo metodo lascia non poco perplessi.

Il metodo della verità

Per raggiungere la verità occorre sotto-porsi a una serie di pratiche spiritualiche sono l’equivalente del metodoscientifico: occorre rinunciare comple-tamente al sesso (brahmacharya), aipiaceri del palato e più in generale aogni piacere corporeo. Il corpo è ciò chefa ombra alla verità. Per cogliere la ve-rità che è Dio occorre ridursi a zero,mettere a tacere ogni desiderio delcorpo e ogni tendenza egoistica. Chinon si sottopone a queste pratiche, nonè in grado di cogliere la verità e di ascol-tare la voce di Dio. Se l’identificazionedi Dio con la verità aveva aperto a tutti,atei compresi, la via che porta a Dio, leprecisazioni sul metodo la restringonoinvece drasticamente. Solo gli asceti

sono a contatto con la verità; tutti glialtri brancolano nel buio.Le pratiche ascetiche che conduconoalla verità possiedono anche un poterestraordinario. Gandhi le designa coltermine tapascharya, e tapas è in India,fin dall’epoca vedica, l’energia che sisprigiona dal sacrificio, e che permettedi dominare anche le forze della na-tura. La non violenza gandhiana in de-finitiva riposa su questa sua precisaconvinzione: l’uomo può raggiungereDio e la verità attraverso l’ascesi, e inquesto stesso modo agisce nel mondoper far trionfare il bene, grazie allagrande potenza del tapas.Una convinzione che porterà ai discussiesperimenti sessuali dell’ultimo pe-riodo, che susciteranno sconcerto anchein molti dei suoi seguaci più devoti, eche hanno disorientato non poco glistudiosi. In realtà, la logica di quegliesperimenti è chiara. Se il dominio sulcorpo sviluppa potere anche politico,quando c’è bisogno di più potere oc-corre realizzare un tapas maggiore, sot-toponendosi a nuove tentazioni e a unanuova e più rigorosa repressione/con-versione dell’energia sessuale. Più della pratica, è discutibile la teoriache la ispira, e che getta un’ombra sullafondazione stessa della non violenzagandhiana. Mentre cerca le basi perun’intesa tra fedi diverse su una base ra-zionale, Gandhi non si accorge che lasua stessa prassi è minacciata da una fi-ducia nel potere dell’ascesi che razio-nale non è, e che appartiene più allamagia che alla religione. K

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DIOGENE66N. 18 Marzo 2010

A P P R O F O N D I R E

K M.K. Gandhi, In cammino versoDio, Newton Compton, Roma,2006.

K F. C. Manara, Una forza che dà vita.Ricominciare con Gandhi in un’etàdi terrorismi, Unicopli, Milano,2006.

K E. Peyretti, Esperimenti con la verità.Saggezza e politica di Gandhi, Paz-zini, Villa Verucchio, 2005.

K A. Vigilante, Il Dio di Gandhi. Reli-gione, etica e politica, Levante, Bari,2009.

“Nel profondo io dico che Dio può essere amore, ma è soprattutto verità”.

Gandhi

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DIOGENE 67N. 18 Marzo 2010

uell’Europa che Gandhiaveva incontrato in Sudafricaera l’Europa che aveva impa-rato a conoscere in India esoprattutto a Londra, ma con

qualcosa di diverso, che andava nelsenso della verità: trapiantata nella terradegli zulù, l’Europa aveva messo alloscoperto, senza più orpelli, i tratti es-senziali della nuova identità che l’inci-piente capitalismo aveva modellatonelle sue zone più evolute, comel’Olanda e l’Inghilterra. Costruita conuna paradossale combinazione tra ilmessianismo biblico di stampo calvini-sta e l’eterna logica dello sfruttamento,quell’identità era destinata ad attraver-sare intatta le più sconvolgenti muta-zioni storiche, se è vero che si riproponeoggi più pervicace che mai, con unostentato disprezzo per le norme ele-mentari del diritto internazionale. Se Gandhi non diventò subito un ri-belle (lo diverrà, ma a modo suo, dopotrent’anni), se, nel ricongiungersi alleproprie sorgenti, non restò prigionierodella contrapposizione frontale tra

due culture, fu anche perché avevafatto in tempo a conoscere, in pa-tria e nel triennio londinese,un’Europa niente affatto estra-

nea al fascino di quella sa-pienza universalistica che

ora, dopo l’episodio diMaritzburg, comin-ciava a risplendere diluce propria nel fondodella sua memoria.

Non tutti gli inglesi cheaveva conosciuto erano

d’accordo col progetto enun-ciato, fin dal 1835, dal barone

Gandhi l’europeoRecatosi in Inghilterra per studiare, Gandhi apprese dalle opere di autorioccidentali il valore profondo delle tradizioni del proprio Paese.

K Ernesto BalducciPresbitero, editore, scrittore e intellettuale cattolico.

Thomas Macaulay nel varare il sistemaeducativo da attuare in India: in forzadi quel sistema, dopo qualche genera-zione, un indiano non si sarebbe più di-stinto da un inglese se non per il coloredella pelle. Era un progetto d’integra-zione pura e semplice, che avrebbecomportato il dissolvimento dell’animaindu e che proprio per questo avevaprovocato in larghi strati dell’India unaferoce reazione nazionalistica, quellacon la quale, tornato in patria dopoqualche anno, Gandhi avrebbe dovutofare i suoi conti.

L’Europa e il fascino dell’India

Solo che, entrata a contatto diretto colpatrimonio spirituale accumulatosi inIndia a partire dai libri sacri dei Veda,l’Europa non accecata dall’alterigia im-perialistica aveva riscoperto in quel pa-trimonio qualcosa di sé, o meglioqualcosa della tradizione spirituale del-l’umanità, che era rimasto segregato orimosso, a causa dell’estraneità geogra-fica o dell’antagonismo politico e cul-turale. Quel ritorno all’Oriente, cheaveva avuto già nel romanticismo tede-sco (si pensi a Goethe e a Schopenha-uer) i suoi pionieri, divenne fecondaesperienza per opera della Gran Breta-gna imperiale, che ebbe il merito para-dossale di aiutare l’India a ritrovare lacoscienza di sé, della propria incompa-rabile singolarità.

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DIOGENE68N. 18 Marzo 2010

Proprio nei giorni in cui Gandhi met-teva le prime basi della sua lotta poli-tica, ispirata al rigetto della violenza e alrispetto della dignità umana anche nel-l’avversario, l’11 settembre 1893, l’as-semblea del Congresso delle religioni,tenutasi a Chicago, restò affascinata dallinguaggio di un giovane monaco in-diano, dalla figura atletica e dagli occhiradiosi, il trentunenne Vivekananda,che espose l’insegnamento del suo mae-stro Ramakrishna sulla religione uni-versale: “Il cristiano”, egli disse tral’altro, “non deve diventare buddhista oinduista, né l’induista e il buddhista de-vono a loro volta diventare cristiani.Ciascuno deve assimilare lo spirito deglialtri senza cessare di conservare la pro-pria individualità e di crescere secondole leggi sue proprie. Sulla bandiera dellereligioni sarà scritto ben presto aiuto re-ciproco e non conflitto, mutua penetra-zione e non distruzione”.

La “mutua penetrazione”

Gandhi aveva già sperimentato questa“mutua penetrazione” durante il sog-giorno londinese (1887−1891), quandosembrava aver affidato la preservazionedella propria identità a una meticolosaosservanza delle norme dietetiche pro-prie della tradizione religiosa familiare(il jainismo, una forma ascetica dell’in-duismo). Scoperto un ristorante vege-tariano, vi acquistò un trattato di HenrySalt, Difesa del vegetarianismo; lettoquel libro, divenne vegetariano perscelta. Pieno dello zelo del neofita, de-cise di fondare un circolo vegetariano aBayswater, dove risiedeva. A fare da vicepresidente del circolo in-vitò Edwin Arnold, lo scrittore ingleseal quale, in certo modo, egli era debitoredella sua scoperta del patrimonio mi-stico dell’India. Autore di un libro for-tunato, La luce dell’Asia, Arnold avevaanche tradotto dal sanscrito la Bhaga-vad Gita (Canto del Beato), la lunga dis-sertazione speculativa, inserita nelpoema indiano Mahabharata, ma che,nella tradizione spirituale dell’India, hamantenuto un valore a sé, come un mo-mento alto della rivelazione, alla paridei Veda e delle Upanishad.Di per sé, il Canto è tutt’altro cheun’esortazione alla non violenza: l’inse-gnamento di Krishna al guerriero Ar-

L’elefante e i non vedenti

C’era una volta un villaggio in cui vivevano sei uomini non vedenti. Un giornouno degli abitanti disse: “Oggi c’è un elefante nel villaggio”. Essi non avevanoidea di che cosa fosse un elefante e decisero che, benché non fossero in grado divederlo, avrebbero potuto comunque capire come fosse. Andarono dove si tro-vava l’elefante e ciascuno dei sei iniziò a toccarlo. “L’elefante è una colonna!”,esclamò il primo uomo, che toccò una delle zampe. “Oh, no! È, come una fune!“,disse il secondo, che stava toccando la coda. “No! È come il ramo di un albero!”,disse il terzo, che stava toccando la proboscide. “È un grosso ventaglio!”, disse ilquarto, che stava toccando l’orecchio dell’elefante. “È come un grosso muro!”,disse il quinto, che stava toccando il ventre dell’elefante. “Oh, no! L’elefante è untubo solido!”, esclamò il sesto, che stava toccando una zanna. Iniziarono a litigare.Un saggio passava per caso di lì e li vide. Si fermò e chiese: “Qual è il problema per cui litigate?”. I sei non vedenti rispo-sero: “Non siamo d’accordo sulla forma dell’elefante”. E ciascuno raccontò lapropria versione. Con calma il saggio spiegò loro: “Ciascuno di voi ha ragione. Ilmotivo delle differenze è perché ognuno ha toccato una parte diversa dell’ele-fante, che possiede tutte le caratteristiche che avete descritto”. “Oh!”, esclama-rono tutti. Da quel giorno non vi furono più litigi.

La compassione dell’elefante

C’era una volta un elefante che viveva in una foresta insieme ad altri animali. Ungiorno divampò un incendio. Per salvarsi tutti gli animali, compreso l’elefante,corsero a mettersi al riparo in un’area sicura. In poco tempo la zona divennesempre più affollata e si riempì di animali. L’elefante, per un improvviso prurito,sollevò la zampa e, approfittando dell’occasione, un coniglio saltò velocementea occupare lo spazio libero che si era creato. Nel momento in cui l’elefante stavaper riappoggiare la zampa, si accorse del coniglio seduto e, per evitare di ucci-derlo o di fargli del male, rimase con la zampa sollevata. L’incendio durò tregiorni e, in tutti quei giorni, l’elefante rimase con la zampa sollevata. Quando ilfuoco si placò, tutti gli animali, compreso il coniglio, se ne andarono. L’elefantesi sentiva felice di aver salvato e protetto la vita del coniglio. Ma quando cercòdi appoggiare la zampa non ci riuscì perché il suo corpo era rimasto bloccato.Cadde e morì. Come conseguenza della sua compassione rinacque come principenella vita successiva.

L’albero di mango e le sei persone

Sei membri della stessa tribù volevano assaggiare il frutto del mango e andaronocosì nel frutteto. Si avvicinarono a un albero e uno di loro disse: “Questi fruttisono molto belli e deliziosi, dobbiamo tagliare l’albero”. Un altro disse: “Non vo-gliamo tutti i frutti di mango, tagliamo i rami principali”. Un altro ancora disse:“Tagliamo i rami più piccoli”. E un altro: “Noi non ne vogliamo così tanti, pren-diamo solo uno dei rami più piccoli e sarà sufficiente”. Il quinto disse: “Cogliamosolo i singoli frutti”. L’ultimo disse: “Ma noi non ne vogliamo così tanti. A qualescopo danneggiare o tagliare l’albero? Esso è una parte della natura e se è possi-bile avere un numero sufficiente di frutti di mango raccogliendo quelli che sonogià caduti in terra, prendiamo solo quelli e non disturbiamo l’albero”. Qualcunopensa che questa storia elogi la pigrizia, ma non è vero. Insegna a non sacrificaretroppo per uno scopo limitato. Se hai un obiettivo, i mezzi impiegati devono es-sere commisurati con il fine.

Tratto da: Virchand Gandhi, L’essenza del jainismo, Editori Riuniti, Roma, 2003.

Fiabe jainiste

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juna è di affrontare senza scrupoli labattaglia, con un assoluto distacco dallecircostanze (gli avversari erano suoi pa-renti) e dagli esiti. Difatti, la BhagavadGita era anche il libro sacro dei nazio-nalisti che non rifuggivano da azioniterroristiche. Fu nella traduzione in-glese di Arnold che Gandhi prese con-tatto con questo messaggio centraledella sua fede induista. In Africa si im-pegnò in uno studio minuzioso delsacro testo e ne fece il suo “dizionariodi consultazione quotidiana”. Nella let-tura gandhiana, la Bhagavadgita èun’esortazione al compimento del pro-prio dovere, al distacco assoluto dalleconseguenze delle proprie azioni. Gli aspetti speculativi della tradizioneinduista, come d’altronde di quella oc-cidentale, non lo interessavano se nonin quanto illuminavano la sua espe-rienza morale e politica e la collocavanonegli orizzonti dell’assoluto. Di qui la labilità dei suoi rapporti con laSocietà teosofica a cui si iscrisse nel1891, a Londra, e della quale facevanoparte due dei suoi collaboratori più fe-deli, come Pollak e Kellenbach. Si devea questi incontri il fatto che Gandhi,partito per Londra senza nessuna cono-scenza dell’induismo, anzi con unacerta propensione agli atteggiamentiagnostici e ateistici dell’Occidente, ora,messo a duro contatto con il volto bru-tale del colonialismo bianco, trasfor-masse la sua ritrovata fede induista inun confronto di civiltà nel quale la fedein Dio diventa il valore decisivo. K

Tratto da: Ernesto Balducci, Gandhi,Giunti, Firenze, 2007.

Anche la democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interessedei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essail più debole deve avere le stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la non violenza. Nessun Paese delmondo oggi mostra di avere più che un atteggiamento paternalistico nei con-fronti dei deboli. Il più debole ha sempre la peggio, voi dite. Prendiamo il vostrocaso. Nel vostro Paese la terra appartiene a pochi capitalisti. Lo stesso avviene inSud Africa. Queste grandi proprietà possono essere mantenute soltanto con laviolenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteri-stiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento permascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. Perché oggi vi è la guerra, se non per la brama della spartizione delle spoglie delmondo? Non è stato con metodi democratici che l’Inghilterra si è impadronitadell’India. Che cosa è la democrazia del Sud Africa? La costituzione di quel Paeseè stata fatta appositamente per assicurare la supremazia dell’uomo bianco sulnero, il naturale abitante di quella terra. La storia del vostro Paese è segnata daingiustizie ancora peggiori, malgrado ciò che gli Stati del nord hanno fatto perl’abolizione della schiavitù. Il modo in cui voi avete trattato gli schiavi costitui-sce una grande macchia nella storia americana. Ed è per salvare queste demo-crazie che oggi la guerra viene combattuta. Vi è una grande ipocrisia circa laguerra. Sto parlando in termini di non violenza, e sto cercando di mettere a nudola vera essenza della violenza. L’India sta cercando di sviluppare una vera democrazia, ossia libera dalla vio-lenza. I nostri strumenti sono quelli del satyagraha, che si esprimono nel Char-kba, le industrie di villaggio, l’istruzione elementare combinata con il lavoromanuale, l’abolizione dell’intoccabilità, l’armonia delle comunità, e l’organizza-zione non violenta dei lavoratori come ad Ahmedabad. Questo comporta un im-pegno di massa e un’educazione di massa. Abbiamo grandi organizzazioni perportare avanti queste attività. Queste hanno un carattere interamente volonta-rio, e il loro unico scopo è il servizio degli umili.

Gandhi, in “Harijan”, 18 maggio 1940, intervista rilasciata a un giornalista americano.

L’Occidente? Un nazismo diluito

Manifesto dell’esercito dei volontari indiani nella seconda guerra mondiale, cortesia www.flickr.com.

A P P R O F O N D I R E

K M.K. Gandhi, La mia vita per la li-bertà. L’autobiografia del profetadella non violenza, Newton Comp-ton, Roma, 2007.

K F.C. Manara, Una forza che dà vita.Ricominciare con Gandhi in un’etàdi terrorismi, Unicopli, Milano,2006.

K B. Vinoba, I valori democratici. Lapolitica spirituale di Gandhi attra-verso le parole del suo discepolo, Ga-brielli Editori, Verona, 2008.

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DIOGENE70N. 18 Marzo 2010

l 10 novembre del 1619, nei pressidi Ulm, la cittadina bavarese doveera accampato l’esercito del prin-cipe Massimiliano, un soldato unpoco singolare, Renato Cartesio,

mentre se ne stava, è lui che lo racconta,in una stanza surriscaldata da una stufa,ebbe una illuminazione che gli parvesubito così straordinaria da suggerirgliil voto di un pellegrinaggio a Loreto. Edifatti non fu una illuminazione dapoco, se è vero, molti lo pensano, cheessa sta alle origini della razionalità oc-cidentale, destinata a dettar legge almondo intero. In parole semplici, a Car-tesio venne l’idea di una riforma radi-cale del sapere, basata sul metodomatematico, alla quale darà mano diecianni dopo. Tutto ciò che non appare di per sestesso chiaro e distinto, come, ad esem-pio, le regole del triangolo, va messo indubbio, spiegherà Cartesio. Solo di unacosa non posso dubitare: penso, dunquesono. Da questa verità evidente Carte-sio trae un sistema che è una specie dimatematica universale. Per tutto quelloche non rientra nel sistema Cartesioadotta una regola pratica: “Obbedirealle leggi e ai costumi del mio Paese...regolandomi secondo le opinioni piùmoderate”. E la religione? “Io ho la reli-gione del mio re e della mia balia”. Insomma, la vita morale, privata e pub-blica, non rientra nel sistema delle ve-rità chiare e distinte e dunque il migliorcriterio è quello di attenersi, a riguardo,all’opinione dominante, meglio ancora,a quella del sovrano. Nessuno scandalo,quindi, poteva venire a questo padrefondatore del moderno Occidente daquanto stava accadendo attorno a lui,fosse pure l’assurda guerra di religionecol suo corredo di stragi e di emigra-

zioni di massa. Non si contano i gruppireligiosi che in quel giro di anni cerca-rono in terre lontane un rifugio dallefollie del mondo cristiano.

Calvinisti in Africa

Uno di quei gruppi, precisamente novefamiglie olandesi, per sottrarsi alla per-secuzione del re spagnolo e dell'Inqui-sizione, suo braccio spirituale, attornoalla metà del Seicento fuggì versol’Africa sotto la guida di un pastoredella Chiesa riformata. I coloni appro-darono al Capo nel 1657. Negli annisuccessivi arrivarono, a ondate, altre fa-miglie calviniste, dall’Olanda, dallaFrancia, dalla Scandinavia. Nel 1688 lefamiglie sono 800.Attorno a loro si era già raggruppato ilpopolo degli schiavi. La Bibbia, che è illibro ispiratore della comunità calvini-sta, dice: “Il servo e la serva da tenere altuo servizio, li comprerai tra le genti cir-convicine”. Le genti ci sono, col coloredi Cam, il maledetto. Loro, gli afrikaner(così si chiameranno) sono il popoloeletto, che deve tenersi puro da ognicontaminazione. In seguito, ai primidell’Ottocento, arriverà un altro popoloeletto, quello inglese, la cui flotta hasoppiantato quella olandese nel domi-nio dei mari. Nel 1814, per 6 milioni difranchi l’Olanda vende alla corona bri-tannica la Colonia del Capo. Ma il do-minio inglese è troppo prammatico,troppo incline alla pura speculazioneproduttiva. I pronipoti dei calvinisti olandesi, piùpuri e più poveri, cercano terre nell’in-terno: è la leggendaria emigrazione, ilGrande Trek dei boeri (boero, dall’olan-dese boer, vuol dire contadino). Per farsiposto, i boeri massacrano gli zulù e fon-dano il Natal. Nel 1843 l’Inghilterra se

Il suo discorso sul metodoIn un contesto non dissimile da quello di Cartesio, Gandhi ebbeun’illuminazione intellettuale che lo portò a comprendere una profonda verità morale: l’ingiustizia della discriminazione razziale.

K Ernesto Balducci

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lo annette. I boeri si spostano nell’en-troterra e fondano lo Stato libero del-l’Orange e il Transvaal. Il sottosuolo deinuovi territori nasconde grandi ric-chezze minerarie, diamanti e oro. Gliagricoltori diventano proprietari di gia-cimenti e cercano mano d’opera. I nerinon bastano e non offrono una forza la-voro apprezzabile. Si favorisce l’immi-grazione di altri gruppi etnici, gli arabi,ad esempio, e gli indiani, provenientidalla parte occidentale del subconti-nente asiatico. Mentre gli arabi fanno,per lo più, i commercianti, gli indiani sidedicano ai lavori più spregevoli e piùfaticosi. Le leggi di segregazione sonoseverissime. Prevedono, tra l’altro, il co-prifuoco alle ore ventuno e la proibi-zione di acquisto d’immobili. È,insomma, l’apartheid.

Uno strano viaggiatore

È qui, in questa colonia dominata dalpiù rigido razzismo, che alla fine dimaggio del 1893 approdò un giovaneavvocato indiano di 24 anni, MohandasKaramchand Gandhi, con un incaricolegale, affidatogli da una ditta indiana,la Dada Abdulla and Company, da as-solvere a Pretoria. Come Cartesio,anche Gandhi ebbe la sua illumina-zione, che lo introdusse in una ricercadella verità totalmente diversa da quellache inaugurò il nuovo corso del pen-siero occidentale. L’illuminazione av-venne durante una sosta forzata nellastazione ferroviaria di Maritzburg, ca-pitale del Natal.“Arrivò un passeggero, è Gandhi cheracconta, che mi squadrò da capo apiedi, vide che ero un uomo di colore enon gli andò giù. Se ne usci e tornò conuno o due funzionari; se ne rimanevanotutti zitti, quando venne da me un altrofunzionario e mi disse: “Venga, su, deveandare in terza”. “Ma ho un biglietto diprima”, replicai. “Non fa niente”, risposel’altro, “le dico che deve andare interza”. “E io le dico che mi è stato con-cesso di viaggiare in questo scomparti-mento a Durban ed esigo di rimanerci”.“No, lei non ci rimane” disse il funzio-nario, “deve lasciare questo vagone,sennò mi toccherà chiamare un agentedi polizia per farla cacciare fuori”.“Certo, lo faccia pure, rifiuto di scen-dere spontaneamente”. Arrivò l’agente

I monaci bianchi

Il jainismo si divide in due scuole principali: svetambara e digambara. I monacie le monache svetambara (“vestito di bianco”) possiedono un abito bianco, unaciotola per elemosinare il cibo e l’acqua, un bastone, una scopa per rimuovere gliinsetti dal loro cammino prima di sedersi e coricarsi e una pezzuola sulla boccaper non nuocere ai batteri dell’aria.

Gli asceti vestiti di cielo

Gli asceti digambara (“vestito di cielo”) sono più anziani, più eruditi sulle scrit-ture, perfetti sul piano della condotta, della fede e della conoscenza. Non pos-siedono nulla: né abito, né dimora, né lavoro, né famiglia, né amici, né ciotola.Solo la scopa, la pezzuola sulla bocca e un contenitore per l’acqua con cui lavarsii piedi prima di entrare nei templi. Elemosinano il cibo e l’acqua da bere nel-l’incavo delle mani giunte. Vivono ritirati, soprattutto da quando in India vennebandita la nudità.

Salvare le api

Oltre a non cibarsi di nessun animale di aria, di terra e di acqua (compresi cro-stacei e molluschi), non si cibano neppure di tutte quelle creature vegetali estir-pando le quali si uccide l’intera pianta togliendole la possibilità di continuare acrescere e a produrre i suoi frutti: bulbi, radici come patate, rape, carote ecc., maanche frutti ricchi di semi e quindi di anime come i melograni; non utilizzanoneppure il miele, ricavato mettendo in pericolo la vita delle api.

Una vita vegana

Da quando lo sfruttamento degli animali per la produzione di uova, latte e lat-ticini è stato industrializzato con la creazione degli allevamenti intensivi e degliallevamenti in batteria, i jainisti hanno iniziato a bandire anche gli alimenti di ori-gine animale, poiché la loro produzione comporta inevitabilmente grande vio-lenza sugli animali. Le più recenti indicazioni jainiste suggeriscono lo stile di vitavegan (conosciuto anche come “vegetaliano”) al fine di ridurre al minimo la vio-lenza. I jainisti stanno iniziando, ad esempio, a sostituire il latte di mucca, uti-lizzato in alcuni rituali all’interno dei templi, con latte di soia o latte di riso.

L’ascetismo jainista

Asceta jainista, stampa, XIX secolo, Rajasthan, cortesia www.flickr.com.

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DIOGENE72N. 18 Marzo 2010

Metarya era nato in una famiglia di paria, gli intoccabili. Poiché il jainismo noncrede nella discriminazione di casta e considera tutte le anime uguali, Metaryafu ammesso come monaco e divenne discepolo di Mahavira.Un giorno, sotto un Sole molto caldo, arrivò nella città di Rajgriha. Camminavaa piedi nudi, non portava cappello ed era completamente rasato. Andava a ele-mosinare un po’ di cibo in ogni casa indipendentemente dalla ricchezza o dallapovertà del proprietario. Arrivò alla casa di un artigiano molto famoso in città perla sua arte orafa. Persino il re Shrenik ammirava le sue capacità. Quando Meta-rya arrivò nel cortile della sua casa, l’orafo stava lavorando piccole gemme d’oroda utilizzare per creare gioielli. Quando vide il monaco, si sentì molto felice eonorato. Smise subito il suo lavoro, si inchinò e lo ringraziò per l’onore che gliaveva conferito con la visita.Mentre l’orafo era in cucina a prendere cibo da offrire in elemosina, un uccellinoscese da un ramo e, credendole semi, prese alcune gemme d’oro. Il monaco se neaccorse e osservò l’uccellino tornare sull’albero con le gemme nel becco. L’orafotornò e offrì del cibo accettabile per un monaco, cioè vegetariano e non prove-niente da violenza o sfruttamento. Dopo averlo accettato, il monaco ringraziò eriprese il suo cammino.Quando l’orafo tornò al lavoro si accorse che mancavano le gemme. Cercò do-vunque ma non riuscì a trovarle. L’unica cosa che riusciva a pensare era che leavesse prese il monaco. Pensò che forse le costose gemme lo avevano tentato op-pure, addirittura, che non si trattasse di un vero monaco bensì di un malfattoretravestito. Gli corse dietro e lo trascinò a casa. Gli chiese se avesse preso lui legemme ma il monaco, calmissimo, rispose: “No, non le ho prese io”.L’orafo, ormai arrabbiatissimo, insistette con l’interrogatorio: “E allora, chi le haprese?” Il monaco pensò che, se avesse raccontato la verità, l’orafo avrebbe uc-ciso l’uccellino e che tale violenza non era assolutamente da permettere. Nondisse nulla e mantenne la calma.L’orafo si convinse che, poiché non rispondeva, il monaco stava nascondendol’oro. Si arrabbiò ancora di più e iniziò a colpirlo, ma quello rimase calmo equieto. Reso sempre più furioso dalla calma e dall’immobilità del monaco, decisedi dargli una lezione. Lo fece stare sotto il sole con una striscia di cuoio bagnatalegata intorno alla testa. Il cuoio, seccandosi, iniziò a restringersi e a procuraregrande dolore al monaco.L’orafo era convinto che, prima o poi, non potendo resistere, avrebbe confessato.Non era in grado di comprendere quanto questo monaco fosse compassionevolee altruista, disposto a donare volentieri la propria vita per salvare quella di un uc-cellino. Soffriva atrocemente ma non esitò mai e mantenne la propria ferma con-vinzione di non dire che cosa realmente fosse accaduto, per non mettere inpericolo la vita dell’uccellino. Non si arrabbiò neanche con l’orafo e rimase inpace pensando: “Questo corpo è deperibile, perché mi dovrei preoccupare perlui?” Inoltre si sentiva pienamente felice di aver potuto salvare una vita. In quellostato mentale di totale equanimità il monaco raggiunse l’onniscienza. Nello stesso istante, la pressione del cuoio divenne così forte che i suoi occhiscoppiarono e morì. La sua anima si era per sempre liberata dal ciclo di morti erinascite. In quel mentre, un taglialegna che passava di lì buttò a terra una fa-scina. Il rumore spaventò l’uccellino che fece cadere le gemme d’oro. L’orafo le vide, finalmente comprese la verità, e subito si pentì di aver dubitatodel monaco. Corse per liberarlo ma era ormai troppo tardi.

Tratto da: Virchand Gandhi, L’essenza del jainismo, Editori Riuniti, Roma, 2003.

di polizia, mi prese per la mano e mispinse fuori, furono tirati giù anche imiei bagagli, io rifiutai di cambiarescompartimento e quindi il treno partìsenza di me”.Fu dunque in una fredda sala d’aspettoche Gandhi, accovacciato sulla suaborsa tra le gambe, prese coscienza delsuo dovere di resistere al sopruso delrazzismo, basandosi sulla semplice forzadella verità. Capì in quel momento ditrovarsi davanti a un bivio: o proseguireper Pretoria, per assolvere quantoprima il mandato professionale senzabadare agli insulti, e poi tornarsene inIndia, o lottare per ottenere il rispettodei propri diritti, anche a costo di essereper questo rispedito in patria. Entravain crisi, così, l’illusione di poter assimi-lare la cultura occidentale come gli siera proposta già nella sua fase di for-mazione in India e poi a Londra, du-rante il suo curriculum universitario.

Esperimenti con la verità

Nel decidere d’intraprendere la lottacontro la discriminazione, egli ebbel’impressione di prendere contatto, perla prima volta, con la verità. La sua il-luminazione, a differenza di quella diCartesio, gli dischiuse una verità di or-dine morale destinata a svilupparsi nonper via di deduzioni intellettuali ma pervia di esperimenti, condotti anno dopoanno, anzi giorno dopo giorno, lungo lalinea di conflitto tra la dignità umana,divenuta, nella coscienza di sé, una mi-sura universale, e lo sterminato grovi-glio di soprusi costruito dalla menzognae dalla violenza. Il mondo è himsa, vio-lenza (più precisamente, danno portatoad altri), la verità è ahimsa (più preci-samente, innocentia, non far danno aglialtri). Si noti: l’ahimsa, la non violenza,non è una verità tra le altre, è la veritàche, inseguita nelle sue inesauribili pro-fondità, si identifica con Dio. Non acaso Gandhi sottotitolerà la sua Auto-biografia come Story of my experimentswith truth (Storia dei miei esperimenticon la verità) e la chiuderà con una pa-gina altissima dedicata a illustrare la viaper raggiungere la verità. È il suo “di-scorso sul metodo”. K

Tratto da: E. Balducci, Gandhi, Giunti,Firenze, 2007.

Il monaco e l’orafo. Fiaba jainista

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DIOGENE 73N. 18 Marzo 2010

Il jainismo

a religione jainista, la quartagrande religione indiana accantoall’induismo, al buddhismo e al-l’islam, fu fondata da Mahavira,vissuto fra il 540 e il 468 a.C.

La tradizione lo presenta come l’ultimodi una serie di altri ventiquattro profeti,i quali avrebbero tutti predicato la dot-trina jainisti (dall’epiteto del profeta,Jina, letteralmente “il Vittorioso”) inepoche diverse. È sicuramente una leg-genda, ma dimostra che Mahavira sipresentava come il continuatore di unatendenza a lui precedente. Sul piano storico si sa poco di lui. Fucontemporaneo del Buddha, di qualchedecina d’anni più anziano, come lui ab-bandonò la famiglia verso i trent’anniper una vita di meditazione e ascetismo,raggiungendo l’illuminazione dopo do-dici anni di preparazione. I suoi scrittisono andati tutti perduti, per cui il ca-none jainista comprende quarantacin-que opere messe per iscritto solointorno al V o VI secolo d.C.Nonostante l’enorme influenza sullacultura indiana, il jainismo non ha maiavuto uno straordinario seguito popo-lare; oggi vi aderisce solo poco più di unmilione e mezzo d’indiani. Soprattuttonon si è mai diffuso nel mondo conta-dino. La predicazione di Mahavira partedalle questioni fondamentali poste dallacultura induista: come spezzare il ciclodi reincarnazioni successive cui è con-dannata l’anima umana e raggiungere ilnirvana? Come anticipare tale stato dibeatitudine già in questo mondo, spez-zando la legge del karma, l’eterno sus-seguirsi di cause ed effetti da cuidipende il dolore?

La religione fondata da Mahavira ha sempre avuto scarso seguito popolare,ma è sempre stata molto influente.

K Ubaldo NicolaDirettore di Diogene.

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Il cosmo jainista

Secondo il jainismo l’universo è eterno e passa ciclicamente attraverso fasi di svi-luppo e di involuzione. Graficamente può essere immaginato in forma duali-stica, diviso cioè fra una parte inferiore, in cui si esprime la tendenza allamaterialità, e una superiore e tendente verso l’alto, in cui le stesse realtà si orga-nizzano secondo modalità via via sempre più spirituali. Il mondo come noi lo ve-diamo sta nel mezzo e partecipa di entrambe le dimensioni.

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DIOGENE74N. 18 Marzo 2010

Mahavira condivide con il Buddhal’idea che l’esistenza di qualsivoglia di-vinità sia un problema secondario. Infatti, da una parte, la legge del karmaagisce autonomamente e senza l’inter-vento di alcun creatore od ordinatore;dall’altra, le pratiche necessarie alla li-berazione non prevedono la necessità diun salvatore e richiedono uno sforzoche non superi affatto le ordinarie ca-pacità umane.L’originalità della proposta jainista con-siste nel considerare gli stretti legamiche connettono il karma alla violenza.È del tutto evidente, infatti, che sino ache si risponde all’ira con l’ira, all’offesacon l’offesa e alla violenza con la vio-lenza, la concatenazione negativa nonfinirà mai. L’etica jainista propone diuscire da questo circolo vizioso attra-verso la pratica della ahimsa, ossia delprincipio della non violenza.

Fino alla morte per inedia

Il principio jainista della non violenza èdiventato universalmente noto a se-guito della lotta d’indipendenza indianacontro il colonialismo inglese guidatadal Mahatma Gandhi.L’ambito privilegiato dell’azione nonviolenta è quello politico-sociale, in cuisi esprime come resistenza passiva al-l’aggressione. L’etica jainista, tuttavia,prevede l’applicazione radicale dellostesso principio anche in altri ambiti.Verso la natura, ad esempio. Nessuna fi-losofia ha mai difeso tanto il rispetto diogni essere vivente. Un jainista sentiva il dovere di porre da-vanti alla bocca un fazzoletto in mododa evitare che il suo respiro uccidesse ilpiù piccolo insetto. Attaccava sonaglialle scarpe, in modo da avvisare del suopassaggio gli animali così piccoli da nonpoter essere visti. Ancora oggi i jainistirifiutano ogni forma di sacrificiocruento e si prendono cura degli ani-mali ammalati. Ma in epoche passatespingevano il digiuno sino alla morteper inedia e praticavano una formaestrema di meditazione, consistentenell’offrire il loro corpo come cibo pergli animali, ponendosi a meditare sulterreno di celle appositamente costruiteaccanto ai templi, molto umide e proli-feranti di piccoli insetti. K

La mia esperienza costante mi ha convinto che non vi è altro Dio al di fuori dellaverità, e se ogni pagina di questi capitoli non grida ai lettori che il solo sistemaper arrivare alla realizzazione della verità è l’ahimsa, tutti gli sforzi fatti per scri-vere queste pagine saranno stati vani. Ma se il mio sforzo si dovesse rivelare inu-tile, sappiano i miei lettori che è il mezzo, non il grande fine ultimo, che èsbagliato. Bisogna riconoscere che per sinceri che siano stati i miei tentativi di rag-giungere l’ahimsa, sono rimasti sempre imperfetti e inadeguati, e i piccoli squarcidi verità che sono riuscito a vedere rendono male l’idea della sua indescrivibilelucentezza, un milione di volte più forte di quella del sole che noi vediamo ognigiorno con i nostri occhi. Quello che sono riuscito a captare è solo un debole chiarore emanante dalla po-tente luce. Ma avendo compiuto tanti esperimenti, posso asserire con convin-zione che una perfetta visione della verità la si può ottenere solo dopo averadottato completamente l’ahimsa. Per riuscire a vedere faccia a faccia lo spirito della verità, universale e onnipre-sente, bisogna riuscire ad amare la più modesta creatura quanto noi stessi. E unuomo che nutre questa aspirazione non può esimersi dal partecipare a nessunaspetto della vita, ecco perché la mia adorazione per la verità mi ha portato a in-teressarmi anche di politica; posso affermare senza la minima esitazione, seb-bene con molta umiltà, che coloro che sostengono che la religione non c’entracon la politica ignorano cosa sia la politica. Identificarsi con ciò che vive è im-possibile senza l’autopurificazione; senza di essa l’obbedienza alla legge del-l’ahimsa deve restare un sogno vano; chi non è puro di cuore non troverà maiIddio, perciò l’autopurificazione deve significare purezza in tutte le circostanzedella vita. E siccome la purificazione è molto contagiosa, quella propria com-porterà fatalmente anche quella di tutto ciò che ci circonda. Ma il cammino èarduo e ripido: per giungere alla purezza perfetta bisogna essere assolutamentesenza passioni, nel pensiero, nella parola e nelle azioni; bisogna emergere dallecorrenti contrastanti di amore e di odio, di attaccamento e di repulsione. Lo sodi non essere ancora arrivato alla triplice purezza, malgrado il mio tentativo co-stante di raggiungerla. Ecco perché le lodi del mondo non mi toccano, anzi spesso miferiscono. Conquistare le passioni subdole mi pare più dif-ficile che raggiungere la conquista fisica del mondo conla forza delle armi. Da quando sono tornato in Indiaho combattuto contro le passioni assopite che sinascondono nel mio cuore, lo scoprirle mi haumiliato ma non mi ha vinto.Le esperienze e gli esperimenti mi hannodato coraggio e molta gioia. Ma so chemi aspetta un cammino difficile, midevo annientare totalmente. Finchéun uomo, di sua spontanea volontà,non si considererà l’ultimo fra i suoisimili, per lui non c‘è salvezza:l’ahimsa è il limite estremo del-l’umiltà.

M.K. Gandhi, La mia vita per la li-bertà, Newton Compton, Roma,1983.

Ahimsa: la via dell’autopurificazione

Gandhi, elaborazione grafica da un suo ritratto, cortesia www.cyberstump.com.

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DIOGENE 75N. 18 Marzo 2010

Il perizoma di GandhiIl tessuto khadi, di cui era fatto il perizoma tradizionale di Gandhi, divenneil simbolo della produzione locale per l’autosufficienza economica. Storia di un metodo di produzione che ha costruito l’immaginario nazionaledell’India postcoloniale.

K Francesca Nicola

andhi vestito semplicementecon un perizoma e unoscialle di cotone mentre fa gi-rare un arcolaio: è un’imma-gine familiare in tutto il

mondo. In realtà quello che noi chia-miamo perizoma è il dhoti, un indu-mento indossato tradizionalmente daicontadini indiani. Una volta rimboccatosi trasforma in un paio di braghe corteadatte a lavorare nei campi; se invece siallenta ha l’aspetto di un’ampia gonnalunga fino alle caviglie.Il fatto che il Mahatma, figura esem-plare, avesse scelto una veste contadinaè già di per sé significativo: l’adozionedi un unico abito per tutti gli indiani,indipendentemente dalle loro diffe-renze economiche o religiose, era inaperto contrasto con il sistema dellecaste contro il quale Gandhi si scagliòpiù volte. Vestendo quell’abito, gli in-diani avrebbero compiuto una specie diatto di povertà e uguaglianza tra loro,rinunciando allo sfarzo e indirizzandosia uno stile di vita semplice e sobrio.

Gandhi vuole il khadi

Il perizoma di Gandhi aveva però unsurplus simbolico: era tessuto col me-todo khadi, un sistema di filatura e tes-situra a mano del cotone e della setache il Mahatma promosse come stru-mento di riscatto sociale ed economicoper le comunità rurali e l’intero Paese.Ma del vero khadi ottenuto da fibre dicotone o di lana filate a mano e tessute

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Manifesto per la promozione dell’industria tessile nazionale, India, 1931.

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DIOGENE76N. 18 Marzo 2010

su telai a mano, soltanto pochi nel sub-continente avevano conservato la sa-pienza. Così il Mahatma faticò molto atrovare chi gli insegnasse l’arte della fi-latura e della tessitura.Lo aiutarono alcune donne dell’ashramdi Ahmedabad e grazie a loro nel 1919poté indossare un dhoti di puro tessutokhadi. Con i suoi sostenitori iniziòquindi a praticare la tessitura dei proprivestiti usando un filatoio manuale (ilcharka) e invitò tutti gli indiani a se-guirlo nel vestire di puro khadi.Gandhi aveva scritto nel 1921: “I tessutiche importiamo dall’Occidente hannoletteralmente ucciso milioni di nostrifratelli e sorelle. Un Paese rimane in po-vertà, materiale e spirituale, se non svi-luppa il suo artigianato e le sueindustrie e vive una vita da parassitaimportando manufatti dall’estero”. Inrealtà, il dhoti filato in khadi era la rea-lizzazione più immediata di un princi-pio fondamentale del pensiero politicodi Gandhi: lo swaraj, ovvero l’autosuf-ficienza economica.Gandhi intendeva sostituire l’economiacentralizzata di tipo industriale, impo-sta dal colonialismo britannico, con unsistema artigianale e decentrato. L’Indialibera da lui auspicata non era un veroe proprio Stato nazionale unitario mauna confederazione di villaggi auto-nomi e autosufficienti, in cui il poterepolitico ed economico doveva esseregestito da assemblee locali. Gandhiconsiderava questi villaggi così impor-tanti che pensava di dar loro lo status di“Repubbliche Villaggio”.

Autosufficienza economica

In conformità a questa idea autonomi-sta, Gandhi creò il movimento Swade-shi, che si impegnava a diffondere erendere popolare il principio dell’auto-sufficienza economica. Tutto ciò cheveniva prodotto nel villaggio doveva es-sere usato soprattutto dai membri delvillaggio stesso. Il commercio fra villaggio quello fra villaggio e città doveva es-sere minimo, quasi un’eccezione. Swa-deshi stigmatizzava la dipendenzaeconomica da mercati esterni, inquanto poteva rendere vulnerabile ilvillaggio. La comunità rurale doveva in-fatti costruire una solida base econo-mica per soddisfare la maggior parte dei

suoi bisogni, e tutti i membri della co-munità avrebbero dovuto dare prioritàalle merci e ai servizi locali. Ogni vil-laggio dell’India libera era pensatocome un microcosmo del Paese, intesocome una rete di comunità liberamenteinterconnesse.Il perizoma khadi divenne anche unsimbolo della rivolta anticoloniale nonviolenta. La tessitura rappresentava unaforma di lotta contro l’impero britan-nico da cui venivano importati i vestitidi foggia occidentale, prodotti in In-ghilterra. Il regime coloniale avrebbecosì subito una perdita economica perla loro mancata vendita. L’arcolaio cheserviva a filare indumenti khadi assunseuna tale importanza che quando nel1947 l’India ottenne l’indipendenza ildisegno della ruota dell’arcolaio entrò afar parte della bandiera, e i vestiti khadidivennero l’uniforme ufficiale del Par-tito del Congresso indiano.

Vestire la nazione di Gandhi

In Clothing Gandhi’s Nation, Lisa Tri-vedi, studiosa del nazionalismo e delcolonialismo di origine indiana, ha ana-lizzato come dopo l’indipendenza ilkhadi sia stato usato per creare un’im-magine visiva dell’identità nazionale in-diana. Il movimento Swadeshi capì chein un Paese ancora prevalentemente ru-rale era indispensabile promuovere iprincipi di autosufficienza economicaanche al di fuori delle élite urbane:nelle campagne del subcontinente.Creò quindi una serie d’immagini vi-suali in grado di comunicare con le di-verse popolazioni indiane, caratte-rizzate da lingue e religioni diverse. Due, in particolare, furono le strategieche il movimento utilizzò: i tour in cuivenivano mostrate diapositive di pro-duzioni regionali di tessuto khadi e leesibizioni di prodotti khadi.Entrambe le strategie si basavano suuna propaganda visiva, dimostrativa epratica dei principi di autoproduzionedei tessuti. L’uso di una campagna visuale era dop-piamente strategico: serviva a superarel’eterogeneità linguistica della giovanenazione e, cosa ancora più importante, acomunicare a masse quasi completa-mente analfabete il senso della geogra-fia nazionale.M

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DIOGENE 77N. 18 Marzo 2010

I tour di diapositive

Cos’era di preciso un khadi tour? Sitrattava di piccole delegazioni, da tre adieci lavoratori khadi, in visita in un vil-laggio delle campagne indiane. A volteerano le stesse comunità che contatta-vano il movimento chiedendo assi-stenza per dimostrazioni di tessitura coltelaio. A volte invece era il movimentoSwadeshi, o Gandhi in persona, chesceglieva la comunità. La raccolta difondi era uno degli scopi primari deitour. Le comunità aspettavano il Ma-hatma o i suoi rappresentanti con unborsellino già pieno di contributi, emolto spesso le donne donavano i lorogioielli ai lavoratori khadi.La cosa che rendeva questi eventi par-ticolarmente popolari era però l’uti-lizzo di lanterne magiche per proiettarele fotografie. Usata all’inizio per scopieducativi, soprattutto per raccontare laBibbia col supporto d’immagini colo-rate a tutto schermo, la lanterna magica,paragonabile ai nostri attuali proiettoridi diapositive, era lo strumento antesi-gnano del cinematografo, inventato nel1895 dai fratelli Lumière.Il potenziale eccitamento scatenato neivillaggi dalle diapositive non deve es-sere sottovaluto. Anche se il cinemato-grafo e la fotografia erano già statiinventati, la loro diffusione era ancoraminima in India, limitata alle élites ur-bane dell’amministrazione coloniale.Con la lanterna il movimento speravadi catturare l’immaginazione degli spet-tatori con una tecnologia visiva nuovaper le comunità rurali, proponendo unaforma più moderna degli intratteni-menti tradizionali di cantastorie egruppi di danzatori e attori itineranti.

Propaganda visiva

Oltre a essere nuovo, questo tipo dipropaganda era anche particolarmenteeconomico. I pacchetti di slide giàpronti erano venduti dall’organizza-zione centrale del movimento, che sitrovava in Bengala, alle organizzazionilocali diffuse in tutto il subcontinenteper poche rupie. Insieme presentavanouna mappa della nazione, di posti, gentie oggetti che concorrevano a crearel’idea d’India. Anche se non esistonopiù esemplari originali di queste diapo-sitive, sappiamo per certo che si trat-

tava di 5 serie per un totale di 270 im-magini che ritraevano persone o luoghichiave della nazione indiana. I perso-naggi rappresentati erano Gandhi, i la-voratori khadi, i professori nei colleginazionali, i tessitori musulmani e per-sino gli intoccabili.Le immagini di luoghi invece a primavista potevano sembrare incongruenti,ma prese insieme davano un’idea chiaradi cosa il movimento Swadeshi inten-deva per nazione. Ad esempio la serieSouth African Satyagraha conteneva ri-tratti delle attività politiche di Gandhiin Sud Africa, la serie sulla Jallian Wal-lah Bagh, invece, conteneva fotografiedell’omonimo massacro avvenuto nel1919 ad Amritsar, una cittadina delPunjab. In quell’occasione l’esercito bri-tannico sparò a una folla che assisteva aun comizio in un’angusta piazzettadella città, causando 1500 tra morti eferiti. Proiettare queste immagini per-metteva a tutti gli abitanti dell’Indiad’identificarsi con gli abitanti del Pun-jab che avevano sofferto a nome ditutta la nazione.La North−Bengal Flood Series, infine,mostrava le immagini di una deva-stante alluvione che nel 1925 avevacolpito la regione del Bengala. Quelloche si chiedeva allo spettatore erad’identificarsi con i problemi del pro-prio vicino colpito da disastri naturali,e di raccogliere soldi per donare a que-ste popolazioni cotone grezzo e arco-lai. Si trattava di una filantropia a scopinazionalistici del tutto simile a quellacui abbiamo assistito dopo il terre-moto in Abruzzo: in momenti di crisila nazione si riconosce come tale, sistringe alle popolazioni colpite in unabbraccio empatico, e si rafforza.

Le esibizioni

Oltre ai tour di diapositive il movi-mento Swadeshi organizzava anche esi-bizioni itineranti di prodotti khadi, cheimitavano le esibizioni imperiali britan-niche ma le piegavano ai propri scopinazionalistici. Come nei tour, l’aspettod’intrattenimento era centrale per vei-colare i principi del movimento. Le esi-bizioni erano molto pratiche. I visitatoripotevano vedere in prima persona etoccare con mano come si filava il co-tone grezzo. Molto spazio era dedicato Te

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DIOGENE78N. 18 Marzo 2010

a bancarelle che vendevano prodottikhadi fra cui dhoti, sari, coperte, asciu-gamani, scialli e borse.Le mostre creavano così una geografiaal contempo materiale e immaginificadella Nazione. Bastava seguire sui gior-nali i loro spostamenti per avere untracciato dei confini dell’India, la mo-stra stessa era una mappa della nazione.Era quasi una competizione in cui varieregioni rivaleggiavano nel mostrare lepotenzialità del khadi nel creare pro-dotti belli da vedere e da indossare. Oltretutto, poi, gli organizzatori co-struivano attorno alle esibizioni recintidi legno e li ricoprivano di vestiti khadi.Li decoravano con bandiere con al cen-tro l’arcolaio e con festoni del mede-simo tessuto. Questi steccati formavanoun confine simbolico al cui interno ledifferenze di classe, casta e genere eranoalmeno temporaneamente sospese.Sessantadue anni dopo l’indipendenzaquesti vestiti mantengono ancora unposto centrale nell’immaginario nazio-nale, tanto che, quando nel 1996 il go-verno di Delhi propose di smettere disovvenzionare il costo del khadi, scop-piarono delle enormi proteste. Questotessuto è usato per la bandiera e conti-nua a essere usato per confezionare ivestiti non ufficiali dei politici indiani. K

Ahimsa

Tra le parole chiave dei linguaggio di Gandhi è la prima e la più importante ditutte. È una parola antica, che risale al jainismo e significa non violenza e amore(non uccidere, non far del male ad alcun essere vivente).

Aparigraha

Indica il non possesso, la rinuncia ai beni materiali che non siano strettamente ne-cessari, e il distacco da essi. “L’osservanza di questo principio”, scrive Gandhi,“conduce a una progressiva semplificazione della vita”. E ancora: “L’amore e ilpossesso esclusivo non possono mai andare insieme”.

Brahmacharya

È il voto di castità, la continenza sessuale. Ma il concetto, in Gandhi, è più ampio.Comprende anche il non possesso, l’uso di diete naturali particolarmente fru-gali, l’autodisciplina psicofisica, il dominio delle proprie passioni e la conserva-zione della propria energia vitale per potersi interamente dedicare alla ricercadella verità e al servizio degli altri.

Sarvodaya

“Bene comune, benessere di tutti” è il termine che Gandhi adottò per tradurre iltitolo di un libro di Ruskin. Fu poi usato per designare sia l’insieme delle inizia-tive sociali indicate nel suo “programma costruttivo”, sia un ideale di socialismonon violento, fondato sulla mobilitazione dal basso delle energie degli individuie su una distribuzione equa delle ricchezze.

Satyagraha

O “forza della verità” è il termine coniato da Gandhi per indicare la sua teoriadella non violenza.

Swadeshi

Non è soltanto l’uso di prodotti indiani (soprattutto tessili) in contrapposizionea quelli importati. È anche tutto ciò che è vicino: “quello spirito in noi che ci im-pone di utilizzare gli elementi del nostro immediato circondario e di riservare aesso le nostre prestazioni, con esclusione dei luoghi più distanti”. Ma il concettodi swadeshi, come ogni altra cosa buona, potrebbe diventare letale se trasfor-mato in feticcio. Rifiutare prodotti stranieri semplicemente perché stranieri, econtinuare a sprecare tempo e denaro nazionali nel sostenere fabbricazioni perle quali il proprio Paese non fosse idoneo sarebbe follia criminale e negazionedello spirito dello swadeshi. Un vero seguace di swadeshi non nutrirà mai mala-nimo verso lo straniero, non si lascerà mai trasportare da antagonismo verso chic-chessia al mondo. Lo swadeshi non è un culto dell’odio, è una dottrina digeneroso altruismo, che affonda le proprie radici nella più pura ahimsa, cioè nel-l’amore. Tratto da: G. Sofri, Gandhi e l’India, Giunti, Firenze, 1996.

Dizionario jainista

Tempio indiano, Rajasthan, cortesia www.flickr.com.

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DIOGENE 79N. 18 Marzo 2010

e esiste un numero infinito.Togliamo un numero infinitoda un numero infinito e ri-marrà ancora un numero infi-nito. Nello spazio occupato

dalla punta di uno spillo vi sono molteanime e non importa quante ne to-gliamo: ne rimarrà sempre comunqueun numero infinito.Non vi è un centimetro di spazio nel-l’universo dove non vi siano innumere-voli piccolissimi esseri viventi. Sono piùpiccoli rispetto a ciò che possiamo ve-dere con l’aiuto di un microscopio.Armi e fuoco sono troppo grezzi per di-struggerli. La loro vita e la loro mortedipendono dalle loro forze vitali, chesono naturalmente collegate all’am-biente. Argilla e pietre, quando sorgonofresche dalla terra, hanno vita. L’acqua,oltre a essere la casa di molti esseri vi-venti, è essa stessa un assemblaggio diminuscole creature animate. L’aria, ilfuoco, e anche il fulmine, hanno vita.Scientificamente parlando, le sostanzechimiche che compongono l’argilla, i ri-fiuti, la pietra, sono una moltitudine dicorpi di esseri viventi.

Non vi è limite al numero delle anime

L’argilla secca, la pietra secca, l’acquabollita sono invece pura materia e nonhanno vita. I vegetali, gli alberi e i fiorihanno vita. Se seccati o cucinati, nonc’è più vita in loro. I vermi, gli insetti, ipesci, tutti gli animali, gli esseri umani,

K Virchand GandhiAmico e collaboratore del Mahatma.È stato uno dei più eminenti e attivi esponenti del jainismo.

La reincarnazioneArgilla e pietre, aria e acqua, tutto vibra di vita. Il ciclo delle morti e dellerinascite: il destino dei corpi e delle anime. Perché la non violenza èconnessa alla fede nella reincarnazione delle anime.

N

La legge del karma

Il momento culminante della Bhagavad Gita descrive le indecisioni del re Ar-juna che sul campo di battaglia sta per affrontare i propri parenti. A esse rispondeil suo auriga, il dio Krishna, argomentando che, come ogni essere, deve realizzarela propria natura, così il dovere di ogni guerriero sta nel combattere.

Arjuna sul campo di battaglia, immagine religiosa indiana, cortesia www.flickr.com.

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DIOGENE80N. 18 Marzo 2010

sono tutti esseri viventi. Vi sono esseriviventi sulle stelle e sui pianeti, e ancheoltre la volta stellata.“Vita” è solo un’astrazione. Non è qual-cosa di concreto, qualcosa che si ag-giunge agli elementi costituenti gliesseri viventi. È una generalizzazionederivata dalla nostra continua osserva-zione dei vari modi di comportamentodi questi esseri viventi.

Coscienza, corpo e mente

Lo stato attuale dello sviluppo di un es-sere vivente differisce da quello di unaltro; gli esseri viventi sono dettagliata-mente classificati secondo diverse mo-dalità nella filosofia jainisti. La piùsemplice e comune classificazione èquella basata sul numero di organi disenso che i singoli esseri viventi hannosviluppato.Noi dividiamo gli esseri viventi in cin-

que classi: a un senso, a due, a tre, aquattro e a cinque sensi. Ogni essere vi-vente, dai più minuscoli a quelli più svi-luppati, è il centro d’innumerevoliattività. In ogni particolare essere, que-ste attività determinano lo stato dellasua evoluzione. Ciascuno possiede pro-prie attività biologiche vitali: attività diestrazione degli elementi nutritivi ne-cessari alla vita, assimilazione, crescita,morte, e la percezione delle influenzedelle forze della natura. Sotto determi-nate circostanze e relazioni, alcune in-fluenze agiscono sugli esseri viventi inmaniera non congeniale, per cui gli es-seri sviluppano, nel corso tempo, unameravigliosa adattabilità alle caratteri-stiche particolari dell’ambiente esternoche li ospita.La coscienza si trova in tutti. La più ele-mentare è quella che si trova negli es-seri che hanno solo un senso, l’organo

del tatto. Un’anima in un corpo dipianta, in un corpo di animale o in uncorpo umano potrebbe essere la stessaanima. Metti un dollaro nella tasca diun uomo ricco o di un uomo povero. Èsempre lo stesso dollaro, anche se in re-altà può essere speso per scopi comple-tamente differenti.Noi dobbiamo agire, in questa vita, alfine di progredire. Quando compio unatto o formulo un pensiero, io creo de-biti o crediti karmici con cui dovròugualmente fare i conti. Quando voicreate debiti sul piano fisico, li paghe-rete sul piano fisico, ma la vita del-l’anima è sul piano morale.La vita può essere divisa in piani fisici,intellettuali, morali e spirituali. Quandouna persona è nel piano più basso, i suoiatti e i suoi pensieri dipendono dallamateria grossolana. Se essa vuole pro-gredire deve seguire le regole che si ri-feriscono a quello stadio della vita. Noinon disprezziamo la vita fisica: il corponon è il tempio dell’anima, ma un aiu-tante dello sviluppo dell’anima.Il punto chiave della nostra filosofia èche il corpo deve essere curato finchéaiuta lo spirito. La mente è quel che agi-sce come relazione tra l’anima e ilcorpo; il corpo è l’azione dell’anima du-rante un limitato periodo.Malgrado questa dottrina venga re-spinta in Europa e in America dai cri-stiani, è attualmente accettata dallamaggioranza dell’umanità. È stata con-siderata come valida dalle nazioniorientali, luminose per spiritualità. L’antica civiltà dell’Egitto venne co-struita su questa dottrina, che vennetrasmessa a Pitagora, Empedocle, Pla-tone, Virgilio, Ovidio, che la diffuseroin Grecia e in Italia.Essa è il punto chiave della filosofia pla-tonica quando sostiene che tutta la co-noscenza sia in realtà reminiscenza.Venne adottata pienamente dai neopla-tonici come Plotino. Le centinaia di mi-gliaia d’induisti, buddhisti e jainistihanno fatto di questa dottrina il fonda-mento stesso delle loro religioni e filo-sofie, governi e istituzioni sociali. Era ilpunto centrale nell’antica religione delpersiano Unagi. K

Tratto da: V. Gandhi, L’essenza del jaini-smo, Editori Riuniti, Roma, 2003.

Statua del dio Hanuman, Haladiagada Kendrapada, Orissa, India, cortesia www.wikipedia.org.

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DIOGENE 81N. 18 Marzo 2010

La nonviolenza radicale

uello radicale è un partitoitaliano, ma anche transna-zionale, che ha significativa-mente scelto come propriosimbolo il volto di Gandhi(con la scritta Partito radicale

in ventuno lingue) e nella propria de-nominazione l’aggettivo non violento.“La nostra azione è diretta e nonvio-lenta, di dialogo”, leggiamo nella Pesteitaliana, documento che vuole essere

una ricostruzione storica degli ultimisessant’anni di politica italiana, una let-tura di “fatti ed eventi certi, documen-tabili e documentati, ma sconosciuti eignorati”. Questo testo si pone l’obiet-tivo della ricerca e della ricostruzionedella verità, un satyagraha, quindi, nelsuo significato gandhiano: un’azione di-retta non violenta per la verità storica,che si coniuga con il diritto alla cono-scenza e il diritto all’informazione. Le

QK Maddalena Crudeli

Redattrice di Diogenee attivista radicale.

Le lotte del Partitoradicale transnazionaletraggono ispirazionedalla figura delMahatma, il cui volto è stato sceltocome simbolo.

Krishna ruba le vesti delle gopi intente al bagno, immagine religiosa indiana, cortesia www.flickr.com.

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DIOGENE82N. 18 Marzo 2010

lotte per i diritti umani e civili, per lalegalità in uno stato di diritto, per la tra-sparenza dell’operare degli eletti, perl’abolizione della pena di morte, per lalibertà di ricerca scientifica, per l’usodella rete come spazio di confronto, in-formazione e verità (anche per la dissi-denza nei regimi autoritari): tuttequeste iniziative, nelle quali i radicali,“inermi ma non inerti”, scelgono di “vi-vere la vita come politica”, rappresen-tano il tentativo di costruire finalmente“il nuovo possibile”.La nonviolenza, però, scrive GuidoRampoldi su “La Repubblica”, divieneefficace se ricorrono alcune condizioni,fra le quali un contendente che ricono-sca determinati valori e un limite “etico”ai propri metodi di lotta. Essa risulte-rebbe pertanto inefficace in una realtàdittatoriale e totalitaria: Gandhi stessoprevalse sulla patria della MagnaCharta. È inoltre auspicabile che in unarealtà globalizzata come la nostra, dovele iniziative di dissidenza non violentariescono ad arrivare ai media e alla rete,la necessità di legittimazione interna-zionale possa portare i regimi totalitari oautocratici a un atteggiamento diverso,si pensi al caso di Aung San Suu Kyi.

L’amorevolezza verso l’altro

Ma come arriva a noi europei la no-zione di nonviolenza gandhiana comevalore positivo e strumento di politica edi costruzione di una storia diversa,come strumento capace di esprimere“una coerenza tra la nobiltà dei fini e lapurezza dei mezzi”? In Italia è statoAldo Capitini a proporre di scrivere laparola “nonviolenza” unita e senza iltrattino separatore, per sottolinearecome essa non sia semplice negazionedella violenza, bensì un valore auto-nomo e positivo. Capitini si pone un interrogativo peda-gogico importante: nello studio dellastoria, si potrebbe incontrare la smen-tita del progetto di un’educazione allanon violenza proprio per il fatto che lastoria è piena di abusi. Però, una realtànella quale prevalgano la forza, la po-tenza, la prepotenza, “non merita di du-rare”, e allora chi crede nella nonviolenza deve prendere iniziative disperanza, di avvicinamento, di concor-dia, con la persuasione che se anche, nel

momento attuale, non tutti sono consa-pevoli dell’orizzonte verso cui possonoandare, prima o poi lo saranno. Scriveva ancora Capitini: “la nonvio-lenza nella sua essenza si riporta pro-prio al principio di una libera decisionepersonale di amorevolezza verso l’altro

essere, quale che sia la sua condotta: è laproposta pratica di un modo nuovo, alposto dell’indifferenza o dell’odio; l’of-ferta di un tu che può diventare sem-pre più profondo”.

La disobbedienza come dovere

La nonviolenza come strumento delfare politico è una risposta possibile aquel senso d’inquietudine, ansia, incer-tezza che proviamo se pensiamo ap-punto alla storia, ma anche serivolgiamo il pensiero a quelle che sonole tragedie di oggi: le guerre, il terrori-smo, lo sterminio per fame, la rivoltapreannunciata e inevitabile del Terzomondo contro un’ingiusta distribu-zione delle risorse umane. Il sensod’impotenza ci porta a tornare alle no-stre vite “normali”, agli obiettivi dellavita di tutti i giorni, ma in realtà nonpossiamo non sentire che è necessariomisurarsi con i problemi veri, assu-mersi le proprie responsabilità cultu-rali, politiche, morali. Questa tensione, questa polarità fra l’il-lusione del quotidiano, del “realistico”,e l’urgere di quel che davvero conta,può trovare uno sbocco in una politicadi più ampio respiro. Nello statuto delPartito radicale trans-nazionale, leg-

giamo fra i principi “il dovere alla di-sobbedienza, alla non collaborazione,all’obiezione di coscienza, alle supremeforme di lotta nonviolenta per la difesa,con la vita, della vita, del diritto, dellalegge”. Proclamando nel rispetto del di-ritto e della legge la fonte di legittimitàdelle istituzioni, i radicali costituisconoil partito della legalità. Ma come chie-dere il rispetto della legge nel momentoin cui la si viola? Se la disobbedienza ci-vile si fonda sul principio del rispettodella legge, allora si basa anche suquello di autodenuncia e di assunzionedi tutte le conseguenze legali.Il filosofo Thoreau scriveva che l’uomo“deve mantenersi in qualsiasi posizionesi trovi nell’obbedire alle leggi del suoessere; questo non sarà mai in opposi-zione a un giusto governo, ammesso chegli succeda di trovarne”. Così alla legge positiva dello Stato, ilPartito radicale arriva a contrapporreuna “legge storicamente assoluta”: l’im-perativo umanistico del “non uccidere”,senza eccezioni, nemmeno quella dellalegittima difesa. Il valore supremo è lapersona umana in sé, la sua vita, non loStato e il potere. Ne discende la sceltadella nonviolenza assoluta, forse l’unicaadeguata a contrastare la violenza. Ealla politica estera degli interessi, deicompromessi, delle complicità, delleaggressioni e delle annessioni, il Partitoradicale contrappone una politica in-ternazionale basata sui principi, co-struita con riferimento a valori che sonoquelli della persona umana.“Non vi sarà mai uno Stato realmentelibero e illuminato finché lo Stato nongiunga a riconoscere l’individuo comeun potere più elevato e indipendente,dal quale derivino tutto il suo potere ela sua autorità, e finché esso non lotratti di conseguenza”, scriveva Thoreauin Disobbedienza civile. K

A P P R O F O N D I R E

K A. Capitini, Aspetti dell’educazionealla nonviolenza, Pacini Mariotti,Pisa,1959.

K G. Rampoldi, I modi del gandhismodi dire no alla guerra, in “La Repub-blica”, 29 gennaio 2008.

Se la disobbedienzacivile si basa sulprincipio fondante delrispetto della legge,allora si basa anche su quello diautodenuncia e diassunzione di tutte leconseguenze legali.