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ANNO VIII SETTEMBRE 2008 Numero 3 Euro 8,00 “Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - CNS/AC ROMA - ISSN 1593-5760 Giulio Albanese Pina De Simone Oliviero Forti Antonio Golini Antonio Massarutto Franco Monaco Francesca Pasquali Mario Picozzi D ialoghi D ialoghi D Un mondo da condividere

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ANNO VIIISETTEMBRE 2008Numero 3Euro 8,00

“Dialoghi”–Rivistatrimestrale–PosteItaliane

S.p.A.-

SpedizioneinabbonamentopostaleD.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004

n.46)art.1,com

ma2-CNS/ACROMA-ISSN1593-5760

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per un progetto culturale cristianamente ispirato

DialoghiAnno VIII, n. 3

Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italianain collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”

DirettoreLuciano CAIMI

Direttore responsabilePaola BIGNARDI

Comitato di direzioneLuigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN,Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO, Marco OLIVETTI, mons.Domenico SIGALINI, Matteo TRUFFELLI.

RedazioneGiovanni GRANDI (coordinatore), Antonio MARTINO.

PromozioneRosella GRANDE

Comitato scientificoPasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI,Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA,Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI,Claudio GIULIODORI, mons. Francesco LAMBIASI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI,Orazio Francesco PIAZZA, Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA,Ignazio SANNA, Pierangelo SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, StefanoZAMAGNI, Sergio ZANINELLI.

EditriceFondazione Apostolicam ActuositatemSede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 RomaUffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 RomaTel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207E-mail: [email protected]

[email protected]

Progetto grafico e impaginazioneGiuliano D’Orsi

In copertinaCamille Pissarro, Boulevard Mont Martre a Parigi, 1897

Illustrazioni interneTratte dal volume C. Ripa Baroque and Rococo. Pictorial imagery.Dover publications, Inc., 1971

StampaSo.gra.ro. – Roma

Reg. Trib. di Roma iscr n. 133/2001 del 3/4/2001

Tiratura: 3.700 copie – Finito di stampare nel mese di ottobre 2008

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1dialoghi n. 3 settembre 2008

SOMMARIO

EditorialeSe bastesse la nazionale di calcio... 2Luciano Caimi

Primo PianoBioetica. Il “diritto di morire” e i doveri della politica 6Mario Picozzi

Dossier: Un mondo da condividerePopoli in cammino. La sfida e le opportunità 20Antonio Golini

Afriche. Un passato diverso e un futuro comune 30Giulio Albanese

Acqua. Un dono e il suo prezzo 38Antonio Massarutto

Informazione. Perché l’accesso non basta 46Francesca Pasquali

Migranti. L’Europa e la sua (in)coscienza 52Oliviero Forti

Governare il mondo: si può e si deve! 60Franco Monaco

Riconoscere per condividere. La via del bene 64Pina De Simone

Eventi e IdeeScienza e fede, binomio possibile 70Giovanni Bachelet

Myanmar, mondo perduto 76Feliciano Monti

Serie Tv. Il fascino ambiguo della fiction Usa 81Piermarco Aroldi

Il Libro e i LibriBibbia. Nella lingua degli uomini 86Flavio Dalla Vecchia

Spunti per una cittadinanza senza confini 90Irene Di Dedda

Quando i numeri si fanno lettere 95Katia Paoletti

ProfiliCarlo Carretto. Povertà è libertà 102Gian Carlo Sibilia

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Questa volta lo “stellone” portafortuna non è stato dalla nostra. Lanazionale di calcio se ne è tornata mesta dagli europei austro-elvetici.Diversamente da altre esperienze, l’euforia dei tifosi non ha potuto esplo-dere. Sono lontane le scene di esaltazione collettiva dei mondiali di Spagna1982, le “notti magiche” di Italia ’90 e il travolgente entusiasmo diGermania 2006, con il capitano Cannavaro che alzava al cielo, nello stadiodi Berlino, la coppa di un trionfo tanto straordinario quanto inatteso.

Certo, i campionati del mondo sono altra cosa rispetto a quelli euro-pei, però anche questi contano. Soprattutto in una società come la nostra,dove l’impresa sportiva, ingigantita dai media, funge da prestigiosa vetrinadi un Paese. I politici lo sanno bene, tant’è che si mostrano solleciti nelcavalcare gioie e passioni popolari legate agli eventi dello sport, sperando,con ciò, anche in un ritorno d’immagine e di credito per se stessi e per laparte rappresentata.

Non sono fra coloro che guardano con sussiego i successi sportivi.Vincere nelle competizioni internazionali è molto difficile e, proprio perquesto, assai prestigioso. Chi ci riesce (in maniera pulita) dimostra di averedalla sua qualità importanti: coraggio, preparazione, tenacia, organizzazio-ne, tecnica, fantasia. Un risultato di spicco in uno sport praticato a livelloplanetario come il calcio ben venga. Concorre a dare lustro al Paese; confe-risce una buona dose di entusiasmo e fiducia collettivi, che, di sicuro, nonguastano. Naturalmente, non si può chiedere ai pur importanti trionfisportivi più di quanto siano in grado di offrire. L’immagine e la realtà effet-tiva di una nazione dipendono da fattori (istituzioni, politica, economia,lavoro, cultura, istruzione...) di ben altra consistenza rispetto allo sport.

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la nazionale di calcio...Se bastasse

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Ed è proprio dalla considerazione di questi fattori che, come mostranodel resto parecchie indagini, emerge il profilo complessivo di un sistema-Italia in difficoltà. Arrancano economia, produzione, consumi; il potered’acquisto delle famiglie si è considerevolmente ridotto; cresce il numerodi coloro che si trovano sotto la soglia di povertà; la disoccupazione nelSud resta grave e numerose persone (anche giovani) si arrendono dinanzialla difficoltà di trovare un lavoro decente. Insomma, il Paese dà persi-stenti segni di fatica e mostra scarsa fiducia nel futuro (sintomatico, fral’altro, il debole tasso di natalità). Vittima di paure, motivate in parte dafatti reali (rapine, stupri, estorsioni…) in parte da rappresentazioni predi-sposte ad arte, una larga quota di connazionali sembrano ripiegati su di sé.Si sentono sotto assedio, insidiati da nemici di diverso tenore e consisten-za, ma tutti di difficile controllo: immigrazione, globalizzazione economi-ca e industriale, speculazione finanziaria. Nascono così reazioni e inter-venti di varia fattura per proteggere beni e interessi concreti, diritti acqui-siti, identità socio-culturali (vere o presunte). Del resto, buona parte dellapiù recente legislazione italiana va in tale direzione.

Vi è un altro fenomeno che concorre ad accentuare le difficoltà delPaese: sono i corporativismi d’ogni specie. Da essi viene una fiera resisten-za a progetti seri di rinnovamento. Si teme, con ciò, di perdere rendite diposizione acquisite nel tempo. Ma, in un mondo di vertiginosi mutamen-ti non è pensabile di reggere le sfide sul tappeto restando fermi, per amoredi conservazione e/o paura del rischio. Certo, c’è cambiamento e cambia-mento. Non ogni proposta innovativa, specialmente in settori nevralgicidella vita del Paese (istituzioni, lavoro, Welfare, sanità, giustizia, immigra-zione, istruzione...), è di per sé sinonimo di reale progresso. Occorre, alriguardo, esaminare e valutare attentamente. Con tutta onestà, possiamodire che l’attivismo legislativo dell’ultimo periodo, specialmente in temadi giustizia e sicurezza, non ci lascia tranquilli.

Se al corporativismo sommiamo il trionfante localismo di questi anni,i motivi di preoccupazione crescono. Non è in discussione il processo, datempo avviato, di un progressivo decentramento di funzioni e responsa-bilità agli enti locali, nel segno di uno sviluppo delle autonomie.Piuttosto, desta motivo di allerta la cultura, imperante al Nord, delle“piccole patrie” in polemica con lo Stato nazionale. Sul fenomeno e sullesue cause si è scritto in abbondanza. Rimangono, in ogni caso, fortitimori dinanzi a ipotesi di riforme istituzionali che prefigurerebbero unPaese, nei fatti, diviso, con doppie e triple velocità, refrattario al princi-pio di solidarietà nazionale.

In questa situazione di staticità economica, di corporativismi dilagan-ti, di localismi grintosi, cui vanno annessi conflitti d’interesse macroscopi-ci (che riguardano non solo l’attuale presidente del Consiglio, ma nume-

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rosi altri esponenti della classe politica), diventa problematico ipotizzareun futuro di crescita unitaria e solidale dell’intero Paese. V’è chi ha fattonotare che manca una mission capace di convogliare energie, impegnicomuni, magari anche qualche entusiasmo non effimero come quellodelle citate “notti magiche” calcistiche. Si osserva da varie parti chel’ultima impresa nella quale gli Italiani sono stati chiamati a misurarsi conuna sfida di grandi proporzioni fu l’ingresso nell’euro. È vero. Però queltraguardo venne raggiunto per la tenacia di alcuni uomini al vertice delleistituzioni nazionali (Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi su tutti), piùche per un movimento dal basso. Del resto, i sostenitori della difficileimpresa dovettero faticare non poco per imporsi ai molti euroscettici del-l’epoca.

Oggi non s’intravede una mission significativa, capace di suscitare ade-sioni e impegni diffusi su larga scala nel Paese. Non mi sembrano attrarrereali interessi il processo di consolidamento dell’Unione Europea (anzi...),né (purtroppo) i problemi connessi alle riforme costituzionali. La maggiorparte degli italiani, verrebbe da dire, ha altro a cui pensare…

Orbene, la ri-animazione di un Paese stanco e frammentato come ilnostro, tesa a favorire senso di appartenenza collettiva e convergenze soli-dali fra i cittadini dall’uno all’altro capo della Penisola, è impresa ardua,ancorché doverosa e quanto mai urgente. Scontiamo una perdurantesituazione d’incompiutezza nazionale. Ci fa difetto il senso dello Stato,delle istituzioni, della cosa pubblica, della legalità. È carente, in definitiva,nelle classi dirigenti e a livello popolare, un ethos condiviso, inteso comesentire diffuso di valori civili e civici, ancorati nella Costituzione.

Ovviamente, non basta denunciare una carenza, occorre indicarneanche le linee di possibile soluzione. Il compito è complesso. Bisogna,intanto, guardarsi dal credere che si tratti d’impresa di breve durata e dele-gabile a qualche “soggetto” specifico. Nulla di più sbagliato. Siamo dinan-zi a una sfida impegnativa e lunga, che richiede il concorso, auspicabil-mente coordinato, di più enti e realtà. “L’esempio viene dall’alto”, si usadire. È un pensiero corretto, che, nel caso nostro, sta a significare la neces-sità di potere finalmente contare su una classe politica e su ceti dirigenticonsapevoli di dovere testimoniare per primi, nel quotidiano eserciziodelle loro alte funzioni, coscienza etico-civica, rigore professionale e sensodel “bene comune”. Purtroppo, lo spettacolo cui assistiamo quasi ognigiorno da parte di molti esponenti di quelle categorie non è dei più inco-raggianti. Anzi, induce di frequente a considerazioni amare.

Naturalmente, non tutto si decide ai livelli “alti” del sistema socio-isti-tuzionale. Per promuovere coscienza civica e senso di appartenenza nazio-nale sono chiamate in causa le molteplici articolazioni intermedie e “dibase” che compongono l’articolata trama della convivenza civile. Mi rife-

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risco a famiglia, scuola, comunità di fede, università, associazionismo,organismi culturali, volontariato, mass-media. Ciascuno di questi “sog-getti”, all’interno delle proprie competenze e funzioni, deve concorrereall’opera ricostruttivo-formativa indicata, la quale, per nutrire possibilitàdi successo, dovrà essere il più largamente condivisa.

«Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani», ammoniva Massimo d’Azeglioal culmine dell’epopea risorgimentale. Sono parole di circa un secolo emezzo fa, che non hanno perso nulla del loro intrinseco valore.

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Dialoghi porge un caloroso e fraterno saluto al professor FrancoMiano, nuovo Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana,augurandogli un fecondo servizio all’Associazione, per il bene dellaChiesa e dell’intera comunità nazionale.

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La prima definizione sistemica di bioetica ha ormai compiuto30 anni. Wilhelm Reich così la definì nel 1978, quando vennepubblicata la prima Enciclopedia di Bioetica: «Lo studio sistema-tico della condotta umana nell’area delle scienze della vita edella cura della salute, in quanto tale condotta viene esaminataalla luce di principi e valori morali»1. Oggi la disciplina haacquisito un suo spazio riconosciuto sia a livello accademico, indiverse facoltà, sia in ambito istituzionale (si pensi al ruolo deiComitati di Etica nella sperimentazione clinica). Allo stessotempo i dibattiti bioetici hanno avuto grande rilevanza anchenella discussione pubblica, comportando talvolta fratture nellasocietà civile, soprattutto rispetto alla non procrastinabilenecessità di tradurre in legge questioni riguardanti temi di ini-zio e fine vita.

Il presente contributo non si propone di fare un bilancio diquesti primi 30 anni, né di ripercorrere le tappe più significa-tive che hanno segnato la storia, ancorché breve, di questadisciplina.

Ci limiteremo a indicare quali sono, a nostro parere, i temiche, emersi nella riflessione di questi decenni, costituisconoaspetti cruciali su cui la bioetica sarà chiamata a interrogarsi nelprossimo futuro. Più precisamente riteniamo vi sia una questio-ne centrale, che in modo più o meno esplicito è presente in tuttii dibattiti, e che determina le differenti posizioni e le conse-guenti risposte date ai quesiti bioetici. Un’impostazione non

Mario Picozziè docente di Medicina

Legale presso

l’Università degli Studi

dell’Insubria. Tra i sui

scritti, ricordiamo:

Manuale di deontologia

medica (con M. Tavani e

G. Salvati), Giuffrè,

Milano 2007.

Bioetica. Il “diritto di morire”e i doveri della politica

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La bioetica come spazio per il dono, contro la logicaspersonalizzante del mercato: la gratitudine invece delprincipio d’equivalenza. Anche le situazioni tragiche, in cui lavita viene posta in discussione fino al punto d’essere negata,possono indurci a ragionare sulla ricchezza delle relazionitra le persone. Su questo fronte è cruciale il ruolo dellapolitica, chiamata a gestire l’incertezza e la pluralità di dirittitra loro in contrasto.

Mario Picozzi

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PRIMO PIANO

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pertinente di tale questione rischia di pregiudicare le successive riflessioni.Pur volendo mantenere uno sguardo ampio, che tenga conto della

riflessione condotta a livello internazionale, inevitabilmente avremo comesfondo di riferimento la situazione italiana, che indubbiamente ha suespecifiche peculiarità.

Il punto centrale: la questione dell’autonomia del soggettoLa riflessione bioetica, pur con accentuazioni diverse, è attraversata

dalla questione dell’autonomia del soggetto: quale il peso da attribuire allalibera scelta degli individui? A quali condizioni il soggetto può dirsi real-mente autonomo?

Basti per esemplificare riferirsi ai temi di fine vita: chi può decidere sela propria vita sia degna di essere vissuta se non il soggetto stesso? È lecitosottrargli tale possibilità? Ma un soggetto affetto da una malattia grave èin grado di decidere? Quali i possibili condizionamenti, anche di ordineeconomico, che possono spingerlo a richiedere di porre fine alla sua vita,passando dal diritto a morire al dovere di morire?

Detto in altri termini, è la diatriba, sorta inizialmente sul tema dell’in-terruzione della gravidanza e riproposta sulla questione della fecondazionemedicalmente assistita, tra i “fautori della scelta” e i “sostenitori della vita”.

Siamo continuamente, soprattutto in Italia ma non solo, rinviati a dueposizioni, al tempo stesso nette e inconciliabili, tra i difensori della qualitàdella vita da una parte e i protettori della sacralità della vita dall’altra.Inevitabilmente ciò si traduce anche nei dibattiti politici e nella conse-guente difficile se non impossibile impresa di giungere a soluzioni condi-vise su questioni, quali il nascere e il morire, che riguardano la possibilitàstessa di sussistenza del vivere insieme.

Ma realmente le due posizioni sono alternative?«La vita apprezzata come istanza sacra e sottratta ad ogni disponibilità

ad opera dei soggetti implicati, diventa criterio materiale; la qualità dellavita, d’altra parte, quando sia apprezzata rimovendo l’originario suo riferi-mento ad un’istanza che supera la vita stessa e che è norma per la libertàdel soggetto, diventa criterio solo psicologico, assegnato all’insindacabilemodo di sentire del singolo. La vita sacra, nel suo profilo dunque di istan-za morale, non può essere definita ignorando la coscienza chel’accompagna; e d’altra parte la qualità della vita non può essere valutatasenza far riferimento ai criteri oggettivamente iscritti nelle forme dell’al-leanza umana in genere, e rispettivamente nelle forme di quella che è statachiamata alleanza terapeutica»2.

Come dire che «il giudizio su un’azione sarebbe meno oggettivo se nonconsiderasse il soggetto che pone o subisce tale azione; una norma moraleintesa e applicata a prescindere dall’intenzione degli agenti dal contesto

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storico condurrebbe ad esiti materialistici e violentemente astratti. Ciòsignifica che la soggettività valutativa non può essere espunta, ma vaistruita e preparata attraverso una metodologia decisionale prudente»3. Inogni storia un soggetto è sempre oggettivamente coinvolto.

La decisione, per esser la propria decisione, esige una scelta, dovel’identità stessa del soggetto è chiamata in causa; questa scelta non è nota alsoggetto a monte di ogni relazione, ma esattamente grazie alla relazione,dentro cui emergono le buone ragioni a favore di una determinata opzione.

Il contrario di autonomia è eteronomia: ossia abdicare alla propriaresponsabilità. Mentre invece non vi è contrasto tra autonomia e dipen-denza: anzi è solo consentendo al riconoscimento del mio debito versol’altro e conseguentemente verso il mondo intero (la cultura, le tradizioni)che il soggetto può decidere di sé. L’autonomia non può essere punto dipartenza: è approdo finale reso possibile dalla presenza dell’altro. Non sitratta quindi di rinnegare l’autonomia, ma di ripensarla a partire dalla sto-ria e dal vissuto delle persone.

Questo percorso relazionale per un discernimento rifugge da formulepredeterminate e allo stesso tempo ammette soluzioni diverse, pur parten-do da condizioni e contesti simili. Analogamente non si accontenta diprendere atto della decisione altrui; nessuna decisione è buona per il sem-plice fatto di essere presa in autonomia: quante decisioni sono esattamen-te frutto di atteggiamenti di omologazione, in cui il soggetto non sceglie,ma è eterodiretto.

L’odierna riflessione bioetica, soprattutto quella che trova spazio neimass media, tende a semplificare e banalizzare, a volere il giudizio imme-diato e gridato, a costruire fazioni e cercare supporter dell’una o dell’altratesi. È una trappola da cui rifuggire.

Ma il non poter fare a meno del soggetto, che per decidere non puòfare a meno dei soggetti che lo circondano, cosa comporta per le questio-ni bioetiche?

Con alcune esemplificazioni cerchiamo di rendere conto delle conse-guenze della nostra impostazione.

Il biodirittoo la biopoliticaOggi si tende sempre più a parlare di biodiritto, inteso come l’esigenza

di tradurre le problematiche bioetiche in norme che disciplinino i com-portamenti collettivi all’interno della società4. Ma forse sarebbe più preci-so parlare di biopolitica: «Oggi vita e morte non sono più propriamenteconcetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano unsignificato preciso solo attraverso una decisione»5.

Per legge, almeno in Italia, viene definito quando un soggetto è morto;sempre più norme di legge vengono invocate per dirimere questioni bioe-

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tiche. Il potere che la tecnologia ha obiettivamente sulla nuda vita (sipensi all’ingegneria genetica) si trasferisce nelle mani della politica.

L’esercizio del potere passa attraverso il controllo dei fenomeni biolo-gici, in primo luogo quelli riguardanti la vita umana. Stiamo riferendocialla nuda vita, non alla vita biografica e quindi sociale che, se può esserecontrollata, al tempo stesso ha sempre risorse per sfuggire a tale controllo.

E questo fenomeno appare pacificamente accolto; la cosa invece avreb-be di che preoccuparci.

Se da un lato occorre governare determinati ambiti, poiché il rischio èquello dell’arbitrio e dell’anarchia, dall’altro occorre essere avvertiti delleconseguenze in cui si può incorrere assegnando ad uno strumento, lanorma di legge, l’ultima parola, definitoria, su un bene fondamentale,quale la vita umana. Né si può misconoscere il ruolo che la legge ha sullaformazione delle coscienze, comunitaria e singola.

Ma l’enfasi con cui da più parti si invocano leggi sui temi di inizio vitae fine vita appare sospetta sotto un altro versante. La norma di legge vienepercepita quale strumento per definire ogni specifico caso, esautorando isoggetti dalle proprie responsabilità. Si pensi ai medici: essi diventanofedeli esecutori, meri tecnici, professionalmente preparati, ma esenti dalchiedersi il significato di quanto da loro eseguito.

Può realmente la legge dirimere senza il cimento della libertà dei sog-getti, le diverse questioni bioetiche? Le infinite variabili soggettive eoggettive che di fatto intervengono nelle azioni umane comportanonecessariamente l’impossibilità del diritto di contemplare tutti i singolicasi. Per cui «la singolare contingenza di taluni casi, eccedendo la possi-bilità della legge civile di regolarli, limita quest’ultima a valere ut in plu-ribus, cioè nella maggior parte dei casi»6. Certo «il riconoscimento dellacompetenza della coscienza nei singoli casi non esclude, ma anzi riman-da alla generale validità della legge. Singola eccezione e regola generalesono, infatti, reciproche: «Non c’è eccezione senza regola per l’eccezionealla regola»7.

Quindi «la considerazione dei limiti strutturali di ogni legge civileinvita a riconoscere la competenza della coscienza personale nelle decisio-ni relative ai casi-limite. Il rinvio alla coscienza non è la delega in biancoconcessa all’arbitrio soggettivo perché faccia ciò che vuole, ma il ricono-scimento che, nei singoli casi, la percezione sintetica delle variabili ingioco da parte della coscienza vede meglio della previsione legislativa»8.

Riferiamoci esemplificativamente alla distinzione tra accanimento edeutanasia: «L’inevitabile approssimazione con cui la legge generale può defi-nire i casi di eutanasia e di accanimento terapeutico lascia sussistere tra i duedivieti uno spazio intermedio in cui solo il miglior giudizio della coscienzapersonale può dirimere la fattispecie»9. Uno spazio cioè dove la legge non

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entra (fatta salva la possibilità di verificare la sussistenza dei criteri stabiliti)in cui la relazione medico-paziente diventa il “luogo decisionale”.

Ciò comporta l’ammettere giustamente che si possano dare sceltediverse a partire dalla medesima situazione clinica; ciò disegna un legitti-mo pluralismo delle scelte, senza che si cada nel relativismo etico. «Un sif-fatto pluralismo non deroga al duplice divieto di eutanasia e di accani-mento terapeutico; esso, piuttosto, attesta che, in talune circostanze, larinuncia alle cure non necessariamente coincide con l’eutanasia, e nem-meno il loro mantenimento necessariamente coincide con l’accanimentoterapeutico»10. È vero che il pluralismo delle scelte «non assicura certo chela vita umana sia sempre adeguatamente difesa. Non è però questo il solopericolo. Lo è altrettanto quello di pensare che la vita umana sia sempreadeguatamente difesa anche a prescindere dal giudizio di chi, in primapersona, si trova in situazione di grave sofferenza»11.

Lo spazio da lasciare alla competenza relazionale, dove non apparesubito chiaro cosa occorra fare, traduce la prospettiva da noi enunciata incui l’autonomia è punto di arrivo di un rapporto fiduciale.

Il tema del donoIl dono è argomento molto presente nel dibattito bioetico. L’appello al

dono viene invocato su più temi: dall’atto generativo alla disponibilità adoffrire i propri organi. Ma talvolta si rischia di farne una caricatura, o ditrasformarlo in atto eroico, oltre le stesse possibilità umane o di mostrarlocome unico e ultimo antidoto all’imperialismo del mercato. Diventaquindi indispensabile una più accurata analisi.

Dal punto di vista del mercato, il legame sociale ha un senso se e nellamisura in cui è funzionale rispetto a ciò che circola. «Il mercato è il com-plesso delle regole che permettono a degli estranei di fare transazioni purrestando il più possibile degli estranei. È un modo di comunicare conl’estraneo quando si vuole che resti un estraneo dopo lo scambio; quandonon ci si interessa a lui ma ai suoi beni, e lui ai nostri»12. Tra compratore eacquirente non si mette in gioco la propria identità: in quella comunica-zione ciascuno rimane se stesso, senza contaminazione. Addirittura«l’archetipo del mercato è l’assenza completa di legame. Il mercato per-mette a due estranei di comunicare a proposito delle cose senza rivolgersila parola»13. Il prezzo è l’esempio eclatante di questa modalità: viene fissa-to in anticipo, al di fuori delle considerazioni personali, al di fuori anchedei soggetti, tra due estranei che non si seducono. Il mercato è regolatodal principio «dell’equivalenza tra le cose, indipendentemente dal legametra le persone»14. Nel dono invece «ciò che circola è al servizio del legamesociale, o almeno è condizionato dal legame sociale. Il legame e il benesono spesso indissociabili»15.

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Vediamo alcuni esempi. Vi sono dei doni in cui ciò che si dona haun’utilità relativa o nulla: ad esempio un mazzo di fiori; la loro finalitàtende ad esprimere e nutrire il legame. Talvolta il valore di legame el’utilità sono strettamente legati, quasi condizionati l’uno all’altro. Sipensi al dono di un organo da parte della madre alla propria figlia.

Infine abbiamo il dono unilaterale fatto agli sconosciuti: la donazionedi sangue, il dono di un organo dopo la morte. In questi casi i legamisociali sembrerebbero completamenti assenti. Invece tali gesti acquistanosenso poiché fatti in nome della solidarietà, per cui «la loro ragion d’essereè quel legame simbolico che unisce il donatore e il donatario nell’ambitodi uno stesso insieme»16. Essi rappresentano l’espressione di una gratitudi-ne verso una comunità da cui si è stati accolti, condotti sulle strade dellavita, gratuitamente. «Si amano persone che in ogni caso fanno parte dellanostra stessa specie umana, perciò si ama l’umanità e, in essa, anche sestessi, ben ricordando che nessuno nasce da se stesso e che ognuno è quel-lo che è solo grazie alla civiltà dalla quale ha ricevuto le condizioni perpoter essere quello che è»17.

Da ciò ne consegue che «il circolo del dono non è solo dare e ricevere,ma è altresì ricambiare o restituire. Il rapporto di scambio è attivo-passivosui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ricambia»18.

Il dono ammette il debito, anzi la cifra del dono è il riconoscimentodel debito verso l’altro. Non vi è gratuità senza gratitudine. Non la resti-tuzione, ma le forme che essa assume differenziano il dono dal mercato.Nel dono la restituzione spesso è più grande del dono: non risponde alprincipio di equivalenza. Ammette che l’identità del donatore, insieme aquella del ricevente, possa modificarsi. Infine, ed è l’aspetto decisivo, larestituzione è fatta liberamente. Certo è desiderata, auspicata, non esigita,richiesta obbligatoriamente, come in un contratto o nella scambio mer-cantile. Dunque c’è sempre un rischio di non restituzione, accettato oassunto dal donatore. Di modo che «è l’assenza di garanzia di restituzione,piuttosto che l’assenza di restituzione che caratterizza il dono»19. La restitu-zione è sempre implicita nel dono.

Più sono convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più lo liberoda questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del nostrorapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione, sarà fatto per me. Ed èproprio su questo scambio libero che si fonda e costituisce la coesionesociale. Il paradosso è esattamente che una società vive e muore, si raffor-za o indebolisce grazie a questi milioni di gesti quotidiani, in funzione didar fiducia o no ad un altro membro della società, di correre il rischio cheil dono non sia ricambiato. Di conseguenza «lo Stato e il mercato devonofermarsi sulla soglia in cui quel che circola (beni ma soprattutto servizi) èil legame, in cui il servizio è il legame»20. Si pensi qui al tema della giusti-

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zia in sanità e del ruolo degli aspetti economici nelle scelte cliniche.Ma vogliamo esemplificare quanto da noi detto su un altro versante,

quello della donazione di organi.Purtroppo ancora oggi molte persone muoiono in attesa di ricevere un

organo. Per rispondere a questo dramma, almeno a livello di riflessioneteorica nel mondo anglosassone, si ipotizza l’utilizzo del mercato perincrementare la disponibilità di organi. Ma se il prezzo da pagare èl’esclusione di qualsiasi forma di legame, l’operazione appare rischiosa edestinata al fallimento. Al di là della difficoltà di stabilire l’equivalenza

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(quanto vale un organo?), si andrà sempre più verso un’escalation dellerichieste, in cui l’unico elemento di controllo sarà il rapporto tra doman-da e offerta. Ma tali fluttuazioni sono compatibili con la tutela della salu-te e della vita dei cittadini e con la sostenibilità anche economica di unasocietà? In più ciò concorrerà a quello sfaldamento sociale, che ha comeconseguenza la solitudine di ogni cittadino, sempre più senza legami vita-li, con conseguente ulteriore difficoltà a porre gesti solidali.

Poniamoci invece nella logica del dono da noi prospettata. Punto dipartenza - sia per la donazione da vivente che da cadavere - è il riconosci-mento della logica del dono definito nella sua circolarità di dare, ricevere,restituire. Quindi forme di restituzione sono eticamente ammissibili, sta-bilite alcune condizioni.

Sono accettabili quelle forme di restituzione – nel nostro caso al dona-tore di organi – che non si basino sul principio di equivalenza, ma in cuisia conservato il valore di legame, con il singolo e con la comunità, chemotiva la donazione. Si devono perciò escludere forme di automatismo,conservando anche simbolicamente il rischio di non restituzione, ammet-tendo al tempo stesso forme differenziate di restituzione.

La libertà del ricevente va custodita e tutelata, consentendo al tempostesso espressioni di gratitudine, in grado di rafforzare il legame sociale.

Nella determinazione del soggetto/dei soggetti in grado di governare egarantire l’intero processo, occorrerà prevedere la presenza – se non affi-dare l’intera gestione – dei rappresentati dei mondi vitali presenti in unasocietà, in forza di quel legame sociale che permea l’intera proposta.

Tutto ciò è possibile abbandonando un’impostazione culturale cherappresenta il dono quale scelta eroica, unidirezionale, chiusa in sé stessa:una sorta di altruismo esasperato, che rende appunto il dono impossi-bile21, irreale, e quindi non promettente, non fecondo. Gratuità e gratitu-dine sono invece iscritte nella relazione umana, dove l’autonomia del sog-getto riconosce il debito verso l’altro per potersi esprimere e realizzare.

Gestire l’incertezzaA fronte di quanto abbiamo fin qui sostenuto, appare chiaro che la

bioetica e i suoi quesiti si proporranno sempre più dentro una scala digrigi, difficilmente inquadrabili in formule predefinite. Questo certo nonrassicura, e chiama in causa la maturità e la responsabilità delle persone.

L’incertezza appare la nuova frontiera dell’agire in campo biomedico22.Ma davvero è una nuova questione?

Fino a qualche decennio fa un ethos condiviso, l’autorità del medico, lasudditanza del cittadino, la concentrazione del sapere scientifico, hannopermesso di controllare e gestire l’incertezza: essa era implicitamente pre-sente, accettata, mai tematizzata. L’accresciuta consapevolezza del cittadi-

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no dei suoi diritti, segnatamente nel campo medico, il vorticoso e oggetti-vamente poco controllabile sviluppo tecnico-scientifico, il pluralismomorale in una società multietnica, e la conseguente difficoltà a gestiresituazioni sempre nuove e sempre più complesse, hanno fatto emergerequell’indeterminatezza da sempre caratterizzante la pratica biomedica.

Accettare l’incertezza significa affrontarla, se non si vuole rimanerneschiacciati. Ma allora diventa spontaneo chiedersi quale sia il grado diincertezza che può essere tollerato. È evidente la già segnalata possibilederiva, che spazia dall’anarchia dei cittadini e dei pazienti all’arbitrio deimedici e dei ricercatori. Ma questo non è un destino segnato ed inevitabi-le, o almeno potrebbe non esserlo. La norma è una garanzia imprescindi-bile, anche se non sufficiente, perché si conservi e sviluppi il dialogo siatra coloro che esercitano la stessa professione, sia tra questi e l’intera citta-dinanza. Un dialogo che presuppone chiarezza reciproca, affermazione deidiversi punti di vista, ragioni che motivino le differenti posizioni.

Cosa dunque è necessario fare? Dipende. Il fatto che non si possa deci-dere una volta per tutte, sulla base di una norma generale, non significa chenon ci sia nulla che davvero convenga. Vuol dire che nella possibile diver-sità di scelte, va tutelato e garantito quel bene che da sempre è inscrittonella relazione umana e, nella fattispecie, nella relazione terapeutica, e chegrazie appunto a questa relazione può essere riconosciuto e scelto.

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Note1W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978,vol.1, XIX.2G. Angelini, “La questione radicale: quale idea di vita”, in Aa.Vv, La bioetica.Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa, Milano 1998, pp.185-186.3P. Cattorini, “La dimensione etica nelle terapie intensive”, in L. Chiandetti, P.Drago, G. Verlato, C. Viafora, Interventi al limite. Bioetica delle terapie intensive,Franco Angeli, Milano 2007, pp. 41-46.4L. Palazzani, “Personalismo e biodiritto”, inMedicina e Morale, 2005, LV (1), pp.131-163.5G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005,p. 183.6A. Fumagalli, “Legge civile e coscienza personale”, in C. Casalone, M. Chiodi, P.Fontana, A. Fumagalli, M. Picozzi, M. Reichlin, “Il caso Welby. Una rilettura apiù voci”, Aggiornamenti Sociali, 2007, 5, pp. 346-357.7Ibid.8Ibid.9Ibid.10Ibid., p. 355.11Ibid.12J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto eritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 27.13Ibid.14Ibid., p. 28.15Ibid.

16Ibid.17F. Buzzi, Sul significato del dono, lezione tenuta la Master Internazionale in

Medical Humanities, Varese, 5 luglio 2003 (copia dattiloscritta).18Ibid.19J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto eritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 34.20Ibid., p. 40.21Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996; Id., Donare la morte,Jaca Book, Milano 2002.22Cfr. M. Tavani, M. Picozzi, G. Salvati, Manuale di deontologia medica, Giuffrè,Milano 2007, pp. 555-559.

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Un mondoDOSSIER

da condividere

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Riflettere sul mondo come realtà da condividere è quanto il “Dossier”che segue intende proporre nel filo tematico che lega i diversi interventi. Ilconfronto sul bene comune avviato dalla rivista nell’annata in corso, con-duce di per sé a interrogarsi sul mondo come bene comune, un mondocondiviso nel dato innegabile di una crescente interdipendenza e semprepiù da condividere come risorsa, come bene di tutti, da custodire e da“usare” in vista del bene di tutti e di ciascuno, così che a ciascuno sia datodi trovare in esso le condizioni per lo sviluppo della propria umanità.

L’attenzione è volta pertanto, prima di tutto a rilevare i fili dell’interdi-pendenza, i percorsi e le situazioni di trasformazione in atto che più stret-tamente ci legano gli uni agli altri. Si tratta, in altri termini, di assumere ilfatto della globalizzazione esplorando i processi che ha innescato per cer-care di comprendere i rischi a cui ci espone, ma anche le potenzialità cuiapre. Che cosa implicano i grandi flussi migratori internazionali con laloro sempre più inevitabile e irrefrenabile pressione? Non ne deriva forsela necessità di riformulare l’idea stessa del mondo e di ripensare la gestio-ne degli spazi e delle opportunità? (Golini e Forti) Il rapporto tra il dirit-to nazionale e il diritto internazionale, il ruolo delle istituzioni sovrana-zionali, ma anche il nesso e insieme la necessaria distinzione tra i dirittidel cittadino e i diritti di ogni uomo, le coordinate che definiscono lo spa-zio e i confini della cittadinanza, sono tutte questioni che l’avvicinarsi e ilmescolarsi di popoli, di storie, di tradizioni culturali e religiose differentiinevitabilmente sollevano. Così come appare sempre più indispensabile,per un’adeguata comprensione del mondo in cui viviamo, superare ognipossibile assolutizzazione di un unico punto osservazione. Da che parteguardiamo il mondo? Come porsi dinanzi alla complessa realtà dei rap-porti tra il Nord e il Sud del mondo, tra Paesi ricchi e Paesi poveri? Nonsono forse gli stessi concetti di povertà e di ricchezza ad essere ribaltati,quasi capovolti, se proviamo, ad esempio, a guardare il mondo dal puntodi vista dell’Africa, e a guardare alla stessa Africa abbandonando gli stereo-tipi e lo schermo deformante di interessi coloniali? C’è un’enorme ric-chezza che viene dai Paesi “poveri” e che non è solo demografica o di risor-se ambientali, ma che è nella sete di democrazia, nella lotta per i dirittiumani, un movimento di libertà e di affermazione della dignità dell’uomo

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che chiede di incontrare la cultura occidentale, di trovare al suo internoaccoglienza, nella assunzione di consapevolezza della necessaria condivi-sione di un futuro comune (Albanese). Il rapporto tra luoghi del mondo,diventa poi un tema cruciale anche nella gestione di beni preziosi ed indi-spensabili come l’acqua; ma deve maturare la consapevolezza che l’uni-versalità dei beni non significa che la loro disponibilità non abbia costi(Massarutto).

La dialettica tra povertà e ricchezza nei rapporti Nord-Sud ripropone, intal modo e ad una molteplicità di livelli, il carattere inevitabilmente “aperto”dell’economia e la necessità di un suo “completamento” attraverso l’etica,ma anche l’estrema delicatezza e l’enorme potere dei sistemi di comunica-zione a cui è affidata oggi gran parte delle relazioni tra gli uomini e degliscambi tra i popoli. Nonostante la sperequazione che ancora esiste nell’ac-cesso e nell’uso dei media e delle tecnologie informatiche, i media possonoessere una grande e indispensabile risorsa nella costruzione del bene comu-ne in quanto “mobilitatori di coscienze”, “strumento per conoscere l’altroda sé e immaginare la possibilità di un noi”, “guardiani della democrazia”,“controllo del potere”. Ma questo a patto che i Paesi attuino politiche diresponsabilità e di cooperazione nella condivisione delle risorse comunicati-ve e nella vigilanza sulla libertà di espressione, così da evitare che la rete siauno spazio soggetto all’egemonia del capitale (Pasquali).

Governare il mondo così che sia il mondo di tutti, un mondo real-mente condiviso, esige che si valorizzino sempre di più i luoghi e gli orga-nismi del confronto e delle decisioni pattizie (Monaco). Un processo diintegrazione che senz’altro chiede che si investa sulle istituzioni sovrana-zionali e sullo sviluppo del diritto internazionale, ma che ha bisogno deitempi lunghi dell’incontro e della convergenza e che non può ignorare omettere tra parentesi la questione del bene e della vita buona, l’interroga-tivo su ciò che rende buona la vita degli uomini, sulla possibilità di uncomune orizzonte di senso e di valore che conferisca alle norme forza vin-colante e reale capacità di incidenza.

Riflettere su un mondo da condividere conduce così a riflettere suun’umanità da condividere, un’umanità che ha bisogno di trovare, in que-sto mondo, spazio per esprimersi e svilupparsi in pienezza (De Simone).

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Antonio Goliniè rappresentante ufficiale

dell’Italia nelMigration

Working Party dell’Ocse

e direttore diGenus,

rivista internazionale di

Demografia. È membro

di numerose

commissioni tecnico-

politiche, nazionali e

internazionali, in tema di

famiglia, migrazioni

interne e internazionali,

tendenze di popolazione.

Popoli in cammino.La sfida e le opportunità

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Un’analisi “quantitativa” dei grandi flussi migratoriinternazionali, a partire dalla loro sempre più inevitabile eirrefrenabile pressione. Nodi critici e potenzialità inespresseindicano la necessità di riformulare l’idea stessa del mondo,dei suoi “confini interni”, e di ripensare la gestione degli spazie delle opportunità come “bene comune” dell’intera umanità.

Antonio Golini*S

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ono un demografo, uno statistico di formazione e mi avval-go di dati e di elementi quantitativi anche nell’impostazione earticolazione di considerazioni problematiche e qualitative.Quali numeri, dunque, per un mondo già parzialmente condi-viso e sempre più da condividere?

Al 2007, le Nazioni Unite individuano nel mondo la pre-senza di 191 milioni di migranti. Questa cifra però è assai ridut-tiva: sono straordinariamente di più, anche per la difficilissimadefinizione di “migrante”, che cambia in relazione alle varielegislazioni nazionali. Per fare degli esempi, un bambino chenasce in Francia o negli Stati Uniti da genitori stranieri è citta-dino francese o americano, mentre se un bambino nasce inItalia da cittadini stranieri è straniero, e viene dunque annovera-to e conteggiato fra i migranti. Ecco dunque la cautela necessa-ria per un approccio interpretativo e problematico di tali cifre,anche in relazione a una ancora non risolta realizzazione egestione dinamica di un coordinamento internazionale in mate-ria migratoria, sia pure nel solo campo statistico. Ritornandopertanto ad un primo – dunque cauto – “inquadramentonumerico” di un mondo condiviso, ecco alcune sostanziali evi-denze: uno stock di 191 milioni di migranti; un flusso abbastan-za consistente nel quinquennio 2000-2005, stimato in 13milioni di persone (2,6 milioni all’anno); rimesse stimate nel2007 in 262 miliardi di dollari.

Noi del Nord del mondo siamo abituati a ritenere che le

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migrazioni siano tutte o quasi dal Sud al Nord, ma non è così. Sui 191milioni di emigrati, vi sono tre parti quasi uguali: quelli che sono andatidal Sud al Nord del mondo, quelli andati dal Nord al Nord e quelli dalSud al Sud. Ecco dunque come tagliando la fenomenologia migratoria alarghe maglie di approssimazione e sintesi, possiamo sottolineare comel’unica corrente migratoria relativamente ridotta sia quella a traiettoriaNord-Sud. Le correnti più problematiche, come è intuitivo, sono certa-mente quelle che si originano in Paesi del Sud e si dirigono verso altret-tanti Paesi del Sud, poiché descrivono un movimento che si attua in con-testi socio-economici poveri.

Un mondo condiviso, un mondo ancora molto da condividere, sidiceva: è incontrovertibile, infatti, come i vari contesti demografico, eco-nomico, sociale, politico e ambientale favoriscano una crescente e massic-cia pressione migratoria internazionale che, sempre più inevitabile e irre-frenabile, diventerà sempre più fattore strutturale delle società e dellepopolazioni dei prossimi decenni. Quale allora, se non quella di un’equacondivisione di spazi e opportunità del mondo, la grande sfida dei decen-ni a venire?

Contesti ed equilibri in evoluzione: il perché di una mobilitàmigratoria fortemente crescente

Le principali evoluzioni demografiche, attese nel breve e nel medio-lungo termine, insieme con gli squilibri economici e i grandi possibilimutamenti ambientali determineranno così profonde alterazioni sistemi-che da lasciar sussistere e incrementare imponenti flussi migratori inter-nazionali.

Il contesto demograficoIl Nord del Mondo, da qui al 2030, ci si aspetta che sperimenti un

decremento della popolazione in età lavorativa pari a 65 milioni di perso-ne, a fronte di un contemporaneo e pronunciato incremento nei Paesi delSud del mondo, pari a 1 miliardo e 37 milioni di persone. In queste cifredi previsione così straordinariamente differenziate sono peraltro già inclu-si 2 milioni l’anno di trasferimenti dal Sud al Nord.

Naturalmente sull’incremento di 1 miliardo di popolazione in etàlavorativa, ci si aspetterebbe e si auspicherebbe un inserimento professio-nale per il 70-75% circa delle persone. La traduzione in posti di lavoroaddizionali da creare nel Sud del mondo, per soddisfare la componentedemografica, sarà dunque pari a 700-800 milioni di nuovi posti di lavoro,o, in altri termini, di 700-800 milioni di vere e proprie “sfide”.

Il contesto economico e socialeMa non è e non sarà soltanto la componente demografica a rappresen-

tare una variabile chiave nella fenomenologia migratoria presente e futura:

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quale fondamentale importanza, ad esempio, è da assegnare alla ristruttu-razione economica? Un’esemplificazione su tutte: se i Paesi arretrati cre-scono, generando una spinta alla modernizzazione del settore agricolo, laforza lavoro espulsa dall’agricoltura si aggiunge, nell’offerta di lavoro, aquella di origine demografica aumentando quindi la pressione migratoria.

Lo sviluppo economico e la conseguente crescita del reddito, inoltre, sitraducono poi quasi sistematicamente in una crescita dell’istruzione, a suavolta strettamente e positivamente correlata con la nascita e il consolida-mento anche razionale di tensioni migratorie, oltre che con spinte più omeno emotive di insoddisfazione e malessere percepito. Crescita econo-

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mica e innalzamento del livello di istruzione sono fattori spesso di spintaanche per il miglioramento della condizione della donna, a sua volta piùdesiderosa e libera di emancipare il suo destino e quello della sua famiglia.

Brevissime considerazioni, dunque, già sufficienti a giustificare la locu-zione forte ma non certamente azzardata di due aggettivi-sintesi per ladescrizione della fenomenologia migratoria: “inevitabile” e “irrefrenabile”.

Ma la complessa incidenza del contesto economico sulla mobilità dellapopolazione può ancora essere meglio compresa soffermandosi sull’evolu-zione del contesto cinese.

La Cina fra il 1990 e il 2003 ha sperimentato un moltiplicatore delreddito pro-capite – a parità di potere d’acquisto – pari a circa 3 volte, afronte di un tasso statunitense pari a 1,25. Pur tuttavia, la differenza tra ilreddito degli Stati Uniti e quello della Cina nello stesso arco temporale èpassato da 27mila a 31mila dollari. Si intuisce dunque immediatamentecome la spinta a migrare non sia data dalla valutazione che le singole per-sone potrebbero fare del rapporto fra la velocità di crescita di un redditorispetto ad un altro; guardano piuttosto alle differenze di reddito, ancheagevolati dagli attuali sistemi di comunicazione che velocizzano la possibi-lità del confronto e ingigantiscono la portata della desiderabilità dell’al-trove sociale e dell’altrove economico.

Nondimeno, però, certamente una crescita così veloce del redditocinese alimenta la speranza, che da sempre ha a sua volta rappresentatouna variabile psicologica per niente indifferente nel gioco delle determi-nanti migratorie: i genitori sperano per i propri figli un destino miglioredi quello che è stato per loro. Una crescita economica e sociale percepibi-le e percepita come possibilità reale di un futuro “domestico” migliorefrena in una qualche misura la spinta a emigrare.

Sul contesto economico, sempre riguardo alla Cina,desidero sottolineare che la Cina era ed è un Paese larga-mente agricolo e che il tasso di occupazione in agricolturaè ancora adesso attestato al 40-45%.

Mi diceva un ministro cinese che per effetto dellamodernizzazione in Cina si sono posti il problema didover creare 500 milioni di posti di lavoro nei settori extraagricoli; erano riusciti a crearne tra i 200 e i 300 milioni,ma poi hanno dovuto frenare un po’ la modernizzazione dell’agricoltura equindi l’espulsione della forza lavoro dell’agricoltura perché altrimentinon avrebbero potuto fronteggiare questa domanda di lavoro nel settoreextra agricolo.

E d’altra parte noi occidentali, che spesso ci lamentiamo della velocitàdi crescita dell’economia cinese, dobbiamo invece ringraziarla due volteper questa velocità di crescita: perché ci apre mercati immensi, smisurati,

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Le stime relative allepossibili migrazioniambientali sonomoltovarie, ma si potrebbearrivare, nelle ipotesi piùpessimiste, a 700milionidi migranti per il 2050.

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ed in secondo luogo perché, se non avesse la capacità di creare tanti postidi lavoro così in fretta, aumenterebbe l’immigrazione.

Il contesto ambientaleE poi c’è il problema del contesto ambientale delle migrazioni. Le

stime relative alle possibili migrazioni ambientali sono molto varie, ma sipotrebbe arrivare, nelle ipotesi più pessimiste, a 700 milioni di migrantiper il 2050, a causa di due grandi mutamenti ambientali: da un latol’elevamento del livello del mare, e dall’altra parte per la desertificazioneche aumenta e si espande.

I sistemi nazionali e l’immigrazione straniera: affanni eopportunità

Se vogliamo guardare alcuni aspetti principali dei rapporti fra migra-zione internazionale e sviluppo socio-economico, possiamo notare comeall’interno dei flussi migratori vadano affrontati almeno tre problemiprincipali: le popolazioni che si vengono a creare nei Paesi di destinazione;le rimesse; il drenaggio del capitale umano nei confronti dei Paesi di origi-ne.

Se noi guardiamo l’incredibile crescita degli immigrati stranieri inItalia, vediamo come tutto si stia svolgendo in maniera rapidissima: ciòcrea molti benefici all’economia, ma anche un bel po’ di problemi allasocietà e alle relazioni fra i popoli. È proprio la grande velocità di afflussodella popolazione straniera che mette in affanno il sistema Italia.

Comunque questo è un fenomeno particolarmente rilevante perché lacrescita economica italiana si giova di questi 3-4 milioni di migranti che(secondo il Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes del 2007)stanno in Italia, e se ne giovano anche molti Paesi di origine.

Sono valutate in oltre 4 miliardi di euro le sole rimesse degli immi-granti che lavorano in Italia: quindi una quantità di denaro davvero rile-vante, anche in considerazione del fatto che per qualche Nazione, permolti Paesi africani ad esempio, le rimesse superano gli aiuti allo sviluppo.

Nei Paesi occidentali, soprattutto in Europa siamo in una trappolainfernale, perché da una parte noi abbiamo bisogno di forza lavoro e loro,i Paesi di origine, hanno bisogno di espellere forza lavoro. D’altra parteperò le cifre del futuro sono legate a quelle che abbiamo visto prima, epertanto l’arrivo può essere molto più massiccio nei prossimi anni esoprattutto può aumentare se noi facciamo, come a mio modo di vederedobbiamo, un’azione di aiuto allo sviluppo nei confronti dei Paesi econo-micamente arretrati, soprattutto dell’Africa subsahariana.

Se aiutiamo lo sviluppo dei Paesi dell’Africa subsahariana, noi, per imeccanismi socio-economici illustrati sommariamente prima, contri-buiamo ad aumentare per almeno 20-30 anni (fino a quando cioè non si

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saranno pienamente sviluppati) la loro pressione migratoria e quindi iflussi migratori verso di noi; se non li aiutiamo, li lasciamo intollerabil-mente abbandonati dal punto di vista etico, sociale, economico, demo-grafico. Siamo dunque in questa trappola e dobbiamo renderci conto chela via di uscita non può essere che quella doppia, cioè aiuti allo sviluppoe accoglienza di migranti. Sorge però a questo punto un problema digovernance e di diritto e di organizzazione internazionale su cui mi fer-merò dopo.

Come cercare undialogo?Mi soffermo brevemente sulle relazioni demografiche-economiche-

commerciali legate alle migrazioni fra l’Italia e due Paesi africanidell’Africa subsahariana, il Ghana e il Senegal. Le rimesse dall’Italia alSenegal in un solo anno sono aumentate del 31%, un valore notevolissi-mo; e verso il Ghana di ben il 18%.

Il governo italiano, anche attraverso la cooperazione allo sviluppo, stafacendo interessanti progetti diretti di investimento in Ghana che coin-volgono le associazioni degli immigrati in Italia, interessanti perché sap-piamo bene che in molti casi gli aiuti allo sviluppo che vanno ai governihanno degli inconvenienti, possono subire dei “taglieggi”, e quindi risul-tare assai poco fruttuosi. Si sta quindi cercando con questa strategia dicoinvolgere le associazioni degli immigrati ghanesi e senegalesi in Italia eattuare con loro investimenti di micro e macro credito per sviluppareaziende nei Paesi di origine. Un’azienda locale finanziatadalla cooperazione italiana mi pare che sia un modo forte epositivo di dialogare fra i popoli, perché è un modo chepassa attraverso il coinvolgimento della comunità e gliinvestimenti in loco, ed è anche un modo di gestire beni eservizi in maniera da coinvolgere le due popolazioni.

Se negli scopi generali di una politica migratoria deiPaesi di destinazione vi è quello appena visto di sostenere opromuovere uno sviluppo economico sostenuto o uno svi-luppo economico sostenibile anche nei Paesi di origine enei Paesi di transito, vi è anche e in primo luogo quello difavorire l’incontro fra domanda e offerta nel proprio mercato del lavoro,per ovviare sia agli squilibri quantitativi sia agli squilibri qualitativi. Mapoi anche favorire il processo di modernizzazione per esempio nei settoriinformatici, o in altri specifici settori, e poi ancora se possibile – qualcosaper esempio sta avvenendo in Italia – favorire un piccolo, per ora modestoma già significativo risanamento demografico. Le poche nascite italianesono già adesso per il 13% dovute a nascite di bambini di genitori stranie-ri; si è quindi avviato il tentativo di un piccolo risanamento demografico.

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Le poche nasciteitaliane sono già adessoper il 13% dovute anascite di bambini digenitori stranieri; si èquindi avviato iltentativo di un piccolorisanamentodemografico.

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Ma questo ha un impatto fortissimo anche sulla legislazione.Accennavo prima che la legislazione italiana non riconosce la cittadinanzaai bambini che nascono in Italia, perché vale lo jus sanguinis piuttosto chelo jus solis. E così noi abbiamo già adesso circa 700mila studenti “italo-stranieri” perché si tratta di bambini e ragazzi nati in Italia, cresciuti inItalia, educati in Italia per di più, come è giusto, a nostre spese. Però resta-no stranieri fino ai 18 anni di età. Secondo me questo è una bomba socia-le ad orologeria che, se non ci affrettiamo a disinnescare, può scoppiare daun momento all’altro.

E poi ci sono gli scopi dei Paesi di origine e quelli dei Paesi di transito,che vanno assumendo sempre maggiore importanza nel determinare flus-si di clandestini, perché spesso si trovano in posizione difficilissima.

Prendiamo ad esempio la Libia che, oggettivamente, non può fare ungranché nei confronti dei clandestini che affluiscono sul suo territorio: haun territorio vastissimo, è un Paese relativamente povero anche se nonpoverissimo e con sei milioni di abitanti non può sorvegliare migliaia dichilometri di frontiera a Sud, da dove affluiscono i migranti di transito, népuò controllare centinaia di chilometri di frontiera sul mare. Quindi laLibia non può che lasciarli partire, non ha altra soluzione.

E la stessa cosa avviene con il Messico: sulla sua frontiera gli Stati Unitistanno costruendo, come è ben noto, un muro e allora i migranti trovanoaltre strade, magari scavando tunnel. E così i cinesi e gli altri orientali: perandare negli Stati Uniti, dalla severissima polizia di frontiera, arrivano inCanada e poi dal Canada scendono negli Stati Uniti. Insomma, anche iPaesi di transito giocano un ruolo molto importante nel determinarel’afflusso di irregolari e clandestini, che arrivano comunque e che si accu-mulano. Forse in Italia ne abbiamo circa 700mila nonostante le numerosesanatorie. Negli Stati Uniti ne stimano 12 milioni, per i quali Bush volevafare una legge di para-regolarizzazione ma è stato bloccato dal Congresso.

Tutti i Paesi di destinazione hanno il problema di un più o menogrande stock di clandestini e irregolari sul proprio territorio. Che fare?Ignorarli è quello che si fa normalmente come prima opzione; però poiquando arrivano oltre una certa soglia non si possono più ignorare, per-ché è socialmente inaccettabile, turbano il mercato del lavoro alimen-tando il lavoro nero. La seconda opzione è quella di mandare indietrogli immigrati; è una strategia che normalmente suggerisce in Italia ealtrove la destra, che fa finta di non rendersi conto che è impossibilerimandare indietro 700mila persone: impossibile dal punto di vistapolitico, logistico, morale. Inoltre non basta espellerli da qui: occorreanche i Paesi di origine che se li riprendano, il che è raramente verifica-to. La terza, inevitabile, soluzione è quella della sanatoria ed è ricorren-te ogni 2-4 anni.

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Desidero sollevare il problema dei diritti del bambino: il diritto allasalute e all’istruzione prevalgono sulla sua condizione giuridica. Quindi inItalia un bambino figlio di stranieri, anche di irregolari e di clandestini,viene mandato alla scuola obbligatoria a nostre spese. Così come il dirittoalla salute viene prima dello status giuridico. Ma se il bambino va dai 6anni ai 18 anni alla scuola dell’obbligo, poi che fine facciamo fare a que-sto bambino e ai suoi genitori? Finora noi abbiamo chiuso gli occhi difronte a questi problemi, ma le cifre cominciano a crescere: sono già deci-ne di migliaia i casi e quindi prima o poi dovremmo affrontare questoproblema.

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Volevo ancora attirare l’attenzione sul fatto che molto spesso si ritieneche quelli che contano, nel complesso gioco dell’immigrazione, sono solodue soggetti. Cioè, nella convinzione comune, e anche nella convinzionedi qualche policy maker, si ritiene che a giocare il gioco dell’immigrazionesiano solo l’individuo o la famiglia che parte (e che quindi vuole arrivarein un dato luogo di destinazione) e il Paese di destinazione che può deci-dere se accettarlo o meno.

Se ciò in linea teorica e di principio va bene, nella realtà non è così,perché a giocare sulla scacchiera complessa dell’immigrazione sono novegiocatori: non solo la singola persona e il Paese di destinazione, ma anchei Paesi di transito (per cui se migliaia di persone partono dalla Libia evanno sul Mediterraneo, il Paese di destinazione non ha molte scelte senon salvarli e farli sbarcare); i trafficanti di esseri umani; il Paese di origi-ne con la sua politica (che può essere una politica implicita o esplicita diincoraggiamento all’immigrazione); la famiglia del migrante (a secondache la famiglia spinga, o raccolga del denaro); la catena migratoria costi-tuita dai compatrioti già insediati nel Paese di destinazione; i datori dilavoro nei Paesi di destinazione (in Italia, se un’azienda o una famigliahanno bisogno di un immigrato non aspettano il placet della burocraziache può tardare anche due anni); e poi, infine, le politiche degli altri Paesidi destinazione.

Il quadro complesso e i numerosi giocatori coinvolti fa sì che ci sia lapratica impossibilità di controllare ed essere completamente efficaci nelriuscire a gestire le migrazioni internazionali da parte del solo Paese didestinazione.

Il 21 dicembre 2007 l’area Schengen è stata ulteriormente allargata:adesso comprende 25 Paesi, fra cui, per esempio, la Slovenia, la Polonia,l’Ungheria. C’è uno spazio europeo straordinariamente vasto, perché vadal Baltico a Lampedusa e dall’Ungheria-Polonia fino al Portogallo, che difatto sta cambiando totalmente le regole del gioco migratorio, ma nonsiamo abbastanza attrezzati.

Ad esempio, ognuno dei 25 Paesi che attualmente aderiscono aSchengen può rilasciare visti: per turismo, per affari, per studio, permalattia, ma tutte le politiche dei visti dei singoli Paesi sono indipendentifra di loro, mentre invece i visti rilasciati da ogni singolo Paese influenza-no ogni altro singolo Paese dell’Unione, e quindi qui stiamo in una situa-zione in cui strumenti sopranazionali hanno impatto nazionale senza ade-guato coordinamento.

Con l’allargamento di Schengen la cortina di ferro è definitivamentecaduta. Sono stato recentemente a Gorizia e ho visto con grande gioianella piazza della vecchia stazione bambini che giocavano. C’ero stato daadolescente in quella piazza e c’erano cavalli di frisia e guardie armate.

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Ecco dunque una vera e propria svolta epocale, dal momento che conl’Unione Europea e con Schengen sono cambiati i rapporti fra i popoli e iconfini: la piazza di Gorizia ne è la testimonianza piena.

Ma non solo la piazza di Gorizia. Gli accordi che, per esempio, laregione Friuli-Venezia Giulia, negozia con la Slovenia rappresentano unfatto fondamentale di crescita e di sviluppo economico; e così tutto l’arcoalpino sta diventando transnazionale. Ecco un significativo paradosso:prima il Mediterraneo era elemento di scambio e di ricchezza, mentrel’arco alpino era elemento di chiusura, di povertà e di arretratezza. Adessol’arco alpino è diventato transnazionale mentre il Mediterraneo è diventa-to il luogo di una nuova cortina: il nuovo muro che divide il benesseredell’Europa dal non pieno benessere del resto del bacino delMediterraneo.

*(Il testo, non rivisto dall’autore, è tratto dall’intervento del prof. AntonioGolini al XXVIII Convegno Bachelet del 8/9 febbraio 2008, sul tema:“Condividere il mondo. La dimensione universale del Bene Comune”. La ver-sione integrale verrà prossimamente pubblicata dall’Editrice AVE nel volume diraccolta degli Atti).

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Un proverbio della tradizione Dogon recita più o meno così:«L’occhio dello straniero vede solo quello che già conosce». Eproprio per tentare di cogliere con rispetto ed umiltà la com-plessità del concetto di “bene comune” nel contesto africanobisogna innanzitutto e soprattutto andare al di là dei soliti luo-ghi comuni tipici di certa comunicazione. Mi riferisco, adesempio, ai tramonti mozzafiato, elefanti che vengono a pasco-lare nel recinto di casa, serpenti insidiosi, avventure a non fini-re... Anche se la professionalità hollywoodiana di HughHudson ha strappato al grande pubblico fiumi di lacrime, leimmagini del film Sognando l’Africa, tratto dall’epica biografiadi Kuki Gallmann, è stata l’ennesima cartolina virtuale su uncontinente davvero sconosciuto all’uomo bianco. Sicuramenteuna pellicola densa di emozioni, con una Kim Basinger informa eccellente, incorniciata come un pupazzo da stupendipaesaggi sudafricani, accompagnati da una musica struggente,ritmica e melodiosa. Peccato che come al solito gli africani quasinon esistano nel copione, inquadrati apposta contro luce persembrare più neri del solito, dai tratti indecifrabili, figure acces-sorie che se aprono bocca lo fanno per dimostrare fedeltà incon-dizionata al loro padrone, nella logica fiabesca di Via col Vento.Pazienza, questa però non è l’Africa.

E cosa dire di un altro tipico stereotipo, quello della soffe-renza “strappalacrime”, infarcita di carità pelosa? E sì perchéogni qualvolta tentiamo di parlare delle Afriche – da ora in poi

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Giulio Albaneseè missionario

comboniano. È il

fondatore della

Missionary Service News

Agency (Misna).

Collabora con varie

testate giornalistiche sui

temi legati all’Africa e al

Sud del mondo.

Insegna giornalismo

missionario/giornalismo

alternativo presso la

Pontificia Università

Gregoriana di Roma. È

autore di: Hic sunt

leones, Edizioni Paoline,

Roma 2006; Soldatini di

piombo, Feltrinelli, Milano

2005; Il mondo

capovolto, Einaudi,

Torino 2003.

Afriche. Un passatodiverso e un futuro comune

C’è una enorme ricchezza che viene dalle “Afriche” e non è solodemografica o di risorse ambientali; è nella sete di democrazia,nella lotta per i diritti umani, in un movimento di libertà e diaffermazione della dignità dell’uomo che chiede di incontrarela cultura occidentale, di trovare al suo interno accoglienza,nella consapevolezza della necessaria condivisione di un unicocomune futuro.

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nei nostri ragionamenti sarà meglio usare il plurale trattandosi di un con-tinente grande tre volte l’Europa – c’è sempre il rischio di indugiare adoltranza col pensiero sulle negatività che affliggono milioni di uomini e didonne. Quasi che il tempo, da quelle parti, dovesse essere a tutti i costi perforza inesorabilmente fermo al “Venerdì Santo”. In effetti, come peraltroampiamente documentato in più circostanze dalla stampa missionaria epiù in generale da quella cattolica, è davvero inquietante quanto sta acca-dendo nella tormentata regione sudanese del Darfur, come anche in terrasomala, soprattutto a Mogadiscio e dintorni. Eppure, per quanto grandipossano essere le disgrazie che assillano il pianeta della “Negritudine”,occorre sforzarsi di andare al di là delle solite percezioni superficiali, quel-le cioè banalizzanti, che riducono le Afriche – al plurale o al singolare chedir si voglia – ad una sorta di nebulosa, metafora dei peggiori disastri dellaStoria antica e recente. D’altronde nell’inconscio della nostra gente v’èancora radicato un forte pregiudizio, retaggio dell’epoca coloniale, per cuiogni discorso si riduce sempre a dissertazioni su atrocità, guerre, carestie,pandemie e cronica instabilità. Di converso, invece, alla luce della miapersonale esperienza, posso dire che il continente africano è un poliedricocontenitore di sapienza multisecolare, luogo di passioni, ricchezza cultura-le e artistica, “mare magnum” di etnie fatte di volti con le loro storie dascoprire distanti da quelle di noi ricchi Epuloni.

E cosa dire, come vedremo più avanti, delle risorse minerarie dissemi-nate a destra e a manca? Le Afriche, allora, non sono povere, semmai risul-tano impoverite. Tanto per fare un esempio, è dimostrato che il costodegli aiuti umanitari destinati alle emergenze africane è di gran lunga infe-riore agli interessi del debito che affligge il continente come una spada diDamocle. Non stiamo allora disquisendo sulla sorte di un paziente in te-rapia intensiva. Le immense Afriche, per chi le ama davvero, oggi vivonoe sono più che mai palpitanti, malgrado le sciagure causate dai signoridella guerra, da certe oligarchie locali e dalla bramosia di poteri sopran-nazionali che hanno fortemente penalizzato la vita d’intere popolazioni lequali, sorprendentemente, sono riuscite “ad ottimizzare il caos” – comescrive il giornalista congolese Jean Leonard Touadi – attraverso ingegno,istinto di sopravvivenza e buona volontà. Come si spiegherebbe altrimen-ti il fenomeno dell’economia informale che ha sorpreso addirittura glieconomisti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali? Non dimen-tichiamo che negli anni ’70 e ’80 erano in molti a pensare che il conti-nente sarebbe collassato col suo fardello di miserie prima del 2000. Uncontinente dunque che non mendica la nostra beneficenza infarcita distucchevoli pietismi, ma che invoca il riconoscimento della propriadignità attraverso una solidarietà fattiva e la promozione di un senso direciproca corresponsabilità. Si tratta proprio di quel “bene comune” che

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vorremmo fosse costante oggetto della nostra riflessione. Ecco perchésarebbe auspicabile, stando proprio a quanto ha scritto sapientementeBenedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret, che le nazioni ricche rive-dessero la loro condotta, sì proprio quelle che ad oltranza «esportano ilcinismo in un mondo senza Dio». «Le nazioni ricche», scrive il Papa,«hanno ferito i poveri spiritualmente, disperdendo o cercando di annulla-re le loro tradizioni culturali e spirituali».

Viene alla mente, come una sorta di provocazione, Africa Paradis(“Paradiso Africa”) del beninese Sylvestre Amoussou, presentato nel feb-braio del 2007 al Fespaco (Festival Panafricain du Cinéma et de la télévi-

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sion de Ouagadougou), la biennale del cinema africano svoltasi nella capi-tale burkinabé. Una visione sicuramente fantapolitica, all’eccesso, ma checomunque ha colto il favore della critica. L’Europa è diventata un conti-nente invivibile, lacerato da guerre, disoccupazione e povertà. Un nuovoMedio Evo in cui i bianchi fanno la coda per ottenere il visto per l’Africa,continente ricco e rigoglioso, nel quale le famiglie vivono immerse nellusso sfrenato, i figli studiano nelle migliori università e fanno carriera.Ma convincere i funzionari afro non è semplice. C’è chi, tra i bianchi, èdisposto a pagare per essere traghettato di nascosto nel nuovo paradiso,dove l’immigrazione è rigidamente controllata. Il lungometraggio diAmoussou, presenta un mondo capovolto in un’esilarante parodia-satiradell’oggi che per certi versi ha il sapore della soap e del fotoromanzo. Percarità, questo mondo alla rovescia spaventa, non foss’altro perché contra-sta con la visione positiva di un villaggio globale, fondato sulla fraternitàuniversale, dove dritto e rovescio abbiano pari dignità. Per questo occorrevigilare affinché ognuno, in Africa e nel cosiddetto primo Mondo, si assu-ma la propria parte di responsabilità.

Volendo pertanto affrontare il tema del “bene comune” in rapporto alcontesto geopolitico, sociale ed economico delle Afriche, credo sia fonda-mentale soffermarsi innanzitutto e soprattutto sulla questione relativa alleimmense ricchezze naturali. L’Africa galleggia sul petrolio. Nonostante lagrande stampa, anche in tempi recenti, sia sempre concentrata sulle vicen-de mediorientali, il continente nero sta sempre più diventando sia per gliStati Uniti che per la Cina una priorità geopolitica (l’Europa da questopunto di vista sembra essere invece “la Bella Addormentata”). Nei prossi-mi dieci anni, secondo gli esperti della Casa Bianca, leimportazioni americane di petrolio e gas naturale dalla solaAfrica Occidentale dovrebbero salire dall’attuale 15% al25%. Le riserve terrestri e offshore di Paesi come Angola,Camerun, Ciad, Congo Brazzaville, Gabon, GuineaEquatoriale, Nigeria, e São Tomé e Principe sono immen-se e rappresentano un grosso business sia dal punto di vistaquantitativo che qualitativo. Si tratta di giacimenti parzial-mente sfruttati, il cui greggio è considerato, nel gergo tec-nico, “light” (“leggero”), cioè a basso tenore di zolfo; pro-prio la qualità di cui vanno ghiotte le raffinerie occidentaliper produrre carburanti che rispettino le normative ambientali. Inoltre,nel vastissimo Golfo di Guinea, sono state anche localizzate riserve strate-giche del sempre più richiesto gas naturale. E di petrolio ce n’è tantissimoanche nella Repubblica Centrafricana, Somalia e Sudan. Per gli StatiUniti, primi importatori mondiali di petrolio, l’Africa è geograficamentemolto più vicina rispetto all’incandescente area del Golfo Arabico. Gli

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Nei prossimi dieci anni,secondo gli esperti dellaCasa Bianca, leimportazioni americanedi petrolio e gas naturaledalla sola AfricaOccidentale dovrebberosalire dall’attuale 15%al 25%.

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investimenti statunitensi nel continente africano sono incoraggiati, oltreche dalla scoperta di grandi riserve economicamente sfruttabili, anchedall’andamento al rialzo del prezzo del petrolio, dalla previsione di unaforte crescita della domanda di energia a livello mondiale e dal costantesfruttamento dei tradizionali bacini offshore del Golfo del Messico e delMare del Nord.

Ma la bramosia del governo di Pechino è forse quella più preoccupan-te perché applicando i principi di “non ingerenza” e di “assenza di precon-dizioni” nella concessione di crediti, prestiti e aiuti, e nella realizzazione diprogetti comuni sta davvero facendo il bello e il cattivo tempo fomentan-do la corruzione. A differenza dei Paesi occidentali, i cinesi non vincolanola cooperazione ai parametri imperniati sulla trasparenza negli affari, neicontratti, nei bilanci. E neppure al rispetto da parte africana dei diritticivili e umani o dei processi di democratizzazione. Anzi, quando questisiano violati sistematicamente (nei casi dello Zimbabwe e del Sudan),Pechino si oppone in sede Onu a condanne e a sanzioni nei loro confron-ti. A Pechino, pragmaticamente, interessa la partecipazione allo sfrutta-mento delle materie prime africane, segnatamente il petrolio. Seguito daiminerali indispensabili al suo impressionante sviluppo economico (tanta-lite, rame, ferro, platino, cobalto, uranio, diamanti) e dal legname. Unacosa è certa: gli appetiti stranieri sulle Afriche rappresentano un grave fat-tore d’instabilità per le Afriche, da meridione a settentrione, da Oriente aOccidente. Lo scorso luglio, l’ambasciatore somalo a Mosca, MohamedHandule, ha dichiarato che nel suo Paese si trovano le principali riserve dipetrolio, gas e uranio di tutto il Corno d’Africa. Una ricchezza che finoraha scatenato l’ingordigia di coloro che finanziano alacremente le numero-se bande armate. D’altronde «dove non passano le merci passano gli eser-citi», scriveva saggiamente nell’800 un grande economista francese,Claude Frédéric Bastiat.

Altra questione scottante che penalizza fortemente il “bene comune”dei popoli africani è la questione della sicurezza alimentare. Secondo laFao, l’inflazione dei prezzi alimentari nella maggioranza dei Paesi delmondo ha subito un rialzo pari al 33% nel solo periodo compreso tra il2006 e il 2007, ed è destinata a crescere ulteriormente. Particolarmentecritica è la situazione in Eritrea, Niger, Comore e Liberia. Si tratta di alcu-ni dei 22 Paesi dove l’indice di crescita del costo delle importazioni nel2007 è arrivato a 812 miliardi di dollari, tracciando un più 29% rispettoall’anno precedente. Sulla produzione mondiale delle materie prime ali-mentari, va ricordato che, come affermato recentemente da Jean Ziegler,ex relatore delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, citandofonti della Fao, nel mondo si produce già cibo a sufficienza per sfamare 12miliardi di persone. Il problema non pare pertanto legato alla produttività

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delle materie prime agricole, quanto alla non omogenea distribuzione deiprodotti. In termini di macroeconomia, l’agricoltura mondiale, unita-mente al settore alimentare, rappresenta il secondo comparto in terminidi redditività per coloro che operano nelle piazze finanziarie. In gergo tec-nico si chiama agrobusiness e ha determinato la scesa in campo delle gran-di Corporation che mirano alla massimizzazione dei profitti. Il risultato èun’enorme speculazione che secondo l’autorevoleWall Street Journal com-porta di fatto il rincaro continuo degli alimenti in seguito all’aumentosoprattutto del petrolio, e alla crescita di un ceto medio consumatore inPaesi emergenti come Cina e India.

Sta di fatto che l’agrobusiness di cui sopra, determinando condizioni di

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monopolio da parte delle multinazionali – ultimamente il fenomeno si èacuito per la forte richiesta di biocarburanti – penalizza fortemente i pic-coli agricoltori che rischiano l’estinzione un po’ a tutte le latitudini e dun-que anche nelle Afriche. Altrimenti non si spiegherebbe come mai lo scor-so anno nella sconfinata regione di Bale, sull’immenso acrocoro etiopico,nel cuore del Corno d’Africa, caratterizzato da un altopiano verde con sce-nari capaci d’evocare una natura incontaminata ai confini del mondo,l’estensione delle rigogliose piantagioni di grano si perdevano a vistad’occhio. Stando ai dati pubblicati dal Foreign Agricultural Service delDipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America risulta che leprevisioni sul raccolto di grano in Etiopia per il 2007/08 si attestavanoattorno ai 5,8 milioni di tonnellate, circa 300.000 in più rispetto all’annoprecedente, mentre per mais, miglio e sorgo arrivavano a 8,7 milioni ditonnellate. E allora perché già nell’aprile di quest’anno, nella capitale etio-pica, Addis Abeba, l’emergenza carestia era data per ineluttabile? Non è daescludere che vi sia stata, stando a ciò che ho visto io stesso visitando ilPaese ben due volte in meno di un anno, una dispersione delle materieprime agricole prodotta da una serie di concause che vanno oltre le solitespiegazioni dei meteorologi (in materia di siccità, intendo). Per ripagare ildebito estero, per chi non lo sapesse, si fa di tutto da quelle parti: si taglia-no i fondi per la sanità e l’istruzione, addirittura si arriva ad utilizzare iproventi derivati dalla produzione agricola.

A questo punto viene spontaneo chiedersi quale possa essere il futuroper le Afriche. Si è molto parlato in questi anni del possibile riscatto afri-cano in riferimento all’orgoglio di un continente che, nelle sue moltepliciespressioni – sociale, politica, economica e religiosa – avverte il bisogno di

voltare decisamente pagina. E come in una sorta di giocodegli specchi, le risposte opposte alla sfida dello svilupposembrano eludere il problema dello “Stato-Nazione”, cosìcom’è stato postulato brillantemente dallo storico ingleseBasil Davidson (The Black Man’s Burden: Africa and theCurse of the Nation-State, Knopf, New York 1992), vale adire una forma istituzionale di imitazione occidentale che sitraduce in governi personali e autocratici fondati sul nepoti-smo e la corruzione esercitati a favore di una o più compo-nenti etniche della popolazione contro le altre. A questo

riguardo Davidson, uno dei maggiori africanisti del nostro tempo, stig-matizza le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella captazio-ne di élite autoctone che si prestano impunemente al mantenimento dirapporti economici ineguali seppure informali. L’analisi di alcuni scenariinfuocati, in cui la conflittualità non ha solo una valenza politico-istitu-zionale, ma anche militare, come nel caso emblematico della Repubblica

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I giovani africanirappresentano la

stragrandemaggioranzadella popolazione

continentale, in molticasi viaggiano, naviganoin internet e hanno famee sete di democrazia.

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Democratica del Congo (ex Zaire), mette in luce l’esistenza di circuitipolitici legati ad istituzioni, eserciti e milizie private, signori della guerralocali, compagnie multinazionali, finalizzati allo sfruttamento delle risor-se naturali presenti sul territorio e ovviamente del tutto indipendenti daqualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare. A questo riguardo,l’ex governatore della Banca Centrale del Ghana, Frimpong Ansah, arrivòa definire gli Stati africani postcoloniali addirittura come “stati-vampiro”,biasimando il drenaggio del denaro pubblico e delle risorse perpetratodalle oligarchie locali secondo logiche clientelari e predatorie. Altri stu-diosi, come Jean-François Bayart, (L’état en Afrique: la politique du ventre,Fayard, Paris 1989) ritengono che questo processo degenerativo sia attri-buibile all’incapacità distributiva delle risorse in direzione dello sviluppo edel benessere sociale a causa del perdurante asservimento a fazioni etnicheincapaci di servire la “Res publica”.

Qualunque sia la spiegazione storica, mai come oggi si avvertono deisegnali di rinnovamento, particolarmente nell’ambito della cosiddetta“società civile”, sia tra i giovani che tra le donne. Per chi non lo sapesse, igiovani africani rappresentano la stragrande maggioranza della popo-lazione continentale, in molti casi viaggiano, navigano in internet edhanno fame e sete di democrazia; mentre le donne producono il 62% delreddito e spesso sono alla guida dei movimenti per i diritti umani. E pro-prio grazie ai giovani e alle donne sta maturando una società civile com-posta di comunità cristiane, associazioni ambientaliste, movimenti per lalibertà di pensiero, con l’intento dichiarato di promuovere l’affezione al“bene comune”. Parafrasando il grande Léopold Sédar Senghor, “noi occi-dentali” e “loro africani”, dobbiamo incontrarci all’appuntamento deldare e del ricevere. D’altronde in questo vasto continente vi è una classeintellettuale che sta crescendo di spessore, in grado di disegnare nuovi sce-nari in un mondo villaggio globale. Dobbiamo prendere atto, dunque,che la dialettica tra povertà e ricchezza si gioca anche su altri piani.Laddove per le culture occidentali appare scontato – nella generale merci-ficazione imposta dal pensiero economico liberale – il primato degli affarisulle persone, le Afriche ci ricordano quello che diceva saggiamente unodei personaggi generati dall’estro letterario dello scrittore senegaleseCheick Anta Diop a proposito dei rapporti Nord/Sud: «Non abbiamoavuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stessofuturo».

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Antonio Massaruttoè professore associato

di Economia pubblica

presso l’Università di

Udine e direttore di

ricerca presso lo Iefe

(Istituto di economia e

politica dell’energia e

dell’ambiente)

dell’Università Bocconi di

Milano. Tra le sue

pubblicazioni: L’acqua.

Un dono della natura da

gestire con intelligenza, il

Mulino, Bologna 2008.

Acqua.Un dono e il suo prezzo

Per quanto l’acqua sia un bene comune e una risorsa cui tuttidevono poter avere accesso, la sua gestione presenta tuttavia deicosti che non possono non essere valutati e accettati conpragmatismo e senso di realtà. L’acqua non è scarsa, è una risorsarinnovabile: ildibattitodovrebbepiuttostoconcentrarsisucomegarantirne un’equa distribuzione.

Antonio MassaruttoUno spettro si aggira per il mondo, lo spettro della privatizza-zione dell’acqua. Cittadini, intellettuali, organizzazioni nongovernative, campagne mediatiche, forum noglobal, sacerdoti sisono alleati in una santa caccia speciale a questo spettro. Soloche – sorpresa: si dà il caso che i fantasmi non esistano. E anchequesto corre il rischio di essere un fenomenale abbaglio colletti-vo. Non sarebbe poi così grave, se la paura dei fantasmi nonavesse poi delle conseguenze molto più pratiche, facendoci per-dere di vista i problemi veri, cercando nemici dove non ce nesono e ostacolando le possibili soluzioni1.

Chi ha diritto a cosa? Chi deve fare cosa? E soprattutto, chi lodeve pagare? Oggi nel mondo milioni di persone non hannoaccesso ai servizi idrici di base. L’uso sempre più intensivo, incontesti caratterizzati da regole fragili e poteri statali deboli,rischia di condurre molti Paesi allo stress idrico permanente.Senza arrivare a tanto, anche in Europa abbiamo i nostri proble-mi: approvvigionamenti vulnerabili, qualità scadente, pressioneantropica crescente. E abbiamo anche un obiettivo impegnativo,quello di raggiungere il buono stato ecologico in tutti i corpiidrici. Lo schema “acqua, bene comune” è allettante e in lineacon i nostri principi. Ma a cosa ci può servire esattamente?Raggiungere gli obiettivi delle politiche idriche per il nuovo mil-lennio impone uno sforzo tecnologico, finanziario e gestionaleenorme. I problemi non riguardano tanto la risorsa idrica, quan-to le infrastrutture e i servizi per accedervi. E allora, il fatto che

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l’acqua sia un bene comune non è poi un concetto molto utile. Anche ilpianeta Marte è un bene comune, ma finché non avremo i mezzi per arri-varci, non sapremo cosa farcene.

Di che cosa stiamoparlando esattamente?Acqua e risorse idriche non sono sinonimi. Ad esempio, l’acqua conte-

nuta nella bottiglietta di minerale che ho appena acquistato al bar è mia, enessuno me lo può contestare. Prima che fosse mia apparteneva a unnegoziante, che a sua volta l’aveva comperata – salto qualche passaggio –da un imbottigliatore. Quest’ultimo, utilizzando una concessione delloStato, è andato un giorno alla sorgente, ha riempito quella bottigliettaassieme a tante altre, le ha caricate su un camion e le ha portate in città.

L’acqua che prelevo dal pozzo del mio giardino è mia, ma per usarla devoessere autorizzato. L’autorizzazione mi verrà data se il mio prelievo noncomporta pregiudizio ad altri. Oppure mi verrà data anche se dovesse reca-re pregiudizio ad altri, sempre che l’autorità che decide valuti che l’interessegenerale associato al mio beneficio è superiore a quel pregiudizio.

Cosa ci dicono questi esempi? Non è l’acqua ad essere una risorsa, mail ciclo naturale che la rende disponibile. La sorgente, la falda, il fiume, lenuvole, la pioggia. Quella è la risorsa. Grazie all’uso condiviso della risor-sa, ciascuno di noi può procurarsi l’acqua che gli serve. Analogamente,non è la pannocchia ad essere una risorsa, ma la terra. Non è il raggio cat-turato da un impianto fotovoltaico, è il sole. Non è l’ossigeno che respiroio, è l’atmosfera.

Anche uso e consumo di acqua non sono sinonimi. La gran parte degliusi umani comportano un prelievo, ma dopo l’acqua viene restituita. Ilproblema è quando (tra prelievo e rilascio può trascorrere del tempo),dove (il rilascio in genere avviene in un punto diverso) e soprattutto come(l’uso altera le caratteristiche dell’acqua, ossia la inquina). Per questo, nonsempre gli usi sono in competizione tra loro. Spesso usano la stessa acqua(nel senso che lo stesso metro cubo viene utilizzato prima da Tizio, adesempio per produrre energia, e dopo da Caio, ad esempio per irrigare uncampo, e infine da Sempronio, che pompa dalla falda l’acqua che Caio halasciato infiltrare nel terreno, al netto di quella assorbita dalle piante).Altre volte usano la stessa risorsa: una stessa sorgente può essere utilizzatada molte persone contemporaneamente; finché il prelievo di uno nonimpedisce quello dell’altro, ciascuno può liberamente appropriarsi dell’ac-qua che la risorsa mette a disposizione.

L’acqua non è come il petrolio, dove il barile che uso io è un barile sot-tratto a qualcun altro. L’acqua è rinnovabile, e quello che ci preme davve-ro è garantire che rimanga tale, e che la quantità che in ogni istante lanatura ci fornisce basti per tutti.

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Queste ultime considerazioni sono importanti per chiarire altri possi-bili significati del termine “risorsa”: Dopo che l’acqua è stata usata, deveessere restituita. La capacità dell’ambiente di riceverla e metabolizzarlaaffinché rientri in ciclo è un’altra risorsa, analoga e complementare a quel-la che ci rende disponibile l’acqua. Anche l’acqua in eccesso – quella che cipiove sulla testa e allaga le nostre strade, per non parlare di quella chescende impetuosa dalle montagne – deve essere smaltita dal territorioabbastanza rapidamente da non farla tracimare. Ancora, per molte funzio-ni svolte dall’acqua non conta tanto quella prelevata e scaricata, ma quellapresente nell’ambiente. Ciò vale per le componenti ecosistemiche, maanche per gli sport acquatici, per la pesca, la navigazione, il paesaggio.

Di chi è l’acqua?Domanda sbagliata, dunque. Dovremmo chiederci, semmai, «di chi è

la risorsa?», «come ne viene disciplinato l’uso?». A scanso di equivoci, dire-mo subito che l’acqua appartiene alla collettività, da sempre e dovunque.Il problema è semmai comprendere quale sia il regime giuridico con cuiquesta appartenenza alla collettività viene concretizzata, con quali regolesi disciplinano gli eventuali conflitti, quali sono i diritti e quali i doveri diciascuno. In termini generali, una risorsa di proprietà collettiva può essereamministrata in regime di libero accesso, in cui ciascuno fa quello chevuole, un regime di common property, in cui la comunità costruisce delleregole che si fissano nella tradizione e vengono amministrate dalla collet-tività stessa degli utilizzatori, fino ad arrivare al potere dello Stato, che

impone le sue regole e le fa rispettare. Si potrebbe dire che lastoria del diritto dell’acqua è caratterizzata dal progressivoestendersi di quest’ultima modalità, la quale oggi è quellaprevalente, ma per lungo tempo è stata solo residuale – nelsenso di esercitarsi per eccezione a una regola che vedevaprevalere soprattutto regimi consuetudinari o di liberoaccesso.

Oggi tutte le acque appartengono allo Stato, anche seper quelle sotterranee in Italia si è dovuto attendere il 1994(prima chiunque poteva liberamente trivellare un pozzo eprelevare dalla falda quanto voleva). Ogni uso deve essere

autorizzato, nel rispetto del bilancio idrico complessivo (nel quale concet-to assume rilevanza anche il cosiddetto “deflusso minimo vitale”, dagarantire in ogni caso). Gli usi e i relativi scarichi devono essere compati-bili con il mantenimento del «buono stato ecologico» (regola impostadalla Dir. 2000/60 e anticipata dal D.lgs. 152/99, anche qui conun’evoluzione recente le cui tappe sono state la legge Merli del 1976, cheper prima ha introdotto limiti agli scarichi, espressi però in termini di

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L’acqua appartiene allacollettività, da sempre edovunque. Il problema èsemmai comprendere

quale sia il regimegiuridico con cui questa

appartenenza allacollettività vieneconcretizzata.

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concentrazione dei medesimi e non con riferimento al recettore finale).Le decisioni, che in passato lasciavano allo Stato grande discrezionalità

ed arbitrio, oggi devono sottostare a complesse procedure e avvenire inmodo partecipato.

Insomma, non solo la tanto temuta “privatizzazione dell’acqua” nonriguarda la risorsa, ma è semmai vero il contrario. Lo Stato negli ultimitrent’anni ha visto estendersi in modo assai ampio le sue prerogative. Nonabbastanza da essere onnipotente, tuttavia. Il peso dei diritti acquisiti si fasentire nel momento in cui una concessione dovesse essere modificata. LoStato, nel prendere le decisioni, è condizionato dal consenso politico edalla legittimità delle sue azioni (può agire cioè solo utilizzando gli stru-menti che la legge gli concede). L’attuazione pratica del principio della

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proprietà pubblica si scontra con la difficoltà di monitorare il comporta-mento di centinaia di migliaia di prelievi e scarichi. Ma il limite principa-le all’azione dello Stato sta nei costi che le politiche idriche implicano.Raggiungere il buono stato ecologico, ad esempio, comporterà un grandesacrificio, sia che ad esso si punti con nuovi e più sofisticati trattamentidegli scarichi, e quindi vada a carico dei servizi idrici, sia attraverso unaumento dei deflussi e quindi una riduzione dei benefici economici rica-vabili dall’irrigazione o dall’energia idroelettrica.

Anche il principio “chi usa paga”, da molti visto come un primo passoverso la mercificazione, è in realtà un modo per ribadire che l’acquaappartiene alla collettività, e chiunque ne usi è tenuto a rimborsare allacollettività sia i costi sostenuti per fornirgliela, sia i sacrifici sopportati dacoloro che vengono in un modo o nell’altro danneggiati; nonché unamaniera per attuare strumenti il cui potenziale incentivante è importante.Quando una cosa è gratis, tutti ne vogliono sempre di più e la sprecano.Pagare un prezzo che corrisponde al costo è anche un modo per abituarciall’idea che, invece, l’acqua è di tutti e va usata con ragionevolezza.

Per secoli siamo stati abituati all’idea che spettasse allo Stato, con isoldi di tutti, costruire le opere pubbliche necessarie per soddisfare i fab-bisogni. Oggi, al contrario, stiamo faticosamente imparando a fare i conticon l’esistenza di un limite. Dalla cultura dell’opera pubblica, alimentatadal denaro pubblico e da una cultura tesa a magnificare soprattutto lemeraviglie dell’ingegneria antica e moderna stiamo passando a una nuovacultura, in base alla quale dobbiamo imparare ad accontentarci di quelloche abbiamo, usandolo al meglio.

Dalla risorsa ai serviziDopo aver compreso che l’acqua – in quanto risorsa – appartiene alla

collettività, e che il vero problema consiste nel chi e come prende le deci-sioni e in chi e come può vantare dei diritti che escludono gli altri, siamosolo a metà del percorso.

«L’acqua è un dono di Dio e non una merce», recita uno slogan caro achi sostiene che l’acqua è un bene comune. Nessuno lo contesta. Tuttavia,il buon Dio – in questo ispirato, per citare Veltroni, «dal principale espo-nente dello schieramento a lui avverso» – ha fatto le pentole ma non icoperchi. Di acqua ce ne ha donata un sacco, anche troppa. Ma l’ha messain posti scomodi da raggiungere, ce ne dà tanta quando non ci serve epoca quando invece ce ne servirebbe tanta. Non sempre ce la dà della qua-lità che sarebbe necessaria. Insomma, l’acqua ce l’ha data lui, ma i tubi, gliimpianti, le opere, l’energia e i servizi ce li dobbiamo dare da soli, sfrut-tando quell’altra cosa che ci è stata donata, la nostra intelligenza e lanostra fatica quotidiana. La nostra capacità di organizzarci per fare insie-

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me quello che da soli sarebbe impossibile. La nostra inventiva, attraversola quale generiamo le tecnologie e il sapere necessario. Nei secoli abbiamoimparato a costruire acquedotti per trasportarla, dighe per immagazzinar-la, canali per regolarne il flusso, impianti di trattamento per migliorarnela qualità, dissalatori per sottrarla al mare, pompe meccaniche per estrarladal sottosuolo, sistemi informatizzati per controllarla, conoscerla, preve-derne le dinamiche.

Tutta roba che richiede organizzazione, capitali, conoscenza, e chedunque configura quello idrico come un servizio industriale. La filiera èestremamente complessa e internazionalizzata. I capitali che servono sonoingenti e non sempre (anzi quasi mai) lo Stato li ha a disposizione. Ilgestore deve essere un soggetto in grado di dominare la tecnologia, di ser-virsene in modo efficiente, di sostenere i costi che servono e solo quelli,deve essere credibile presso i mercati finanziari.

Deve questo significare per forza che deve essere “privato”? No, certa-mente. Anche perché i servizi idrici sono dei tipici monopoli naturali, enon possono quindi essere forniti in regime di mercato. Tuttavia il settoreprivato può essere coinvolto in molti modi – ciascuno dei quali richiedeche lo Stato sia capace di regolare in modo appropriato come la fornituradel servizio viene erogata, quali investimenti si fanno, quali costi si sosten-gono. Fondamentalmente si può fare con lo schema inglese del monopo-lio regolato (l’impresa opera in regime di monopolio, viene interamenteprivatizzata ma viene anche obbligata a sottostare a un complesso insiemedi regole che stabiliscono gli standard di prestazione da rispettare e disci-plinano la politica tariffaria); con lo schema francese della gestione dele-gata (la titolarità del servizio e degli impianti è del pubblico, che però ladelega a un privato scelto con una gara periodica); oppuremantenendo la gestione pubblica, ma adottandoun’organizzazione di tipo aziendale ed eventualmentericorrendo ad accordi con il privato per specifiche attività(ad esempio la gestione di un depuratore, la bollettazione).Ognuno di questi schemi presenta vantaggi e svantaggi,sui quali non possiamo qui soffermarci; ma nel mondonon esiste alcuna “one best way”.

Ma a prescindere dalla natura giuridica del gestore e delmeccanismo di regolazione, il punto fondamentale è chegestire i servizi idrici costa, e anche parecchio. Questocosto qualcuno lo deve pagare. Chi? Noi, per forza. Non esistono “pastigratis”. Tutto quello che non paghiamo noi – sia perché lasciamo deperireil “capitale naturale” sovrasfruttandolo, sia che lasciamo andare in malorale infrastrutture senza rinnovarle e fare manutenzione – lo pagheranno inostri figli, o altri usi che dovranno sacrificarsi. Ma dire “noi” non basta:

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Il gestore deve essereun soggetto in grado didominare la tecnologia,di servirsene inmodoefficiente, di sostenere icosti che servono e soloquelli, deve esserecredibile presso imercati finanziari.

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dobbiamo pagare come utenti del servizio (attraverso le tariffe) o comecontribuenti (attraverso le tasse pagate allo Stato e con le quali questofinanzierà le opere)? Come devono essere strutturate le tariffe, a metrocubo? In modo crescente con i consumi? Con una quota fissa uguale pertutti? Con una quota fissa dipendente da parametri reddituali o patrimo-niali (per esempio la superficie delle case, la rendita catastale)? Quantograndi devono essere gli ambiti tariffari? È giusto che gli abitanti dellacittà, dove il servizio costa meno essendo l’utenza concentrata, paghinoun po’ di più per consentire agli abitanti delle zone rurali di pagare un po’meno? Ciascuna modalità sottintende conseguenze precise in terminidistributivi (qualcuno starà meglio e qualcun altro peggio), ma l’unicavariabile indipendente è che il costo in qualche modo deve essere coperto.

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Certo, l’acqua non è solo una risorsa. È anche un bene essenziale. IlVangelo ci ammonisce a “dare da bere agli assetati”, cosa che potremmotradurre dicendo che ogni essere umano ha diritto ad accedere all’acqua, eche compito dello Stato è anche quello di garantire che questo diritto siaeffettivamente esercitato. Questo non significa però che debba essere gra-tuito. Nei paesi ricchi, in particolare, pagare l’acqua al suo costo pieno,senza dimenticare gli investimenti, ha un costo che difficilmente eccede lo0,5 – 1% del Pil. Un costo più che sopportabile, a patto che si trovi lamaniera di distribuirlo in modo equo. Per esempio, molti studi mostranoche la domanda è poco elastica al reddito, e dunque tariffe “a metrocubo”, ancor più se “a blocchi crescenti”, penalizzano soprattutto le fami-glie povere.

Il problema non è tanto quello di ribellarsi all’idea di pagare le tariffe epretendere l’acqua gratis in nome di non si sa bene quale diritto, ma sem-mai come ripartirne l’onere.

ConclusioniIn definitiva, attenzione alle facilonerie. L’acqua è un problema non

perché è scarsa, ma semmai perché è pesante, costosa da trasportare e ren-dere disponibile, e la nostra domanda è insaziabile, in particolare quandosi mette in moto la macchina dello sviluppo. Certe “guerre per l’acqua”sono inevitabili – in particolare, i perdenti predestinati saranno tutti colo-ro che sono stati abituati ad usufruirne in modo libero e incontrollato. Maaltre guerre, paventate da molti e amplificate dai media, non esistono chenella nostra fantasia. Il privato ci serve: senza il mercato, senza un approc-cio imprenditoriale attento a costi e ricavi, senza organizzazioni esperteche sappiano scegliere e usare le tecnologie, non andremo lontano e riu-sciremo solo a sprecare un sacco di risorse inutilmente. Dobbiamo peròabituarci all’idea che i servizi idrici sono servizi industriali e che il lorocosto deve essere pagato. E anche a valorizzare in modo costruttivo ilnostro ruolo di cittadini. Se le varie forme di regolazione del monopoliosono tutte imperfette, tutte hanno però da guadagnare dall’istituzione diun sistema di regolazione aperto, trasparente e partecipato.

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Francesca Pasqualiè docente presso la

Facoltà di Scienze

umanistiche

dell’Università di

Bergamo, dove insegna

Teorie della produzione

culturale e Teorie e

tecniche dei nuovi

media. Fra le sue

pubblicazioni: Breve

dizionario dei nuovi

media (con Giovanna

Mascheroni), Carocci,

Roma 2006; I nuovi

media fra tecnologia e

discorsi sociali, Carocci,

Roma 2003.

I media possono essere una grande e indispensabile risorsanella costruzione del bene comune in quanto “mobilitatori dicoscienze”, “strumentoperconoscerel’altrodasée immaginarela possibilità di un noi”, “guardiani della democrazia”. A pattochesi attuinopolitichedi responsabilità edi cooperazionenellacondivisione delle risorse comunicative e nella vigilanza sullalibertàdi espressione.

Francesca PasqualiIInformazione.

Perché l’accesso non basta

l 12 dicembre 1974 veniva insignito del Premio Nobel per laPace il settantenne Seán MacBride. Figlio di uno dei più notileader nazionalisti irlandesi, MacBride aveva vissuto gli annidella Guerra Fredda “combattendo” sul fronte della cooperazio-ne internazionale, fino a insediarsi, negli anni Settanta, ai verti-ci dell’International Peace Bureau. Il suo discorso di ringrazia-mento, intitolato The Imperatives of Survival, è emblematico delsentire dell’epoca. Dedicato al tema della corsa agli armamenti edella pericolosa centralità degli apparati militari nei processi digoverno del mondo, il discorso riflette una serie di contrapposi-zioni tipiche di quegli anni: da una parte il potere e la ragion diStato, la bomba atomica con la sua (ir)razionalità da GuerraFredda, dall’altra le ragioni delle persone e la forza della mobili-tazione internazionale intorno al bene comune della pace. Inmezzo, a mediare, gli organismi sovrannazionali e un alleato percerti versi inaspettato: i media.

Vale la pena riportare per intero uno stralcio del suo discor-so: «Molti dei risultati delle più significative rivoluzioni scienti-fiche che ci sono state negli ultimi 30 anni sono state contro-produttive e pericolose, come ad esempio la bomba atomica.Però questa rivoluzione ha anche portato con sè anche alcuneconsapevolezze che ci possono aiutare a proteggere noi stessidall’atomica e da altri dispositivi di distruzione. L’avvento deimass media (radio e tv) unito a più elevati standard di istruzionesta dando alla pubblica opinione nel mondo una capacità di

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influenza decisamente rispetto al passato. Il pubblico può essere informa-to tanto sulla cronaca quanto sulle politiche. I governi non possono piùtenere a lungo nascoste al pubblico le loro azioni e le loro politiche. Nonpuò più esserci una cortina impenetrabile che possa prevenire il dif-fondersi di notizie e di commenti. La stampa, la radio la tv e i commenta-tori politici scavano in profondità nelle attività segrete dei governi edinformano la pubblica opinione. In cambio, informata e avvertita dellequestioni di gioco, l’opinione pubblica può organizzarsi e farsi sentire».

Citando l’impatto determinante che la rappresentazione mediale dellaGuerra in Vietnam aveva avuto nel mobilitare le coscienze dei cittadiniamericani, fino a indurre l’Amministrazione statunitense a ritirare le trup-pe, MacBride, con estrema chiarezza, individua nei media una risorsasociale indispensabile alla costruzione del bene comune.

I media come guardiani della democrazia, come mobilitatori dicoscienze, come strumento attraverso cui controllare il potere, ma ancheconoscere l’altro da sé, e immaginare la possibilità di un “noi”: premessanecessaria alla costruzione del bene comune. L’informazione come dirittoma anche come dovere, come necessaria condizione per l’esercizio dellacittadinanza laddove diventi parte dell’esperienza individuale e collettiva,nella reciprocità della comunicazione. Questo era l’auspicio di MacBride.

Pochi anni dopo, le parole pronunciate a Oslo dal premio Nobelavrebbero trovato un’ulteriore formalizzazione in un documento intitola-toMany voices, One world pubblicato nel 1980 dall’Unesco.

Meglio noto come The MacBride Report, dal nome del premio Nobelche aveva presieduto i lavori della commissione, Many voices, One worldsuscitò infinite controversie. Venne accusato di essere sbilanciato su posi-zioni, si potrebbe dire con lessico ormai desueto, “terzomondiste” e daalcuni Paesi furono considerate inaccettabili le direttive contenute nelreport in termini di governance dei media1. Nonostante le polemiche susci-tate e sebbene non sia mai stato ristampato (divenendo di fatto inattingibi-le agli studiosi fino alla ristampa, nel 2005, per i tipi Rowman andLittlefield), l’influenza del report McBride è stata enorme. A trent’anni didistanza, continua, infatti, a essere, nei suoi principi generali, il più impor-tante documento espresso dalla comunità internazionale sui media e sulruolo che essi dovrebbero rivestire nel mondo. Nei numerosi interventi chenegli anni successivi si sono prodotti a livello istituzionale sul tema dellagovernance dei media, è impossibile non sentire l’eco del report MacBrideladdove esprime, con estrema chiarezza, la necessità di concettualizare imedia come una risorsa fondamentale a livello individuale e collettivo,richiamando i diversi Paesi a politiche di responsabilità e di cooperazionenella condivisione delle risorse comunicative (ad esempio dal punto divista infrastrutturale) e nella vigilanza sulla libertà di espressione.

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Dal 1980 molte cose sono cambiate dal punto di vista geopolitico esociale: altre sono le paure collettive, i rischi, e i terreni di mobilitazioneinternazionale.

Anche i media sono cambiati: la rivoluzione digitale e internet, in par-ticolare, sembrano aver incarnato, nei fatti, gli auspici del reportMacBridenella direzione di una comunicazione mediale capace di mettersi al servi-zio del bene comune, e di diventare essa stessa bene di tutti.

La presenza di internet rende disponibile una molteplicità di fontiprima inimmaginabile (per orientamenti politici e culturali, appartenenzee geografie ecc.), incarnando il valore della pluralità mediale; blog, giorna-lismo dal basso, siti di social network e pubblici che sempre più frequente-mente diventano produttori di contenuti per la rete offrono un contralta-re forte e sempre più credibile ai contenuti dei “big media”. Soggetti chefino a poco tempo fa, a causa delle barriere di ingresso estremamente ele-vate del sistema dei media tradizionali, non avevano voce (o erano relega-ti a dimensioni squisitamente locali e comunitarie) possono ora esprimer-si nell’arena comunicativa globale.

Ancora più profondamente, poi, lo spirito del reportMacBride è incar-nato dal principio di collaborazione e di orizzontalità che informa moltaparte dell’agire comunicativo online, ispirato spesso all’idea della condivi-sione comunitaria delle proprie conoscenze e competenze: emblematici iprogetti comeWikipedia (l’enciclopedia online creata dall’intelligenza col-lettiva degli stessi utenti), o lo svilupparsi delle licenze Creative Commonsche gestiscono i diritti privati d’autore e di copyright secondo la filosofia

del bene comune, rimandando infatti fin dal nome aiCommons che, nel diritto inglese, erano terreni privati uti-lizzati però dall’intera comunità per alcuni scopi come ilpascolo o la raccolta di legna.

Eppure, per quanto lo sviluppo di internet e dei mediadigitali abbia moltiplicato, nei fatti, le occasioni di parteci-pazione attraverso e ai media, rimangono molti aspetti suiquali riflettere. Molti degli entusiasmi che portano a para-gonare la nostra epoca, l’epoca dei media digitali, a unasorta di età dell’oro della partecipazione in cui i media sonodiventati, finalmente, di tutti, devono essere mitigati.

Sul piano dei media più tradizionali gli ultimi annihanno visto, ad esempio, il prodursi di rilevanti processi di

concentrazione delle proprietà a livello globale, e di standardizzazione cul-turale (nei contenuti e, ancora più emblematicamente, nelle forme). Nelcontempo gli osservatori internazionali denunciano i crescenti attacchialla libertà di stampa, anche nei Paesi democratici.

Certamente, si è già rilevato, c’è internet che compensa il deteriorarsi

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La rivoluzione digitalee internet sembrano

aver incarnato, nei fatti,gli auspici del report

MacBride nelladirezione di una

comunicazionemedialecapace di mettersi al

servizio del benecomune e di diventare

essa stessa bene di tutti.

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del sistema dei grandi media istituzionali: istituendo nuovi spazi di parte-cipazione, di relazione e di cittadinanza digitale, e offrendosi come luogoin cui cercare informazioni alternative, approfondire e scambiare cono-scenza. Questo è vero – è bene ricordarlo – solo in misura minoritaria enon senza ambiguità, perché internet è di fatto ancora una realtà perpochi, e perché solo una minoranza di coloro che accedono alla rete lofanno aderendo all’ideale della costruzione della cittadinanza e del benecomune.

Nel 2000 laMillennium Declaration delle Nazioni Unite individuava –in continuità con lo spirito del report MacBride – la necessità di assicura-re che «le tecnologie dell’informazione e della comunicazione fossero adisposizione di tutti», al fine di «sostenere lo sviluppo, debellare lapovertà, e diffondere i valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleran-za, rispetto per l’ambiente e condivisione delle responsabilità».

In quella stessa occasione, però, le parole indirizzate all’assemblea dal-l’allora Segretario Generale, Kofi Annan, sottolineavano l’impressionantesperequazione che ancora esisteva nel mondo nell’accesso e nell’uso deimedia e delle tecnologie informatiche, ricordando come vi fossero «piùcomputer negli Stati Uniti che in tutto il resto del mondo e in tutto ilcontinente africano tante linee telefoniche quante nella sola Tokyo».

Parole che lasciavano poco spazio a facili entusiasmi, evidenziandoperaltro come gli auspici della commissione MacBride fossero stati, se nonaltro sotto il profilo dei media digitali, ampiamente disattesi. Internet, chenel corso degli anni Novanta era stata esaltata come medium democraticoe accessibile a tutti, svelava, senza ombra di dubbio, la propria dimensio-ne elitaria, e il suo essere per pochi. Nell’infinita sperequazione infrastrut-turale fra Tokyo e l’intero continente africano si rendeva emblematica-mente palese come l’idea che le tecnologie della comunicazione fosserouniversalmente diffuse, oltre che automaticamente orizzontali e democra-tiche, fosse semplicemente un’utopia.

Da allora il tema del divario nell’accesso ai media e alle telecomunica-zioni ha conquistato crescente spazio nell’agenda degli organismi interna-zionali, dei governi, del settore privato e della società civile. Le occasionidi confronto sul tema (a livello locale, nazionale e internazionale; unilate-rali o multilaterali; promosse dal settore pubblico, privato o dalla societàcivile) si sono succedute numerose, fino al World Summit on theInformation Society (WSIS, Ginevra 2003, Tunisi 2005) il cui obiettivodichiarato – così come è stato definito dall’Assemblea Generale delleNazioni Unite nel dicembre 2001 – è stato quello di promuovere «unavisione e comprensione condivisa della società dell’informazione al fine dielaborare politiche di azione comune da adottare da parte dei governi,delle istituzioni internazionali e della società civile», atte a garantire a tutti

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l’accesso alle risorse informative.Altri quattro anni sono passati dal WSIS di Tunisi e certamente molte

cose sono migliorate dal punto di vista dell’accesso alle tecnologie dellacomunicazione, soprattutto grazie alla possibilità di connettersi usando lereti di telefonia mobile, decisamente meno costose da costruire di quellefisse in luoghi totalmente privi di infrastrutture comunicative preesistenti.

Tuttavia, se dal punto di vista infrastrutturale e numerico si procede,sia pure faticosamente, verso l’obiettivo di rendere l’accesso ai media unbene comune, nuove domande sorgono sul fronte degli usi di internet edei media digitali.

È questo il secondo punto su cui è bene confrontarsi, al di là delle reto-riche imperanti circa la democrazia della rete e la partecipazione comechiave distintiva dei media digitali. Concentrare l’attenzione solo sull’ac-cesso ai media digitali sarebbe, infatti, in questa prospettiva, fatale perchèè sul piano dei loro usi reali che si dà concretamente la possibilità che essidiventino un bene comune: la questione è, dunque, quella degli usi attua-li e, più insidiosamente, degli usi prospettati dalle politiche di sviluppo edalle azioni di governance.

Una rapida occhiata ai dati sull’utilizzo di internet, infatti, rivela comesia piuttosto ingenuo ipotizzare che fra coloro che vi accedono dominil’idea della rete come luogo di esercizio dei diritti di cittadinanza o dicostruzione dell’opinione pubblica. È difficile sostenere infatti (anche contanta immaginazione) che l’internet di massa – quella dei grandi marchi edelle performance virtuali degli adolescenti e degli adulti delle societàpost-industriali – sia di per sé un luogo di partecipazione alla costruzionedel bene comune, se non arrendendosi all’idea che l’unico bene comunerimasto sia quello del consumo di sé, di merci e di simboli.

Certo, gli aspetti partecipativi esistono; non si può non notare, però,come la rete piuttosto che un luogo dedicato in primo luogo a diffondere«i valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleranza, rispetto perl’ambiente e condivisione delle responsabilità» enunciati dall’Onu nellaMilleniun Declaration sia sempre più uno spazio colonizzato dai grandibrand e dall’egemonia del capitale.

Così, utopie a parte, la sfida principale di questi giorni, quella delinea-ta anche nei documenti conclusivi del WSIS (e preconizzata dal reportMacBride), è quella di garantire la molteplicità degli usi possibili di inter-net e dei media. Al di là delle retoriche omologanti della società del-l’informazione o della conoscenza (o peggio dello spettacolo), al di là digarantire il mero accesso ai media, la vera sfida è quella di salvaguardarnela differenza, sottraendosi alla tendenza dominante di immaginare un solomodello di sviluppo mediale: quello, anche in rete, commerciale dei gran-di marchi e dell’intrattenimento.

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Come sottolineano molti studiosi che hanno analizzato la documenta-zione e gli interventi prodotti all’interno di diversi forum di discussioneinternazionali, si tratta di un rischio tutt’altro che remoto, dato che vi èuna chiara tendenza trasversale (al di là dunque delle differenti posizioni edei diversi contesti di provenienza) a riconoscere e incoraggiare l’adozionedi modelli di sviluppo e uso dei media e di internet già esistenti, prestan-do poca attenzione al fatto che essi siano compatibili, ad esempio, con lediverse culture, tradizioni e bisogni locali. La strada intrapresa è troppospesso, infatti, quella di un semplice trasferimento ai Paesi emergenti e invia di sviluppo delle configurazioni mediali egemoniche nelle societàindustrializzate, sia rispetto alle tecnologie proposte che alla tutela, allaselezione e alla visibilità dei contenuti o alla loro fruizione.

In sintesi, quindi, anche laddove si lavori a che i media e le tecnologiedigitali diventino accessibili a tutti, resta forte il rischio che l’iniziale foca-lizzazione sui temi sociali – salute, diritti civili, istruzione ecc. – si traducain una relazione d’uso gerarchica e mercificata piuttosto che di cittadinan-za e partecipazione.

Molta strada è da compiere affinché gli auspici del report MacBride siavverino, sia in termini quantitativi (in riferimento all’accesso ai media)che qualitativi (in riferimento alla partecipazione ai e attraverso i media).Molto lavoro è necessario perché il portato più importante del report nonvada perso, e si affermi l’importanza di mantenere vive e distinte le “tantivoci” che compongono il mondo, cercando nel dialogo, più che nell’omo-logazione a un unico modello, la piattaforma di costruzione del benecomune.

Nota1Vale la pena ricordare che proprio quest’ultimo punto portò all’uscitadall’Unesco degli Stati Uniti, che contestarono il report MacBride, sostenendoche quello della comunicazione era da considerarsi un mercato come gli altri, incui limitare l’intervento pubblico e istituzionale.

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Il pacchetto sicurezza adottato dal governo italiano e ampia-mente anticipato durante l’ultima campagna elettorale, ha ria-perto prepotentemente nel nostro Paese la questione immigra-zione. Certamente ai più non sfuggirà la ciclicità con cui ildibattito sugli immigrati investe l’opinione pubblica nazionale,ma oggi siamo in presenza di alcuni elementi che inducono aun supplemento di riflessione. Da un lato non siamo di fronte auna vera e propria emergenza come quelle avute ad esempionegli anni Novanta con l’arrivo sulle coste pugliesi di cittadiniprovenienti dall’Albania. Dall’altro lato, però, abbiamo unapopolazione regolare che si attesta ormai oltre i 3 milioni di pre-senze, con una diffusione capillare su tutto il territorio naziona-le, alla quale si accompagna una presenza di cittadini stranieriirregolari non ben quantificata ma certamente superiore alle500mila unità. Se a ciò aggiungiamo anche il recente ingressonell’Unione Europea della Romania e il suo impatto in Paesicome la Spagna e l’Italia, è intuibile il senso di disorientamentoche in alcuni contesti si incomincia a percepire.

Non si tratta, però, come molti pensano, di una peculiaritàdel Belpaese visto che un po’ ovunque in Europa l’immigrazionesolleva preoccupazioni crescenti sul piano dell’identità, dell’oc-cupazione, dell’ordine pubblico, al punto da essere percepitacome una delle principali fonti di malessere sociale e, per questo,motivo di aggregazione e di mobilitazione politica1. In Europasono diversi i partiti che hanno raccolto in questi anni consensi

Oliviero Fortiè il responsabile

dell’Ufficio immigrazione

della Caritas Italiana.

Migranti. L’Europae la sua (in)coscienza

Quando simigra, non sono le diverse culture che si incontranoo si scontrano, ma le persone che ne sono portatrici. D’altraparte, nessun essere umano oggi ha elaborato un’unicamonolitica appartenenza, ma individui, gruppi e società sonoincessantemente obbligati a confrontarsi con orizzonticulturali in continuo cambiamento.

Oliviero Forti

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per le dure posizioni espresse in tema di immigrazione, a partire dalla Fpoin Austria, fino al Cud in Svizzera, al Fn in Francia, alla Lega Nord inItalia. Affermazioni nette come: «L’immigrazione è una minaccia allasovranità e all’identità nazionale»2 non costituiscono più semplici note dicolore ma chiari segnali che il sentire comune verso l’immigrazione stacambiando. In un articolo del giornalista egiziano Sherif el-Ghamri3 sirileva come i sentimenti di ostilità nei confronti del fenomeno migratorio,da appannaggio di una piccola minoranza, si stiano in molti casi diffon-dendo fino a diventare parte integrante delle politiche di governo in diver-si Paesi occidentali – e dell’Europa in particolare. Soltanto pochi anni fa,coloro che dichiaravano la loro ostilità verso l’immigrazione erano inEuropa una minoranza riconducibile a piccoli partiti o ad organizzazioniin genere di estrema destra. Ma le cose stanno visibilmente cambiando.Questo atteggiamento ostile sembra diffondersi anche tra le maggioriforze politiche. La recente dichiarazione del primo ministro britannicoGordon Brown, per cui «i posti di lavoro britannici sono per lavoratoribritannici», costituisce forse l’emblema di un clima ormai mutato.

Oggi gli immigrati rappresentano circa il 3,8% della popolazione tota-le dell’Unione4. Dal 2002 si registrano ogni anno tra 1,5 e 2 milioni diarrivi netti nell’Ue. L’1 gennaio 2006 soggiornavano nell’Ue 18,5 milionidi cittadini di Paesi terzi.

Si tratta evidentemente di un fenomeno che, al di là delle facili stru-mentalizzazioni a cui si presta, costituisce ormai, innegabilmente, unadelle priorità per tutti i paesi dell’Unione. Nonostante ciò si fa fatica a tro-vare spazi per una politica comune sull’immigrazione. Ne sia testimonian-za il recente scambio di accuse tra Madrid e Roma a seguito delle propo-ste contenute nel pacchetto sicurezza. È chiaro, almeno agli addetti ailavori, che la presa di posizione della vicepremier spagnola Maria TeresaLopez de la Vega, che ha etichettato la politica delle espulsioni forzateproposta dal governo Berlusconi come razzista e xenofoba, nasce più daltimore di un possibile spostamento dei flussi irregolari verso la penisolaiberica che non da mere valutazioni politiche.

Anche le pesanti critiche dell’allora ministro dell’interno franceseSarkozy, lanciate a Italia e Spagna nel 2005 per le operazioni di regolariz-zazione di cittadini extracomunitari, sono il segnale di come la stradaverso una politica comune su immigrazione e asilo in Europa sia ancoralunga e impervia.

Il paradosso a cui assistiamo è che l’immigrazione pur non essendoascrivibile al quadro concettuale dello Stato nazione, tuttavia non è inseri-ta organicamente in un sistema sopranazionale. L’Unione Europea, infat-ti, ha storicamente contribuito a mantenere una dimensione statuale delfenomeno migratorio favorendo relazioni multilaterali e federative piutto-

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sto che la costruzione di politiche comuni europee. Sino alla metà deglianni Novanta sono stati direttamente gli Stati, senza mediazione alcunadelle istituzioni comunitarie, a conformare le politiche dell’immigrazionein ambito europeo ispirandole a una rigorosa logica di difesa della sovra-nità. Fino al Trattato di Amsterdam, dunque, il nocciolo duro delle politi-che migratorie europee si è fondato su una base giuridica “estranea” perdefinizione alle competenze comunitarie5.

Con l’adozione del Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997ed entrato in vigore l’1 maggio 1999, l’approccio cambia. Le materie rela-tive a «visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la liberacircolazione delle persone», entrano a far parte del “primo pilastro”dell’Unione Europea, determinando il passaggio dal metodo intergoverna-tivo all’applicazione del diritto comunitario “sopranazionale”.

In seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, tuttavia, gli obiettivi ini-zialmente previsti dal Trattato di Amsterdam sono ridefiniti. La prioritàdella lotta al terrorismo impone maggiore attenzione e conseguentementemaggiori investimenti nel contrasto dell’immigrazione clandestina e alcontrollo delle frontiere esterne e colloca in secondo piano tutti gli altriinterventi.

Dunque la collaborazione tra gli Stati dell’Unione continua a esserepositivamente sperimentata soprattutto sul fronte della sicurezza, comedimostrano la creazione dell’agenzia Frontex che ha il compito di coordi-nare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestionedelle frontiere esterne con la relativa creazione di un fondo ad hoc o la pre-visione del fondo europeo per i rimpatri.

E proprio sul fronte dei rimpatri è recentissima l’approvazione da partedel Parlamento europeo, il 18 giugno 2008, della contestata “direttiva

ritorno” che dota i Paesi europei di un ulteriore strumento acarattere repressivo attraverso il quale, in particolare, è pos-sibile estendere la durata del trattenimento di cittadini stra-nieri senza documenti di soggiorno. Si è voluto in questomodo ribadire la sovranità dell’Europa rispetto alla sicurezzadei propri confini, così come non è stato fatto per altreimportanti questioni come la partecipazione politica degliimmigrati o l’accesso alla cittadinanza che sono, invece,ancora disciplinate esclusivamente dalle legislazioni nazio-nali molto spesso caratterizzate da accentuate differenziazio-ni. È una situazione che si potrebbe tradurre con lo slogan“uniti nella sicurezza, indipendenti sul resto”.

Peraltro, questo atteggiamento rischia di ingenerare chiusure da partedei Paesi di origine degli immigrati. Dal Gabon al Mali fino a diversiPaesi dell’America Latina la condanna alla direttiva è stata unanime. In

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In seguito agli eventidell’11 settembre 2001,la priorità della lotta alterrorismo impone

maggiore attenzione econseguentemente

maggiori investimentinel contrasto

dell’immigrazioneclandestina.

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una nota inviata al Parlamento europeo, alla vigilia del voto sulla diretti-va rimpatri, il presidente Boliviano Evo Morales ha sottolineato che «seconcepiamo il fatto che ogni Stato o gruppo di Stati può definire la pro-pria politica sull’immigrazione in piena sovranità, non possiamo accetta-re che i diritti fondamentali della persona siano negati (...). A queste con-dizioni, nel caso in cui la “direttiva rimpatri” venga approvata, ci trove-remmo nell’impossibilità etica di approfondire le negoziazioni conl’Unione Europea e ci riserviamo il diritto di applicare nei confronti deicittadini europei le stesse obbligazioni in materia di visti che vengonoimposte a noi boliviani dal primo di aprile 2007, sulla base del principiodiplomatico della reciprocità».

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Appare evidente, dunque, l’assenza di una politica europea complessi-va sul tema dell’immigrazione, se non esclusivamente negli ambiti delcontrollo delle frontiere e della repressione dell’immigrazione clandestinae irregolare.

Questi esiti, però, come ha sottolineato la stessa Commissione6, nonsono sufficienti. Occorre una strategia comune, che si basi sui risultati giàconseguiti e miri a costituire un quadro più omogeneo e immediato perl’azione futura degli Stati membri e dell’Ue.

C’è bisogno di una visione più ampia che riesca ad emanciparsi dall’i-dea che l’azione comune possa essere sperimentata positivamente solo sudeterminati temi legati alla dimensione lavorativa dell’immigrazione e allasicurezza. Al di là del potenziale economico, infatti, l’immigrazione puòarricchire le società europee anche in termini di diversità culturale. Ilpotenziale positivo dell’immigrazione, però, può essere sfruttato soltantocon un’integrazione riuscita nelle società ospiti. Ciò richiede una strategiache tenga conto non solo dei benefici per la società ospite, ma anche degliinteressi degli immigrati.

L’integrazione, dunque, costituisce la vera sfida per l’Europa e, comeevidenziato nel recente documento di Caritas Italiana sull’integrazione(Un futuro possibile), essa va intesa come un processo impegnativo e dilunga durata, con molteplici componenti e fattori, che mira a stabilire tratutti i membri di una società, migranti inclusi, relazioni su base di ugua-

glianza, di reciprocità e di responsabilità. Quindil’integrazione è innanzitutto una questione di relazioni trapersone di diverse appartenenze e identità che condividonolo stesso spazio fisico, sociale, amministrativo e politico.Non sono dunque le diverse culture che si incontrano o siscontrano, ma le persone che ne sono portatrici. D’altraparte, nessun essere umano oggi ha elaborato un’unicamonolitica appartenenza, ma individui, gruppi e societàsono incessantemente obbligati a confrontarsi con orizzonticulturali in continuo cambiamento7.

L’esigenza, dunque, di addivenire a un approccio olisti-co, che ricomprenda tutti i numerosi aspetti del fenomeno

migratorio, diventa un nodo cruciale. Per favorire questo processo laCommissione europea, il 18 giugno 2008, ha adottato la comunicazioneUna politica d’immigrazione comune per l’Europa: principi, azioni e stru-menti e il Piano strategico sull’asilo-Un approccio integrato in materia di pro-tezione nell’Unione europea. Si tratta di dieci principi comuni che laCommissione pone a fondamento della politica d’immigrazione comune,e li raggruppa intorno a tre assi principali della strategia europea: prospe-rità, solidarietà e sicurezza.

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L’immigrazione puòarricchire le societàeuropee anche intermini di diversità

culturale. Il potenzialedell’immigrazione può

essere sfruttato soltantocon un’integrazione

riuscita nellesocietà ospiti.

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I dieci principi comuni si fondano sui capisaldi del Consiglio europeodi Tampere del 1999, sul programma dell’Aia del 2004 e sull’Approccioglobale in materia di migrazione varato nel 2005. Ciascuno trova espres-sione concreta in un elenco non esaustivo di azioni da attuare a livello diStati membri o di Unione Europea e insieme coprono l’ampio spettrodelle politiche migratorie. Il piano strategico sull’asilo, invece, definiscel’architettura della seconda fase del sistema europeo comune d’asilo8.

Le prospettive di fondo del piano strategico sono condivisibili nellamisura in cui affrontano l’asse della prosperità non solo a partire dall’im-migrazione per motivi di lavoro, ma focalizzando l’attenzione anche sullealtre categorie di migranti. Peraltro la previsione contenuta nel documen-to circa i mezzi per l’ingresso e il soggiorno legale nell’Ue su base tempo-ranea o permanente è questione non più rinviabile in quanto solo unacorretta gestione dei flussi può aiutare l’immigrazione legale e decompri-mere l’irregolarità. In una nota di Caritas Italiana, presentata al GovernoAmato nel 2007, si ribadiva questo concetto affermando che in Italia«serve una rimodulazione del sistema al fine di renderlo più realistico erispondente alle esigenze del mercato del lavoro». In sostanza, se si creanocondizioni più favorevoli per l’ingresso regolare, certamente si potràridurre la base di irregolarità, soprattutto quella prodotta da chi entrandocon un visto per breve periodo poi si ferma oltre il tempo necessario e nonè in grado di convertire il relativo permesso in uno per motivi di lavoro.

È certamente da accogliere con favore anche l’impegno a promuoverel’integrazione degli immigrati legali, nonostante il timore di trovarci perl’ennesima volta di fronte a una mera dichiarazione d’intenti alla qualenon seguiranno azioni concrete. Nel piano strategico si fa riferimento a«una politica d’immigrazione comune basata sulla solidarietà tra gli Statimembri sancita dai trattati comunitari. Solidarietà e responsabilità sonoessenziali in un settore in cui le competenze sono condivise tra laComunità Europea e gli Stati membri. Il successo di questa politicacomune è possibile solo grazie a un impegno comune. Gli Stati membrihanno contesti storici, economici e demografici diversi tra loro che nedeterminano le politiche d’immigrazione, ma queste hanno evidentemen-te un impatto al di là delle frontiere nazionali e pertanto nessuno Statomembro può controllare o gestire efficacemente da solo tutti gli aspettidell’immigrazione; di conseguenza, le decisioni che possono influenzaregli altri Stati membri devono essere coordinate»9.

La necessità di prevenire e ridurre l’immigrazione illegale costituisce ilterzo asse su cui si fonda la proposta di una politica d’immigrazionecomune per l’Europa. L’aspetto che più di altri va evidenziato è non tantola gestione integrata delle frontiere, ma la garanzia di un accesso agevole acoloro che hanno i requisiti per entrare e ancor di più l’enfasi che viene

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data al lavoro irregolare quale fattore di attrazione per l’immigrazione ille-gale. Non sembra infine superfluo il richiamo che nel documento vienefatto circa il rispetto che queste misure e politiche devono garantire piena-mente circa la dignità, i diritti e le libertà fondamentali delle personecoinvolte.

È quindi un segnale chiaro a tutti i Paesi dell’Unione che l’Europa habisogno di una visione strategica comune, che si basi sui risultati passati emiri a costituire un quadro più omogeneo e integrato per l’azione futuradegli Stati membri e dell’Unione Europea10. L’immigrazione è un’oppor-tunità e una sfida. Se gestita come si deve, è fonte di ricchezza per le

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nostre società ed economie. In un’Europa senza frontiere interne, gli Statimembri e l’Unione devono agire secondo una visione comune. Questo è ilpresupposto per gestire l’immigrazione legale e l’integrazione e per lottarecontro l’immigrazione clandestina, pur continuando a sostenere valoriuniversali come la protezione dei rifugiati, il rispetto della dignità umanae la tolleranza11.

Note1Cfr. I. Diamanti, F. Bordignon, Immigrazione e cittadinanza in Europa,Fondazione Nord Est, rapporto del 2005.2Dichiarazione di Jean Marie Le Pen, Presidente del partito francese Fronte nazio-nale, Palermo 4 giugno 2007.3Da Arabnews.it del 4 febbraio 2008.4Questa cifra si riferisce alla percentuale della popolazione dell’Ue costituita dacittadini di Paesi terzi: va tenuto presente che molti di costoro non sono immi-grati, ma discendenti di immigrati che non hanno acquistato la cittadinanza delPaese di residenza.5B. Caruso, “Le politiche di immigrazione in Italia e in Europa: più Stato e menomercato?”, in Il diritto del mercato del lavoro, 2000, 2.6Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, alComitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Una politicad’immigrazione comune per l’Europa: principi, azioni e strumenti, Bruxelles 17 giu-gno 2008.7Caritas Italiana, Un futuro possibile. Documento sull’integrazione di CaritasItaliana, giugno 2008.8Si veda: ec.europa.eu/italia/attualita/primo_piano/immigrazione_it.htm.9Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, alComitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Una politicad’immigrazione comune per l’Europa: principi, azioni e strumenti, Bruxelles 17 giu-gno 2008.10Dichiarazioni del Presidente della Commissione europea, Manuel Josè Barroso,18 giugno 2008.11Dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea, Jacques Barrot,commissario responsabile del portafoglio Giustizia, libertà e sicurezza, 18 giugno2008.

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Franco Monacoè stato presidente

dell’Azione cattolica

ambrosiana e di “Città

dell’uomo”, associazione

di cultura politica fondata

da Giuseppe Lazzati.

È stato parlamentare

dell’Ulivo dal 1996

al 2008.

Un mondo realmente condiviso esige che si valorizzino sempredi più i luoghi e gli organismi del confronto e delle decisionipattizie. Un processo di integrazione che senz’altro chiede chesi investa sulle istituzioni sovranazionali e sullo sviluppo deldiritto internazionale, ma che ha bisogno dei tempi lunghidell’incontro e della convergenza.

NGovernare il mondo:

si può e si deve!

ella legislatura che si è chiusa prematuramente sono statomembro italiano dell’Assemblea parlamentare Nato, organo cheraccoglie una rappresentanza dei parlamenti dei ventisei Paesimembri dell’Alleanza. Ci sono finito per caso. Non è organoparticolarmente ambito. E tuttavia esso rappresenta (almeno loè stato per me) un osservatorio singolarmente interessante dellostato delle relazioni internazionali. Utile, in particolare, a com-prendere, per esempio, la recente crisi georgiana. Sulla scorta ditale esperienza personal-parlamentare, provo a mettere in fila,in forma telegrafica, qualche lezione che ne ho ricavato. Unasorta di decalogo.

La globalizzazione dei mercati, delle tecnologie, dei flussimigratori esige un’azione creativa e concreta volta a mettere apunto strumenti atti a “governare il mondo”. Impresa difficile etuttavia ineludibile.

A questo fine, si deve investire sulle istituzioni sovrannazio-nali. La realistica considerazione che le sovranità nazionali nonbastano (per governare il mondo) e tuttavia ancor oggi esse lar-gamente la fanno da padrone, suggerisce di valorizzare quellesedi/luoghi ove si ragiona e si decide in forma pattizia. L’op-posto dell’unilateralismo.

Conosciamo la fatica e talvolta la paralisi prodotta da proce-dure di decisione che presuppongono l’unanimità. In particola-re, per quanto attiene all’Onu, è da tempo in agenda il proble-ma di una sua riforma che miri a un doppio obiettivo: farla più

Franco Monaco

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operativa-efficace e, insieme, più largamente democratico-rappresentati-va. Anche qui: impresa ardua. Ma di sicuro la strada non può essere quel-la, adombrata da qualche neoconservatore Usa, di sostituire l’Onu conuna “Lega delle democrazie” certo più omogenea ma inesorabilmente diparte (occidentale) che escluda grandi Paesi pur effettivamente lacunosisul piano dei diritti e della democrazia. Una scorciatoia che, nel miglioredei casi, lascerebbe irrisolto il problema del “governo del mondo”.

La difesa è tuttora un bene pubblico e un compito irrinunciabile degliStati e della comunità internazionale. Nel tempo storico che ci è dato divivere, i rapporti di forza, anche militare, contano. Certo, l’umanizzazionedel mondo contempla la tensione a spostare l’equilibrio forza-politi-ca/diritto nella direzione del secondo corno. Ma, ahimè, la forza a soste-gno del diritto e per difendersi dall’ingiusto aggressore sarà, purtroppo,sempre necessaria.

Ragioni etiche e interessi politici prescrivono a ciascun Paese di fare lapropria parte, di assumere la propria responsabilità (con oneri e costi)dentro la comunità internazionale. Sia perché non è giusto gravare tutto esolo sulle spalle di altri, sia perché, dentro la comunità internazionale, si èrispettati e si ha peso nelle decisioni comuni nella misura degli impegni edei rischi che si è disposti ad assumere. L’Italia, poi, è obbligata a questoda un preciso vincolo e principio costituzionale fissato nel lungimiranteart. 11. Ove non solo si ripudia la guerra quale mezzo per la risoluzionedei conflitti, ma, contestualmente, ci si impegna a cedere quote della pro-pria sovranità (non è cosa da poco!) a organismi internazionali dediti allapace e alla giustizia.

Ad assicurare un principio di multilateralismo decisiva è l’Europa.Nessuna nostalgia per il bipolarismo assicurato dall’equilibrio del terrore,nessuna simpatia per l’unilateralismo Usa. Ma perché l’Ue assurga adattore globale dentro un mondo finalmente multipolare si richiedonomolti condizioni tutt’altro che acquisite: un suo più definito assetto istitu-zionale (Trattato di Lisbona), meccanismi decisionali più efficaci (esten-sione del voto a maggioranza), volontà politiche meno ossessionate dal-l’interesse nazionale.

C’è poi il capitolo Nato. Alleanza per la difesa dei paesi occidentaliconcepita contro l’Urss e che ora deve inventarsi una nuova missione. Sene sta discutendo: lo si chiama “nuovo concetto strategico”. Si oscillainfatti tra la continuità ottusa e acritica di una Nato contro la Russia(essendosi dissolta l’Urss) e la proliferazione anarchica di compiti e richie-ste di intervento che semmai testimoniano incertezza e smarrimento circala sua missione specifica.

Complice il maldestro unilateralismo dell’amministrazione Bush, cheha galvanizzato l’Usa nel suo ruolo di unica grande potenza dopo la pre-

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sunta fine della Guerra Fredda, la Nato ha allargato i suoi confini a Est,sino alla promessa di farvi accedere Georgia e Ucraina. Acuendo nellaRussia la sindrome da accerchiamento. Di qui la crisi georgiana e i suoieffetti sui apporti Usa-Russia, con l’Europa a fare da mediatri-ce/moderatrice.

Sotto questo profilo, la gestione del dopo Guerra Fredda non ha bril-lato per saggezza. Si è pensato di poter profittare della sconfitta e del falli-

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mento dell’Urss. E si sono incoraggiate spinte particolaristiche e naziona-listiche nei territori un tempo suo dominio. Contro il sano universalismodegli Stati democratici plurietnici si è accarezzato il pelo ai nazionalismi.In nome di un malinteso principio di autodeterminazione dei popoli ci siè precipitati a riconoscere la costituzione di Stati monoetnici. Ad ognipopolo uno Stato, con il conseguente problema della discriminazionedelle minoranze etniche interne. Dalla Croazia al Kosovo, di cui si èimprudentemente riconosciuta l’indipendenza. Difficile poi spiegare airussi perché la cosa non valga per l’Ossezia a maggioranza russa.

L’esperienza storica insegna che i processi di integrazione e le istituzio-ni internazionali si sviluppano all’insegna del gradualismo. Una voltachiarita e tenuta ben ferma la meta (multilateralismo mirato a pace e giu-stizia internazionale) il percorso è inesorabilmente processuale, conosceavanzamenti e regressioni. Si richiedono perciò lungimiranza e pazienza,visione e pragmatismo. Conducono fuori strada tutte le soluzioni e le sug-gestioni che vorrebbero tutto e subito, che si illudono di tagliare conl’accetta nodi complessi, che adombrano la via spiccia delle scorciatoie. Afare semmai da bussola deve essere il motto degli statisti secondo il quale“la via breve è la via lunga” a dispetto delle apparenze.

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Èun dato di fatto che lo scenario in cui ci muoviamo si è dila-tato enormemente. La globalizzazione è un fatto che si imponecome determinante gran parte degli aspetti della vita comune, equesto “fatto” si è cercato di assumere e attraversare nei prece-denti contributi del “Dossier”, così da comprenderne i rischi eda esplorarne le potenzialità.

Sono molte indubbiamente le questioni di ordine economi-co e legislativo che l’irreversibile interdipendenza e le ravvicina-te relazioni tra i popoli sollevano, ma sullo sfondo di questequestioni continuamente si riaffacciano più ampie implicazionidi senso che hanno a che vedere con la sfera dell’etica e dell’eti-ca pubblica.

Ripensare i fondamenti della vita comuneLa globalizzazione pone, infatti, la necessità di ripensare gli

stessi fondamenti della vita comune, e questo a motivo dell’am-pliarsi dello spazio comune, del moltiplicarsi di ciò che lega gliuni agli altri e della relativa esigenza che a ciascuno venga rico-nosciuto il diritto ad esserci (ad essere pienamente dentro que-sto spazio) con le proprie capacità e le proprie possibilità di svi-luppo. È la questione delle norme che tengono insieme gli esse-ri umani, norme che non possono più essere pensate in relazio-ne al singolo Stato, perché l’intreccio tra i destini dei popoli ètale che nessuno può pensare le scelte economiche e di politicaambientale, gli assetti politici, i criteri per l’amministrazione

Pina De Simoneè docente di Etica

generale e Filosofia della

religione presso la

Pontificia Facoltà

teologica dell’Italia

Meridionale di Napoli -

Sezione san Luigi.

Tra le sue pubblicazioni:

L’amore fa vedere.

Rivelazione e

conoscenza in Max

Scheler, San Paolo,

Cinisello Balsamo 2005;

La rivelazione della vita.

Cristianesimo e filosofia

in Michel Henry, Il pozzo

di Giacobbe, Trapani

2007.

Riconoscere

La via del bene

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Una rinnovata percezione del sensodell’umano, dell’eccedenzadell’umano e della dignità dell’uomo è ciò che può costituirel’orizzonte di senso e di valore di principi e norme capaci diorientareallaricercadel bene comune. Ladignitàdell’uomoè ilbene da “riconoscere” e da “condividere” che chiede di esserenuovamente postoal centrodell’etica pubblica.

Pina De Simone

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per condividere.

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della giustizia come se avessero incidenza unicamente nei confini del pro-prio Paese o potessero essere determinati in una assoluta autonomia dipercorso.

L’esigenza che si affaccia è quella di regole, di principi, che valgano perquesto spazio comune di vita più ampio dei confini degli Stati nazionali.È indubbiamente la questione del diritto internazionale, dei confini edegli ambiti entro cui far valere la sua possibilità di intervento, ma è anchee prima di tutto la questione di possibili riferimenti etici che fondino eorientino la formulazione delle norme positive, di quei “criteri etici comu-ni” la cui elaborazione è auspicata dalla Risoluzione dell’AssembleaGenerale delle Nazioni Unite sul dialogo interculturale (Agenda globaleper il dialogo tra le civiltà) varata il 9 novembre 2001 poco dopo la trage-dia dell’11 settembre. La ricerca del bene comune, e la possibilità di unasua concreta costruzione, esige di mettere in gioco un investimento moti-vazionale che non può essere soggetto a una coercizione legale.

Si tratta di una questione intricata che implica la complessa discussio-ne che attraversa l’età moderna sul rapporto tra diritto e morale. Le normeche regolano la vita comune tracciando i confini della giustizia hanno soloun carattere procedurale dal momento che indicano semplicemente “cosaè giusto fare” oppure esse sono in qualche modo relative anche a “cosa èbene essere”? E in termini più radicali, è possibile definire “cosa è giustofare” senza interrogarsi su “cosa è bene essere”? Su che cosa poggiano lenorme, che cosa ne legittima il valore, ci può essere un fondamentocomune, un riferimento essenziale che sia criterio discriminante in ordineal carattere vincolante della norma? Si può dare una base etica per la con-vivenza pur nell’indiscutibile “fatto del pluralismo” e nel politeismo deivalori? C’è un nucleo di diritti inalienabili e da che cosa deriva? Che cos’èche lo rende condivisibile e argomentabile?

Questioni di fondo apparentemente teoriche che ne richiamano moltealtre estremamente concrete e che soprattutto rilanciano i termini fonda-mentali della problematicità morale nel tempo della globalizzazione.

È in particolare intorno a due nozioni, responsabilità e riconoscimento,che questi nodi problematici si addensano, ed è in queste stesse nozioniche si può forse trovare la possibilità di dipanarne i fili, in una nuova pos-sibilità di comprensione delle dinamiche che appartengono alla costruzio-ne di una comune umanità.

La nuova nozione di responsabilitàCome Hans Jonas ha ampiamente messo in evidenza, la nuova nozio-

ne di responsabilità che si affaccia nell’oggi è quella di una responsabilitàglobale: responsabilità verso la Terra e verso le generazioni future, unaresponsabilità cui è chiesto di essere attenta alle minacce che nascono

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dagli esiti non previsti, specie di carattere cumulativo, dello sviluppo tec-nologico. L’etica non può occuparsi più esclusivamente dell’orizzonteimmediato, della prossimità delle azioni umane, ma deve sviluppare il suocontributo nella prospettiva del futuro, nella prospettiva della salvaguar-dia della possibilità stessa di una vita sulla Terra.

Responsabilità è la cura per l’altro, anche per quello che non conoscoo che ancora non c’è, perché all’altro io sono indissolubilmente legato,perché nell’assunzione consapevole di questo legame ne va del destinostesso dell’umanità.

Vengono alla mente le parole del Compendio della dottrina sociale dellaChiesa: la globalizzazione «ha un significato più largo e più profondo diquello semplicemente economico, poiché nella storia si è aperta una

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nuova epoca», la globalizzazione «riguarda il destino dell’umanità» (n.16). «La prima delle sfide più grandi, di fronte alle quali l’umanità oggi sitrova, è quella della verità stessa dell’essere-uomo. Il confine e la relazionetra natura, tecnica e morale sono questioni che interpellano decisamentela responsabilità personale e collettiva in ordine ai comportamenti datenere rispetto a ciò che l’uomo è, a ciò che può fare e a ciò che deve esse-re» (n. 16).

Mai come oggi c’è stata una consapevolezza tanto diffusa del legame diinterdipendenza tra i popoli, ma il processo di accelerazione dell’interdi-pendenza tra le persone e tra i popoli «deve essere accompagnato da unimpegno sul piano etico-sociale altrettanto intensificato, per evitare lenefaste conseguenze di una situazione di ingiustizia di dimensioni plane-tarie» (n. 192).

«La sfida insomma è quella di assicurare una globalizzazione nella soli-darietà, una globalizzazione senza marginalizzazione» (Giovanni Paolo II,Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1998). La sfida è nella curadel bene comune che implica la necessità di condividere il mondo. Il chesignifica cogliere e promuovere nuove occasioni di ridistribuzione dellaricchezza tra le diverse aree del pianeta (cfr. Compendio n. 363), ma ancherispettare la diversità delle culture, perché «la globalizzazione non deveessere un nuovo tipo di colonialismo» (Giovanni Paolo II, Discorso allaPontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001) e assumere ildovere della solidarietà tra le generazioni. «La solidarietà tra le generazio-ni», si legge ancora nel Compendio, «richiede che nella pianificazione glo-bale si agisca secondo il principio dell’universale destinazione dei beni,che rende illecito moralmente e controproducente economicamente scari-care i costi attuali sulle future generazioni» (n. 367).

Responsabilità, cura, solidarietà, recano in sé, dunque, l’esigenza diriconoscere l’altro, di accogliere e prendere sul serio il suo desiderio divita. Non è un caso che anche a livello di riflessione etica si insista semprepiù spesso oggi sul tema del riconoscimento.

I percorsi del riconoscimentoLa globalizzazione fa esplodere il problema della diversità, delle diver-

sità, nel momento stesso in cui le mette a stretto contatto tra loro con ilrischio di schiacciarle l’una sull’altra. Nuovi soggetti chiedono di entrarenello spazio della convivenza globale portando con sé l’esigenza di esserericonosciuti nella loro identità e nelle loro possibilità di sviluppo.

Ma che cosa significa riconoscere l’altro e che cosa determina tale rico-noscimento in ordine al destino comune dell’umanità? Nel suo bellissimotesto Percorsi del riconoscimento1 Paul Ricoeur sottolinea come il riconosci-mento sia sempre mutuo riconoscimento. Il riconoscimento di sé è un

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essere riconosciuto, esige che l’altro riconosca ciò che sono e di cui sonocapace. Nell’ordine sociale ed economico questo significa riconoscerequella che Amartya Sen chiama la “capabilità” dei soggetti, vale a dire illoro diritto ad agire, la loro libertà positiva, una capacità di agire che deveessere riconosciuta e garantita a livello politico e giuridico2.

Ora, poiché l’attestazione di sé, del desiderio e della possibilità di con-durre liberamente la propria vita, si configura prima di tutto come riven-dicazione, il riconoscimento ha in sé inevitabilmente una componente dilotta, è “lotta per il riconoscimento” come recita il titolo di un famosotesto di Axel Honneth3.

Nel nostro mondo condiviso e sempre più da condividere questa lottainveste non solo il piano teorico del diritto proclamato, ma anche e ancorpiù quello concreto delle possibilità garantite. Ciò di cui soffrono, infatti,in maniera particolare i cittadini di gran parte dei Paesi del mondo è ilcontrasto stridente tra l’uguale attribuzione di diritti e la diseguale distri-buzione di beni che di fatto impedisce totalmente o in parte l’esercizio deidiritti riconosciuti in teoria. Di qui il senso di frustrazione, il sentimentodi esclusione, l’umiliazione vissuta come lesione del rispetto di sé, maanche l’indignazione dalla quale può nascere la volontà di partecipazionea un processo di allargamento della sfera dei diritti soggettivi, la domandadi una responsabilità allargata.

La lotta per il riconoscimento assume poi particolare rilievo là dove sitratta di riconoscere l’identità di minoranze culturali, comeè nel caso di società multiculturali. È in relazione a talisituazioni che si fa strada l’idea avanzata da Taylor di una“politica del riconoscimento” che reca in sé l’esigenza di unriconoscimento singolarizzante sul piano collettivo. La poli-tica del riconoscimento è “politica della differenza” che vaoltre il principio di uguaglianza universale4.

E tuttavia ci si potrebbe chiedere come fa Ricoeur, se ladomanda di riconoscimento non rischi di apparire comeuna sorta di cattivo infinito, un desiderio senza possibileapprodo, qualora l’analisi si fermi al piano della conflittua-lità e la dinamica del riconoscimento sia pensata unicamen-te come lotta.

La proposta che viene da Ricoeur è quanto mai interessante e ricca disviluppi significativi: prendere in esame l’esperienza degli “stati di pace”,le esperienze di riconoscimento pacifico, perché in tali esperienze vi è lapromessa e la certezza che la motivazione morale delle lotte per il ricono-scimento non è illusoria e perché da tali esperienze emerge il senso dell’a-zione, dell’“azione che conviene”.

È in particolare l’esperienza del dono, con la logica che l’attraversa,

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che, per Ricoeur, aiuta a capire ciò che è in gioco nella relazione di mutuoriconoscimento. La logica del dono è radicalmente diversa da quella delloscambio commerciale. Ciò che determina la differenza di senso e di inten-zione rispetto allo scambio commerciale è la maniera in cui il dono vieneaccettato. La gratitudine è il marchio del “senza prezzo” sullo scambio didoni. Oltre la logica della reciprocità, essa rivela l’ineliminabile dissime-tria che contraddistingue il rapporto con altri.

«L’ammissione della dissimetria […] viene anzitutto a ricordare ilcarattere insostituibile di ciascuno dei partner dello scambio; l’uno non èl’altro; si scambiano i doni, ma non i posti. […] Questa ammissione […]protegge la mutualità contro le insidie dell’unione fusionale, sia cheavvenga nell’amicizia o nella fratellanza, tanto in scala comunitaria checosmopolitica»5.

La gratitudine riconosce nella non calcolabilità del dono l’eccedenzadell’altro, il suo essere senza prezzo, come il dono che viene scambiato ilcui valore è esattamente nell’esprimere la relazione di mutuo riconosci-mento. La gratitudine che è il riconoscimento nella sua forma più alta,reconnaissance de la reconnaissance, pone al centro del riconoscimentol’eccedenza dell’altro, il senso della sua irriducibile trascendenza che è ilsenso della sua dignità.

Ed è proprio una rinnovata percezione del senso dell’umano, dell’ecce-denza dell’umano e della dignità dell’uomo, non riducibile a logiche difunzionalizzazione o di forzata omologazione, ciò che può costituirel’orizzonte di senso e di valore di principi e norme capaci di orientare allaricerca del bene comune. La dignità dell’uomo è il bene condiviso e dacondividere che chiede di essere nuovamente posto al centro dell’eticapubblica, di quell’ethos globale di cui la globalizzazione ha bisogno inun’epoca, come la nostra, in cui ciò che è in gioco appare sempre di più ildestino dell’umanità e del suo mondo.

Note1P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.2A. Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2002.3A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, ilSaggiatore, Milano 2002.4C. Taylor, “La politica del riconoscimento”, in J. Habermas, C. Taylor, Lotte peril riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 6-92.5P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005,p. 289.

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Scienza e fede,binomio possibile

L’animosa scia di scritti antiteistici e, più spesso, anticattolicitesi a dimostrare l’incompatibilità tra scienza e fede, trovaforse origine in certi atteggiamenti e prese di posizione dellaChiesa? È una domanda che deve interrogare particolarmente ifedeli laici, che ben sanno come sia possibile conciliare lostudio della natura con la fede nel suo Creatore. Di lui essa ciparla: Dio si rivela in ciò che conosciamo

Giovanni Bachelet

Un professore di fisica che non abbia non dico impartito maneppure mai seguito corsi di filosofia della scienza o diteologia (fatto di cui vergognarsi, non vantarsi), se invita-to ad esprimersi su scienza e fede o sull’esistenza di Dio di

fronte alla ragione, può solo fare appello a ricordi: dialoghi, interroga-tivi, riflessioni maturate fra l’infanzia e gli anni della ricerca e dell’inse-gnamento.

Nell’ultimo libro (Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia2008) Scoppola, a proposito della sua formazione presso l’IstitutoMassimo dei gesuiti, narra che «la fede era qualcosa di solidissimo eindiscutibile, era presentata come un ponte a tre archi. Il primo arcoera la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, una dimostrazioneinconfutabile, le cinque prove di Tommaso variamente rielaborate, mala sostanza era quella».

La mia generazione, che ha fattole elementari durante il Concilio, èstata probabilmente l’ultima adessere sfiorata da un simile approc-cio. Ricordo, alle medie, un pretebravo e molto colto che, basandosisulla minuscola probabilità chemilioni di atomi possano combi-narsi spontaneamente per formareuna molecola di materia vivente,

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Giovanni Bacheletè professore ordinario di Fisica

all’Università “La Sapienza” di Roma, ha

lavorato negli Stati Uniti, in Germania,

alla Normale di Pisa e a Trento. Ha

collaborato al Progetto Culturale della

Cei. È stato vicepresidente della

Società Biblica in Italia. Oggi è deputato

e fa parte dell’Assemblea Nazionale e

della Direzione del PD.

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aveva suggerito, in un’omelia, la necessità di un atto creativo divino nelpassaggio dalla materia alla vita. L’argomento scientifico mi aveva col-pito e l’avevo riferito a papà. Dopo avermi ascoltato con attenzione,papà aveva con garbo osservato che, quand’anche la loro combinazionefosse avvenuta spontaneamente, sarebbe sempre rimasta da spiegarel’origine degli atomi. Non era chiaro, quindi, se valesse la pena di sco-modare il Padreterno anche per l’assemblaggio della prima molecolavivente. Già sant’Agostino, milleseicento anni prima, aveva segnalato(nel De Genesi ad litteram, ho scoperto poi) che il nocciolo della que-stione doveva trovarsi in un unico atto creativo iniziale di Dio: su simi-li argomenti la Bibbia non andava intesa letteralmente (approccioahimé dimenticato dalla Chiesa, molti secoli dopo, con Galileo), e sipoteva quindi, senza alcun pericolo per la fede, immaginare che lacapacità di evolversi fosse insita nel mondo, creato una volta per tutte“all’inizio dei tempi”. Del resto Dio, anziché creare uno per uno gliuomini e le donne di tutti i tempi, aveva affidato alla prima coppia ilgioioso compito di completare l’opera della sua creazione, popolandola Terra. Non molto tempo fa, nell’articolo «Evoluzione e creazione:una falsa antinomia» a firma Gianfranco Ravasi (Osservatore Romano,10/6/2008) e nel saggio di Fiorenzo Facchini ivi recensito, ho ritrovatoconcetti e riferimenti che confermano quanto appreso quarant’anniprima da papà: scoprire le formidabili capacità del creato attraverso lascienza non toglie nulla alla fede. Papà aveva aggiunto che lo stupore difronte all’armonia e alla perfezione del creato poteva essere di aiuto, mala base primaria della fede in Dio non era una costruzione razionalisti-ca, bensi l’incontro con Gesú, la sua chiamata, la sua grazia: «Non voiavete scelto me, ma io ho scelto voi...».

Era questa l’aria che tirava a casa mia, e anche dagli scout, subitodopo il Concilio. Avevo quattordici anni ed ero al mio secondo campoad Alfedena quando, il 21 luglio 1969, l’astronauta Neil Armstrongusci dal modulo lunare e toccò il suolo della luna. Tutto il mondoseguiva l’evento in televisione, ma non noi, seduti attorno al fuoco. Almomento di andare in tenda a dormire, prima della benedizione, ilnostro assistente don Franco Teani parlò dello sbarco sulla luna.Cominciò lodando il Signore con tutte le sue creature, come SanFrancesco: cielo sole luna e stelle, acqua e vento fra gli alberi, erba efiori; ci fece poi osservare che in un certo senso (lo diceva anche SanFrancesco nel Cantico) era natura anche il fuoco intorno al quale ave-vamo cantato.

A pensarci bene, allora, era natura anche la tenda in cui dormiva-mo; era natura anche l’aereo che in quel momento solcava il cielo sopradi noi, sfidando la notte con le sue luci e la legge di gravità con i moto-

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ri a reazione; era natura anche la navicella spaziale che di lí a poche oreavrebbe consentito per la prima volta ad un uomo di mettere piedesulla luna: perché il capolavoro della natura era appunto l’uomo, alquale il Creatore aveva dato la capacità di comprenderne le leggi e pie-garle a proprio vantaggio, insieme alla libertà di farne buono o cattivouso. Prima del canto finale e della benedizione ci lesse il Salmo 8, checomincia con le parole: «O Signore, quanto è grande il tuo nome sututta la Terra!», e dice poi: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai stabilito, che cosa è l’uomo perché te nericordi? Il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Eppure l’hai fatto pocomeno degli angeli e l’hai coronato di gloria e di onore: gli hai datopotere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi...»

Erano anni di pace dopo una terribile guerra; anni di sviluppo eco-nomico e grandi conquiste della scienza e della tecnica; anni di ottimi-smo, gioia e speranza. Gaudium et spes era il titolo dell’ultima costitu-zione del Concilio, nella quale, fra l’altro, venivano riconosciuti il valo-re e l’autonomia della scienza (e in generale del sapere e dell’arte): com-prendere il funzionamento e l’equilibrio del creato, utilizzarne le risor-se, migliorare la qualità della vita di tutti gli uomini, non apparivanosfide blasfeme o pericolosi attentati alla natura, ma risposta ad un com-pito ricevuto dal Creatore. Tale ottimismo non era ignaro dei pericoli,gravissimi, insiti nel progresso (l’atomica aveva già devastatoHiroshima e Nagasaki); ma forse proprio su alcune positive esperienzeeconomiche e politiche del dopoguerra, nelle quali molti cristiani ave-vano creduto, dando un contributo non secondario (la Costituzioneitaliana, la costruzione dell’Europa, le Nazioni Unite, la Carta deiDiritti dell’Uomo), sembrava fondarsi la fiducia nella responsabilitàdei laici e nella collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà,credenti e non.

Con queste premesse, più esistenziali che filosofiche, conciliare fedee scienza mi è sempre parsa cosa normale e tranquilla, e quindi sceglie-re fisica all’università una delle possibili, entusiasmanti vocazioni di uncristiano: una zia era fisica, uno zio ingegnere, un bisnonno matemati-co, e, che io sapessi, a nessuno di loro la Chiesa aveva mai chiesto dicredere che la Terra sia al centro dell’universo e il Sole le giri intorno.

Per questo motivo, quando nei primi anni di pontificatoGiovanni Paolo II promosse una specie di riesumazione del casoGalilei (mi trovavo allora all’estero a fare ricerca), l’iniziativa mi colsedi sorpresa: ero convinto che da anni, nella mia Chiesa, fosse pacifi-camente riconosciuto che essa aveva preso un granchio, mentreGalileo, dicendo che «la Scrittura non ci insegna come vada il cielo,ma come si vada in Cielo», aveva sostanzialmente indovinato; in

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linea, del resto, con quanto suggerito da sant’Agostino sull’interpre-tazione non letterale della Genesi.

Per lo stesso motivo, quando leggo o ascolto le bordate antiteistiche(a volte solo anticattoliche) di amici e colleghi come Margherita Hack,Piergiorgio Odifreddi o Paolo Flores d’Arcais, o scorro il sito webdell’UAAR (Unione Atei e Agnostici Razionalisti) e trovo uno studen-te della Sapienza che esprime disgustata meraviglia dopo la scopertache il suo professore di fisica, pur conosciuto come brava persona eottimo docente, è cattolico e non lo nasconde (parlava di me), mi vienepiù da sorridere che da arrabbiarmi. Questo tipo di posizioni mi ricor-da il “materialismo volgare” del Moleschott, secondo il quale, almenonella versione della mia professoressa del liceo, il pensiero era unasecrezione del cervello. Ancora di più richiama alla mia memoria, peranalogia, un racconto di mio padre sui democristiani veneti dei primianni del dopoguerra.

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E&IIn questo racconto un onorevole predecessore di Rumor, in campa-

gna elettorale, faceva intervenire ai suoi comizi (in incognito) un amicoche, col fazzoletto rosso al collo e fingendosi ubriaco, interrompeva ilcomizio bestemmiando, insultando la Chiesa e la DC, inneggiando alPartito Comunista e cantando Bandiera Rossa. A quel punto il pubbli-co lo cacciava con ignominia dalla piazza, portando in trionfol’onorevole democristiano. Analogamente il passaggio dall’anticlericali-smo alla tesi secondo cui il cattolico non può essere un vero scienziato(e viceversa) sembra fatto apposta per attirare sulla Chiesa simpatie diindifferenti ed atei devoti, e per costringere anche i cristiani più apertia serrare le fila.

Questo clima ci spinge infatti a difendere la profonda razionalitàdella dottrina cristiana e anzi la pienezza della sua conformità con lavera natura dell’uomo (il Concilio ci ha detto anche che Cristo rivelal’uomo all’uomo) e a sottolineare l’incompiutezza intrinseca dellascienza umana, per la quale il confine della conoscenza può essere spo-stato in avanti, ma mai rimosso (l’origine degli atomi di cui si parlavaall’inizio). Questa difesa, benché a volte doverosa, non sempre aiutaad illuminare e rendere comprensibile il nocciolo della fede a chi nonsia già convinto. Anzi a volte lo oscura: Bonhoeffer, in Resistenza eResa, diceva che «non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabu-chi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze; se infattii limiti della conoscenza continueranno ad allargarsi – il che è oggetti-vamente inevitabile – con essi anche Dio viene continuamente sospin-to via, e di conseguenza si trova in una continua ritirata. Dobbiamotrovare Dio in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo.Dio vuol essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quellerisolte». Anche la mia trentennale amicizia con colleghi che si dicononon credenti e m’interpellano sulla morte o sul perdono, sulla gioia osulla noia, suggerisce che a volte, perfino per i professori di fisica teo-rica, la ricerca del coraggio di vivere e del segreto di una vita serena,fanno venir voglia di approfondire l’insegnamento e la vita di Gesùpiù dell’apologetica razionalistica cristiana o delle questioni apertedella filosofia della scienza.

C’è comunque da domandarsi come mai una corrente anticlerica-le/antiteista che negli anni settanta, quando studiavo fisica, parevamarginale se non proprio estinta nella comunità scientifica (e tale mipare tuttora in sede internazionale) stia riprendendo quota in ambitonazionale. Come mai possa trovare udienza, nel nostro Paese, la tesi(fra l’altro insostenibile, considerando la percentuale degli scienziati oanche solo dei premi Nobel che si dichiarano credenti) dell’inconcilia-bilità fra autentica scienza e autentica fede religiosa.

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E&ILa mia impressione è che, certamente contro le loro intenzioni, il

frequente intervento in prima persona dei Pastori su temi al confine frascienza e tecnologia, specialmente riguardo alle scienze della vita e inconnessione con specifici provvedimenti legislativi, abbia alla lungasuggerito tristezza e scetticismo sulle conquiste della scienza e della tec-nica (anziché gioia e speranza) e poca fiducia nella responsabilità deilaici e nella collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà; e otte-nuto l’involontario risultato della ripresa di un’ostilità preconcetta alcristianesimo, e di un simmetrico stile muro-contro-muro da partedella Chiesa, del quale, nel nostro Paese, si era persa memoria e non sisentiva nostalgia. All’epoca della famosa lettera partita dal mioDipartimento della Sapienza, ho tentato invano di spiegare ad amici ecolleghi anticlericali che, come nel racconto veneto di papà, certe leva-te di scudi, a parte ogni giudizio di merito, si sarebbero alla fine risoltein una figuraccia per loro e per la Sapienza, non per il Papa; come poi èstato. E tuttavia sono rimasto con l’amaro in bocca: non mi è parsa unapagina allegra e costruttiva per nessuno dei protagonisti.

Quando la Chiesa addita come serissimi i problemi inediti dilibertà e responsabilità che le nuove tecnologie (più che la scienza) pon-gono all’umanità, dalla biologia alla telematica e l’informazione plane-taria, credo che abbia ragione. Non sono invece sicuro (e penso ancoraa quel fuoco scout con don Franco) che, a centinaia di migliaia di annidalla comparsa dell’uomo sulla Terra, sia ancora possibile separarenatura e cultura, attribuendo alla prima una realtà positiva e immuta-bile, alla quale magari, tornare con nostalgia. Tornare alla natura rifiu-tando cemento plastica automobili e magari anche vestiti, come sugge-rivano negli anni settanta hippies e protoambientalisti, novelliRousseau, o cercare di trarre dalla natura criteri oggettivi di bene e dimale (con ciò fatalmente tagliando fuori quanti non si riconoscononella nostra definizione di natura, o di retta coscienza) sembrano,almeno a chi lavora nel mondo aperto e pluralista della scienza, strademeno promettenti rispetto alla ripresa di un dialogo pubblico e aperto,nel quale nessuno è più uguale degli altri.

Chi non risica non rosica. Solo rischiando di essere battuti incampo aperto dagli argomenti dei propri interlocutori si può sperare diconquistarne, in campo aperto, il rispetto, l’attenzione, magari anche ilconsenso su nuove sintesi all’altezza delle sfide di un tempo nuovo.Solo con un dialogo aperto e uno sguardo fiducioso, capace di coglierele grandi opportunità del tempo in cui viviamo e non solo e semprepericoli guai ed errori, potranno venire alla luce gli immensi giacimen-ti d’intelligenza, fede, buona volontà nascosti nel nostro Paese e nelmondo, nella nostra Chiesa e al di fuori di essa.

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Se un anno fa si fosse chiesto ad un campione rappresentativo diitaliani dove si trova il Myanmar, è ragionevole prevedere chesolo una minoranza avrebbe dato una risposta corretta. Ci sonvoluti i due eventi drammatici delle dimostrazioni dei monaci

buddisti del settembre scorso ed il recente ciclone Nargis del 3 e 4 mag-gio per rendere meno ignoto il nuovo nome assegnato alla Birmanianel 1989 dalla giunta militare che governa il Paese dal 1962.

Il nuovo appellativo esotico e misconosciuto è emblematico dell’a-lone di mistero che circonda questo Paese e della scarsa attenzione pre-stata alle sue vicende da gran parte dell’opinione pubblica occidentale.È vero che negli ultimi anni si è registrato un crescente interesse turisti-co, grazie al notevole patrimonionaturalistico, etnico-culturale edartistico del Paese, ma si tratta pursempre di flussi limitati e di ridottainfluenza.

Un aspetto del Paese che colpi-sce anche il visitatore più superfi-ciale, è la estrema varietà dellapopolazione. In tutte le guide turi-stiche e documenti informativi èriportato che il Myanmar è lanazione col più elevato numero digruppi etnici, ne sono registrati ben

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Feliciano Monti

Myanmar,mondo perduto

L’ex Birmania, la sua gente e i suoi problemi nel racconto di unoperatoreumanitario. IlMyanmarnonè solo ferocedittatura,è terra di grandi risorse umane e culturali che meritano unfuturomigliore.

Feliciano Montiè unmedico marchigiano che da oltre

20 anni è coinvolto nel settore della

cooperazione allo sviluppo e degli aiuti

umanitari. Ha lavorato con Ong italiane,

europee e con organizzazioni

internazionali in diversi Paesi dell’Africa,

del Sud America, del Medio Oriente e in

particolare del Sud-Est Asiatico. Dal

2001 al 2003 ha collaborato col dottor

Carlo Urbani nell’ambito di programmi di

controllo della malaria in Vietnam e Laos.

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135. Ma tale ampia diversità di culture, lingue, religioni, tradizioni edinteressi ha rappresentato e rappresenta tuttora anche una sorgente dispinte centrifughe che in alcuni casi ha portato alla formazione digruppi separatisti armati ed a fenomeni di guerriglia.

Il gruppo etnico forse meglio conosciuto per le sue tendenze auto-nomiste e le sue azioni di guerriglia è quello Karen, ai confini con laTailandia. Ma non bisogna dimenticare che analoghe situazioni esi-stono anche in altre aree periferiche quali il Kachin, incuneato traCina ed India, il Rakhine ai confini col Bangladesh e lo Shan ai con-fini con la Cina.

Il regime militare cerca di giustificare la sua permanenza ininterrot-ta al potere da oltre quarantacinque anni presentandosi come una forzacapace di contrastare i movimenti indipendentisti ed assicurare l’unitàdel Paese, il cui nome ufficiale è “Unione del Myanmar”. Il paragonecol regime comunista instaurato da Tito nella ex-Jugoslavia è forsequello che meglio permette di comprendere la situazione birmana ed irischi di frammentazione a cui potrebbe andare incontro.

Questa presunta azione di prevenzione di una eventuale dissoluzio-ne del Paese è pagata però a caro prezzo dalla popolazione che vive incondizioni di stretto controllo, notevoli limitazioni delle libertà civili epolitiche, arretramento socio-economico e scarso coinvolgimento neiprocessi di sviluppo che stanno avvenendo nei Paesi limitrofi.

Sopra ho accennato alla diversità etnica come ad una delle principa-li peculiarità del Paese, ma credo che l’elemento più sorprendente edaffascinante per i visitatori provenienti da Paesi di più o meno recenteindustrializzazione e sviluppo tecnologico è quello di trovarsi di frontead una società che in larga parte è rimasta ancorata a modelli di vitatradizionali.

Una società in cui si può usare a proposito l’espressione “il tempo siè fermato”. Una popolazione dedita in maggioranza ad una agricolturadi sussistenza, in cui un Ermanno Olmi birmano potrebbe girareL’albero degli zoccoli senza doversi preoccupare di costumi, utensili ericostruzioni d’epoca. Un’economia in cui molti lavori sono ancorafatti a mano: dai mobili all’asfaltatura delle strade, dal trasporto dell’ac-qua al lavoro nelle risaie.

Una società profondamente permeata dalla religione buddista, pra-ticata da circa il 90% dei suoi 55 milioni di abitanti. Se dovessi indica-re a qualcuno, interessato a conoscere gli aspetti principali della religio-ne buddista, un Paese dove tale visione della vita viene praticata inmodo ampio e coinvolgente, gli consiglierei di andare in Myanmar.Basta trascorrere alcuni giorni in un villaggio per rendersi conto della

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profonda influenza degli insegnamenti buddisti nella vita quotidiana:dalla questua mattutina di cibo dei monaci in processione alle lezioninella scuola del monastero (ogni villaggio ne ha uno), dalle frequentipreghiere diffuse dagli altoparlanti alle numerose celebrazioni religiosescandite dal calendario lunare.

Caratteristiche queste che attirano l’attenzione di osservatori allaricerca di società e modelli di vita alternativi a quelli dominanti delmercato globale. Non a caso questo Paese è tra quelli che più di altrihanno suscitato l’interesse di Tiziano Terzani nella sua ricerca di“mondi perduti” poco influenzati dai pervasivi modelli consumistici eproduttivistici.

Il quadro che ho descritto sopra è quello ancora prevalente, soprat-tutto nelle vaste zone rurali, ma il Myanmar non è un limbo isolato dalresto dal mondo. La meccanizzazione, l’elettricità, le nuove tecnologiedi internet, tv satellitari e telefoni cellulari si stanno lentamente diffon-dendo e non è raro trovare anche in villaggi sperduti dei giovani con ijeans all’ultima moda aggiornatissimi sui risultati della ChampionsLeague. L’India e la Cina sono vicinissime con i loro prodotti ed inve-stimenti.

“Il tempo si è fermato” anche per le malattie, ed infatti qui la mala-ria imperversa ancora alla grande.

Secondo i dati ufficiali, in media negli ultimi anni sono stati regi-strati 650.000 casi per anno di cui circa 3.000 mortali. Ma questa è laclassica punta dell’iceberg, infatti tali dati riportano solo i pazienti chesi rivolgono ai limitati servizi pubblici, mentre è ben noto che la mag-gioranza della popolazione, in caso di sospetta malaria, ricorre o allamedicina tradizionale o ai servizi privati o semplicemente si autocuracon i farmaci, molto spesso di dubbia qualità, disponibili dal venditorepiù vicino, che raramente è una farmacia. Secondo stime attendibili, ilnumero degli episodi annuali di malaria è almeno tre-quattro voltesuperiore ai dati ufficiali, vale a dire dai due ai tre milioni.

La malaria è stata la ragione che mi ha portato per due volte inMyanmar. La prima nel 1995/’96, per un periodo di diciotto mesi, con“Medici Senza Frontiere-Olanda” nello Stato del Rakhine, ai confinicol Bangadlesh. In quel periodo il numero di organizzazioni nongovernative che realizzavano progetti di assistenza umanitaria o di coo-perazione nel Paese non superava la decina.

Era infatti molto accesso il dibattito sulla opportunità o meno dioperare in un Paese che esercitava stretti controlli sul personale stranie-ro ed imponeva notevoli limitazioni agli interventi. Esistevano, ed esi-stono tuttora, influenti gruppi di pressione, in particolare nel mondoanglosassone, che si opponevano ad ogni forma di presenza in

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Myanmar: non solo, ovviamente, agli investimenti economici ed airapporti commerciali, ma anche al turismo ed agli aiuti umanitari. Iltimore era ed è che qualsiasi tipo di intervento possa diventare unaqualche forma più o mena diretta di supporto o di legittimazione dellagiunta militare al potere.

Da parte mia, oltre all’interesse professionale per un programma dicontrollo della malaria, uno dei settori da me preferiti, c’era l’attrazioneper un Paese dalle caratteristiche sopra riportate. Anch’io come altrituristi e visitatori ero motivato a conoscere ed a lavorare in un Paesedalla notevole varietà etnica, dal ricco patrimonio naturalistico ed arti-stico, da stili di vita diversi da quelli prevalenti nel mondo occidentale.Il Myanmar rapprestava per me l’ultima frontiera nella ricerca dei“mondi perduti” asiatici (o forse la penultima dopo il Bhutan).

Il lavoro nel Rakhine, nel delta di confluenza di due grandi fiumi,non è stato facile. Tra i sette Stati e sette Divisioni in cui è diviso ilMyanmar, lo Stato del Rakhine risulta quasi sempre all’ultimo postonelle varie classifiche basate sui principali indicatori socio-economici esanitari. Ed il Myanmar a sua volta è molto spesso negli ultimi posti ditali classifiche tra i Paesi asiatici.

Ma in compenso le soddisfazioni provenienti dalle nostre attivitànon sono mancate. Ci spostavamo da un villaggio all’altro con la nostraclinica mobile costituita da un’imbarcazione di 15 metri. Restavamotre giorni in ogni villaggio per diagnosticare e curare i casi di malaria,che nella maggior parte dei casi poi significava uno screening di massadi tutti i residenti. Oltre a questa attività con beneficio diretto sullapopolazione, altre iniziative sono state intraprese sia nel campo dellaformazione del personale locale nell’uso dei microscopi sia nel settoredella ricerca per investigare l’eventuale emergere di resistenza ai farma-ci antimalarici di uso corrente.

Dopo undici anni sono tornato una seconda volta nel giugno 2007,sempre per continuare la mia lotta favorita contro il Plasmodium dellamalaria e le zanzare Anopheles che lo trasmettono. Questa volta nell’al-tipiano dello Shan, con un’organizzazione italiana, il Cesvi diBergamo, e con un armamentario di strumenti di controllo più vastoed aggiornato: zanzariere impregnate di insetticida, microscopi e stickrapidi per la diagnosi, farmaci efficaci di ultima generazione, impiegonon solo di personale sanitario qualificato ma anche di agenti sanitaridi villaggio da noi formati per poter assicurare un trattamento rapidoed efficace anche in villaggi remoti privi di qualsiasi forma di assistenzasanitaria.

A distanza di un solo anno dall’inizio del progetto non è ancorapossibile valutarne l’impatto, ma già alcune iniziali considerazioni pos-

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sono essere fatte. In alcune zone l’incidenza della malaria è risultata,come prevedibile, cinque-sei volte superiore ai dati ufficiali. Bastaandarne alla ricerca e si possono trovare riserve inesplorate di parassiti esoprattutto di gente che ne soffre. La popolazione locale apprezza inostri servizi e collabora attivamente nella loro esecuzione, in partico-lare l’impregnazione delle zanzariere con insetticida.

Ho trascorso buona parte degli ultimi diciassette anni in vari Paesidel Sud-Est asiatico e sono rimasto impressionato dai rapidi cambia-menti in corso. Sono arrivato agli inizi degli anni ’90 ed i principalimezzi di locomozione erano le biciclette e... i piedi. Ora motocicletteed auto dilagano, tanto che in Vietnam l’acquisto di nuove moto èstato bloccato, e stento a riconoscere quartieri che mi erano familiari acausa dei nuovi edifici. Nelle campagne il processo di cambiamento èmeno evidente, ma se c’è un elemento che caratterizza l’ultimo decen-nio in questi Paesi è il rapido processo di sviluppo socio-economico edil conseguente cambiamento degli stili di vita. E la malaria non è piùun problema sanitario prioritario, come lo era invece appena dieci annifa, ora è confinata in zone periferiche.

Sono tornato in Myanmar dopo undici anni ed ho ritrovato gli stes-si mezzi di locomozione (nei villaggi del progetto sono i piedi), le stes-se abitazioni, gli stessi usi e costumi, la stessa povertà e le stesse malat-tie. Quello che più auguro a questo affascinante Paese è che non cam-bino mai la gentilezza, l’ospitalità, l’onestà, la laboriosità e l’affidabilitàdi gran parte della sua popolazione.

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Q uesta riflessione sul ruolo delle serie televisive di fiction,quelle che fino a qualche anno fa si sarebbero chiamate“telefilm”, prende il via da due considerazioni. La prima,suggerita da Milly Buonanno, riguarda la produzione italia-

na e sostiene che sia attualmente in corso una “bella stagione” per que-sto particolare segmento della programmazione televisiva generalista. Apartire dalla metà degli anni Novanta, infatti, la produzione italiana difiction Tv ha conosciuto una crescita continua, premiata da ascoltialtrettanto positivi e caratterizzata da standard qualitativi mediamentepiù alti della ordinaria programmazione generalista. Alcuni dati posso-no riassumere bene questa situazione: dalle 128 ore annuali offerte daRai e Mediaset nella stagione ’94/’95 si passa alle 726 programmatenella stagione ’05/’06, con il risultato di raggiungere quella “massa cri-tica” che, se di per sé non è sinonimo di qualità, ne costituisce spessouna conditio sine qua non, almeno all’interno dei processi propri del-l’industria culturale e audiovisiva;trenta sono le società di produzioneche hanno realizzato, sempre nellastessa stagione, almeno un titolotrasmesso, a riprova di un compar-to maturo anche se fortementeframmentato; gli ascolti, seppure inlieve calo dovuto alla perdita pro-gressiva di seguito da parte dell’in-tera Tv generalista, si mantengono

Piermarco Aroldi

Serie Tv. Il fascino ambiguodella fiction Usa

Continuano amietere successi, anche nel nostro Paese, le serietelevisive americane, di ricercata qualità tecnica e raffinatascritturadrammatica. I temimedico-ospedalieroe investigativoaccompagnano la quotidianità d’una società che ha messo alcentro dei suoi interessi il corpo e tutte le sue funzioni, e unaricercaossessivadi verità esignificato.

Piermarco Aroldiè docente di Sociologia dei media e

della comunicazione presso l’Università

Cattolica del “Sacro Cuore”. È

vicedirettore dell’Osservatorio sulla

Comunicazione presso il medesimo

ateneo. Tra le sue pubblicazioni: Tv

risorsa educativa, San Paolo, Cinisello

Balsamo 2004.

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alti, con una netta supremazia di Rai Uno che, tanto per dare un’idea,tra i suoi dieci programmi più visti del 2006 annovera, dopo la partitaItalia-Francia dei Campionati del Mondo (23.935.000 di spettatori) eil confronto pre-elettorale Berlusconi-Prodi (16.129.000), ben quattroserie televisive con ascolti superiori agli 8 milioni di spettatori: primafra tutte, al quinto posto, Papa Luciani (10.240.000 spettatori).

La seconda considerazione, suggerita da Aldo Grasso, riguarda laproduzione statunitense più recente, quella di serie divenute oggetto dicult da parte di nicchie di pubblico sempre più esigenti e qualificate, daE.R. in poi, attraverso Sex and the City, Friends, 24, West Wings, Lost,Desperate Housewives, I Soprano, fino a Dr. House: si tratta di serie dialtissima qualità, quanto di meglio non solo la televisione ma l’interaindustria dell’intrattenimento possa attualmente offrire. E che, infatti,in Italia sono sì trasmesse anche dalla Tv generalista ma hanno comeluogo d’elezione la Tv satellitare, a pagamento. Ciò che colpisce nelleproduzioni d’oltreoceano è la complessità e la padronanza della scrittu-ra drammatica, la stratificazione dei rimandi letterari e delle citazionicolte, la capacità di coniugare serialità e tensione emotiva in raccontiche funzionano alla perfezione; talvolta, soprattutto nelle forme piùvicine al dramma che alla commedia, attingendo a psicologie contra-state e approfondite a livello quasi letterario e a un linguaggio origina-le che nulla ha da invidiare a quello cinematografico.

In comune alle due aree di produzione c’è che la fiction seriale tele-visiva costituisce, al momento, il genere audiovisivo che più di ognialtro – reality compreso – è in grado di dare forma e parola (e dunquecomprensibilità, o parvenza di ordine e prevedibilità) alla nostra espe-rienza individuale e alla nostra convivenza sociale: le identità collettive,la “storia condivisa” che ci unisce, le inquietudini del presente, le para-bole individuali delle biografie – comuni o eccezionali – con cui con-frontare la nostra esistenza quotidiana. Ma qui si gioca anche laprofonda differenza tra i due stili produttivi e narrativi.

Per quanto riguarda la produzione italiana, infatti, sarà sufficientericordare come serie e miniserie siano state il luogo recente di un’epicapopolare e nazionale, capace di rievocare il destino di intere generazio-ni (La meglio gioventù, Raccontami), la vicenda di eroi additati comeesemplari, sia laici (Gino Bartali, Callas e Onassis, Fausto Coppi, IlGrande Torino) che segnati dalla santità (Giovanni Paolo II, Padre Pio,Madre Teresa), le trasformazioni del sentimento familiare (da Un medi-co in famiglia a I Cesaroni, fino al Padre delle spose) o dell’eterno sognod’amore (Elisa di Rivombrosa).

Sul fronte statunitense, invece, il successo di serie come E.R Mediciin prima linea, Lost, Desperate Housewives, C.S.I. o Dr. House è un

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segnale potente di come la quotidianità possa essere riletta attraversola lente del dramma, con l’accentuazione particolare, e forse tuttaamericana, della tensione insolubile tra individuo e squadra, tra ilprotagonismo del collettivo e la necessità dell’affermazione individua-le: uno schema narrativo che si presta, in modo speciale, a raccontarel’età dell’adolescenza, una classe d’età che è stata quasi letteralmentericostruita discorsivamente dal sotto-genere del “teen drama”. DaBeverly Hills a O.C., da Dawson’s Creek a One Tree Hill e Una mammaper amica, la prima giovinezza costituisce una “condizione moratoria”in cui sentimenti e comportamenti propri di giovani adulti vengono

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E&Iattribuiti a protagonisti adolescenti per la gioia di un pubblico di pre-adolescenti. Ma è attraverso questa narrazione, più che attraverso glistrumenti della cultura scolastica o dell’educazione familiare, che avvie-ne spesso l’educazione sentimentale delle giovani generazioni.

Alcuni dei sotto-generi più fortunati del fenomeno di matrice sta-tunitense sembrano poi tracciare coincidenze particolarmente signifi-cative con gli snodi tematici che meglio intercettano il sentire comunedi questi anni: tra tutti, la dimensione medico-sanitaria, da una parte,e quella poliziesco-investigativa dall’altra. Si tratta, con tutta evidenza,di due ambientazioni che da sempre esercitano una particolare attrazio-ne sul pubblico dei telespettatori, e i cui epigoni sono da leggere sullosfondo di una tradizione ampiamente consolidata; ma si tratta anche didue luoghi simbolici (l’ospedale come spazio fisico e sociale deputatoalla lotta contro la debolezza umana: malattia, morte, dolore, paura,meschinità; l’indagine poliziesca come il luogo processuale del disvela-mento progressivo del mistero fino alla conquista della verità) in parti-colare sintonia con la rimozione sociale e culturale del dolore e dellamorte, da una parte, e con la metafora del crimine come cifra segretadell’agire umano che, per dirla fin troppo semplicisticamente, costitui-scono le due facce della medesima sensibilità contemporanea: la fiduciascientista e razionalista nella medicina e nella tecnica come garantidella qualità della vita e la sostituzione della categoria della colpa e delpeccato con quella del delitto e della pena.

Ma è dove questi due sotto-generi, il medico-ospedaliero e il poli-ziesco-investigativo, si intrecciano e si ibridano a vicenda che la fictiontelevisiva targata Usa si presta a riassumere alcune delle paure e dellesperanze più tipiche dei nostri giorni. I casi più interessanti sono levarie versioni di C.S.I. (New York, Miami etc.), l’analogo N.C.I.S., incui l’indagine poliziesca si fa forte degli strumenti della ricerca scienti-fica, da una parte; E.R. e soprattutto Dr. House, dove la pratica medico-sanitaria si tinge di giallo e ogni paziente diventa un “caso” da risolvereattraverso l’uso di ogni strumento diagnostico, anche quello menoortodosso, dall’altra.

Non si tratta di un fenomeno completamente nuovo: basti pensarea due serie come Quincy, prodotta fra il 1976 e il 1983, con JackKlugman nei panni di un brillante anatomopatologo e Detective in cor-sia con il “vecchio” Dick van Dyke, realizzata tra il 1993 e il 2001, perassistere a una convergenza delle due pratiche investigative, quellemedica e quella poliziesca; ma sono piuttosto i toni in cui si declinaoggi questa analogia che rendono la sintesi tra la figura del medico equella del detective particolarmente stimolante; al centro dell’attenzio-ne di entrambe, infatti, resta un condensato di umanità che sembra

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costituire la vera ossessione di questi anni: il corpo umano.Il corpo malato; il corpo impazzito che si ribella contro le leggi stes-

se del suo potenziale vitale; il corpo che cela segreti inconfessabili; ilcorpo senza vita e spesso smembrato, sezionato, esposto. Attraverso lasua intima visibilità (sonde microscopiche, ricostruzioni al computer,raggi X, sezioni ingrandite) o attraverso il suo rovesciamento (l’internoreso esterno, le secrezioni, il suo trattamento secondo l’estetica splatter,solo un po’ addomesticata per il piccolo schermo), il corpo viene messoa distanza, spersonalizzato, consumato. Nello stesso tempo, però, nondiviene cosa, pura materia o pura biologia: esso è sempre promessa eminaccia, luogo di una possibile identificazione o di una imminenterivelazione circa la realtà delle cose, prefigurazione e anticipazione diuna condizione altrimenti evitata: una sorta di memento, totalmentedepotenziato della propria valenza morale o spirituale, analogo a quel-lo con cui flirta parte della sensibilità artistica e figurativa di questi ulti-mi anni.

A dispetto delle apparenze e della loro cura, contro ogni riduzionesuperficiale operata dalla spettacolarizzazione della realtà (i cosiddettireality show), al fondo di ogni processo di estetizzazione (e non a caso lachirurgia estetica come ambito metaforico del disvelamento delle ipo-crisie umane è il tema di un’altra serie di successo, il cinico Nip &Tuck), il corpo umano, così come raccontato dalla fiction televisiva piùricercata e drammaticamente ben costruita di questi ultimi anni, nonmente. Resta lì, pronto a incastrarci inesorabilmente con la sua finitez-za, la sua ottusa resistenza, il suo principio di realtà.

Note biograficheM. Buonanno (a cura di), La bella stagione. La fiction italiana, l’Italia nella fic-tion, Rai Eri, Roma 2007.A. Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti delcinema e della televisione, Mondadori, Milano 2007.

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Bibbia.Nella lingua degli uomini

La nuova traduzione della Bibbia proposta dalla Cei restituisceagli italiani un testopiù fedele all’originale e, al contempo, unascrittura più aderente alla realtà contemporanea e piùcomprensibile, che correggeantiche incoerenzeederrori.

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Il Concilio Vaticano II ha rappresentato per la Chiesa cattolica un forteimpulso per un rinnovato incontro con la Bibbia. Da allora in ambito

liturgico e teologico, ma pure nel cammino spirituale dei singoli creden-ti, la Sacra Scrittura è diventata punto di riferimento imprescindibile. IlConcilio ha inoltre sollecitato un deciso impegno a realizzare traduzionidei testi biblici che facilitassero l’incontro tra i fedeli e la parola di Dio:«È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Perquesto motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzionegreca dell’Antico Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore lealtre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che èdetta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione ditutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si fac-ciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza apartire dai testi originali dei sacrilibri» (Dei Verbum 22).

L’auspicio del Concilio fu inbreve tempo attuato dalle singoleConferenze episcopali e lo stessoavvenne anche in Italia. A seguitodelle esigenze poste dalla riformaliturgica, la Conferenza EpiscopaleItaliana decise infatti di dotarsi diuna propria traduzione della Bibbiae si cominciò a lavorare a tale pro-

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Flavio Dalla Vecchiaè sacerdote della diocesi di Brescia e

docente di Sacra Scrittura presso lo

Studio Teologico “Paolo VI” di Brescia, e

di Introduzione alla Sacra Scrittura

presso l’Istituto Superiore di Scienze

religiose dell’Università Cattolica, sede

di Brescia. Ha collaborato alla revisione

del testo dei Salmi e del Siracide per la

Nuova Bibbia Cei.

Flavio Dalla Vecchia

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getto già nel 1965. Non si optò per una traduzione del tutto nuova,bensì si scelse di utilizzare come base il testo della Bibbia recentementepubblicata dall’editrice Utet, curata da Enrico Galbiati, Angelo Penna ePiero Rossano. Si propose di farne una revisione complessiva ai fini del-l’utilizzazione liturgica: tale compito fu affidato a un gruppo di biblistie italianisti sotto la guida del card. Ermenegildo Florit. Il lavoro cul-minò in una prima edizione nel dicembre 19711 e in una seconda cherecepiva le correzioni richieste dalla Santa Sede per alcuni testi usatinella liturgia, pubblicata nell’aprile del 1974. Dalla seconda sono tratti itesti dei Lezionari e della Liturgia delle ore fino ad oggi in uso.

Pur se apprezzabile, il lavoro compiuto manifestò ben presto i suoilimiti e da più parti si richiesero revisioni. L’impulso decisivo a tale ope-razione venne poi dalla pubblicazione della Nova Vulgata, la versionelatina dichiarata «typica» per l’uso liturgico, alla sua promulgazione il25 aprile 1986. Anche la Santa Sede, infatti, stimolata dal Concilio, maanche dalle novità maturate nell’ambito degli studi biblici, aveva decisonel 1965 di avviare la revisione dell’antica traduzione latina di sanGirolamo (detta Vulgata); il lavoro giunse a completamento nel 1979,ma subì ulteriori modifiche fino al 1986. La promulgazione della NovaVulgata stimolò la Conferenza Episcopale Italiana a provvedere a unarevisione della traduzione italiana, cogliendo pure l’occasione permigliorarne la qualità.

Anche in questo caso non si trattò di una nuova traduzione, ma diuna revisione, affidata a un gruppo di lavoro, guidato successivamentedai vescovi Giuseppe Costanzo, Wilhelm Egger e Franco Festorazzi ecomposto da biblisti, liturgisti, italianisti e musicisti. I criteri che hannoguidato la revisione possono essere ricondotti ai seguenti: correggereeventuali errori, togliere le inesattezze, eliminare le incoerenze. Lo scopoera di offrire un testo più sicuro in rapporto agli originali, più coerentenelle dinamiche interne (in una pagina, in un racconto o persino in unintero libro), ma anche maggiormente comunicativo nei confronti dellacultura odierna e più adatto alla proclamazione nel contesto liturgico.In realtà gli errori di traduzione non erano moltissimi, ma sufficienti alegittimare la revisione dell’intera Bibbia; ben più numerose erano leinesattezze e le incoerenze che richiedevano una messa a punto.

Per rispondere a questi obiettivi sono state operate alcune scelte,quali una maggiore fedeltà ai testi trasmessi nelle lingue originali e unamaggiore organicità nella traduzione, cercando per quanto possibile ditradurre sempre allo stesso modo parole ed espressioni. Queste sceltenon sono casuali, ma intendono venire incontro a una necessità che sca-turisce da qualsiasi atto di lettura. Il lettore infatti dialoga con un testo,ma nel caso della Bibbia egli dialoga con un testo scritto in una lingua

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diversa dalla sua e inoltre antica, con il rischio di una perdita notevole diefficacia da parte del testo in questione. Tutti siamo infatti consapevolidella difficoltà ad esprimere alcuni concetti o immagini in una linguadiversa dalla nostra, tanto più se la distanza non è solo di ordine lingui-stico tra i due che comunicano, ma anche storica e culturale. La scelta dirimanere il più possibile fedeli all’originale è conseguenza della volontàdi lasciare parlare il testo stesso, consapevoli però della necessaria media-zione culturale, affinché la parola letta e ascoltata possa sortire gli effettiper i quali è stata donata all’umanità. Anche l’organicità intende svolge-re analoga funzione: essa vuol essere in particolare un aiuto a chi intra-prende una lectio personale o di gruppo a riconoscere l’unità del lin-guaggio, la ripresa delle espressioni e dei concetti e dunque a compren-dere meglio i rapporti tra i testi, valorizzandone la ricchezza di prospet-tive e gli approfondimenti dei temi in comune tra loro.

Riguardo alla fedeltà segnalo alcuni esempi di variazioni rispetto allaprecedente traduzione Cei. Nel Salmo 8,6 la precedente traduzione leg-geva: «Lo hai fatto poco meno degli angeli»; ora, sulla base del testoebraico, si legge: «L’hai fatto poco meno di un dio». Così in Matteo16,23, invece di: «Lungi da me, satana!», ora si legge: «vai dietro a me,satana!»; e nel “Padre nostro” invece di: «E non ci indurre in tentazio-ne», ora leggiamo: «E non abbandonarci alla tentazione» (Matteo 6,13),una traduzione quest’ultima che evita in primo luogo di lasciar pensareche la tentazione possa essere opera di Dio, e che lascia inoltre apertal’interpretazione sia alla richiesta di essere preservati dall’entrare nellatentazione sia di essere soccorsi quando si è tentati. Infine, per affronta-re un testo assai discusso, la risposta di Gesù a Tommaso non è più tra-dotta: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur nonavendo visto crederanno!», bensì: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto;beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Giovanni 20,29).

La nuova traduzione si colloca entro un panorama ormai variegatoin ambito italiano, che vede disponibili diverse traduzioni del testobiblico. La pluralità delle versioni potrebbe essere letta da taluno comeuna relativizzazione del valore della Sacra Scrittura, ma essa va compre-sa piuttosto alla luce del profondo legame tra la Scrittura e il misterodell’Incarnazione, come già sottolineava il papa Giovanni Paolo II:«Una falsa idea di Dio e dell’Incarnazione spinge un certo numero dicristiani [...] a credere che, essendo Dio l’Essere assoluto, ognuna dellesue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i condiziona-menti del linguaggio umano [...]. Ma questo significa illudersi e rifiuta-re, in realtà, i misteri dell’ispirazione scritturale e dell’Incarnazione, rifa-cendosi ad una falsa nozione dell’Assoluto. Il Dio della Bibbia non è unEssere assoluto che, schiacciando tutto quello che tocca, sopprimerebbe

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tutte le differenze e tutte le sfumature. È al contrario il Dio creatore, cheha creato la stupefacente varietà degli esseri “ognuno secondo la propriaspecie”, come afferma e riporta il racconto della Genesi. Lungi dall’an-nullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cfr. 1Cor 12,18.24.28). Quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà adogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumatu-re con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni»2.

Dio ha deciso di manifestare agli umani la sua volontà tramite i lorolinguaggi, accettandone i condizionamenti; tra questi va segnalato inparticolare che ogni lingua parlata va soggetta a una evoluzione storicache, a sua volta, dipende da molteplici fattori, non ultimo oggil’incrocio delle lingue. A fronte di queste lingue parlate in evoluzione sistaglia la Bibbia documentata per noi in lingue antiche – l’ebraico,l’aramaico e il greco – i cui corrispettivi moderni non sono la sempliceevoluzione delle stesse, quindi non possono costituire un tramite direttoper l’accesso al significato dei testi biblici. Da qui la consapevolezza cheogni traduzione della Bibbia è espressione di un cantiere aperto, cosic-ché la molteplicità delle traduzioni, anziché una difficoltà, è da leggerepiuttosto come un’opportunità: dal loro confronto emerge come nessu-na comprensione del testo biblico possa dirsi definitiva. Nello stessotempo è auspicabile che la nuova traduzione, come la precedente, aiutile comunità cristiane a costruire un linguaggio della fede che da un latoconsenta ai credenti una più chiara consapevolezza del contenuto dellapropria fede e dall’altro contribuisca a un fruttuoso dialogo conl’ambiente culturale.

Note1La Sacra Bibbia, Edizioni Pastorali Italiane, Roma 1971.2Discorso di Sua Santità Giovanni Paolo su L’interpretazione della Bibbianella Chiesa, venerdì 23 aprile 1993.

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Il tema della cittadinanza democratica è, come sappiamo, al centro deldibattito odierno, sollecitato dalle profonde trasformazioni socio-cul-

turali in corso. Globalizzazione, sviluppo del mercato internazionale,multiculturalismo, immigrazione, ampliamento delle reti di comunica-zione su scala universale hanno contribuito a riconfigurare assetti nor-mativi e sociali delle nostre società. La questione appare, anche dalpunto di vista educativo, di fondamentale importanza, visto l’infittirsidelle differenze che si trovano ad interagire in una società sempre più“complessa”, ma anche di estrema problematicità, per le non poche dif-ficoltà che l’avvio del dialogo interculturale comporta in una trama cosìdensa di pluri-appartenenze etniche e religiose. La necessità di prospet-tare oggi una convivenza il più possibile pacifica e cooperativa imponeanche alla riflessione pedagogica un continuo ripensamento circa ilvalore della nostra identità nazionale in una società pluralistica e globa-lizzata. Qui si vuole offrire un percorso bibliografico sul tema, che varivelandosi di giorno in giorno cruciale.

La nozione di cittadinanza si è modificata nel tempo, pur conservan-do alcuni motivi caratteristici delle precedenti elaborazioni storiche. Laletteratura contemporanea sull’argomento tende a superare l’accezionegiuridica tradizionale, per attribuirleun’ampia valenza socio-politica1.Con riferimento alle democrazieoccidentali, il concetto di cittadi-nanza è andato caricandosi di sem-

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Spunti per unacittadinanza senza confini

La complessità della società contemporanea, il mosaicointerculturale e multietnico, rendono più problematico ilcompito dell’educatore e meno chiaro il significato dicittadinanza. L’agiresocialenonpuòpiùesserecostrettoentroi confini dello Stato nazionale. Ecco un percorso di letture perriscoprire il senso del vivere consociato e ricostruire untessutosociale talora logoro.

Irene Di Deddaè dottoranda in Pedagogia presso

l’Università Cattolica del Sacro Cuore di

Milano.

Irene Di Dedda

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pre più precisi significati e riferimenti alla sfera dei diritti universali dell’uomo2.L’orientamento odierno alla cosiddetta “cittadinanza planetaria” o

“mondiale” si rivolge infatti alla garanzia dei diritti universali degli esseriumani, indipendentemente dallo status giuridico o dalla “capacità di agire”,come riconosciuto dalla Costituzione e dai vari documenti internazionaligià a partire dalla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, 1789.Quest’ultima «soppresse tutte le precedenti distinzioni di status lasciandonesopravvivere soltanto due: lo status di cittadino, ossia la cittadinanza e quel-lo di persona, ossia la personalità, allargato a tutti gli esseri umani»3.

È precisamente nella direzione “universalistica” delineata che si sostan-zia il valore “democratico” e “pluralistico” della nuova cittadinanza, richia-mata anche dalla riflessione pedagogica; un valore che non può rimanereancorato alle singole specificità simbolico-aggregative, ma, a partire daqueste, deve confluire nella formazione di una coscienza civile più apertae disponibile alla condivisione di ideali umanamente apprezzabili.

Come si evince dai più recenti documenti internazionali (Trattato diMaastricht, 1992, Carta di Nizza, 19984), nelle ricorrenti designazioni dicittadinanza “europea” o “globale” è dato cogliere l’intento “ri-formulati-vo” di un concetto che mostra di rivolgersi sempre più a orizzonti che tra-scendono i limiti delle realtà nazionali, conferendo nuove attribuzioni disignificato e di ruolo all’agire del cittadino contemporaneo. Si legga inproposito il volume curato da Vittorio Emanuele Parsi, Cittadinanza eidentità costituzionale europea (il Mulino, Bologna 2001).

Una problematizzazione della questione in chiave pedagogica vieneproposta nell’articolo di Donatella Palomba, Educazione e cittadinanzaeuropea5, dove l’autrice delinea i nodi del rapporto fra cultura costituzio-nale e appartenenza nazionale, con riferimento al ruolo dei processi for-mativi nella costruzione della cittadinanza europea. In tale prospettiva,occorre rafforzare la dimensione della vita politico-sociale verso una possi-bile condivisione delle esperienze culturali e valoriali che scaturiscono dalconfronto fra pluri-appartenenze e multietnie. Riflessioni importanti inquesta direzione vengono inoltre dal volume di Massimiliano Tarozzi,Cittadinanza interculturale: esperienza educativa come agire politico (LaNuova Italia, Milano 2005), che propone un ripensamento dell’educazio-ne alla cittadinanza come “luogo” di costruzione politico-valoriale dellasocietà “plurale”.

Non mancano voci atte a sottolineare le difficoltà d’intraprendere unasimile impresa, con tutti i rischi derivanti dalle possibili reazioni di chiu-sura o di distanza nell’incontro con la diversità. Monica Simeoni, in Lacittadinanza interculturale. Consenso e confronto (Armando, Roma 2005),s’inserisce nell’ampio dibattito sull’immigrazione, ponendo a critico con-fronto le riflessioni che animano il variegato scenario dell’interculturalità,

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auspicando una plausibile via di risoluzione del confitto fra le interpre-tazioni nel valore meta-normativo della persona. In tale prospettivas’inscrive lo studio di A. Vincenzo Zani, Formare l’uomo europeo. Sfideeducative e politiche culturali (Città Nuova, Roma 2005). Il volume dàrilievo alle problematiche di carattere etico-sociale, religioso, politico-istituzionale e alle relative emergenze educative del panorama interna-zionale a partire dagli anni Sessanta, con particolare attenzione all’impe-gno profuso in questo campo dai pedagogisti d’ispirazione cristiana edal recente Magistero della Chiesa.

Dai riferimenti citati è possibile desumere il profilo articolato del-l’essere oggi cittadino. I legami sociali che connotano l’esperienza dellacittadinanza nazionale debbono di fatto misurarsi con il variegato com-plesso di componenti culturali compresenti nella società civile. Essegenerano nuovi spazi di confronto e di condivisione, ma spesso anche diconflittualità [cfr. Vincenzo Cesareo (a cura di), L’altro. Identità, dialogoe conflitto nella società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2004]. In unacondizione d’incalzante pluralismo, sembrano infatti accentuarsi diffi-coltà d’incontro e apertura fra gruppi etnicamente diversi, nonché fracittadini autoctoni e immigrati. Nel volume Quale cittadinanza?(Angeli, Milano 2000), curato da Andrea Messeri e Fedele Ruggeri, sianalizzano le dimensioni teoriche ed empiriche che sottendono i proces-si di inclusione/esclusione nella società italiana, con l’obiettivo di indi-viduare efficaci tipologie d’interazione e fornire orientamenti per politi-che attive e modalità di governance di una cittadinanza “plurima”.

Per comprendere in che modo e secondo quali criteri possano auspi-carsi sentimenti di appartenenza a realtà istituzionali e a spazi di vitacomune, il discorso pedagogico non può trascurare la complessità degliattori e dei contesti educativi che gravitano più o meno formalmenteattorno alla costruzione dell’ideale umano e politico della nuova cittadi-nanza. Si veda, in proposito, il saggio di Luciano Pazzaglia, L’educazionealla cittadinanza democratica tra identità ed ethos condiviso6.

Un primo contesto all’interno del quale possono sensibilmente svi-lupparsi attitudini di dialogo e di partecipazione alla vita della comunitàè certamente quello familiare. La famiglia costituisce l’ambito educativoin cui vengono poste le premesse valoriali e relazionali indispensabilialla formazione di una personalità democratica, capace quindi di con-frontarsi e interagire in modo responsabile con la collettività7. Una sot-tolineatura importante merita poi il ruolo svolto dal sistema familiarenel rafforzamento dell’esperienza “normativa”, connessa con l’esercizioeffettivo dei diritti-doveri di cittadinanza, cui rinvia, per altro, anche ladimensione dell’educazione alla legalità8. Quest’ultima viene favorita dauna corretta disposizione dell’autorità genitoriale, rivolta al consolida-

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mento di atteggiamenti e schemi di condotta rispettosi delle norme giu-ridiche e di convivenza sociale9.

Un secondo contesto, strettamente connesso a quello familiare per lapromozione dell’educazione alla cittadinanza, è quello scolastico. Esso devesempre più affermarsi come ambiente di convivenza responsabile, per favo-rire nei discenti l’esercizio delle virtù indispensabili alla vita collettiva10.

Per quanto attiene le esperienze di carattere progettuale sul tema del-l’educazione alla cittadinanza, il panorama scolastico si presenta piuttostoarticolato. Diversi progetti attuati dalle scuole italiane in prospettiva euro-pea testimoniano la volontà di predisporre itinerari formativi ad ampioraggio, che riconoscano proprio nei valori dell’impegno civile e della con-vivenza i fondamenti della crescita democratica del nostro Paese11.

Non va dimenticata poi l’azione promozionale attuata dalle forzesociali presenti sul territorio, a cominciare da movimenti, associazionicivili ed ecclesiali, organizzazioni non governative e gruppi di volonta-riato, i quali, secondo modalità e forme diverse, concorrono a rafforzareuna più fattiva collaborazione fra cittadini e istituzioni, nella cornice diun’adesione forte ai significati e ai princìpi democratico-costituzionali12.

Sul versante dell’educazione alla cittadinanza risulta poi di particolarerilevanza l’influsso che il potere mediatico esercita sulla comunicazionesociale e i processi di partecipazione alla vita pubblica. Un contributo aquesto riguardo viene dal saggio di Giuseppe Spadafora, Educazione,democrazia e potere mediatico13. Come mostrano diversi studiosi dellaMedia Education14, attraverso un utilizzo corretto e monitorato dellerisorse tecnologiche è possibile stimolare quei meccanismi di confronto,discussione ed interazione che operano positivamente nella costruzionedei legami sociali e partecipativi. Si veda in proposito, Len Masterman, Ascuola di media: educazione, media e democrazia nell’Europa degli anni ’90(a cura di P.C. Rivoltella, La Scuola, Brescia 1997). In tale direzionevanno incrementandosi sperimentazioni di e-democracy in diversi ambitiistituzionali, per consentire ad ogni cittadino di intervenire nel processopolitico mediante l’uso di internet e dei nuovi media15.

Note1Cfr. P. Costa, Civitas: Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 2000,Vol. I; T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (trad. dall’inglese), ivi, 2002.2Cfr. L. Ferrajoli, “Lo Stato di diritto fra passato e futuro”, in P. Costa, D. Zolo(a cura di), Lo Stato di diritto: storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002, pp.349-386.3L. Ferrajoli, “Dai diritti del cittadino ai diritti della persona”, in D. Zolo (a cura di),La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 265.

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4Cfr. M.R. Saulle (a cura di), Il trattato di Maastricht, Edizioni ScientificheItaliane, Napoli 1995; M. Napoli (a cura di), La Carta di Nizza: i diritti fonda-mentali dell’Europa, Vita e Pensiero, Milano 2004.5In I problemi della pedagogia, 2005, 3-4, pp. 329-346. Si legga anche S.Chistolini (a cura di), Cittadinanza e convivenza civile nella scuola dell’Europa.Saggi in onore di Luciano Corradini, Armando, Roma 2006.6In A. Erbetta (a cura di), Senso della politica e fatica di pensare, Atti del Convegno“Educazione e politica”, Encyclopaideia, Bologna, 7,8,9 novembre 2002,CLUEB, Bologna 2003, pp. 79-86.7Cfr. L. Pati, “L’educazione alla vita democratica nella famiglia”, in La Famiglia,2003, gennaio-febbraio, pp. 20-24.8Cfr. L. Caimi (a cura di), Per una cultura della legalità. Dinamiche sociali, istanzegiuridiche e processi formativi, ISU-Università Cattolica, Milano 2005.9Cfr. I. Di Dedda, “Educare alla legalità nella vita familiare”, in La Famiglia, 2007,240, pp. 71-79.10Sulle virtù del cittadino in un’ottica di “bene comune”, cfr. S. Natoli (a cura di),Le virtù della cittadinanza. Per un dizionario delle virtù civiche, Grafo Edizioni,Brescia 1998, pp. 5-6. Si vedano anche, in Pedagogia e Vita, 2006, 5-6: L. Prenna,“La solidarietà, virtù della cittadinanza”, pp. 116-121; B. Mondin, “Educare allasolidarietà e alla partecipazione”, pp. 122-137.11Cfr. C. Scurati, Prospettive di educazione del cittadino fra Italia e USA, LeMonnier, Firenze 1990; Aa.Vv., L’educazione del cittadino: ricerche sulla for-mazione socio-civico-politica, La Suola, Brescia 1990; Centro Cultura LegalitàDemocratica Regione Toscana (a cura di), Darsi una mano. Educazione alla citta-dinanza, riflessioni, percorsi, scelte di gemellaggi, Edizioni della Giunta Regionale,Firenze 2001; M. Orsi, Educare ad una cittadinanza responsabile. Percorsi educati-vi ed etici per l’uomo del terzo millennio, E.M.I., Bologna 1998; R. Cuniberti, Lacultura della cittadinanza, La Scuola, Brescia 2005; P. Bignardi, V. Caricaterra,Cittadini per Costituzione. La Costituzione italiana si presenta ai ragazzi, LaScuola, Brescia 2007.12Cfr. G. Moro, Manuale di cittadinanza attiva, Carocci, Roma 1998; C. Gentili,Scuola ed extrascuola. Come apprendere con le risorse del territorio, La Scuola,Brescia 2002; F. Viola (a cura di), Forme della cooperazione. Pratiche, regole, valori,il Mulino, Bologna 2004.13In I problemi della pedagogia, 2005, 3,4, pp. 317-328.14Cfr. P.C. Rivoltella, Media Education. Fondamenti didattici e prospettive di ricer-ca, La Scuola, Brescia 2005; Id., Media Education: modelli, esperienze, profilo disci-plinare, Carocci, Roma 2001.15Cfr. M. Miani, Comunicazione pubblica e nuove tecnologie, il Mulino, Bologna2005; A. Calvani (a cura di), Tecnologia, scuola, processi cognitivi. Per un’ecologia del-l’apprendere, Franco Angeli, Milano 2007; D. Buckingham, Né con la tv, né senza latv. Bambini, media e cittadinanza nel XXI secolo (trad. dall’inglese), ivi, 2004.

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Matematica e letteratura, uno sposalizio felice e non solo albotteghino. Da Calvino ad Eco, da Canetti a Levi, quando la“struttura”, la regola algebrica danno fondamento e slancioal verso, lo asciugano, lo plasmano e lo liberano.

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Cosa vuol dire oggi, per noi lettori, individuare incrocisignificativi fra letteratura e matematica, due insiemi appa-rentemente così distanti tra loro? Cosa c’è al di là dell’aspet-to ludico? Negli ultimi centocinquant’anni il fascino eserci-tato dalla matematica, nonostante la sua astrusità e l’esilerilevanza culturale, ne ha evidenziato la ricchezza di forme econtenuti. La separazione tra la conoscenza scientifica e ilnostro senso comune, nel secolo appena trascorso, ha accentuato questodivario. Un po’ per pigrizia intellettuale da parte degli scrittori, un po’per un certo disagio sociale, la matematica e la letteratura sembrano nonincontrarsi. Eppure ad un occhio attento non sfugge il continuo movi-mento che apre nuove forme di contaminazione, nuovi linguaggi e spe-rimentazioni che dalla matematica antica arrivano alla ricerca contem-poranea, proponendo formule che ci aiutino a leggere e interpretare lacondizione storica presente: mancanza di certezze, paranoia, difficoltàdi costruire un destino che nonsembri solo una catena casuale dieventi. L’idea del mondo che possia-mo ricavare dalla ricerca matematicaunita a ciò che effettivamente possia-mo fare e sperimentare nella nostravita di tutti i giorni rappresenta larelazione tra i due insiemi e suggeri-sce anche quegli incroci significativitra le due attività che diventano

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Quando i numerisi fanno lettere

Katia Paolettiè redattore per l’Editrice Ave. Laureata in

Letterature comparate, si occupa di

critica letteraria, in particolar modo di

lingua e letteratura ungherese.

Ha inoltre curato un’antologia poetica e

un’inchiesta sui “luoghi” della poesia a

Roma.

Katia Paoletti

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onnicomprensive e umane. Se uno scrittore riesce a rendere il portatosimbolico della matematica e dunque a condividere con il lettore il desi-derio di conoscere le leggi invisibili della natura, ne usciranno romanzicome La ragazza che non era lei di Tommaso Pincio o Geometria solida diIan McEwan. Siamo lontani dai romanzi con protagonisti che hanno ache fare con la matematica, e per questo delineati come individui fuoridal mondo, incapaci di gestire le proprie emozioni.

In Italia, in particolar modo, la matematica e la letteratura sembranonon intersecarsi mai. Questo per una certa impreparazione matematicadegli stessi intellettuali, che accentua ancor di più il divario e porta ascrivere testi che la presentano separata dalla vita. Invece il nostro conti-nuo bisogno di stabilire relazioni tra le cose elabora idee o strutturematematiche che ritroviamo nelle opere di molti poeti, narratori eromanzieri.

Nel 1940 André Weil (uno dei matematici più importanti delNovecento) scriveva una lettera dal carcere alla sorella, Simon Weil, per

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spiegare l’importanza della funzione cognitiva della matematica: non unmodo per ritirarsi dal mondo, ma un accesso privilegiato come testimo-nia la sua autobiografia Ricordi di un apprendistato, pubblicata daEinaudi negli anni Novanta a cura di Claudio Bartocci, ad opera delquale esce nel 2006 un’antologia, Racconti matematici, che raccoglie unatrentina di testi, per la maggior parte opera di scrittori di fantascienzacome Asimov, Lem, Heinlein, o quegli autori che hanno sperimentatole varie forme di letteratura combinatoria (Calvino, Queneau, e metafi-sici come Borges e Buzzati). Quest’ultima esperienza è particolarmenteindicativa: nel 1960 nasce a Parigi un gruppo, una specie di societàsegreta, come la definì Italo Calvino su La Repubblica (1982), compostoda letterati con la passione della matematica e matematici con la passio-ne della letteratura. Viene fondato nella cantina di un ristorante “VraiGascon” da Francois Le Lionnais e Raymond Queneau. Fra i membridel gruppo Marcel Duchamp, il surrealista Noel Arnaud, André Blavierche ha scritto un libro sui “fous littérarires”, Italo Calvino, HarryMathews, Georges Perec, Jacques Roubaud. L’OuLiPo (Ouvroir deLittérature Potentielle, Opificio di Letteratura Potenziale, ouvroir infrancese è il laboratorio di cucito nel convento delle monache o in unistituto di beneficenza) è un singolare gruppo di letterati, dediti a esco-gitare invenzioni bizzarre partendo da regole formali costrittive,improntate a un gusto matematizzante. Giambattista Vicarì, promotoredella rivista Il Caffè sosteneva che per non rimanere imbrigliati in auto-matismi formali - questo è il rischio più grande - bisogna proporsi diescogitare una burla alla ricerca dell’imprevisto, come insegnano CarloEmilia Gadda, Aldo Palazzeschi, Antonio Delfini e per l’appuntoCalvino e Queneau, il quale affermò che gli scrittori oulipiani sonocome topi che costruiscono da sé il labirinto da cui si propongono diuscire. Il labirinto delle parole dei suoni delle frasi dei paragrafi dei capi-toli dei libri delle biblioteche della prosa della poesia. Forse la matema-tica contemporanea costituisce un sistema simbolico troppo complessoper riuscire a interessarci oltre il suo aspetto ludico? Eppure esiste unapossibilità di rapporto proficuo anzi vitale tra scrittori e matematici.

Il carattere potenziale risiede nel fatto che si tratta di una letteraturainesistente, ancora da farsi, da scoprire in opere già esistenti o da inven-tare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche. Basti pensare oggiad un autore contemporaneo come Péter Esterházy, matematico di for-mazione, che enumera tra i suoi maestri Italo Calvino, Danilo Kîs eLudwig Wittgenstein. Esterhazy parte dalla letteratura già esistente,dalle frasi scritte e ne dimostra ancora la validità, formulando equazionie idee matematiche che possano dare a una struttura già definita ulterio-ri possibilità di sviluppo. Il lavoro ruota intorno al linguaggio, alla spe-

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E rimentazione e ai giochi linguistici. La fantasia, la creatività trovano sti-molo nel rispetto di regole, vincoli, costrizioni. L’essere costretti a segui-re delle regole induce uno sforzo maggiore di fantasia. Diverte chi riescea mostrare un lato inaspettato, sorprendente del codice linguistico,generando nel lettore sorpresa e spaesamento, concetti cari ai surrealistie ai formalisti russi. Lo spirito che presiede ai giochi linguistici degliscrittori oulipiani è vicino a quello della creazione dei “ready made” diMarcel Duchamp, che ne fu membro corrispondente. Spesso si parte daun testo già fatto, trovato, per evidenziarne le proprietà latenti, i signifi-cati potenziali attraverso tecniche combinatorie. Duchamp, per esem-pio, con i giochi di parole vuole riscattare la parola scontata, ovvia,mostrandone la bellezza attraverso un processo di spostamento più omeno astratto: introducendo una parola familiare in un’atmosfera diver-sa, si ottiene qualcosa di paragonabile alla distorsione in pittura.Quando Queneau cercava di spiegare cosa fosse l’OuLipo, egli precisavache alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici scherzi, ma ricordavache anche la teoria dei numeri venne fuori, almeno in parte, da quellache una volta si chiamava la “matematica divertente”. La sua poesiacombinatoria, Cent mille miliards de poèmes, Editions Gallimard 1961,costituisce il passaggio dalla matematica alla sua “letteralizzazione”: ven-gono scritti dieci sonetti con le stesse rime e con una struttura gramma-ticale tale che ogni verso di ciascun sonetto è intercambiabile con ognialtro verso situato nella stessa posizione. Per ciascun verso si avrannocosì dieci possibili scelte indipendenti. Poiché i versi sono 14, si avrannoin totale 1014 sonetti, cioè centomila miliardi di poesie. Un’altra suaopera, Exercises de style, nasce invece dall’idea di realizzare in campo let-terario quella libertà di variazioni su tema possibile nella musica e cosìun semplice episodio di vita quotidiana viene ripetuto 99 volte in 99stili differenti. Per esempio, in Italo Calvino è oulipiano l’espedientedella cornice usato per legare i brani di Se una notte d’inverno un viag-giatore, dieci inizi di romanzi. Pertanto la costrizione non restringel’orizzonte delle strategie narrative dello scrittore, ma ne allarga al con-trario le potenzialità, un inno alla libertà di invenzione. Sembra unparadosso, ma non lo è come sostiene Calvino stesso e anche UmbertoEco nelle Postille al Il nome della rosa: «Le costrizioni sono fondamenta-li per ogni opera artistica. Sceglie una costrizione il pittore che decide diusare l’olio piuttosto che la tempera, la tela piuttosto che la parete; ilmusicista che opta per una tonalità di partenza; il poeta che si costruiscela gabbia della rima baciata o dell’endecasillabo. E non crediate che pit-tore, musicista o poeta d’avanguardia non se ne costruiscano delle altre.Lo fanno, solo non è detto che voi dobbiate accorgervene. Può essereuna costrizione scegliere come schema per la successione degli eventi

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quello delle sette trombe nell’Apocalisse. Ma anche situare una storia inuna data precisa. Il bello della storia è che ti devi creare delle costrizioni,ma devi sentirti libero nel corso della stesura a cambiarle (come scrivo inSulla letteratura)».

Lo scopo dei lavori di questo gruppo è quello di proporre agli scrit-tori nuove strutture, di natura matematica, o inventare nuovi procedi-menti artificiali o meccanici, contribuendo all’attività letteraria. In Dueinterviste su scienza e letteratura in Una pietra sopra. Discorsi di letteratu-ra e società, Calvino precisa che il metodo dell’OuLiPo si sostanzia nellaqualità delle sue regole; quello che conta è la loro ingegnosità, la loroeleganza; se alla qualità delle regole corrisponderà subito la qualità dei

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E risultati, delle opere ottenute per questa via, tanto meglio, ma comun-que l’opera non è che un esempio delle potenzialità raggiungibili soloattraverso la porta stretta delle regole. Per Calvino quindi la struttura èlibertà, produce il testo e nello stesso tempo la possibilità di tutti i testivirtuali che possono sostituirlo.

Il premio Nobel per la chimica nel 1981, Roal Hofman, chiese unavolta ad Elias Canetti, laureato in chimica, cosa avesse appreso dalla chi-mica, e Canetti rispose: «La struttura, il senso della struttura».Prendiamo, per esempio, un libro come L’altrui mestiere di Primo Levi(Einaudi): «Per quella che è stata la mia esperienza, devo dire che la miachimica, che poi era una chimica ‘bassa’ quasi una cucina, mi ha fornitoin primo luogo un vasto assortimento di metafore. Mi ritrovo più riccodi altri colleghi scrittori. […] In più ho sviluppato l’abitudine a scriverecompatto, a evitare il superfluo. La precisione e la concisione, che aquanto mi si dice sono il mio modo di scrivere, mi sono venute dalmestiere di chimico. Come anche l’abitudine all’obiettività […]. Anchel’abitudine a pesare le parole, il non fidarsi delle parole approssimative,sono tutte regole di cucina, niente di astratto: prima di usare una parolaapprofondire la sua portata e la sua area linguistica. […] In questo tipodi operazione il mestiere precedente mi serve: per me ex chimico dire‘filtrare’ vuol dire qualcosa di più di quello che dice al laico» (da La chia-ve a stella, premio Strega nel 1978).

Nelle pagine di Primo Levi compaiono elementi, composti organicie inorganici, operazioni fondamentali di manipolazione di laboratorio,formule, attrezzature. Questa storia di un uomo che, partendo dall’espe-rienza concreta del suo mestiere, impara a capire gli uomini e le cose, aprendere posizione e a confrontarsi, può anche essere letta come un apo-logo: la continua sfida alla materia ostile, inerte, alle leggi della natura èuna metafora dell’esistenza umana. «Qualche volta mi sento chiederecome mai io scrivo pur essendo un chimico: mi auguro che questi mieiscritti, entro i loro modesti limiti di impegno e di mole, facciano vedereche fra “le due culture” non c’è incompatibilità: c’è invece a volte, quan-do esiste la volontà buona, un mutuo trascinamento». «Scrivere è un‘produrre’, un trasformare […]. Ora, le cose che ho viste, sperimentate efatte nella mia precedente attività, sono oggi per me, scrittore, una fontepreziosa di materie prime, di fatti da raccontare e non solo di fatti:anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con lamateria. Ad esempio: formulare un’ipotesi esplicativa, crederci, control-larla ed infine trovarla errata, è un ciclo che nel mestiere del chimico siincontra spesso ‘allo stato puro’, ma che è facile riconoscere in infinitialtri itinerari umani. Inoltre l’abitudine a penetrare la materia, a volernesapere composizione e struttura, a prevederne proprietà e comporta-

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mento, conduce ad un abito mentale di concretezza e concisione, aldesiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose […]. Pertutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimi-co abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergliche scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si èlargamente trasfuso nel nuovo».

Note biograficheC. Raimo, “Sorellastre”, in Notable, De Angelis Editore, aprile-giugno 2007.D. Fasoli, “Conversazione con Toti Scialoja”, in Il Caffè illustrato, maggio-giu-gno 2006.S. Colonna, “Chimismi letterari di Primo Levi”, in Wuz, Storie di editori, auto-ri e libri rari, luglio-agosto 2007.

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Carlo Carretto morì il 4 ottobre 1988. E si erano appena compiuti iquarant’anni dalla grandiosa assemblea a Roma dei suoi trecentomila“baschi verdi”, che evidenziarono la presenza dei giovani di AzioneCattolica da lui guidati in quel dopoguerra, irto di problemi ed incogni-te. Tutta la vita fu un trascinatore, un animatore instancabile e conobbeun seguito larghissimo ed entusiasta. Nella società civile poteva salireancora più in alto. Ma dopo il quarantotto, osteggiò ogni collateralismoe perse anche la carica di Presidente Nazionale della Giac. Rifiutò la car-riera politica ed ogni compromesso col potere. Volle rimanere solo unuomo di fede impegnato in una testimonianza cristiana di spessore.

Totalmente all’oscuro delle vicende a cui abbiamo finora accennato,la sera del 25 ottobre 1994 il cronista di un telegiornale, riferendo che ilPresidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato a Spelloa pregare sulla tomba di fratel Carlo Carretto, di seguito aggiungeva,quasi scusandosi per il suo vuoto di informazione sul personaggio: “Sì,Carlo Carretto... sinceramente unapersona di cui oggi nessuno... più siricorda...”.

Lasciata da parte ogni altra con-siderazione, tale affermazione offreun’occasione per constatare quantosia rapido e reale, in particolareoggi, il disfacimento dei ricordi,l’appannamento della memoria sto-rica, sotto l’incalzare di problemi ed

A vent’anni dalla scomparsa di Carlo Carretto, resta viva perl’Azione Cattolica la memoria del presidente nazionale dellaGiac.Unavita lasuacaratterizzatadaun’immutabilecoerenza, intutti i campie intutteleepoche,dataglidallafede incrollabile inGesù Cristo. Il rifiuto del compromesso e della gloria terrena,la scelta per la povertà, gli garantirono una libertà che laChiesadovrebberiscoprire.

Carlo Carretto.Povertà è libertà

Gian Carlo Sibilia

Gian Carlo Sibiliaè stato imprenditore, dirigente a Roma

della Giac, presbitero, iniziatore e priore

dei piccoli fratelli e piccole sorelle di

Jesus Caritas della famiglia spirituale di

Charles de Foucauld. Per oltre 25 anni

in stretta confidenza con Carlo Carretto

che gli ha affidato il discernimento dei

suoi scritti.

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avvenimenti che si susseguono a volte con ritmi vorticosi. Siamo cosìstimolati a riflettere sul grave rischio che corriamo di scollegare l’oggidal passato, se lasciamo perdere un patrimonio di testimonianze che,come in questo caso, molto potrebbero giovare a riattivare, attraverso lamemoria, il coraggio civico e le speranze per l’oggi.

A vent’anni dal transito di Carlo Carretto, il nome di questo inna-morato di Dio non è certo sconosciuto a buona parte del popolo cristia-no, bisognoso di luci e attento a cogliere i doni generosamente distri-buiti dal Signore per l’edificazione armoniosa della sua Chiesa.

Sono decine di migliaia i lettori fedeli e assidui di fratel Carlo che daoltre cinquant’anni si sono nutriti delle pagine dei suoi libri, percorren-do con l’autore sentieri di ricerca tra i più variegati del panorama italia-no, a volte pieni di stupore gaudioso o di semplice contemplazione spi-rituale, a volte resi ardui da un leale e coraggioso esercizio della corre-zione fraterna, a volte ricchi di suggestioni e di visioni tutte pervase daun dialogo orante con un Dio esigente e incomprensibile ma dal pesosoave e leggero.

Sarà per il rapido deteriorarsi delle prospettive di pace, o perl’uragano che si è abbattuto sull’orizzonte politico del nostro Paese, oper il drammatico ripensamento del ruolo dei cattolici nella vita pubbli-ca, o ancora per l’affievolirsi continuo del senso concreto della testimo-nianza cristiana nel quotidiano, o infine per la tiepidezza sempre piùdiffusa delle Chiese, sarà per queste o per altre ragioni tutte insieme chea noi Piccoli Fratelli è divenuta familiare la memoria di un compagno diviaggio sicuro e affidabile, Carlo Carretto. È per noi il fratello che tuttequeste cose ha esperimentato e sofferto in misura esemplare, riuscendo aconservare forte la fede, tenace la speranza e gioiosa la certezza che nullae nessuno può mai allontanarci dall’amore di Cristo.

«Siamo come al principio», ci ricorda Carlo, «siamo come i primi cri-stiani», perché davanti a un cambiamento radicale c’è sempre «una stabi-lità più radicale ancora». Se il cambiamento è ciò che contraddistingue ilmondo e la sua cultura, la stabilità è solo nella fede della Chiesa «prontaa ripetere l’annuncio della salvezza. Siamo come al principio».

Per quanto personalmente vissuto in una fraterna frequentazioneventicinquennale e dall’aver visto nascere i suoi scritti, quale ritratto neviene fuori? La prima immagine che se ne ricava è quella di una profon-da continuità spirituale pur nel mutare di eventi e di situazioni persona-li. Carlo Carretto ci si presenta con un’identità così forte e unitaria dasfatare una certa facile leggenda, accreditata da letture tanto superficialiquanto diffuse, che lo vuole cambiato dopo il deserto; e così non c’ènemmeno un prima e un dopo l’esperienza di Spello.

La struttura portante della sua vita è infatti innanzitutto costituita

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dalla «terribile realtà» della sua fede, così totalizzante, assorbente, grida-ta senza vergogna, paure e rispetto umano, così vera e semplice insiemeda essere manifestata con entusiasmo, con gioia come una cosa ovvia eincontenibile, a cui tutto finiva col fare riferimento, punto essenziale diconfronto e di giudizio di ogni cosa.

È una fede in Dio Padre, di cui avverte la paternità affettuosa delbimbo che lo aspetta gioioso per andare a passeggiare sulle rive del Po; èuna fede nel Figlio di cui, nella giovinezza sente d’innamorarsi senzascampo e che impara ad amare nella Parola e nell’Eucaristia; è una fedesempre nuova e sconvolgente nello Spirito che lo porta a quella libertàdi figlio che lo fa passare dalle avventure salgariane a quelle più rischio-se e affascinanti del discepolo; è una fede nella Chiesa, goduta comefamiglia varia e numerosa, come salesianità sana e operosa, che lo por-terà quasi per mano al servizio più periglioso nella Chiesa. Questa fede,il dono che gli è stato dato, costituisce il continuum della sua testimo-nianza. Non vedono esattamente dunque quanti si attardano a trovarefratture e tappe nella vita di Carlo Carretto, da collocare strategicamen-te come supporto ermeneutico di scelte e decisioni che lo mostrerannosempre controcorrente o, come è stato detto più malevolmente, comeun tipo eccentrico e stravagante.

Così non c’è un Carlo prima e dopo gli anni del deserto perché il suovero deserto lo ha trascorso nelle solitudini e nelle incomprensioni spe-rimentate nel cuore della Chiesa e non tanto sulle dune assolate e fasci-nose del Sahara. Dice bene Arturo Paoli che Carlo arrivò al deserto giàspoglio, anche se aveva ancora le camicie di seta in valigia.

Basta del resto vedere la sua produzione letteraria: da un punto divista stilistico e contenutistico non c’è nessuna variazione di rilievo nellasua vena letteraria e religiosa. È sempre lo stesso innamorato di Dio cheapprofitta di ogni occasione, opportuna e non, per parlare di Lui, delsuo amore amato che desidera far conoscere e amare. Allo stesso modo,non c’è un Carlo Carretto diverso a partire dagli anni di Spello, ma è lostesso uomo della Giac, un po’ ingenuo, un po’ sognatore, un po’ otti-mista, un po’ abbandonato, un po’ entusiasta, un po’ profeta e semprecosì perdutamente innamorato del suo Dio esigente e inafferrabile.

È in questa chiave di lettura che si può guardare al suo impegnoromano e a quello politico dell’epoca in particolare. Una lettura menodocumentata potrebbe dare un’interpretazione non rispondente al verodella cosiddetta crisi prodotta in Carlo dall’operazione Sturzo. La verità èche Carlo era stato dato «in prestito» alla politica e immaginava il suoimpegno come una emergenza per far fronte ad un pericolo, il comuni-smo, in quegli anni giudicato reale. Quello che non capiva e non potevaaccettare era una strumentalizzazione della sua fede, del suo «amore» a

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semplici fini elettorali e di potere. Lo sguardo lungo della fede non glipermetteva di giudicare con occhi di parte l’altro, l’avversario politico;l’unico atteggiamento vero non poteva consistere in democrazia nelloschierarsi «contro» l’altro ma a vantaggio di tutti nella verità e nella giu-stizia. Perciò, pur essendo un fiero e leale oppositore del fronte comuni-sta d’allora, non si impegnò nemmeno per una alternativa di destra.Finito il «pericolo», finì anche il suo impegno politico; questa esperienza,come si sa, non fu anche di altri nella Chiesa: da qui il suo smarrimentoall’epoca della progettata conquista del Campidoglio ad ogni costo.

L’aspetto politico richiama l’altra faccia pubblica di Carlo Carretto: lasua forte indole organizzativa. Quanto ciò fosse retaggio della sua terra lopotrebbero provare analoghe doti di grandi organizzatori in santi piemon-tesi del 1800; ma in lui la passione del fare fu così connaturale, fino atarda età, da essere una realtà sempre in bilico tra il gioco e l’affermazionedi sé. Ma ci penserà la «provvida ventura» a spogliarlo di ogni inganno eillusione per puntare non più sul fare, ma sul lasciarsi fare.

È questa la vera disciplina della Croce, più forte di ogni ascesi inven-tata dall’uomo, che Carlo praticherà per tutto l’arco della sua vita, dal-l’esilio sardo a Bono, agli anni «bui» dei primi anni cinquanta:«Nessuno più mi cerca e non so più cosa fare», fino a certe amare disil-lusioni dell’ultimo tempo della sua vita. Ma in queste «spogliazioni»successive e ricorrenti, emerge il volto vero dell’innamorato, del disce-polo attento, sempre vigile a captare quale fosse il tempo dell’attesapaziente e quale il momento della decisione rapida e sicura. Nelle avver-sità non cade nell’autocommiserazione, ma con semplicità di bimbo chesi stupisce dei tempi diversi e apparentemente incomprensibili delPadre, attende fiducioso che la prova passi per tornare a giocare ancora.In ogni circostanza, anche prima di morire, non perse mai la sua capa-cità di meravigliarsi: «La meraviglia è stato un dono che Dio mi hafatto» e spiegava che «forse lo devo a mia madre che cantava sempre».

Proprio in quest’ottica di gioco da figlio innamorato, va visto il suoimpegno nella Chiesa e nella Giac. Da vecchio, ormai illuminato dallasapienza del Concilio, che gli permetteva di giudicare con più distaccogli ardori giovanili, dirà senza esitazione che se fosse tornato indietroavrebbe rifatto tutto. Non per boria, ma per una scommessa da inna-morato sulla potenza della Grazia che opera non nella forza ma nelladebolezza accettata, che Lui riempie di ogni benedizione. In questa fra-gilità colma di ricchezza, è il segreto della vera comunità cristiana che sipresenta, come una città forte e inespugnabile.

Qualcuno ha giudicato tutto ciò solo un mistificante trionfalismo.«Ma no», rispondeva Carlo, «cercavamo di vincere la paura... eravamodeboli, eravamo sempre in minoranza. Nella scuola ero sempre solo con-

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tro tutti, a difendere Cristo, e anche nella vita». Questo coraggioso attac-carsi a Cristo non era trionfalismo perché avveniva nel segno della crocee della sconfitta; «il trionfalismo pericoloso è venuto dopo la vittoriadella Democrazia Cristiana nell’aprile del 1948. I politici hanno capito laforza che era l’Azione Cattolica e hanno cercato di strumentalizzarla».

Nei confronti della Chiesa il suo atteggiamento sembra caratterizza-to, specie nell’ultimo periodo, da un rapporto di forte tensione; così ciinducono a pensare alcune note pagine: «Quanto sei contestabile,Chiesa, eppure quanto ti amo!... Vorrei vederti distrutta, eppure hobisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi haifatto capire la santità». Ma in questo passaggio bisogna ben capire CarloCarretto. Il tono non è quello dell’amante che pur deluso non può farea meno dell’amata, ma a ben vedere, è sempre il cuore del figlio cheparla perché, anche sul letto di ospedale, gli sta a cuore la sposa bella,quella per cui Cristo ha dato la sua vita. Essa è vista per l’azione delloSpirito, senza macchia perché il male «non ha potuto toccare la profon-dità metafisica» della sua realtà più vera e nascosta; perché da sempre èamata «di amore eterno» e senza pentimento. Amare la Chiesa per Carlovuol dire crederla santa in Cristo, non chiudendo gli occhi davanti alsuo continuo bisogno di pentimento ma credendo sempre che il Signoreè capace di trasformare le ossa aride in rigoglio di vita, perché solo Lui èin grado di fare nuove tutte le cose, soprattutto i nostri cuori: «è questol’ambiente divino nella Chiesa».

L’ecclesiologia di Carlo Carretto è perciò profondamente cristologi-ca, radicata nell’amore verso Gesù, l’amico, «il più grande e sicuro cheho», guardando sempre a Lui, il solo punto certo «del nostro poveroorizzonte». Tale visione della Chiesa non è «misticheggiante», ma svi-luppata concretamente a partire dal ruolo dei vescovi in un contesto sto-rico definito (vedi la lettera del tempo al fratello Piero che sta per diven-tare vescovo missionario in Siam), e con una sottolineatura di cattolicitàche proprio la sua esperienza ecclesiale nella Giac prima e i viaggi pienidi respiro missionario compiuti come dirigente dopo, gli conferirannoin modo duraturo. Una visione dunque sacramentale della Chiesa,senza infingimenti e connivenze con il potere, vista realisticamentecome luogo della fedeltà di Dio, ma anche come luogo della tentazione.

L’Azione Cattolica deve molto a Carlo Carretto, ma anche Carlodeve molto all’Azione Cattolica. Grazie ad essa non solo completò la suaformazione culturale e interiore, meditando quotidianamente la Bibbia,ma comprese altresì che i preti e i laici non potevano e non dovevanoessere due corpi separati nella Chiesa, bensì avere ambedue un ruolospecifico nella missione evangelizzatrice. Come sostiene in Famiglia pic-cola Chiesa – e ripetutamente nei suoi scritti – i laici potevano santifi-

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carsi nel matrimonio e condurre comunque una vita profondamentecristiana. L’importanza accordata al laicato marcherà tutta la sua vita,forte della lezione ricevuta da Luigi Gedda, non aspirerà al sacerdozio,malgrado la sua forte vocazione di consacrato a Dio, quasi a testimonia-re, con la sua presenza di uomo laico che la Chiesa è la Chiesa di tutti enon solo dei preti. Così si donò interamente all’Azione CattolicaItaliana, all’apostolato, a quella “piccola Chiesa” che l’aveva aiutato acapire la “grande Chiesa”.

Già Piccolo Fratello, nel gennaio del 1969, in una lettera circolareinviata agli amici scriveva: «E ora vi confesso una cosa. Ho accettato dientrare tra i diaconi permanenti perché questa nuova istituzione delConcilio è aperta agli sposati. È sempre stato il nostro sogno di militan-ti cristiani, dare agli sposati una grande possibilità di agire nella Chiesadi Gesù. Mi pare sia venuta l’ora…».

Carlo Carretto ha sempre affermato che il segreto dell’unità della suavita è stata la semplicità imparata dalla madre e che sentiva di averla nelsangue. Perciò o trovandosi ad un’assemblea nazionale dell’AzioneCattolica, ad una manifestazione di studio, ad un incontro spirituale, inuna molteplicità di idee, di attività tecniche ed organizzative o spiritua-li, avvertiva che l’idea madre che conduceva la sua anima era questasemplicità ricca di preghiera e di amore. Quante volte, parlando agliamici di ieri o ai giovani che correvano a Spello, ritornava su tale filoconduttore della sua vita: la semplicità in una via di povertà e di intensapreghiera. Questi valori gli hanno concesso il dono della libertà. Mai,ripeteva, amava abbastanza queste strade di libertà. Mai soffriva tanto divedere come il mondo facilmente si lasciasse chiudere dalle catene delcomodo, della ricchezza e della vita borghese. Con insistenza, ancheprima della sua scelta religiosa, il parlare e lo scrivere di Carlo Carretto ècaratterizzato dalla sottolineatura di questi valori: povertà e libertà.

Povertà in particolare significa fiducia in Dio: riuscire ad essere calmianche se nella dispensa non c’è il pane, perché Dio Padre non mancheràdi fare il miracolo di darcelo.

Oggi ci si lamenta della sofferenza dei cattolici che si sentono nelmondo di oggi come soffocare, come strangolati, come una cosa in cuitutti affondano. Carlo direbbe che è dovuto alla mancanza della beatitu-dine della povertà e quindi della mancanza di gioia.

Un altro aspetto che Carlo avvertiva unificante della sua vita, e dice-va che era il più innocente, il più infantile, era quello della contempla-zione. E sono insieme quelli che hanno arricchito la Gioventù Cattolica:servire in povertà e servire pregando; hanno alimentato la storia di ieri edevono alimentare la storia di oggi per non perdere un equilibrio indi-spensabile per vivere.

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Carlo spesso ricordava l’inizio della Giac, lo stato di preghiera dolceche accompagnava ogni riunione, i viaggi di propaganda, l’incontro conle diocesi. Così si esprimeva: «Ritornare dalla propaganda dicendo ilrosario, sentire la gioia della Messa, sentire la gioia della Confessione,sentire la gioia di aprire il Vangelo…».

In tempi di oscuramento e di confusione per i repentini mutamentidella storia, quando molti si affrettano o si smarriscono per sentieri tor-tuosi, perché la via maestra è ingombra di troppe rovine fino a sembrareinfida e impraticabile, avere un compagno di viaggio è conforto prezio-so, soprattutto se come raccomandava il vecchio Tobi, questo compa-gno è fidato e conosce la strada.

È ancora Carlo Carretto che viene a indicarci il percorso: «Tenetesalde le vostre file, guardate avanti. Non lasciatevi turbare da quella cheattorno a voi può essere un’ondata così negativa. Non è vero, non ètutto negativo; sembra che sia così, ma tutto concorrerà alla giustizia diDio, alla misericordia di Dio, anche il peccato è utile, è un’esperienzache ho fatto… Anche il peccato diventa grazia, perché ci insegnerà adamare di più Gesù, a sentire che siamo piccoli, deboli, che siamo tantoincoerenti, che siamo delle povere cose. Impareremo a capire che valia-mo tanto poco, ma è inutile guardare la nostra miseria e la nostrapochezza, è molto più utile guardare la misericordia di Dio e fissare inostri occhi nella maestà dell’Altissimo».

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 a cura della So.gra.ro. – Roma

UN CONTRIBUTO DELL’AZIONE CATTOLICA• al cammino di evangelizzazione della comunità cristiana• al dialogo nella città degli uomini• a una elaborazione culturale aperta e rigorosa

IN OGNI NUMEROEDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi

PRIMO PIANO: interventi autorevoli su questioni di attualità culturale e sociale

UN PERCORSO TEMATICO ANNUALE: articoli, servizi, interviste a testimoni significativi, forum

EVENTI & IDEE : interpretazioni, aggiornamenti, discussioni;la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società...

IL LIBRO & I LIBRI: suggerimenti e itinerari critici di lettura

PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare

IL PERCORSO TEMATICO DELL’ANNO 2008:Sul bene comunen. 1 - Alla ricerca del bene comunen. 2 - Bene comune, beni di tuttin. 3 - Un mondo da condivideren. 4 - Bene comune: quale educazione?

Indirizzo internet:http://www.dialoghi.azionecattolica.it/(interamente consultabili i numeri del 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005)E-mail: [email protected]

ABBONAMENTO ANNUALE (4 numeri): 26,00 EUROL’abbonamento può essere effettuato attraverso il bollettino di conto corrente postale n. 78136116intestato a Fondazione Apostolicam Actuositatem Riviste – Via Aurelia, 481 – 00165 Roma.

Dialoghiper un progetto culturale cristianamente ispirato

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