I. Il rito eucaristico nel NT -...

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ISSR «N. Stenone» - Appunti di teologia sacramentaria – 2009/10 : Eucaristia 1 L’E UCARISTIA Il sacramento dell’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana (LG 11). Negli scritti del NT troviamo limpide testimonianze del rito che da allora la chiesa celebra in memoria della morte e re- surrezione di Gesù Cristo nostro Signore. La tradizione viva della chiesa ha conservato un’interpretazione sacrificale della croce di Gesù e del rito che ne fa memoria. Per questo, crediamo che l’Eucaristia è sacrificio di Cristo, in quanto memoriale del suo sacrificio, ma è anche sacrificio della chiesa. La riflessione contemporanea sul rito eucaristico cerca di esprimere in modo nuovo questa visione di fede. Queste note porranno l’accento su alcuni aspetti del mistero eucaristico, te- nendo presente che il mistero dell’Eucaristia trova la sua pienezza solo all’interno della celebrazio- ne. I. Il rito eucaristico nel NT Il problema davanti al quale si è trovata di fronte la teologia dell’ultimo secolo è stato quello di armonizzare i testi che descrivono le riunioni «eucaristiche» della chiesa apostolica. I testi di At sul- la frazione del pane hanno il medesimo riferimento dei passi paolini sul pasto cristiano? In che rap- porto si trovano questi testi con i racconti sinottici sull’ultima cena di Gesù? Infine, quale valore a- vrebbe l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24) in riferimento alla pratica cultuale della chiesa primitiva? Se la tradizione ecclesiale era sempre stata concorde nell’ammettere un legame evidente fra tutte queste realtà e quel rito della chiesa detto «Eucaristia», alcune ipotesi nel XX secolo hanno rimescolato le carte e proposto soluzioni diverse. Uno sguardo su queste prospettive, anche se ab- bandonate o da precisare, aiuterà a impostare correttamente l’analisi dei dati del NT. In modo ap- prossimato le ipotesi teologiche del XX secolo sul rito eucaristico vertono sull’origine del rito. In ambiente protestante è nata l’ipotesi per cui all’origine del rito ecclesiastico detto Eucaristia vi sa- rebbero due tipi di pasto. L’ipotesi nasce con la formulazione radicale di Lietzmann, sfumata nella versione più recente di Cullmann. Allo stato attuale delle ricerche teologiche abbiamo una sostan- ziale conferma della posizione tradizionale: l’ultima cena di Gesù deve essere vista come l’unica o- rigine del rito eucaristico della chiesa, detto da Paolo “cena del Signore” e dalla tradizione lucana “frazione del pane”. L’investigazione ulteriore si diffonde nella valutazione del timbro pasquale della cena, senza at- tribuire un’importanza determinante alla questione. In fondo, esistono “espliciti riferimenti pasqua- li” in tutte le narrazioni dell’ultima cena. C. Giraudo ha riconfermato le analogie presenti fra il se- der ebraico e la cena di Gesù: le azioni e le parole di Gesù sono in un contesto pasquale e pertanto il valore dell’Eucaristia è azione commemorativa della pasqua di Cristo. Dall’opera del benedettino anglicano dom G. Dix, The Shape of Liturgy, è stato dato sempre più spazio alla dimensione liturgi- ca all’interno della quale sono sorti i racconti dell’ultima cena: la critica esegetica ha ormai ampia-

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L’EUCARISTIA

Il sacramento dell’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana (LG 11). Negli scritti del NT troviamo limpide testimonianze del rito che da allora la chiesa celebra in memoria della morte e re-surrezione di Gesù Cristo nostro Signore. La tradizione viva della chiesa ha conservato un’interpretazione sacrificale della croce di Gesù e del rito che ne fa memoria. Per questo, crediamo che l’Eucaristia è sacrificio di Cristo, in quanto memoriale del suo sacrificio, ma è anche sacrificio della chiesa. La riflessione contemporanea sul rito eucaristico cerca di esprimere in modo nuovo questa visione di fede. Queste note porranno l’accento su alcuni aspetti del mistero eucaristico, te-nendo presente che il mistero dell’Eucaristia trova la sua pienezza solo all’interno della celebrazio-ne.

I. Il rito eucaristico nel NT

Il problema davanti al quale si è trovata di fronte la teologia dell’ultimo secolo è stato quello di armonizzare i testi che descrivono le riunioni «eucaristiche» della chiesa apostolica. I testi di At sul-la frazione del pane hanno il medesimo riferimento dei passi paolini sul pasto cristiano? In che rap-porto si trovano questi testi con i racconti sinottici sull’ultima cena di Gesù? Infine, quale valore a-vrebbe l’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24) in riferimento alla pratica cultuale della chiesa primitiva? Se la tradizione ecclesiale era sempre stata concorde nell’ammettere un legame evidente fra tutte queste realtà e quel rito della chiesa detto «Eucaristia», alcune ipotesi nel XX secolo hanno rimescolato le carte e proposto soluzioni diverse. Uno sguardo su queste prospettive, anche se ab-bandonate o da precisare, aiuterà a impostare correttamente l’analisi dei dati del NT. In modo ap-prossimato le ipotesi teologiche del XX secolo sul rito eucaristico vertono sull’origine del rito. In ambiente protestante è nata l’ipotesi per cui all’origine del rito ecclesiastico detto Eucaristia vi sa-rebbero due tipi di pasto. L’ipotesi nasce con la formulazione radicale di Lietzmann, sfumata nella versione più recente di Cullmann. Allo stato attuale delle ricerche teologiche abbiamo una sostan-ziale conferma della posizione tradizionale: l’ultima cena di Gesù deve essere vista come l’unica o-rigine del rito eucaristico della chiesa, detto da Paolo “cena del Signore” e dalla tradizione lucana “frazione del pane”.

L’investigazione ulteriore si diffonde nella valutazione del timbro pasquale della cena, senza at-tribuire un’importanza determinante alla questione. In fondo, esistono “espliciti riferimenti pasqua-li” in tutte le narrazioni dell’ultima cena. C. Giraudo ha riconfermato le analogie presenti fra il se-der ebraico e la cena di Gesù: le azioni e le parole di Gesù sono in un contesto pasquale e pertanto il valore dell’Eucaristia è azione commemorativa della pasqua di Cristo. Dall’opera del benedettino anglicano dom G. Dix, The Shape of Liturgy, è stato dato sempre più spazio alla dimensione liturgi-ca all’interno della quale sono sorti i racconti dell’ultima cena: la critica esegetica ha ormai ampia-

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mente mostrato l’ambientazione liturgica delle narrazioni sinottiche e paolina della cena di Gesù. In sintesi, la ricerca teologica degli ultimi decenni si è sviluppata intorno alle seguenti direzioni: l’esistenza o meno all’interno del NT di pasti rituali con pratiche e significati diversi; il carattere pa-squale della cena di Gesù; la determinazione delle parole di Gesù sul pane e sul vino in quanto ri-flettono l’intenzionalità che attribuiva alla sua morte imminente; la cronologia dei racconti della ce-na.

I.1 Il primitivo rito eucaristico della chiesa apostolica

La teologia ha ormai raggiunto una consapevolezza largamente condivisa: i racconti dell’ultima cena non sono delle narrazioni a sé stanti, ma appartengono a una tradizione ecclesiale. Pertanto uno studio sul rito eucaristico deve partire dalle azioni rituali della chiesa apostolica, intese come parte ordinaria della vita della stessa chiesa: la vita della chiesa è il punto di partenza per uno studio sull’Eucaristia. In questa prospettiva il problema che si pone immediatamente è il rapporto fra rito e pasto nelle prime comunità cristiane. Dalle descrizioni del NT ricaviamo un dato: le comunità cri-stiane primitive hanno come elemento essenziale alla loro vita un pasto comune. Ma occorre preci-sare ulteriormente quale relazione abbia con l’azione sacramentale compiuta sul pane e sul vino. In-dubbiamente Lietzmann aveva individuato la presenza di due tipologie differenti. I gesti descritti in At 2,42ss e 1Cor 10s contengono un’azione rituale distinta dal pasto? Appare chiaro che i due testi mostrano come in due situazioni differenti il memoriale del Signore è nel contesto di un pasto co-mune e di precisi legami comunitari. Cercheremo, dunque, di analizzare il valore del rito detto “fra-zione del pane” (At 2 etc.) e quello della “cena del Signore” (1Cor 10s). Questo esame ci permetterà di affrontare nel modo migliore l’analisi dei racconti sulla cena di Gesù.

At 2,42 parla esplicitamente di una frazione del pane. Il termine indica un rito particolare nel quale si esprimeva la natura e l’unità della comunità ecclesiale più che un pasto consumato in modo comunitario. Non bisogna pensare, però, a una incompatibilità fra rito e pasto, quanto alla loro di-stinzione: anche dai documenti ebraici non appare mai l’equivalenza fra rito e pasto. Probabilmente il rito avveniva in occasione di riunioni che comprendevano anche un pasto in comune. Secondo l’uso giudaico il pasto comune era preceduto da un rito compiuto dal capofamiglia, che benediceva e spezzava il pane. Alla fine del pasto un gesto simile era compiuto sul calice del vino. In questo contesto tipico degli usi giudaici s’inserisce la cena di Gesù. Tuttavia, la tradizione degli Atti ha un altro quadro di riferimento, come accennato sopra:

Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti colo-ro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. (At 2,42-48)

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La storia redazionale dei sommari sulla comunità di Gerusalemme (cf anche At 4,32-35; 5,12-16) è ancora discussa. In ogni caso la vita della comunità viene descritta o meglio incentrata intorno a quattro elementi, che a due a due operano un collegamento orizzontale e uno verticale. Secondo Jeremias potremmo avere nell’ordine di questi riferimenti, insegnamento, comunione, frazione del pane e preghiere il rinvio a un’unica celebrazione, anticipo di un vero rito eucaristico con spiega-zione della parola, offerta per i poveri, rito sacramentale all’interno di preghiere. Ma l’ipotesi sem-bra veramente tirata. In modo più opportuno abbiamo in queste quattro indicazioni il programma di vita della comunità.1 La frazione del pane deriva, quindi, dall’uso giudaico del gesto compiuto all’inizio del pasto, ma in ambito cristiano assume il senso di rito sacramentale e di compartecipa-zione nell’unità della celebrazione cristiana. E’ il simbolo dell’unità voluta da Gesù Cristo nel riuni-re i suoi. Nella tradizione lucana appare in modo evidente il rapporto tra la frazione del pane e la koinônia espressa nell’assemblea, nell’insegnamento e nella carità. Sempre per la stessa tradizione, probabilmente il rito avveniva in occasione di un pasto, ma certamente il rito è incomprensibile sen-za un qualche riferimento alla vita comune.2

1 • L’insegnamento degli apostoli. Il termine greco didachè indica la continuazione sistematica

dell’annuncio evangelico, che avveniva nelle case o nel tempio (At 5,42), sul modello dell’atteggiamento didattico di Gesù stesso. Il brano di At 20 indica la presenza di un insegnamento all’interno dell’assemblea liturgica, durante la fra-zione del pane. La tradizione giudaica prevedeva la lettura della Scrittura nella versione targumica; ma presso i cristiani, più che i testi della Tôrah, il riferimento principale divennero la vita e le opere di Gesù, soprattutto inserendoli nel dise-gno salvifico di Dio (il mystêrion; cf uso cristiano delle profezie di Is 53). In modo chiaro la redazione dell’episodio di Lc 24 risente di un contesto liturgico: la Parola è sempre collegata al Pane condiviso.

• La comunione. Il termine greco tradotto dalla CEI con unione fraterna è koinononia - comunione. Ne sono state date varie interpretazioni in senso preciso: pasto preso insieme, colletta per i poveri, unione nella fede, condivisio-ne dei beni. Probabilmente ci troviamo di fronte a un senso globale. La parola ha un largo spettro di significati, che in-clude tutte le singole e particolari identificazioni proposte dagli esegeti. L’unione fraterna, in fondo, è un’unione di fede realizzata intorno a Cristo e manifestata attraverso segni esteriori. In Atti ritorna spesso l’espressione epi to auto (At 1,14; 2,1.44.47; 4,26). Certamente l’unione di fede deve manifestarsi nella concreta condivisione dei beni, chiaro indice escatologico: At 4,34 non è che la realizzazione della profezia di Dt 15,34. La colletta è servizio, diakonia (At 11,29), ideale precedente al pensiero paolino, che le indica con comunione - koinônia, liturgia - leitourghia (2Cor 9,12; Rm 15,27). Ricordiamo il pensiero di un “insospettabile” sull’uso dei beni: “l’uomo non deve possederli come dei beni che gli appartengono in proprio, ma come dei beni a servizio della comunità” (san Tommaso).

• La frazione del pane e le preghiere. Le preghiere (proseuchai) della prima comunità cristiana erano preghiere giudaiche usate in senso cristiano, come i salmi interpretati in chiave cristologica (At 2,25-28.34s; 4,25s), oppure pre-ghiere nate dalla fede in Cristo dal Padre nostro insegnato da Gesù ai primi inni cristologici (Bibbia TOB, vol. 3°, p. 374, n. z). Anche in tutte le narrazioni della cena compare un elemento orazionale, detto sempre “eucharistia / Eucari-stia” da Lc e Paolo, mentre Mt e Mc distinguono l’euloghia sul pane dall’eucharistia sul vino. Il dato storico fu che la preghiera adoperata all’interno del rito detto inizialmente frazione del pane o cena del Signore divenne l’elemento de-terminante nella valutazione dell’intero rito. Già in epoca sub-apostolica il rito viene denominato “eucharistia” (Dida-chè, Ignazio d’Antiochia): la dimensione «eucaristica» del rito viene a coprire l’intero rito e a dargli il nome che lo con-traddistinguerà per sempre.

2 Altri riferimenti alla frazione del pane li troviamo nei testi di At 20; At 27 e Lc 24. Il brano iniziale di At 20 fa riferimento a un’asemblea liturgica (uso del verbo sunagô, l’indicazione del giorno del Signore, l’uso di lampade). Il tono è chiaramente eucaristico. la comunità si trova riunita per la frazione del pane, all’interno della quale Paolo tiene un discorso. Luca unisce l’eucaristia con l’episodio del giovane riportato in vita dall’apostolo e la conseguente consola-zione della comunità. Anche l’episodio della tempesta che precede il naufragio della barca che conduce Paolo prigionie-ro verso Roma contiene timbri volutamente eucaristici (At 27,33-38). Infine, l’ultimo tassello della tradizione lucana è l’episodio dei discepoli di Emmaus, dove troviamo la sintesi delle linee principali del Vangelo di Luca e delle sue pro-spettive teologiche (Lc 24,13-35). Gli esegeti vi vedono un particolare genere letterario, la «leggenda»: qualcosa da leg-gere alla comunità, una catechesi storicizzata, elementi storici anteriori che Lc ha elaborato in modo intenzionale. La dinamica dell’episodio mette in rilievo il cammino dalla disperazione alla gioia, dagli occhi chiusi alla loro apertura,

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Infine, il rito ha una inizialmente una dimensione familiare, quasi profana. Si svolge in casa, al contrario dei sacrifici del tempio. A parte l’interpretazione teologica compiuta da Eb, Gesù non vie-ne mai ricordato in riti o cerimonie sacrificali: i dati evangelici sono concordi nel descrivere la sua persona come il nuovo tempio. Sulla sua scia, la comunità cristiana insegna nel tempio o vi si reca per compiere segni, compimenti escatologici della novità (At 5,42). Ma l’assemblea, la comunità cristiana si raduna nelle case (1Cor 16,19; Rm 16,5; Film 2; Col 4,15). La chiesa primitiva avverte una libertà escatologica anche nei confronti del luogo del culto; è la comunità di coloro chiamati ad adorare “il Padre in Spirito e Verità” (Gv 4,23). In questo senso vanno lette le apparizioni del Risor-to e l’evento di Pentecoste al di fuori dell’ambito di uno spazio sacro. Il velo del tempio è squarcia-to alla morte di Gesù. Il simbolo rinvia in primo luogo allo squarcio dell’unico autentico luogo di culto (il corpo di carne di Gesù); ma ad un secondo livello indica la rottura della distinzione fonda-mentale tra spazio sacro e profano. Così nel III secolo i primi edifici adibiti dai cristiani a sostituire le case per la celebrazione del culto saranno le basiliche, edifici pubblici di uso profano. Solo col tempo nella chiesa verrà ad essere recuperato il valore di uno spazio sacro, che in ogni caso resta un segno, importante ma non assoluto.

I capitoli di 1Cor 10s parlano di un rito del pane e del vino. I pasti della comunità vengono presi in segno di unità, all’interno di un evidente conflitto tra ideale e realtà (1Cor 11,20). La prassi abi-tuale prevedeva la benedizione e la condivisione del pane all’inizio del pasto, i medesimi gesti alla fine in riferimento al vino. Ma la comunità di Corinto non condivide gli altri cibi, vivendo una “prassi dei tavoli separati”. La lettera di Paolo testimonia che fin dal 50 a Corinto i credenti sono assidui alla «cena del Signore», designazione unica nel NT. L’intervento di Paolo non pone in que-stione il rito ma il modo di praticarlo: la cena del Signore è un atto dell’intera comunità, dove con-vergono un pasto fraterno e un rito eucaristico (1Cor 10,16).

La cena cristiana si distingue dagli altri pasti religiosi per alcune caratteristiche peculiari. La fe-de nel Signore è l’unico requisito per la partecipazione, che prevede, perciò, una grande varietà di commensali. La cena tende a rinsaldare l’unione dei credenti attraverso la condivisione; non abbia-mo alcuna esclusione per motivi di purezza legale. In fondo, sembra che a Corinto fossero riunite in un’unica occasione di ritrovo due pratiche distinte della chiesa di Gerusalemme: la diaconia della mensa (At 6,2) e la pratica eucaristica della frazione del pane. I cristiani continuarono la prassi giu-daica dell’assistenza ai bisognosi attraverso il piatto del povero giornaliero (distribuzione di cibo) e il paniere del povero settimanale (distribuzione di vestiario). La comunità di Corinto celebra in mo-do unitario queste dimensioni della vita ecclesiale. Appare, dunque, un legame inscindibile fra la

dall’uscita da Gerusalemme al ritorno nella stessa comunità. Lungo la strada del cammino fisico e interiore i discepoli hanno la rivelazione che Gesù, il Messia, doveva morire per essere glorificato e ora è vivo. La luce della Parola di Dio propone un capovolgimento radicale della realtà; la Pasqua di Gesù diventa anche la Pasqua dei discepoli e della chiesa. L’intenzione principale di Lc è di dare risalto alla nuova presenza del Risorto, distinta da quella pre-pasquale. La comu-nità ha già fatto esperienza di questa presenza nuova (vv. 33s); ora ne fa esperienza nella proclamazione della parola (v. 32) e nello spezzare il pane (v. 35).

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condivisione del pasto e l’azione liturgica, mettendo in luce il doppio valore della dimensione co-munionale e kerigmatica.

La cena del Signore non sarebbe un’agape fraterna senza essere motivata e finalizzata dall’incontro eucaristico con il Signore, unica ragione d’essere della comunità. I credenti entrano in comunione con Cristo nel mangiare il pane e bere il vino (1Cor 10,16); la loro fede li spinge a cre-dere che sono il pane e il vino del Signore (1Cor 11,27). In 1Cor 11,26 appare la dimensione kerig-matica ed escatologica di questa cena: in questa «azione» la comunità annuncia la morte del Signo-re. Insieme al Vangelo anche il banchetto è riconducibile all’idea di annuncio o, meglio, proclama-zione: la comunità proclama la morte del Signore, celebrando la sua cena e così la morte del Signo-re diventa un “evento manifesto”. L’annuncio del Signore nella sua morte e l’annuncio della morte del Signore presente e vivo sono in un rapporto inscindibile. La notte in cui il Signore venne tradito si configura come origine della memoria e del pasto. La memoria viene proclamata finché egli non verrà, cioè ai confini di quella tensione escatologica verso cui spinge la presenza del Signore stesso. Abbiamo un evento escatologico provvisorio, dove confluiscono le tre dimensioni seguenti: 1) la cena del Signore come riunione della comunità edifica la comunità ecclesiale. 2) Nella cena del Si-gnore la comunità commemora Gesù il Cristo e al tempo stesso ne scopre la presenza. La cena in modo rituale rappresenta la proclamazione evangelica, iniziata da Gesù Cristo nella notte del sacri-ficio, custodita dalla Tradizione della chiesa, fino alla parusia. 3) La cena del Signore è l’annuncio fondamentale di Gesù reso Kyrios del mondo, che ripresenta l’evento cardine del mystêrion di Dio e invita ogni persona alla decisione di fede e all’obbedienza.

I.2 Il racconto della Pasqua di Gesù

La domanda di fondo che suscitano i racconti evangelici dell’ultima cena è sul valore delle nar-razioni: siamo di fronte a un racconto storico oppure a un testo liturgico-kerigmatico? Le risposte che sono state date sono varie e probabilmente sono tutte in parte viziate dalla precomprensione di chi ha operato al ricerca. Jeremias, davanti al dilemma fra liturgia e racconto storico, conclude il suo esame esegetico con la propensione verso una “antichissima tradizione narrativa preliturgica”. Ma il racconto mostra anche l’intenzione di volere proclamare un’azione fondante. Attraverso lo studio delle più antiche preghiere eucaristiche C. Giraudo prova a fare una sintesi delle varie posi-zioni. Per lui saremmo davanti a un caso per eccellenza, nel quale il dato storico ha come propria situazione vitale il culto. I formulari liturgici che lo riportano lo danno come un racconto scritturi-stico, con tutta l’obiettività storica che comporta il brano narrativo. Ma la citazione formale si trova inserita armonicamente nel formulario anaforico, per quanto nessuna redazione liturgica corrispon-da a una qualunque delle redazioni scritturistiche. Pertanto egli mette avanti l’ipotesi di formulazio-ni parallele che confluirono nelle formulazioni liturgiche e/o nelle formulazioni della Scrittura; non avremmo, quindi, il passaggio da un testo scritturistico a una sua redazione liturgica, quanto piutto-

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sto un’unica origine che si è determinata attraverso passaggi contemporanei sia nella narrazione scritturistica che nella formulazione liturgica.

Nell’incertezza se attribuire un senso pasquale all’ultima cena (cf cronologia differente tra i si-nottici e Gv), registriamo che la Tradizione e il magistero della chiesa hanno mantenuto l’ipotesi del banchetto pasquale (cf CCC 1340). Il punto nevralgico a livello teologico è stabilire il rapporto che lega la celebrazione eucaristica cristiana alla pasqua ebraica, al rito compiuto da Gesù e, soprattutto, alla sua Pasqua. Giraudo presenta con un’argomentazione articolata e convincente il confronto fra la pasqua ebraica e quella cristiana. In entrambe gli elementi da tenere presenti sono il segno profeti-co, l’evento fondatore e il rito: il segno profetico prefigura l’evento fondatore, la cui efficacia viene resa presenta nel tempo attraverso la ripetizione del rito. In modo particolare dobbiamo partire dalla pasqua ebraica. Prima di liberare il suo popolo, il Signore ordinò loro di compiere un rito nelle case, segno profetico della vigilia, prefigurazione prossima di quello che sarebbe accaduto in un futuro immediato. La cena consumata in piedi dagli ebrei in terra d’Egitto è segno profetico della passag-gio del mare Rosso, evento fondatore per il popolo d’Israele, attraverso cui ottiene la liberazione dalla schiavitù del faraone. Morte e vita vennero dal passaggio attraverso le acque. Ma in quanto segno profetico quella cena d’Egitto non venne più ripetuta: è irripetibile al pari dell’evento fonda-tore. Invece, si presenta come prefigurazione liturgica di un futuro lontano, trasmesso di generazio-ne in generazione. Il rito della pasqua ebraica deriva dal segno profetico, viene iterato in quanto rito e rinvia all’evento fondatore. In sintesi, segno profetico ed evento fondatore hanno la caratteristica di essere irripetibili.

Pertanto l’ultima cena si trova in una situazione particolare, come lo stesso concilio di Trento aveva individuato, distinguendo in essa l’aspetto celebrativo da quello istituzionale: “Celebrata, in-fatti, l’antica Pasqua (Nam celebrato veteri Pascha ), che la moltitudine dei figli di Israele immola-va in ricordo dell’uscita dall’Egitto, istituì la nuova Pasqua (novum instituit Pascha ) e cioè se stes-so , che doveva essere immolato dalla chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo passaggio al Padre…” (Conc. Œcum. Trident., sessio XXII, doctrina et canones de ss. Missæ sacrificio, cap. 1°). Nell’ultima cena Gesù compì un rito, appartenente all’economia dell’Antica Alleanza, in memoria dell’evento fondatore della stessa Alleanza. Ma al tempo stesso, a livello del NT quel rito non è altro che un gesto profetico, che rende possibile l’inizio di una nuova serie rituale. In sintesi abbiamo dalla Pasqua d’Egitto la Pasqua “delle generazioni” dei figli d’Israele, dall’Eucaristia del cenacolo l’Eucaristia “delle generazioni”. Pertanto l’ultima cena non è riducibile a una cena d’addio, né a un semplice preliminare della morte e resurrezione. Teologica-mente è inseparabile dall’evento pasquale di Cristo, perché segno profetico ed evento fondatore si richiamano e implicano a vicenda. Il segno profetico rinvia anche a un futuro lontano. Come Dio indica la Pasqua d’Egitto un memoriale (l

ezikkarôn ) per tutte le generazioni degli Israeliti (Es

22,14), così Gesù comanda alla comunità cristiana l’iterazione del rito eucaristico (Lc 22,19). Nel riferimento all’evento fondatore, il mistero escatologico della morte e resurrezione di Cristo, sco-priamo il rapporto fra sacramento del battesimo e dell’Eucaristia. Una volta per tutte siamo immersi

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ritualmente nell’evento unico della morte e resurrezione di Cristo attraverso il battesimo; allo stesso evento siamo ripetutamente e ritualmente ripresentati per mezzo dell’Eucaristia. Se Israele vede nel passaggio del Mare Rosso l’evento fondatore della sua economia salvifica, la chiesa riconosce nella morte e resurrezione di Cristo l’evento fondatore della nuova ed eterna Alleanza. Ecco in sintesi lo schema di fondo:

→ → → «Croce» evento fondante ← ←

↑ ↑

profezia della ↑

↑ ← ← ← ← ← ← ← ← ← ← ← ← «Cena di Gesù» ↑

rito, compiuto una volta per tutte

memoriale della ↑

attraverso segni e parole «Istituzione» della → → → → →→ → → → → → Messa, rito nel tempo ↑

Va notato come entrambi gli eventi partecipino delle categorie di immersione/emersione, mor-te/resurrezione. Cf il brano di Rm 6 e 1Cor 10,2; la visione di Gesù sulla sua morte come battesimo (Lc 12,50; Mc 10,38) e il rinvio al segno di Giona (Mt 12,40). Allora, il senso delle parole istituzio-nali non deve essere ridotto alla dimostrazione della Presenza reale, ma quelle parole vanno inter-pretate secondo quella teologia dinamica che risulta da testi come 1Cor 10,16 e Lc 22,19s: Gesù stabilisce un rapporto di koinônia tra il segno del pane e del calice e la sua morte (il corpo che sta per essere dato, il sangue che sta per essere versato). Nella mediazione del segno del pane e del ca-lice Gesù annunzia profeticamente e compie in modo salvifico il mistero della sua morte vicaria. Il rapporto fra il segno profetico (parole e gesti sul pane e sul calice) e l’evento fondatore (la morte e resurrezione di Cristo) viene espresso con la categoria della koinônia da Paolo, così come i padri e la liturgia parlano di figura, tipo o similitudine, e il testo di Es 12,13 usa segno (’ôt). La liturgia e i padri applicano all’Eucaristia la categoria misterica che Paolo fa intervenire in Rm 6,5 per il batte-simo e soggiace al testo di 1Cor 10,16s.

I.2.1 Il racconto istituzionale dell’Eucaristia

Impostata la questione nei punti precedenti, passiamo in rassegna l’analisi dei racconti istituzio-nali dell’Eucaristia, tenendo presente la sinossi dei testi. Prima di analizzare i termini e le espressio-ni più significative, occorre rendersi conto quale tipo di testo stiamo per analizzare. In fondo si trat-ta di sciogliere il dilemma se i racconti istituzionali costituiscano dei racconti storici o liturgico-kerigmatici. In passato si propendeva per un passaggio dai dati scritturistici all’ambientazione litur-gica. Jeremias, dopo avere passato in rassegna opinioni ed elementi a favore dell’una o dell’altra i-potesi, propende per una “antichissima tradizione narrativa preliturgica”. Anche per Léon-Dufour ci troviamo di fronte a un racconto che vuole proclamare un’azione fondante. C. Giraudo si discosta dalle opinioni che oscillano fra una delle due soluzioni proposte e ipotizza di essere di fronte al caso

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per eccellenza in cui il dato storico abbia come primo Sitz im Leben il culto. Infatti tutti i vari for-mulari liturgici che riportano il racconto istituzionale lo danno come un «racconto scritturistico», cioè con tutta l’oggettività storica che comporta il brano narrativo. Ma al tempo stesso lo presentano come una citazione formale, inserita armonicamente nel formulario anaforico. Pertanto, poiché nes-suna redazione liturgica corrisponde a una delle quattro redazioni scritturistiche, Giraudo formula l’ipotesi che, in forza del valore del testo e del suo impiego vitale, all’inizio si sarebbero avute for-mulazioni parallele che confluirono nelle formulazioni liturgiche e/o nelle formulazioni scritturisti-che.3

3 • dopo avere cenato. Così in Lc e 1Cor. La locuzione viene ripresa nelle anafore e rispecchia

l’ordinamento rituale della cena ebraica, inserita naturalmente fra i due momenti rituali sul pane, all’inizio della cena, e sul calice, alla fine. Nella tradizione rabbinica l’ultimo calice è il calice della benedizione, quasi sicuramente un unica calice condiviso. Abbiamo fondamenti scritturistici nei salmi per i gesti che lo accompagnano: sollevarlo con entrambe le mani (sal 134,2); innalzarlo dalla tavola (116,13).

• prendere. Iniziano le parole e i gesti sul pane, azioni rituali compiute da chi presiede al convito giudai-co. La serie di termini prendere, benedire / rendere grazie, spezzare, dare, dire rispecchia una sobrietà tipicamente giu-daica; si allargherà ben presto nelle anafore liturgiche. Dando valore alla sintassi greca dei testi NT_ l’atto dello spezza-re appare in primo piano, perché è l’unico verbo al tempo finito. Ma il retroterra semitico della paratassi invita a porre tutti i verbi sullo stesso piano, cf testi siriaci, dalle versioni scritturistiche a quelli liturgici. Abbiamo una serie simile di verbi nelle descrizioni della moltiplicazione dei pani (Mt 14s; Mc 6 & 8; Lc 9); Mt 14, Mc 6 e Lc 9 presentano inoltre Gesù che volge lo sguardo al cielo. Una serie simile è in Gv 6 e Lc 24.

• pane azzimo? Che si sia trattato di un pane azzimo o meno, dipende dalla qualità pasquale della cena. Tut-tavia, pur celebrando una cena pasquale (ammesso che lo sia stata), Gesù si serve di due momenti minori del rituale di Pasqua e comuni a ogni pasto preso insieme dagli ebrei: la benedizione relativa al pane e quella sul calice alla fine.

• benedì / rese grazie. I termini greci sono benedire (eulogheô) e rendere grazie (eucharisteô). La corri-spondenza ebraica del primo è la radice BRK, benedire, da cui il nome del profeta Baruk, il benedetto, e la preghiera della berakah, benedizione. Il termine eucharisteô presenta alcune difficoltà di valutazione. Jeremias lo ritiene equiva-lente al primo. Si tratterebbe di varianti analoghe da parte della traduzione greca per rendere più accessibili i termini o-riginali aramaici, soprattutto per ellenizzare l’uso assoluto del termine eulogheô. Invece, per Giraudo, la parola greca corrisponde alla radice ebraica YDH, confessare sia il proprio peccato che la misericordia di Dio. E come abbiamo la preghiera ebraica della berakah, così abbiamo la forma orazionale della tôdah. L’impiego alternativo dei due termini nella redazione NT_ testimonierebbe un equilibrio instabile, provato dalle retroversioni siriache, dove i termini corri-spondenti alle radici BRK e YDH sono spesso invertiti.

• spezzare / dare. Nel rituale giudaico tocca al padrone di casa spezzare il pane, con esclusione di ogni possibi-le delega. Chi spezza il pane, poi, ne mangia per primo. L’Anafora dei dodici apostoli recita, infatti: “lo spezzò, ne mangiò e diede…”.

• disse. Il senso del prendere parola da parte di Gesù non è chiaro. Per Jeremias gli apostoli dovettero rimane-re sorpresi davanti alle parole interpretative di Gesù, perché secondo la tradizione avrebbero dovuto essere in relazione alla Pasqua e non alle preghiere della tavola. Per Giraudo la questione non è così semplice, perché erano previste anche altre parole, senza che per questo la benedizione ne venisse interrotta.

• questo è il mio corpo. Il testo greco usa sôma. Ma Gesù cosa disse? e soprattutto ha senso domandarselo? Per Jeremias si tratta di una questione molto importante, perché la soluzione comporta grandi conseguenze sull’esegesi delle parole interpretative di Gesù. Senza volere sopravvalutare la questione, tuttavia, ci mettiamo nella linea tradiziona-le, che dà peso ai termini usati, sapendo che di sicuro Gesù usò un termine aramaico. Dalman pensò al termine aramaico gûf / gûfâ, usato sia per il corpo vivente che per quello morto. Si usava per indicare l’agnello pasquale portato intero e poi spezzato (bisognava mangiarne almeno un pezzo grande quanto un’oliva). In un contesto di alleanza e redenzione vicaria, Gesù direbbe “questo è il mio corpo intero che sta per essere spezzato e distribuito”. Molti esegeti sono contrari e propongono di ricercare la parola originaria attraverso la testimonianza di Gv 6 dove compare sarx, dall’aramaico bi-srâ, radice ebraica BSR. A sostegno di questa tesi vi sono anche collegamenti VT_. In Sir 14,18; 17,31 (LXX) l’uomo nella sua limitatezza davanti a Dio è detto composto di carne (sarx) e sangue. Tali sono anche nel testo masoretico le due parti dell’animale sacrificale, separate dopo la morte (Ger 9,4; Lv 17,11.14; Dt 12,23). Infine, “carne di santità” ‘besar-qodesh) veniva indicata la porzione sacrificale destinata alla manducazione (Ger 11,15). Gesù direbbe “questo sono io, la mia persona”, con un accento più sacrificale o conviviale. Giraudo contesta questa interpretazione per vari motivi. Sarx e sôma sono entrambe greche: non si capisce perché si sarebbe reso necessario l’uso del solo sôma nei rac-conti istituzionali. Inoltre, i testi anaforici siriaci non presentano mai il termine bisrâ, corrispondente all’aramaico bisrâ.

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Il termine greco sôma, d’altra parte, è più ricco di significato e aggiunge una connotazione corporativa, come ne dimo-stra l’uso fattone in 1Cor 12,12-30 e Rm 12,4s. In base a queste considerazioni, Giraudo avanza l’ipotesi che il termine usato da Gesù possa essere stato l’aramaico pigrâ (radice ebraica PGR); troviamo, infatti, pagrâ nei lezionari in aramai-co e nei testi liturgici siriaci. Il significato della parola rinvia a contenuti sacrificali quali “scissione”, “distruzione”, “fa-re a pezzi”, “aver esaurito ogni risorsa di vita”. Nella lingua siriaca il termine si apre a una ricchezza di significati come il corpo personale e quello sociale, il corpo morto come quello vivo. Giraudo non ritiene esagerato attribuire all’espressione nel suo contesto una evidente dimensione vicaria e sacrificale. Parafrasando le parole di Gesù, egli a-vrebbe inteso dire: Questo è il mio corpo vivente, che sta per essere dato per voi; questa è la mia vita, che sta per essere fatta a pezzi perché voi torniate relazionalmente a vivere, incorporandovi a me; questo è il mio corpo esanime, dato in sostituzione del corpo del vostro peccato (cf Rm 6,6).

• [che sta per essere] dato. Il participio usato ha un valore di futuro, sul tono dell’oracolo profetico; le versioni latine, sia bibliche che liturgiche, rimangono fedeli a questa indicazione: tradetur…. Siamo nel contesto del segno pro-fetico dato la vigilia dell’evento fondatore e l’espressione usata mostra una chiara intenzione teologica: le parole liturgi-che, pure se adoperate a evento già avvenuto, sono sempre al futuro perché vogliono indicare «l’identità teologica» dell’evento.

• per = uper. L’interpretazione di questa preposizione si alterna fra il senso forte di una redenzione vicaria, accettabile teologicamente, e un un senso comunionale, più debole. Léon-Dufour propende per questa soluzione, ren-dendo l’espressione con «in favore di», dal senso conviviale tipico del pasto. In favore di un senso forte come «al posto di, in sostituzione di» è Giraudo.

• questo è. Nella teologia classica si metteva l’accento sulla forza della copula e del pronome. Senza to-gliere nulla al valore delle parole, questa posizione sembra eccessiva: il mistero della conversione degli elementi natura-li è oggetto di fede più che la conseguenza di un’analisi grammaticale. Con questo Gesù indica quel pane e quel calice che teneva fra le mani; entrambi sono messi in relazione con il contesto pasquale e con la simbologia profetica. Nell’anamnesi del Canone romano, come in altre preghiere eucaristiche, si continua a parlare di pane e calice anche do-po la trasformazione avvenuta: la liturgia dà valore al segno e al simbolo e proclama il “pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza”.

• • Le parole sul calice seguono una certa simmetria con la piccola benedizione giudaica, posta alla fine del pasto. Questo vuol dire che Gesù non si avvalse della prerogativa di delegare a un altro membro la presidenza della habûrâ pa-squale la presidenza della birkat hammazôn, ma la conservò per se stesso. Secondo il rituale, infatti, la piccola benedi-zione finale (Benedetto sei tu, Signore, creatore del frutto della vite…) era compito di chi presiedeva l’assemblea.

• sangue. La dimensione primaria è una “dimensione misterico-sacramentale, nel suo riferimento dinamico al sacrificio vicario di Cristo.” La presenza reale (essenziale) che ne deriva porta a pienezza la dinamica sacramentale del-la fede dei padri. E’ il “sangue-che-sta-per-essere-versato”. L’espressione non è presente in Paolo, ma lo è nei sinottici e in tutta la tradizione anaforica. Indica la persona in senso dinamico, nell’atto di morire. Il sottofondo semitico induce nell’espressione “versare il sangue” l’idea dell’uccisione non sacrificale di un animale, della soppressione violenta di una vita umana.

Ora nei racconti istituzionali l’espressione “sangue che sta per essere versato” indica che la morte di Cristo, fisica-mente sulla croce e attraverso la mediazione del segno profetico nel cenacolo, è presentata come la «soppressione vio-lenta di una vita». Non è un’immolazione rituale, né la sua morte in croce, né quanto la significa nel cenacolo. Tuttavia, è superiore al rito, perché attraverso il segno profetico istituzionale possiede tutti i requisiti di un evento fondante del rito stesso: “nella mediazione del segno profetico dato alla comunità del cenacolo e con l’ordine di iterazione prolunga-to per la comunità delle generazioni, l’evento unico della morte (-risurrezione) di Cristo fonda tutta la successiva serie delle azioni rituali.”.

Il triplice annunzio della passione / morte (p. es., cf Mc 8. 9. 10), nel quale Gesù presenta la propria morte nei ter-mini esistenziali di un omicidio, viene concluso dalle due dichiarazioni istituzionali, che, inoltre, vanno oltre, perché Gesù anticipa la propria morte vicaria per istituire la serie delle seguenti ripresentazioni rituali. E’ solo da queste e inse-rendo in esse la terminologia cultuale che arriviamo alla frase cultuale di Eb 12,24 e 1Pt 1,2: l’aspersione col sangue di Gesù. Nell’annuncio profetico del cenacolo e nel compimento fisico del Calvario, la morte di Cristo è uno spargimento esistenziale di sangue e non un’aspersione rituale di sangue, cf Eb 9,22 e la logica dell’Alleanza.

In sintesi, Gesù annuncia profeticamente la propria morte esistenziale (il sangue versato) e con le restanti parole dà l’interpretazione profetica della sua morte. Lo stesso avviene con le parole sul pane. Allora, la morte di Gesù si impone come evento fondatore di tutta l’economia salvifica. Sul parallelismo di Es 24,8 il sangue di Gesù è il sangue dell’Alleanza nuova, anzi, è il sangue di «colui che si è fatto Alleanza», che si è posto come alleanza (Eb 9,16.20).

• per molti. Espressione che dipende chiaramente da Is 52,13-53,12 (Jeremias, 282-288), con senso inclu-sivo nell’idea semitica della totalità che comprende la moltitudine. Altri passi del NT sono sulla tipologia vicaria del servo, come Mc 10,45; 1Tm 2,6; Gv 11,50-52; 2Cor 5,14. Gesù presenta la propria morte come una morte espiatrice dei peccati, attraverso la quale entra in vigore l’Alleanza nuova con Dio (Jeremias, 288).

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I tre momenti distinti nel tempo (il nunc della cena, il nunc della croce e il nunc del rito sacra-mentale) diventano un unico momento attuale (un unico nunc = “ora”) nella ripresentazione sacra-mentale del sacrificio della croce attraverso la ripresa formale dei segni e delle parole tramandateci da Gesù nella sua cena. Cena, Croce e Memoria rituale della Croce (= Messa) sono tre eventi distin-

ti nel tempo che raggiungono una profonda unità nelle relazioni che li collegano. Dobbiamo dire che la portata teologica di questa unità attraverso il senso globale del rito sacramentale oltrepassa e ingloba l’aspetto particolare della Presenza reale.

Il NT ci presenta, dunque, un evento particolare. L’ultima cena, memoria rituale dell’evento dell’esodo, è annuncio profetico della morte del Signore e fondamento rituale della nostra celebra-zione eucaristica. Lo studio del Vangelo secondo Giovanni darà ulteriori elementi alla comprensio-ne del mistero eucaristico. A noi basta conservare quanto detto per passare all’approfondimento che la tradizione della chiesa ha compiuto sul mistero. I padri della chiesa e la teologia scolastica appro-fondirono in modo diverso il mistero. La risposta del concilio di Trento alle posizioni dei riformato-ri portò la teologia sull’Eucaristia a una comprensione ristretta che solo col rinnovamento del XX si è riusciti a ricondurre all’unità biblica del rito celebrato in memoria del sacrificio di Cristo.

• in memoria di me (= mia).Il termine greco anamnêsis viene usato sia per l’azione (fare memoria, fare memo-

riale) quanto per l’idea (la memoria, il memoriale). L’ordine di iterazione è presente in tutte le anafore, con l’unica ec-cezione di quella di s. Giovanni Crisostomo. Nei testi scritturistici, invece, è presente solo in Lc e 1Cor, non in Mt e Mc. Jeremias, Bouyer e altri riprendono l’opinione di Benoit, per il quale siamo davanti a una “rubrica”. Ma probabil-mente è molto più che una rubrica: è parte integrante della duplice forma istituzionale.

•• questo E’ legato alla memoria. S’intende mangiare ritualmente quel pane e bere ritualmente quel vino perché pongono in comunione conil corpo e sangue del Signore. Per Jeremias il testo antico sarebbe quello più breve di Mt e Mc, mentre Lc e 1Cor sarebbero già degli apporti liturgici che tendono a una certa simmetria, trasferendo alcune espres-sioni dal contesto intorno al calice a quello intorno al pane. Di opinione contraria è Giraudo, per il quale sono originali la preposizione di me e l’ordine di iterazione, perché i due momenti erano separati dalla cena. L’anafora di Serapione nella formale assenza dell’ordine di iterazione, presenta due momenti anamnetici distinti. La lex orandi recepì separa-tamente le due dichiarazioni istituzionali e attraverso un processo di unificazione arrivò all’ordine alla fine e in rapporto imemdiatamente seguente l’anamnesi della preghiera eucaristica.

• memoria di me. L’ipotesi di Jeremias è suggestiva: sarebbe Dio che dovrebbe ricordarsi di Gesù, ma non reg-ge. Ogni testo anaforico collega l’ordine di iterazione a l’anamnesi. Pertanto, il soggetto della memoria è la chiesa, rap-presentata nel momento istituzionale dalla “compagnia” (habûrâ) di Gesù e nella serie dei momenti rituali dalle habûrôt che si costituiscono per fare il memoriale del Signore (Giraudo). L’espressione kataggellô di 1Cor 11,26 ha un valore che oltrepassa il puro annuncio kerigmatico. Infine, Giraudo sottolinea l’idea di essere davanti a un ordine di iterazione, non di reiterazione, perché l’ultima cena non può configurarsi come la prima Messa. A livello del NT l’ultima cena è un evento irripetibile.

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II. Approfondimenti sistematici

Non potendo esporre in tutta la sua complessità e ricchezza il mistero eucaristico, daremo solo alcune precisazioni. In modo particolare illustreremo due aspetti dogmatici del rito eucaristico (la dimensione sacrificale dell’Eucaristia e la “presenza reale”) per passare, poi, ad alcune dimensioni etiche. L’eredità della contrapposizione teologica con i riformatori ha pesato lungo i secoli sulla ri-flessione teologica cattolica. I tre decreti tridentini sull’Eucaristia divennero le tre parti tradizionali nelle quali si è strutturato il trattato teologico sull’Eucaristia: presenza reale, sacrificio e sacramen-to. L’unico punto sottoposto a ulteriore approfondimento teologico è stato l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia. Per incontrare nuovi tentativi di rinnovamento sull’interpretazione del mistero della presenza sacramentale di Cristo bisognerà attendere il XX secolo. Ma in modo particolare, è solo con la Mysterium fidei di Paolo VI (03/09/1965) che troviamo una precisa e rinnovata organizza-zione degli elementi tradizionali del trattato teologico. L’autorità magisteriale di Paolo VI rilegge il mistero dell’Eucaristia partendo dalla sua realtà rituale. Attestando di richiamare la dottrina tradi-zionale della Chiesa Cattolica, Paolo VI indica nella celebrazione dell’Eucaristia la rappresentazio-ne del “sacrificio della Croce una volta per sempre consumato sul Calvario” (Mystf 11). Questa rappresentazione sacramentale del sacrificio di Cristo è inseparabile dalla sua presenza sacramenta-le (Mystf 17). Infine, la presenza sacramentale di Cristo è necessariamente legata alla completa conversione del pane e del vino, detta in modo appropriato «transustanziazione» dalla tradizione cattolica (Mystf 24).

II.1 La dimensione sacrificale dell'Eucaristia

In quanto memoriale del sacrificio della croce di Cristo, l’Eucaristia è sacrificio sacramentale di Cristo e sacrificio della chiesa (CCC 1362, 1368). L’Eucaristia è un sacrificio. Siamo di fronte a un dato della fede. Raccogliendo questi i dati liturgici e della tradizione, il rito dell'Eucaristia si presen-ta come un rito dai molti significati, ognuno dei quali va mantenuto per non svilirne lo spessore es-senziale. Così nell'Eucaristia la chiesa riflette su un evento passato. Ma non solo. La Messa non è una “pura commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce”, come ricorda Trento. La chiesa si presenta in esaltazione gioiosa davanti a Dio perché consolata dal fatto che l’accettazione da parte del Padre è un dato di fatto, compiuto una volta per sempre. E ancora: la Messa non è solo un sacri-ficio di lode e di azione di grazie. Il dato di fede indica come l’oblazione di Cristo sulla croce sia identica all’oblazione della chiesa, per cui alla chiesa non resta che mangiare il pane e il vino se-condo il comando del Signore: nella Messa viene offerto a Dio un vero e proprio sacrificio e quanto offerto non è solo il corpo di Cristo da mangiare. Trento insiste su due paradossi costantemente ri-petuti dalla lex orandi. L’unicità irripetibile del sacrificio di Cristo e la sua attualità attraverso i tempi: ne abbiamo la “presenza nel mistero”. La chiesa (i fedeli) viene ammessa a «consacrificare» questo sacrificio, senza che venga messa in pericolo l’unicità. Ora, se è vero che lex orandi e lex

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credendi vanno di pari passo, la lex orandi in questione risulta un impedimento alla lex intelligendi del mistero: le posizioni di rottura da parte dei riformatori non erano estranee a questa difficoltà. La protesta si rivolse più sul secondo paradosso che sul primo. In effetti, il riferimento della celebra-zione eucaristica al sacrificio di Cristo non rappresenta più un punto di rottura, essendo ormai am-messo, in qualche modo, attraverso la categoria biblica di memoriale da molti autori protestanti.

L’Eucaristia è un sacrificio. Questa semplice affermazione appartiene alla fede della chiesa. Formulata chiaramente fin dall’epoca della chiesa sub-apostolica, ha ricevuto subito una duplice ca-ratteristica: l’Eucaristia è al tempo stesso il sacrificio di Cristo e il sacrificio della chiesa sua sposa. La tradizione teologica non si preoccupò di spiegare il senso di questa espressione fino a quando il pensiero dei riformatori non attaccò l’idea sacrificale della Messa. A Trento, i padri conciliari trova-rono una sufficiente tradizione teologica a sostegno della visione cattolica sulla presenza reale di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia. Ma dovettero camminare su un terreno quasi inesplorato dal punto di vista della speculazione teologica per riaffermare il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica. Questo spiega la distanza di tempo fra i due decreti tridentini: la difesa della presenza reale e della transustanziazione è con la sessione del 1551, quella sul valore sacrificale della Messa nella sessione del 1562. E quasi di conseguenza la teologia eucaristica post-tridentina non ha svi-luppato alcuna novità se non per le varie teorie sviluppatesi intorno al sacrificio della Messa. In questa sede basta fare cenno ad alcuni elementi ormai assodati dalla ricerca storica, anche recente e a due ipotesi interpretative. Resta vero che la celebrazione eucaristica mantiene per la nostra fede un duplice senso sacrificale: memoriale del sacrificio di Cristo e autentico sacrificio della chiesa. Le due cose sono ovviamente correlate, ma distinte.

II.1.1 L’Eucaristia è il sacrificio di Cristo

Il punto fondamentale per ogni teoria o sistema teologico che cerchi di spiegare in che modo l’Eucaristia è il sacrificio di Cristo consiste nel mantenere la verità piena di due elementi implicati nell’idea di sacrificio eucaristico: la realtà del sacrificio della Messa e l’attualità dello stesso sacrifi-cio. In altre parole la celebrazione eucaristica deve apparire come un reale sacrificio e tale deve ri-sultare ogni celebrazione posta in atto. Chiaramente il problema sorge quando si tratta di collegare tutto con l’unico e irripetibile sacrificio della croce di Cristo. Una via interpretativa, allora, potrebbe partire dal rapporto fra l’azione liturgica e il mistero della croce. E’ la proposta di G. Colombo, per cui, nel quadro generale della teologia misterica sostanzialmente accettata dal magistero (cf SC 7 per cui Cristo è presente in ogni celebrazione liturgica), è l’azione salvifica della croce a rendere possibile l’azione misterica o sacramentale. In questa linea si comprende il carattere essenzialmente recettivo e ministeriale della chiesa nei confronti dell’azione di Cristo: il sacrificio della croce forni-sce alla celebrazione eucaristica sia il suo contenuto oggettivo sia l’efficacia che fa esistere il sacri-ficio della Messa. Bisogna, dunque, partire dall’efficacia reale dell’azione salvifica di Cristo, cioè dalla sua morte, momento culminante dell’azione salvifica di Dio nei confronti dell’umanità.

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La salvezza del mondo è operata attraverso la volontaria oblazione di Cristo al Padre, per la qua-le viene offerta agli uomini la possibilità di essere resi conformi a Cristo, se partecipano al suo stes-so atteggiamento di volontaria oblazione. Il che equivale a dire partecipare alla sua condizione di Figlio, diventare figli nel Figlio, secondo la formula più classica e biblica. Ora perché avvenga que-sta conformazione bisogna che venga suscitata l’adesione personale dei singoli uomini; ma, una volta posta, la conformazione si attua necessariamente (incontro “in mistero” fra l’efficacia della grazia divina e la libertà dell’uomo). In altre parole, il «sacrificio di Cristo», oblazione volontaria al Padre, tende per se stesso a diventare il «sacrificio di tutti gli uomini», come adesione personale di tutti gli uomini all’oblazione volontaria di Cristo al Padre. Ma la stessa dinamica sul versante rituale vuole dire che il sacrificio della croce genera necessariamente l’Eucaristia come sacrificio del popo-lo di Dio. Il sacrificio della croce (sacrificio del Figlio di Dio) genera la comunione al sacrificio del-la croce (la Messa, sacrificio dei figli di Dio).

In un certo senso col sacrificio della croce si chiude la storia dell’umanità: quanto si aspettava per la pienezza dei tempi è giunto al culmine, la salvezza si è realizzata, come esprime simbolica-mente Mt 27,51-53. L’evento della croce resta trascendente nei confronti degli altri momenti della storia, compresi quelli a lui posteriori, perché sono tutti riferiti a lui, ad esso tendono tutti. E non si tratta di un momento, di una porzione di tempo, sottoposta alle leggi della storia e della temporalità, ma di un evento unico che per se stesso mantiene un’attualità permanente, escatologica. Allora, nel suo riferimento cultuale al sacrificio della croce, l’Eucaristia si mostra segno della volontà salvifica di Dio attuata in Gesù Cristo e della salvezza degli uomini nella comunione a Cristo nel suo atteg-giamento di oblazione volontaria al Padre. L’Eucaristia, dunque, è segno di Gesù Cristo e della chiesa; è segno sacrificale di Cristo e della chiesa.

L’Eucaristia è segno del sacrificio di Cristo in quanto sono quel gesto e quell’azione di Gesù che danno un preciso significato al pane e al vino. E’ la parola di Gesù che fa del pane e del vino il se-gno del suo sacrificio, che ne determinano la valenza sacrificale. La parola creatrice di Cristo isti-tuisce un preciso rapporto fra gli elementi del pane e del vino e il suo sacrificio. Nell’interpretazione cattolica questo rapporto è così profondo da giungere a un fondamento «nuo-vo», attraverso una trasformazione metafisica (dogma della presenza reale; concetto di transustan-ziazione). D’altra parte, l’eucaristia è anche segno del sacrificio della chiesa. La chiesa celebra l’Eucaristia in obbedienza alla parola di Gesù (Lc 22,19; 1Cor 11,24), dove non si tratta di un sem-plice aspetto formale, bensì dell’adesione dei discepoli di Gesù alla volontà di Cristo, che sulla cro-ce si qualifica in modo unico come volontà di oblazione totale al Padre. E l’ordine di iterazione fa riferimento sia al rito quanto alla realtà espressa, al dono personale di sé. In questa prospettiva resta integra la causalità sacramentale del rito. In modo lineare abbiamo come il sacrificio di Cristo sia efficace nei confronti dell’azione sacramentale, questa, a sua volta, è efficace nei confronti della santificazione degli uomini.

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II.1.2 L’Eucaristia è il sacrificio della chiesa

Resta da approfondire il senso dell’offerimus liturgico, in quanto coinvolge il «noi» della chiesa. L’affermazione della Messa come sacrificio della chiesa comporta una riflessione ulteriore, perché se all’essenza del sacrificio della croce appartiene l’essere offerto da Cristo (il sacerdote agisce in persona Christi), nella Messa non sembra essere più quel solo sacrificio ad essere reso presente, vi-sto che, sotto un ulteriore punto di vista, è diversa la «persona» dell’offerente (il sacerdote agisce in persona ecclesiæ). Inoltre, non è forse nella logica del sacrificio della croce e quindi dell'eucaristia mantenere una distinzione invalicabile di posizioni fra Cristo e l’umanità? Cristo si dona, come ap-pare nell’ultima cena, e noi, la comunità dei discepoli, riceviamo il suo corpo e sangue, offerti per la vita del mondo. In questa relazione opposta fra dare e ricevere, fra dono e accoglienza, fra atto e banchetto sacrificale sta l’unità dell'Eucaristia, a cominciare dal ringraziamento al Padre per il dono del suo Figlio.

Von Balthasar assume come quadro di riferimento la teologia giovannea dell’amore assoluto, dove la risposta all’amore offerto è parte integrante della parola dell’amore. La rivelazione stessa offre un aggancio a questa posizione. I salmi e i profeti non sono altro che la risposta umana a una parola di Dio, risposta umana che diviene essa stessa parola di Dio (Ger 1): la risposta alla parola di Dio è parte integrante della stessa parola di Dio. Con l’avvenimento del “Verbo fatto carne”, Dio proclama il suo disegno d’amore. L’episodio della lavanda dei piedi si pone come ingresso nel pen-siero eucaristico giovanneo: alla prima spiegazione (vv. 6-11), segue la seconda (13-17):

Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi

laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore,

non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non

i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete

mondi». … Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi

ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lava-

to i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io,

facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di

chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

Gesù compie la sua prima spoliazione, un vero capovolgimento di ranghi, tanto da rendere in-comprensibile l’atto e suscitare l’obiezione di Pietro. Del tutto ragionevole se si pensa che Dio è in alto, il Santo al di sopra dei peccatori, secondo una struttura religiosa umanamente condivisa. Ma di fronte alle puntualizzazioni di Gesù l’invito alla comunione con lui deve essere preferito all’ordine usuale posto dal mondo. Il sì di Pietro, cioè della chiesa, rappresenta un’obbedienza totale e cieca, dal timbro chiaramente eucaristico, sulla linea della conclusione del discorso di Cafarnao: “le parole che vi ho dette sono spirito e vita… Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarve-

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ne?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio»”. (Gv 6,62-69).

Pertanto alla chiesa non viene richiesto che un assenso di fede. Proprio l’assenso di fede al sacri-ficio di Cristo è il contributo della chiesa al sacrificio unico ed esclusivo della redenzione. Balthasar interpreta in questa stessa linea simbolica la lontananza di Pietro dalla croce: lui che voleva essere con il Signore ovunque andasse (Mt 26,35), non sarà sotto la croce, perché non può esistere identità fra il suo sacrificio e quello del Signore. La chiesa, allora, si presenta con una valenza femminile lungo la narrazione giovannea; le donne mettono in evidenza la risposta di fede all’agire salvifico del Signore. All’apice di questa testimonianza, vi è Maria, la madre del Signore, che sotto la croce non fa e non dice nulla: è solamente là, a lasciare avvenire il “mistero” di Dio. Ora tutto questo ha una valenza tipica della Nuova Alleanza, perché non si tratta di un generico consenso alla volontà del Padre. La vittima che offre se stessa in dedizione per me è il Signore, al quale devo lasciare in-tegra la volontà di soffrire e morire per me. Sullo stesso piano teologico si pone Paolo, per il quale gli uomini peccatori sono come posti dinanzi al fatto compiuto:

Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A

maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo

nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, sare-

mo salvati mediante la sua vita. [Rm 5,8-10]

Anche se la tradizione della chiesa ne parla come di un sacrificio incruento, il sacrificio eucari-stico mantiene la crudezza dell’evento salvifico cui fa riferimento. Partecipando all’azione eucari-stica siamo liturgicamente trasposti nella notte in cui il Signore fu tradito: s’impone allora la do-manda se siamo disposti a lasciarci coinvolgere da quell’ora, se acconsentiamo a questa morte? Questo assenso di fede richiesto e rinnovato in ogni Eucaristia, include anche la liturgia della Parola nella dimensione sacrificale dell’Eucaristia, lasciando integra l’unica celebrazione nella sua struttu-ra rituale: l’unico rito cultuale eucaristico è un «sacrificio» di pura obbedienza di fede alla Parola e al sacrificio di Cristo.

Nella kenosi volontaria del Figlio non può entrare nessuno. L’unità fra il sacrificio di Cristo e quello della chiesa può avvenire solo come «obbedienza volontaria» dei discepoli alla «volontà di obbedienza» al Padre del Figlio, il quale “nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur es-sendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,7-8). Il discepolo di Gesù deve volere ciò che egli volle e vuole, trovando una espressione sacramentale nella comunione; il sacrifi-cio della chiesa è la risposta di obbedienza all’unico sacrificio gradito a Dio (dalla liturgia), cioè il sacrificio del Figlio. La persona del Padre si pone come unico e ultimo termine del sacrificio, sia della croce come dell'Eucaristia. Per questo, seconda la grande tradizione liturgica, la preghiera eu-caristica è sempre ed esclusivamente rivolta al Padre: come Cristo ha affidato i suoi (la chiesa) al

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Padre (Gv 17,15.21), così nella preghiera eucaristica la chiesa affida nell’obbedienza Cristo al Pa-dre.

II.2 La «presenza» di Cristo nel sacrificio eucaristico

La nozione scolastica di transustanziazione è stata come canonizzata dal concilio di Trento. L’interesse della teoria formalizzata dal concilio è rivolto unicamente verso gli elementi naturali: l’uomo resta fuori del processo di trasformazione che coinvolge pane e vino, Corpo e Sangue del Signore. La fede cristiana, tuttavia, conserva la consapevolezza di essere di fronte al sacramento del supremo atto d’amore del Signore (Eucaristia come sacramento del sacrificio): quel pane e vino consacrati sono sacramento del Corpo donato agli uomini e del Sangue versato per loro. In questa ottica gli uomini sono sempre coinvolti nella realtà della Presenza di Cristo. Allora, a determinare il senso dell'Eucaristia non solo il pane e il vino, perché non sono i segni naturali del pane e del vino a «determinare» il senso del gesto di Gesù Cristo; è Gesù Cristo a «determinare» il pane e il vino, nel senso di dare loro il senso sacramentale. Occorre riferirsi all’intenzione propria di Gesù Cristo per comprendere il senso dell’Eucaristia. Prima che Lutero e gli altri riformatori mettessero in discus-sione il rito eucaristico e la sua teologia, già nel XIV secolo troviamo un anticipo delle posizioni e dei contrasti del XVI. In Wycliff troviamo una fede profonda verso la presenza reale, ma il rifiiuto della transustanziazione: in sede storica abbiamo la chiara possibilità di poter dissociare la presenza reale dalla teoria della transustanziazione.

II.2.1 Il magistero di Paolo VI

Il dato tradizionale formalizzato a Trento è stato sottoposto a una reinterpretazione negli anni del rinnovamento conciliare. L’insistenza sul valore di segno sacramentale e l’uso preferenziale di un linguaggio simbolico piuttosto che metafisico, ha fatto preferire termini come «transignificazio-ne» o «transfinalizzazione». Ma queste parole comportavano in sé anche un cambiamento di pro-spettiva che veniva proposta come un’interpretazione migliore del mistero eucaristico rispetto alla tradizionale transustanziazione. Questo dibattito teologico ha trovato una prima conclusione nell’intervento di Paolo VI con l’enciclica Mysterium fidei del 3 settembre 1965, con la quale il pa-pa si presenta spinto da “grave sollecitudine pastorale” a sottolineare i limiti delle nuove proposte teologiche e ripresentare la dottrina tradizionale cattolica (cf Mystf 4).

Come accennato sopra, Paolo VI riconduce la «Presenza reale» di Cristo al suo rapporto neces-sario e ineliminabile col rito eucaristico, memoriale del sacrificio della croce (cf Myst 17). Ma non solo, perché lega il dato di fede della presenza singolare di Cristo nel sacramento eucaristico alla conversione totale degli elementi nel Corpo e Sangue di Cristo. Infatti, dopo aver raccolto i dati sia scrittura come della tradizione (Mystf 18-23), Paolo VI invita a prestare fede alla voce della chiesa, che pone la presenza di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia (dato di fede) in virtù della “conver-

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sione di tutta la sostanza del pane nel corpo di Cristo e di tutta la sostanza del vino nel suo sangue” (Mystf 24).

L’enciclica presente due punti salienti in merito alla presenza reale e alla teoria della transustan-ziazione. In primo luogo, pur nel nuovo contesto culturale, ripropone integralmente la dottrina del concilio di Trento. In secondo luogo, fornisce una “giustificazione” della transustanziazione, per la sua funzionalità a interpretare in modo corretto il dogma della «Presenza reale». La Mysterium fidei si prende l’onere di far pensare che nella fede cattolica la transustanziazione non sia un averità a se stante, da porsi accanto a quella della Presenza reale, ma costistuisce con essa un’unica verità. Que-sto legame è importante perché la storia mostra come nel passato le due realtà non siano state viste necessariamente legate. La questione teologica viene approfondita con il Credo del popolo di Dio, dove questo legame sembra diventare un legame causale necessario:

Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della

realtà stessa del pane e mediante la covnersione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate

soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa,

in maniera assai appropriata, transustanziazione. [Paolo VI, professione di fede Noi crediamo ]

II.3 Aspetti etici del rito eucaristico

Nella tradizione ecclesiale la partecipazione al sacramento dell’Eucaristia è sempre stata consi-derata come uno degli atti più alti della vita sacramentale. Fonte e culmine della vita cristiana, l’Eucaristia riveste un’importanza singolare per l’impegno morale che ne deriva. I brevi accenni alla teologia dei padri che abbiamo fatto ne sono un esempio. Un recente articolo di B. Petrà inquadra in modo nuovo la dimensione etica dell’Eucaristia. L’autore manifesta una certa insoddisfazione per come ancora oggi si comprende il rapporto fra etica cristiana e sacramento dell’Eucaristia. In parti-colare, “si tende a vedere l’Eucaristia più come un mezzo per l’azione morale che come un’azione in sé già moralmente significativa”. Ne è la riprova il modo di intendere la comunione, astraendo da ogni categoria ecclesiologica e limitandosi all’atto della comunione eucaristica del singolo, rilascia-to spesso alla spiritualità. Il campo della morale entrerebbe in azione solamente dopo, quando chi si è nutrito ritualmente del Corpo di Cristo ritorna alla vita quotidiana. In realtà, ogni comunione euca-ristica è in se stessa un «atto moralmente significativo e impegnativo», per il quale sono richieste attenzione, apertura, accoglienza. L’intera nostra persona deve essere orientata all’Altro; questo o-rientamento viene richiesto come condizione e contesto etico dell’incontro interpersonale col Signo-re Gesù, incontro che avviene nel sacramento. Pertanto, in linea con queste indicazioni, mostriamo il valore dell’Eucaristia in tre aspetti della vita cristiana. Con la partecipazione all’Eucaristia l’unione con Cristo raggiunge un’intimità profonda. l’unione ecclesiale viene rafforzata dalla cele-brazione dell’Eucaristia, sia a livello istituzionale sia nel vincolo della carità. I due aspetti preceden-ti, poi, hanno la loro pienezza in una visione escatologica.

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Raccogliendo la grande tradizione spirituale e dogmatica della chiesa, la partecipazione all’Eucaristia introduce, prima di tutto, alla comunione con Dio. Il passo biblico di Gv 6,56s è il fondamento di questa unione singolare con Cristo Signore e in lui col mistero del Padre. Ma l’unione con Cristo nasce e viene rinnovata dal perdono dei peccati: la comunione con Dio equivale alla distanza colmata fra Dio e il peccatore. Il rapporto strettissimo fra comunione con Cristo e per-dono dei peccati è evidente dal rito eucaristico, soprattutto dalle anafore, fin dal loro fondamento scritturistico. La teologia giovannea indica in una precisa sequenza la lavanda dei piedi per avere parte con Gesù (Gv 13,8). Ma è così anche per la teologia paolina. L’espressione “per lei (= la chie-sa)” di Ef 5,25 mostra un’azione di Cristo nei confronti della chiesa che è di liberazione dal peccato e dal mondo. Nella lavanda i discepoli sono resi degni di accostarsi al banchetto pasquale escatolo-gico: “nell’ultima cena il Signore si dona come convito perché si dona come perdono”.

I pasti di Gesù con i peccatori erano gesti profetici di perdono e comunione (cf Mc 2,1-12; 2,13-17); a livello esistenziale anticipavano il pasto rituale di comunione della nuova ed eterna alleanza. Ma pubblicani e peccatori, proprio in quanto oggetto dei gesti di comunione del Signore, sono il germe della chiesa, il popolo nuovo nato dal gesto purificatore di Cristo (Ef 5,25). L’atto purificato-re di Gesù verso la chiesa è un atto fondante nei confronti della sua sposa. In termini patristici, Cri-sto “genera” la sua sposa nel momento stesso in cui la purifica. Esiste una tradizione patristica che vede la nascita della chiesa non tanto nell’evento di pentecoste, quanto nella morte di Cristo: la nuova Eva nasce dal sonno estatico del nuovo Adamo. In questa visione, strettamente collegata alla morte sul Calvario, Cristo genera la chiesa purificandola e la purifica generandola.

Pertanto, l’unione con Cristo che deriva dall’Eucaristia acquista inevitabilmente una dimensione sponsale, e non solo a livello individuale. Dal perdono offerto da parte di Cristo nascono due cate-gorie che esprimono il suo rapporto sponsale con la chiesa: la frontalità e l’unione. La chiesa è resa «capace» di stare di fronte a lui, come la donna fu plasmata da Dio in modo tale che fosse davanti all’uomo (cf Gn 2,). Entrambe derivano dall’atto fondatore, costitutivo e generante del Signore. La simbologia nuziale del rapporto Cristo-chiesa si densifica nell’Eucaristia, “banchetto nuziale” (sant’Efrem) e “sacramento nuziale per eccellenza” (sant’Ambrogio). La presenza di Cristo deter-mina le nozze escatologiche (Gv 3,39): ne derivano le interpretazioni patristiche di Ct, che talvolta arrivano a espressioni ardite, come quella di paragonare la comunione eucaristica al bacio fra due amanti.4 Nella storia della spiritualità cristiana le immagini d’amore si confondono con quelle più drammatiche. Cristo, lo Sposo, è l’Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo (1Pt 1,19s; Ap 13,8), che ha un “desiderio insaziabile” della sua Sposa, in ogni suo membro (J. von Ruusbroec). I mistici parlano di nozze fra l’anima e Cristo. Questa espressione simbolica fa intuire qualcosa del

4 “E’ nel bacio che fanno unità quelli che si amano a vicenda e si comunicano la soavità della grazia interiore.

Per mezzo di questo bacio l’anima si unisce al Dio Verbo e viene trasfuso in essa lo spirito di colui che la bacia. Avvie-ne come di quelli che si baciano: non si accontentano di gustare la dolcezza delle labbra, ma sembrano comunicarsi re-ciprocamente il loro spirito.” (Ambrogio, in Isacco 3,8).

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mistero che può avvenire nella comunione eucaristica. Il linguaggio teologico cerca di esprimere lo stesso mistero in un modo diverso.

Attraverso l’evento eucaristico si compie un processo di «divinizzazione», come dice la tradi-zione orientale; abbiamo una certa pericoresis, usando il linguaggio tradizionale della teologia trini-taria, sul parallelismo delle relazioni trinitarie sempre nuove e dinamiche. Ma anche il termine divi-nizzazione va precisato. La persona umana si cristifica, rende sempre più completa l’immagine di Cristo con la quale è segnata. Anzi, rimanendo nel solco della tradizione orientale, la persona uma-na viene “verbificata”, viene, cioè, resa partecipe della natura divina della persona di Cristo (cf 2Pt). E tutto questo in virtù dello Spirito del Cristo risorto che ci viene comunicato nell’Eucaristia: come la natura umana di Gesù di Nazareth, con la sua resurrezione, è entrata “pneumatizzata” nella vita divina, così la Sposa partecipa di quella stessa vita pneumatizzata. L’idea per cui dalla partecipazio-ne all’Eucaristia riceviamo in dono lo Spirito santo appartiene alla duplice tradizione della chiesa, sia occidentale che orientale. Due esempi sono Francesco d’Assisi ed Efrem il siro. Questi parte da come la liturgia orientale presenta il proprio rito dello zeon: dopo la consacrazione, viene versata nel calice dell’acqua calda, simbolo dello Spirito. Efrem carica di significato il gesto rituale: indica il fervore della fede, piena di Spirito santo, significa la comunicazione col sangue caldo, pieno di energie dello Spirito santo. Francesco d’Assisi, da parte sua, nella prima delle sue ammonizioni (e-sortazioni spirituali che rivolse ai frati in occasione dei vari capitoli) scrive: “Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore. Tutti gli altri, che non partecipano dello stesso Spirito e presumono ricevere il santissimo corpo e il san-gue del Signore, mangiano e bevono la loro condanna.” (Francesco d’Assisi).

Diventare un solo spirito con il Signore è il senso della comunione eucaristica. Ma tutto ciò av-viene all’interno della nuova alleanza. Abbiamo autori classici e moderni che rileggono la comu-nione eucaristica in chiave coniugale. Per Tommaso anche il matrimonio è riferito al sacramento dell’Eucaristia con una propria significazione, perché significa l’unione di Cristo e della chiesa, la cui unità viene rappresentata attraverso l’Eucaristia. Un moralista moderno vede i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana in relazione a tre aspetti della comunione con Cristo: l’adozione per mezzo dello Spirito nel battesimo, la partecipazione alla sua vita rivelatrice e redentrice nella confermazio-ne, l’unione corporale in modo da essere fermentati dalla vita del risorto nell’Eucaristia. Questa u-nione è sponsale, perché “come il vincolo del matrimonio è realizzato e sperimentato nel rapporto coniugale, così la comunione del patto [covental communion] con Dio è realizzata e sperimentata nell’Eucaristia.”

La dimensione personale della comunione con Cristo si amplifica necessariamente in una di-mensione ecclesiale. Nel suo articolo, Petrà riprende alcune suggestioni di Blondel sulla comunione come «atto puro», che fa essere l’uomo nella sua pienezza: la comunione eucaristica attua il fine dell’uomo, lo fa davvero «diventare» uomo perché lo fa con verità «diventare» Dio. Per Blondel “ogni atto tende a essere una comunione”. In modo specifico ogni azione umana, che in sé si di-

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spiega come atto di comunione universale, tende a compiersi come alleanza con Dio attraverso se stessa. La vocazione ricevuta nel battesimo tende a formare un solo corpo (1Cor 12,13). Ebbene, l’Eucaristia realizza questa primaria vocazione della vita cristiana (1Cor 10,16s) perché inserisce sempre più nell’unico corpo di Cristo. Agostino esortava i suoi fedeli a rendere sempre più vero il loro “amen”, non solo davanti alla presenza del Corpo di Cristo, ma anche alla sua unità.5 Ma Ago-stino non è che uno dei tanti rappresentanti di una lunga tradizione patristica che vede nell’Eucaristia il sacramento della comunione ecclesiale in Cristo. Questa linea d’interpretazione ha il suo fondamento nella teologia di Paolo (1Cor 10) e trova la sua prima espressione, per quanto in-certa, nella Didachè. Allora, dall’Eucaristia deriva l’essere uno, secondo la preghiera di Gv 17,20-23. In Cristo i cristiani formano un unico Corpo e un unico Spirito: l’unità superiore fonda l’unità relativa. L’unità che riscopro e rendo più profonda in Cristo fonda e rende ancora più forte quella sacramentale con i fratelli. La sequenza rituale delle due epiclesi all’interno dell’anafora eucaristica suggerisce la stessa cosa: la prima epiclesi è ordinata alla trasformazione degli elementi nel Corpo e Sangue di Cristo ai quali comunicare; la seconda epiclesi è ordinata alla trasformazione della comu-nità che celebra il mistero di Cristo e vi comunicherà.

In questa unità ecclesiale eucaristica viene trasmessa la vita e diventa un segno di unità e un le-game di carità. E poiché il legame ecclesiale si fonda su una precedente e superiore comunione con Cristo ne derivano conseguenze importanti per l’ecumenismo. Pur usando parole e contenuti diver-si, UR 15 e UR 22 affermano una reale comunione con i fratelli separati quale deriva dalla fede e dalla pratica eucaristica. Si può ricordare come, in caso di grave necessità e a giudizio dell’Ordinario, lo stesso Codice di Diritto Canonico permetta la possibilità di concedere i sacramen-ti della penitenza, unzione degli infermi ed Eucaristia, a quei cristiani non-cattolici che ne manife-stino una comprensione di fede cattolica e abbiano le necessarie disposizioni a riceverli (cf CJC 844,4; CCC 1401). Come abbiamo visto, la partecipazione all’Eucaristia è un’azione morale in se stessa. Ma l’affermazione di questa realtà non può e non deve oscurare la tensione etica di rendere autentica la stessa partecipazione sacramentale all’Eucaristia. Bisogna inverare nella vita l’Eucaristia celebrata nel rito: è il senso della duplice tradizione NT_, secondo gli studi di Léon-Dufour. La grande tradizione della chiesa non è mai venuta meno a questa consapevolezza.

Per i padri, basta citare il pensiero di un teologo, Origene, e di un vescovo, Giovanni Crisosto-mo: entrambi traggono esigenze etiche dalle loro riflessioni eucaristiche. Per Origene ognuno può, a seconda dei suoi meriti o della purezza del suo sentimento, diventare un «puro cibo» per il suo pros-simo (Origene). Più concreto, il vescovo Crisostomo esortava i suoi fedeli a riconoscere in eguale misura il Corpo di Cristo nel sacramento eucaristico come nei poveri (Giovanni Crisostomo)). Ma l’impegno sociale derivato dall’Eucaristia non coinvolge solamente gli individui. Siamo di fronte a

5 “Se quindi voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero viene posto sulla mensa del Signore: rice-

vete il vostro mistero. A quello che siete, rispondete Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Infatti ascolti “il Corpo di Cristo” e rispondi “Amen”. Sii membra del corpo di Cristo, perché l’Amen sia vero.” (Agostino, sermo 272 = PL 38, 1247).

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un’autentica tensione sociale. 1Cor 11 presenta la Cena del Signore come una celebrazione dell’amore fraterno, fondato sull’amore totale di Cristo e che deve necessariamente aprirsi alla con-divisione. Per Giovanni Ruusbroec il Signore Gesù ci ha lasciato come tesori in eredità i sette sa-cramenti e i beni temporali della chiesa: essendo frutto della sua morte, dovrebbero essere a dispo-sizione di tutti, come devono esserlo i ministri che vivono di questi beni. Nell’intuizione di Giorgio La Pira la Messa è il cuore vero dell’azione politica, pensiero che viene in qualche modo ripreso da Giovanni Paolo II: attraverso la partecipazione all’Eucaristia siamo “chiamati a scoprire… il senso profondo della nostra azione nel mondo” in favore dello sviluppo umano e della pace (oltre che ri-cevere le energie per impegnarci più generosamente, cf Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis 48).

Una frase esprime la densità di questa dimensione: “tutto è compiuto, ma non tutto è completo” (cf Gv 19,34). La tensione escatologica dell’Eucaristia riporta continuamente al senso e all’importanza della nostra vita morale. Nell’Eucaristia Cristo mi comunica se stesso, cioè la sua persona nella sua vicenda esistenziale: mi chiede di partecipare al suo destino e alla sua vita trinita-ria. La trasformazione dovuta al cibo eucaristico è opposta alla manducatio naturale. Nell’Eucaristia è Cristo che ci trasforma in lui. Lo Spirito conduce la prima creazione alla pienezza escatologica, per cui “lo Spirito non abolisce il pane… lo Spirito trasforma la creazione arricchendola, sovracre-andola” e al posto della transustanziazione si preferisce parla di transcreazione. Ma sia che si parli di transcreazione come di transustanziazione, siamo di fronte alla partecipazione da parte dell’uomo del vincolo dello stesso Cristo. E’ il preludio all’assimilazione finale, per cui nella tradizione orien-tale abbiamo l’idea che il Verbo si è fatto carne perché la carne e tutto il resto venissero assimilate a Dio attraverso l’Incarnato. Nella comunione eucaristica si prepara la configurazione spirituale che si compie nell’unione trasformante, termine della vita spirituale e della comunione sacramentale. La comunione eucaristica rende l’uomo sempre più capace di azioni comunionali nella storia. Si passa dall’essere comunionale sostanzialmente vero all’agire comunionale, moralmente adeguato, ma che tende verso l’essere perché ha il proprio “fine”. L’Eucaristia anticipa e prelude alla comunione per-fettamente compiuta. In conclusione, l’Eucaristia è essenzialmente relativa al Calvario: lì il Signore ha compiuto un atto, l’evento della croce. Ma attraverso un altro atto simbolico, compiuto nella not-te in cui fu tradito e prima di passare al Padre, permette alla chiesa di celebrare un rito, quasi la-sciandosi affondare nell’evento originario della croce, conoscendolo sempre più.