I fi losofi hanno fi nora solo interpretato il mondo; ora si ... · Nel mirino dei SPAGNA...

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www.rivoluzione.red Sostegno 2€ Prezzo 1€ I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo; ora si traa di cambiarlo” (K. Marx) N° 9 • 15 ottobre 2015 CONTINUA A PAGINA 2 Rivoluzione n° 9 del 15/10/2015 - quindicinale, 1 euro • Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI Padroni e governo dichiarano guerra ai lavoratori Difendiamo salari e diritti Facciamo come in Air France S olo qualche mese fa, all’Assemblea generale di Confindustria, il suo presidente, Giorgio Squinzi diceva di “non avere più nulla da chiedere al governo”. Il padronato italiano si riteneva pienamente soddisfatto dell’operato del governo Renzi e lo invitava a “non demordere e a mantenere la determinazione fin qui dimostrata”. I padroni incassano la manna degli sgravi sui nuovi assunti (che costeranno qualcosa come 12 miliardi di euro), l’inter- vento sull’Ires porterebbe 1,2 miliardi alle imprese per ogni punto tagliato, e si attendono nuove fette dalla appetitosa torta delle privatizzazioni a partire da Poste e Finmeccanica. Pioggia d’oro sulle aziende, al momento neanche una lira per le pensioni massacrate dalla Fornero. Ma lo scontro cruciale sarà, ancora una volta, sul lavoro. Il Jobs act, demolendo i diritti del singolo lavoratore (licenziabilità, demansionamenti, controlli a distanza) è stato solo il grimaldello che ora si utilizza nel tentativo di far saltare ogni diritto collettivo. Nel mirino dei SANITÀ SPAGNA pag. 10 SIRIA pag. 8 pagine centrali

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“I fi losofi hanno fi nora solo interpretato il mondo; ora si tra� a di cambiarlo” (K. Marx)

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Padroni e governo

dichiarano guerra ai lavoratori

Difendiamo salari e diritti

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Solo qualche mese fa, all’Assemblea generale di Confi ndustria, il suo presidente, Giorgio Squinzi diceva

di “non avere più nulla da chiedere al governo”. Il padronato italiano si riteneva pienamente soddisfatto dell’operato del governo Renzi e lo invitava a “non demordere e a mantenere la determinazione fi n qui dimostrata”.

I padroni incassano la manna degli sgravi sui nuovi assunti (che costeranno qualcosa come 12 miliardi di euro), l’inter-vento sull’Ires porterebbe 1,2 miliardi alle imprese per ogni punto tagliato, e si attendono nuove fette dalla appetitosa torta delle privatizzazioni a partire da Poste e Finmeccanica.

Pioggia d’oro sulle aziende, al momento neanche una lira per le pensioni massacrate dalla Fornero.

Ma lo scontro cruciale sarà, ancora una volta, sul lavoro. Il Jobs act, demolendo i diritti del singolo lavoratore

(licenziabilità, demansionamenti, controlli a distanza) è stato solo il grimaldello che ora si

utilizza nel tentativo di far saltare ogni diritto collettivo. Nel mirino dei

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padroni e del governo entrano il diritto di assemblea, il diritto di sciopero e il contratto nazio-nale di lavoro. L’obiettivo fi nale è che nei posti di lavoro non rimanga traccia di orga-nizzazione indipendente dei lavoratori. Il sindacato, nella misura in cui esista, deve essere un alleato dell’azienda nella ricerca della produttività e del massimo profi tto. Tutto deve subordinarsi a questo.

Lo “scandalo” montato dal governo e dalla stampa sul caso del Colosseo può essere defi nito in un solo modo: un agguato ai diritti dei lavoratori. Una semplice assemblea sinda-cale, regolarmente convocata e comunicata, diventa pretesto per inserire i beni culturali tra i servizi essenziali sottoposti alla legge antisciopero, la 146/90.

L’organo di Confi ndustria tuona: “Non è più possibile accettare i veti di un sindacato che tutela solo i tutelati, vuole negare anche la speranza ai nostri giovani più preparati” (editoriale sul Sole 24 ore, 7 ottobre).

I contratti nazionali scaduti riguardano 40 comparti, tra cui alimentari, trasporti, chimici e metalmeccanici, commer-cio, con il pubblico impiego che aspetta il rinnovo dal 2009, il trasporto pubblico locale dal 2007. Una partita che riguarda 6,5 milioni di lavoratori. Confi ndustria non intende concedere aumenti per tutti (con la scusa che non c’è infl azione), ci sono casi in cui i padroni rivendicano soldi indietro dai lavoratori, 70-80 euro per alcune categorie! (Il Sole 24 ore, 7 ottobre).

Il tavolo di trattativa che doveva portare a una riforma della contrattazione nazionale è naufragato rapidamente per l’oltranzismo di Confi ndustria, che non intende dare un soldo prima di avere portato a casa una “riforma” che nelle loro intenzioni si dovrebbe ispirare al “modello Marchionne”, in parti-colare con clausole antiscio-pero come quelle già contenute nell’accordo del 10 gennaio 2014, catastrofi ca resa della Cgil che però non ha fi nora trovato applicazione sul campo.

“Le posizioni dei sindacati sono irrealistiche sul piano monetario e del futuro del paese”, ha dichiarato Squinzi il 6 ottobre. Fine della discussione.

È qui che si inserisce il governo con l’ipotesi di intro-durre un salario minimo fi ssato per legge, che ad oggi in Italia non esiste. Bisogna fare chia-rezza: un salario minimo digni-toso (1.200 euro netti al mese) che intervenisse sul sottosalario dilagante sarebbe un elemento di resistenza per i lavoratori più sfruttati e non organizzati sindacalmente. Ma il governo ha ben altro in mente: un sotto-salario di sopravvivenza (si parla di 6 euro lordi l’ora) da usare per demolire i contratti nazionali e ogni tutela generale. Che poi si possa recuperare coi contratti aziendali è una barzel-letta, considerato che questi coprono una ridotta minoranza dei lavoratori. La “contratta-zione” a cui puntano è questa: i padroni scrivono le regole, i lavoratori accettano con una

pistola puntata alla testa.Chi invece si trova paraliz-

zata da una grave crisi di stra-tegia è la Cgil. L’immobilismo del maggiore sindacato italiano di fronte al continuo scempio dei diritti e al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è sempre più intol-lerabile. Chi ancora è in grado di difendere questo gruppo dirigente? La crisi di credibi-lità della segreteria Camusso diventa ogni giorno più evidente, e questa crisi impone grandi responsabilità a tutti coloro che in questi anni hanno criticato il vertice, dalle mino-ranze interne fi no alla Fiom.

Il tempo delle critiche a porte chiuse, o delle dichiara-zioni altisonanti alle quali poi non segue nessun fatto reale (“occupare le fabbriche” – Landini) è abbondantemente

scaduto. I lavoratori e la base sindacale sono disposti a mobi-litarsi, come si è visto lo scorso autunno contro il Jobs act e con lo sciopero della scuola del 5 maggio. Ma per farlo chiedono, giustamente, indicazioni chiare e una strategia per una lotta reale e non solo dimostrativa.

Per rompere questa palu-de è necessaria l’iniziativa dal basso, incalzare questi dirigen-ti e costringerli a uscire dai lo-ro eterni tentennamenti e dalla sfi ducia cronica che ormai han-no sviluppato verso i lavoratori.

Non si deve attendere il messia, non si può avere fi du-cia nelle prospettive riformiste, dobbiamo essere noi, in ogni luogo di lavoro e di studio, i protagonisti di una nuova stagione di lotta.

9 ottobre 2015

NoiLOTTIAMOperNoiLOTTIAMOper • Contro le politiche di

austerità. No al pagamento del debito, tranne ai piccoli risparmiatori. Tassazione dei grandi patrimoni.

• Nazionalizzazione del sistema bancario e assicurativo.

• Esproprio delle aziende che chiudono, licenziano, delocalizzano le produzioni.

• Nazionalizzazione dei grandi gruppi industriali, delle reti di trasporti, telecomunicazioni, energia, acqua, ri� uti attraverso l’esproprio senza indennizzo salvo per i piccoli azionisti.

• Esproprio e riconversione delle aziende che inquinano, per un piano nazionale di riassetto del territorio, di investimento sulle energie rinnovabili e sul trasporto sostenibile.

• Salario minimo intercategoriale non inferiore ai 1.200 euro mensili. Per una nuova scala mobile che indicizzi i salari all’in� azione reale.

• Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Blocco dei licenziamenti.

• Salario garantito ai disoccupati pari all’80 per cento del salario minimo.

• Ritornare allo Statuto dei lavoratori nella forma originaria.

• Per un sindacato di classe e democratico. Rsu democratiche. Tutti eleggibili e tutti elettori, revocabili in qualsiasi momento dall’assemblea che li ha eletti. Salario operaio per i funzionari sindacali.

• Per un piano nazionale di edilizia popolare attraverso il censimento e il riutilizzo delle case s  tte e l’esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari.

• Per uno stato sociale universale e gratuito.

Raddoppio immediato dei fondi destinati alla sanità, abolizione di ogni   nanziamento alle strutture private.

• Istruzione pubblica, laica, democratica e gratuita. Raddoppio dei fondi destinati all’istruzione pubblica. Estensione dell’obbligo scolastico a 18 anni. No all’autonomia scolastica e universitaria. No ai   nanziamenti alle scuole private, abolizione dell’ora di religione.

• Pensioni pubbliche e dignitose, abolizione della legge Fornero, in pensione con 35 anni di lavoro o a 60 anni con una pensione pari all’80 per cento dell’ultimo salario e comunque non inferiore al salario minimo.

• Contro il razzismo: abolizione della Bossi-Fini, dei � ussi e delle quote, dei Cie e del reato di immigrazione clandestina. Permesso di soggiorno per tutti, diritto di voto per chi risiede in Italia da un anno, pieno accesso a tutti i servizi sociali; cittadinanza dopo cinque anni per chi ne faccia richiesta, cittadinanza italiana per tutti i nati in Italia.

• Stessi diritti sui posti di lavoro, nel campo dell’istruzione, nessuna discriminazione tra l’uomo e la donna. Socializzazione del lavoro domestico. Difesa ed estensione della legge 194, estensione e rilancio della rete dei consultori pubblici.

• Per uno Stato laico, abolizione del Concordato e dell’8 per mille, esproprio del patrimonio immobiliare e   nanziario della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali. Piena separazione tra Chiesa e Stato.

• Controllo operaio, democrazia dei lavoratori. Eleggibilità e revocabilità di tutte le cariche pubbliche. La retribuzione non può essere superiore a quella di un lavoratore quali  cato.

• Fuori l’Italia dalla Nato. Contro l’Unione europea capitalista, per una Federazione socialista d’Europa.

RIVOLUZIONE, periodico quindicinale, registrazione presso il Tribunale di Milano n°76 del 27/3/2015. Stampato da A.C. Editoriale Coop a r.l. - via Paulucci de Calboli, 4 - 20162 Milano.

Direttrice responsabile: Sonia Previato. Redazione via Paulucci de Calboli, 4 - 20162 Milano, mail: [email protected]: A.C. Editoriale Coop a r.l. via Paulucci de Calboli, 4 - 20162 Milano, iscrizione Roc n° 10342 del 23/8/2004

Questo numero è stato chiuso in redazione il 12-10-2015 • Il n. 10 di Rivoluzione uscirà il 05/11/15

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n° 9 • 15 ottobre 2015

dal nostro corrispondente a Marsiglia

Il 5 ottobre Xa vier Broseta, responsabile delle risorse

umane di Air France, ha annun-ciato ai lavoratori della compa-gnia il nuovo piano di ristruttu-razione aziendale, in cui sono previsti 2.900 licenziamenti entro il 2018 (300 piloti, 700 hostess e stewards e 1.900 operatori a terra). Questa noti-zia arriva dopo settimane di agitazione da parte dei dipen-denti Air France, ma soprattutto dopo tre anni in cui sono stati tagliati già circa novemila posti di lavoro nell’azienda.

Alla notizia dei nuovi tagli, i lavoratori che erano in sciopero davanti ai cancelli hanno fatto irruzione nella sede parigina del gruppo, interrompendo la riunione straordinaria del consi-glio di amministrazione al grido di “Dimissioni” e “Noi siamo a casa nostra!”. Broseta è scap-pato mentre gli strappavano i vestiti di dosso, nonostante la protezione della sicurezza. Una scena che rappresenta a pieno quello che intendiamo per odio

di classe. La reazione dei lavora-tori di Air France è solo l’ultimo di tanti episodi in cui abbiamo visto i vertici manageriali di un’azienda francese pagare, anche fi sicamente, lo scotto delle proprie azioni o intenzioni.

La stampa fi lo padronale è scandalizzata, parla di violenza quando racconta del povero dirigente linciato dalla folla, uscito illeso ma con un bel vestito in meno nel suo guarda-roba. Dal nostro punto di vista la violenza è quella dei manager di Air France, pronti a licen-ziare quasi 3mila lavoratori. La violenza è quella del governo Hollande che ha approvato una nuova contro-riforma del mercato del lavoro, la Legge Macron, che tra le tante cose facilita enormemente i datori di lavoro nei licenziamenti collet-tivi per ragioni economiche.

L’azienda ha tentato di legit-timare i licenziamenti con la scusa dell’eccesivo costo del lavoro rispetto alla concorrenza, ma è pura ipocrisia, soprattutto se consideriamo gli enormi compensi ottenuti dal gruppo manageriale in questi ultimi

anni. Ad esempio Alexander Juniac, presidente e direttore generale di Air France-Klm, nel 2014 ha ricevuto un aumento di stipendio del 72%. I lavora-tori più colpiti dai tagli saranno soprattutto i giovani e il perso-nale di terra, cioè quelli con il salario più basso .

Con il Progetto Perform 2020 l’obiettivo è quello di aumentare la produttività e la competitività dell’azienda potenziando la linea low cost, la fi liale Transavia. I nuovi contratti low cost costeranno all’azienda il 25% in meno.

La direzione di Air France vuole semplicemente far pagare

la crisi aziendale ai lavoratori, storia già vista. Tutta la nostra solidarietà va ai lavoratori di Air France che nello spazio di un pomeriggio sono diventati il punto di riferimento dei loro fratelli di classe in tutto il continente per rabbia e determinazione. Questa rabbia va organizzata sindacalmente e politicamente.

In questo momento Frédéric Gagey, direttore Air France, un po’ spaventato, ha dichiarato che le negoziazioni con i sinda-cati riprenderanno, a dimo-strazione del fatto che solo la lotta paga e cambia i rapporti di forza.

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di Paolo GRASSI

Lunedì 5 ottobre, Expo, Rho (Milano). Cinque componenti del direttivo nazio-

nale della Cgil, dell’area Il sindacato è un’altra cosa vengono portati in commis-sariato con l’accusa di manifestazione non autorizzata e resistenza a pubblico uffi -ciale. Avevano aperto uno striscione contro Expo e distribuito un volantino in cui denunciavano il regime di sfruttamento.

È l’epilogo di una polemica innescata giorni prima quando un gruppo di delegati Rsu, gli Autoconvocati in Cgil, avevano lanciato sui social network un appello a boicottare la prima giornata del direttivo, convocato appunto all’interno di Expo.

Tra l’appello e la data del direttivo c’è stato anche uno scambio di lettere aspro tra la Camusso e il segretario della Fiom sull’inopportunità di quella convocazione e l’incapacità della Cgil di essere real-mente al fi anco dei lavoratori.

L’episodio di Expo è solo l’ultimo capi-tolo di un reiterato confl itto tra la Cgil, la Fiom e la sinistra sindacale. Il primo atto c’era stato due settimane prima alla confe-renza nazionale, dove la sinistra sindacale aveva contestato al vertice dell’organiz-zazione l’incapacità di articolare una vera strategia di rilancio del sindacato, votando contro il documento fi nale.

Siamo ora al dunque: Confi ndustria ha sbattuto la porta in faccia alla Cgil sui rinnovi contrattuali. Renzi è di nuovo sul piede di guerra contro i lavoratori, a questo si sommano tutti i problemi che la crisi ci ha regalato in questi anni e intanto la Cgil sta a guardare. Del resto che una linea la Cgil non ce l’abbia lo dimostra il modo compulsivo con cui negli ultimi anni ha sbandierato fi or di campagne fi nite in una bolla di sapone. Il piano per il lavoro, la raccolta di fi rme sugli appalti, il nuovo Statuto dei lavoratori, propo-ste per nuovi modelli contrattuali, solo per citarne alcune.

Eppure la sofferenza nelle categorie è evidente, dagli insegnanti abbandonati dal sindacato della scuola dopo le mobilita-zioni di questa estate, all’impiego pubblico per il quale Renzi ha anticipato che gli aumenti (dopo sette anni di contratto scaduto) saranno simbolici, arrivando al sindacato del commercio dove nonostante i dirigenti nazionali abbiano fi rmato di tutto e di più, dalla grande distribuzione alla Coop, passando per i grandi gruppi nazio-nali e internazionali, è un susseguirsi di disdette di contratti e ristrutturazioni.

Alla conferenza Cgil il coordinatore nazionale dell’area Democrazia lavoro, Rinaldini, ha dichiarato che si apre una fase di dura opposizione alle misure

inconcludenti della Cgil. Recentemente Landini non ha escluso anche l’occu-pazione delle fabbriche davanti alle chiusure aziendali.

Non è la prima volta che dirigenti della sinistra Cgil annunciano battaglia. Non può esserci una vera difesa degli interessi dei lavoratori senza un’organizzazione sindacale adeguata allo scontro, ma dalle parole è ora di passare ai fatti. Cioè coin-volgere la base, organizzare direttamente i lavoratori. Mettere in piedi vertenze e piat-taforme che dimostrino concretamente che c’è una posizione alternativa a quella del vertice della Cgil, altrimenti le forze che si stanno coagulando intorno agli autoconvo-cati verranno nuovamente disperse.

Opportunità e occasioni certo non mancano. Il risultato della Fiom alle elezioni Rls in Fiat dopo che per cinque anni Marchionne ha tentato di cancellarla dalle fabbriche è li a dimostrarlo.

Per uscire dall’impasse non c’è che una strada. Riorganizzare i delegati, i lavoratori e aprire una vera discussione su come rilanciare il confl itto nel paese ovunque possibile partendo da una piatta-forma generale. Questo serve a preparare il terreno per una mobilitazione per opporsi a Confi ndustria e governo. Sono passaggi ineludibili, non per far cambiare idea alla Camusso, ma per riprenderci il sindacato.

Air France È lotta di classe, bellezza!

La Camusso inciampa a Expo

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n° 9 • 15 ottobre 2015

di Alessio VITTORI

I lavoratori degli stabilimenti americani di Fca hanno bocciato a fi ne settembre

il nuovo contratto, che dovrebbe regolare il rapporto di lavoro negli stabilimenti di Fiat-Chrysler per i prossimi quattro anni e che doveva rappresentare un modello anche per il rinnovo contrattuale per i lavo-ratori di Ford e General Motors.

La votazione ha visto un 65% di lavora-tori esprimersi per il No ed un 35% votare Sì.

L’esito del voto tra i lavoratori degli stabilimenti Usa di Fca ha del clamoroso per due motivi: il primo è che soltanto quindici giorni prima i vertici dello United auto workers (Uaw, il sindacato dei lavo-ratori dell’automobile) avevano raggiunto un accordo con Marchionne sulla fi rma del contratto; il secondo, più importante, è che erano quasi trent’anni che negli Stati Uniti non veniva bocciato dai lavoratori un nuovo contratto di lavoro.

Negli Usa Marchionne sta macinando profi tti su profi tti. La produzione, parti-colarmente in Fca, viene portata avanti facendo un massiccio ricorso ad un sistema di contratti d’ingresso (per usare una termi-nologia familiare per i lavoratori italiani) per il quale i lavoratori con minore anzia-nità possono arrivare a guadagnare la metà

di quelli più anziani, con forti penalizzazioni anche nelle componenti del salario accesso-rio. In Fca il 45% dei lavoratori si trovano in queste condizioni mentre sono il 28% alla General Motors e il 20% nella Ford.

L’accordo respinto nei 23 stabilimenti americani di Fiat Chrysler prevedeva un aumento della paga oraria per i neo-assunti di 1 dollaro, un aumento del 3% del sala-rio per gli altri lavoratori da far scattare al primo e al terzo anno di contratto e un bonus di produzione annuo inferiore di 500 euro rispetto al precedente accordo.

Mentre i lavoratori Fca bocciavano sonoramente Marchionne, i lavoratori della Ford della fabbrica di Kansas City (lo stabi-limento dove si produce il Suv della Ford più venduto) annunciavano uno sciopero da domenica 4 ottobre per chiedere migliora-menti salariali.

Lunedì 5 ottobre sono ripartite le tratta-tive tra Fca e Uaw. Nello stesso momento è partito un ultimatum per iniziare uno scio-pero in tutti gli stabilimenti Fiat-Chrysler americani, sulla spinta dei lavoratori dello stabilimento di sistemi di trasmissione di Kokomo in Indiana, dove si svolge il 75% della produzione dei modelli Jeep e Ram, quelli più redditizi per Fca.

La decisione dei dirigenti sindacali tutta-via, alla scadenza dell’ultimatum, è stata

quella di proseguire le trattative, in partico-lar modo sul fi nanziamento del fondo sani-tario, sull’aumento delle paghe orarie per i neo-assunti e sullo spostamento di alcuni modelli in Messico.

Nella serata di mercoledì 7 ottobre azienda e vertici sindacali hanno comu-nicato di aver raggiunto un accordo (i cui contenuti non sono stati ancora svelati mentre va in stampa questo numero di Rivoluzione). Quest’annuncio sa tanto di tentativo di evitare a tutti i costi uno scio-pero che i lavoratori erano già pronti a fare.

I lavoratori americani del settore dell’auto, a più voci, stanno dicendo no ad un modello di produzione che polverizza un record di profi tti dopo l’altro e peggiora sempre di più le condizioni di chi le auto le produce. Un messaggio, neppure troppo in codice, per i lavoratori italiani.

di Luca LOMBARDI

L’origine dello scandalo Volkswagen è ormai nota:

un piccolo laboratorio indipen-dente (l’Ictt) aveva condotto dei test su vetture diesel da cui risultavano valori delle emis-sioni inquinanti sino a 35 volte superiori a quanto dichiarato. Queste forti divergenze sono state portate a conoscenza dell’Epa (l’agenzia statunitense per l’ambiente) che ha chiesto spiegazioni. La casa, all’ini-zio, ha negato sostenendo che le discrepanze erano dovute a problemi del software, ma alla fi ne ha dovuto ammet-tere la verità: il software delle automobili è in grado di capire quando il mezzo sta subendo un test (ossia si trova sui rulli con il freno a mano tirato) e di limitare di conseguenza le emis-sioni. In strada il marchingegno si spegne, facendo impennare spaventosamente i livelli di inquinanti. Il trucco serviva per vendere più automobili diesel dichiarando prestazioni fanta-scientifi che anche come impatto ambientale. Il software è in dota-zione a circa 500mila vetture

vendute in America dal 2009 e 11 milioni in tutto il mondo.

Un noto detto dice che è inutile chiedere all’oste se il vino è buono per ragioni sin troppo ovvie a tutti, a tutti salvo agli enti pubblici che dovrebbero certifi care quanto inquinano le automobili. Infatti, sia negli Stati Uniti che in Europa, le agenzie governative non hanno fondi a suffi cienza per testare le auto, quindi prendono semplicemente per buone le dichiarazioni delle aziende o si servono di orga-nizzazioni commerciali che competono per avere commesse dalle case automobilistiche di cui testano i prodotti. Almeno la Epa americana ogni tanto fa test a campione, in Europa nemmeno quello. La scelta della Vw, che appare per certi versi ingenua, si comprende nel quadro di una legislazione talmente in mano alle lobby automobilistiche che i produttori non faticano nemmeno troppo per produrre dati reali-stici. D’altronde è emerso che l’Unione europea era a cono-scenza da anni di queste pratiche e non ha mai aperto bocca.

Tutto ciò non è certo con-fi nato al mondo dell’auto. Da

decenni la deregulation è la co-lonna sonora della ritirata dello stato dall’economia. Che si par-li di agricoltura o di banche, le aziende fanno da sé, con le con-seguenze che conosciamo bene.

Volkswagen non è certo un caso isolato. Per esem-pio, per circa un decennio General Motors ha nascosto un problema al sistema di inie-zione di molti suoi modelli ed è stata costretta a richiamare 2,6 milioni di auto dopo che erano già morte oltre 120 persone. La Toyota ha pagato una multa di 1,2 miliardi di dollari quando è emerso che un difetto di fabbricazione aveva ucciso almeno cinque persone. Per quanto riguarda le emissioni, le case automobilistiche usano diversi stratagemmi per ridurre i consumi durante le prove: pneumatici speciali, macchine più leggere, prove ad alta quota, ecc., il che spiega come mai auto diesel e ibride vengano pubblicizzate con consumi ed emissioni bassissimi che mai avranno nelle condizioni reali.

Tra i costi del richiamo delle vetture e le cause legali, le stime del costo dello scandalo

oscillano tra 56 e 78 miliardi di euro. I costi indiretti sono impossibili da stimare consi-derato che il settore auto è il pilastro dell’industria tedesca e il diesel ne è una tecnologia centrale.

Una guerra sui prezzi è implicita, così come la guerra commerciale. L’Associazione europea dei costruttori di auto (Acea) per bocca del suo presi-dente Ghosn (Renault-Nissan) tenta di deviare la tempesta accusando gli Usa del fatto che “vogliono sfi dare il ruolo domi-nante che i fabbricanti europei hanno conquistato globalmente in questa tecnologia”.

I costi dell’accresciuta con-correnza ricadranno inevitabil-mente sui lavoratori, così come sulle casse pubbliche, posto che è impensabile che lo Stato tedesco non intervenga per so-stenere la sua industria porta-bandiera, nella quale anche la burocrazia sindacale e i governi regionali siedono nel consiglio d’amministrazione.

L’unico che ha poco da preoccuparsi è l’ex A.d. della Volkswagen, “cacciato” con una buonuscita di quasi 30 milioni…

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Scandalo Volkswagen Chi pagherà i costi?

Lezione americana per Marchionne

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n° 9 • 15 ottobre 2015

di Paolo BRINI

comitato centrale Fiom-Cgil

MODENA – La vertenza alla cooperativa Carpigiana service rappresenta uno dei tanti esempi dell’ingiustizia che sta alla base del mondo del facchinaggio cooperativo, ma è anche un precedente impor-tante di fronte unico di lotta tra Fiom e Si Cobas.

Come pressoché ogni coope-rativa di facchinaggio, anche la Carpigiana è nata per garan-tire ad una grande azienda, in questo caso la metalmec-canica Cbm, manodopera a basso costo. Per oltre 15 anni utilizzati come veri e propri operai Cbm addetti a montag-gio e verniciatura ma pagati un terzo in meno, i lavoratori della Carpigiana l’anno scorso decidono di ribellarsi. Metà dei 32 dipendenti stracciano la tessera della Filt e passano al Si Cobas iniziando una vertenza che aveva all’ordine del giorno il rispetto almeno del contratto nazionale di riferimento e il rispetto della propria dignità contro le vessazioni di capi arroganti e brutali.

Dopo alcuni picchetti e il raggiungimento di alcuni accordi sindacali, i lavoratori

hanno da un lato intrapreso una causa contro Cbm per inter-mediazione di manodopera la cui prima udienza sarà il pros-simo 29 ottobre. Dall’altro hanno rivendicato il passaggio al contratto dei metalmecca-nici in quanto più rispettoso delle proprie lavorazioni oltre che con maggiori garanzie in termini di ammortizzatori sociali. A giugno di quest’anno

la Carpigiana è passata sotto il contratto metalmeccanico grazie alle lotte dei lavoratori. Da questo momento oltre al Si Cobas anche la Fiom diventa parte della vertenza.

Come reazione contro i lavo-ratori che hanno osato rivendi-care i propri diritti, di ritorno dalla chiusura estiva Cbm ha tentato di spostare le lavora-zioni presso un’altra azienda fornitrice. Subito è scattato lo sciopero ad oltranza dichiarato

unitariamente da Fiom e Si Cobas con presidio davanti alla Cbm stessa. Il blocco ha costretto dopo una gior-nata la Cbm a un accordo che temporaneamente garantisce i posti di lavoro. Ma è solo una tregua temporanea.

La rivendicazione era e rimane una e molto semplice. Salvare tutti i posti di lavoro richiamando la committente

alle sue responsabilità e quindi garantendo il lavoro per tutti, in attesa che il processo dica se effettivamente Cbm è colpevole di intermediazione di mano-dopera e sia così obbligata ad assumere direttamente questi lavoratori.

Questa vertenza, come quella in Motovario all’inizio di questa estate, ci dice quanto sia importante per difendere i diritti dei lavoratori delle ditte di appalto e/o “fornitrici”

il coinvolgimento delle ditte committenti. Sono molte le aziende importanti che hanno appaltato tutta la parte logistica a cooperative di facchinaggio. Da questo emergono due dati importanti. In primo luogo i facchini nella metalmeccanica posso avere un potere contrat-tuale enorme. Se si blocca la logistica, tutta la produzione si blocca. Secondariamente, tutto questo ci dice quanto sia importante che si saldi l’unità di azione dei lavoratori metalmeccanici e di facchi-naggio. I lavoratori uniti nella lotta possono ottenere grandi conquiste e possono pensare non solo di stare sulla difen-siva ma fi nalmente di tornare a passare al contrattacco contro i padroni.

Questo anche in vista del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Per questo l’unità nella lotta tra Fiom e Si Cobas assume una importanza centrale e speriamo che quello di Carpigiana sia un precedente ed un esempio che si estenda in tutto il paese. L’unità di classe non si costruisce con proclami dall’alto ma nel concreto delle lotte dal basso. In Carpigiana venderemo cara la pelle per difendere tutti i posti di lavoro.

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di Mimmo LOFFREDO

operaio Fca Pomigliano

La metrica e il sistema di lavoro assu-mono sempre maggiore importanza

negli ultimi anni e le grandi multinazio-nali provano vari sistemi per competere a livello internazionale.

Non fa eccezione il mondo delle auto-vetture, in cui negli ultimi anni la Fiat ha preso come ispirazione il sistema Toyota, modifi candolo e rivisitandolo.

Sono così comparse nei luoghi di lavoro sigle di varia natura, inculcate ai lavora-tori attraverso corsi specifi ci, come World Class Manifacturing (Wcm) e Ergo Uas. Con il Wcm la Fiat si propone di migliorare qualità e produttività e di abbattere costi. Quali sono le attività che non valorizzano il capitale? Un esempio è il camminare: per eliminare questa funzione inutile è adottato un sistema di carrellini che porta particolari da montare direttamente sulla linea; questo produce però una maggiore fatica statica ed un maggiore carico biomeccanico per le braccia. A ciò s’aggiunge l’Ergo Uas, un metodo di lavoro che, secondo i suoi difen-sori, dovrebbe migliorare le condizioni

ergonomiche di lavoro, riducendo quindi i rischi di malattie muscolo-scheletriche, molto frequenti nelle aziende con sistemi di produzione a catena di montaggio. Questo sistema ha, di fatto, modifi cato il modo di lavorare, analizzando tempi e metodi di lavoro per ogni singola postazione, fi no al decimillesimo di secondo. Al termine delle analisi è assegnato un colore: verde, postazione che non produce effetti deleteri; giallo, postazione che ha bisogno di miglio-ramenti ergonomici non urgenti; rossa, non conforme da migliorare subito. L’analisi è fatta da tecnici specializzati interni alla Fiat, che utilizza una scheda con ogni singolo gesto d’un lavoratore su un ciclo di produzione. Già qui nascono problemi, visto che le valutazioni sono comunemente errate per difetto ed in più la Fiat ha deciso di utilizzare una scheda non conforme agli standard internazionali. Con l’Ergo Uas, soprattutto, l’azienda riduce all’osso i tempi morti nella prestazione lavorativa, che diventa molto più intensa; avere tutti o quasi gli strumenti di lavoro “a portata di braccia” può apparire una comodità, ma si trasforma in realtà in un tempo di lavoro molto più denso e privo di stacchi – nel

linguaggio tecnico dei padroni “saturo”.Il numero di cicli di lavoro è dettato da

quante vetture a turno si producono. Detto così, sembra un sistema rivoluzionario che al tempo stesso tutela i lavoratori e assicura maggiore produttività all’azienda.

Quali sono le note dolenti di questo sistema? È di qualche mese l’annuncio che Melfi è lo stabilimento più produttivo in Europa. Sono aumentati i cicli di lavoro quotidiano di ogni singolo lavoratore; come se non bastasse, si è sperimentata una turnazione basata su venti turni settimanali, cioè si lavora anche di sabato e domenica su turni di mattina, pomeriggio e sera. Solo questo basterebbe a testimoniare l’enorme accrescere dell’usura e dello stress per i lavoratori. Infatti, se si smette di lavorare alle 13:30 del sabato, la domenica si fi ni-sce alle 22, mentre la durata della pausa durante il turno passa da 40 minuti a 30.

Questo aumento di lavoro, che fa guada-gnare la Fiat sulle spalle dei lavoratori, è premiato dal governo con il Jobs act e con circa 11 milioni di euro risparmiati per le circa 1.500 assunzioni avvenute a Melfi . Marchionne, dunque, ringrazia, mentre i lavoratori pagano due volte.

Carpigiana L’unità Fiom-Si Cobas è nella lotta!

Vita da operai nei “tempi moderni”

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di Francesco GILIANI

Le elezioni catalane hanno mostrato una società pola-

rizzata, quasi in parti uguali, tra i partiti indipendentisti e quelli che vogliono la perma-nenza nello stato spagnolo. La politica repressiva del naziona-lismo reazionario spagnolo è la principale responsabile dell’ag-gravarsi della questione. Poco prima delle elezioni, il mini-stro della Difesa del governo di destra ha affermato minacciosa-mente che l’esercito non inter-verrà in Catalogna se “ognuno farà il suo compito”.

UN TERREMOTO POLITICO

Le elezioni, molto partecipate, hanno registrato il declino dei partiti tradizionali, dagli autono-misti borghesi di Convergenza Democratica per la Catalogna (Cdc) alla destra nazionalista spagnola del Partito Popolare (Pp) fi no ai socialdemocratici del Partito socialista (Psoe). Solo due nuove organizzazioni ottengono voti in più: la destra “spagnoli-sta” di Ciutadans (18%) e la sini-stra radicale indipendista della Cup (Candidatura di unità popo-lare), schizzata dal 3,5% all’8%

(a una tacca dal Pp), con 209mila voti assoluti in più. A parte la vittoria col 39% di Uniti per il Sì – alleanza tra Cdc e sinistra moderata e catalanista di Sinistra Repubblicana (Erc) –, quasi il 60% dei voti è andato a partiti che difendono il diritto all’auto-determinazione; tra di essi si deve annoverare anche Catalogna sì che si può (Csqp) – cartello tra Podemos, Sinistra Unita (Iu) e altre formazioni minori ferma-tosi al 9%. La destra spagnola e il Psoe, invece, negano in ogni modo il diritto elementare ad un referendum per l’autodetermina-zione. Dopo le elezioni, peraltro, un tribunale spagnolo ha incrimi-nato “per disobbedienza” il capo di Cdc e governatore uscente della Catalogna, Artur Mas, per aver organizzato il 9 novembre 2014 la consultazione sull’indi-pendenza. Uniti per il sì ha atti-rato l’entusiasmo della maggior parte della popolazione favore-vole all’indipendenza catalana. La manovra di Mas è riuscita, mettendo in secondo piano la sua gestione antioperaia fatta di tagli e incriminazioni per gli scioperanti. Demagogicamente, ha sostenuto l’indipendenti-smo come soluzione magica ai problemi economici. Tuttavia, il

suo relativo successo è dovuto pure all’odio anti-catalano dispie-gato dal governo, dalle gerarchie ecclesiastiche e dalla stampa. Le campagne isteriche dei mezzi di informazione – “verranno chiusi gli sportelli bancomat”, “saranno espulsi dall’euro e dall’Ue”, “il Barcellona sarà espulso dalla Liga Spagnola” – hanno infatti irritato i catalani.

IL SUCCESSO DELLA SINISTRA CATALANA

Nel campo indipendentista c’è, però, uno spostamento a sinistra, in primo luogo con un travaso di voti da Cdc verso Erc – evidente nei sondaggi fatti prima della formazione della coalizione –, ma anche da Erc verso la Cup. La Cup s’è presentata come forza catalanista e anticapitalista ed ha sfondato, anche se i suoi voti sono concentrati nelle zone rurali ed interne della regione, proprio come quelli di Uniti per il sì. A Barcellona e nella sua cintura operaia, abitata da molti emigrati da altre zone della Spagna come l’Andalusia, la Cup ha registrato un appoggio tra i giovani prole-tari, mentre la generazione più anziana s’è mantenuta sul Psoe o s’è portata, purtroppo, sulla

destra “spagnola” di Cittadini, palesando il rischio non trascu-rabile di una polarizzazione della classe lavoratrice su linee nazionali. Peraltro, la strategia per nulla nuova della Cup di una battaglia distinta in due fasi separate nel tempo – la prima, consistente nella dichiarazione di una repubblica catalana in regime capitalista, e quindi la non contrarietà ad appoggiare un governo di Junts pel Sì e la seconda, separata, riguardante la battaglia anticapitalista – si presta a favorire i piani immediati della borghesia catalana ed anche la presa dei partiti “spagnoli” sul proletariato di lingua castigliana.

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di Jacopo RENDA

Dopo le elezioni catalane si avvicina in Spagna il momento delle elezioni politi-

che che si celebreranno il 20 dicembre.Le diffi coltà mostrate dal Partito popolare

(Pp) e dal Partito socialista (Psoe), dura-mente colpiti dal voto nelle elezioni cata-lane, rendono lo scenario più aperto che mai.

In questo contesto la sinistra spagnola si presenta mostrando le sue potenzialità ma anche tutte le sue fragilità programmatiche, politiche ed organizzative.

La forza protagonista sarà certamente Podemos, anche se la sua marcia, che sembrava inarrestabile, ora appare più acci-dentata. L’organizzazione guidata da Pablo Iglesias sembrava destinata ad una crescita costante dopo la vittoria nelle scorse elezioni amministrative di maggio.

Il discorso della sua direzione che si scagliava contro il sistema politico era in grado di rappresentare quel rifi uto dell’au-sterità e della politica “tradizionale”, che in termini marxisti chiameremmo politica borghese, parte integrante delle mobilitazioni che hanno attraversato lo Stato spagnolo.

PODEMOS E L’ESEMPIO DI SYRIZA

La trasformazione di Podemos da movi-mento a partito è stato un passaggio ulteriore della crescita, con la formazione dei circoli territoriali e tematici che hanno portato l’or-ganizzazione ad avere circa 350mila iscritti. Questa crescita non è solo frutto dell’ingresso in politica di una nuova generazione che si è politicizzata nella crisi. Un settore di attivisti sociali, di militanti storici della sinistra e del movimento operaio hanno aderito alla nuova formazione convinti che potesse rompere con la staticità ed l’istituzionalismo esaspe-rato che era stata una delle stelle polari di Izquierda unida (Iu), plasticamente rappre-sentato dall’ingresso nel governo regionale guidato dal Psoe in Andalusia, un governo di tagli per i lavoratori e le loro famiglie.

Non è casuale che una formazione con un forte radicamento di classe come la Candidatura unitaria de trabajadores (Cut), con signifi cativo radicamento tra settori di lavoratori in Andalusia, abbia rotto con Iu dichiarando il sostegno a Podemos.

Certamente in questo momento l’efferve-scenza del periodo migliore dell’ascesa di

Podemos sembra essere evaporata. I circoli si sono svuotati, l’entusiasmo sembra aver subito una battuta di arresto e il risultato uscito dalle urne catalane è modesto.

Le ragioni sono sia politiche che organiz-zative. Podemos paga la scelta organizzativa di limitare il dibattito interno, basandosi su una sorta di “democrazia telematica” attra-verso l’uso della rete. Ciò determina inevita-bilmente il calo della partecipazione attiva e che un piccolo gruppo di persone abbiano in mano i destini del movimento.

Le motivazioni principali dell’attuale impasse di Podemos, tuttavia, affondano le basi nella svolta moderata della sua linea politica e nell’“effetto greco” dovuto alla capitolazione di Tsipras, cui Iglesias ha dato pieno sostegno anche dopo la fi rma nuovo Memorandum. È emersa l’idea di essere “presentabili” perché ci si avvicina ad un possi-bile approdo di governo e non si vuole spaven-tare la classe media. Una deriva di cui è stato protagonista Tsipras e che è accaduta tante altre volte nella storia del movimento operaio.

Il cuore del discorso politico è diventato la lotta alla corruzione ed un’astratta aspirazione alla democrazia ed alla sovranità popolare

Il signi� cato delle elezioni ca

SPAGNA • La sinistra divisa verso le elezioni politiche

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Anche molti elettori del sindaco di Barcellona Ada Colau (Barcellona in comune) hanno scelto la Cup, delusi dal verti-cismo della campagna di Csqp, dalle esitazioni e dal legalitarismo di Iglesias sulla questione cata-lana e dal suo appoggio pubblico alla capitolazione di Syriza in Grecia. I limiti di Podemos nel difendere il diritto all’autode-terminazione sono stati impor-tanti. Nella propaganda uffi ciale, Csqp ha vincolato il “diritto a decidere” della Catalogna a un processo costituente nell’insieme dello stato spagnolo. Iglesias, in specifi co, non sostiene incondi-zionatamente l’organizzazione

di un referendum vincolante, ma lo subordina ad un processo che rispetti la Costituzione reazio-naria approvata nel 1978 sotto l’egida della monarchia ed all’in-segna della sacralità dei confi ni della Spagna. Però, la maggior parte del popolo catalano vuole decidere ora e non vuole legarsi mani e piedi alla Corte costitu-zionale, comprendendo corretta-mente che le istituzioni spagnole non concederanno mai un referendum.

LA CATALOGNA NON È LA PADANIA

La Catalogna è una delle regioni più industrializzate della Spagna e dunque concen-tra una quota signifi cativa della ricchezza a livello nazionale. Ciò potrebbe indurre ad una comparazione superfi ciale tra l’indipendentismo catalano e la Lega Nord. In realtà, i due feno-meni presentano più che altro delle differenze. Innanzitutto, la Catalogna esiste fi n dal Medio Evo, ha una sua storia – indi-pendente da Madrid fi no al 1714 –, una lingua ed una lette-ratura iniziata nel XIII secolo, mentre la Padania è pura inven-zione. La negazione dei diritti democratici elementari, poi, è questione attuale ed è stata brutale, con divieto di insegnare lingue diverse dal castigliano,

sotto la dittatura fascista di Franco, durata dalla fi ne della guerra civile nel 1939 fi no a metà anni ’70. Infi ne, e ancor più importante, l’appoggio all’indi-pendentismo è cresciuto in gran parte per i limiti della sinistra, incapace di indicare una strate-gia socialista e rivoluzionaria di fronte alla crisi del sistema. Soltanto pochi mesi fa, infatti, a Barcellona, Tarragona ed in altre città della Catalogna e della Spagna hanno trionfato liste di “Unità popolare” presentatesi a sinistra della socialdemocrazia. A quella voglia di cambiamento, però, né Podemos né Sinistra unita hanno offerto possibi-lità di esprimersi in una forma superiore. Ciò ha spinto su un terreno differente la ricerca di una rottura con lo status quo. Le tipiche richieste della Lega Nord di abbassare le tasse ai padroni sono invece patrimonio dell’ala borghese del fronte catalanista, incarnata dalla Cdc, intenzio-nata a contrattare con lo stato centrale benefi ci per sé e non a lottare per l’indipendenza.

E ORA?

Lo stallo post-elettorale ha messo Mas al centro della scena. Questo fi guro cercherà di mettere sullo sfondo il tema dell’indipendenza per negoziare col futuro governo spagnolo

un’autonomia fi scale della Catalogna che accontenti i suoi referenti sociali – la grande borghesia – al fi ne di dare uno sbocco al confl itto con Madrid. Le associazioni del padronato catalano hanno già lanciato un appello alla Cup perché s’ac-cordi con Mas. La Cup s’è messa su un piano inclinato: il suo capolista, Baños, ha dichiarato che serve un “governo trasver-sale e corale”. Probabilmente non appoggerà alla presidenza Mas o altri dirigenti della Cdc corrotti e particolarmente scre-ditati agli occhi delle masse; questa posizione pecca di appa-rente “candore”, poiché non si tratta dell’appoggio a un indi-viduo rispetto a un altro ma di pronunciarsi sull’alleanza col principale partito della borghe-sia catalana.

Il movimento operaio deve difendere concretamente il diritto all’autodeterminazione, combat-tendo ogni forma di intossica-zione nazionalista sulla “gloria” della Spagna. Tuttavia, un nuovo “processo costituente” sarà una formula vuota se la classe lavo-ratrice della Catalogna e di tutto lo stato spagnolo non prenderà direttamente in mano la risolu-zione della questione nazionale e sociale, legandola alla lotta per la rivoluzione socialista e senza accodarsi a politicanti borghesi di turno.

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riprendendo un frasario secondo il quale destra e sinistra sarebbero categorie superate.

Ma l’esplosione di partecipazione politica dentro Podemos non era frutto del fatto che non appariva di sinistra ma esattamente il contrario; nella percezione delle persone rappresentava la sinistra del cambiamento, fuori e contro la vecchia sinistra del palazzo, capace di rompere con il sistema di corruzione e sfruttamento. Questa impasse momentanea non determinerà necessariamente una crisi verticale del partito che continua a godere di una certa stabilità.

LE DIVISIONI IN IU

Anche Iu attraversa una fase delicata, L’ascesa di Podemos ne ha limitato lo spazio, ricacciandola nei confi ni minoritari e nelle crisi che aveva attraversato per tutti gli anni 2000. A questo hanno contribuito scelte scellerate come l’ingresso nel governo andaluso, il sostegno al governo del Pp in Estremadura e una organizza-zione spesso paralizzata dalle logiche correnti-zie e dai veti reciproci.

Oggi Iu è divisa in tre blocchi in contra-sto tra loro. La destra storica guidata da Llamazares che propone un fronte addirit-tura con personaggi come Baltasar Garzón discusso ex giudice con un passato nel Psoe e salito alla ribalta anni fa per le indagini contro

i nazionalisti baschi. Il settore neostalinista di Javier Parra, giovane segretario del Partito comunista di Valencia che propone una politica sul modello greco del Kke. Il settore più vitale è guidato da Alberto Garzón, giovane prove-niente dal movimento degli Indignados che dal 2014 è segretario nazionale di Izquierda unida ed ha cercato un accordo a sinistra.

Per mesi si è discusso di un possibile fronte unico tra Podemos ed Iu, una candi-datura di Unidad popular sul modello che aveva permesso la vittoria in importanti città nelle amministrative di maggio. Negli ultimi giorni però questo processo è defi ni-tivamente saltato e ci saranno due candidati contrapposti della sinistra nelle elezioni poli-tiche di dicembre: Pablo Iglesias e Alberto Garzón. La rottura non è avvenuta su base programmatica visto che non ci sono signi-fi cative divergenze tra le due formazioni ma per i limiti e l’approccio conservatore dei rispettivi gruppi dirigenti.

Non è da escludere che nelle ultime setti-mane Iglesias radicalizzi il suo discorso per recuperare terreno, imparando la lezione da Chavez di cui è stato consigliere negli anni migliori della Rivoluzione bolivariana. Così come non è da escludere un accordo con Iu in singoli collegi elettorali.

Quello che manca oggi è la capacità di

entrambi di fare in modo che nelle elezioni politiche si esprima tutto il potenziale di lotta che abbiamo visto in questi anni. La forma-zione di assemblee di base a livello territoriale capaci di raccogliere e sviluppare la parte-cipazione vista nelle mobilitazioni di questi anni poteva generare candidature unitarie che fossero la reale espressione del movimento.

Questo aspetto è un aspetto centrale non solo nella dinamica elettorale ma soprattutto per il futuro.

La Spagna di questi anni ci ha offerto qualcosa che non abbiamo visto in altri paesi dove la crisi ha prodotto il livello più alto del confl itto di classe come accaduto in Grecia. Un processo di partecipazione dal basso che ha prodotto non solo una miriade di lotte ma anche eventi storici come la Marcia per la dignità del marzo 2014, una manifesta-zione di un milione di persone a Madrid la cui realizzazione non si è basata su alcuna organizzazione di massa ma su un processo molecolare di partecipazione popolare.

Il ritorno del protagonismo di massa può contribuire a scavalcare anche lo stallo sindacale che vede Ugt e CcOo impanta-nate in una improbabile concertazione con il governo, dotandosi di strumenti come le assemblee popolari capaci di essere reale espressione del confl itto nella prossima fase.

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di Roberto SARTI

Dopo quattro anni di guerra civile, 300mila morti e

milioni di profughi, il confl itto in Siria entra in una nuova fase.

La Russia ha deciso di inter-venire e dalla fi ne di settem-bre sta bombardando sistema-ticamente il territorio control-lato dalle milizie anti-Assad e dall’Isis. L’intervento arriva dopo mesi di incremento costan-te della presenza di Mosca, conseguenza del progressi-vo indebolimento di Assad, che controlla ormai di meno di un terzo del paese. Inoltre è avve-nuto dopo l’incontro del 25 set-tembre tra Obama e Putin, dove al di là della propaganda, è stato stipulato una sorta di “accordo tecnico” fra le due superpotenze, riassunto nelle parole del presi-dente Usa: “Gli Stati Uniti sono pronti a cooperare con qualsiasi paese, incluso la Russia e l’Iran, per risolvere il confl itto.”

TUTTI CONTRO L’ISIS?

I bombardamenti dell’avia-zione a stelle e strisce, che or-mai durano da oltre un anno, non hanno avuto praticamente alcun effetto, anzi hanno por-tato a un chiaro rafforzamento dell’Isis. Come ha ammes-so Lloyd Austin, del Comando centrale dell’esercito Usa, dopo avere investito 500 milioni di dollari nell’addestramento di miliziani anti-Isis, “Siamo ri-masti con un pugno di loro, parliamo forse di quattro o cin-que”. Le milizie “moderate” si sono liquefatte, annientate dai nemici o più facilmente passa-te ad Al Nusra, un gruppo fon-damentalista sunnita appoggia-to dalla Turchia, oppure diretta-mente all’Isis con le armi e l’e-quipaggiamento fornito dagli Stati Uniti stessi. Nonostante i proclami roboanti, il proget-to di Washington era quella di contenere l’Isis in Iraq ma di lasciare alla Jihad mano libe-ra in Siria, con la speranza che così potesse contribuire alla caduta di Assad.

Oggi gli Stati Uniti prote-stano contro gli attacchi dei Mig russi che colpiscono anche obiettivi civili, insieme a ciò che rimane alle milizie anti-Assad. Oltre ad essere dichia-razioni ipocrite, che avvengono proprio nei giorni del massacro

operato dai bombardamenti Usa nell’ospedale di Kunduz, sono disperate, dato che Obama non dispone di alcuno stru-mento per intervenire in loro difesa. Dopo essere stato il principale responsabile del caos e della barbarie che regna nella regione, con l’intervento in Iraq e in Afghanistan e il fi nan-ziamento e l’appoggio ad Al Qaeda e alle altre milizie jiha-diste, gli Stati Uniti rivelano la loro totale impotenza nel confl itto siriano.

La realtà è che in ogni guerra e più che mai in una guerra civile come quella siriana, contano le forze presenti sul terreno. Infatti, le uniche zone dove l’Isis è stato respinto sono state quelle dove combattono le milizie curde del’Ypg, che dopo l’eroica resistenza vitto-riosa di Kobane hanno liberato

altre zone del Kurdistan siriano.Negli ultimi mesi anche le

milizie sciite hanno aumen-tato la loro presenza ed oltre all’Ypg, pur con altri obiettivi, sono le uniche che fronteg-giano i fondamentalisti. Stiamo parlando della National defence force, sotto la supervisione di Damasco e dell’Iran, che conta 90mila paramilitari. Assad ne organizza 18mila, a cui si aggiungono 8mila di Hezbollah dal Libano 6mila iracheni e 7mila Guardie rivoluzionarie iraniane (fonte: Afp-il manife-sto, 26 settembre). È l’Iran ad addestrare ed equipaggiare i combattenti. Di fronte a questi numeri, gli Stati Uniti non possono che prendere atto della situazione e vivere alla giornata.

La sconfi tta dell’intervento in Iraq, con il conseguente ritiro dell’esercito Usa, ha consolidato l’Iran come potenza regionale.

Le debacle in Afghanistan ed in Libia, insieme al rovescia-mento rivoluzionario di alle-ati storici come Mubarak in Egitto, hanno completamente cambiato i rapporti di forza nella regione. La Turchia e i paesi del Golfo hanno ognuno le proprie strategie che, come nel caso dell’aperto sostegno della Turchia all’Isis, confl iggono apertamente con quelle degli Usa. Così, dopo averlo defi nito “Asse del male”, gli Stati Uniti sono stati costretti a scendere a patti con l’Iran attraverso l’ac-cordo sul nucleare del luglio scorso. Ma a sua volta questo non ha fatto altro che inasprire i rapporti con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.

Da questi scontri derivano i tentativi di stringere nuove alle-anze. Dietro ai raid francesi in Siria, un’azione non concordata con gli altri paesi della Nato, si cela, oltre alle ambizioni imperialiste di Parigi, un asse con l’Arabia Saudita, grande acquirente di armi francesi.

Il nuovo protagonismo russo sta inoltre creando nuovi confl itti, come quello apertosi con la Turchia. Erdogan ha denunciato la violazione dello spazio aereo turco e della “zona sicura”, essenzialmente una no-fl y zone interdetta all’eser-cito siriano. Tale zona ha come obiettivi quello di garantire le linee di rifornimento ai gruppi sostenuti da Ankara, tra cui l’Isis e impedire che le milizie dell’Ypg giungano alle enclavi curde a nord di Aleppo pren-dendo il controllo di tutto il confi ne turcosiriano.

Lo scontro tra Russia e Turchia pare inevitabile, l’allar-gamento del fronte bellico pure. Come una pulce sulla schiena dell’elefante, anche l’Italia non vuole essere da meno e ha mani-festato l’intenzione di parteci-pare ai bombardamenti in Iraq.

GLI OBIETTIVI DI PUTIN

Stante la confusione che regna nel campo occidentale, l’azione della Russia può otte-nere un certo successo, che si consoliderebbe con l’invio di truppe direttamente sul territorio siriano. Putin gode al momento di un grande vantaggio: la Russia ha un alleato, Assad, e sa chi combattere e perché. La caduta del regime di Damasco

porterebbe a un forte indebo-limento della Russia in Medio Oriente, oltre alla perdita della base di Tartus, unica postazione militare russa che si affaccia nel Mediterraneo. Inoltre, una Siria nelle mani dei fondamentalisti potrebbe avere un effetto desta-bilizzante anche all’interno della Federazione russa: sono migliaia i cittadini russi, di origine cecena o caucasica, arruolatisi nelle fi la dell’Isis.

La motivazione princi-pale dell’intervento russo non è dunque umanitaria. Putin vuole far assumere di nuovo alla Russia il ruolo di potenza mondiale. Combattendo l’Isis desidera avere tutte le carte in regola per essere al centro dei negoziati sul futuro della Siria e di tutta la regione mediorien-tale. Non solo, Mosca vuole uscire dall’isolamento interna-zionale in cui è stata relegata dopo l’appoggio alle repubbli-che separatiste ucraine e l’an-nessione della Crimea.

Tutto ciò non si otterrebbe a titolo gratuito, ma a prezzo di creare ulteriori tensioni ed instabilità nell’area.

Cosa propone infatti Putin per il futuro del paese? Una volta annientato l’Isis, una condivisione del potere tra i seguaci di Assad (che, nel caso, sarebbe anche disposto a farsi da parte), e i differenti gruppi sciiti o sunniti, ciascuno soste-nuto da una potenza regionale od occidentale. Una “libanizza-zione” (o meglio, spartizione) della Siria, dove l’autodetermi-nazione del popolo curdo, ad esempio, non sarebbe prevista.

In questo gioco delle grandi potenze, milioni di giovani e lavoratori continuano a non avere alcuna voce in capitolo. E diffi cilmente potranno averla se le forze di sinistra, in Medio Oriente come in Occidente, preferiscono appoggiare uno o l’altro dei contendenti e i loro progetti reazionari invece di assumere una chiara posi-zione di indipendenza di classe. Una difesa delle prerogative di un programma rivoluziona-rio è oggi più che mai neces-saria, nelle proteste di massa esplose recentemente in Iraq e in Libano come in Turchia. Ed ancora di più per il domani quando anche le masse siriane riemergeranno dalla barbarie creata dal capitalismo.

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I combattenti del Ypg liberano Kobane

SIRIA L’intervento russo e l’impasse dell’imperialismo Usa

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n° 9 • 15 ottobre 2015

di Ferdinando DE MARCO

Anche a Parma la strategia padronale è sempre la

stessa, incrementare i guada-gni sulle spalle dei lavora-tori. Come alla Pali Italia, con stipendi non pagati per mesi e con l’azienda lasciata andare in fallimento. O come alla Cerve, di proprietà Bormioli, azienda costituita da tre stabi-limenti in cui lavorano oltre 400 persone, leader nella decorazione del vetro.

Un’azienda che ha avuto ottimi profi tti negli ultimi anni, una realtà produttiva che va a gonfi e vele, ma dove, improvvisamente, si “rende necessaria” una riorganizza-zione con 128 licenziamenti. A questo scopo viene chia-mato un nuovo amministratore delegato che a metà settem-bre avvia le procedure di mobilità. Ai tavoli istituzio-nali afferma che l’azienda ha troppi costi, senza nessun documento e senza un piano industriale.

I lavoratori si sono opposti da subito e con ferrea deter-minazione a questo incom-prensibile attacco padronale. Non sono mancati scioperi, blocchi stradali e presidi sotto la sede degli industriali di Parma. In questa prima fase la proprietà non era disposta a cedere nemmeno sulla mobi-lità volontaria; del tutto incon-cludente, com’era prevedibile, anche l’intervento di diversi rappresentanti istituzionali.

I lavoratori non si sono comunque dati per vinti e

hanno iniziato a mettere in campo i primi strumenti utili per una lotta articolata, come l’apertura di una cassa di resi-stenza, proseguendo nell’orga-nizzazione di scioperi e presi-dii. La proprietà, vista questa determinazione, decide, da un lato, di chiedere l’apertura della cassa integrazione stra-ordinaria, legata ad un piano di prepensionamenti e di mobi-lità volontaria. Dall’altro però di non sospendere la proce-dura di mobilità già avviata.

Ora la risposta dei lavoratori all’arroganza padronale deve essere forte e decisa. Nessun affi damento a padroni privi di scrupoli e a rappresentanti

istituzionali che vengono ai presidi dopo aver votato leggi che smantellano i diritti dei lavoratori. È necessaria una lotta determinata, senza

tregua, alla proprietà, sono i lavoratori gli unici ad aver a cuore il futuro dell’azienda, solo loro possono impedire i licenziamenti.

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Un presidio dei lavoratori Cerve

di Davide LISSONI

Sabato 3 e domenica 4 ottobre si è tenuta a Como la seconda assemblea nazionale dell’As-

sociazione Primo Maggio, la prima dopo il lancio della stessa associazione avvenuta il 7 febbraio. Autisti e impiegati del settore merci provenienti da Roma, Milano e Como si sono riuniti per discutere dei loro problemi sul lavoro e di come l’associa-zione può dare il suo contributo.Sabato pomeriggio la discussione ha trattato le problematiche degli autisti: straordinari non retri-buiti, inquadramento non corretto, scatti d’anzia-nità mai riconosciuti, multe e penalità ma anche una tutela sulla patente, documento principale per svolgere il lavoro. Punto davvero nodale della discussione è stata sicuramente la questione del cambio di ragione sociale delle cooperative, che in questo settore è pratica comune per non pagare le giuste retribuzioni e contribuzioni.Si è deciso che l’associazione, dopo le dif� -coltà iniziali, con la repressione dei padroni con

licenziamenti o allontanamenti dai luoghi di lavoro di alcuni soci, per rafforzare il processo di aggregazione organizzerà corsi di formazione sulla lettura della busta paga, unico riscontro di quello che non viene riconosciuto, e un corso sull’inquadramento degli autisti del settore merci. Costruiremo un coordinamento tra le realtà per richiedere il dovuto, che non è mai riconosciuto al 100%. Nascerà un “foglio di collegamento” degli autisti per spiegare e difendere i nostri diritti.La domenica mattina è stata dedicata all’argo-mento delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), partendo dalla storia di queste nel movi-mento operaio per giungere a come muoversi e come formare Rsu nelle cooperative dopo l’ac-cordo del 10 gennaio 2014, certi che una rappre-sentanza è davvero forte solo se votata da tutti i lavoratori.Questi due giorni hanno lasciato ai lavoratori una rinnovata spinta a lottare per i propri diritti e la consapevolezza di non essere soli perché: uniti si vince!

di Angelo RAIMONDI

C’è una canzone di tanti anni fa, che diceva: “chi non lavora, non fa

l’amore…”. Ne siamo certi? O forse, come ci dimostra Carrefour, è vero l’esatto opposto?

Carrefour, secondo gruppo mondiale e quarto in Italia nella grande distribu-zione, non riuscendo a competere alla pari, nella lotta per il profi tto, con i concorrenti (Coop, Esselunga ed Auchan), ha deciso di “investire” nelle aperture 24 ore su 24.

Esperimento iniziato nel 2012, dopo le liberalizzazioni del governo Monti, con un negozio nel centro di Milano. Ma dall’ini-zio di quest’anno ha deciso di sperimen-tare a piene mani, aprendo anche piccoli

negozi 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 e 365 giorni l’anno.

I dirigenti di Carrefour sanno che queste aperture, ad oggi, sono a perdere (più costi che incassi), ma sostengono che questo sarà il futuro della grande distribuzione e loro vogliono arrivarci per primi.

La realtà è che non sono disposti a perdere un centesimo del loro profi tto e così tendono a sfruttare al massimo la mano d’opera costringendola a lavorare anche la notte.

Ci dicono che la clientela deve poter fare la spesa in qualsiasi momento della gior-nata, perché il mercato è cambiato.

Queste non sono che false esigenze create per dare un senso a queste aperture.

I lavoratori ed i clienti, che poi sono la

stessa cosa, dovrebbero dare un messaggio forte ai padroni evitando di fare la spesa la notte, così come la domenica.

I lavoratori della grande distribuzione dovrebbero ricordare com’è andata con le domeniche lavorative. I nuovi assunti oggi hanno le domeniche obbligatorie e retribuite senza nessuna maggiorazione, come se fosse un giorno feriale.

Se le aperture notturne dovessero prendere piede, i padroni faranno lo stesso, rendendole obbligatorie e togliendo le maggiorazioni.

Tocca a noi lavoratori/clienti dare un segnale forte, perché le organizzazioni sindacali sono paralizzate ed il mondo poli-tico istituzionale è dalla parte dei padroni.

Carrefour “Chi non lavora non fa l’amore”?

L’ Associazione Primo Maggio si rafforza

Cerve In lotta contro i licenziamenti

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n° 9 • 15 ottobre 2015

di Barbara LIETTI

(Cgil - A. O. Luigi Sacco)

Nella notte tra il 5 e il 6 agosto, nella calura estiva e

nel silenzio quasi totale, è stata approvata la riforma della sanità lombarda! O meglio quella “porcheria” della riforma…

Da almeno venti anni in Lombardia si parlava di mettere mano al sistema sanitario regio-nale, un sistema vecchio e non più adeguato alle necessità di un territorio progressivamente cambiato sia in termini struttu-rali, con nascita e spopolamento di interi quartieri, che in termini di composizione sociale per gli intensi fl ussi migratori da Nord Africa, Cina e Sud America. In questi anni le politiche di tagli nazionali dei governi che si sono succeduti, hanno provo-cato l’indebolimento sia degli ospedali con la chiusura di migliaia di posti letto, che della rete territoriale con la chiu-sura di centri psicosociali, Sert e consultori. La proposta di riforma sanitaria nazionale per il 2016 prevede ulteriori tagli

per 3,3 miliardi di euro, oltre quelli già previsti dalla spen-ding review. In cantiere ci sono poi tagli a prestazioni sanitarie, servizi e farmaci erogati oggi attraverso il servizio sanitario nazionale.

In questo desolante pano-rama della sanità, è stata appro-vata una riforma regionale che attraverso la logica degli accorpamenti delle strutture, sulla base dello sviluppo di poli specialistici (materno-infantile, cardiologico, ortope-dico, ecc.), ha il solo scopo di generare risparmio nel rispar-mio. Come si può pensare di sviluppare poli “specialistici” territoriali in un contesto dove già in partenza non si vuole investire (spending review)? Alcune possibili soluzioni ci sono. Regione Lombardia ha già dichiarato l’intenzione di avvalersi sul diritto alla salute dei cittadini per recupe-rare soldi: aumento dei ticket, riduzione dell’acquisto di farmaci (in particolare quelli da sperimentazione) e presidi medico chirurgici, sfruttamento

massivo dei poli nel numero di prestazioni erogate (più inter-venti, più esami del sangue, più visite, più tutto), proroga del blocco delle assunzioni.

Quale sarà il futuro dei lavo-ratori in questo nuovo quadro? È evidente che con gli accor-pamenti si genererà esubero di personale, in particolare nei servizi trasversali come acqui-sti, sistemi informativi, ragio-neria, personale, manutenzione, ecc., dovuto alla molteplicità di lavoratori con lo stesso ruolo all’interno del polo. In poche parole, perché avere un uffi cio del personale per ciascun ospe-dale del polo quando se ne può avere uno solo che fa la stessa cosa per tutti? In tal modo si genererà un piccolo esercito di lavoratori “pedina” destinati a coprire i buchi lasciati dai colle-ghi delle altre strutture sanitarie lombarde. Tutto questo mentre dal prossimo 25 novembre

entrerà in vigore la normativa europea sulla turnistica del personale sanitario, che impone alle aziende regole molto più rigide per la composizione dei turni, ma in un sistema dove mancano all’appello forse un migliaio di infermieri.

Ma nei disastri sappiamo bene che c’è sempre chi ci guadagna e in questo caso è la sanità privata. La riforma infatti introduce le “Unità di offerta sociosanitarie” defi nen-dole “componenti essenziali delle rete regionale… promuo-vendone lo sviluppo e l’innova-zione continua…”. Peccato che le unità di offerta sociosanitaria sono sia i poli pubblici che i poli privati. Dopo vent’anni di duro lavoro regionale, siamo quindi giunti alla parifi cazione tra sanità pubblica e sanità privata, con la piccola diffe-renza che nel pubblico non si investe mentre nel privato sì!

di Mario IAVAZZI

(Direttivo nazionale Cgil)

C’era una volta il Servizio sanitario nazio-nale italiano che per capacità e qualità

di assistenza era considerato dall’Oms il secondo sistema sanitario al mondo. Lo stanno distruggendo sistematicamente.

Sono, infatti, previsti altri 13 miliardi di riduzione della spesa pubblica verso la sanità previsti per i prossimi anni che si sommano alle politiche di blocco delle assunzioni, di tagli dei posti letto e di strut-ture ospedaliere.

Gli assi su cui si concentreranno i pros-simi tagli saranno: un’ulteriore riduzione del 5% di acquisto di beni e servizi, la riduzione di strutture semplici e complesse (meno dirigenti in linea teorica), la ridu-zione della spesa farmaceutica e, in parti-colare, la riduzione di servizi e prestazioni. Sarebbero 208, infatti, le prestazioni sanita-rie su cui il governo pretende di valutare la loro “a ppropriatezza”.

Il decreto legge del governo Renzi prevede infatti un drastico calo del numero di esami e visite specialistiche e per realiz-zarlo prevede sanzioni per i medici che, a giudizio del governo, dovessero esagerare con le richieste o i cui esami, tac, risonanze

magnetiche dovessero dare esito negativo e che non avessero portato a individuare una patologia. Poco importa se gli esami diagnostici servono a confermare o esclu-dere ipotesi, non conta se importanti esami con tecniche più avanzate consentano di evitare errori clinici, ciò che interessa è risparmiare sulla pelle della gente.

Qui non si tratta nemmeno più di preven-

zione (che in un paese civile dovrebbe essere uno dei cardini del sistema sanita-rio ma che nel capitalismo è un lusso per pochi), ciò che viene messo in discussione è anche il concetto di diagnosi precoce, che in tantissimi casi consente di salvare la vita delle persone. Solo i ricchi o chi ha la possibilità di indebitarsi, insomma coloro che in qualche modo possono accedere alle strutture private, hanno il privilegio di curarsi.

Esageriamo? Secondo una recente ricerca di Altroconsumo il 13% delle fami-glie si indebita per curarsi già oggi, mentre il 46% rinuncia ad alcune cure sanitarie perché non ha soldi a suffi cienza. La parte più consistente di essi, per esempio, non può permettersi di accedere a cure odon-toiatriche, in cui il ruolo del pubblico è sempre stato praticamente inesisistente. L’Italia resta uno dei paesi che spende meno, tra i “paesi avanzati”, nel sistema sanitario e questi tagli approfondiranno ulteriormente il divario.

È davvero incredibile che gli unici che abbiano dichiarato l’intenzione di indire iniziative signifi cative siano stati i medici e alcune loro associazioni. La Cgil che aspetta? Troppe volte ci sentiamo proporre analisi, forzate e pretestuose, sulla diffi -coltà di lanciare mobilitazioni vere ed inci-sive dei dipendenti pubblici e dei lavoratori della sanità perché “la gente non capirebbe”. Troppo spesso si sente dire che prima biso-gna costruire alleanze, e adesso che ce ne sarebbero chiaramente le condizioni?

Non ci sono ragioni per non organiz-zare una lotta determinata fi no al ritiro del decreto, tutti i lavoratori e i cittadini frui-scono della sanità pubblica, sono colpiti dal taglio delle prestazioni e potrebbero essere coinvolti nelle mobilitazioni. Siamo certi che il confl itto irromperà sulla scena a prescin-dere dal freno a mano tirato dai dirigenti.

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sani

Sanità lombardaUna riforma spazzatura

Renzi: “Vietato ammalarsi!”

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di Sempre in lotta TRENTO

Gli studenti del Centro di formazione professionale “Pertini’’ due settimane fa si sono mobilitati per avere maggiore sicurezza all’interno della propria scuola: a seguito dei numerosi furti del materiale scolastico, i ragazzi sono stati costretti a � nanziarne il riacquisto di tasca propria.È inaccettabile: i mezzi per studiare dovrebbero essere gratuiti e per tutti. Negare questo signi� ca negare anche il diritto all’istruzione che rimane un lusso solo per chi se lo può permettere. La manifestazione ha dimo-strato che i ragazzi del Pertini non ci stanno: questo deve essere solo l’inizio. A Trento come in tutta Italia occorre rilan-ciare la lotta contro il governo che smantella il diritto allo studio e ci toglie il futuro.

il documento della

conferenza nazionale

di Sempre in lotta

n° 9 • 15 ottobre 2015

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polit

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italia

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in lo

tta

di Federica CARASI

Dopo quasi quaranta anni dalla promul-gazione della legge 194 e dalla

nascita dei consultori pubblici, pare di essere tornati indietro di almeno mezzo secolo, quando il diritto di aborto era solo per poche e i tassi di mortalità tra chi non poteva permetterselo troppo elevati.

All’alba del 2016, i consultori pubblici in Italia sono meno della metà di quello che dovrebbero essere. In alcune regioni nemmeno esistono: sono sostituiti da consultori famigliari privati e cattolici o da centri per la vita. Per fare qualche esem-pio, in Lombardia mancano 314 consul-tori pubblici rispetto a quanto previsto per legge, in Veneto 149, in Campania 113, nel Lazio 107 (fonte L’Espresso).

Dove ci sono, la possibilità di incappare

in un ginecologo obiettore di coscienza sono elevatissime: mediamente, in un consultorio, un medico su quattro è obiet-tore (dati lombardi non pervenuti), ma in alcuni casi sono addirittura due su tre! Negli ospedali pubblici la musica non cambia. È solo di un anno fa la notizia di ginecologi non obiettori “in prestito” tra un ospedale e l’altro.

Il vero problema di questa situazione è che molte donne, soprattutto giovani o immigrate, se costrette trovano altre vie per praticare quello che dovrebbe essere un diritto.

Ormai su internet si trova di tutto, anche kit per aborti “fai da te”. Alcuni siti sono delle vere e proprie farmacie e-shop, dalle quali si possono acquistare pillole non abortive, ma che tra gli effetti collaterali, se assunte in dosi massicce, possono provo-care il distaccamento dell’embrione dalla

placenta e quindi la sua espulsione. Questi farmaci vengono recapitati a casa da un corriere, come se avessimo acquistato un qualsiasi oggetto da Amazon. Paghi (circa un centinaio di euro), assumi, abortisci. Veloce, comodo e anonimo.

E anche estremamente pericoloso. Praticamente tutte le donne che assumono questi farmaci senza assistenza, fi ni-scono al pronto soccorso ripetutamente e sempre con forti emorragie in corso o con gli organi interni collassati a tal punto di rischiare la vita.

Sembrava lontana l’epoca delle “mam-mane” che praticavano l’aborto alle don-ne che non potevano permettersi di anda-re dal medico a farlo. Evidentemente non è così, anzi. La versione tecnologica sembra perfi no più semplice e meno dolorosa.

La 194 è un diritto e va difesa.

Aborto 2.0 Ora e sempre in difesa della 194!

di Emilio DI LORENZO

Oramai parlare di diritto allo studio sembra fanta-

scienza. I presidi si sono perfettamente calati nel loro ruolo di “manager-sceriffo” della scuola. Non sono una novità le notizie che ci parlano di atti intimidatori o restrizioni dell’of-ferta didat-tica verso gli studenti che non pagano il contributo s c o l a s t i c o facoltativo.La preside di un istituto alberghiero di Napoli ha deciso però di alzare la posta: da quest’anno agli studenti che non hanno pagato il contributo è vietato l’accesso alla scuola. Secondo le dichiarazioni della preside, il ministero non forni-sce i fondi adeguati al mante-nimento dei sei laboratori di cucina di cui è dotato l’istituto. Alle famiglie degli studenti è stato quindi richiesto un contri-buto di 180 euro per permet-tere alla scuola di sopravvi-vere. Coloro che giustamente non hanno pagato, si sono

ritrovati i cancelli della scuola sbarrati: gli studenti mino-renni possono entrare solo se accompagnati dai genitori, invece i maggiorenni si sono beccati un sonoro “per me possono andare a lavorare” da parte della preside.Ci troviamo di fronte a una

vera e propria sele-zione di classe: il

governo taglia i fondi destinati all’istruzione e il preside decide chi deve godere del diritto allo

studio e chi no, ovvero chi

non paga. Tutto ciò è inaccettabile:

alle tante spese che le famiglie degli studenti devono sostenere (acquisto di libri, trasporti) si aggiunge il ricatto del contributo. I fondi per il manteni-mento delle scuole vanno trovati attraverso una � sca-lità progressiva, tagliando i fondi alle scuole private e tagliando le spese militari. Organizziamoci e lottiamo per un reale diritto allo studio, che deve essere a tutti i livelli gratuito e di qualità.

Napoli Il diritto allo studio si paga caro

Trento Furti a scuola, pagano gli studenti

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RRRRRIVVVOLUZIIOOONNE

di Alessio MAGANUCO

Il 9 ottobre si è svolta la seconda mobilitazione nazio-

nale degli studenti.Una mobilitazione che ha

visto un centinaio di città coin-volte con migliaia di ragazzi manifestare ovunque contro la “Buona scuola”.

Quella “Buona scuola” che già a maggio aveva coinvolto decine di migliaia di docenti in un grande movimento di oppo-sizione. Ed effettivamente a dirla tutta, la riforma si poteva e doveva fermare già allora, ma le direzioni sindacali non hanno voluto sferrare il colpo di grazia al governo convocando il blocco ad oltranza degli scrutini. Così, approfi ttando della smobilita-zione estiva, la riforma è passata.

Ciò ha infl uenzato il clima tra gli studenti, non è la stessa cosa lottare a riforma già approvata per limitarne i danni. Il movimento studentesco non è un rubinetto che qualche “leaderino” possa aprire e chiudere a piacimento.

Sul clima e sulla partecipa-zione, la quale poteva essere notevolmente più ampia, senza dubbio hanno infl uito anche gli errori politici e programmatici delle direzioni studentesche che a loro volta stanno portando ad una disorganizzazione generale del movimento studentesco.

Non è possibile che tutti gli anni la data di mobilitazione venga spaccata in due, con alcune organizzazioni che hanno aderito alla mobilitazione del 2 ottobre e altre a quella del 9.

Come non è possibile che si trasformi la data di apertura

delle mobilitazioni in qualcosa di routinario, in qualcosa che tutti gli anni non ha una prospet-tiva di lotta sul lungo periodo.

Tale routine si poteva rompere usando la mobilitazione per fare pressioni sulle organizzazioni sindacali affi nché convocassero uno sciopero generale, affi nché il 9 fosse solo una tappa di un percorso mobilitativo lungo e da articolare scuola per scuola. Le principali organizzazioni studen-tesche promotrici della data non hanno voluto farlo invece, usando come pretesto che “dobbiamo rispettare il dibattito interno a quelle organizzazioni e la sua maturazione, e dunque non avanzare tale istanza in forma puntuale e in termini pubblici”.

Sono questi errori che sul lungo periodo stanno portando alla disorganizzazione del movi-mento studentesco: intere città stanno vedendo cancellati i collet-tivi d’istituto, principale forma di aggregazione politica dentro le scuole. Senza i collettivi d’isti-tuto di fatto si cancella la forma di organizzazione base, quella capillare, che serve ad organiz-zare gli studenti e a discutere di politica dentro le scuole.

Quest’anno poi, in alcune scuole, si è arrivati al paradosso che i collettivi presenti, svuo-tati della discussione politica, sono diventati collettivi cultu-rali giocando un ruolo di freno nella mobilitazione, ad esempio convocando assemblee d’istituto il giorno del corteo.

In altre città sono nate forme di organizzazioni (coordinamenti tra rappresentanti d’istituto) tra le scuole che più che organizzare

la mobilitazione hanno svolto in più occasioni operazioni di sabotaggio della mobilitazione in quanto sentitesi scavalcate da nascenti collettivi cittadini. Il caso più eclatante è quello di Messina dove al corteo convo-cato da Sempre in lotta i rappre-sentanti hanno reagito con un contro corteo per lunedì 12 con la motivazione “non si scende con i comunisti”; purtroppo per loro con Sempre in lotta venerdì 9 sono scesi a Messina centinaia di studenti.

Una cosa però ci deve far pensare: con le diffi coltà del movimento studentesco le orga-nizzazioni tradizionali indietreg-giano (anche se ancora egemo-nizzano il movimento), le orga-nizzazioni più radicali invece con parole d’ordine di sinistra crescono.

Non a caso i cortei e gli spez-zoni studenteschi più riusciti erano quelli che lanciavano slogan radicali, che riescono ad intercet-tare un malcontento sempre più crescente nel settore giovanile.

Non riusciremmo se no a spie-gare come mai i cortei e gli spez-zoni lanciati dai nostri compa-gni in città come Agrigento, Messina, Bologna, Milano,

Grosseto hanno avuto un enorme successo. Non sapremmo come spiegarci se alla parola d’ordine “Rialziamo la testa, riprendia-moci tutto” un gran numero di studenti si è avvicinato a Sempre in lotta lasciandoci contatti per essere contattati successiva-mente. Non sapremmo come spiegarci se al boicottaggio di alcuni rappresentanti d’istituto gli studenti hanno reagito scen-dendo in piazza con noi e racco-gliendo fondi per organizzare la manifestazione.

Ora quanto di positivo c’è stato nei cortei del 9 ottobre, ossia la rabbia di migliaia di studenti, va organizzata scuola per scuola. Sempre in lotta vuole riorganizzare un movimento studentesco che in questi anni gli errori delle organizzazioni egemoni hanno di fatto strango-lato. Per fare ciò, impegneremo tutti i nostri compagni presenti nelle scuole per costruire i collettivi studenteschi, per rior-ganizzare la lotta nelle scuole, per preparare una nuova ondata mobilitativa di portata superiore.

Prepariamoci alla lotta, riorganizziamo il movimento studentesco! Rialziamo la testa, riprendiamoci tutto!

• 10,00 euro per 10 numeri• 20,00 euro per 20 numeri più una copia omaggio della rivista FalceMartello• 30,00 euro per 20 numeri più 3 copie della rivista FalceMartello• 50,00 euro abbonamento sostenitore

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RIALZIAMO LA TESTA!