I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami ... MIGRATORI... · nella rivoluzione...

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…I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.

- Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che

poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro?

E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il

poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.

(Italo Calvino, Le città invisibili)

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Indice

Introduzione

CAPITOLO 1

Alcuni dati generali

(di Rossella Bortolotto)

1.1. Premessa 1.2. Il Rapporto Immigrazione 2016 di Caritas e Migrantes 1.3. La presenza straniera. Il quadro sociodemografico dei residenti 1.4. I nuovi italiani. Le acquisizioni di cittadinanza 1.5. La formazione delle nuove famiglie dell’immigrazione. I matrimoni 1.6. La scuola multietnica e l’università 1.7. L’investimento in istruzione e formazione e l’overeducation 1.8. Gli immigrati nel mercato del lavoro italiano 1.9. I NEET: quando il lavoro non c’è. E forse non ci sarà mai

CAPITOLO 2

Uno sguardo Internazionale - “Migrants’ Inclusion in Cities: Innovative

Urban Policies and Practices”: un progetto di UNESCO e ONU-Habitat

(di Gabriele Nicoli)

2.1. Il progetto “Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices” di UNESCO e ONU-Habitat: obiettivi e risultati

2.2. Migrazioni, globalizzazione e città 2.3. Dall’integrazione all’inclusione delle persone con storia di migrazione

nelle città: le politiche 2.4. Conclusioni

CAPITOLO 3

Uno sguardo Nazionale - L’apprendimento della lingua italiana come

L2 nella Scuola: dagli approcci alle pratiche inclusive

(di Ester Pasquato)

3.1. Premessa 3.2. Il mondo delle idee: tra normativa nazionale… 3.3. …e approcci didattici 3.4. Il mondo dell’azione: strumenti operativi e tecniche didattiche 3.5. Conclusioni Conclusioni generali

Bibliografia

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Introduzione

Il tema dell’immigrazione è divenuto, negli ultimi anni, il nodo cruciale su cui

si confrontano governi e cittadini.

Parole come profugo, centro di accoglienza, muri, controlli alle frontiere,

politiche migratorie, seconde generazioni sono divenute ormai di uso

comune.

La scelta di questo tema, da parte nostra, è nata proprio dal desiderio di

approfondire, di andare oltre, di superare quel “pregiudizio” - ben espresso

nell’incontro con il prof. Voci - che non consente di affrontare i problemi con

la dovuta razionalità.

Il nostro percorso si svilupperà partendo dall’analisi di alcuni dati generali,

legati ai processi migratori, allo scopo di inquadrare maggiormente il

fenomeno.

Ci soffermeremo poi su uno specifico progetto curato da ONU-HABITAT e

UNESCO riguardante il seguente tema: “L’inclusione dei migranti nelle città:

politiche urbane e pratiche innovative”.

Successivamente, partendo da uno sguardo più generale sulla Scuola

come luogo d’incontro tra culture diverse, approfondiremo il tema

dell’apprendimento della lingua italiana come seconda lingua, accostando

differenti approcci e teorie.

I diversi temi trattati testimonieranno quanto sia necessario un “salto di

qualità”, un cambio di mentalità, percorso irrinunciabile – per richiamarci al

titolo del nostro lavoro – che deve spingerci dall’integrazione all’inclusione.

Riprendendo le parole della Coordinatrice del Corso, professoressa Nota:

“L’inclusione senza se e senza ma che ci sta a cuore e che desideriamo

costruire deve trovare il coraggio di liberarsi dalle trappole del passato, dalle

barriere che rendono incerta la sua costruzione con modalità che si

associano a conseguenze negative di pensare e trattare le persone…

L’inclusione non si raggiunge una volta per tutte, rappresenta probabilmente

una meta, un valore, una stella polare verso la quale orientare slanci,

riformulazioni, energie e propositi”.

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La nostra società sta cambiando e cambierà ancora, ma non tornerà quella

che era una volta. I cambiamenti possono essere causa di logoramento e

minare la coesione sociale ma, al contrario, se governati e affrontati

attraverso politiche interculturali basate sul riconoscimento dell’altro, sul

confronto e la tolleranza, sul dialogo e sulla reciprocità, possono divenire

fonte di ricchezza e di progresso.

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CAPITOLO 1

Alcuni dati generali

(di Rossella Bortolotto)

1.1. Premessa

Quando parliamo di immigrazione dobbiamo innanzitutto cercare di

inquadrare il fenomeno partendo dall’analisi di alcuni dati, non solo

numerici.

Anche in passato sono avvenuti grandi trasferimenti di popoli; tuttavia gli

spostamenti erano perlopiù legati a situazioni contingenti. Per restare nella

nostra realtà veneta, ad esempio, molti abitanti delle montagne si

trasferivano temporaneamente in pianura nei periodi di raccolto; oppure

alcune popolazioni si spostavano a causa di disastri ambientali o climatici,

e così via.

Successivamente, con la rivoluzione industriale, le città hanno cominciato

ad attrarre sempre più manodopera e questo divenne causa di notevoli

spostamenti. In Italia, ad esempio, nei decenni successivi al secondo

dopoguerra, vi fu una forte migrazione interna. La maggior parte degli

osservatori concorda nell’associare tale fenomeno con lo sviluppo

industriale che contribuì in maniera determinante alla crescita di alcuni

centri urbani del Nord-Italia, soprattutto nell’area del cosiddetto “triangolo

industriale” (Genova-Milano-Torino). Alcuni settori, come quello dell’edilizia,

attrassero molti lavoratori provenienti dalle campagne del Sud. Le migliaia

di cantieri sorti alle periferie delle grandi città negli anni del cosiddetto “boom

economico” funzionarono proprio come centri di raccolta delle persone

immigrate, introducendole nel mercato del lavoro urbano.

La storia delle migrazioni in Italia da parte di persone provenienti da altri

paesi è iniziata più di quarant’anni fa. I primi arrivi in Puglia furono quelli di

persone provenienti dalla Tunisia e in particolare di donne provenienti dai

paesi cattolici (sudamericani o africani) che lavoravano come cameriere.

Per tutti gli anni ’80 arrivarono sia donne provenienti dal Sud-America, dalle

Filippine e in generale dai paesi cattolici e dal Corno d’Africa sia molti

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venditori ambulanti provenienti dal Senegal e dal Marocco. Le persone

migranti provenienti dalla Tunisia si stabilirono in Sicilia e trovarono

occupazione principalmente come pescatori, agricoltori e muratori; mentre

quelle provenienti dall’Africa sub-sahariana andarono a lavorare nei campi.

Ma si trattava, allora, ancora di piccoli numeri.

Nel corso degli anni Ottanta molte di queste persone iniziarono però a

spostarsi verso aree di lavoro più sicure e remunerative del Nord Italia e del

Centro (soprattutto Marche e Toscana). Negli anni Novanta, poi, il Nord Est

italiano – per ragioni legate al forte sviluppo economico dell’area - divenne

un notevole polo attrattivo, soprattutto in quei settori meno qualificati del

mercato del lavoro.

Con la crisi del 2007-2008 il fenomeno migratorio si intrecciò con il contesto

recessivo e di contrazione dell’occupazione. Se, come detto, a partire dagli

anni ‘80 le persone di nazionalità straniera iniziarono a concentrarsi

soprattutto nelle regioni del Centro-Nord, negli anni più recenti si assistette

ad una crescita più intensa nel Mezzogiorno proprio in conseguenza della

crisi economica che colpì molto duramente gli stessi lavoratori immigrati,

spostando pertanto l’occupazione da un settore come l’edilizia o

manifatturiero verso quello dell’agricoltura (ad esempio nella raccolta di

frutta e ortaggi).

Tuttavia confrontando i dati ISTAT al 1° gennaio 2016 si può notare che le

regioni del Centro-Nord hanno comunque mantenuto la percentuale più

elevata di presenza di lavoratori di nazionalità straniera.

Le ragioni della scelta dell'Italia da parte delle persone con storia di

migrazione sono molteplici:

1) la sua collocazione geografica nel Mediterraneo, che la rende

particolarmente esposta ai flussi provenienti dai paesi nordafricani,

da ciò anche le grandi responsabilità all'Italia connesse per il suo

ruolo di paese di confine dell'Unione Europea sia a sud che a est;

2) le caratteristiche dei suoi confini che ne rendono molto difficile una

completa e corretta supervisione, costituiti infatti per lo più da coste

facilmente raggiungibili e difficilmente controllabili, oltre alla presunta

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minore rigidità rispetto ad altri paesi europei che all'Italia viene

imputata dagli stessi migranti (Francia ed Inghilterra vengono

considerate più inflessibili);

3) il fatto che l’Italia vede ancora, in alcune regioni, una forte presenza

della malavita organizzata che ha messo in moto una vera tratta di

manodopera e purtroppo anche di nuovi "schiavi".

Un attento studio di due autorevoli docenti dell’Ateneo di Padova (prof.

Stefano Allievi, docente di sociologia, specializzato nello studio dei

fenomeni migratori, in sociologia delle religioni e in studi sul mutamento

culturale e politico in Europa, e il prof. Gianpiero Dalla Zuanna, professore

ordinario di Demografia presso il Dipartimento di Scienze statistiche),

afferma che le migrazioni moderne si presentano molto diverse da quelle

delle società agricole del passato “poiché la loro causa profonda risiede in

qualcosa che non si era mai verificato prima nella storia dell’umanità, ossia

nella rivoluzione demografica, o – più precisamente – nei tempi sfasati con

cui la rivoluzione demografica, a partire dal XIX secolo, si è manifestata e

si sta manifestando nelle regioni e nei paesi del mondo”1. Secondo questo

studio il problema demografico diviene uno degli elementi che più si collega

al fenomeno migratorio. Il declino delle nascite – che nel giro di pochi anni

si è tradotto in drastico calo del numero dei giovani e in un forte

invecchiamento della popolazione – si è verificato quasi ovunque nelle

società occidentali industrializzate. E se da un lato in queste società esiste

un certo grado di benessere e di persone benestanti, dall’altro non si può

non rilevare che il numero di anziani è in continua crescita e dunque anche

il loro bisogno di essere accuditi. Esse diventano pertanto fortemente

attrattive per quanti vivono in paesi demograficamente giovanissimi del Sud

del Mondo (pensiamo che secondo stime delle Nazioni Unite all’inizio del

2015 nell’Africa Sub-sahariana vivevamo 962 milioni di persone di cui il 63%

di loro aveva meno di vent’anni), ma poverissimi sul piano economico e

sociale.

1 S. ALLIEVI, G. DALLA ZUANNA, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, Roma - Bari, Editori Laterza, 2016, p.11.

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Va aggiunto che molti di questi paesi sono afflitti da guerre, ma anche da

catastrofi climatiche o ambientali o dalla desertificazione ed i loro abitanti

spesso subiscono persecuzioni razziali ed etniche, politiche, religiose, ecc.

Queste sono situazioni di estrema gravità che spingono le persone a

scappare – spesso i più giovani, i più forti fisicamente, i più disposti a

rischiare o i più istruiti della media dei propri concittadini, come ci dice il prof.

Rocco, docente di Economia politica dell’Ateneo di Padova – nella

speranza di trovare rifugio, libertà, o più semplicemente una vita migliore

per sé e per la propria famiglia.

Certo, esiste una definizione specifica di “rifugiato” definita dalla

Convenzione di Ginevra del 19512, ma è evidente che le motivazioni che

spingono a scappare spesso sono indistinguibili da quelle di un “semplice”

migrante economico.

Oggi il problema dei “refugees” rappresenta solo una parte di quello più

ampio che riguarda le migliaia di persone che quasi quotidianamente

cercano di approdare sulle nostre coste e in quelle di altri paesi europei che

si affacciano sul Mediterraneo o che tentano di attraversare i confini di altri

Paesi come ad esempio quelli dell’Europa orientale.

Parlando in particolare dei “refugees”, occorrerebbe non solo suddividerli

correttamente sul territorio (cosa alla quale, come abbiamo visto dalle

cronache, alcune regioni soprattutto del Nord hanno fatto strenua

opposizione), ma migliorare complessivamente il meccanismo di gestione.

Più in generale, tuttavia, la questione “immigrazione” non può più essere

considerata una questione emergenziale e va affrontata con politiche

2 Trattato delle Nazioni Unite firmato 147 Paesi. Nell’articolo 1 della Convenzione si legge che è considerato rifugiato “chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, per la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”. La Costituzione italiana precede la Convenzione, ma prevede lo stesso principio: L’articolo 10, terzo comma, recita infatti: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Il comma successivo aggiunge poi un principio di grande importanza: “Non è ammesse l’estradizione dello straniero per reati politici”.

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adeguate, con pragmatismo, pianificando l’ingresso delle persone come

rifugiati e migranti in Europa in maniera sicura e legale.

Alcune cose vanno fatte a livello europeo a partire dal cambiamento della

normativa disciplinata dagli accordi di Dublino3, consentendo perciò la

mobilità e la ricollocazione dei profughi sulla base di un’equa distribuzione

tra paesi. Altre cose vanno fatte a livello nazionale e locale: ad esempio

accelerando gli iter burocratici per il riconoscimento dello status di rifugiato,

oppure creando una struttura di accompagnamento degli enti locali che

preveda meccanismi di incentivazione, di compensazione per quei Comuni

che si rendono disponibili a politiche di accoglienza e inclusione sociale.

“Ma è soprattutto necessario coinvolgere anche la pubblica opinione con

campagne di informazione dei cittadini, momenti di incontro pubblici

sapendo raccontare gli esempi positivi e le storie di successo e di

integrazione, gli esempi riusciti di dialogo con la popolazione, le scuole, il

dialogo interculturale e interreligioso perché non si può pensare di creare

consenso intorno a operazioni oggettivamente problematiche senza

3 Il 15 giugno 1990 i 12 Stati membro della Comunità europea (Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito) firmarono la Convenzione di Dublino, con l'obiettivo di armonizzare le politiche in materia di asilo, per garantire ai rifugiati un'adeguata protezione, nel rispetto della Convenzione di Ginevra (1951) e del protocollo di New York (1967). La Convenzione è stata poi sostituita dal Trattato di Dublino II, sottoscritto dagli Stati dell'Ue nel 2003, poi modificato nel 2013 e rinominato Dublino III. Il Trattato stabilisce che cittadini extracomunitari che fuggono da Paesi di origine perché in guerra o perseguitati per motivi di natura politica o religiosa possono fare richiesta di asilo solo nel primo Paese membro dell'Ue in cui arrivano, come prevedeva la Convenzione del 1990. Non si possono fare più domande contemporaneamente. La norma è stata stabilita per gestire i flussi dei migranti evitando così il proliferare delle richieste di protezione internazionale. Qual è il limite del Trattato di Dublino? Negli ultimi anni i flussi migratori hanno raggiunto livelli inaspettati e non prevedibili negli anni 90. La regola sulla quale si è aperto il confronto - e che molti considerano anacronistica - è quella dell'obbligo di registrarsi nel Paese di arrivo, dove il profugo è costretto a chiedere lo status di rifugiato, senza poter proseguire per un altro Paese membro, anche se lo desidera. Questa regola ha finito per congestionare i centri di identificazione dei Paesi più facili da raggiungere via mare o via terra, come l'Italia e l'Ungheria, e per creare una situazione paradossale che vede da una parte profughi che vorrebbero raggiungere altri Paesi, come la Germania, il Regno Unito o la Svezia, ma non possono; dall'altra, Paesi che non riescono ad accogliere e gestire i migranti in arrivo ma sono costretti a trattenerli, registrarli e ospitarli.

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spendere né un centesimo né alcuna strategia e professionalità

comunicativa”4.

Prima di esaminare più in dettaglio alcuni dati relativi al numero delle

persone di nazionalità straniera residenti nell’Unione Europea e in Italia, il

quadro sociodemografico dei residenti e altri aspetti sociali ed economici

sull’immigrazione, vorremmo soffermarci brevemente sulla situazione della

Scuola italiana in rapporto alla presenza di minori stranieri, tema che verrà

approfondito successivamente nel capitolo riguardante l’apprendimento

della lingua italiana come seconda lingua.

L’intenso e significativo fenomeno dell’immigrazione che, come abbiamo

visto, negli ultimi decenni, ma soprattutto negli ultimi anni, ha modificato

l’andamento e la composizione demografica del nostro Paese, ha avuto una

notevole ripercussione all’interno delle Scuole italiane. L’Italia sta

diventando a tutti gli effetti un Paese multietnico e ciò trova riscontro

principalmente nella composizione delle nostre scuole e classi, fondamenta

della società e della cultura. Principalmente negli asili e nelle scuole

elementari, ma anche nelle scuole medie e superiori è ormai la normalità

vedere ragazzini/e italiani a fianco di compagni/e provenienti da paesi

africani, arabi, slavi o orientali. Questo fenomeno va considerato come la

normalità, la conseguenza naturale all’evoluzione di una società inserita in

un mondo globalizzato. Molto spesso la cronaca italiana ci ha informati

riguardo a casi di razzismo e discriminazione nelle scuole italiane; ciascuno

di noi ricorda le polemiche riguardanti i crocifissi nelle aule o i problemi legati

alle ragazzine che indossano il velo a scuola. Ma la Scuola che fa la

differenza è quella che produce comunità, che insegna a costruire comunità

educante; la scuola che fa la differenza è quella in grado di aprirsi al

territorio, proponendo formazione e spazi di socialità e aggregazione.

Perché accogliere, produrre inclusione, fare convivere differenze, lavorare

nelle contraddizioni e nei conflitti è molto più faticoso che respingere e

allontanare.

4S. ALLIEVI, G. DALLA ZUANNA, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, Roma - Bari, Editori Laterza, 2016, p.53.

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La rete Eurydice5 ha iniziato recentemente a lavorare a uno studio

interamente dedicato all’integrazione degli alunni con storia di migrazione

nelle scuole in Europa (sarà pubblicato entro l’autunno del 2018). In vista di

ciò, l’argomento è stato anticipatamente affrontato in occasione

dell’appuntamento annuale che riunisce i capi delle 43 unità nazionali

facenti parte della rete Eurydice. L’Italia è stata tra i cinque paesi, insieme

a Germania, Grecia, Svezia e Ungheria, a cui è stato chiesto di presentare

le politiche educative per definire meglio l’ambito di studio del rapporto e

avviare un confronto di idee costruttivo.

Negli ultimi 10 anni nel nostro paese si è verificato un aumento del numero

totale degli alunni provenienti da paesi stranieri con cittadinanza non

italiana: nel 2005/2006 il loro numero superava appena le 400.000 unità;

nel 2014/2015 risultava quasi raddoppiato, raggiungendo circa le 830.000

unità. Questo dato ha interessato il sistema educativo che ha recentemente

avviato una serie di iniziative di supporto alle scuole per riaffermare il diritto

universale all’istruzione, e l’Italia ha optato fin dall’inizio per la piena

integrazione degli alunni con storia di migrazione a scuola e per

l’educazione interculturale come dimensione trasversale e come

background comune a tutte le materie e a tutti gli insegnanti. L’iscrizione a

scuola è permessa anche durante l’anno scolastico e l’integrazione ha inizio

5 Eurydice è la rete europea di informazione sull'istruzione. È formata da una unità europea che coordina la rete e da una serie di unità nazionali. Lo scopo della rete Eurydice è di fornire ai decisori politici degli stati membri dell'Unione europea informazioni aggiornate e affidabili sulle quali basare le decisioni politiche nel settore dell'istruzione. Inizialmente, l'attività di scambio di informazioni della rete avveniva soprattutto tramite un servizio di risposte a quesiti posti dai paesi che ne facevano parte. Tuttavia, negli anni successivi, gli ambiti di interesse sono diventati sempre più numerosi e la cooperazione fra i paesi sempre più intensa e la rete ha ampliato la sua sfera operativa rispondendo, attraverso studi e rapporti tematici, a un numero sempre crescente di richieste sulle questioni relative alla politica educativa. Successivamente, sotto la spinta di una sempre più sentita dimensione europea dell'istruzione che rende necessario il supporto di validi indicatori per il confronto, la rete inizia a pubblicare studi comparativi. Questo nuovo impegno è accolto ufficialmente dal consiglio dei Ministri dell'educazione che nel 1990 incarica ufficialmente la rete Eurydice di produrre anche analisi di questo tipo. L'attività della rete passa quindi gradualmente dalla produzione di semplice informazione documentaria all'elaborazione di analisi comparative curate dall'Unità europea in stretta collaborazione con le Unità nazionali.

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con l’acquisizione della capacità di comprendere e di comunicare e con una

buona conoscenza dell’Italiano come L2.

Partendo dalle indicazioni europee rivolte al mondo educativo, contenute

nel piano di azione sull’integrazione dei cittadini provenienti da paesi

stranieri (un documento politico pubblicato nel 2016), e dalle pratiche

presentate dai 5 paesi interpellati, la rete Eurydice chiederà a tutti i paesi di

fornire dati e informazioni sulle politiche nazionali a supporto di

alunni/alunne appena arrivati e dei giovani provenienti da contesti migratori.

Tra gli argomenti specifici: il sostegno linguistico e il supporto alle scuole

per il raggiungimento di buoni risultati, la valutazione dell’apprendimento

pregresso, le classi transitorie, la creazione di collegamenti fra i genitori e

le scuole. Saranno infine oggetto di studio i provvedimenti di ordine

generale volti a promuovere l’istruzione inclusiva e l’educazione

interculturale, e darà spazio alle azioni tese a rafforzare le competenze degli

insegnanti e dei capi di istituto su tutti questi ambiti, ma anche iniziative volte

ad aumentare la rappresentanza delle persone con storia di migrazione fra

i professionisti del mondo educativo.

L’integrazione delle famiglie con storia di migrazione nel contesto sociale

può avvenire in svariate forme e sicuramente la scuola riveste un ruolo di

prim’ordine per le famiglie immigrate con figli. Il bambino/la bambina che

proviene da una famiglia con storia di migrazione può diventare infatti il

primo “mediatore culturale” della sua famiglia, specialmente nei primi anni

di immigrazione; spesso impara la lingua meglio e più rapidamente rispetto

ai genitori e l’interazione quotidiana con i coetanei è importantissima nel far

apprendere al bambino/la bambina la cultura indigena e a comunicarla ai

genitori.

La scuola è per eccellenza il luogo della socializzazione dei bambini, ma

richiede anche ai genitori un certo grado di partecipazione, anche solo per

recarsi ai colloqui periodici con gli insegnanti, fino ad arrivare alla

partecipazione nei consigli di classe o di istituto. Inoltre, l’apprendimento del

bambino/bambina può, di riflesso, essere una sorta di apprendimento da

parte di tutta la famiglia. Ecco quindi che integrare positivamente i bambini

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può significare integrare positivamente la famiglia intera. La scuola pertanto

è un posto privilegiato per osservare le complesse dinamiche di una famiglia

immigrata verso l’integrazione piena: gli insegnanti delle scuole di ogni

ordine e grado sono impegnati in prima linea tutti i giorni in questa battaglia

e sono in grado di valutare le diverse situazioni familiari e di come queste

influiscono sullo sviluppo del bambino.

Una scuola inclusiva deve sempre “promuovere il diritto di essere

considerato uguale agli altri e diverso insieme agli altri”.

Le Linee Guida per le Politiche di Integrazione nell’Istruzione (2009)

dell’UNESCO6 suggeriscono che: “La scuola inclusiva è un processo di

fortificazione delle capacità del sistema di istruzione di raggiungere tutti gli

studenti. [...] Un sistema scolastico “incluso” può essere creato solamente

se le scuole comuni diventano più inclusive. In altre parole, se diventano

migliori nell’ “educazione di tutti i bambini della loro comunità”.

E dunque, quali dovrebbero essere gli obiettivi trasversali della scuola

inclusiva?

- Promuovere un positivo clima della classe: attenzione ai bisogni ed

interessi di ognuno, comprensione e accettazione dell’altro; promuovere

comportamenti non discriminatori, bensì il senso di appartenenza al gruppo;

valorizzare le differenze.

Importante il contesto spaziale fisico: aule accoglienti, strutturate, in cui tutti

i bambini/le bambine possono accedere alle risorse presenti, in uno sfondo

condiviso nel quale tutti si sentono ben accolti. La disposizione dei banchi

sarà flessibile a seconda della gestione del lavoro ma sempre in modo che

possa favorire lo scambio e la comunicazione dei bambini.

- Raccogliere informazioni utili, relative ad iniziative provinciali o nazionali a

favore dell’inclusione scolastica (corsi di formazione, seminari, concorsi,

ecc.) per condividere teorie e buone prassi.

- Poter fare proposte per l’acquisto di materiale, strutturato e non, per il

raggiungimento degli obiettivi del singolo alunno o delle classi.

6Linee Guida, Unesco 2009 - https://www.european-agency.org/sites/default/files/key-principles-for-promoting-quality-in-inclusive-education_key-principles-IT.pdf

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- Proporre e organizzare attività e progetti musicali, di teatro, di

psicomotricità o pet therapy che implicano l’uso di una più ampia gamma di

moduli espressivi, di linguaggi alternativi che possano essere strumento e

veicolo di una comunicazione più globale ed efficace per tutti.

- La scuola inclusiva prevede un’organizzazione flessibile, una

differenziazione della didattica, un ampliamento dell’offerta formativa

nonché un innalzamento della qualità di quest’ultima, creando anche reti tra

più scuole.

- Costruisce una rete di collaborazione e corresponsabilità tra scuola,

famiglia e territorio (enti locali ed associazioni).

È una scuola dove oltre all’apprendimento cooperativo esiste anche

l’insegnamento cooperativo.

Nella scuola inclusiva tutte le insegnanti collaborano e programmano in

maniera congiunta verso la stessa direzione; hanno a disposizione spazi e

momenti adeguati a condividere materiali, risorse ed esperienze.

Per ultimo, ma non ultimo, è il coinvolgimento delle famiglie. Il ruolo della

famiglia è fondamentale nel supportare il lavoro degli/delle insegnanti e nel

partecipare alle decisioni che riguardano l’organizzazione delle attività

educative. Inoltre, rappresenta un punto di riferimento essenziale per una

corretta inclusione scolastica dell’alunno/alunna sia perché fonte

d’informazioni preziose sia perché luogo in cui avviene la continuità tra

educazione genitoriale e scolastica.

I genitori devono sentirsi parte anche loro della scuola e partecipi della sua

vita, devono anche loro stessi “includere” attraverso l’educazione dei propri

figli, in collaborazione con gli/le insegnanti.

La necessità di gestire efficacemente la differenza culturale nella società

impone un forte investimento sull’educazione interculturale, come progetto

intenzionale di promozione del dialogo e del confronto culturale rivolto a

tutti, italiani e stranieri, per costruire le forme di una cittadinanza attiva,

consapevole e interculturale.

Oggi la scuola italiana è frequentata da circa 800 mila allievi stranieri,

provenienti da ben 196 differenti paesi del mondo (nella scuola italiana è

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rappresentato il mondo intero!) e vede la crescita di una seconda

generazione della migrazione (composta da giovani arrivati nel nostro

paese in età precoce o nati da genitori con storia di migrazione in Italia).

La scuola rappresenta oggi un laboratorio privilegiato per la costruzione di

una democrazia pluralista e socialmente coesa. Tale intento esige, però, un

forte investimento formativo nei confronti degli/delle insegnanti, affinché

acquisiscano nuove competenze pedagogiche, sulla base di principi di

apertura culturale, accoglienza e inclusione, per fare delle diversità culturali

un punto di vista privilegiato dei processi educativi.

L’inclusione concerne tutte le differenze culturali, sociali, linguistiche (ivi

incluse quelle derivanti da particolari condizioni sensoriali), razziali, di

genere, mentali e fisiche; richiede un’azione di sistema, una buona prassi

intesa come azione politica, che possa cambiare l’organizzazione del

contesto, legata al tema dell’equità delle opportunità e dell’esigibilità dei

diritti umani, in una prospettiva non omologante, ma di cittadinanza per tutte

le diversità umane. Oggi, in Italia, lo scenario dell’inclusione si presenta più

ampio e articolato perché deve affrontare nuove sfide di fronte alle quali

gli/le insegnanti hanno la necessità di affinare e di articolare la propria

formazione, sia iniziale che in servizio e di essere promotori/sostenitori di

una cultura dell’inclusione, fiduciosa della possibilità di “educabilità” e di

apprendimento di tutti, capaci di fronteggiare e accogliere una realtà

complessa, cui rispondere in modo pedagogicamente positivo e propositivo,

con competenze articolate e diffuse, da acquisire in percorsi di

specializzazione di alto livello formativo.

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1.2. Il Rapporto Immigrazione 2016 di Caritas e Migrantes

Prendendo spunto da un’analisi del Rapporto Immigrazione 2016 di Caritas

e Migrantes7, possiamo rilevare che nel 2015 sono circa 243 milioni le

persone che nel mondo vivono in un paese diverso da quello d’origine. Dal

1990 al 2015 il numero delle persone che hanno lasciato il proprio paese

d’origine è aumentato del 59,7%. Nel 2015, in totale, i migranti

rappresentano il 3,3% dell’intera popolazione mondiale.

Dopo la crisi del 2008 il numero delle persone straniere residenti nell’Unione

Europea ha continuato a crescere giungendo ad un totale di quasi 37

milioni, con un’incidenza sulla popolazione totale del 7,3%.

Soffermandoci sulla situazione italiana possiamo notare che al 1° gennaio

2016, con un aumento di sole 1.217 unità (+0,03%) rispetto alla stessa data

del 2015, sono stati concessi 3.931.133 permessi di soggiorno, di cui il

48,7% riguarda le donne.

Rispetto alla durata, il totale dei permessi si ripartisce tra 1.681.169 “con

scadenza” (40,5%) e 2.338.435 “di lungo periodo” (59,5%).

7 XXVI Rapporto Immigrazione 2016, Nuove generazioni a confronto, a cura di Caritas e Migrantes, 2016

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Per quanto riguarda i permessi di soggiorno a termine è possibile

distinguerli per motivo della richiesta. In questo caso, si conferma la

prevalenza dei motivi di lavoro (42,0%) e di famiglia (41,5%). Va sottolineato

che il terzo motivo per importanza è quello legato alla richiesta di asilo

(9,7%) che, rispetto agli anni precedenti, ha sopravanzato il motivo dello

studio.

1.3. La presenza straniera. Il quadro sociodemografico dei residenti

I dati diffusi dall’ISTAT sulla popolazione residente mostrano che al 1°

gennaio 2016 risiedevano in Italia 60.665.551 persone, di cui 5.026.153 di

cittadinanza straniera (8,3%). Le donne straniere sono 2.644.666 (52,6%).

La popolazione complessiva è diminuita rispetto all’anno precedente di

130.061 unità (-0,2%).

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A inizio 2016, il 58,6% degli stranieri vive nel Nord, mentre questa

percentuale scende al 25,4% nel Centro, con un ulteriore calo nel

Mezzogiorno (15,9%).

Entrando nel dettaglio regionale, in tre regioni del Nord ed una del Centro è

concentrata più della metà dell’intera popolazione straniera presente in

Italia (56,2%).

In particolare, si tratta della Lombardia (22,9%), del Lazio (12,8%),

dell’Emilia Romagna (10,6%) e del Veneto (9,9%).

Al 1° gennaio 2016, in Italia sono presenti 198 nazionalità, su un totale

mondiale di 232 (fonte ONU), e dei cittadini stranieri presenti in Italia, oltre

il 50% (oltre 2,6 milioni di individui) sono cittadini di un paese europeo. In

particolare, poco più del 30% degli stranieri residenti (1,5 milioni) sono

cittadini di un paese dell’Unione. La restante parte proviene dagli Stati

dell’Europa Centro-Orientale non appartenenti all’UE (1,1 milioni).

I gruppi, le cui quote sono più consistenti, sono i romeni (22,9%), gli albanesi

(9,3%) e i marocchini (8,7%): nel complesso, queste tre nazionalità

rappresentano il 40,9% del totale degli stranieri residenti.

19

1.4. I nuovi italiani. Le acquisizioni di cittadinanza

Al 31 dicembre 2015 su un totale di 178.035 acquisizioni di cittadinanza di

stranieri residenti, 158.891 riguardano non comunitari residenti e 19.144

comunitari, con un aumento, rispetto alla stessa data del 2014, del 37,1%.

20

Coloro che acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori e

coloro che, nati nel nostro Paese al compimento del diciottesimo anno di

età, scelgono la cittadinanza italiana sono passati da circa 10 mila nel 2011

a oltre 66 mila nel 2015, con una crescita costante e molto sostenuta. A

questo proposito, si evidenzia un dato rilevante nel numero di

acquisizioni di cittadinanza da parte di diciottenni: sono il 10% dei residenti

della stessa età (la classe di età prevalente, 0-17 anni, fa registrare una

propensione del 5%), mentre le classi di età centrali, mature ed anziane, si

attestano su valori più modesti compresi tra il 3% e l’1% circa. Con

riferimento al genere, si osserva una prevalenza delle acquisizioni della

21

cittadinanza italiana da parte di donne nella classe di età 25-39 (quasi 56%).

In questo caso incide probabilmente un certo numero di acquisizioni per

matrimonio. Prevalgono leggermente gli uomini in tutte le altre classi di età,

fatta eccezione per le età più avanzate.

Tra coloro che acquisiscono la cittadinanza italiana i maschi sono uno su

due (52%).

Le modalità di accesso alla cittadinanza restano differenti tra uomini e

donne, anche se nell’ultimo anno si registra una tendenza alla convergenza.

Per gli uomini la modalità più frequente di accesso alla cittadinanza è la

residenza (56% dei casi nel 2015), mentre il matrimonio è una modalità

residuale (meno del 3%). Nel 2015, diversamente da quanto avveniva in

passato, anche per le donne le acquisizioni di cittadinanza per residenza

sono state le più numerose (42%), superando, seppur di poco, le

acquisizioni per trasmissione/elezione (41%). Si riduce ulteriormente,

anche per le donne, la quota di procedimenti avviati a seguito del

matrimonio: nel 2015 si attesta intorno al 16% dal 25% nel 2014. Si tratta di

un segnale importante: anche per le donne l’acquisizione di cittadinanza è

sempre più il frutto di un lungo percorso di integrazione; ciò conferma la

trasformazione del nostro Paese in terra di insediamento stabile anche per

le donne migranti.

1.5. La formazione delle nuove famiglie dell’immigrazione. I

matrimoni

A fine 2015, i matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza

straniera sono circa 24.018, pari al 14,1% delle nozze celebrate nel 2015.

In un generale calo, tra il 2014 e il 2015, dei matrimoni del 2,4%, e di uno

scarsamente significativo calo dei matrimoni con almeno un componente

straniero (-0,9%), colpiscono due altre tendenze di segno opposto. La prima

riguarda l’aumento dei matrimoni di uno sposo straniero con una sposa

italiana (+5,9%), la seconda è il calo dei matrimoni tra stranieri (-5,9%).

Quasi il 50% delle nozze celebrate con almeno uno straniero è distribuito

22

tra la Lombardia (17,4%), il Veneto (13,2%), l’Emilia-Romagna (9,6%) e il

Lazio (9,0%).

I matrimoni celebrati in Italia tra cittadini entrambi stranieri sono oltre 6.000

(il 3,3% dei matrimoni totali) e si riducono di molto quando si considerano

solo quelli in cui almeno uno dei due è residente (4.831 nozze in totale nel

2015). I matrimoni tra rumeni sono i più diffusi in valore assoluto (926

matrimoni nel 2015, pari al 19% del totale dei matrimoni tra sposi stranieri

residenti), seguiti da quelli tra nigeriani (355 nozze, il 7,3%) e tra ucraini

(313 matrimoni, il 6,5%). Nel 2015, i matrimoni misti (in cui uno sposo è

italiano e l’altro straniero) ammontano a 17.692. Il tipo prevalente è quello

in cui è la sposa ad essere straniera: 13.642 nozze (il 77,1% di tutti i

matrimoni misti). Gli uomini italiani che nel 2015 hanno sposato una

cittadina straniera hanno nel 20% dei casi una moglie rumena, nel 12%

un’ucraina e nel 6% una russa. Nel complesso, oltre una sposa straniera

su due è cittadina di un paese dell’Est Europa. Le donne italiane che hanno

sposato un cittadino straniero, invece, hanno scelto più spesso uomini

provenienti dal Marocco (13%), dall’Albania (11%) e dalla Romania (6%).

Complessivamente, in questo tipo di coppia, il 32% degli sposi è cittadino

di un paese dell’Est Europa, il 27% di un paese africano.

23

1.6. La scuola multietnica e l’università

Nell’anno scolastico 2015/2016, gli alunni con cittadinanza non italiana nelle

scuole italiane sono 814.851, il 9,2% del totale degli alunni. Rispetto al

2013/2014, vi è stato un aumento di 664 unità (+0,1%). Gli alunni con

cittadinanza non italiana nati in Italia sono il 58,7% del totale degli alunni

stranieri (erano il 34,7% nell’anno scolastico 2007/2008).

L’incidenza degli alunni stranieri sul totale della popolazione scolastica varia

in modo molto significativo a seconda delle ripartizioni territoriali italiane. Le

maggiori incidenze si riscontrano, nelle regioni del Nord con il valore

massimo in Emilia-Romagna (15,6%) significativamente più alto della media

nazionale (9,2%), seguita da Lombardia (14,5%) e Umbria (13,8%). L’unica

eccezione è costituita dalla Val d’Aosta che presenta un’incidenza inferiore

alla media italiana (7,6%). Nelle regioni del Centro-Nord, invece, il valore

non scende al di sotto del 10%, con la sola eccezione del Lazio (9,3%).

Decisamente inferiori i dati relativi alle regioni del Sud.

Nell’anno scolastico 2015/2016, confermando il dato dell’anno scolastico

precedente, la scuola primaria accoglie la maggiore quota di alunni stranieri:

24

297.285 che corrisponde al 36,5% del totale degli alunni con cittadinanza

italiana.

Secondo i dati forniti dall’Anagrafe nazionale degli studenti del MIUR,

nell’anno accademico 2014/15, su un totale di immatricolazioni pari a

270.173 studenti, risultano iscritti, nelle università italiane, 257.100 studenti

di nazionalità italiana (il 95,2%), 9.891 studenti non-UE (il 3,7%) e 3.165

studenti UE (l’1,2%). Si tratta quindi complessivamente di 13.156 studenti

di cittadinanza non italiana. Fra gli studenti non-UE, 5.063 (il 51%) hanno

conseguito la maturità in Italia, segnando quindi un sorpasso rispetto agli

studenti stranieri in possesso di un titolo di studio ottenuto all’estero. Come

per gli studenti italiani, anche per gli stranieri, la componente femminile nelle

25

immatricolazioni all’università supera quella maschile: fra i 5.640 studenti

stranieri UE e non-UE diplomati nel 2014, le femmine iscritte al primo anno

sono il 62%. Gli stranieri diplomati in Italia, sia UE sia non UE, provengono

soprattutto, come gli italiani, dai licei, tuttavia in percentuale minore (il

42,9% e il 34,2% rispetto al 73,8% degli italiani), proprio perché fra gli

stranieri è alta anche la percentuale di provenienza dalla maturità tecnica

(rispettivamente il 29,6% e il 32,7%) e professionale (rispettivamente il 6,4%

e il 13,4%, dove invece gli italiani registrano solo un 4%). Nella scelta della

facoltà, gli stranieri diplomati in Italia tendono a privilegiare soprattutto

economia, ingegneria, le aree linguistica e politico-sociale. Nell’anno

accademico 2015/16, su un totale di immatricolazioni pari a 271.000

studenti, gli immatricolati sono per il 5% di nazionalità non italiana e sono

soprattutto rumeni (14,7%), albanesi (12,6%), cinesi (9,2%).

Negli ultimi anni, varie università in Italia hanno sviluppato misure di

accoglienza e di sostegno per gli studenti stranieri, tuttavia sarebbe

opportuna una maggiore attenzione a quella parte di studenti stranieri che

hanno conseguito il diploma nel nostro Paese e sovente vi sono nati: per

loro, diventa importante sia un’azione di supporto alla scelta universitaria,

sia un monitoraggio degli sbocchi professionali.

1.7. L’investimento in istruzione e formazione e l’overeducation

Nell’a.s. 2014/15, l’81% degli studenti stranieri ha deciso di iscriversi al

primo anno della scuola secondaria di II grado, mentre l’8,7% ha scelto la

formazione professionale regionale. Per il rimanente 10% circa non si

dispone di informazioni. Anche nell’a.s. 2015/16, si conferma la

propensione degli alunni stranieri verso percorsi nella scuola secondaria di

II grado di tipo più direttamente professionalizzante (istituti tecnici e

professionali) e questo per vari motivi, non ultimo l’esito scolastico

conseguito nella scuola secondaria di I grado, che influenza direttamente le

scelte tanto degli italiani quanto degli stranieri. Tuttavia, fra gli alunni

stranieri che hanno ottenuto una votazione alta, si evidenzia una scelta più

frequente verso gli istituti tecnici o professionali rispetto ai compagni italiani,

anche se, contemporaneamente, si coglie un graduale spostamento delle

26

scelte verso i licei: se, nell’a.s. 2009/2010, il 21% degli alunni stranieri aveva

scelto il percorso liceale (rispetto al 47,3% degli italiani), nell’a.s. 2015/16 si

tratta del 27% (rispetto al 49,7% degli italiani).

La distinzione tra nati in Italia e nati all’estero mostra una scelta più

frequente dei licei da parte degli studenti nati in Italia (il 33,7% rispetto al

25% dei nati all’estero); per contro, coloro che sono nati all’estero

propendono più di frequente per gli istituti professionali (il 38,3% rispetto al

27,9% dei nati in Italia).

Nell’ambito dei percorsi di IeFP (Istruzione e Formazione Professionale),

l’ISFOL indica una presenza consistente di allievi di nazionalità straniera,

che, nell’a.f. 2014/15, nelle Istituzioni Formative (IF) hanno superato il 17%

nei primi tre anni, con una concentrazione soprattutto nel Nord Est (22,2%);

nelle scuole, nei primi tre anni, la presenza di alunni stranieri, che intendono

conseguire la qualifica professionale, è dell’11,4% (con una punta elevata

nel Nord Est del 26,9%).

Se si esaminano le percentuali sul totale degli iscritti della IeFP, il maggior

numero di allievi stranieri si trova nella figura dell’operatore della

ristorazione, con il 22,4%, seguita dall’operatore meccanico (12,5%) e

dall’operatore alla riparazione dei veicoli a motore (10,4%).

27

In Italia, il fenomeno dell’overeducation – l’eccesso di laureati non assorbiti

dal mercato del lavoro – tra gli immigrati è molto diffuso, come è stato

rilevato dall’analisi dei dati del 15° Censimento generale della popolazione

e delle abitazioni del 2011.

Tuttavia, se questo tasso è del 19,9% tra i cittadini italiani, valore già

estremamente elevato, tra gli immigrati con titolo di studio universitario esso

raggiunge il 65,9%.

Oltre a questa significativa differenza quantitativa, i dati del Censimento

2011 mettono in evidenza anche un’ulteriore penalizzazione qualitativa dei

laureati stranieri rispetto agli italiani, in quanto i primi sono impiegati in

occupazioni che non richiedono le competenze acquisite con il titolo di

studio. Mentre, infatti, i laureati italiani sono prevalentemente impiegati in

lavori esecutivi di ufficio (11,8%) ed in attività di vendita e di servizio (5,6%),

i laureati stranieri sono, soprattutto, operai (39,2%), di solito non qualificati,

o domestici (22,3%), casi questi estremamente rari tra gli overeducated

italiani (operai 2,2%; domestici 0,9%). Il Censimento del 2011 ha anche

mostrato come l’overeducation riguardi quasi tutti gli immigrati altamente

qualificati di alcune nazionalità, come i filippini (92,2%) e gli ucraini (90,4%).

1.8. Gli immigrati nel mercato del lavoro italiano

Dai microdati ISTAT-RCFL al 1° semestre 2016, la popolazione immigrata

in età da lavoro è di 4.125.307 persone da 15 anni e oltre, di cui il 42,8%

sono occupati e il 51,8% inattivi. In valore assoluto su 2.409.052 occupati

stranieri (che costituiscono il 10,5% del totale) 1.622.873 sono comunitari

stranieri) e 786.179 comunitari (32,6% degli occupati stranieri).

Gli stranieri in cerca di occupazione sono 425.077 (10,3% del totale degli

stranieri), di cui 284.266 di nazionalità non-UE (66,9% del totale degli

stranieri in cerca di occupazione) e 140.811 di nazionalità UE (33,1%). Gli

inattivi stranieri sono 1.202.926, di cui 869.833 non-UE (72,3%) e 333.093

UE (27,7%).

28

Se si considera il periodo II trimestre 2015-II trimestre 2016, si osserva un

aumento dell’occupazione sia tra gli stranieri (+2,1%), sia tra gli italiani

(+1,9%).

La distribuzione territoriale degli occupati mostra un’articolazione che

ricalca il quadro già emerso a proposito dei residenti. La maggiore

concentrazione di occupati stranieri si osserva nelle regioni del Nord

(1.427.996, pari al 59,3% del totale nazionale), e in particolare in quelle del

Nord Ovest (811.923: 33,7% del totale nazionale) e del Nord Est (616.073:

25,6%). In generale, quindi, nelle regioni con maggiore presenza di residenti

stranieri si registrano percentuali più alte di occupati immigrati sul totale

degli occupati. In particolare, il 58,0% degli stranieri occupati si

distribuiscono tra la Lombardia (22,8%), il Lazio (13,7%), l’Emilia-Romagna

(11,1%) e il Veneto (10,4%).

Mentre la distribuzione degli occupati stranieri non-UE è simile a quella del

totale degli stranieri, a proposito di quella degli occupati provenienti da paesi

29

dell’UE si si osserva una maggiore quota di presenze nelle regioni del

Centro (UE: 30,5%, non-UE: 23,6%) e del Sud (UE: 12,1%, non-UE: 9,6%).

La distribuzione territoriale della disoccupazione segue, sostanzialmente, le

proporzioni registrate tra gli occupati, con una maggiore concentrazione

nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est, dove gli stranieri alla ricerca di

lavoro rappresentano circa un terzo del totale dei disoccupati. Nelle regioni

del Mezzogiorno la disoccupazione è quasi totalmente italiana.

L’inserimento degli occupati stranieri nelle diverse attività economiche,

confrontato con quella degli italiani, conferma la collocazione tipica del

modello di segmentazione del mercato del lavoro, con le maggiori quote di

occupati stranieri, rispetto agli italiani, nel settore dei servizi collettivi e

personali (28,3%), nell’industria in senso stretto (17,3%), nelle costruzioni

(10,2%) nel settore alberghiero e della ristorazione (10,1%), e nel

commercio (9,7%). Nell’insieme di questi settori è collocato il 75,6% degli

occupati stranieri.

Un aspetto da notare è anche il diverso modello di inserimento lavorativo

degli stranieri rispetto agli italiani. Questa “segregazione occupazionale”

risulta ancora più evidente se si mette in relazione al genere. Le donne

straniere, infatti, lavorano soprattutto nel settore dei servizi collettivi o alla

persona, mentre gli uomini si concentrano nell’industria in senso stretto e

nelle costruzioni.

30

Queste considerazioni risultano più chiare se si esamina la distribuzione

degli occupati stranieri per professioni. La quota del lavoro non qualificato

degli immigrati è del 36,5%, contro il 7,9% degli occupati italiani. In ordine

decrescente di distribuzione degli occupati stranieri nelle diverse

professioni, seguono quelle nelle attività commerciali e dei servizi (24,9%

vs. 18,1% degli italiani), e gli artigiani, operai specializzati e agricoltori

(20,5% vs. 14,6%). Il totale di queste incidenze è 81,5%: si conferma,

perciò, la maggiore presenza degli immigrati nei segmenti bassi di lavoro.

Per le donne straniere occupate emerge una condizione più svantaggiata

rispetto ai loro omologhi uomini stranieri, come si può notare a proposito

della loro minore presenza nelle forme contrattuali stabili (40,9% vs. 57,6%

maschile), a fronte di una loro maggiore presenza nel part time involontario

a tempo indeterminato (32,5% vs. 10,1%). In generale, mentre la

retribuzione media mensile dichiarata dagli occupati italiani è di 1.356 euro,

quella relativa agli stranieri scende a 965 euro, pari al 30% in meno (-371

euro).

Le differenze salariali, poi, risultano particolarmente significative anche tra

donne straniere e donne italiane. Come si può notare, il part time

involontario a tempo indeterminato, che abbiamo visto essere una delle

forme contrattuali più diffuse tra i lavoratori stranieri, è anche quella

associata ad alti differenziali salariali a danno dei primi rispetto agli italiani,

e quindi ad una condizione economica svantaggiata.

31

Il peggioramento delle condizioni di disagio economico, più intenso negli

anni della crisi, interessa in misura maggiore gli stranieri: tra il 2008 e il

2015, la riduzione delle famiglie che possono fare affidamento su un unico

reddito da lavoro standard scende dall’82,3% al 67,0% (mentre tra gli italiani

passa dall’84,6% al 79,1%).

La condizione di disagio economico (e non solo) emerge chiaramente

anche dalla consueta indagine svolta presso i Centri di Ascolto delle Caritas

diocesane che hanno rilevato, nel corso del 2015, 190.465 utenti (in media

circa 115 persone a centro).

In media, gli stranieri rappresentano il 57,2% del totale, con forti variazioni

territoriali: gli stranieri al Nord rappresentano il 64,5% delle persone

ascoltate, mentre nelle regioni del Mezzogiorno, al contrario, sono gli italiani

a costituire la maggioranza assoluta del totale. I giovani, tra i 15 e i 29 anni,

che si rivolgono in modo autonomo alla Caritas, in Italia, sono piuttosto

scarsi, in quanto tale segmento di popolazione non supera il 13,6% del

totale di tutti gli utenti. I giovani stranieri, in particolare, sono l’80,7%. Per

questi ultimi l’esame dei dati dimostra una prevalenza delle difficoltà di

ordine materiale; spiccano i casi di povertà economica (71,1%) e di disagio

occupazionale (47,8%), seguiti dai problemi abitativi (36,6%). Consistenti i

casi di problemi legati alla migrazione (35%). Si tratta per lo più di disagi

legati alle emergenze, al ricongiungimento familiare, ai problemi legati alle

richieste di asilo, alle situazioni di irregolarità giuridica, a vari tipi di problemi

amministrativo-burocratici, al riconoscimento titoli, alle difficoltà relative allo

status di rifugiato.

1.9. I NEET: quando il lavoro non c’è. E forse non ci sarà mai

In pressoché tutti i paesi europei, i giovani con un background migratorio

sono ampiamente sovra-rappresentati tra i cosiddetti NEET (Not in

Employment, Education and Training), ossia tra i giovani ed adulti-giovani

che non sono impegnati né nello studio, né nel lavoro, né nella formazione

professionale. Secondo i dati più recenti, quasi 3 giovani extra-europei ogni

10 si trovano in questa condizione, con un’accentuazione della loro

incidenza, fino a tradursi nella condizione maggioritaria, per le giovani di

32

determinate origini, come ad esempio quelle appartenenti a famiglie che

provengono dalla Turchia.

Per quanto riguarda l’Italia, i 3.276.720 giovani che non studiano né

lavorano censiti nel 2016 rappresentano poco meno di un quarto dei 15-

34enni. Ma, limitando l’analisi alla componente straniera, la quota di NEET

sale al 35% dei residenti stranieri in questa classe d’età. Per la componente

femminile, l’incidenza raggiunge addirittura il 47,3%, svettando di ben 20

punti percentuali al di sopra di quella autoctona. In definitiva, oltre a

presentare un’incidenza di NEET particolarmente elevata, l’Italia è uno degli

Stati europei con il maggiore differenziale a sfavore degli stranieri.

Per fare luce su questa realtà occorre infatti osservare come la categoria

dei NEET, essendo convenzionalmente riferita a una fascia molto ampia

d’età, può comprendere situazioni diverse: coloro che hanno abbandonato

precocemente gli studi, magari addirittura prima di aver adempiuto l’obbligo

formativo (un fenomeno che in Italia registra incidenze particolarmente

gravi); coloro che hanno raggiunto livelli di istruzione anche elevati (e

magari maturato esperienze professionali), ma non sono poi riusciti ad

accedere al mercato del lavoro o a stabilizzare la propria posizione; coloro,

infine – e si tratta in particolare di giovani immigrate o con un background

migratorio – che sono transitate direttamente dai banchi di scuola a un ruolo

“inattivo”, ovvero al ruolo di casalinga.

È quest’ultima fattispecie ad avere catalizzato l’attenzione in diversi paesi

europei, poiché rivela la persistenza, nell’ambito di alcune comunità

immigrate, di modelli tradizionali di divisione del lavoro tra i generi, che

relegano le giovani donne al ruolo di casalinga, con tutte le conseguenze

che questo potrà comportare per la loro integrazione e per la

socializzazione dei figli che metteranno al mondo.

Il 19 febbraio 2014 il MIUR ha emanato le “nuove linee guida per

l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri”, in cui gli alunni con

cittadinanza non italiana sono riconosciuti come un’opportunità di

cambiamento per l’intera scuola. In realtà, i giovani di origine immigrata

soffrono di una specifica vulnerabilità scolastica, soprattutto se di prima

33

generazione, segnalandosi per performance peggiori rispetto agli autoctoni,

maggiori probabilità di abbandono precoce del percorso di

istruzione/formazione, più elevati rischi di divenire Neet (Not in Education,

Employment or Training): essi rappresentano una nuova fascia debole, a

rischio di insuccesso scolastico, assimilabile ai soggetti di status basso. In

questo senso l’immigrazione si può considerare uno “specchio” dei punti

critici del nostro sistema scolastico, in cui si annida il rischio di non garantire

pari opportunità a tutti gli studenti svantaggiati, siano essi italiani o stranieri.

34

35

CAPITOLO 2

Uno sguardo Internazionale - “Migrants’ Inclusion in Cities:

Innovative Urban Policies and Practices”: un progetto di UNESCO e

ONU-Habitat

(di Gabriele Nicoli)

2.1. Il progetto “Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban

Policies and Practices” di UNESCO e ONU-Habitat: obiettivi e

risultati

2.1.1. Gli obiettivi

Il fenomeno migratorio è sicuramente uno dei temi più discussi all’interno

del dibatto odierno. Il fenomeno è cresciuto di intensità, in particolare, negli

ultimi anni, diventando una realtà consistente, con un impatto importante

dal punto di vista sociale, economico e territoriale, in primis sulle città, cuore

delle complesse relazioni tra globalizzazione, localizzazione ed inclusione

delle persone con storia di migrazione.

Le città sono il luogo dell’inclusione delle persone con storia di migrazione:

da questo assunto muove l’interessante progetto “Migrants' Inclusion in

Cities: Innovative Urban Policies and Practices”8, realizzato, tra il 2012 ed il

2013, attraverso l’azione sinergica di UNESCO9 e ONU-Habitat10. ONU-

8 Cfr. M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, United Nations through UNESCO and UN-Habitat, 2013. 9 L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (in inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, UNESCO) è stata fondata durante la Conferenza dei Ministri Alleati dell'Educazione (CAME) che si è svolta tra il 1° e il 16 novembre 1945. La Costituzione dell'UNESCO è stata firmata il 16 novembre 1945 e la sua entrata in vigore è del 4 novembre 1946, dopo la ratifica da parte di venti Stati. UNESCO è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite creata al fine di promuovere la pace e la comprensione tra le nazioni con l'istruzione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l'informazione per promuovere "il rispetto universale per la giustizia, per lo stato di diritto e per i diritti umani e le libertà fondamentali" quali sono definite e affermate dalla Carta dei Diritti Fondamentali delle Nazioni Unite. 10 Il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani (in inglese United Nations Human Settlements Programme, ONU-Habitat) è un'agenzia delle Nazioni Unite il cui compito è favorire un'urbanizzazione sostenibile e garantire a tutti il diritto ad avere una casa dignitosa. Nasce nel 1978 come risultato della prima conferenza sui insediamenti umani e sviluppo urbano sostenibile (Habitat I) a Vancouver, Canada nel 1976, con una risoluzione dell'Assemblea Generale. Il programma ha sede a Nairobi, Kenya.

36

Habitat e UNESCO mirano a promuovere e rafforzare i diritti umani delle

persone con storia di migrazione nelle città, in collaborazione con i network

di ricerca specializzati e le Cattedre UNESCO sullo sviluppo urbano.

Oltre a porre l'accento sul tema dell’inclusione delle persone con storia di

migrazione, la guida si propone altresì di esaminare questioni trasversali

quali la pianificazione urbana, le questioni di genere ed i processi di

migrazione interna alle aree geografiche del Mondo.

Il progetto è volto a11:

evidenziare e sottolineare i vantaggi per le città nel promuovere

società multiculturali;

sviluppare consapevolezza sulle questioni inerenti al rapporto tra

migrazioni internazionali e città e mettere in evidenza le sfide poste

dal fenomeno della migrazione a livello locale;

rafforzare i legami tra ricerca, politica e pratica trasmettendo i risultati

dei progetti di ricerca-azione ai responsabili delle politiche locali;

sostenere il coordinamento delle politiche migratorie tra i diversi livelli

di governo (nazionale, regionale e locale) e facilitare il trasferimento

dei risultati della ricerca e l'elaborazione di buone pratiche a livello

locale;

scambiare informazioni e metodologie di rete e di controllo per lo

sviluppo di politiche e pratiche urbane inclusive;

contribuire ad una conoscenza più approfondita in merito alle

trasformazioni sociali che si verificano nel contesto urbano e nelle

politiche urbane inclusive di integrazione delle persone con storia di

migrazione;

sviluppare le capacità dei leader locali attraverso la loro formazione

e sensibilizzazione, al fine di promuovere la promozione dei diritti

umani delle persone con storia di migrazione internazionali a livello

locale;

11 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, United Nations through UNESCO and UN-Habitat, 2013, p. 15.

37

promuovere e sostenere la costruzione di città più inclusive per le

persone con storia di migrazione e per la popolazione urbana in

generale;

rafforzare i diritti, le responsabilità e la partecipazione delle persone

con storia di migrazione all’interno del tessuto urbano;

bilanciare lo sviluppo urbano con la coesione sociale per evitare

conflitti nelle aree urbane in relazione alle tensioni interetniche ed

interculturali;

indurre gli attori urbani e le parti interessate nei fenomeni migratori

ad agire nell’ottica dell’inclusione delle persone con storia di

migrazione nelle città.

Tenendo conto dei principali compiti delle autorità locali, inoltre, lo studio

mira a12:

implementare la governance del fenomeno di migrazione

internazionale;

fornire servizi di base e protezione sociale;

generare comunità più sicure.

2.1.2. I risultati

UNESCO e UN-HABITAT, tra i risultati teorici, annovera13:

l’individuazione di good practicies relative a politiche e pratiche

urbane che promuovano l'inclusione delle persone con storia di

migrazione nelle città;

l’individuazione di politiche di inclusione urbana che consentano alle

persone con storia di migrazione di beneficiare dei loro diritti civili e

politici, nonché dei diritti sociali, culturali ed economici e che

rafforzino la coesione sociale e la diversità culturale nelle città

cosmopolite;

12 Ivi, p. 16. 13 Ibidem.

38

il sostegno ai governi locali nello sviluppo di azioni efficaci per

migliorare e promuovere la governance urbana inclusiva delle

persone con storia di migrazione internazionali;

la promozione di un linguaggio comune ed appropriato da utilizzare

quando si tratta di fenomeni migratori e di persone con storia di

migrazione.

Oltre alla realizzazione di uno studio sulla relazione tra processi migratori in

atto e la dimensione urbana – il quale sarà approfondito nel paragrafo

successivo – il progetto “Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban

Policies and Practices” ha prodotto ha prodotto, quale deliverable

principale, un toolkit.

Il toolkit è stato progettato esplicitamente per migliorare le politiche urbane

inclusive rivolte alle persone con storia di migrazione internazionali, nel

tentativo di rafforzare la capacità e la consapevolezza delle autorità locali

nei loro sforzi per migliorare l'inclusione sociale. Creato attraverso un

processo partecipativo di seminari internazionali, il toolkit è composto da

diversi strumenti14:

Brochure per le autorità locali

Con la brochure per le autorità locali, il progetto mira a sensibilizzare e

tenere aggiornate le autorità locali responsabili del miglioramento dei

processi d'inclusione delle persone con storia di migrazione a livello locale.

Mira a diffondere le raccomandazioni emerse dal progetto su come

garantire alle persone con storia di migrazione il pieno godimento dei loro

diritti civili, politici, sociali, culturali ed economici.

Guida per le autorità locali

Attraverso l'identificazione delle politiche di inclusione nelle aree urbane che

favoriscono la promozione dei diritti delle persone con storia di migrazione

e la loro integrazione socioeconomica, i risultati della ricerca sono stati

tradotti in politiche immediatamente applicabili alle città, al fine di formare

adeguatamente le autorità locali. La Guida funge da documento di

14 Ivi, pp. 16-17.

39

riferimento per la brochure e fornisce un quadro generale per l'inclusione

delle persone con storia di migrazione nelle città.

Sito web (https://en.unesco.org/themes/learning-live-together)

La pagina offre facile accesso ai materiali realizzati nell’ambito del progetto

e costituisce un punto di riferimento per organizzazioni internazionali,

organizzazioni bilaterali, società civile e autorità locali, fungendo da

"sportello unico" sulle questioni legate ai processi migratori internazionali.

Sessioni di formazione su casi studio specifici (2012-2013)

Il "set di strumenti" è stato utilizzato come punto di partenza per studiare

specifiche pratiche d'inclusione sociale e spaziale delle persone con storia

di migrazione nelle città. Durante le sessioni di formazione, i rappresentanti

delle città coinvolte hanno condiviso esperienze di buone pratiche, in

collaborazione con Università e Centri di ricerca, Organizzazioni regionali e

internazionali e autorità locali. Ciò ha rafforzato i legami tra più parti

interessate e facilitato lo scambio di informazioni e conoscenze tra l’ambito

scientifico di ricerca e la politica in tema di migrazione.

2.2. Migrazioni, globalizzazione e città

Come già affermato, il progetto “Migrants' Inclusion in Cities: Innovative

Urban Policies and Practices” di UNESCO e ONU-Habitat ha portato alla

realizzazione di uno approfondito studio sulle correlazioni tra dimensione

internazionale e locale dei processi migratori, delle quali la città è

protagonista.

Di seguito si pone l’accento su alcuni dei punti nodali dello studio condotto

dalle due Agenzie internazionali. Si vuole rendere evidente il percorso

teorico che, in tema di migrazioni e contesto urbano, rende evidente il

percorso, suggerito da UNESCO e ONU-Habitat, che porta dall’integrazione

all’inclusione delle persone con storia di migrazione: le “città globali”; la

“localizzazione del globale” e la “femminizzazione delle migrazioni”.

40

2.2.1. Le città globali

Flussi di merci, capitali e persone da tutto il mondo sono aumentati nel corso

del ventesimo secolo, quando i media internazionali hanno reso gli individui

più consapevoli delle disparità tra gli standard di vita e le opportunità

esistenti oltre i propri confini nazionali. La mobilità è parte di una serie di

decisioni complesse che dipendono da diverse variabili. Alcune di queste

sono determinate dalle decisioni personali, da ragioni storiche o

contingenze presenti. Al livello più elementare, come suggerito

dall'economia neoclassica, le differenze di salario fanno sì che le persone

migrino15. Pertanto, l'opportunità di guadagnare di più in un posto rispetto

ad un altro è indubbiamente un fattore decisivo che spinge alla migrazione

internazionale.

Lo è anche la “frammentazione” del mercato del lavoro: ciò significa che

determinati gruppi di persone, in base all'origine etnica, al genere o al paese

di origine, si ritrovano “associati” a lavori specifici. Per le persone con storia

di migrazione dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati, la maggior parte

di questi lavori sono poco qualificati e considerati "tre D" (cioè, in inglese,

dirty, dangerous, demeaning), ossia “sporchi, pericoloso e degradanti”.

Tuttavia, la frammentazione del mercato del lavoro si trova anche tra

personale altamente qualificate, come nel campo dell’ingegneria o delle

professioni mediche16.

Il reclutamento attraverso organizzazioni internazionali che comprendono

carenze del mercato del lavoro e mezzi per ottenere visti è una strategia

chiave attraverso la quale si formano i canali di migrazione internazionale.

La maggior parte delle persone con storia di migrazione che rischiano di

spendere ciò che è necessario per effettuare una migrazione internazionale

lo fanno, in generale, sapendo che un lavoro li attende e le loro famiglie

possono trarre giovamento dal loro spostamento. Le persone con storia di

15 Ivi, p. 22. 16 Ibidem.

41

migrazione, principalmente, lasciano il loro paese d'origine con l'intenzione

di inviare denaro alle loro famiglie17.

Infine, la maggior parte delle persone con storia di migrazione fa

affidamento ai social network, spesso transnazionali, per ricevere e

condividere informazioni sull'occupazione, sulla famiglia o sulle pratiche di

sopravvivenza quotidiana in un dato paese18.

Il diagramma di cui sopra mostra le grandi aree metropolitane (più di 1

milione di abitanti) che vedono la presenza sul territorio di 100.000 o più

persone con storia di migrazione. La mappa individua 109 città: 19 hanno

più di 1 milione di residenti stranieri; 42 ne hanno tra 250.000 e 1 milione di

immigrati, le restanti ne hanno più di 100.000 ma meno di 250.000.

Queste città si possono considerare come “città globali”19. La tesi della “città

globale” che ha guadagnato molto credito dagli anni '90 presenta le città

17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Ibidem.

42

quali attrici principali e punti di confluenza del capitale mondiale e dei flussi

di lavoro. Il principale teorico di questa teoria è Saskia Sassen20, nella sua

opera "The Global City" (1991)21.

UNESCO ed ONU-Habitat suggeriscono di estendere le esperienze e le

buone pratiche già vigenti nelle “città globali” alle realtà urbane medie e

piccole, le quali, come già detto, saranno le principali destinazioni, nei

prossimi anni, delle persone con storia di migrazione internazionali.

L’impatto della crisi economica attuale, infatti, avrà effetti anche sui processi

migratori internazionali: si prospetta una decelerazione dei flussi migratori

e, comunque, uno spostamento delle persone con storia di migrazione dalle

grandi metropoli alle zone rurali e urbane di media e piccola entità22.

2.2.2. La “localizzazione del globale”

Le persone con storia di migrazione rappresentano il 3,1% della

popolazione mondiale23, il 48% delle persone con storia di migrazione è di

genere femminile24. I processi migratori si sviluppano in prevalenza dal Sud

verso il Nord del mondo: si può dire che le migrazioni siano un processo

strutturale della globalizzazione e rappresentino una delle modalità

attraverso cui si realizza la “localizzazione del globale”25.

È evidente che la localizzazione interessi in primis le città, dove, fra l’altro,

avviene la maggior parte degli insediamenti delle persone con storia di

migrazione. Secondo Marcello Balbo26, l’«urbanizzazione

dell’immigrazione” è la conseguenza quasi inevitabile, e in parte anche la

20 Saskia Sassen è una sociologa ed economista statunitense nota per le sue analisi sulla globalizzazione e i processi transnazionali. 21 Cfr. S. SASSEN, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton-New Jersey, Princeton University Press, 1991 22 M. Price, E. Chacko, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 24. 23 Ivi, p. 19. 24 Ibidem. 25 M. BALBO, Politiche di immigrazione vs politiche per gli immigrati: risposte locali ad un processo globale, Paper presentato alla Conferenza “Immigrati e domanda di città”, Venezia, 2009, p. 1. 26 Marcello Balbo è stato docente di Urbanistica presso lo IUAV di Venezia, titolare della Cattedra Unesco "Social and spatial integration of international Migrants: urban policies and practice".

43

causa, del realizzarsi di un mondo sempre più urbano e del crescente ruolo

economico e sociale delle città, in particolare nelle economie a basso

reddito»27.

Le città sono "magneti di speranza" per le persone con storia di migrazione:

più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Le persone con

storia di migrazione si stanno dirigendo verso le città con la convinzione

che, in quei contesti, troveranno migliori opportunità in termini di reddito e

reti di supporto. Generalmente, le persone migrano verso le città per motivi

economici e per sperare in condizioni di vita migliori, ma si possono recare

verso nelle città anche a causa di disordini civili o politici, guerre o disastri

naturali. In Asia, Africa e America Latina circa il 40% della crescita urbana

è attribuibile alla migrazione dalle aree rurali nazionali. La globalizzazione,

la crescita delle città e i flussi globali di persone sono diventati processi

sempre più interdipendenti28.

Il grafico sovrastante mette a confronto la percentuale di persone con storia

di migrazione in 13 città del mondo rispetto alla percentuale nazionale di

lavoratori di origine straniera. In quasi tutti i casi, la percentuale di persone

27 Ibidem. 28 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 20.

44

con storia di migrazione nelle città o nelle aree metropolitane è superiore

alla media nazionale. A Toronto, una città di oltre 2 milioni di persone con

storia di migrazione nati all'estero, esse rappresentano il 45% della

popolazione dell'area metropolitana, mentre la percentuale di persone

straniere nate in Canada è di circa il 18%. A Madrid, una città che ha visto

un drastico aumento dell'immigrazione nel corso degli ultimi due decenni,

quasi il 15% della popolazione dell'area metropolitana è nato all'estero,

mentre la media nazionale è inferiore al 10%. Anche in paesi come il Brasile,

che ha una popolazione di origine straniera piuttosto bassa, la proporzione

di persone con storia di migrazione nella città di San Paolo è quattro volte

superiore a quella nazionale29.

Si stima che, nel 2030, il numero di residenti nelle città arriverà a 4,9 miliardi

di persone, ovvero il 60% della popolazione mondiale30. Una crescita

urbana senza precedenti porrà sfide di rilievo per le autorità locali: le città

medie e piccole, infatti, saranno le principali destinazioni delle persone con

storia di migrazione nei prossimi anni31.

Ne discende il fatto che le autorità locali debbano ricercare le giuste

modalità per rafforzare la lotta contro la povertà e l'esclusione sociale e

creare città che siano luoghi prosperi, di consolidamento dell'innovazione,

dove le persone abbiano accesso a opportunità di vita soddisfacenti32: in

altre parole, le autorità locali sono e saranno chiamate e rendere le città

sempre più luoghi dell’inclusione.

UNESCO e ONU-Habitat giungono a due conclusioni principali: le risposte

ai fenomeni migratori, a livello internazionale, sono tutt’altro che uniformi e

spesso è evidente un divario tra le politiche migratorie nazionali e le risorse

a disposizione delle comunità locali per accogliere le persone con storia di

migrazione e rispondere alle istanze della popolazione ospitante33.

29 Ibidem. 30 UNDESA, World Population Prospects: The 2005 Revision, United Nations, New York, 2006, p. 1. 31 ONU-HABITAT, State of the World's Cities Reports, United Nations, Nairobi, 2010. 32 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 24. 33 Ibidem.

45

2.2.3. Migrazioni e dimensione di genere

UNESCO e ONU-Habitat analizzano il fenomeno dei processi migratori

anche nell’ottica della dimensione di genere, la quale “è una questione

trasversale che dovrebbe essere usata come una lente di ingrandimento

attraverso la quale ogni politica, programma, servizio o buona pratica

dovrebbe essere analizzata sin dall’inizio”34.

Le donne migrano per diversi motivi: in qualità di lavoratrici qualificate o

meno qualificate, in qualità di studentesse, per trovare asilo politico, ma

anche per ragioni specifiche che le connotano in maniera peculiare rispetto

agli uomini: il matrimonio e il ricongiungimento familiare35.

Secondo le statistiche dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni

(OIM)36, le donne con storia di migrazione rappresentano il 49% di tutti le

persone con storia di migrazione internazionale. L'elevata percentuale di

donne con storia di migrazione ha contribuito a definire il concetto di

"femminilizzazione della migrazione"37. Sebbene, secondo Hania Zlotnik38,

esiste un alto livello di femminilizzazione della migrazione dal 1960, le

nuove dimensioni di questa condizione richiedono nuove politiche e pratiche

inclusive che tengano inconsiderazione le peculiarità legate al fattore di

genere39. A riguardo, UNESCO e ONU-Habitat menzionano lo studio

dell'OIM: nonostante le donne rappresentino la metà della popolazione

migrante del mondo, le politiche e le normative sulla migrazione dei paesi

di origine o di destinazione, nella maggior parte dei casi, non adottano

34 Ivi, p. 30. Traduzione di chi scrive. 35 Ibidem. 36 L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM/OIM) è un'organizzazione internazionale fondata nel 1951 che si occupa di migrazioni. La sede principale è a Ginevra mentre uffici locali sono presenti in oltre 100 nazioni. L'Italia è uno dei paesi fondatori dell'OIM. Attualmente gli Stati membri sono 165. Dal settembre 2016 l'OIM è un'agenzia collegata delle Nazioni Unite. 37 H. ZLOTNIK, The Global Dimensions of Female Migration (https://www.migrationpolicy.org/article/global-dimensions-female-migration, 27/05/2018) 38 Hania Zlotnik è stata, fino al 2012, Direttrice della Sezione Popolazione del Dipartimento per gli affari economici e sociali (UNDESA), dicastero del Segretariato delle Nazioni Unite per le questioni economico-sociali. 39 Ibidem.

46

accorgimenti mirati a rispondere alle specificità della dimensione di genere

femminile. Nella maggior parte dei casi, la natura di genere, nell’ambito dei

processi migratori internazionali, è sottostimata o ignorata.

Nonostante l’evidenza della "femminilizzazione della migrazione", il

fenomeno ha ancora una forte connotazione maschile e le politiche non

tengono conto dei bisogni delle donne, delle loro aspirazioni e della loro

capacità di agire autonomamente. In generale, le politiche e i regolamenti

non tengono in considerazione i ruoli e le relazioni tra donne e uomini40.

I criteri per l'ammissione, per ottenere la residenza, per la concessione di

permessi di lavoro e per l'ammissibilità alle prestazioni destinate alle

persone straniere, generalmente, variano a seconda della dimensione di

genere, in senso peggiorativo per le donne. Tale differenza ricopre un ruolo

fondamentale nel determinare lo status delle donna con storia di migrazione

nelle società che le ospitano e influenzare negativamente la loro possibilità

di essere incluse nelle città. È quindi importante prendere in considerazione

l'esistenza delle donne, i loro bisogni e le loro capacità specifiche, al fine di

incoraggiare la loro integrazione e partecipazione nel tessuto urbano41:

come sostiene anche Paola Degani42, «l’eliminazione delle ineguaglianze

strutturali tra donne e uomini può contribuire […] alla coesione sociale»43.

2.3. Dall’integrazione all’inclusione delle persone con storia di

migrazione nelle città: le politiche

Come già accennato, lo studio contenuto nel progetto “Migrants' Inclusion

in Cities: Innovative Urban Policies and Practices” di UNESCO e ONU-

Habitat ha indotto la formulazione di politiche concrete, volte a compiere il

salto di qualità dalla semplice integrazione all’inclusione delle persone con

40 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 30. 41 Ibidem. 42 Paola Degani è Ricercatrice universitaria confermata di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Padova. 43 P. DEGANI, Diritti umani, multiculturalismo, dimensione di genere, in M. Mascia (a cura di), Dialogo interuculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Marsilio, Venezia, 2007.

47

storia di migrazione nelle città. Citando Marco Catarci44: «Non è possibile

immaginare, infatti, che i percorsi di integrazione sociale di chi si inserisce

in un nuovo contesto siano l’esito di casualità o di circostanze fortuite. Al

contrario, una tale prospettiva di integrazione sociale esige di promuovere

intenzionalmente e consapevolmente opportunità di inclusione nella

società. Lo studio delle forme di integrazione dei migranti nella società

impone, in primo luogo, di “ribaltare” la questione dell’integrazione sociale,

che viene solitamente declinata “a senso unico” in prospettiva

assimilazionista come semplice inserimento»45.

2.3.1. L’inclusione economica

Tutti, indipendentemente dalla loro nazionalità, hanno il diritto al lavoro e i

governi sono obbligati ad adottare misure atte a garantire questo diritto.

Tuttavia, disoccupazione, bassi livelli di istruzione, mancanza di

riconoscimento delle competenze, lavoro scarsamente retribuito e

precarietà nel lavoro contribuiscono all'esclusione economica. Anche in

termini di accesso al reddito, le persone con storia di migrazione possono

trovare difficoltà ad ottenere aiuti finanziari. La discriminazione razziale,

religiosa e di genere limita le opportunità di lavoro per alcuni di loro46.

Le autorità locali devono quindi garantire l'uguaglianza nell'accesso

all'occupazione ed il diritto a un lavoro dignitoso, ad un salario decente ed

alla previdenza sociale. Un'attenzione particolare deve essere riservata ai

diritti dei lavoratori nell'economia “informale”47, come i lavoratori domestici

e i venditori ambulanti. La parità di lavoro dovrebbe essere promossa

44 Marco Catarci è professore associato di Pedagogia sociale e interculturale presso l'Università degli Studi Roma. 45 M. CATARCI, Considerazioni critiche sulla nozione di integrazione di migranti e rifugiati, REMHU: Revista Interdisciplinar da Mobilidade Humana, vol.22, n.43, 2014, pp.71-84. 46 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 50. 47 L'economia informale è l'insieme di transazioni di beni e servizi che sfugge alla contabilità nazionale; include quindi tutti i beni e servizi scambiati senza avere come contropartita un salario tra cui quelli prodotti all'interno del nucleo familiare per autoconsumo ed ampi settori quali quelli del volontariato, ma non le attività economiche onlus. Si tratta quindi di forme economiche difficilmente misurabili e che richiedono un ripensamento del valore economico dei beni e servizi passando da forme di valore misurato a forme di valore percepito.

48

attraverso la lotta alla discriminazione. I funzionari municipali devono

garantire il riconoscimento delle capacità e delle qualifiche nell'accesso ai

servizi di supporto (ad esempio, corsi di lingua) ed alla formazione

professionale. L'imprenditorialità etnica dovrebbe essere incoraggiata e le

persone con storia di migrazione internazionale dovrebbero poter ottenere

accesso ai servizi finanziari48.

2.3.2. Inclusione attraverso il diritto di abitare

Le città devono lavorare per garantire che tutti i loro residenti abbiano

accesso ad un alloggio adeguato, sicuro, dignitoso ed accessibile dal punto

di vista economico. Inoltre, le pratiche di alloggio devono essere eque e non

si devono verificare discriminazioni sulla base dell’etnica, del sesso o del

credo religioso. Tuttavia, i prezzi delle case sono estremamente alti in molte

città, rendendo difficile, anche per i residenti nativi, comprare alloggi a

prezzi accessibili. Le pratiche per ottenere un mutuo sicuro sono complicate

e molte volte le persone con storia di migrazione possono essere vittime di

prestatori abusivi. In molti casi, la presenza di persone con storia di

migrazione nelle città è considerata un indicatore negativo, perciò le

politiche locali in tema di locazione tendono a discriminare l'accesso alle

abitazioni o alle concentrazioni etniche. Per quanto riguarda le questioni di

genere relative all'accesso delle donne al credito è un aspetto importante

da considerare; inoltre sarebbe opportuno adottare accorgimenti specifici

per agevolare l'affitto da parte di donne con storia di migrazione che sono

madri single49.

Non ci sono soluzioni facili alla difficoltà di trovare alloggi economici e di

qualità in molte delle città del mondo. Le autorità locali devono sviluppare

programmi di edilizia pubblica o sovvenzionati per ridurre i costi. In molti

Paesi, la proprietà delle abitazioni è spesso vista come indicatore di

inclusione sociale delle persone con storia di migrazione: è quindi

48 Ibidem. 49 Ivi, p. 52.

49

importante sviluppare programmi per aiutare queste persone a stabilire un

percorso verso la proprietà della casa50.

2.3.3. Inclusione attraverso l’istruzione

Tutti i bambini, indipendentemente dal loro status, devono avere il diritto

all'istruzione pubblica nella città in cui risiedono. Le scuole, primi attori di

inclusione, devono trovare il modo di aiutare le persone con storia di

migrazione con deficit linguistici51.

L'istruzione è costosa e non tutti i sistemi scolastici hanno le risorse per

accogliere studentesse e studenti con esigenze diverse. Ci sono città o

paesi che rifiutano l'idea che tutte le bambine ed i bambini (specialmente

quelli con uno status legale di persona con storia di migrazione o persona

richiedente asilo) hanno diritto a un'istruzione finanziata con fondi pubblici.

Le scuole e l'istruzione che offrono sono, a detta di UNESCO e ONU-

Habitat, il modo migliore per aiutare le bambine ed in bambini con storia di

migrazione nei processi di integrazione sociale e culturale52.

La maggior parte dei paesi ha leggi che rendono obbligatoria l'istruzione

primaria. Tuttavia, in molti casi le bambine ed i bambini con storia di

migrazione hanno bisogno di un'attenzione particolare affinché sia

assicurata la loro continuità educativa53.

2.3.4. Inclusione attraverso la salute pubblica

UNESCO e ONU-Habitat muovono dall’assunto dell'articolo 25 della

Dichiarazione universale dei diritti umani, per cui «Ogni individuo ha diritto

ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e

della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario,

all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari»54.

50 Ibidem. 51 Ivi, p. 54. 52 Ibidem. 53 Ibidem. 54 ONU, Dichiarazione universale dei diritti umani, Parigi, 1948.

50

La fornitura di servizi sanitari vede l’applicazione di politiche molto diverse.

Alcuni paesi, come il Canada, Cuba o la Svezia, sono noti per i loro

programmi nazionali di salute pubblica, nell’ambito dei quali l'accesso è

disponibile sulla base della residenza o della cittadinanza. Altri paesi si

basano sulla gestione privatizzata della salute, integrata da un regime

assicurativo di tipo privato (gli Stati Uniti, ad esempio). In questi casi, le cure

mediche possono essere negate a coloro che non sono assicurati. In molte

città del mondo, le persone con storia di migrazione non ricevono

necessariamente una copertura nazionale o privata delle prestazioni

sanitarie e faticano a trovare accessibile tramite cliniche pubbliche o altre

forme di sussidi statali. Non si trascuri il fatto che, inoltre, le persone con

storia di migrazione che arrivano in buona salute possono scoprire che la

loro salute si è deteriorata considerevolmente a causa di stress, povertà,

mancanza di cure mediche, mancanza di accesso ai cibi tradizionali, proprio

a seguito della migrazione internazionale55.

L'accesso all'assistenza sanitaria è un'esigenza condivisa da tutti, ma molte

persone con storia di migrazione faticano a vedersi garantite assistenza

sanitaria e assicurazione sanitaria a prezzi accessibili. Ciò è

particolarmente vero per le persone con storia di migrazione poco

qualificate dal punto di vista del livello d’istruzione, le quali spesso si trovano

coinvolte in lavori a basso reddito, pericolosi, che mettono ancor più a

repentaglio la loro salute. Inoltre, è difficile per le donne migranti accedere

a cure mediche specialistiche volte alla salute riproduttiva, senza

considerare l’indiscussa difficoltà di trovare assistenza sanitaria per

bambine e bambini, anziane ed anziani e persone con disabilità e storia di

migrazione al contempo56.

2.3.5. Inclusione attraverso l’accesso allo spazio pubblico

Lo spazio pubblico si riferisce ad un'area o luogo aperto e accessibile a tutti

i popoli, indipendentemente dal genere, dall’etnia, dall’età o dallo status

55 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 56. 56 Ibidem.

51

socioeconomico. Sono spazi pubblici di incontro, come piazze, biblioteche

e parchi. Per questi motivi, UNESCO e ONU-Habitat invitano le autorità

locali a migliorare gli spazi verdi, grandi e piccoli, per renderli luoghi

d'interazione e inclusione. Anche gli “spazi virtuali” disponibili attraverso

Internet possono essere considerati un nuovo tipo di spazio pubblico che

aumenta l'interazione e l’inclusione57.

Attraverso l’accesso facilitato delle persone con storia di migrazione allo

spazio pubblico, la loro inclusione sociale nelle aree urbane può essere

incentivata e migliorata. Gli spazi pubblici possono svolgere un ruolo chiave

nel migliorare l'inclusione delle persone con storia di migrazione, fungendo

da luoghi di dialogo e di scambio interculturale58.

Le aree urbane degradate e segreganti possono essere “aperte” mediante

un'attenta pianificazione degli interventi strutturali da parte delle autorità

locali. In termini generali, UNESCO e ONU-Habitat suggeriscono di

integrare, attraverso una pianificazione urbana inclusiva, i sistemi di edilizia

abitativa adeguata, di trasporto pubblico accessibile e di edificazione

pubblica destinata alle pratiche culturali59.

Lo spazio pubblico ben progettato è essenziale per la vitalità di ogni città.

Questo spazio di incontro genera partecipazione sociale, rigenerazione

civica e sviluppo del senso di appartenenza, da parte dei e verso le persone

con storia di migrazione. È necessario lottare contro la segregazione

spaziale attraverso azioni quali: la ricostruzione dei quartieri in modo

accessibile ed integrato nel tessuto cittadino, la riqualificazione delle aree

urbane più svantaggiate, degli spazi pubblici e degli spazi verdi,

l’incoraggiamento di opzioni abitative che mirino all'obiettivo di far convivere

persone di origini diverse e situazioni socio-economiche negli stessi

quartieri, l'eliminazione delle barriere architettoniche e, infine, la

sensibilizzazione verso la dimensione di genere nella valutazione della

progettazione e dell'uso urbano60.

57 Ivi, p. 57. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ibidem.

52

2.3.6. Inclusione attraverso la consapevolezza della dimensione di genere

Nell’ottica di UNESCO e ONU-Habitat, l’attenzione alla dimensione di

genere è particolarmente importante dal punto di vista della

“femminilizzazione della migrazione”, come già visto. Bisogna promuovere

la parità di genere e la partecipazione attiva delle donne con storia di

migrazione alla vita politica, economica, sociale e culturale. Affinché le

donne possano esercitare pienamente i loro diritti umani, la prospettiva di

genere deve essere integrata in tutte le politiche urbane inclusive, in primis

in quelle atte alle persone con storia di migrazione61.

Come visto, UNESCO e ONU-Habitat riconoscono che le cause e le

conseguenze della migrazione internazionale sono diverse per uomini e

donne in termini di parità di genere nelle società di origine e di destinazione:

la migrazione internazionale rivela spesso i diversi modi in cui il genere

determina risultati diversi per uomini e donne con storia di migrazione. È

quindi necessario pensare le politiche a sostegno delle persone con storia

di migrazione avendo cura della prospettiva di genere, combattere la

discriminazione di genere e attuare e promuovere misure di uguaglianza e

inclusione nella dimensione di genere62.

2.3.7. Inclusione attraverso l’espressione culturale

Secondo la proposta di UNESCO e ONU-Habitat, è necessario promuovere

leggi e politiche che garantiscano alle persone con storia di migrazione la

partecipazione culturale, l'accesso alla cultura ed il diritto di esprimerla ed

interpretarla. Dal punto di vista delle politiche urbane, l'inclusione culturale

invita a creare soluzioni inclusive delle persone con storia di migrazione

attraverso pratiche creative, innovative e imprenditoriali. La portata di

questa prospettiva, tuttavia, trova ostacolo nelle limitazioni alla libertà di

espressione culturale, nell’intolleranza culturale e religiosa e nella

xenofobia: l’appello alle autorità locali è volto a contrastarle63.

61 Ivi, p.59. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 60.

53

Le città, allora, possono promuovere i diritti culturali delle persone con storia

di migrazione garantendo l'accesso alle iniziative culturali locali, sostenendo

le pratiche culturali etniche e consentendo l'espressione culturale come

mezzo di dialogo e di scambio interculturale. Le persone con storia di

migrazione hanno il diritto di manifestare la loro religione e di esprimere la

loro cultura, in conformità agli standard internazionali sui diritti umani. Le

autorità locali dovrebbero promuovere la vita culturale urbana e riconoscere

la diversità culturale come fonte di innovazione, creatività e vitalità

economica, nonché di inclusione64.

2.3.8. Inclusione attraverso i diritti sociali

I diritti sociali ricomprendono i diritti all'abitazione, all'educazione, all'acqua

potabile ed alle cure mediche ed evidenziano il ruolo della città quale luogo

primario dell’assistenza sociale. Tra i diritti sociali UNESCO e ONU-Habitat

annoverano altresì il diritto di vivere liberi dalla paura, dalla violenza,

dall'odio e dalla discriminazione razziale65.

Per garantire i diritti sociali delle persone con storia di migrazione, le autorità

locali sono chiamate a strutturare, usando una terminologia cara a

Diamantini66 e Borrelli67, una «governance inclusiva delle città

contemporanee»68 ed a garantire equità di accesso e di trattamento alle

persone con storia di migrazione. Ciò significa che queste persone devono

avere accesso ad alloggi adeguati, istruzione, benessere e ad un adeguato

tenore di vita che soddisfi pienamente i bisogni primari di cibo, energia e

acqua69.

64 Ibidem. 65 Ivi, p. 62. 66 Davide Diamantini è Professore Associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso l’Università di Milano-Bicocca. 67 Nunzia Borrelli è Ricercatrice a tempo determinato di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso l’Università di Milano-Bicocca. 68 Cfr. D. DIAMANTINI, N. BORRELLI, Approccio human-centred per una governance inclusiva delle città contemporanee. I principi slow nella città smart, Sociologia urbana e rurare, fascicolo 109, FrancoAngeli, 2016, pp. 113-128. 69 M. PRICE, E. CHACKO, Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban Policies and Practices, cit., p. 63.

54

2.3.9. Inclusione attraverso la partecipazione politica e civica

Il diritto alla partecipazione politica ed alla rappresentanza politica per le

persone con storia di migrazione sulla base degli stessi presupposti giuridici

della popolazione ospitante dovrebbe essere l'obiettivo primario

dell'inclusione politica. Estendere questi diritti alle persone con storia di

migrazione consolida il concetto di appartenenza e incoraggia la

partecipazione. Ciò può essere realizzato estendendo il diritto di voto nel

frangente delle elezioni locali o creando consigli consultivi nell’ambito delle

varie comunità etniche di persone con storia di migrazione presenti nelle

città. UNESCO e ONU-Habitat riconoscono il potere di voto come uno dei

modi più elementari con cui tutte le persone, anche quelle con storia di

migrazione, partecipano alla vita politica di una città. La democrazia deve

essere stimolata attraverso processi partecipativi che coinvolgono tutti i

cittadini, trasformando le loro voci in voti70.

Gli ostacoli principali ad una prospettiva inclusiva di partecipazione politica

delle persone con storia di migrazione riguardano, innanzitutto, la

condizione di residenza nelle città, ovvero l’iscrizione alle anagrafi locali: in

molti casi, le condizioni per ottenerla sono definite in maniera poco chiara,

“variabile”, che “intrappola” le persone con storia di migrazione in un

labirinto burocratico. Inoltre, è necessario considerare la mancanza di

status giuridico e la riluttanza degli Stati nel concedere la cittadinanza alle

persone con storia di migrazione: tale fattore interferisce con la

capacità delle persone con storia di migrazione di partecipare pienamente

alla vita politica della città71.

Un altro indicatore da considerare nel valutare la partecipazione politica

delle persone con storia di migrazione è il loro tasso di accesso a posizioni

politiche e/o tecniche all’interno delle amministrazioni pubbliche locali72.

Si rileva che gli immigrati che non provengono da società democratiche

potrebbero non avere familiarità con il potere democratico e il significato del

70 Ivi, p. 65. 71 Ibidem. 72 Ibidem.

55

voto: le autorità locali sono invitate ad iniziative di educazione civica e

politica73.

Ancora una volta, un altro aspetto importante da considerare è la

partecipazione politica e civica delle donne migranti74.

Le autorità locali devono garantire la partecipazione delle comunità delle

persone con storia di migrazione ai processi decisionali, stabilendo canali

di rappresentanza e partecipazione, tra cui la promozione di una cultura del

volontariato che veda le persone con storia di migrazione non solo come

destinatari ma anche come fautori75.

2.4. Conclusioni

Dall’analisi del progetto “Migrants' Inclusion in Cities: Innovative Urban

Policies and Practices”, realizzato da UNESCO e ONU-Habitat, ci sembra

di poter dedurre che l’inclusione delle persone con storia di migrazione sia

un concetto dai contorni non facilmente definibili: infatti, in accordo con

Balbo, se in alcuni contesti significa già parità di diritti, cittadinanza,

rappresentanza, garanzia di accesso ai servizi e, più in generale, ai beni

pubblici urbani, in altri rappresenta ancora lo sforzo di vedere riconosciuti i

diritti fondamentali76.

L’inclusione è legata alle strategie di gestione dei fenomeni migratori

sempre più diversificate in termini di stabilità o temporaneità, individualità o

collettività e dimensione di genere. La città multiculturale richiede, insomma,

diversi piani di inclusione delle persone con storia di migrazione: in

quest’ottica, la loro inclusione non può essere considerata un fenomeno

«unidirezionale (noi includiamo loro) ma richiede una visione bidirezionale

(noi includiamo loro che nello stesso tempo includono noi)»77.

73 Ibidem. 74 Ibidem. 75 Ivi, p. 67. 76 M. BALBO, Politiche di immigrazione vs politiche per gli immigrati: risposte locali ad un processo globale, Paper presentato alla Conferenza “Immigrati e domanda di città”, Venezia, 2009, p. 4. 77 Ibidem.

56

Per questo le politiche di inclusione urbana devono essere strutturate in

modo tale da essere, per loro essenza, «dinamiche e flessibili»78, per

adattarsi alla variabilità ma, al contempo, definire gli ambiti di

riconoscimento delle identità e dei diritti delle persone con storia di

migrazione: questo è l’obiettivo cui punta il progetto di UNESCO ed ONU-

Habitat.

Inclusione vuole dunque dire assicurare alle persone con storia di

migrazione opportunità di accesso uguali a quelle dei residenti nelle città,

innanzitutto attraverso «l’appartenenza al sistema di connessioni, alle reti

in cui si organizza la città e la società urbana»79: la rete di servizi, del lavoro,

della rappresentanza, della comunità e della famiglia. Esclusione, invece,

significa non avere la possibilità di «essere connessi a queste reti, ancor

prima che non disporre di una casa o di un lavoro»80. Per questo la

costruzione delle reti diventa un punto nodale: infatti, «dove le reti non

permettono l’accesso, o per effetto della globalizzazione, della burocrazia o

della xenofobia, restano impermeabili, altre se ne formano, con il rischio di

generare alienazione e conflitto sociale»81.

La presenza delle persone con storia di migrazione nelle città sfida i legami

tra le persone, le amministrazioni locali, nazionali ed internazionali. I

fenomeni come l’esclusione, il conflitto sociale e la povertà palesano la

necessità urgente di ripensare la relazione tra spazi urbani ed i loro abitanti

nel contesto della crisi economica attuale. Inclusione non significa

solamente soddisfare le necessità primarie delle persone con storia di

migrazione, come i pasti, l’abitazione o la salute, bensì vuole dire creare un

ambiente urbano nel quale la partecipazione civica, sociale ed economica

sia condizione imprescindibile per uno sviluppo urbano sostenibile.

A livello di macrosistema, le città devono accogliere le persone con storia

di migrazione tenendo in considerazione che ogni persona ha, per sua

natura, necessità differenti. Le persone con storia di migrazione non sono

78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Ibidem. 81 Ibidem.

57

riconducibili ad una categoria univoca: ad esempio, possono trovarsi in una

condizione di regolarità, di non regolarità o possono essere richiedenti asilo,

possono migrare per motivi di ricongiungimento familiare, economici, per

scappare dalla guerra, per volontà di cambiamento o desiderio di mobilità,

possono essere anziani, minori non accompagnati, giovani, adulte e adulti,

femmine e maschi, persone che hanno sperimentato la tratta, la violenza,

che hanno un diverso livello culturale e di istruzione, un diverso credo

religioso, lingue diverse, esperienze di lavoro eterogenee, possono essere

persone con disabilità, fisica o psicologica, congenita o acquisita durante la

migrazione.

Nel formulare politiche urbane d’inclusione si deve considerare

l’eterogeneità che contraddistingue il fenomeno migratorio: voler uniformare

le condizioni delle persone con storia di migrazione ad un unico modello, ad

un unico indicatore, ricondurre le persone con storia di migrazione alla

stessa “etichetta” sarebbe un clamoroso errore concettuale.

Per operare in termini inclusivi nel contesto della città bisogna aumentare

la consapevolezza della peculiarità che contraddistingue il fenomeno

migratorio: si tratta di un processo complesso ma irrinunciabile, imperituro

come tutti i cambiamenti culturali, il quale, attraverso il consolidamento di

una cultura della diversità dei nostri contesti urbani e cittadini conduce alla

vera inclusione delle persone con storia di migrazione.

58

59

CAPITOLO 3

Uno sguardo Nazionale - L’apprendimento della lingua italiana come

L2 nella Scuola: dagli approcci alle pratiche inclusive

(di Ester Pasquato)

Del resto bisognerebbe intendersi su

cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a

rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non

parla come loro. O per bocciarlo. (Lettera a una Professoressa)

3.1. Premessa

Una società complessa, com’è quella in cui viviamo, esige un sistema di

pensiero a sua volta complesso, ovvero flessibile e sfaccettato, in cui la

conoscenza delle lingue riveste un ruolo essenziale. Ma poiché lo stesso

concetto del “sapere una lingua” non può più essere univocamente inteso

(dalla più rudimentale inter-comprensione alla padronanza delle

microlingue scientifico-professionali), è necessario che anche la

glottodidattica, ovvero quella disciplina che si occupa dello studio dei

comportamenti linguistici e delle metodologie di acquisizione delle lingue, si

adegui. Essa dovrà prediligere, oltre la mera competenza linguistica, lo

sviluppo di quei processi di comprensione, produzione e interazione che,

nella prospettiva di una società globale, contribuiscono alla realizzazione

degli obiettivi, perlopiù extra-linguistici, di ogni individuo. Al limite, se la

Scuola deve preparare alla vita, il fine «immediato da ricordare minuto per

minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere. E non basta certo l’italiano,

che nel mondo non conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche

al di là delle frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tutte vive […]

Bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola.

Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare»82. Il buon

82 SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, pp. 94-95.

60

insegnante di Italiano come L2 (Lingua Seconda) sarà allora colei/colui che

maggiormente saprà coltivare, nei propri discenti, una capacità di

apprendimento autonomo e auto-responsabile, orientato in primo luogo alla

comunicazione.

In tale senso mi è parso opportuno inserire, in apertura del capitolo, una

citazione tratta da Lettera a una Professoressa in cui si esplicita l’essenza

pedagogica di Don Milani. Le persone povere e oppresse, figlie e figli di

contadini e operai italiani della scuola di Barbiana negli anni Cinquanta e

Sessanta sono infatti assimilabili alle figlie e ai figli delle persone con storia

di migrazione che incontriamo, in sempre maggiori percentuali, nelle nostre

scuole. Allo stesso modo, per gli uni in passato e per gli altri oggi, l’italiano

standard non rappresenta la lingua madre ma una lingua altra. La principale

lezione che possiamo trarre dall’esperienza di Don Milani è dunque che solo

attraverso l’apprendimento della lingua italiana si schiude la possibilità di

liberarsi dalla propria condizione di sfruttamento ed emarginazione e

riacquisire, così, i propri diritti fondamentali. Se infatti «è solo la lingua che

fa eguali. Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui»83, la

padronanza di essa diventa imprescindibile strumento di democrazia. Un

agire sociale che, passando per le istituzioni, effettivamente punti

all’uguaglianza e all’integrazione di tutte le sue attrici ed i suoi attori

dovrebbe pertanto garantire alle persone con storia di migrazione, cittadine

e cittadini stranieri in uno stato democratico, la possibilità di rendersi artefici

del proprio progetto di vita.

Se infatti consideriamo, a ragione, la lingua come dispositivo

d’identificazione non solo sociale e culturale ma anche politico, è evidente

che una pianificazione linguistica risulterà ineludibile per chi governa

(soprattutto nel caso di società bilingui). Rifacendomi a uno studio84 di

Matteo Santipolo, individuerei, sulla base del pubblico a cui sono rivolte

(minoranze linguistiche storiche, minoranze linguistiche recenti e italiani),

83 Ivi, p. 96. 84 M. SANTIPOLO, Dalla sociolinguistica alla glottodidattica, Torino, UTET, 2002, pp.57-85.

61

tre primarie linee d’azione cui la politica linguistica, in Italia, può essere

improntata:

1. Relativismo culturale, secondo cui ogni cultura risponde in maniera

distinta ma adeguata ai bisogni naturali e va pertanto rispettata.

Produce situazioni di scarsa integrazione, in cui si tutela unicamente

il diritto altrui ad esistere;

2. Tolleranza, ovvero un atteggiamento di indulgenza nei riguardi dei

comportamenti o delle idee altrui, senza che ciò sfoci in un’effettiva

comprensione. Si rivela, alla lunga, poco efficace;

3. Interesse per il diverso, nasce dalla convinzione che la conoscenza

di una cultura, di un modo di pensare distinti dai propri, possa essere

fonte di arricchimento personale;

4. Accettazione del diverso è l’atteggiamento di più profonda e genuina

condivisione di modelli culturali “altri”, il solo che possa produrre

un’effettiva integrazione nel tessuto sociale.

Mi pare che questa distinzione, dove ogni livello può rimanere un

compartimento stagno o evolversi in quello superiore, possa essere

facilmente applicabile anche in contesti più ampi – come nelle relazioni

internazionali – o più ridotti - dalle dinamiche dei gruppi sociali ai più

semplici rapporti tra singoli individui. In questo senso, ho appreso dalla mia

esperienza di insegnante di Italiano L2 come il micro-cosmo di una classe,

se consapevolmente guidato, possa diventare il banco di prova per

costruire, a partire dalla pluralità linguistica, una pluralità culturale fondata

sull’inclusione.

3.2. Il mondo delle idee: tra normativa nazionale…

In un’ottica “platoneggiante”, si potrebbe distinguere tra il mondo

iperuranico delle Idee, le cosiddette dichiarazioni di principio contenute nei

testi normativi e nelle teorie, e il loro riflesso nella pratica terrena, che è la

concreta realizzazione di tali politiche inclusive.

Assumendo come ormai assodato «il diritto del minore all’istruzione»,

sancito dall’ultima legge nazionale sull’immigrazione (L. 40/1998) come

62

obbligo scolastico vincolante per tutti i minori (indipendentemente dalla

condizione di regolarità) presenti sul territorio, proporrei brevemente in

rassegna le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione di alunni stranieri

del Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca risalenti al

Febbraio 2014. Esse, elaborate a partire dalla prima stesura del 2006,

definiscono il quadro istituzionale all’interno del quale si muovono le diverse

attrici e i diversi attori della Scuola italiana, nonché delle realtà (centri di

formazione, Cooperative, etc.) ad essa parallele, e si basano

essenzialmente sul riconoscimento delle/dei minori stranieri come persone,

titolari di diritti e di doveri indipendentemente dalla provenienza geografica

e culturale. Come esplicitato infatti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani del 1948 all'art. 2: «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le

libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per

ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di opinione politica o di altro

genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra

condizione.» Tali irrinunciabili principi sono poi confermati dalla

Convenzione sui diritti dell'infanzia del 1989, ratificata dall'Italia nel 1991. Il

modello di scuola che vi si prospetta è quella di luogo deputato

all’educazione interculturale che «rifiuta sia la logica dell'assimilazione, sia

quella di una convivenza tra comunità etniche chiuse ed è orientata a

favorire il confronto, il dialogo, il reciproco riconoscimento e arricchimento

delle persone nel rispetto delle diverse identità ed appartenenze e delle

pluralità di esperienze spesso multidimensionali di ciascuno, italiano e

non». Particolarmente significativa la specificazione che l’educazione

interculturale, in quanto trama educativa ordinaria, debba investire i

curricola scolastici anche laddove non vi sia presenza di alunne e alunni

stranieri (C.M. 205/1990). Compito principe della scuola diventa dunque la

formazione di cittadine e cittadini del mondo responsabili, che operino

all’insegna dei valori condivisi di pace e uguaglianza.

Segue una breve disamina sull’identificazione di particolari gruppi o

situazioni di alunne e alunni (con cittadinanza non italiana, con ambiente

familiare non italofono, figlie/figli di coppie miste, minori non accompagnati,

63

arrivati per adozione internazionale, rom, sinti e caminanti, universitari con

cittadinanza straniera) cui corrispondono altrettante possibili criticità di

inserimento o apprendimento della lingua italiana. Si punta infine

l’attenzione su due questioni particolarmente delicate verso cui attivare

nuove strategie di risoluzione, quali: lo sviluppo della scolarizzazione nel

secondo ciclo, in cui si riscontra un maggiore rischio di insuccesso e

dispersione scolastica nonché di scelte di percorso dettate più dalle

condizioni di svantaggio socio-economico che dalle effettive vocazioni e

potenzialità della studentessa/dello studente; l’esigenza di una riforma della

normativa sull’acquisizione della cittadinanza che semplifichi le procedure

adeguandosi all’odierna realtà migratoria (l’ultima legge è infatti datata

1992).

La seconda parte delle Linee guida è invece dedicata a fornire alcune

indicazioni operative utili a realizzare tale modello di scuola inter-culturale

inclusiva, mediante l’individuazione e la cura di alcune aree chiave quali:

1. Un’equilibrata distribuzione nelle scuole delle alunne e degli alunni

stranieri, che favorisca l’eterogeneità delle nazionalità nella

composizione delle classi ed eviti, in quanto segregante, la forte

concentrazione di studentesse e studenti stranieri in determinate

scuole;

2. Il momento dell’accoglienza (la gestione delle iscrizioni e la

presentazione di idonea documentazione) in cui si formalizza il

rapporto dell’alunna/alunno con l’istituzione scolastica;

3. Il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie, che può

prevedere l’intervento di mediatrici e mediatori linguistici, la

creazione di un foglio informativo tradotto in varie lingue, l’eventuale

creazione di associazioni di genitori;

4. La valutazione, che va modulata sulla base del complesso percorso

umano e di apprendimento della singola studentessa/del singolo

studente nonché della sua storia scolastica pregressa;

64

5. L’orientamento nel passaggio dalla scuola secondaria di primo

grado a quella di secondo grado allo scopo anche di contrastare i

ritardi scolastici;

6. L’insegnamento della lingua italiana come lingua seconda, che

esige un intervento didattico specifico sia per quanto concerne la

lingua di comunicazione (laboratori linguistici) sia per quella

veicolare di studio;

7. La formazione del personale scolastico, in ingresso e in itinere, in

riferimento al tema inter-culturale;

8. L’istruzione delle persone adulte attraverso percorsi integrati tra

istruzione scolastica e formazione professionale per ridurre il rischio

di abbandoni e favorire la riqualificazione di chi si trova escluso dal

mercato del lavoro; la predisposizione inoltre di un Portale

Integrazione Migranti, per assicurare una corretta informazione

delle cittadine e dei cittadini stranieri sui servizi offerti dal territorio e

di programmi di istruzione e formazione nei paesi d’origine delle

cittadine e dei cittadini extracomunitari, come potenziale coefficiente

di valorizzazione della scolarità.

Nel corso della mia attività “sul campo” (dal 2010 al 2017, salvo alcune

interruzioni), quale facilitatrice linguistica con alunne ed alunni della scuola

primaria e secondaria di primo grado, e quale docente di Italiano in scuole

secondarie di secondo grado, ho potuto osservare come, nell’attuazione di

tali indicazioni ministeriali, emergano una serie di criticità che rallentano il

processo inclusivo dei discenti di origine straniera nelle classi.

Una prima discrepanza, che ho potuto riscontrare soprattutto nella scuola

secondaria, riguarda l’applicazione della normativa (C.M. 205/1990) che

vorrebbe l’inserimento dell’alunna straniera/alunno straniero in una classe

coerente con la sua età anagrafica e il suo percorso scolastico precedente.

Spesso, infatti, si predilige un criterio di presunta facilitazione

dell’alfabetizzazione linguistica, inserendo le alunne e gli alunni in classi

inferiori anche di due o tre anni e relegando sullo sfondo l’importanza

65

psicologica, soprattutto in adolescenza, di sentirsi “uguali” agli altri. Ciò ha

invece l’effetto di approfondire il solco di disagio emotivo, interferendo

negativamente anche a livello di apprendimento. È infatti ormai noto, grazie

agli studi neuro-linguistici e psico-linguistici85, che il processo di

acquisizione linguistica coinvolge entrambe le aree del cervello (quella

destra, con modalità contestualizzante e olistica e quella sinistra, con

modalità analitica e formale). Il principio della direzionalità sancisce quindi

che le informazioni passino tra i due emisferi secondo una precisa

direzione, ovvero da quello destro a quello sinistro e, di conseguenza, la

motivazione e il coinvolgimento affettivo sono alla base di un apprendimento

strutturato e duraturo.

In secondo luogo, a proposito della creazione di laboratori linguistici, nelle

linee guida si legge: «Per rispondere ai bisogni linguistici degli alunni

stranieri non italofoni l’esperienza consolidata ci dice che sono necessari

tempi, strumenti, risorse di qualità. In particolare, nella prima fase, un

intervento efficace dovrebbe prevedere circa 8-10 ore settimanali dedicate

all’italiano L2 (circa due ore al giorno) per una durata di 3-4 mesi […] Per

imparare rapidamente la lingua italiana l’alunno straniero deve anzitutto

essere inserito nella classe di appartenenza. Ma lo strumento essenziale

per realizzare una partecipazione attiva è costituito dai laboratori linguistici

che restano l’anello decisivo di tutto il sistema dell’integrazione».

Di norma i laboratori, in quanto finanziati dal Comune sulla base della

presentazione di un progetto da parte di Cooperative o di altri enti,

richiedono tempi abbastanza lunghi per essere attivati e iniziano quindi, nel

migliore dei casi, poco prima delle festività natalizie. La facilitatrice/il

facilitatore si trova quindi inserito in un contesto scolastico “a regime”, dove

le dinamiche interne di una classe e tra le diverse classi sono già

consolidate. Le ore destinate ai laboratori linguistici sono al massimo un

paio alla settimana per ogni gruppo e gli spazi sono risicati (spesso mi sono

trovata a fare lezione nei corridoi con effetti assai deleteri sulla già labile

85 Cfr. M. DANESI, Il cervello in aula, Perugia, Guerra, 1998 e G. FREDDI, Psicolinguistica, sociolinguistica, glottodidattica. La formazione di base dell’insegnante di lingue e di lettere, Torino, UTET, 1999.

66

concentrazione di bambine e bambini e di adolescenti). Non di rado, inoltre,

si riscontra una certa resistenza, da parte dei docenti di ruolo, a “cedere”

durante le loro ore di lezione le alunne e gli alunni, ritenendo essi il

laboratorio linguistico un’inutile perdita di tempo, quasi una ricreazione

superflua.

Il laboratorio L2 dovrebbe essere un luogo privilegiato dove la

facilitatrice/il facilitatore fornisce coerenza e struttura a quanto la

studentessa/lo studente acquisisce nel suo percorso scolastico e nella vita

quotidiana, colmando eventuali lacune d’informazione con attività

comunicative, che non sono il mero ripasso/rinforzo di quanto già affrontato

in classe. È una chimera, a mio avviso, pretendere – come vorrebbero le

indicazioni ministeriali - che ogni docente si trasformi in una facilitatrice/un

facilitatore linguistica/o per la propria materia, fornendo per lunghi periodi

un surplus di «attenzioni mirate e forme molteplici di facilitazione». La

numerosità di una classe permette a un insegnante, al massimo, di

individuare, sulla base di alcune caratteristiche comuni, dei sottogruppi su

cui tarare determinati input, cui assegnare compiti differenziati e adeguati

recuperi. Con un gruppo ridotto di studentesse e studenti culturalmente e

linguisticamente ben caratterizzati, si definiscono invece più nitidamente,

sia a livello qualitativo che quantitativo, le differenze. Si possono inoltre

agevolmente rilevare eventuali problematiche inerenti le relazioni con il

gruppo e le/gli insegnanti di classe, il ruolo di supporto o di ostacolo

all’apprendimento dell’italiano che il reticolo di amicizie italiane ed etniche

svolgono, la vischiosità della comunità d’appartenenza e le barriere/gli

stimoli del contesto istituzionale. Per dirla con le parole di Paolo Balboni:

«La didattica laboratoriale si presta particolarmente alla cosiddetta

pedagogia ecologica, che non considera solo lo studente (con le sue

caratteristiche emozionali, cognitive, con la sua traumatica storia personale

di bilinguismo imposto), ma considera: il microsistema, il mesosistema,

l’ecosistema»86 (riferendosi, con questi termini, agli elementi

86 P. BALBONI, Le sfide di Babele, Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, UTET, 2017, p.235.

67

precedentemente esposti: la relazioni all’interno del contesto scolastico,

della comunità d’origine, delle strutture istituzionali). In una situazione

laboratoriale, dove tutti le studentesse e gli studenti condividono il

medesimo obiettivo - la costruzione di una competenza sempre più

esaustiva ed affidabile in italiano – la facilitatrice/il facilitatore ha

effettivamente la possibilità di impostare la propria didattica secondo una

logica cooperativa e personalizzata nell’assegnazione dei compiti e nella

valutazione dei risultati. La personalizzazione della didattica è naturale nella

misura in cui in un laboratorio convergono, perlopiù, studentesse e studenti

di origine linguistica e culturale differenziata, con percorsi di vita e di

formazione distinti che, a partire da un input comune, raggiungeranno

presumibilmente risultati diversi. Ed è proprio nel cercare un linguaggio

comune, spesso fatto di gesti o disegni o canzoni, per raggiungere

efficacemente ogni alunna/alunno, che risiede la più emozionante sfida e la

più gratificante soddisfazione di questo lavoro.

Infine, per quanto riguarda la formazione del personale, la normativa

(C.M. 73/1994) suggerirebbe la creazione presso i Provveditorati agli studi

e le scuole di appositi “Gruppi di lavoro” allo scopo di sensibilizzare,

informare e formare gli insegnanti sulle dinamiche e le strategie di

interazione culturale. Tuttavia, ad oggi, non risulta la costituzione

permanente di tale commissione interculturale in tutti i provveditorati e solo

poche istituzione scolastiche ne risultano dotate. Così come, nonostante il

riconoscimento (L. 40/1998) del ruolo fondante di facilitatrici/facilitatori

linguistici e mediatrici/mediatori culturali nei processi di trasformazione della

scuola in vista di una più consapevole valorizzazione della lingua e della

cultura d’origine delle studentesse e degli studenti stranieri, la loro presenza

appare, di fatto, ancora troppo poco capillare.

3.3. …e approcci didattici

Poiché la glottodidattica è una scienza teorico-pratica, che attinge

conoscenze da diverse aree scientifiche (scienze del linguaggio e della

comunicazione, scienze della cultura e della società, scienze psicologiche,

scienze della formazione), un didatta dovrebbe possedere un bagaglio

68

minimo di nozioni che spazino tra le suddette discipline e, soprattutto,

essere consapevole che la scelta di un approccio implica un preciso

riferimento a una filosofia di fondo. Infatti, solo a partire da una precisa idea

di studente, di insegnante, di lingua, di cultura, si può articolare un percorso

coerente al proprio interno ed efficace nei risultati.

Per quanto concerne l’insegnamento delle lingue, e in particolare

dell’Italiano come L2, si sono succeduti molteplici approcci nella scuola

italiana a partire dal secondo dopoguerra. Nella mia breve carriera di

docente, ho avuto modo di sperimentarne alcuni, constatando come, in

effetti, essi vadano modulati non solo sulla base delle proprie personali

inclinazioni ma, soprattutto, sulla tipologia di utenza (percorso scolastico

precedente, età, tratti caratteriali e modalità di apprendimento). Ne proporrò

di seguito una breve descrizione, che non ha la pretesa di essere esaustiva,

ma di chiarire alcuni punti di forza e di debolezza di ciascuno per arrivare

quindi a concludere quale tra essi debba essere privilegiato nel veicolare

un tipo di apprendimento più inclusivo:

- L’approccio formalistico trova la sua radice ultima nel tardo

Rinascimento, quando l’apprendimento del latino - nelle scuole

ecclesiastiche - attraverso lo studio di regole sintattico-grammaticali

e di lunghe liste di vocaboli, diventa modello per l’apprendimento di

ogni altra lingua moderna. La dimensione scritta è predominante e la

traduzione considerata strumento esercitativo per eccellenza. I due

poli dell’educazione, docente e studentessa/studente, risultano

quindi svuotati di ogni elemento culturale o personale assumendo,

rispettivamente, le sembianze di giudice della corretta applicazione

delle norme e tabula rasa da plasmare attraverso la trasmissione di

precise nozioni.

- L’approccio naturale, che fiorisce nella seconda metà dell’Ottocento

e trova un esponente di spicco in Maximilian Berlitz (da cui l’omonimo

metodo), si focalizza invece principalmente sulla lingua come

strumento di comunicazione, privilegiando quindi la dimensione orale

69

(fonetica, fonologia). La studentessa/lo studente va motivato e reso

autonomo nel suo apprendimento, che avviene principalmente

mediante conversazioni e lezioni tematiche, mentre la/il docente,

perlopiù madrelingua, diventa una sorta di regista.

- L’approccio strutturalista, diffuso soprattutto negli anni Cinquanta e

Sessanta, nasce dall’idea che la lingua sia un reticolo di micro-

strutture, per cui l’apprendimento risulterà dalla ripetizione di serie

intensive di pattern drills (esercizi strutturali). La memorizzazione

forzata genererebbe quindi, secondo le teorie comportamentiste

dell’epoca, lingua in maniera spontanea. In questo contesto la

studentessa/lo studente appare, ancora una volta, come tabula rasa

mentre la/il docente è la mera somministratrice/il mero

somministratore di batterie di esercizi strutturali.

- L’approccio comunicativo, che trova una spinta propulsiva nella

pubblicazione di How to Do Things With Words di John L. Austin nel

1962, accentua la natura pragmatica della lingua ovvero la sua

primaria funzione comunicativa. La lingua serve, dunque, soprattutto

per agire nel mondo mentre la dettagliata conoscenza dei suoi

aspetti formali e normativi scivola in secondo piano. Viene creato un

repertorio di communicative functions e vengono individuati dei livelli

omogenei di competenza comunicativa tra le diverse lingue, dove «la

competenza comunicativa è una realtà mentale che si realizza come

esecuzione del mondo, in eventi comunicativi realizzati in contesti

sociali dove chi usa la lingua compie un’azione»87. Va inoltre

specificato che la competenza comunicativa si compone, in effetti, di

tre sotto-competenze: linguistica (fonologia, morfologia, sintassi,

semantica) extralinguistica (cinesica, prossemica, oggettuale) e

socio-pragmatica (uso delle funzioni comunicative: personale,

interpersonale, etc.). La studentessa/Lo studente riacquista così un

proprio spessore in quanto individuo portatrice/portatore di un

87 P. BALBONI, Le sfide di Babele, Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, UTET, 2017, p.34.

70

bagaglio di pre-conoscenze sul mondo mentre la/il docente non è più

protagonista ma guida dell’apprendimento linguistico.

3.4. Il mondo dell’azione: strumenti operativi e tecniche didattiche

Attraverso un’analisi storica degli approcci, quale ho sommariamente

esposto, emerge come il percorso evolutivo della glottodidattica si sia

mosso in direzione di un sempre maggiore coinvolgimento della sfera

emotiva e socio-culturale. D’altra parte, solo dalla sperimentazione pratica

può nascere una conferma della bontà o una falsificazione dei presupposti

teorici. Definiamo dunque metodo la realizzazione dell’approccio tramite

procedure operative quali, ad esempio, l’organizzazione del curricolo, la

definizione di livelli, l’individuazione di strumenti di verifica e certificazione.

Le tecniche didattiche sono invece quell’insieme di attività ed esercizi,

selezionati dalla/dal docente tra una vasta gamma di possibilità, utili a

trasformare il metodo in azione.

Da un lato si è ritenuto, grazie anche ai contributi della psicologia

umanistica88, più efficace un metodo che si fondi sull’integrazione della

doppia natura, razionale ed emotiva, dell’uomo. Se infatti l’apprendimento,

a un livello superficiale, passa necessariamente per l’analisi logica e

formale degli elementi significanti di una lingua, la radice ultima di

un’acquisizione duratura risiede invece nella rilevazione, da parte della/del

discente, di un significato. Tale significato va inteso sia come il valore,

l’effettiva utilità dei contenuti appresi rispetto al proprio progetto di vita, sia

come costruzione di una relazione significativa con una/un docente capace

di tener conto dei bisogni dell’apprendente e negoziare, sulla base di essi,

specifiche modalità didattiche.

Dall’altro si sono valorizzate le regole socio-culturali della vita quotidiana,

indispensabili a una corretta comunicazione nei diversi contesti, e si è

presentata la lingua non più come invariabile monolite ma come un flusso

continuo di varietà geografiche e di registro, quali effettivamente si

88 Cfr. J. BRUNER, Toward a Theory of Instruction, Cambridge – Massachusetts, Belknap Press of Harvard University, 1966 e C. ROGERS, Freedom to Learn, Columbus - Ohio, Charles E. Merril Publishing Company, 1969

71

riscontrano nella vita reale. Ne consegue, evidentemente, la possibilità di

un più radicato inserimento nel tessuto sociale da parte della/del discente,

resa/o consapevole di tutte quelle regole non scritte ma essenziali (legate,

magari, all’abbigliamento, all’uso di particolari oggetti, ai gesti rituali che

accompagnano gli eventi più importanti, etc.) che dominano il campo delle

relazioni inter-personali.

Questa duplice attenzione ha quindi trovato applicazione sostanziale in

una serie di tecniche didattiche che prevedono, oltre ad attività di ascolto e

comprensione dei testi, una costante interazione tra le studentesse/gli

studenti (come singoli, a coppie o a squadre). Va inoltre sottolineato che se

ogni discente è dotato di un tipo di intelligenza89 ovvero di stili cognitivi

diversi, l’approccio comunicativo è quello che meglio si presta a una

differenziazione delle attività didattiche e, dunque, alla messa in luce delle

potenzialità individuali.

Per quanto riguarda le abilità ricettive (ascolto/lettura), risultano

particolarmente efficaci: l’ascolto di canzoni, che sono la principale

esperienza letteraria per i giovani, in italiano e in lingua straniera su cui

elaborare poi una serie di attività; la visione di (sequenze di) film o testi

pubblicitari o telegiornali su cui condurre un’analisi che preveda, oltre

all’approfondimento degli aspetti linguistici, anche la discussione dei

riferimenti culturali.

Per sviluppare le abilità produttive (scritte o orali), si possono invece

prevedere: attività di drammatizzazione, più o meno guidata, dove, dalla

semplice ripetizione di un copione, si può giungere alla costruzione creativa

di un dialogo a partire da una situazione; interviste impossibili con

personaggi della storia letteraria; monologhi come narrazioni di una storia

creata dalle studentesse/degli studenti o della propria autobiografia, magari

con un cambiamento di genere o registro; la stesura di un romanzo

89 Lo psicologo statunitense Howard Gardner in Frames of Mind: The Theory pf Multiple Intelligences (1984) individua infatti sette/nove tipi di intelligenze (linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, cinestetica, inter/intrapersonale) presenti, in combinazioni e proporzioni diverse, in ogni individuo. Ognuna di esse è deputata a differenti settori dell’attività umana.

72

collettivo, che, una volta stabilita la struttura portante, cresce per accumulo,

con il contributo di ciascuno.

Le tecniche ludiche, in quanto sostenute da una motivazione basata sul

piacere, possono rivelarsi assai preziose per l’acquisizione delle più ostiche

regole grammaticali90. Il gioco, infatti, crea una situazione assai favorevole

all’apprendimento in quanto la mente si focalizza sul successo in esso

piuttosto che sul più difficile traguardo linguistico, attivando una proficua

cooperazione tra intelligenza analitica ed emotiva. Esso giustifica, inoltre, la

necessaria ripetitività che porta all’interiorizzazione di alcune regole. Si

possono dunque trasformare esercizi strutturali e manipolativi in partite a

dadi o a tris, sfruttare giochi a schema per l’esecuzione di determinati

compiti linguistici o presentare l’analisi morfosintattica come una gara di

velocità a coppie o in gruppi più corposi.

Non va infine trascurato il momento della valutazione, da intendersi come

canale privilegiato di comunicazione tra apprendente e docente in cui la

prima/il primo manifesta i propri progressi e le proprie difficoltà e la

seconda/il secondo riceve un feedback sui risultati raggiunti e l’efficacia

delle proprie modalità didattiche. Risulta, pertanto, proficuo un monitoraggio

costante dell’effettiva acquisizione degli obiettivi linguistici per evitare

l’accumulo di lacune ed eventuali fallimenti nella comunicazione, scopo

primario dell’apprendimento linguistico. La valutazione è, infatti, un

processo globale che, come descritto da Porcelli, consiste nella

«interpretazione degli esiti delle verifiche alla luce della storia personale

dell’allievo»91. Nel caso di apprendimento di una lingua seconda, la

valutazione riveste un ruolo ancora più cruciale in quanto strettamente

connesso alla possibilità di inserimento nel contesto scolastico di un/una

discente con una storia di migrazione. Essa andrebbe dunque differenziata,

rispetto al resto della classe, sulla base dei bisogni e delle strategie di

apprendimento dell’apprendente straniera/straniero al fine di poter

90Cfr. E.M.DUSO, Dalla teoria alla pratica: la grammatica nella classe di Italiano L2, Roma, Aracne, 2007. 91 G. PORCELLI, Educazione linguistica e valutazione, Padova, Liviana, 1992, p. 32.

73

giudicare i risultati raggiunti, coerentemente con il programma, ed evitare

ricadute negative sull’autostima92.

3.5. Conclusioni

La panoramica teorico-metodologica fin qui tratteggiata è, in linea di

massima, applicabile a tutti i casi di insegnamento di una lingua straniera.

Ma ciò che essenzialmente differenzia una Lingua Seconda (L2) da una

Lingua Straniera (LS) è il fatto che essa viene appresa nel medesimo

ambiente in cui si insegna, per cui non è più la docente/il docente a

selezionare e graduare i contenuti da trasmettere ma è la vita quotidiana,

casualmente, a fornire alla studentessa/allo studente con storia di

migrazione quegli stralci di lingua elaborati poi nel Laboratorio di Italiano.

L’insegnante non è più, quindi, l’unica fonte linguistica e la L2 diventa

strumento basilare di comunicazione, in quanto unica lingua condivisa dalla

classe.

L’inclusività che la didattica dell’Italiano L2 all’interno del contesto

scolastico dovrebbe dunque perseguire si situa, a mio avviso, su livelli

distinti: in generale essa dovrebbe guardare all’individuo nella sua globalità,

cercando di integrare, nell’apprendimento, la dimensione affettiva (il piacere

di comunicare e di scoprire una nuova lingua) e quella logica (i bisogni

professionali, esistenziali, etc.); in secondo luogo dovrebbe offrire una

sufficiente varietà di attività in modo da coinvolgere efficacemente tutte/tutti

le studentesse/gli studenti (ciascuno con la propria intelligenza e il proprio

stile cognitivo); infine dovrebbe valorizzare il contributo che ogni studente,

in quanto veicolo di una storia unica e irripetibile, può dare alla costruzione

di una scuola – una società del futuro – interculturale.

A tale proposito, illuminante è stato il percorso accessibile realizzato

all’interno della mostra “I colori del sacro: il corpo” allestita presso il Museo

Diocesano e illustrato dal prof. Nicola Orio. Sostiene Orio infatti che il

segreto affinché una tecnologia abbia un impatto durevole nel tempo, è che

92 Cfr. A. NOVELLO, La valutazione delle lingue straniere e seconde nella scuola. Dalla teoria alla pratica. http://edizionicafoscari.unive.it/en/edizioni/collane/sail/, 2014.

74

essa non vada impiegata ad hoc per una particolare categoria di utenza ma

resa potenzialmente fruibile dall’intero pubblico. Solo in questo modo è

possibile da un lato sopperire ai costi economici aggiuntivi che la

progettazione e la gestione di tali tecnologie richiede, dall’altro evitare la

stigmatizzazione di alcune categorie di persone con esigenze ed abilità

specifiche. Ma il vantaggio maggiore si riflette, alla fine, sull’intera comunità,

cui viene offerta la straordinaria opportunità di sperimentare un approccio

multi-sensoriale alle opere stesse.

Focalizzerei, a questo punto, l’attenzione sulla necessaria

complementarità, nella scuola, delle figure-ponte descritte nei precedenti

paragrafi: la mediatrice/il mediatore, di livello culturale alto e di una certa

autorevolezza presso la comunità d’origine, riveste un’importanza cruciale

soprattutto nelle prime fasi di integrazione di una studentessa/uno studente

neo-arrivata/o; la facilitatrice/il facilitatore linguistico invece, perlopiù

madrelingua italiana/o, ha il compito di traghettare le proprie/i propri discenti

nel tortuoso percorso di apprendimento della lingua italiana, elaborando

strategie per graduare, scomporre le difficoltà naturalmente incontrate. La

“facilitazione” mira a consolidare, nell’apprendente, la capacità di

comprendere e comunicare in modo autonomo contenuti autentici. Essa ha

dunque, rispetto alla “semplificazione”, una portata più ampia in quanto

propone attività matetiche utili trasversalmente a tutte le materie e

fruttuosamente spendibili da tutte/i le studentesse/gli studenti, italofone/i e

non (un investimento, dunque, economicamente sostenibile nel tempo).

Concluderei richiamando l’affascinante ipotesi Sapir – Whorf, elaborata

negli anni Trenta, sui potenziali rischi che tutte le forme di “etichettamento”

possono ingenerare. Esse possono infatti incidere, già a livello linguistico,

sulla creazione di barriere o, viceversa, sulla formazione di identità sane e

ricche. Già Ferdinand de Saussure nel 1916 definiva la lingua come «al

tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme

di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire

l’esercizio di questa facoltà negli individui»93. Se la lingua è identificabile

93 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Roma - Bari, Laterza, 1996, p.19.

75

come prodotto sociale, quindi culturale, dell’uomo, è evidente che

l’insegnamento di una lingua non può essere esclusivamente normativo ma

dovrebbe prendere in considerazione l’intero reticolo antropologico

(l’insieme di valori, comportamenti sociali, etc.), con tutte le sue

idiosincrasie, da cui la stessa è naturalmente scaturita. E se intendiamo il

rapporto lingua-cultura in senso biunivoco, sarà al limite la lingua stessa a

indurre, attraverso i suoi parlanti, una determinata interpretazione del

mondo: «Il sistema linguistico di fondo (in altre parole la grammatica) di

ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere

idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida

dell’attività mentale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni […]»94.

L’insegnamento dell’italiano come L2 si configura, a questo punto, come

strumento imprescindibile di costruzione di una visione condivisa del mondo

e, attraverso essa, di reciproca inclusione di individui appartenenti a “mondi”

diversi.

94 B.L. WHORF, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Boringhieri, 1970, p. 169.

76

77

Conclusioni generali

Il percorso concettuale fin qui tratteggiato ha messo in luce come il

fenomeno migratorio sia caratterizzato, nel suo complesso, da una

sostanziale eterogeneità perché diverse sono le cause, i contesti socio-

economici e, soprattutto, le persone che vi partecipano. Proprio perché ogni

persona è il prodotto, unico, della storia che la precede, qualsivoglia

tentativo di etichettare, categorizzare, risponde più a una necessità

intellettuale di ordine che a un effettivo rispecchiamento della realtà. Con la

consapevolezza che una soluzione univoca non sussiste, nei capitoli

precedenti si sono individuati alcuni nodi di criticità nella predisposizione di

un’accoglienza sostenibile a livello internazionale e nazionale e si sono

presentate alcune proposte che permetterebbero, forse, di realizzare una

società più equa.

Un primo passo verso l’inclusione è costituito necessariamente

dall’acquisizione della lingua, che non è solo un assemblaggio di segni e

suoni, ma la capacità di comunicare correttamente ed efficacemente in ogni

situazione. Attraverso la lingua passa la costruzione del mondo poiché essa

è in grado di influire, sul lungo periodo, sugli habitus mentali. Un linguaggio

che non appiattisca le distinzioni di genere e che valorizzi le qualità

possedute da ogni individuo anziché i suoi limiti è funzionale alla

strutturazione di un pensiero più flessibile e inclusivo, non stigmatizzante.

Le parole sono dunque necessario strumento di comprensione e auto-

determinazione di una società democratica e, tuttavia, non sono sufficienti,

come sostiene il linguista Tullio De Mauro in un’intervista del 2012:

«Sforziamoci di costruire condizioni di cultura ed economia in cui non siano

possibili la marginalizzazione e reiezione di una parte delle persone. Le

parole sono importanti, ma vengono, se non dopo, certo insieme alle cose

e alla maturazione dell’impegno per la parità di diritti»95.

Come emerge dall’analisi del progetto UNESCO e ONU-HABITAT

precedentemente esposto, solo con la formulazione di politiche concrete,

95 T. DE MAURO, SuperAbile Magazine, Roma, Febbraio 2012, p.17.

78

l’impegno individuale può generare opportunità di inclusione sostenibili nel

tempo, anziché pura assimilazione; solo se l’eccezione e la contraddizione

sono riassorbite come norma dalla rete civica, in una prospettiva di

reciproco arricchimento, le nostre realtà urbane da “magneti di speranza”

possono diventare porti sicuri e integralmente accessibili.

È un percorso complesso, impegnativo certo, ma irrinunciabile.

79

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