I film di Dario Argento

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I film di Dario Argento Roberto Lasagna & Lino Molinario LIGHT FALSOPIANO

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Da L'uccello dalle piume di cristallo a Giallo, il cinema vertiginoso e disturbante di Dario Argento

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I film di Dario ArgentoRoberto Lasagna & Lino Molinario

LIGHTFALSOPIANO

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I FILM DI

DARIOARGENTO

FALSOPIANO LIGHT

Roberto LasagnaLino Molinario

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INDICE

Introduzione 7Scorie del passato

Capitolo primo 21L’immagine che rivela

Capitolo secondo 32Stilemi di morte

Capitolo terzo 43Visioni dal margine

Capitolo quarto 50Come dentro un tunnel

Capitolo quinto 55Il posto dell’oblio

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Capitolo sesto 61“Dimenticare”

Capitolo settimo 81La fiaba ha inizio

Capitolo ottavo 93Prima della rivoluzione

Capitolo nono 104Sotto gli occhi dell’assassino

Capitolo decimo 115Iper-sensibilità

Capitolo undicesimo 130Ad occhi aperti

Capitolo dodicesimo 140Viaggio in America

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Capitolo tredicesimo 157Asia

Capitolo quattordicesimo 177Lo stato delle cose

Capitolo quindicesimo 186Il fantasma della libertà

Capitolo sedicesimo 196L’artista e il fumista

Capitolo diciassettesimo 205Il “riscatto”

Filmografia 217

Riferimenti bibliografici 220

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INTRODUZIONE

Scorie del passato

L’umana dimensione è proprio ciò che lo sguardo dell’as-sassino, incautamente riconosciuto come il “diverso”, nonriesce più a cogliere nella giusta misura, perché la realtà, esi-stenziale e sociale, è per lui, individuo disturbato, una scenaesperita quasi unicamente in chiave persecutoria. Di questadimensione umana tormentata si occupa il cinema di DarioArgento, autore “totale”, osservatore onnisciente, complicedi individui solitari e alienati. Alienato è sicuramente coluiche ha vissuto un trauma e lo rifiuta vendicandosi con ilmondo, ovvero “scaricandolo” sul sociale, fucina a sua voltadi un’“oscura malattia” che coinvolge gli abissi dell’anima.

Ci si sente testimoni attenti e smaliziati “dentro” un’ope-ra saldamente ancorata alle regole del genere, eppure prontaa disinnescare le più abitudinarie formule della fruizionespettatoriale. Tutto è meccanismo, seduzione della visione,messinscena dinamica e ipnotizzante dove il dato più intri-gante è quello che vuole lo spettatore parte in causa di unavisione che si fa “opera” nella misura di un confronto inten-so tra le attese di chi osserva un film e gli indizi disseminatidal demiurgo che conduce il gioco. Per lo spettatore è sem-pre alto il “rischio” di lasciarsi coinvolgere da sponde inatte-se, territori bradi del vedere e del sentire, istanze di comuni-

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cazione non previste dall’analisi consueta. Il personaggio,uomo o fanciulla, è sovente alter-ego del regista; come luiosserva il mondo nei suoi tratti perturbanti e cerca di analiz-zare le trame segrete di chi ordisce oscuri delitti. Le tesseredel mosaico necessitano di uno sguardo “altro” per poter tro-vare una collocazione attendibile.

I personaggi di Argento, scrittori, giornalisti, poliziotti ostudiosi di materie “sensazionali” (l’alchimia o l’esoterismoin Inferno, l’entomologia in Phenomena, l’archeologia in Laterza madre), conducono in solitudine la loro “indagine”,perché sono in pochi ad apprezzarne le buone intenzioni, o acredere nella loro versione dei fatti. Un percorso che in alcu-ni film segue l’impronta di una detection più o meno ritualeper divenire sovente luogo di sovvertimento dell’indaginetradizionale, grazie all’intervento di figure inconsuete o addi-rittura tramite l’ausilio di capacità telepatiche o dimensioniparallele della ricerca.

Il film e la detection vedono allora dissiparsi il filo dellalogica tradizionale, perché trova spazio la luce dell’inatteso,del non compreso secondo i canoni ordinari di interpretazio-ne.

Il film diventa in questo senso la documentazione visio-naria e fantastica dei balletti mostrati dal regista, vero rabdo-mante della visione in un’Italia votata al culto del realismo eancora inibita in fatto di visioni fantastiche. Nondimeno, ilcinema di Argento conserva il fascino espressivo di unadomanda realista in quasi tutte le sue prove più significative.Dopo tutto, l’esordio come soggettista a fianco di Bernardo

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Bertolucci e Sergio Leone per C’era una volta il west evocal’inevitabile avvio in un contesto espressivo in cui il realismoha la sua importanza a fianco di una rivisitazione nostalgicae autoriflessiva dei miti del cinema e in presenza di unameditazione sulla fine di un’epoca. Siamo al tramonto del-l’epopea, dell’individuo eroico con lo sguardo integerrimo diHenry Fonda. Adesso Henry Fonda, l’interprete fordianopaladino delle sacre virtù, nello scenario di C’era una voltail west punta il grilletto della sua pistola contro un bambinoe non esita a sparare a sangue freddo e senza una motivazio-ne se non il culto dell’oppressione. Il “male” è nella man-canza di una moralità, e questo assioma d’ora innanzi popo-lerà il cinema del giovane regista Dario Argento. Il quale, dapar suo, eredita la lezione dei maestri che in quegli anni muo-vono gli ultimi passi sulla “scena del delitto”. In questa luce,si è parlato e scritto a lungo dell’influenza hitchcockiana sul-l’opera del regista italiano. Un’influenza dichiarata dal regi-sta e ribadita dai frequenti omaggi al maestro londinese.Citazioni e “sviluppi” narrativi dal dichiarato sapore hitch-cockiano sono infatti disseminati lungo tutta la filmografia diArgento. Dal finto assassino con il coltello in pugno inQuattro mosche di velluto grigio, dove lo sfortunato prota-gonista si trova a vivere in una situazione analoga a quellasperimentata dal Cary Grant di Intrigo Internazionale, pas-sando per gli sdoppiamenti di personalità in stile Psycho dimolti personaggi argentiani (Quattro mosche di velluto gri-gio, Profondo rosso, Tenebre), per approdare alle figure fem-minili che “vissero due volte” (Tenebre, La sindrome di

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Stendhal), i molti rimandi al cinema di Hitchcock funziona-no da spunto drammatico ma rappresentano sovente gli ele-menti fondamentali del linguaggio. Anche quando la citazio-ne non sembra clamorosa, ma rimane un po’ nascosta, asse-conda un ruolo “chiarificatore”. L’influenza hitchcockiana sifa dunque palese nel linguaggio, nelle sequenze esemplaridove avvengono i ribaltamenti di identità e i travestimentipiù celebri, nelle comuni tematiche della gabbia e dell’im-prigionamento e perfino nel décor, memore in Argento dimolto cinema hitchcockiano degli anni Sessanta e del model-lo prediletto rappresentato da La finestra sul cortile, il filmche rappresenta la più esemplare messinscena delle pulsionipiù o meno inconfessate che si agitano in un microcosmoosservato dal più archetipico tra gli osservatori che popolanol’universo hitchcockiano-argentiano.

La scena è ancora e sempre quella del delitto, perchéqualcuno continua a voler insabbiare le tracce di un gestotraumatico che ha lasciato scorie in un presente perturbato. Ilreale è da leggere attraverso la lente deformante del succe-dersi di avvenimenti la cui ripetitività può essere anche daostacolo all’interpretazione. Tutto prende le mosse da unoscuro delitto, da un fatto sottaciuto o rimosso, ma qualcheindividuo dotato di una sensibilità fuori dall’ordinario puòridestare il sonno della memoria. Nel caso di Dario Argento,il ricorso al termine freudiano “perturbante” è divenuto pre-sto un’abitudine della critica, che da tale direzione interpre-tativa lascia derivare i suoi immancabili significati. Il suomondo espressivo è esemplarmente interpretabile secondo la

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psicoanalisi, almeno per film come Profondo rosso e Opera,dove la scena rappresenta fantasmi della psiche, e le incur-sioni nel fantastico, o nel delirio allucinatorio, sono testimo-nianza di un percorso che mentre scandaglia le cicatrici del-l’ordinarietà si proietta poi in un altro mondo, visibilmente lostesso che appare ai nostri occhi eppure sollecitato dalle sug-gestioni estetiche di un frequentatore di Hitchcock e dell’e-spressionismo cinematografico, fonti rilette e riadattate alseguito di una suggestione horror o thriller di notevole impat-to espressivo.

Nel mondo di Dario Argento siamo tutti in pericolo, per-ché tale è la situazione di chi usa autonomamente la curiosi-tà e l’intelletto in un’epoca di malcelata repressione. MentreArgento si dichiara apolitico nei suoi film, il suo cinemasposa un genere per tradizione non amato dai vetero-realisti.In gioventù il futuro regista militò nell’estrema sinistra, ed èdifficile pensare ad un cinema più “coraggioso” nella suaoltranzistica visionarietà, in specie in quegli anni Settantache paiono così vistosamente rievocati dai suoi film. Più chead un generico “contesto”, la critica di Argento è palesemen-te rivolta ai rapporti tra le persone, malate nel profondo. Casidi dipendenza psicotica, rapporti di coppia in cui non ci siconosce a fondo, schizofrenia, sadomasochismo, madri pos-sessive e devastatrici, figli indesiderati o malati, perversionirimaste celate a se stessi ma soprattutto alla comunità, fetici-smo, vouyerismo perverso, gusto per la violenza inferta aideboli o agli animali. Lo sguardo di Argento coglie con raradedizione le più sordide attitudini dei comportamenti indivi-

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duali e analizza la malattia alla base dei rapporti umani. Perquesto la società non può che essere un Inferno in terra, illuogo in cui i simboli demoniaci e retrivi di una cultura dimorte e sopraffazione trovano facile risonanza. Pulsionale emetafisico ad un tempo, il cinema di Argento fa sua la lezio-ne di un altro amato maestro: Fritz Lang. La società oppres-siva, ossessionata da delitti rituali oscurati dal sistema, è raf-figurata da un razionalismo architettonico che evoca fanta-smi fascisti; una forte suggestione tematica al centro dell’e-stetica argentiana, che non a caso elegge la tenebrosa e(ir)razionale Torino quale set ideale di molte incursioni neldelirio omicida. Torino quale città simbolo di una modernitàforgiata sul rimosso ed emblema di una solitudine splendida-mente simboleggiata dalla citazione hooperiana del barricreato nella fantomatica piazza CLN di Profondo rosso. Lì,in un momento di cinema sospeso tra Fellini e Mario Bava,Argento introduce due personaggi chiave del suo cinema. Èl’incontro tra il pianista americano Marc e il pianista italianoCarlo, quest’ultimo in preda ai fumi dell’alcool. Marc, inter-pretato dallo stesso David Hammings di Blow-up, è l’artista,colui che non appena compare in scena suggerisce ai compa-gni musicisti di suonare in modo meno “perfetto” e condi-zionato, e di osare di più durante una sessione. Il suo è unevidente richiamo al ruolo del regista Argento, l’artista chepredilige un cinema sentito e visionario, non supino alleregole della logica narrativa consueta, estraneo all’idea cheun film sia soltanto un compito da portare a termine nelmodo più prudente. Il secondo pianista, Carlo, interpretato da

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un intenso Gabriele Lavia, è invece colui che suona per sbar-care il lunario ed è costretto ad eseguire quello che gli altrivogliono da lui. Mentre il primo è divorato dalla curiosità evuole arrivare a fondo nei suoi pensieri, il secondo è rasse-gnato alla depressione e nei suoi occhi l’indifferenza ha lesfumature di un’oscura malattia. La sua altisonante esterna-zione di malsano e grottesco maschilismo, quel “brindo a tevergine stuprata” pronunciato dopo che un urlo di donna hadilaniato il silenzio di una piazza CLN lunare e notturna, rap-presenta la resa del musicista frustrato nei confronti del dolo-re altrui, ed al cospetto di quella sensibilità che manca mache sarebbe necessario recuperare per “curare” questomondo malato di indifferenza.

In fondo, Marco e Carlo sono figure complementari, cherappresentano le parti in conflitto di una figura maschileambivalente. Ciò che Carlo vuole nascondere Marc vuoleinvece portare alla luce. E per tutto il tempo di Profondorosso Carlo insegue Marc per proteggerlo dalle gesta dellamadre assassina, ma, una volta scoperto, si sente costretto aduccidere l’amico. Sarà invece lui a soccombere lasciando aMarc la possibilità di ribellarsi alla furia di una donna mala-ta e vendicativa. Affinché la verità, per quanto tragica e dis-turbante, faccia il suo ingresso in una scena altrimenti votataall’enigma.

L’estetica argentiana fonde verità e artificio e realizza lamessa in forma di una scena compulsiva. Il ribaltamento diruoli, il disvelamento di identità, il denudamento della fin-zione attraverso il massimo del travestimento scenografico,

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caratterizzano una narrazione fortemente suggestiva, qualeracconto che ridesta con efficacia ed immediatezza situazio-ni familiari ed arcane, in cui lo spettatore si ritrova e si perdead un tempo. Le incognite che divengono indizi e poi tassel-li di una verità più profonda, accompagnano lo spettatore inun viaggio che porta echi molteplici e differenti. C’è la rifles-sione sulle immagini e sul rapporto tra il reale e le sue raffi-gurazioni come in Blow-up di Michelangelo Antonioni (dicui Profondo rosso è il più evidente riflesso), ma comparesoprattutto l’idea iniziatica di percorso, ribadita da film conuna struttura fiabesca (Suspiria come una divagazione disne-yana in territori horror), o da gialli che sperimentano dimen-sioni altre della percezione (le porte paranormali diPhenomena, l’universo parallelo di La terza madre).

Almeno fino a Opera, nel 1987, sembrerebbe essere lostile la principale preoccupazione. Così vorrebbero i detrat-tori di Argento, alcuni dei quali cominciano a voltare le spal-le al regista proprio in questo periodo. Dopo i cosiddetti“anni d’oro” di Profondo rosso, Suspiria e Tenebre, quandoil cineasta romano è riconosciuto nel mondo come uno deimassimi registi del brivido, è evidentemente difficile rima-nere al passo con quegli esiti, e le opere successive non sem-brano garantire lo stesso smalto. Gli anni in cui le colonnesonore dei Goblin si stampano in maniera indelebile nellamemoria beneficiano in realtà di un momento di revival senon addirittura di grande rinascita dell’horror, con cineasticome William Friedkin, John Carpenter e Brian De Palma inprima linea, non a caso attenti al lavoro di Argento che pro-

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babilmente in quel periodo è il nome più originale. Argentoè il più convinto in una riflessione sul male quale dimensio-ne abitudinaria della nostra vita. Il suo è in tutto e per tuttoun cinema disturbante, per via dell’oltranzismo espressivoche lo caratterizza. Come De Palma, Argento sa usare benis-simo le tessiture della finzione, e come Carpenter i delitti deisuoi film talvolta trovano una giustificazione morale nell’o-dio che sta alla base di ogni sopraffazione. I film di Argentoperò paiono più crudeli, e la censura diventerà il principalenemico. Sul finire degli anni Settanta, quando la dimensionemetafisica e le streghe avranno fatto il loro ingresso in film“internazionali” (in senso lato) come Suspiria e Inferno –dove la riflessione sul male è al contempo astratta e atempo-rale, dunque valida per ogni paese – Argento ci sembra par-ticolarmente vicino a quei registi grazie ai quali l’horror e ilthriller sono, più che un genere, un territorio espressivo nelquale la dimensione politica fortemente anarchica si eleva aquintessenza di denuncia verso le cattive abitudini di vitadella civiltà. Il cinema horror diventa il genere trasversaleche permette discorsi alti pur ridestando gli istinti primordia-li e muovendo verso lo spavento. Ma spaventare significaanche disturbare, non lasciare inalterati gli equilibri. Un filmcome La notte dei morti viventi di George A. Romero sta alcinema horror come Ombre rosse di John Ford sta al cinemawestern. Si tratta cioè di un film emblema capace di farsimodello del cinema horror politico sin a partire dall’autono-mia produttiva in virtù della quale il film potrà vedere laluce. Il discorso sulla società occidentale destinata ad implo-

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dere nello sfrenato cannibalismo, tema che caratterizzeràtutta la filmografia successiva di Romero, deve essere parti-colarmente caro ad Argento, che nel 1978 produrrà il rome-riano Zombi, il film in cui il villaggio-supermarket diviene illuogo ultimo dell’assedio. I vivi si ricongiungono con i mortiin quel teatro delle merci che è il supemarket, ambiente in cuii manichini, nella feroce accusa romeriana, equivalgono aquanto resta dell’umano. Quanti film hanno raccontato laminaccia della fine e l’avvento di una provvidenza salvificaa pochi minuti dal termine della vicenda? In Zombi invecenon c’è provvidenza, e il finale con l’elicottero che porta viai sopravvissuti non deve far sperare nell’avvento di una solu-zione venuta “dal cielo”. In questo momento sia Argento cheRomero hanno bene in chiaro il tema della sopraffazione, delcannibalismo insito nell’attitudine di una civiltà che schiac-cia il differente e il non allineato. Gli spazi di libertà indivi-duale sono completamente divorati da leggi omologanti, e ilprocesso di sopraffazione ha le caratteristiche alienanti diuna carneficina. Mentre Romero è radicalmente politiconelle sue sortite filmiche, e il suo percorso giungerà a con-dannare anche l’epoca Bush nel tardivo La terra dei mortiviventi (2004), Argento è meno diretto, ma la metafisica diInferno non deve essere letta come un elemento depistante.Mentre in Romero è l’America delle barricate sessantottine aparlare, in Argento sono le ossessioni e i deliri di un’ansiametafisica calata nelle molte ombre della città eterna a detta-re la struttura apparentemente apolitica dei suoi horror dalsapore arcano. Quella di Argento è un’estetica della conta-

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minazione e della fusione di stili. Le influenze pittoriche e ilgusto architettonico sono elementi di una visione fortementeattenta a riportare in vita i fantasmi del passato. Cinema e pit-tura hanno in comune proprio questo, ovvero la possibilità dimantenere in vita chi non è più vivo. E opere come Inferno oLa terza madre, nella loro dimensione allegorico-felliniana,ribadiscono l’orientamento verso il recupero di un dialogocon il passato, per quanto terribile o disturbante, perchénuova luce sia possibile. Con il cinema rivediamo gli anniSettanta tinti di anarchismo e solitudine della cosiddetta tri-logia zoonomica (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gattoa nove code, Quattro mosche di velluto grigio), ma anche glianni di una favola astratta e furente come Suspiria, che riba-disce un generico universo concentrazionario nelSettantasette della contestazione, nonché gli anni Ottantaestetizzanti di Inferno e Opera, film suadentemente calati inun contesto di post-modernità, ma anche gli anni Novantadelle nuove angosce esistenziali (l’anoressia di Trauma, la“Sindrome di Stendhal” nell’omonimo film) e del necessarioritorno alle origini di ogni messinscena (Due occhi diabolici,Il fantasma dell’opera). E il Duemila di Argento significa unritorno alle origini e all’energia creativa di un tempo, conlavori come Non ho sonno, Il cartaio e La terza madre, cherappresentano sia il tentativo di rinverdire i “fasti” espressi-vi degli anni Settanta e il conseguente rapporto con il pub-blico degli appassionati, sia una riflessione sul cinema nonunicamente in chiave autoreferenziale. Ritroviamo così, inNon ho sonno, la Torino misteriosa e inquietante dei primi

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film ma anche un ispettore di polizia in pensione che fa fati-ca a ricordare. Quest’annebbiamento della memoria checoinvolge tutti, può generare per controcanto un impulso nonsoltanto a recuperare il passato ma anche rinvigorire il gustodel dialogo con le nuove generazioni. È proprio quanto suc-cede ad Argento, che in Non ho sonno rispolvera uno stilemolto “anni Settanta” per un film citazionista che fa soprat-tutto il verso a se stesso. L’omaggio al proprio mondo espres-sivo è consacrato dalla eccezionale “reunion” dei Goblin, ilgruppo progressive capitanato da Claudio Simonetti chefornì ad Argento le colonne sonore più celebri (Profondorosso, Suspiria). Un ritorno alle origini che evoca, sin daltitolo, un continuo stato di veglia cosciente, verso nuovi ter-ritori espressivi ma anche nuovi temi. Il desiderio di ritorna-re al giallo, dopo anni di divagazioni in territori diversi,genera l’interesse per nuove e antiche patologie, diffuseanche grazie a inediti scenari di comunicazione e propaga-zione del contagio. Il mondo dei computer ad esempio, gene-ra i riferimenti de Il cartaio, il cui soggetto nasce nel corsodelle passeggiate notturne del regista a Londra durante ilcasting di Non ho sonno. Internet, o più in generale il mondodella rete, rappresenta ancora una volta un luogo “altro”,eppure frequentatissimo dalle persone. Un luogo al contem-po misterioso e di facile accesso, teatro alternativo e priva-tissimo di confronto con un immaginario altro seppureanch’esso reale. La frequentazione di un mondo virtuale ederealizzante, può alimentare una nuova situazione di dis-percezione del reale, uno stato di incoscienza magari non più

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lieve della “Sindrome di Stendhal”.Nei film degli anni Settanta i personaggi argentiani si

confrontavano con gli interrogativi derivanti da una perce-zione distorta o incompleta del reale, dove fondamentale erail recupero di un elemento che permettesse di ricomporrel’immagine decaduta (il quadro che in realtà è uno specchioin Profondo rosso). Era il confronto con la realtà difficil-mente decifrabile in un dedalo di immagini inquietanti (ilcorridoio con i dipinti in Profondo rosso è il luogo in cui ilprotagonista affronta la moltitudine delle percezioni mariesce alla fine a non deturpare la sua psiche, diversamenteda quanto succederà alla giovane Anna Manni di La sindro-me di Stendhal; ma sono propriamente gli anni Settanta“visionari” e pieni di utopia di un pianista/artista che difendel’affermazione del suo punto di vista sul mondo delle perce-zioni). Adesso, nel Duemila dei nuovi film, il confronto è conle immagini che provengono da un contesto di alienazione, eoccorre mettersi in gioco, accettare la sfida con chi usa le tec-nologie per frenare la barbarie e trovare una comunicazione,cioè un linguaggio che ha comunque una radice umana. Aigiovani, e alle loro qualità più intime e profonde, è dedicatoproprio La terza madre, film con cui Argento ancora unavolta omaggia se stesso e i suoi fan, e che rappresenta in defi-nitiva un ritorno al proprio mondo espressivo, attraverso ladefinizione di un personaggio, Sarah Mandy, che studia ilpassato e ritrova il fantasma della madre pronto a darle noti-zia del suo eccezionale potere di nascondersi e rifugiarsi inun mondo parallelo al nostro. Per difendersi dal mondo e

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dalle sue sadiche derive occorre ritrovare il massimo di sen-sibilità. I personaggi di Argento non perdono così il loro can-dore, pur avendo vissuto orrori indicibili (con gli occhi benaperti come succedeva a Betty in Opera), e anche dopo ilcontatto con creature viscide ed inquietanti la luce dei loroocchi resta vivida, permettendo allo spettatore di avvertire ildramma oscuro nascosto nel loro animo (la morte agghiac-ciante dei genitori in Profondo rosso o in Trauma).

I personaggi conservano il loro stato di “grazia” come allafine di un doloroso processo di espiazione; un candore chenon ha bisogno dell’effettiva assenza di colpa e responsabili-tà, poiché il mondo attorno alimenta orgogliosa indifferenzao estraneità, e nel caso migliore si dimentica di punire gliinnocenti.

Le giovani fanciulle del cinema di Argento paiono allorauscire allo scoperto, come nel finale di La terza madre, perprovare a camminare, finalmente libere, senza il timore chequalcuno perturbi il loro desiderio di armonia.

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Capitolo primo

L’immagine che rivela

L’uccello dalle piume di cristallo. Un titolo ermeticodagli echi esotici e spettrali per il film che segna il debuttodietro la macchina da presa di Argento. I giornali riportanonotizie di delitti sanguinari e la televisione segue con incau-ta perizia le orme dell’assassino. Al centro della vicenda SamDalmas, uno scrittore americano in “trasferta” a Roma, dovesi prende una pausa di riflessione in attesa che ritorni lanecessaria ispirazione. È nella terra dove non succede mainulla, come dicono i frenetici colleghi americani. Basta inve-ce una passeggiata solitaria, perché qualcosa di grave acca-da. Sam infatti è testimone di un tentato omicidio. La situa-zione gli si presenta con l’impatto di un quadro impressioni-sta: allorché si trova di passaggio dinanzi una galleria d’arteprotetta da vetri isolanti, Sam è attratto da una strana collu-tazione, di cui sono attori una donna vestita di bianco e unuomo vestito di nero, con guanti e cappello scuri. Nel tenta-tivo di portare soccorso alla donna sanguinante, Sam restaprigioniero tra le pareti di vetro che separano la galleria dallastrada, mentre l’uomo in nero si dilegua. La donna e Samsembrano allora doppiamente in trappola. Lei non può con-tare sul suo soccorso, e lui non riesce a farsi sentire dal pas-sante per strada. Il cinema di Argento mette in scena sin dasubito la sua vocazione autoriflessiva: in primo piano trove-

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remo il linguaggio cinematografico e le sue svariate implica-zioni espressive, ma anche il rapporto tra la rappresentazionedel reale e la sua percezione declinato attraverso le moltepli-ci sfumature di una sintassi citazionista ma non per questofredda dedalcomania di modelli risaputi. Argento mette inmostra la macchina cinema, lo spazio della rappresentazioneribadito da quei vetri che impediscono alle parole di trovareun’eco di comprensione. Ma dove non può la parola, può l’e-loquenza dell’immagine, e come in un film muto il volto diSam Dalmas riesce comunque a comunicare l’allarme.L’uomo della strada che osserva la scena può chiamare lapolizia e liberare anche Sam dalla trappola del silenzio,ovvero dalla trappola di un cinema “muto”, congegno dicomunicazione che necessita di propri codici per poter fun-zionare a pieno. Dentro il cinema, dunque. Lungo tutto ilcorso del film, Sam è potenziale vittima dell’assassino e alcontempo artefice di un percorso visual-immaginifico. Lacrisi creativa dello scrittore, tema prediletto della letteraturae del cinema horror dalle implicazioni freudiane (vediShining di Stanley Kubrick), trova uno sviluppo estetico-espressivo attraverso l’indagine improvvisata e intensamentepartecipata di Sam. Una volta condotto nell’ufficio dell’i-spettore Morosini per gli accertamenti, Sam si accorge diessere un elemento fondamentale per l’indagine. Morosinigli trattiene il passaporto e il suo ritorno in America è rinvia-to. Sam e la sua fidanzata si trovano così pienamente dentroil gioco del thriller psico-sociale che Argento mette a puntoispirandosi alle pellicole di Mario Bava (Sei donne per l’as-

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sassino è il modello di questo cinema abitato da assassini consoprabito e cappellaccio neri) e ribadendo con costanza l’in-fluenza di Fritz Lang, artefice di una filmografia in cui lamalattia sociale è riflesso di menti malate e meschine cheagiscono subdolamente ai danni del collettivo. L’omaggio aFritz Lang sarà ancora più accentuato nel successivo lungo-metraggio, Il gatto a nove code, dove qualche oscuro agentedel crimine sarà responsabile di delitti a scopo pseudo-scien-tifico, ma il più scoperto omaggio è presente in Quattromosche di velluto grigio, con il protagonista che abita, perl’appunto, in via Fritz Lang. Se Lang è il riferimentoall’Espressionismo, e Bava alle virulenze pittoriche di unascena gotica e inquietante, Argento sublima queste influenzenel suo film d’esordio e va alla ricerca di una tensione dagliechi hitchcockiani. Il rapporto tra il personaggio e l’ambien-te è costantemente minato dalla presenza di un osservatoreonnisciente, il maniaco armato di coltelli che sa sempre dovetrovare la sua preda. Il personaggio si muove in luoghi scuri,senza luce, dei quali è difficile cogliere contorni reali. Non acaso, una volta uscito dal commissariato, Sam cammina nellanebbia ed è seguito dall’assassino che sbaglia il bersaglio econficca altrove la sua letale mannaia. Spaventato, Sam nondemorde e inizia anzi la sua personale indagine; con lui haavvio la colorita serie di “detective” argentiani, individuicostretti a svolgere un’“indagine” per liberarsi dall’accusa dicolpevolezza, perché la ricerca della verità diventa un ele-mento fondante il loro travagliato rapporto con la giustizia.L’assassino è veramente un professionista del crimine non-

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ché un personaggio con un copione “brevettato” per il nuovocinema thriller. Annuncia i suoi delitti con agghiaccianti tele-fonate che sembrano quelle di famigerati rapitori di ostaggiin quegli anni Settanta macchiati dall’angoscia dei rapimen-ti e dalle sortite dei terroristi. Argento e con lui i suoi solita-ri antieroi agiscono in un paese oscuro dove le forze di poli-zia sono caricature alla mercé di un destino talvolta beffardo.L’individuo che vuole salvarsi deve tenere desti lo sguardo ei sensi, pronto a reagire alle insidie di una scena sociale per-versamente normalizzata. All’origine dei delitti c’è sempre ilridestarsi di un antico trauma, un’incompresa ferita della psi-che che è causa di un disagio profondo. L’uccello dallepiume di cristallo è allora un’indagine alla ricerca di queldisturbo della percezione che ostacola la rivelazione dellaverità. C’è sempre un dettaglio fondamentale che sfugge alprotagonista il quale è costretto a un radicale sforzo di ricom-posizione della memoria. La memoria è talvolta una dimen-sione labile e sfuggente, ma ancora più inquietnte diviene laricerca quando l’antagonista al centro della tensione cono-scitiva mette in moto tutte le strategie di occultamento dellaverità. Dietro i misteriosi omicidi c’è qui una coppia inso-spettabile (i proprietari della galleria d’arte), uniti in unarelazione morbosa, incapaci di curarsi e di mettere fine a unacollezione di omicidi. La gallerista che sembrava vittima diun’aggresione è invece l’autrice dei delitti, colei che subìl’antico dramma di un violenza sessuale e che il marito cercòa lungo di proteggere. Un marito talmente innamorato daaccusarsi di delitti non commessi pur di scagionare l’amata,

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la quale, dal canto suo, non evitava di manifestare il suo sadi-smo anche nei riguardi del marito. Sadismo, masochismoperverso, dipendenza psicotica, sono alcuni degli elementi diuna scacchiera psicoanalitica che il primo film di DarioArgento propone alla luce di un’indagine sulla capacità del-l’individuo di cogliere gli aspetti più sinistri e ambigui dellarealtà, affinché una visione più veritiera e profonda sia infi-ne possibile. Tutto il dolore, il rischio, l’angoscia che SamDalmas sperimenta, gli permetteranno di percepire la gravitàe insieme la radicalità delle situazioni.

Lucida ed iperreale ad un tempo, la scena argentiana con-templa echi del cinema europeo contemporaneo. Il protago-nista è l’americano apolide, a cui qualcuno ha sottratto ildocumento d’identità. Da una parte le istituzioni, con i pro-tocolli di ufficialità e burocrazia, dall’altra l’uomo istruitoma perennemente “cane sciolto”, che non obbedisce al siste-ma ma neppure sente il bisogno di ringhiare, perché la rabbianon fa parte della sua indole di artista estraneo agli stereoti-pi finanche del ribellismo. Il personaggio si affida soprattut-to all’atto della visione, per dare un senso al mondo. Non èallora un caso se lo scrittore Dalmas viene còlto pochissimonell’atto di scrivere, perché la sua “scrittura” si attua in unaricomposizione del dedalo di immagini che affolla la suamente e la sua memoria. Al suono di ripetute e successiveintuizioni, egli cerca altri “sguardi”, altri plausibili “punti divista”, nella sequela di omicidi che sembrano ruotare attornoalla “scena primaria” della galleria d’arte. Quando avrà final-mente il permesso per tornare in America, nel momento in

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cui potrà fare l’amore liberamente con la sua compagna, eccoche allietato dall’euforia dei sensi vivrà l’intuizione decisiva.Dedice di mettersi sulle tracce del pittore che ha realizzato ilquadro finito probabilmente nella casa dell’assassino.L’artista in questione, al secolo Berto Consalvi, è il modelloautoironico dell’individuo isolato che popola le periferie delcinema argentiano. Il pittore recluso e incompreso, masoprattutto colui che con le sue naturali pennellate ha saputocogliere il dramma della sopraffazione ai danni di una donnasola e indifesa. Con il fulminante ritratto di un tipo eccentri-co come Berto Consalvi, interpretato con ieratica partecipa-zione da Mario Adorf, Argento completa una galleria dicaratteri gustosi e sanguigni che colorano una scena umanaaltrimenti dominata dalle tinte morbose. L’ironia del tratto edi alcune situazioni rappresentano il risvolto inatteso di unascena ben più sconcertante e naturalmente serve anche perstemperare le punte di tensione proprio al culmine dellesituazioni d’angoscia; un’angoscia che si protrae in Argentoanche attraverso la dilatazione dei tempi, quindi non soltan-to attraverso la concitazione della suspance secondo il clas-sico registro hitchcockiano. Qualche volta peraltro, inArgento i toni hitchcockiani trovano eco all’interno di unariflessione sulla visione che può ricordare l’esperienza diMichelangelo Antonioni. Una suggestione tematica e forma-le che sarà esplicitata in Profondo rosso ma che in un lavorocome L’uccello dalle piume di cristallo appare già in contro-luce, così come sarà ravvisabile in un’opera della successivafilmografia come Il cartaio. Alla ricerca di un’immagine più

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vera dietro l’immagine di superficie, anche Sam Dalmas habisogno del quadro, ovvero della visione di Berto Consalvi,per ravvisare una definizione più vera degli elementi incampo. Dietro l’immagine apparentemente veritiera da tutticonosciuta, c’è quella di una donna violentata in giovane età.L’immagine originaria è per Argento fonte di uno shock, lostesso provato dalla vittima quando vede il quadro e rivivel’esperienza traumatica. L’immagine originaria è dunqueun’immagine che non nasconde più ma che finalmente rive-la. E l’autore di quei quadri capaci di ridestare la verità si èsimbolicamente recluso, vive al margine, nella periferia dovecovano alcuni tra i più interessanti segreti. Berto Consalvi,che cucina i gatti come durante la guerra e in onore a EdgarAllan Poe, è un puro, un tipo orgoglioso della propria arte“alimentare” grazie alla quale può mantenere un salutare iso-lamento dal tanto avversato mondo sociale. Il prototipo ditutti i personaggi-chiave del cinema di Dario Argento, quelliai quali è affidato il ruolo di “grillo parlante” o confidentematuro, è l’emblema di un universo non contagiato dalle per-versioni dell’ordinarietà. Berto Consalvi dice di essere pas-sato ad una fase mistica, e confessa di voler raffigurare sol-tanto situazioni mistiche. Gli echi di una Roma esoterica emisteriosa fanno capolino nei quadri di questo personaggiosingolare, isolato testimone di un malessere sociale raffiora-to attraverso opere naif sottilmente inquietanti. D’altro canto,tutto lo scenario di volti, caratteri marginali ed insoliti checompaiono nel film, hanno tratti sinistri, e nei successivi filmquesto gusto per le caratterizzazioni quasi caricaturali diver-

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rà ancora più accentuato. Questi thriller lucidi ed inquietantici mostrano un mondo di piccoli testimoni irretiti, figurecòlte talora con umanità disarmante, come nel caso dell’in-vestigatore gay di Quattro mosche di velluto grigio. Argentoesprime una predilezione quasi pasolinina per i marginali, ele sue storie disegnano traiettorie all’ombra dell’ufficialità.L’attenzione per un’umanità varia e colorita ha il controcan-to in una focalizzazione che potremmo definire “oggettuale”dei movimenti dell’animo. L’autore dei delitti prepara le suegesta con uno scrupolo feticista per gli oggetti sanguinari. Icoltelli affilati che compaiono su di un pannolenci nei titolidi testa del primo lungometraggio, occupano tutto lo spaziodell’immagine. Argento prepara qui le future carneficine diProfondo rosso e Tenebre, ma lo sguardo “oggettuale”, “cosi-ficato”, che si esprime nel primo piano dei dettagli, è lo stes-so impietoso e “inumano” del killer, che vede la sua arma manon la persona a cui infligge il terribile flagello. I coltelli chelacerano il silenzio e decretano la morte e l’agonia delle gio-vani vittime sono gli strumenti di un’umanità senz’amore,dove un dramma individuale ha ottenuto di scaricare sul col-lettivo i suoi tragici fendenti. Si dirà che Argento mostra unatteggiamento di pietas nei confronti degli psicopatici chepopolano il suo cinema. In realtà, c’è soprattutto sgomentoper l’orrore e quella che sembra pietas è piuttosto una dove-rosa sospensione di giudizio. Ma l’idea che dalla violenzanasca sempre violenza sembra ribadita dai molti finali tragi-ci, dove l’assassino paga con la morte. Anche il film d’esor-dio non si sottrae a questa regola, con in più un sottofinale in

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cui si cerca di dare le informazioni necessarie affinché lospettatore comprenda a pieno il movente di tutti i delitti. Unfinale che rappresenta il puntello logico ed esplicativo di unfilm altrimenti inquietante e visionario, dove le pagine piùappassionanti sono anche quelle più misteriose. Il bisogno dispiegare e di fare quadrare i conti origina naturalmente dallastruttura da film “giallo” che Argento sposa nei primi filmcon grande attenzione per il meccanismo narrativo e la plau-sibilità logica. L’uccello dalle piume di cristallo è l’esordiosoprendente di un regista che nel riportare in auge un generesi fa notare anche per l’esotismo morboso che caratterizza legesta dell’assassino. Su tutto domina una visione geometricadegli spazi e una cura formale inattesa, a testimonianza di untalento che il bravo direttore della fotografia Vittorio Storaroasseconda con contrasti cromatici dai toni spettrali e atmo-sfere “londinesi” dal sapore limpidamente moderno.

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Capitolo secondo

Stilemi di morte

Uno dei rischi a cui va incontro il lavoro di Argento è dinatura interpretativa: il suo lavoro richiama le facili accusedi estetismo e superficialità perché i temi di cui si raccontapaiono raggrumarsi attorno a ferite del corpo e non dell’a-nima. Invece, Argento ci racconta gli effetti e le radici deltrauma, che raggiunge orbene nel suo cinema la dimensio-ne sublimata di una rappresentazione al contempo allegori-ca e fisica, mentre questa messa in forma dell’atto di ucci-dere rinvia alla componente sadica e persecutoria del dram-ma. In Argento si avverte l’avvenuto processo di rimozionedi traumi dolorosi conseguenti a rapporti di sopraffazione ocausati da gesti psicotici ai danni di figure amate (sovente èun genitore a essere causa o parte della tragedia). Il prota-gonista del racconto, sia esso un osservatore “esterno”come nei primi film oppure una giovane fanciulla come ingran parte della filmografia argentiana, è coinvolto in primapersona in un processo di affermazione del proprio punto divista, affinché la verità venga alla luce e il dramma sveli lasegreta connivenza con un sistema sociale malato di incom-prensione e fanatismo. I personaggi si muovono in un uni-verso dai tratti inquietanti, che lascia echi delle precedentigenerazioni di morte e sopraffazione. Film come Suspiria oPhenomena, mentre paiono astratti o atemporali nella loro