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a cura di Paola Bilancia I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo NUMERO SPECIALE N. 4/2018

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a cura di Paola Bilancia

I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo

N U M E R O S P E C I A L E N . 4 / 2 0 1 8

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Sommario

La dimensione europea dei diritti sociali, di Paola Bilancia ................................................................... 3

Alle origini dell'interesse dell'Unione europea per i diritti sociali, di Adriana Ciancio .................... 20

Ragioni e radici dell'Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell'Unione,

di Andrea Patroni Griffi ............................................................................................................................. 33

Il futuro dei diritti sociali dopo il 'social summit' di Goteborg: rafforzamento o impoverimento?,

di Jörg Luther .............................................................................................................................................. 49

La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo, di Francisco Balaguer Callejón ........................ 69

La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, di Anna Papa . 80

'La scuola è aperta a tutti'? Potenzialità e limiti del diritto all'istruzione tra ordinamento statale e

ordinamento sovranazionale, di Marco Benvenuti ................................................................................. 99

Accesso a Internet tra mercato e diritti sociali nell'ordinamento europeo e nazionale, di Giovanna

De Minico ................................................................................................................................................. 127

'Reddito minimo', contrasto all'esclusione sociale e sostegno all'occupazione tra Pilastro

europeo dei diritti sociali ed evoluzioni dell'ordinamento italiano, di Filippo Scuto ...................... 147

La tutela del diritto all'abitazione tra Europa, Stato e Regioni e nella prospettiva del Pilastro

europeo dei diritti sociali, di Gloria Marchetti ...................................................................................... 184

La dimensione sociale della libertà di movimento, di Giovanni Cavaggion ...................................... 219

Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della

politica, di Renato Balduzzi .................................................................................................................... 244

NOTIZIE SUGLI AUTORI ................................................................................................................................... 254

I saggi raccolti in raccolti in questo fascicolo sono stati sottoposti a doppio referaggio anonimo. Il volume è stato pubblicato con il

contributo del Centro Studi sul Federalismo

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La dimensione europea dei diritti sociali

di Paola Bilancia

Sommario: 1. Diritti sociali quali diritti fondamentali negli ordinamenti costituzionali. 2. Unione Europea ed Economia sociale di mercato: la nuova attenzione dell’Unione ai diritti sociali. 3. Le limitate competenze dell’Unione Europea in ambito sociale secondo il Trattato di Lisbona. 4. Il ruolo significativo della Corte di Giustizia 5. Brevi considerazioni a margine dell’effettività della nuova politica sociale dell’Unione.

1. Diritti sociali quali diritti fondamentali negli ordinamenti costituzionali

La tutela dei diritti sociali è attribuita dalle Costituzioni nazionali europee allo Stato, caratterizzandone e

qualificandone la conformazione di Stato di diritto sociale. Le origini di quello che è divenuto ormai

noto come “Welfare State”, possono essere ricondotte a un insieme di politiche adottate nel corso della

Presidenza Roosevelt - trovatasi a dover fronteggiare i postumi della crisi del ’29 negli Stati Uniti

d’America - che con il New Deal degli anni 1932-33 ha introdotto per la prima volta grandi interventi

dello Stato in campo economico e sociale a supporto del tenore di vita della cittadinanza (e basti

pensare, ad esempio, al Social Security Act del 1935, che per la prima volta introduceva le misure

dell’indennità di disoccupazione e dell’indennità di vecchiaia). Ancora prima, le origini del welfare state

possono essere ricondotte alla previsione dettagliata dei diritti sociali nella Costituzione di Weimar del

1919 che tuttavia non ha mai ricevuto una reale ed effettiva attuazione, come la storia ci ricorda.

Gli ordinamenti costituzionali degli Stati dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale

hanno segnato il reale trapasso dallo Stato liberale allo Stato sociale1, con la previsione di tutele di diritti

che comportano una prestazione positiva dello Stato2 e che muovono dalle complesse esigenze della

realtà sociale, con la finalità di sanare le diseguaglianze presenti nelle comunità, in attuazione della

nuova dimensione sostanziale del principio di eguaglianza, affiancatasi a quella formale già nota al

1 La bibliografia sui diritti sociali nel nostro ordinamento è sterminata. Mi sia consentito citare solamente sulle vicende storiche e teoriche dei diritti sociali e la loro ampia ricostruzione M. BENVENUTI, I diritti sociali, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Agg., Utet, Torino, 2012, pp. 219 ss. e la bibliografia ricca e dettagliata ivi citata. L’A. parte dalla affermazione della difficoltà di fare delle considerazioni di ordine tipologico e classificatorio dei diritti sociali a priori, proponendo una ricostruzione storico-giuridica di questi diritti. 2 Pur consci del fatto che ogni diritto necessita, a ben vedere, di un facere da parte dello Stato per una sua reale tutela, ci si riferisce in questa sede alla dimensione “prevalente” della dimensione positiva del diritto rispetto a quella negativa. Si vedano sul tema: V. BALDINI, Che cosa è un diritto fondamentale. La classificazione dei diritti fondamentali. Profili storico-teorico-positivi, in Diritti fondamentali, n. 1/2016; G. PINO, Diritti soggettivi. Lineamenti di un’analisi teorica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2/2009, pp. 497 ss.

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costituzionalismo moderno. Queste garanzie sono naturalmente fondate sulla capacità redistributiva

fiscale dello Stato e vanno contemperate anche nel quadro costituzionale dei diritti fondamentali relativi

ai rapporti economici3. Si deve quindi ritenere che ormai la nozione di Stato sociale descriva sotto il

profilo giuridico la realtà della forma di Stato europea contemporanea, avendo marcato un profondo

distacco dalla forma di Stato liberale che aveva caratterizzato la fase storica precedente4.

Nelle democrazie pluralistiche lo Stato si fa quindi carico, attraverso la giustizia redistributiva, di

garantire a tutti diritti sociali quali il diritto alla salute, allo studio, all’assistenza e alla previdenza sociale.

Pur nella differenza dei modelli di implementazione dei diritti sociali, è possibile osservare (se non altro

nel panorama continentale) una significativa armonia nella soddisfazione di tali diritti, ad esempio, in

Paesi quali Italia, Francia, Spagna e la stessa Repubblica Federale tedesca: diritti che richiedono

prestazioni da parte degli Stati e dalle loro articolazioni territoriali (Laender, Regioni, Comunidades

Autonomas). Il cosiddetto “welfare State” ha pertanto raggiunto la sua massima elaborazione

nell’esperienza dei Paesi scandinavi, dove la sua diffusione capillare e il suo profondo radicamento nella

forma di stato hanno addirittura consentito di sperimentare alcune forme di politiche sociali volte a

conseguire non più la sola “eguaglianza di opportunità” postulata dalle teorie liberali, ma addirittura

l’“eguaglianza dei risultati” teorizzata da teorie più marcatamente comunitariste e nuova frontiera

dell’intervento statale5.

In Italia già dal 1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale che garantisce cure mediche e

assistenza (peraltro espandendo la portata letterale dell’articolo 32 Cost., che garantisce la gratuità delle

cure per i soli individui “indigenti”6) ai cittadini italiani, degli altri Paesi dell’Unione Europea ed anche

dei Paesi extra europei, sia pure con diverse modalità. Così pure il diritto allo studio di cui all’articolo 34

Cost. viene garantito a tutti fino al completamento dell’obbligo scolastico, con la possibilità di borse di

studio per gli indigenti, ed è comunque garantita anche l’istruzione universitaria ai meritevoli tramite

provvidenze pubbliche ovvero tramite l’esenzione dalle tasse in attuazione del principio di eguaglianza

3 Sul tema sia consentito il rinvio a P. BILANCIA, Modello economico e quadro costituzionale, Torino, Giappichelli, 1996, passim. 4 In questo senso non si può più sostenere che la nozione di “Stato sociale” sia nozione strettamente politica e come tale priva di un effettivo contenuto giuridico, e pertanto “inutile” per l’analisi del giurista. Si veda sul tema M. S. GIANNINI, Stato sociale: una nozione inutile, in Il politico, vol. 42, n. 2, 1977, 205 ss., che evidenziava come il passaggio fosse non tanto tra Stato liberale e Stato sociale, ma tra Stato monoclasse e Stato pluriclasse. 5 Sul tema si veda M. FERRERA, Neowelfarismo liberale: nuove prospettive per lo stato sociale in Europa, in Stato e mercato, n. 1, 2013, pp. 21 ss. Il tema dell’eguaglianza di chance come contrapposta all’eguaglianza di outcome si ricollega al più ampio dibattito sul cosiddetto “luck egalitarianism”. Si veda sul tema E. S. ANDERSON, What is the point of equality?, in Ethics, vol. 109, n. 2, 1999. 6 La legge n. 833 del 23 dicembre 1978 poneva quali principi fondanti del servizio sanitario la “globalità delle prestazioni”, l’“universalità dei destinatari” e l’“uguaglianza del trattamento”. Si vedano sul tema A. SIMONCINI, E. LONGO, Art. 32, in in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, UTET, 2006. Sul Servizio Sanitario Nazionale si veda R. BALDUZZI (a cura di), Trent’anni di Servizio sanitario nazionale. Un confronto interdisciplinare, Bologna, Il Mulino, 2010.

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sostanziale, in modo da impedire che diseguaglianze strutturali impediscano il pieno sviluppo della

personalità dell’individuo, anche in una prospettiva di “mobilità sociale”.

Del pari assistenza e previdenza sociale si conformano come servizi universali che tra contribuzioni e

redistribuzione fiscale vengono garantiti alla generalità dei consociati senza distinzioni sostanziali.

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha peraltro esteso il godimento dei diritti sociali oltre la

platea dei cittadini, ritenendo che tali diritti, in quanto diritti fondamentali, debbano essere riconosciuti

all’individuo in quanto tale, e dunque non solo ai cittadini europei, ma anche agli stranieri regolarmente

residenti. Proprio in virtù della loro natura di diritti costituzionali fondamentali, i diritti sociali devono

essere altresì riconosciuti, almeno nel loro nucleo fondamentale, anche allo straniero irregolare7.

Non si può, peraltro, negare che la crisi finanziaria iniziata nel 2008 negli Stati Uniti - propagatasi

successivamente in Europa - che si è trasformata in una pesante crisi economica e, conseguentemente,

occupazionale, abbia reso sempre più difficile mantenere gli standard delle prestazioni sociali raggiunti

in cinquanta anni di crescita economica più o meno costante8. Il progressivo allargamento della platea

dei beneficiari, anche a causa dell’aumento generalizzato dell’aspettativa di vita e dell’invecchiamento

della popolazione (con evidenti conseguenze sulla tenuta generale del sistema sanitario e del sistema

pensionistico e previdenziale) in un contesto di ristrettezza economica e di necessità di operare tagli di

bilancio per favorire il contenimento della spesa, ha generato una spirale che ha portato all’involuzione

dei livelli di tutela dei diritti sociali che forse erano stati dati troppo rapidamente (o ottimisticamente)

per acquisiti.

Le politiche di austerity indotte anche dall’Unione europea, in particolare per i Paesi dell’Eurozona,

hanno inficiato gli obiettivi delle politiche sociali nazionali, non più in condizioni di far fronte alle

domande di tutela dei diritti sociali provenienti da gran parte dei cittadini (domande che, proprio per via

della crisi economica, andavano moltiplicandosi proprio in quegli anni). Si può ormai affermare, in

questo senso, che tali politiche di austerity, imposte ai fini di combattere la crisi economica globale,

abbiano rappresentato un “punto di partenza sbagliato”, se non altro nella misura in cui esse non sono

7 Si veda sul tema F. SCUTO, Le Regioni e l’accesso ai servizi sociali degli stranieri regolarmente soggiornanti e dei cittadini dell’Unione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2013. 8 Sul tema dell’impatto della crisi economica sulla tutela dei diritti sociali si vedano: S. GAMBINO, Crisi economica e costituzionalismo contemporaneo. Quale futuro europeo per i diritti fondamentali e per lo Stato sociale?, in Astrid rassegna, n. 5/2015; B. CARAVITA DI TORITTO, Trasformazioni costituzionali nel federalizing process europeo, Napoli, Jovene, 2012; F. ANGELINI, M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Napoli, Jovene, 2012; A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europa, in Quaderni costituzionali, n. 1/2014; B. BRANCATI, Tra diritti sociali e crisi economica. Un equilibrio difficile per le Corti costituzionali, Pisa, Pisa University Press, 2018.

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state accompagnate da politiche parallele volte a incentivare la crescita e l’occupazione, specie

giovanile9.

Si è quindi osservato che, in assenza di un reale spazio politico europeo, la crisi economica ha prodotto

una perdita di capacità redistributiva delle politiche nazionali, una riduzione del carattere progressivo

del sistema fiscale, e in generale un diffuso indebolimento della capacità di intervento dello Stato nelle

politiche sociali10.

È quindi ormai un dato di fatto quello per cui le politiche economiche, per lo più trasmigrate dal livello

nazionale a quello europeo11, non hanno saputo (o potuto) far fronte al disagio sociale di molti cittadini.

Senza voler ricordare gli stretti vincoli di bilancio che i Paesi dell’area Euro hanno assunto con

l’adesione al Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria del

2 marzo 2012 (comunemente noto con il nome di “Fiscal Compact”)12, accettando di introdurre a

livello costituzionale la regola dell’equilibrio di bilancio - particolarmente pesante per uno Stato come

l’Italia, gravato da un enorme debito pubblico -, non si può certo ignorare come i legislatori nazionali si

siano trovati di fatto nella condizione di rivedere la spesa pubblica tagliando alcuni costi sociali e,

comunque, in uno stato quasi di impotenza nel fronteggiare la disoccupazione crescente. Non si deve

dimenticare, inoltre, che gli Stati contraenti si sono espressamente impegnati a recepire entro cinque

anni il contenuto del Fiscal Compact nel diritto originario dell’Unione europea, deadline ormai scaduta, e

che verosimilmente dovrà essere affrontata in seguito alle prossime elezioni europee13.

Il diritto al lavoro, che pure costituisce un pilastro del nostro ordinamento costituzionale che all’articolo

4 della Costituzione (enunciando il fondamentale principio lavorista, peraltro desumibile anche

dall’articolo 1 Cost.) prevede che la Repubblica debba promuovere le condizioni che rendono effettivo

tale diritto, ormai comunemente ritenuto provvisto di un contenuto prescrittivo effettivo e

9 Definisce le politiche di austerità un “punto di partenza sbagliato” F. BALAGUER CALLEJÓN, La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo, in questo numero, p. 1. 10 Si veda in questo senso A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione, in questo numero. 11 Si può fare riferimento al Regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio del 7 luglio 1997 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche ed al TFUE, art. 5 c.1 che prevede che “Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell’ambito dell’Unione. A tal fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima, per dette politiche”. 12 Si ricordi che nel 2011 gli Stati dell’Eurozona si sono impegnati a ridurre il di un ventesimo l’anno la parte del debito pubblico eccedente il 60 per cento del Pil, il Prodotto interno lordo a partire dal gennaio 2018 secondo l’articolo 16 del Trattato. Mi sia consentito citare, per un approfondimento, P. BILANCIA, La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti nazionali, in Federalismi.it, n. 23/2012. 13 Così l’articolo 16 del Trattato: “al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea”.

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indefettibile14, è stato mortificato da crescenti massicci licenziamenti o mancate assunzioni che hanno

parzialmente gravato sulla previdenza sociale e che hanno ridimensionato il tenore di vita dei cittadini,

con la creazione di ampi livelli di criticità per quanto riguarda la disoccupazione, la sottooccupazione e

la precarietà: in altri termini, una significativa dequalificazione del loro status sociale.

2. Unione Europea ed Economia sociale di mercato: la nuova maggiore attenzione dell’Unione

per i diritti sociali

L’art 3 comma 3 del Trattato di Lisbona prevede che l’Unione si adoperi per lo sviluppo sostenibile

dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia

sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale15. Si

tratta di una formula prevalentemente programmatica che certamente qualifica l’ordinamento europeo

ma che deve essere riempita da contenuti effettivi attraverso specifiche politiche.

A partire dal 2015 l’Unione Europea sembra avere finalmente preso coscienza dei grandi mutamenti

sociali prodotti dalla crisi economica e nel settembre di quell’anno, con il discorso sull’Unione, il

Presidente della Commissione Juncker ha introdotto la proposta di un “Pilastro europeo dei diritti

sociali”, per la costruzione di un mercato del lavoro equo e veramente “paneuropeo” per la protezione

dei lavoratori e che, soprattutto, tenga conto “delle mutevoli realtà delle società europee e del mondo

del lavoro”.

Nel marzo del 2016 la Commissione ha quindi presentato un progetto preliminare per il Pilastro sociale

e ad aprile 2017 si è tenuta, al termine delle consultazioni d’uopo, una Conferenza conclusiva sul tema.

Nel Consiglio Europeo di Goeteborg del 17 novembre il Presidente della Commissione, il Presidente

14 Si veda S. CURRERI, Lezioni sui diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2012, pp. 321 ss. Sulla possibile estensione dell’attuazione del principio lavorista si veda C. TRIPODINA, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in Costituzionalismo.it, n. 1/2015. 15 Così il comma 3 dell’articolo 3 TUE: “L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri. Essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”. Sul tema sia consentito il rinvio a P. BILANCIA, The social market economy model between the Italian Constitution and the European Treaties, in J. M. GIL ROBLES, F. DE QUADRO, D. VELO (a cura di), The European Union and Social market Economy, Bari, Cacucci, 2014, pp. 123 ss.

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del Parlamento europeo e il rappresentante del Consiglio hanno firmato il documento sul Pilastro

europeo dei diritti sociali per un’occupazione ed una crescita eque 16.

Questa iniziativa sembra sottolineare che non è più e non solo il mercato il vero core business del

processo di integrazione europea ma che finalmente sono le persone ed i loro diritti all’attenzione dei

vertici dell’Unione17, preludendo a quel superamento della concezione del cittadino europeo come

“homo oeconomicus” a più riprese auspicato dalla dottrina.

Non si può ignorare che questa nuova attenzione alla dimensione sociale18 sembra dover essere posta in

correlazione anche con i grandi cambiamenti politici che nelle elezioni nazionali del 2017 e 2018 hanno

sovvertito i tradizionali equilibri politici e mutato i rapporti di forza tra vecchi e nuovi partiti nazionali,

fenomeno sentinella questo del malessere e della sfiducia nella classe politica a cui si è voluta addossare

la responsabilità dei risultati economico-sociali delle scelte operate sulle politiche legislative a livello

nazionale. Gli elettori hanno mostrato la loro sofferenza, il loro disagio sociale, la loro voglia di

cambiamento. Si tratta di fenomeni politici che sono ormai diffusi in tutto il cosiddetto “mondo

occidentale”, che affondano le loro radici nell’annosa questione del “deficit democratico” strutturale

che affligge le istituzioni europee19, e ai quali sembra essere riconducibile, ad esempio, il voto inglese

sulla “Brexit”, oltre che l’avanzata diffusa delle forze comunemente definite come “euroscettiche” o

16 Si veda http://europa.eu/rapid/press-release_STATEMENT-17-4706_it.htm. Si veda sul tema J. LUTHER, Il futuro dei diritti sociali dopo il “social summit” di Goteborg: rafforzamento o impoverimento?, in questo numero. In tale sede il Presidente Juncker affermava: "È un momento storico per l'Europa. La nostra Unione è sempre stata fondamentalmente un progetto sociale. Va al di là del mercato unico, dell'economia e dell'euro e riguarda i nostri valori e il nostro modo di vivere. Il modello sociale europeo rappresenta un successo e ha fatto dell'Europa un luogo di prim’ordine per vivere e lavorare. Oggi affermiamo i nostri valori comuni e ci impegniamo ad adoperarci per realizzare 20 principi e diritti che spaziano dal diritto a un'equa retribuzione al diritto all'assistenza sanitaria; dall'apprendimento permanente e una migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata alla parità di genere e il reddito minimo: con il pilastro europeo dei diritti sociali, l’UE si batte per i diritti dei cittadini in un mondo in rapido cambiamento. La proclamazione del pilastro al vertice sociale di Göteborg giunge in un momento cruciale e permetterà di far sì che la dimensione sociale costituisca uno degli elementi fondamentali del futuro dell’Unione europea. Il pilastro - e la dimensione sociale dell'Europa nel suo complesso - avrà il peso che vorremo attribuirgli. Si tratta di una responsabilità comune, che prende il via a livello nazionale, regionale e locale, per la quale le parti sociali e la società civile svolgono un ruolo di primo piano. Pertanto, pur rispettando pienamente e inglobando i diversi approcci esistenti in tutta l'Europa, dobbiamo ora tradurre gli impegni in azioni concrete. 17 Sull’evoluzione in chiave sociale della cittadinanza europea si vedano, per tutti: S. GIUBBONI, Libertà di mercato e cittadinanza sociale europea, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4/2007; L. AZOULAI, La citoyenneté européenne, un statut d’intégration sociale, in AA. VV., Chemins d’Europe: melanges en l’honneur de Jean Paul Jacque, Paris, Dalloz, 2010. 18 Sul tema si veda A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali, in questo numero. 19 Sul deficit democratico dell’Unione si veda, per tutti, D. MARQUAND, Parliament for Europe, London, Jonathan Cape, 1979

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“sovraniste”, propiziata da un’Unione descritta (a torto o a ragione) come involuta in una spirale di tipo

“tecnico-burocratico” e poco attenta ai reali bisogni dei cittadini20.

Mettendo alla prova il cambiamento nelle istituzioni nazionali gli elettori hanno mostrato di aspirare a

una migliore difesa dei loro diritti e, d’altra parte, l’Unione ha cercato di rimodernare il suo programma

sui fondi sociali ricordando che l’art. 3 del TUE prevede la solidarietà tra le generazioni, la protezione

dei diritti dei minori e la promozione della coesione economico-sociale e territoriale che si basano

anche su un’economia sociale di mercato, proponendosi di combattere l’esclusione sociale, di

promuovere la giustizia e la protezione sociale nonché la parità tra uomini e donne. In questo senso si è

osservato come proprio l’economia sociale di mercato faccia parte dei “geni” dell’integrazione

europea21. Si tratta quindi non già di una prospettiva di riforma del diritto primario, ma di una

valorizzazione di ciò che il diritto primario, a ben vedere, già prevede.

Rafforzare la dimensione sociale europea22 comporta quindi porre al centro del dibattito politico e

dell’attenzione del legislatore sovranazionale l’obiettivo della piena occupazione, in correlazione con la

crescita economica, il futuro dell’istruzione e della cultura, il progresso sociale, la qualità dell’ambiente,

la tutela della salute in altre parole, migliorare le condizioni di vita dei cittadini.

3. Le limitate competenze dell’Unione Europea in ambito sociale secondo il Trattato di

Lisbona

Ci si deve chiedere, peraltro, come e basandosi su quali competenze attribuite dai Trattati l’Unione

potrà portare avanti una così ampia missione. L’Unione può fondare la sua capacità di intervento in

primo luogo sulla competenza (concorrente con le competenze degli Stati), attribuita dai Trattati

nell’ampio ambito della politica sociale e della coesione economico-sociale o nel coordinamento delle

politiche sociali. Così come pure nel coordinamento delle politiche occupazionali - in cui si possono

stabilire “orientamenti” - si potrà “influire” sul grande problema della disoccupazione, soprattutto

quella giovanile, che ha assunto una dimensione preoccupante in Paesi quali Spagna, Grecia e Italia. La

crisi del mercato del lavoro appare avere assunto una misura sproporzionata rispetto alla crisi

economica dalla quale attualmente il continente sta faticosamente cercando di uscire. Si prende quindi

coscienza delle trasformazioni che l’economia globalizzata richiede anche nei mutamenti delle

20 Si veda in questo senso E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in P. BILANCIA, M. D’AMICO (a cura di), La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, Giuffrè, Milano, 2009, p. 63. 21 Si veda in questo senso R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, in questo numero, p. 11. 22 Si usa qui il termine consapevoli della sua duttilità, intendendo l’assunzione in capo all’Unione di funzioni in tema di diritti sociali e coesione sociale in un’ottica di crescente integrazione. Sul tema si veda M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione (a proposito dell’introvabile “dimensione sociale europea”), in A. M. NICO (a cura di), Studi in onore di Francesco Gabriele, I, Bari, Cacucci, 2016.

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qualificazioni professionali e del fatto che la crisi e le misure europee e nazionali per fronteggiarla

hanno inevitabilmente portato a una diminuzione delle garanzie dei lavoratori, a un aumento del lavoro

non regolare (nero) e, conseguentemente, a una pesante forma di sfiducia nelle istituzioni nazionali ed

europee.

Nella proposta della Commissione si prevede che a partire dal prossimo bilancio dell’Unione (2021-

2027) si possa potenziare la politica sociale europea con l’istituzione di un Fondo Sociale europeo Plus

e un rafforzamento del Fondo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) proprio nell’ottica di un

investimento sulle persone finalizzato a dotarle delle competenze necessarie perché siano poste in

condizioni di affrontare le mutate esigenze del mercato del lavoro che diviene sempre più dinamico su

scala nazionale e, soprattutto, internazionale23. Infatti l’impatto dei mutamenti delle strutture del

commercio mondiale e il cambiamento tecnologico in atto24 rendono necessario far fronte alle

conseguenze - talora nefaste - della globalizzazione25 e realizzare forme di solidarietà nei confronti dei

nuovi poveri e dei soggetti più vulnerabili.

È difficile prevedere quali misure, in che ambito e di quale efficacia, saranno possibili per intervenire in

una dimensione e su di una scala così vaste e come, poi, esse verranno attuate a livello degli Stati e dei

loro enti territoriali. Inoltre, i tempi previsti (si prevede che le prime politiche siano attuate a partire dal

2021) non aiutano a risolvere minimamente i problemi sociali attuali, a meno che un accordo

interlocutorio nel 2019 non intervenga per garantire un’“agevole transizione” dalle previsioni

dell’attuale bilancio 2014- 2020 al prossimo quadro finanziario.

Il progetto del Pilastro sociale europeo sembra essere quindi, a tutt’oggi, un progetto ambizioso che

però non appare certamente risolutivo dei grandi problemi di alcune società nazionali.

In altri ambiti di diritti sociali quali il diritto alla salute, pur espressamente salvaguardato dalla stessa

Carta dei diritti all’art 35, l’Unione è legittimata a svolgere azioni intese a sostenere, coordinare e

completare l’azione degli Stati nella tutela e miglioramento della salute umana (ex art. 4 TFUE). Si è in

particolare osservato che l’Unione tutela, attualmente, la sola dimensione “soggettiva” del diritto alla

salute, senza tuttavia definire il contenuto di detto diritto, lasciando tale compito ai singoli Stati,

23 Evidenzia come i fondi strutturati siano, accanto a un rafforzamento della sinergia nel sistema di tutela dei diritti, uno dei principali strumenti per un “colpo di reni” del processo di integrazione, R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, cit., p. 11. 24 Un’attenzione particolare dovrebbe essere alla disoccupazione giovanile e all’inclusione sociale obbligando gli Stati ad alto tasso di disoccupazione giovanile a destinare almeno il 10 percento del finanziamento del FSE+ al sostegno dei giovani disoccupati e il 25 percento dello stesso fondo a misure che promuovano l’inclusione sociale, nonché al sostegno dell’integrazione a lungo termine di cittadini di Paesi terzi presenti legalmente sul territorio dei Paesi membri: queste ultime misure andrebbero a integrare quelle per l’integrazione a breve termine previste nel Fondo Asilo e immigrazione. 25 Sul tema si veda A. MARTINELLI, Cosa cambia nel governo della globalizzazione, in B. BIANCHERI (a cura di), Il nuovo disordine globale, Milano, Università Bocconi Editore, 2002.

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competenti a individuare sia le prestazioni erogabili che le modalità per il loro finanziamento26. Nella

portata della protezione della salute si potrebbe quindi prevedere che, al massimo, si possa agevolare un

migliore coordinamento degli investimenti nel settore sanitario, o nella prevenzione delle malattie, oltre

a indurre a un miglioramento dei sistemi sanitari: tuttavia, la differenza strutturale ed effettiva degli

assetti dei sistemi di assistenza sanitaria dei Paesi dell’Unione rende difficile colmare i gap esistenti tra i

diversi Stati membri.

Del resto, anche a voler estendere al massimo i limiti della competenza dell’Unione, il bilancio europeo

non sembra consentire grandi interventi sistematici ma, al più, in questa materia, forme di

finanziamento di reti ospedaliere o della ricerca sulle malattie rare, restando il carico necessariamente

nelle pieghe dei bilanci nazionali e dei relativi problemi di sostenibilità finanziaria.

Il fenomeno si colloca nell’ambito di un trend più ampio che sembra coinvolgere l’intero spettro dei

diritti sociali, con livelli di tutela estremamente disomogenei tra i diversi Stati membri dell’Unione

europea, dovuti a diverse condizioni di sviluppo economico. Si è in particolare osservato come esistano

standard molto diversi delle prestazioni volte alla garanzia dei diritti sociali tra i Paesi entrati nell’Unione

in occasione dei due “allargamenti a est” della prima decade del XXI secolo e i Paesi di quella che era

l’Europa dei 15 (l’Europa occidentale): tale disomogeneità ha provocato un utilizzo in prospettiva

sociale della libertà di movimento delle persone riconosciuta dai Trattati, e un conseguente aumento

delle migrazioni intraeuropee finalizzato proprio all’accesso a più elevati livelli di tutela dei diritti

sociali27. Si è detto, in proposito, che i cittadini, nell’assenza di una dimensione sociale europea, hanno

iniziato a esercitare i diritti sociali “con i piedi”, convergendo verso i sistemi di welfare che offrono i più

alti livelli di tutela28.

Diversa è la portata di altri diritti quali il diritto allo studio e alla formazione professionale, dal

momento che in questi ambiti l’Unione può sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati

membri: basti pensare al salto qualitativo prodotto, nel sistema dell’istruzione (specie universitaria), dai

progetti Socrates, Erasmus e Marie Curie e all’impatto che essi hanno avuto sulla popolazione

studentesca in questi cinquant’anni di processo di integrazione.

Del resto anche la creazione dei cosiddetti Descrittori di Dublino29 introdotti nel 2004 per la

valutazione dei corsi di laurea e che offrono definizioni generali delle aspettative di apprendimento e di

26 Si veda in questo senso A. PAPA, La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, in questo numero. 27 Sul tema si veda G. CAVAGGION, La dimensione sociale della libertà di movimento, in questo numero. 28 Si veda sul tema F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, in European law journal, vol. 17, n. 6/2011. 29 Criteri elaborati a Dublino dai Ministri per l’Università dei Paesi dell’Unione nel Framework for the Qualifications of the European Higher Education Area (EHEA), nel dicembre 2004 che ha formulato in termini di competenze gli obiettivi dei programmi formativi universitari.

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acquisizione di capacità per ciascuno dei titoli conclusivi di ogni ciclo di laurea, pur essendo privi di

natura prescrittiva, non avendo carattere disciplinare e non essendo circoscritti in determinate aree

accademiche o professionali, sono stati enucleati ai fini di identificare la natura del titolo di studio nel

suo complesso e per formulare in termini di competenze gli obiettivi dei programmi formativi, e hanno

condizionato la valutazione della programmazione universitaria nei vari Paresi membri in modo

incisivo, consentendo anche di addivenire a standard valutativi omogenei.

Del pari l’incidenza positiva dei programmi di Life Long Learning (LLL) sulla formazione professionale

permanente, affidata nel nostro Paese alle Regioni, ha prodotto forme di riqualificazione dei lavoratori,

possibili durante tutto l’arco della vita, che promuovono il reinserimento nel mercato del lavoro.

Tutte queste considerazioni valgono a dimostrare che anche se l’Unione sembra avere delle competenze

soft, essa in realtà ha condizionato e sviluppato le modalità del diritto allo studio e alla formazione

professionale, ponendo obiettivi specifici alla stessa formazione universitaria30.

4. La Corte di Giustizia e la sua funzione di bilanciamento tra i diritti

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ha trasportato la dimensione sociale al centro

della sfera pubblica europea, riconoscendo diritti sociali in modo da poterli configurare come

un’indispensabile core delle relative politiche31. È noto infatti come la Corte di Giustizia fosse legittimata

a pronunciarsi solo in base al diritto dei Trattati nonché al diritto derivato europeo fino all’entrata in

vigore della Carta di Nizza, stilata nel 2000 (ma con efficacia inizialmente limitata alle istituzioni

europee perché l’ostilità di alcuni Stati ne impedì l’inserimento nel Trattato di Nizza).

Fino ad allora la Corte era, pertanto, limitata ad utilizzare quali parametri della tutela dei diritti le

quattro libertà di circolazione delle persone, dei capitali, dei servizi e la libertà di stabilimento, nonché le

lesioni della normativa sulla concorrenza anche se, talora, con un’operazione di “trascinamento” essa

faceva valere lesioni di situazioni giuridiche soggettive concernenti il diritto allo studio derivandole dalla

libertà di circolazione delle persone nella Comunità europea32. Si trattava in ogni caso di operazioni

ermeneutiche complesse, sia pure di indiscutibile significato33.

Tuttavia, passo dopo passo la Corte ha fatto valere diritti che hanno dato forma al “patrimonio

costituzionale europeo”, patrimonio entrato successivamente tra i fondamenti del Trattato di

30 Sul tema si veda M. BENVENUTI, Il diritto all’istruzione tra ordinamento statale e ordinamento sovranazionale, in questo numero. 31 Sui diritti sociali nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea si veda O. DE SCHUTTER, La garanzia dei diritti e princìpi sociali nella “Carta dei diritti fondamentali”, in G. ZAGREBELSKY (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione Europea, Roma-Bari, Laterza, 2005. 32 Si veda il caso C-39/86, Blaizot v. University of Liège. 33 CGCE, 12 giugno 2003, C-112/00, Eugen Schmidberger Internationale Transport Planzüge contro la Repubblica, in Racc., 2003, cit., I-5659.

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Maastricht del 199334. Il “patrimonio costituzionale” minimo dell’Unione europea deve quindi essere

inteso come l’insieme dei principi e valori attinenti ai diritti fondamentali della persona nella loro

articolazione nei singoli Stati membri e come le regole relative all’organizzazione del potere pubblico

nelle forme proprie dello Stato democratico e di diritto, così come elaborati dalla giurisprudenza della

Corte di Giustizia dell’Unione europea, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Corti

Costituzionali nazionali nell’ambito del processo di “cross-fertilization” giurisprudenziale35.

In questa rinnovata prospettiva la Corte di Giustizia, nella sentenza 27 giugno 2006, C-540/03,

Parlamento c. Consiglio, per la prima volta richiamava espressamente la Carta dei diritti fondamentali36. La

stessa Corte di Lussemburgo iniziava a innovare la sua giurisprudenza con forme di bilanciamento tra

interessi o libertà già previste dal Trattato di Roma e libertà fondamentali fino a considerare la possibile

prevalenza di un diritto fondamentale sugli obblighi comunitari.

La ponderazione tra diritti e obblighi comunitari derivanti dalla libertà di circolazione delle merci era del

resto già evidente nel caso Omega37, nella cui decisione la Corte affermava che la tutela dei diritti

fondamentali rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli

obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal

Trattato. Si tratta, va evidenziato, dell’inizio di un percorso di ponderazione che è divenuto sempre più

simile a quello operato dalle Corti costituzionali nazionali nel bilanciamento tra diritti e tra diritti ed

interessi superiori dell’ordinamento insiti nella Costituzione.

34 Sulla Carta dei diritti fondamentali come fondamento di una “cultura costituzionale” europea si veda A. SPADARO, La “cultura costituzionale” sottesa alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE Fra modelli di riferimento e innovazioni giuridiche, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 2/2016, pp. 297 ss. 35 Sul patrimonio costituzionale europeo si veda A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, Il Mulino, 2002. Sul processo di cross-fertilization nella giurisprudenza multilivello sia consentito il rinvio a P. BILANCIA, The dynamics of the EU integration and the impact on the national constitutional law, Milano, Giuffrè, 2012, pp. 160 ss. 36 CGCE, 27 giugno 2006, C-540/03, Parlamento c. Consiglio, ove la Corte rilevava che «Se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’ della direttiva, che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti dalla Carta. L’obiettivo principale della Carta, come emerge dal suo preambolo, è peraltro quello di riaffermare “i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla [CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte (...) e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo”». 37 CGCE, 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs-GmbH c. Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, in Racc. 2004, I-5659, in cui la Corte aveva ritenuto che fosse legittimo il divieto delle attività di un laderodromo da parte dello Stato membro, motivato sulla scorta della necessità di tutelare la dignità umana.

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Dal 2009, anno di entrata in vigore del Trattato di Lisbona - che richiama espressamente nel testo la

Carta di Nizza - la portata dei diritti fondamentali è divenuta effettiva e una delle prime decisioni della

CGUE in base alla violazione dei diritti della Carta è stata proprio in materia di diritti sociali38.

Dalla effettiva entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali lo spazio di intervento della Corte si

è allargato ad un novero di tutele di diritti molto ampio, attribuendo però a tale istituzione il difficile

compito del bilanciamento tra diritti e tra diritti e valori, forse addirittura più ampio di quello delle Corti

costituzionali nazionali39. Infatti la Carta è una sorta di elenco di diritti - certamente più ampio e

aggiornato di quello delle Carte costituzionali - poiché oltre a comprendere nuovi diritti (alla vita privata

e familiare, all’ambiente salubre, diritto degli anziani a prendere parte alla vita sociale e culturale, diritto

dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, alla protezione dei

consumatori), essa si è configurata come una sintesi del cosiddetto patrimonio costituzionale comune,

dei diritti della Convenzione Europea dei Diritti Umani, della Carta sociale europea e della Carta

comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (ex art. 136 TCE). Unica criticità è quella

dovuta al fatto che nella Carta dei diritti questi sono enunciati senza limiti, senza forme di ponderazione

espressa con altri diritti come avviene invece, ad esempio, nella Costituzione italiana.

5. Brevi considerazioni a margine dell’effettività della nuova possibile politica sociale

dell’Unione

Si è condivisibilmente osservato che, dal momento che i diritti sociali e le politiche pubbliche volte al

loro riconoscimento hanno inevitabilmente dei costi (trattandosi, come si è detto, di diritti di

prestazione); tali costi, per essere ragionevolmente sostenuti, dovrebbero portare alla predisposizione di

una fiscalità europea e a un bilancio dell’Unione che possano supportare l’adozione di politiche sociali e

redistributive in una prospettiva di contrasto alle diseguaglianze, evitando “un’intollerabile deriva di

dumping sociale e fiscale, che rischia di ridurre il processo europeo all’imposizione al rilevato paradigma

neoliberista, in cui i soli diritti economici hanno dignità di piena tutela europea anche a danno dei diritti

sociali e delle relative politiche”40. Si è quindi proposta una revisione in senso ampio dei Trattati, volta a

“costituzionalizzare” la dimensione sociale europea attraverso il conferimento espresso all’Unione di

38 La decisione del 1° marzo 2011 nel caso Association belge des Consommateurs Test-Achats ASBL c. Consiglio dei ministri (C-236/09) ha per la prima volta annullato una direttiva europea per violazione della Carta dei diritti. Si tratta degli artt. 21 e 23, sul divieto di discriminazioni in base al sesso, e sulla parità di trattamento tra uomini e donne sul mercato del lavoro. 39 Cfr. E. MALFATTI, I livelli di tutela dei diritti fondamentali nella dimensione europea, Torino, Giappichelli, 2018. In particolare, sui livelli di tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento e nell’esperienza dell’Unione Europea pp. 199 ss. e le schede bibliografiche sui diritti sociali di F. BIONDI DAL MONTE e N. PIGNATELLI, pp.337 ss. 40 Si veda in questo senso A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione, cit.

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competenze in materia di tutela dei diritti sociali e di perequazione, ispirata a una prospettiva di

maggiore solidarietà tra Stati (e cittadini) e a un rafforzamento del processo di integrazione politica e

sociale41.

Vale comunque la pena considerare che, nell’ipotesi in cui non si pervenga a una riforma del bilancio

europeo - almeno per l’area euro - con una diversa responsabilizzazione di Istituzioni e Paesi e fintanto

che le entrate europee non raggiungano un livello “federale”, interventi nell’ambito dei diritti sociali

costosi quali quelli per la tutela del lavoro nell’obiettivo - di tendenza - della piena occupazione e della

protezione dei diritti dei lavoratori, possono solo valere come quadro di riferimento, investendo su

modalità di negoziazione e di accordi tra le parti o sulla tutela dei diritti quali quelli già affermati per la

parità uomo donna e per i lavoratori portatori di disabilità.

In questa prospettiva, il Pilastro sociale europeo prevede il diritto a ricevere sostegno nella ricerca di un

impiego (inteso come un accompagnamento “continuo e coerente” da parte dello Stato nella ricerca

dell’occupazione, oltre che come sostegno al miglioramento della formazione individuale), il diritto al

tirocinio, all’apprendistato e a un’offerta di lavoro entro quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione

o dalla perdita del lavoro (questione particolarmente rilevante per il contrasto della disoccupazione

giovanile) e il diritto a un adeguato reddito minimo (che non deve tuttavia essere confuso con il diverso

strumento del “reddito di cittadinanza”): si tratta di misure che sottolineano lo stretto legame che deve

esistere tra misure di contrasto all’esclusione sociale e politiche di sostegno all’occupazione, affinché

forme di sostegno al reddito non si tramutino in mero assistenzialismo, ma divengano un reale fattore

di promozione della formazione professionale finalizzata al conseguimento dell’occupazione42.

Certo è che la politica dei “pannicelli caldi” modello “Garanzia Giovani”43 può aiutare ma non risolve,

comunque, il grave problema della disoccupazione giovanile mentre, d’altra parte, certamente più

41 Si vedano in questo senso: A. PAPA, La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, cit.; F. BALAGUER CALLEJÓN, La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo, cit.; A. PATRONI GRIFFI, Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione, cit.; F. SCUTO, “Reddito minimo”, contrasto all’esclusione sociale e sostegno all’occupazione tra Pilastro europeo dei diritti sociali ed evoluzioni dell’ordinamento italiano, in questo numero; G. CAVAGGION, La dimensione sociale della libertà di movimento, cit. 42 Sul tema si veda F. SCUTO, “Reddito minimo”, contrasto all’esclusione sociale e sostegno all’occupazione tra Pilastro europeo dei diritti sociali ed evoluzioni dell’ordinamento italiano, cit. 43Con la Raccomandazione del Consiglio del 22 aprile del 2013 sull’istituzione di una garanzia per i giovani gli Stati si sono impegnati ad avvalersi al massimo e in modo ottimale degli strumenti di finanziamento offerti dalla politica di coesione, nel periodo 2014-2020, per sostenere, se opportuno, l'istituzione dei sistemi di garanzia per i giovani in relazione alle situazioni nazionali. A tal fine, accertarsi che sia riservata la necessaria priorità e siano stanziate le relative risorse al sostegno della progettazione e dell'attuazione delle suddette misure, comprese le possibilità di finanziare, a partire dal Fondo sociale europeo, incentivi mirati a favore delle assunzioni. al 2014 in poi oltre 5 milioni di giovani hanno aderito ogni anno ai sistemi di garanzia per i giovani. Dal 2014 ogni anno più di 3,5 milioni di giovani iscritti al programma si sono avvalsi di un’offerta di lavoro, istruzione permanente, tirocinio o apprendistato. Oltre due terzi dei giovani che sono usciti dalla garanzia nel 2016 hanno trovato una possibilità di lavoro, studio, apprendistato o tirocinio. L'iniziativa ha fornito un sostegno diretto a oltre 1,7 milioni di giovani di tutta l’Unione europea. Spesso però si è trattato di un’offerta di mano d’opera a basso costo

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significativo appare invece il sistema di formazione professionale promosso dall’Unione. I risultati

ottenuti in passato in questo campo, in realtà, sono dipesi dalle modalità con cui essi sono stati gestiti a

livello nazionale e regionale.

Di fatto, il Pilastro sociale europeo mira a riassumere principi e diritti contenuti in normative europee

esistenti nell’ambito della tutela della salute e a dare anche maggiore visibilità all’acquis facendo

riferimento (implicito) ai Trattati, alla Carta sociale europea e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia

europea ma costituisce un significativo quadro di riferimento per gli Stati deciso su proposta della

Commissione e con proclamazione interistituzionale del Parlamento Europeo e del Consiglio44.

In altre parole, il Pilastro europeo costituisce solo un punto di partenza per una maggiore attenzione al

benessere dei cittadini e al potenziamento del modello sociale europeo, che dovrà tuttavia essere

elaborato e riempito di contenuti negli anni a venire, in particolare attraverso lo stanziamento di

adeguate risorse di bilancio che possano consentire l’effettivo perseguimento degli obiettivi dichiarati.

In questo senso, il Pilastro sociale, se efficacemente attuato, potrebbe contribuire a “rendere saldo” uno

dei tradizionali “zoccoli duri” del processo di integrazione europea45.

Va considerato, peraltro, che diversamente che per le infrastrutture economiche, per il potenziamento o

la creazione delle infrastrutture sociali non servono grandi investimenti e la proposizione di modelli,

esistenti in alcuni Paesi europei, in istruzione, salute e disponibilità abitativa non avrebbero i costi di

investimenti in opere pubbliche quali strade, ponti, linee ferroviarie.

Ad esempio, promuovere in modo significativo il partenariato pubblico privato per investimenti in

infrastrutture sociali a lungo termine sarebbe operazione che intersecherebbe più ambiti e obiettivi

condivisi da Unione e Stati, con la prerogativa di mettere al centro dell’attenzione degli interventi le

persone e i loro diritti. Il riferimento è, in particolare, a forme di cooperazione tra le autorità pubbliche

e il mondo delle imprese e della finanza che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il

rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio46. Ciò

consentirebbe di innescare un circuito virtuoso nell’ambito del quale le risorse dell’investitore pubblico

sono integrate e supportate da quelle del settore privato, perseguendo fini di politica sociale che

consentano una migliore qualità dei servizi.

che imprese commerciali hanno sfruttato per sei mesi, senza alcuna reale formazione professionale. La disoccupazione giovanile nel 2017 era del 34 percento, tenendo conto che la media si ricava dalla ponderazione di dati quali quello del 54 percento della Calabria e del 20 per cento delle regioni del nord. 44 Ex art. 292 del TFUE. 45 Si veda R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, cit., p. 11. 46 Secondo la definizione elaborata dal “Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” (COM/2004/327).

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Un esempio è quello del Social Housing, che consentirebbe di sperimentare l’introduzione di nuovi

modelli di governance con riferimento al finanziamento e alla gestione dei “progetti abitativi”, attraverso

la concessione di terreni pubblici a prezzi scontati (ovvero tramite il riconoscimenti di agevolazioni

fiscali che riducano i costi di costruzione per privati) indirizzati a una platea di soggetti ampia che non

comprende solo le classi sociali maggiormente disagiate, ma anche (e, in alcuni casi, soprattutto), la

cosiddetta “classe media impoverita” 47.

Si tratta di un ambito molto diverso dall’edilizia residenziale pubblica, nel quale si potrebbero portare

benefici ad ampie categorie di cittadini: certamente non si risolverebbe il problema del disagio sociale

nella sua interezza, ma lo sviluppo di politiche in questo senso potrebbe andare in direzione

dell’inclusione sociale, del dialogo intergenerazionale, dell’efficienza energetica – proponendo edifici

nuovi o ristrutturati con nuovi criteri di risparmio energetico –, offrendo una disponibilità abitativa per

giovani al primo lavoro, studenti fuori sede, anziani che vivono in solitudine, coniugi separati in

difficoltà economica che non possono sostenere i prezzi di mercato delle abitazioni. D’altra parte, gli

investimenti necessari non dovrebbero coinvolgere solo finanziamenti pubblici, ma potrebbero

interessare investitori quali fondi pensione, associazioni di investitori a lungo termine che non amano

investimenti a rischio, purché tali investimenti siano adeguatamente garantiti dal sistema assicurativo.

Si tratterebbe della progettazione e della costruzione di centri abitativi o grandi residenze per la classe

media in difficoltà, strutturate con servizi comuni di qualità, anche con assistenza medica di base, verde

comune, e altri servizi.

Stato, Regioni o Comuni potrebbero contribuire mettendo a disposizione porzioni di suolo pubblico o

manufatti (caserme, vecchi manufatti di archeologia industriale, aree dismesse bonificate)48 e il privato

investitore potrebbe costruire unità abitative per tipologie diverse il cui affitto, più basso di quello di

mercato ma garantito da società di assicurazioni, costituirebbe la rendita dell’investimento: nuovi

modelli di infrastrutture sociali che tengano conto anche dell’invecchiamento della popolazione

nell’Unione (si calcola che dal 18,9 del 2015 si passerà a oltre il 30 percento nel 2060) con un

incremento dovuto alle nuove aspettative di vita e con esigenze crescenti di chronic health e social care.

47 Sul tema si veda G. MARCHETTI, La tutela del diritto all’abitazione tra Europa, Stato e Regioni e nella prospettiva del Pilastro europeo dei diritti sociali, in questo numero. 48 Sul riutilizzo e sulla valorizzazione di aree attualmente dismesse, in particolare al livello regionale e locale, si vedano: A. PAPA, La dismissione di beni culturali pubblici. Note a margine della vendita a privati di un immobile di interesse storico divenuto pubblico in seguito all’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, in AA. VV., Studi in onore di Giuseppe Palma, vol. II, Torino, Giappichelli, 2012; P. MAZZINA, Dismissioni e riutilizzazione delle aree industriali nella recente legislazione, in M. SANTANGELO (a cura di), Le aree industriali nella città metropolitana di Napoli. Nuove qualità e nuovi ruoli, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 87 ss.

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Il modello sociale europeo dovrà adattarsi alle nuove esigenze delle società e investire nel capitale

umano senza fare affidamento sui soli investitori pubblici49. In questa direzione la Commissione

europea ha già promosso una Public Procurement Strategy50 che considera la necessità di convogliare

finanziamenti pubblici e privati in questo campo nella valutazione che le infrastrutture sociali portano

grandi benefici alle persone e alla società nel suo complesso. Simili iniziative contribuirebbero a

disegnare nuovi modelli di infrastrutture sociali che costituirebbero mezzi per rispondere a questioni

problematiche come invecchiamento della popolazione, esclusione sociale, disagio giovanile,

marginalizzazione delle minoranze, in particolare (ma non solo) con riferimento ad aree come le

periferie urbane, che potrebbero essere riqualificate e divenire il laboratorio di nuovi modelli di

inclusione e di coesione sociale.

In quest’ottica, forme di incentivazione alla creazione di centri educativi, formativi e sportivi nei

quartieri periferici delle città potrebbero alleviare il disagio sociale di giovani in difficoltà, promuovendo

anche la formazione finalizzata all’ottenimento di un lavoro dignitoso. Più sicurezza e la ricerca di una

maggiore eguaglianza e di forme di inclusione sociale porterebbero a dei cambiamenti che

avvicinerebbero l’Europa al modello di economia sociale di mercato posta alla base dell’Unione.

Si pensi inoltre alle potenzialità di interventi mirati dell’Unione europea per la diffusione dell’accesso a

internet nella popolazione, vero e proprio diritto sociale più che mai necessario atteso che la rete è

divenuta sia il campo di esercizio di numerose libertà classiche, che il luogo nel quale il cittadino dialoga

con la pubblica amministrazione51. In questo senso, si potrebbe dire che il diritto di accesso alla rete sia

ormai propedeutico rispetto all’esercizio di un rilevante numero di diritti (specie sociali) ulteriori. Si è

osservato pertanto che la diffusione delle nuove tecnologie e il trasferimento nella dimensione virtuale

di un sempre più ampio numero di attività umane avrebbe comportato quasi una “degradazione” di

molti diritti individuali (e in particolare dei diritti di proprietà), che divengono secondari rispetto al

diritto di accesso alla rete, in una realtà in cui la dimensione temporale tende ad assumere una posizione

predominante rispetto alla dimensione spaziale52. Un intervento dell’Unione, ad esempio finalizzato alla

49 Queste esigenze vengono sviluppate nel Report of the High Level Task Force on Investing in Social Infrastructure In Europe “Boostinng in Social Infrastructure in Europe”, Discussion Paper 074, January 2018, European Association ELTI, Long Term Investors, European Commission. 50 Si veda la Comunicazione del 3 ottobre del 2017 sul tema “Making Public Procurement work in and for Europe” in htttp//ec.europa.eu/growth/single-market/public-procurement/strategy.eu, a cui ha fatto seguito l’European Commission Consultation document on Guidance on Public Procurement on Innovation. Draft sottoposto a consultazione. 51 Si veda in questo senso G. DE MINICO, Accesso a Internet tra mercato e diritti sociali nell’ordinamento europeo e nazionale, in questo numero. 52 Si veda J. RIFKIN, The age of access: the new culture of hypercapitalism, Where all of life is a paid-for experience, (2000), trad. it., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, a cura di Paolo Canton, Milano, Mondadori, 2001.

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diffusione della “banda larga”, consentirebbe di contrastare nuovi fenomeni di esclusione sociale come

il cosiddetto “digital divide”.

Non si può comunque seriamente immaginare di fare affidamento esclusivamente sul volontariato o su

fondi pubblici di Stato, Regioni e Comuni per creare iniziative accettabili anche dal punto di vista

urbanistico e che incidano sul sociale: sono invece necessarie progettualità nuove e capacità di gestione

che il Fondo sociale europeo potrebbe promuovere e incentivare.

In altri termini, il modello sociale europeo non deve essere configurato come un modello vuoto, o

pieno soltanto di parole e di buone intenzioni, ma dovrebbe invece essere capace di realizzare adeguati

standard di istruzione e formazione, garantire livelli essenziali di tutela della salute e provvedere a creare

o incentivare modelli di social housing - che contemperino disponibilità di abitazioni per anziani che

vivono in solitudine o per giovani coppie, per consentire loro di iniziare a costruire il futuro - e,

soprattutto, iniziative per colmare il gap sociale accresciuto dalla crisi economica e perforato dai

fenomeni ormai strutturali della globalizzazione.

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Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali

di Adriana Ciancio

Sommario: 1. L’emersione di una dimensione sociale dell’integrazione europea nel diritto dei Trattati. 2. La ritrosia della giurisprudenza europea nella tutela dei diritti sociali. 3. UE e diritti sociali: un tentativo di rilettura. 4. Diritti sociali e servizi pubblici nella considerazione europea. 5. Verso uno statuto sociale della cittadinanza europea.

1. L’emersione di una dimensione sociale dell’integrazione europea nel diritto dei Trattati

Quando il 9 settembre 2015, nel corso del suo primo discorso sullo stato dell’Unione, il Presidente

Juncker lanciava l’idea di un’ampia consultazione pubblica per l’implementazione del cd. “pilastro

europeo dei diritti sociali”1, l’iniziativa veniva salutata come un giro di boa rispetto all’atteggiamento di

scarsa attenzione, se non proprio di indifferenza, che – secondo la più diffusa lettura2 – la UE avrebbe

tradizionalmente manifestato verso tale particolare categoria di diritti fondamentali.

Una tiepidezza, che – in base alla comune ricostruzione – avrebbe connotato lo stesso diritto dei

Trattati sin da quello istitutivo di Roma del 1957.

La ragione viene usualmente ricondotta alla (presunta) vocazione esclusivamente economica

dell’istituenda Comunità europea, giacché essa si sarebbe (pre)occupata esclusivamente di garantire le

libertà economiche e, più generale, di assicurare il buon funzionamento del mercato comune3. Invero,

alla luce della separazione delle competenze, le politiche di Welfare sarebbero rimaste appannaggio degli

Stati, investiti, pertanto, del compito di provvedere ad assicurare la protezione sociale dei propri

cittadini, in linea con il modello di Stato sociale accolto, sia pur con diverse intonazioni e differente

intensità, dai Paesi istitutivi della Comunità. Quest’ultima avrebbe mantenuto soltanto un margine

1 Per un primo commento in proposito, può leggersi A. CIANCIO, Verso un “pilastro europeo dei diritti sociali”, in federalismi.it, 2016, n.13. 2 Da ultimo, in tal senso, anche G. GRASSO, I diritti sociali e la crisi oltre lo Stato nazionale, in M. D’Amico – F. Biondi (a cura di) Diritti sociali e crisi economica, Milano, 2017, pp. 58 ss., ed ivi i riferimenti ad altra dottrina conforme. 3 Mettono in rilievo come sin dalle origini i Trattati avrebbero individuato nella libertà di circolazione il rimedio anticipato a qualsiasi forma di distorsione della competizione nel mercato del lavoro, R. NIELSEN – R. SZYSZCZAK, The Social Dimension of the European Community, Copenaghen, 1993, p. 37, al punto da potersi considerare la sottovalutazione dei diritti sociali intrinseca allo stesso legame europeo, secondo la lettura proposta da G. GRASSO, Il costituzionalismo della crisi, Napoli, 2012.

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residuo di intervento nei casi – da considerare del tutto eccezionali – in cui l’edificazione del mercato

comune avesse innescato fenomeni di concorrenza sleale basati sulla riduzione degli standards interni di

protezione sociale dei singoli Paesi4. Solo in questa ipotesi – e, pertanto, pur sempre a garanzia della più

ampia libertà del mercato – la Comunità avrebbe potuto adoperarsi a correzione degli squilibri,

assicurando l’armonizzazione dei sistemi sociali nazionali attraverso l’estensione del modello sociale

maggiormente protettivo.

Tale iniziale “frigidità sociale” europea – come pure è stata definita5 – avrebbe cominciato ad attenuarsi

soltanto con l’approvazione dell’Atto unico del 1986 (e la successiva approvazione nel 1989 della Carta

comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), che condusse la Comunità a porsi

espressamente come obiettivo prioritario la coesione economica e sociale (attraverso la quale mirare a

controbilanciare gli squilibri del mercato all’interno degli Stati membri meno sviluppati e a ridurre il

divario tra le diverse regioni europee6), che, però, verrà istituzionalizzata come politica delle Comunità –

e, pertanto, sviluppata – solo con il successivo Trattato di Maastricht, con cui le competenze

comunitarie in materia sociale vennero ulteriormente estese (negli artt. da 130A a 130B, in seguito

artt.158-162 TCE). E ciò nonostante le resistenze inglesi conducessero a far refluire in un Protocollo

aggiuntivo (il n. 14, intitolato “Accordo sulla politica sociale”, nemmeno ratificato, poi, dal Regno

Unito) una parte rilevante della materia sociale, tra cui la previsione che estendeva la procedura di

votazione del Consiglio a maggioranza qualificata a materie quali l’ambiente; il miglioramento delle

condizioni di lavoro, dell’informazione e della consultazione dei lavoratori; le pari opportunità tra

uomini e donne per ciò che concerne l’accesso al mercato del lavoro; e l’integrazione delle persone

emarginate da esso7.

Sarebbe invece rimasto assente a Maastricht ogni riconoscimento di veri e propri diritti sociali,

nonostante tale Trattato – come noto – introducesse la cd. cittadinanza comunitaria8.

Con il successivo Trattato di Amsterdam (1999), invero, sarebbe emerso nel diritto dei Trattati il

principio del coordinamento delle politiche dell’occupazione, sia pur nel quadro delle esigenze di

bilanciamento tra la diversità delle misure nazionali (in particolare con riferimento alle relazioni

contrattuali) con il necessario mantenimento della competitività del mercato comune (art. 136 TCE),

4 Cfr. S. GIUBBONI, Verso la Costituzione europea: la traiettoria dei diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario, in P. Costanzo – S. Mordeglia (a cura di), Diritti sociali e servizio sociale dalla dimensione nazionale a quella comunitaria, Milano, 2005, p. 26. 5 G.F. MANCINI, Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento della Comunità europea, in Il lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano, Padova, 1988, pp. 26 ss. 6Cfr. P. COSTANZO, Il sistema di protezione dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea, in www.giurcost.org/studi, 2008, pp. 9 ss. 7 Ibidem. 8 V., fra gli altri, V. LIPPOLIS, La cittadinanza europea, Bologna, 1994, passim, spec. pp. 121 ss.; e M. CARTABIA, Cittadinanza europea, in Enc. dir., Agg., IV, Roma, 1995, pp. 3 ss.

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mentre si sarebbe dovuta attendere l’elaborazione del “Trattato che adotta una Costituzione per

l’Europa” (2004) affinché quella europea cominciasse ad essere delineata come “economia sociale di

mercato”9, per quanto poi l’entrata in vigore della (impropriamente detta) “Costituzione europea”

finisse per naufragare nelle urne dei referendum di Olanda e Francia, per la preoccupazione, fra l’altro,

che l’Unione non assicurasse ai cittadini europei una protezione sociale adeguata agli standards

conosciuti all’interno dei sistemi di welfare dei Paesi membri.

E’ noto, peraltro, a conclusione di questo – necessariamente sintetico – excursus storico-normativo10, che

solo con la Carta di Nizza-Strasburgo dei diritti fondamentali (2000-2007) si impose a livello europeo il

problema del riconoscimento e della garanzia dei diritti sociali11, che infine irrompe nel diritto primario

con l’attribuzione alla Carta della stessa efficacia giuridica dei Trattati ad opera del Trattato di Lisbona

(Art. 6, par. 1 TUE)12.

Quest’ultimo, tuttavia, a fronte della prevista adesione dell’Unione alla CEDU (peraltro ormai resa

complicata dalla sonora battuta d’arresto assestata dalla Corte di Giustizia al progetto di accordo

originariamente elaborato a quel fine13), per altri versi ha, per così dire, “allentato” il riferimento alla

Carta sociale europea (ed alla Carta europea dei diritti fondamentali dei lavoratori, art. 151 par. 1

TFUE) rispetto a quanto era stato stabilito già con l’Atto unico del 1986, nel cui Preambolo si

richiamava (anche) tale documento internazionale – elaborato dal Consiglio d’Europa sin dal 1961, poi

riveduto ed integrato tra il 1990 ed il 1994 – per attribuirgli la stessa importanza della Convenzione

europea dei diritti dell’uomo nella promozione della democrazia tramite i diritti fondamentali. Ciò

9 Sui cui contenuti, v. G.L. TOSATO, Appunti in tema di economia sociale di mercato, in www.astrid-online.it, 2013. In proposito, v. anche F. BANO, L’ ”Europa sociale” nel Trattato costituzionale, in Riv. Giur. Lav., 2005, n. 4, pp. 826 ss.; e G. MAESTRO BUELGA, I diritti sociali nella Costituzione europea, in Riv. Dir. Sic. Soc., 2006, n. 1, pp. 92 ss. 10 Per la puntuale ricostruzione delle fonti del diritto sociale comunitario ed europeo, v. D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, Napoli, 2003, pp. 285 ss. 11 V. C. SALAZAR, I diritti sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: un “viaggio al termine della notte”?, in G. F. Ferrari (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pp. 239 ss.; e G. AZZARITI, Uguaglianza e solidarietà nella Carta dei diritti di Nizza, in M. Siclari (a cura di), Contributi allo studio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Torino, 2003, pp. 61 ss., spec. pp. 72 ss. 12 In argomento, ex multis, L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Trattato di Lisbona, in Dir. UE, 2008, n.4, pp. 657 ss.; ID., La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea dopo il Trattato di Lisbona: un quadro d’insieme, ivi, 2009, n.3, pp. 645 ss.; N. PARISI, Funzione e ruolo della Carta dei diritti fondamentali nel sistema delle fonti alla luce del Trattato di Lisbona, in ivi, pp. 656 ss. In posizione minoritaria, nel senso di escludere che con la menzione ex art. 6 TUE la Carta avrebbe acquistato efficacia di diritto europeo primario, cfr., R. SAPIENZA, Lisbona 2007: un nuovo Trattato per l’Unione europea, in AS, 2008, p. 134. 13 Cfr. CGUE, Parere 2/13 del 18 dicembre 2014, per il cui commento v., ex multis, C. FAVILLI, La Corte di giustizia rinvia a data da destinarsi l’adesione dell’Ue alla Cedu, in quesionegiustizia.it, 2015; D. FANCIULLO, Il parere 2/13 della Corte di Giustizia: la novissima quaestio dell’adesione dell’Unione europea alla CEDU, in federalismi.it, 2015, n.2; M. PARODI, Diritti umani vs Autonomia? Il parere 2/13 della Corte di giustizia dell’UE sull’adesione dell’UE alla CEDU, ivi, 2016, n. 3; F. DONATI, L’adesione dell’Unione europea alla CEDU alla luce del parere 2/13, in Astrid. Rassegna, 2016, n.3.

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renderebbe problematico il pieno accoglimento da parte dell’UE (anche) della Carta sociale14, che non

appare – sotto il profilo delle garanzie accordate – del tutto sovrapponibile alla Carta europea dei diritti

fondamentali e, pertanto, non riassorbibile da essa per ciò che concerne la tutela dei diritti sociali15.

Per quanto più specificamente concerne quest’ultima, pur senza poterne approfondire in questa sede i

contenuti16, è osservazione comune che la Carta di Nizza-Strasburgo delinei un modello sociale assai

sofisticato, grazie ad una lunga elencazione di diritti individuali e di libertà collettive previsti a

vantaggio dei cittadini-consumatori. In tal modo la protezione sociale finalmente assicurata dal

documento risulterebbe assai ampia, estendendosi anche al di là del tradizionale campo del mercato del

lavoro (ove, peraltro, la Carta distingue tra i diritti dei soggetti già occupati in un’attività lavorativa e

coloro che invece ne sono privi o sono inabili al lavoro), per abbracciare problematiche connesse

all’educazione, alla protezione dei minori, alle relazioni di genere, alle politiche di inclusione sociale ed

alla tutela dei soggetti deboli e dei disabili, anche oltre gli ambiti racchiusi nel IV Capo espressamente

dedicato alla “Solidarietà”.

E ciò – come testé anticipato – si iscrive oggi nel quadro normativo delineato dal TUE, che all’art. 3,

par. 3, dopo aver affermato che l’Unione instaura un mercato interno, dichiara che essa “si adopera per

lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei

prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al

progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”; ed

inoltre che essa “combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la

protezione sociale, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del

minore”, a cui segue il solenne impegno di promozione della coesione economica, sociale e territoriale,

nonché della solidarietà tra gli Stati membri17.

D’altro canto, il TFUE all’art. 9 precisa che un elevato livello di occupazione, un’adeguata protezione

sociale e la lotta contro l’esclusione sociale devono essere presi in considerazione nell’elaborazione e

nell’attuazione delle politiche dell’Unione; all’art. 152 riconosce il ruolo delle parti sociali nella UE; e

14 Cfr. G. GUIGLIA, Le prospettive della Carta sociale europea, in Ius. Rivista di scienze giuridiche, 2010, n. 3, pp. 505 ss. Ritiene, peraltro, che la UE possa aderire anche alla Carta sociale al fine di realizzare gli obiettivi di un mercato sociale pur in assenza di una formale revisione dei Trattati, J. LUTHER, Is there any “perspective” for an European Union accession to the European Social Charter?, in https://anescracse.files.wordpress.com/2014/10/jc3b6rg-luther-is-there-any-perspective-for-an-european-accession-to-the-european-charter.pdf. 15 Sulla ricchezza delle garanzie offerte dalla Carta sociale europea, v., per tutti, B. PEZZINI, La decisione sui diritti sociali. Indagine sulla struttura costituzionale dei diritti sociali, Milano, 2001, passim, soprattutto pp. 158 ss. 16 Sul tema, da ultimo, v. almeno il corposo scritto di A. O. COZZI, Diritti e principi sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Profili costituzionali, Napoli, 2017, anche per gli approfondimenti sull’applicazione della Carta da parte della giurisprudenza, europea e nazionale. 17 Sugli obiettivi e le politiche sociali dell’UE nel Trattato di Lisbona, v., tra gli altri, L. MEZZETTI, Principi costituzionali e forma dell’Unione, in P. COSTANZO – L. MEZZETTI – A. RUGGERI, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, IV ed. Torino, 2014, pp. 290 ss.

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nell’art. 153, nell’ambito della missione e degli obiettivi di politica sociale rimessi all’Unione, attribuisce

ad essa il compito di “supportare e completare le attività degli Stati membri” nei settori rilevanti, sia

all’interno, che all’esterno del mercato del lavoro, che comprende non solo chi ha un’occupazione, ma

anche coloro che l’hanno persa e sono pertanto disoccupati. Lo scopo è di migliorare le condizioni di

lavoro, la protezione sociale, la sicurezza e la salute dei lavoratori, l’informazione ad essi e la loro

consultazione, nonché l’integrazione sociale delle persone escluse dal mondo del lavoro18. Tutti

obiettivi, peraltro, da ultimi ripresi nel Preambolo del “Pilastro europeo dei diritti sociali”, approvato a

Göteborg nel 2017.

2. La ritrosia della giurisprudenza europea nella tutela dei diritti sociali

Per altri versi, l’idea di una sorta di inferiorità a livello europeo dei diritti sociali, che resterebbero

relegati in posizione di retroguardia19, sia rispetto alle classiche libertà economiche, sia in rapporto al

livello di protezione ad essi accordati dalle Costituzioni nazionali, si evincerebbe anche dagli interventi

in materia della Corte di Giustizia, per quanto ad essa, notoriamente, sin dalla fine degli anni ’6020, si

deve l’attenzione europea al riconoscimento ed alla tutela dei diritti fondamentali, prima che essi

venissero, per così dire, codificati nella Carta di Nizza-Strasburgo21. Altrettanta sensibilità, tuttavia, il

Giudice europeo non avrebbe mostrato verso i diritti sociali, specialmente in occasione dell’erompere

(anche) in Europa della crisi economico-finanziaria, pressoché contestualmente all’entrata in vigore del

Trattato di Lisbona, quando la giurisprudenza avrebbe avviato un percorso smaccatamente antisociale22,

allorché, nel difficile contemperamento tra mercato e diritti sociali, l’ago della decisione si sarebbe

decisamente sbilanciato a favore del primo23. In tal senso deporrebbero una serie di importanti

pronunce24, sin dalle celebri Viking e Laval emanate già alla fine dello scorso decennio, che hanno

portato all’attenzione anche dell’opinione pubblica il fenomeno del dumping sociale, allorché il Giudice

18 In generale sul tema, v., almeno, S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempo di crisi, Roma-Bari, 2013. 19 Cfr. M. LUCIANI, Diritti sociali e integrazione europea, in La Costituzione europea, Atti del Convegno di Perugia dell’Associazione italiana dei costituzionalisti del 7-9 ottobre 1999, Padova, 2000, p. 529, che riferisce di uno stato abituale di “minorità comunitaria” dei diritti sociali. 20 Il riferimento è alla nota sentenza in causa 29/69 Stauder/Ville d’Ulm del 12 novembre 1969, in Recueil, 1969, pp. 469 ss., in cui la Corte affermò che una disposizione di diritto comunitario “non comprende alcun elemento suscettibile di mettere in causa i diritti fondamentali della persona compresi nei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte assicura il rispetto”. 21 Non potendosi dar conto in questa sede della vastissima letteratura sul tema, sia consentito far limitato rinvio al nostro A margine dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali in ambito europeo, tra luci ed ombre, in federalismi.it, 2012, n.2, ed ivi ulteriori approfondimenti dottrinali. 22 Così F. ANGELINI, L’Europa sociale affidata alla Corte di Giustizia CE: “sbilanciamento giudiziale” versus “omogeneità costituzionale”, in Studi in onore di Vincenzo Atripaldi, Napoli, 2010, II, pp.1498 ss. 23 Cfr. M. BENVENUTI, Diritti sociali, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., V, Milano, 2012, p. 267. 24 Ne fa una breve rassegna anche G. GRASSO, I diritti sociali, cit., pp. 64 ss.

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europeo ha giudicato i differenziali salariali nei diversi Paesi membri come ammissibili strumenti di

attuazione del principio di libera concorrenza tra le imprese25.

Pertanto, la dottrina si è posta l’interrogativo su cosa sia effettivamente rimasto in piedi dell’originario

modello sociale europeo26 con il dilagare della crisi dinanzi a quella che è stata descritta come una vera e

propria svolta neo-liberale della Corte di Giustizia27, per la quale, quindi (e volendo riassumere), solo la

libertà economica sarebbe il vero e unico diritto fondamentale.

Invero, persino rispetto al primo dei diritti sociali di cittadinanza28, come viene considerato il diritto al

lavoro, la Corte non avrebbe dimostrato particolare attenzione, anche in casi in cui avrebbe potuto

agevolmente cogliere l’occasione per valorizzarne la portata ai sensi degli artt. 15 e 29 della Carta dei

diritti, preferendo, tuttavia, fondare come di consueto le proprie conclusioni sulla libertà di

circolazione29.

Del resto, ancora di recente la Corte di Giustizia, su rinvio pregiudiziale della Suprema Corte

amministrativa del Portogallo, ha giudicato legittimi, ai sensi degli artt. 19, par. 1 TUE e 47 della Carta

dei diritti, i tagli retributivi applicati temporaneamente (anche) agli stipendi dei giudici contabili per

esigenze di contenimento del debito pubblico, in quanto ritenuti non lesivi del principio di

indipendenza dei magistrati30. E ciò nonostante i Giudici di Lussemburgo riconoscano che “al pari

dell’inamovibilità dei membri dell’organo di cui trattasi, il fatto che questi ultimi percepiscano una

retribuzione di livello adeguato all’importanza delle funzioni che esercitano costituisce una garanzia

inerente all’indipendenza dei giudici”31. Tuttavia, la circostanza che la riduzione stipendiale sia stata

prevista nell’ordinamento portoghese come misura generale che investe tutto il comparto del pubblico

25 Specificamente a commento delle due decisioni, ex pluribus, L. PATRUNO, La caduta del “principio lavorista”. Note a margine di Laval e Viking: un’innovativa giurisprudenza Ce fondata su antiche diseguaglianze, in Giur. Cost., 2008, pp. 525 ss.; V. M.V. BALLESTRERO, Le sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, in Lav. Dir., 2008, n. 2, pp. 371 ss.; e A. LO FARO, Diritti sociali e libertà economiche del mercato interno: considerazioni minime in margine ai casi Laval e Viking, in ivi, n.1, pp. 63 ss., il quale rileva come “bilanciamento” sia divenuta ormai “la parola chiave per il futuro dei diritti sociali fondamentali in Europa”. 26 Cfr., ex multis, C. PINELLI, Le misure di contrasto alla crisi dell’eurozona e il loro impatto sul modello sociale europeo, in Riv. Giur. Lav., 2013, n.2, pp. 231 ss.; e, nella dottrina giuslavorista, J.P. LABORDE, Cosa resta del modello sociale europeo?, in Lav. Dir., 2013, pp. 325 ss.; D. NATALI, Il modello sociale europeo è morto? Politiche sociali e relazioni industriali tra austerità e integrazione europea, in Rass. It. Soc., 2013, n.2, pp. 227 ss.; A. ALAIMO, Cittadinanza, lavoro, occupazione. Cosa resta del modello sociale europeo?, in A. Ciancio (a cura di), Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, Roma, 2014, pp. 189 ss. 27 In tal senso S. GIUBBONI, in M. CINELLI – S. GIUBBONI, Cittadinanza, lavoro, diritti sociali. Percorsi nazionali ed europei, Torino, 2014, p. 98. 28 Cfr. T. TREU, Il diritto del lavoro: realtà e possibilità, in Arg. Dir. Lav., 2000, p. 513. Analogamente, lo definiva il “principe” fra i diritti sociali già M. MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Milano, 1956, p. 87. 29 Cfr., ad esempio, CGUE 13 dicembre 2012 in causa C379/11, Caves Krier Fréres S. àr.l c. Directeur de l’Administration de l’emploi, richiamata anche da A. ALAIMO, Cittadinanza, cit., p. 197. 30 CGUE, Grande Sezione, sentenza del 27 febbraio 2018 in causa C64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses c. Tribunal de Contas. 31 Punto 45 sent. CGUE del 27 febbraio 2018, citata supra alla nota precedente.

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impiego (e non soltanto la magistratura, tantomeno solo quella contabile) come misura di austerity

idonea a far rientrare il Portogallo nei parametri imposti dall’UE per la concessione di aiuti finanziari ai

Paesi in difficoltà, farebbe sì che le invocate disposizione del Trattato e della Carta dei diritti “non

ostino” a che tali misure di risanamento del deficit statale si applichino anche ai giudici contabili, senza

minarne, per l’appunto, l’indipendenza.

In particolare, la contestazione rivolta alla giurisprudenza negli anni della crisi riguarda la (presunta)

marcata sottovalutazione dei diritti sociali – e, fra questi, specialmente, del diritto al lavoro – a fronte

della valorizzazione ad essi invece accordata nell’ambito delle politiche e delle norme di soft law. Ciò, per

altri versi, dà spunto a chi ritiene che l’integrazione europea rischia di arrestarsi su un binario morto,

ove continui ad essere affidata precipuamente all’opera della giurisprudenza, che pure ha finora giocato

in questa direzione un ruolo decisivo32, dovendosi, tuttavia, per il futuro porre al centro dei processi di

rafforzamento dell’Unione l’attività politica e, a cascata, la legislazione (ossia gli atti normativi imperativi

di cd. hard law), che della prima rappresenta l’estrinsecazione tipica e più significativa33.

3. UE e diritti sociali: un tentativo di rilettura

In sintesi, dall’analisi finora condotta si evincerebbe nel complesso una debole considerazione europea

per i diritti sociali, sia a livello normativo, per lo meno fino alla Carta di Nizza, nonché, persino dopo

l’attribuzione ad essa di efficacia giuridicamente vincolante, da parte della giurisprudenza34, la quale,

all’inverso, da decenni ormai si mostra attenta alle esigenze di protezione delle classiche libertà civili,

ossia verso quelle che, nella sistematica tradizionale, vengono comunemente definite libertà negative35.

Tuttavia, il giudizio fortemente critico verso quella che viene dai più ritenuta la “tradizionale”

insensibilità europea nei confronti dei diritti sociali, forse, potrebbe venire, almeno in parte, attenuato se

solo si considera che questi ultimi non si esauriscono senza margine nei cd. “diritti a prestazioni

positive”36. Invero, da tempo la dottrina ha messo in luce per lo meno un’altra categoria di diritti sociali,

qualificabili come diritti sociali di libertà37, il cui pieno esercizio presuppone solo l’assenza di barriere

32 In proposito v., per tutti, A. RUGGERI, L’integrazione europea attraverso i diritti e il valore della Costituzione, in Nuove strategie, cit., pp. 473 ss. 33 Cfr. A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europa, in Quad. cost., 2014, n.1, pp. 96 ss. 34 Cfr., per tutti, A. POGGI, Crisi economica e crisi dei diritti sociali nell’Unione europea, in Riv. AIC, 2017, n.1, p. 13. 35 Contra, nel senso della perdurante centralità assicurata dalla Corte di giustizia alle libertà economiche anche quando esse confliggono con le classiche libertà civili, cfr., però, R. BIN, Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa. Relazione finale, in Nuove strategie, cit., pp. 504 ss. 36 Individuati come i diritti sociali in senso stretto, ex multis, da L. MENGONI, I diritti sociali, in Arg. Dir. Lav., 1998, p. 2. 37 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. Giur., XI, Roma, 1989, ora anche in ID., Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, pp. 123 ss., spec. pp. 212 ss., che colloca i “diritti sociali di libertà” come categoria ulteriore rispetto ai diritti sociali cd. incondizionati e a quelli condizionati.

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e/o ostacoli, che diviene, pertanto, compito dell’ordinamento, che riconosce e garantisce tali diritti,

rimuovere. E, del resto, guardando per un momento all’ordinamento italiano, la stessa proclamazione

del secondo comma dell’art. 3 Cost. lascia emergere tale interpretazione, tra le altre che pure sono state

proposte in merito alla particolare “struttura”, che assumerebbe la categoria dei diritti sociali,

considerando che il pieno raggiungimento dell’eguaglianza sostanziale comporta non solo l’attuazione

di politiche redistributive, ma altresì l’eliminazione di tutte quelle forme di discriminazione, che,

risolvendosi in altrettanti “ostacoli di ordine economico e sociale”, impediscono il “pieno sviluppo della

persona umana”. Ed è, d’altra parte, noto – conviene appena aggiungere – che i diritti fondamentali a

livello europeo emergono dalle tradizioni costituzionali dei Paesi membri38, i quali, peraltro, accolgono

modelli di Stato sociale anche assai differenti tra di loro.

Orbene, non si può certamente affermare che l’Unione europea non brilli per politiche o azioni in

senso antidiscriminatorio.

Da quest’angolo di osservazione, allora, forse la “fortuna” dei diritti sociali in Europa si presta ad altra

lettura, meno negativa, con riferimento ad una UE considerata sovente potenziale veicolo di

svuotamento delle conquiste dello Stato sociale39.

A tal fine, l’angolo di osservazione privilegiato resta pur sempre quello offerto dal mercato del lavoro.

Ed invero, già nel Trattato di Roma compare all’art. 119 il principio della parità di trattamento

retributivo tra uomini e donne40, sulla scorta delle pressioni esercitate dalla Francia, che, soprattutto nei

settori industriali dove più largo era l’impiego di manodopera femminile, temeva una concorrenza sleale

da parte degli Stati dove il Gender Pay Gap era molto più ampio.

Certamente non ci si può nascondere che la disposizione fosse anch’essa funzionale al pieno

dispiegamento del principio della libera concorrenza, contribuendo ad eliminare (anche sotto il profilo

dell’eguaglianza fra i sessi per ciò che concerne i diritti dei lavoratori) ogni distorsione che potesse

inficiare il buon funzionamento del mercato. Ma è anche vero che nel Preambolo dello stesso Trattato

istitutivo si legge altresì l’impegno dei firmatari a “rafforzare l’unità delle loro economie e di assicurarne

lo sviluppo armonioso riducendo la disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno

favorite”. Ciò consente, al di là della mancata menzione espressa, di far risalire già al 1957 le origini

38 Ampiamente, nel medesimo senso, C. PINELLI, Il discorso sui diritti sociali tra Costituzione e diritto europeo, in http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Pinelli_relazione_convegno1.pdf 39 In dottrina, con riferimento all’ordinamento italiano, tale preoccupazione era già in M. LUCIANI, La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Pol. Dir., 1992, p. 578 ss. 40 Per il commento della disposizione, v., almeno, L. LEVI SANDRI, Art. 119, in R. QUADRI – R. MONACO – A. TRABUCCHI (a cura di), Trattato istitutivo della comunità economica europea, Commentario, II, Milano, 1965, pp. 953 ss.

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dell’interesse europeo per il tema della coesione economica e sociale41, che poi troverà sbocco formale –

come anticipato – con l’Atto unico del 1986 e da cui si produrranno a cascata tutti gli interventi intesi a

promuovere le pari opportunità tra i cittadini europei trasversalmente all’intero territorio dell’Unione, al

fine di garantirne uno sviluppo armonioso. Tra essi acquista risalto – come noto – l’implementazione

dei Fondi strutturali, ed in particolare del Fondo sociale europeo, quale strumento principale per

sostenere l’occupazione ed investire in capitale umano42.

Per altri versi, per quanto sembri difficilmente contestabile che nel diritto primario dell’Unione la piena

occupazione non viene in considerazione come oggetto di un diritto senz’altro azionabile, quanto

piuttosto come uno tra gli altri obiettivi della politica sociale indicati dall’art. 3, par. 3 TUE, tuttavia la

dottrina giuslavorista ha ritenuto che dalla trama complessiva della Carta di Nizza-Strasburgo possa

enuclearsi persino una dimensione “positiva” del diritto al lavoro43, giacché esso non soltanto

risulterebbe configurato come diritto a lavori dignitosi, di qualità e adeguati alle qualifiche ed attitudini

personali, ma parrebbe esteso ad abbracciare anche un diritto alla predisposizione di un adeguato

sistema di servizi all’impiego44. Ciò si evincerebbe, da un canto, raccordando l’art. 15 all’art. 29, che

assicura ad ogni persona di accedere a un servizio di collocamento gratuito; e, dall’altro lato,

ricollegando le disposizioni della Carta dei diritti all’intero tessuto delle norme europee (primarie e

secondarie) sulla libera circolazione, laddove esse mostrano di stabilire un collegamento assai stretto tra

diritto al lavoro e diritto a servizi di collocamento45.

In questo terreno, allora, affonderebbe oggi le sue radici l’art. 4 del pilastro europeo proclamato a

Göteborg.

4. Diritti sociali e servizi pubblici nella considerazione europea

Per altri versi, se è pur vero che non rientra tra le competenze dell’Unione erogare servizi pubblici, non

può non osservarsi che il principio (comunitario, prima, ed europeo, dopo) di non discriminazione

gioca un ruolo fondamentale nell’assicurare uguale accesso ai servizi pubblici dello Stato di residenza

41 Nel medesimo senso D. U. GALETTA, La tutela dei diritti fondamentali (in generale, e dei diritti sociali in particolare) nel diritto U.E. dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in E. Castorina (a cura di), Servizi pubblici, diritti fondamentali, costituzionalismo europeo, Napoli, 2016, pp. 329 ss.; e U. TRIULZI, Le politiche economiche dell’Unione europea, II ed., Milano, 2016, pp. 129 ss. 42 V. R. BIN – P. CARETTI – G. PITRUZZELLA, Profili costituzionali dell’Unione europea, Bologna, 2015, p. 232. 43 Cfr. A. ALAIMO, op. cit., pp. 194 ss., cui si rinvia per gli opportuni approfondimenti sul tema ed i relativi richiami bibliografici. In senso contrario, cfr., però, G. DEMURO, Art. 15, in R. Bifulco – M. Cartabia – A. Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, 2011, pp. 126 ss., secondo cui il diritto al lavoro enunciato nella Carta non sarebbe altro che la traduzione a livello comunitario dell’obiettivo della cd. employability. 44 Sulle misure di implementazione dei servizi europei per l’impiego, v. S. SCIARRA, Il diritto sociale europeo al tempo della crisi, in E. Catelani – R. Tarchi (a cura di), I diritti sociali nella pluralità degli ordinamenti, Napoli, 2015, pp. 275 ss. 45 Cfr. A. ALAIMO, op. e loc. ult. cit.

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per tutti i cittadini dell’Unione europea, sicché, sia pur in modo indiretto, il diritto EU finisce per

incidere sull’andamento di tali servizi46 e, dunque, in ultima analisi, sulla stessa fruizione dei diritti sociali

in condizioni di eguaglianza.

D’altra parte, la dizione dell’art. 14 TFUE in tema di cd. servizi di interesse economico generale47 ne

valorizza il ruolo – e sin dal Trattato di Amsterdam a cui risale l’attuale formulazione (16 TCE) – in

relazione alla “promozione della coesione sociale e territoriale”, al punto da potersi concludere che dal

tenore della disposizione si evincerebbe un ampliamento delle eccezioni ai principi di libera

concorrenza e del libero mercato funzionali alla garanzia, diretta o indiretta, dei diritti sociali48.

Invero, per quanto appaia ancora obiettivo di lungo periodo il raggiungimento di uno “statuto europeo

comune” dei servizi di interesse generale, sia di quelli economici, che di quelli non economici49, non

può nemmeno trascurarsi che emerge ormai nella giurisprudenza della Corte di giustizia una

considerazione ampia della categoria dei servizi pubblici, con la riconduzione ad essi pure

dell’amministrazione della giustizia, a cui, pertanto, la Corte applica pacificamente il principio generale

di diritto europeo della responsabilità dello Stato per i danni causati da suoi organi, esteso allora (anche)

all’esercizio del “servizio pubblico della giustizia”50 .

Si tratta solo di un esempio, che, però, potrebbe, forse, contribuire ad attenuare l’accennata valutazione

critica della prudenza tradizionalmente dimostrata dai Giudici europei nel campo della protezione

sociale dei cittadini europei, dinanzi alla necessità di garantire il funzionamento del mercato unico sulla

base del principio-cardine di libera concorrenza.

E, del resto, se pure si intensifica la ricerca in ordine alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i

diritti sociali, si scopre agevolmente che la Corte di giustizia – sia pur basandosi sul principio di non

discriminazione, o anche strumentalmente all’esigenza di tutelare le libertà economiche51 - è giunta,

46 Cfr. in proposito E. CASTORINA, Integrazione europea e “servizi pubblici”, in Nuove strategie, cit., pp. 177 ss., spec. pp. 186 ss., anche per il richiamo a talune decisioni giurisprudenziali rilevanti sul tema. 47 “Fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articoli 93, 106 e 107 del presente trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolari economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono tali principi e fissano tali condizioni, fatta salva la competenza degli Stati membri, nel rispetto dei trattati, di fornire, di fare eseguire e finanziare tali servizi”. 48 Cfr. J. ZILLER, Il concetto di pubblico servizio nel diritto dell’Unione europea, in Servizi pubblici, cit., pp. 109 ss. 49 Secondo gli auspici formulati da E. CASTORINA, op. cit., p. 187. 50 Cfr. le Conclusioni dell’Avvocato Generale Philippe Léger dell’8 aprile 2003 in causa C-224/01, Koebler v. Repubblica austriaca, richiamate da E. CASTORINA, op. e loc. cit. 51 In questo senso, tra gli altri, F. SALMONI, Diritti sociali, sovranità fiscale e libero mercato, Torino, 2005, p. 94.

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tuttavia, non raramente ad offrire protezione a veri e propri diritti sociali52, quale quello alla salute ed

alle cure gratuite transfrontaliere, aprendo sostanzialmente la strada con la propria giurisprudenza alla

rilevante normativa secondaria in materia53.

Più in generale, da tale indagine emerge tutto un filone giurisprudenziale che valorizza la cittadinanza

europea come status che consente a chi ne gode, e si muova entro i confini dell’Unione, di vantare un

uguale titolo di accesso alle prestazioni sociali erogate ai propri cittadini nazionali da parte dello Stato di

volta in volta ospitante. In tal modo la Corte di giustizia spingerebbe i diversi Stati membri verso la

conformazione dei propri sistemi di welfare in modo da includere tra i beneficiari dei servizi sociali non

soltanto i lavoratori migranti e i loro familiari, ma tutti i cittadini europei anche se economicamente non

attivi54.

Infine, ma non da ultimo, su questo punto che pure intercetta la tematica odierna, ma al quale si può in

questa sede soltanto accennare, conviene appena ricordare che matrice comunitaria ha quella nozione di

“servizio universale”55, che pure oggi viene sovente invocata per sostenere l’affermazione di “nuovi”

diritti sociali, tra cui, emblematicamente, il diritto di accesso ad Internet e, più in generale, ai nuovi

mezzi di comunicazione56. Invero, l’idea di servizio universale trapela nel linguaggio comunitario sin

dagli inizi degli anni ’90, per poi venire compiutamente enunciata nell’ambito della Direttiva 97/33/CE

(sulle interconnessioni nel settore di telecomunicazioni) come “un insieme minimo definito di servizi di

determinata qualità disponibile a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e, tenuto

52 Per altri versi, richiama alla cautela nel giudizio verso la giurisprudenza europea pure A. RUGGERI, Per uno studio sui diritti sociali e sulla Costituzione come “sistema” (notazioni di metodo), in Consulta online, 2015, n.2, pp. 549 ss., allorché ricorda il contributo fornito dalla giurisprudenza sovranazionale allo svecchiamento della giurisprudenza interna in tema di tutela dei diritti fondamentali (anche) sociali. 53 Cfr., con il richiamo alla giurisprudenza più significativa in materia, A. PATANE’, La “tutela della salute” dei cittadini dell’Unione Europea nelle prestazioni sanitarie transfrontaliere, in Nuove strategie, cit., pp. 573 ss., spec. pp. 577 ss. 54 Così, sia pur in posizione critica, C. SALAZAR, I diritti sociali nel “gioco delle tre Carte”: qualche riflessione, in L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta (a cura di), La Carta dei diritti dell’Unione Europea e le altre Carte, Torino, 2016, pp. 234 ss., ed ivi la ricognizione dei più significativi casi giurisprudenziali rilevanti in proposito. 55 V., per tutti, G. F. CARTEI, Il servizio universale, Milano 2002. 56 Cfr. A. VALASTRO, Il servizio universale, fra libertà di comunicazione e diritto all’informazione, in DRT, 1999, n.1-2, pp. 60 ss.; e R. ZACCARIA, Dal servizio pubblico al servizio universale, in L. Carlassare (a cura di), La comunicazione del futuro e i diritti delle persone, Padova, 2000, pp. 12 ss.; poi ripreso, con più specifico riferimento all’accesso alle reti cd. “a banda larga”, da G. DE MINICO, Regulation, banda larga e servizio universale. Immobilismo o innovazione, in Pol. Dir., 2009, n. 4, pp. 531 ss., con osservazioni poi refluite anche in ID., Tecnica e diritti sociali nella regulation della banda larga, in G. De Minico (a cura di), Dalla tecnologia ai diritti. Banda larga e servizi in rete, Napoli, 2010, pp. 5 ss. In proposito, tuttavia, si è già avuto modo di replicare che gli ostacoli all’uguale diritto di tutti di accedere alle cd. “nuove tecnologie”, quale precondizione di un effettivo pluralismo e, pertanto, di piena implementazione dello stato democratico-sociale, non sono solo di tipo economico e geografico e come tali non scardinabili del tutto con il ricorso al concetto di servizio universale, così, se si vuole, A. CIANCIO, Il pluralismo alla prova dei nuovi mezzi di comunicazione, in A. Ciancio (a cura di), Il pluralismo alla prova dei nuovi mezzi di comunicazione, Torino, 2012, p. 27; e ID., Nuovi mezzi di comunicazione e pluralismo etico, linguistico e religioso, in M. Villone – A. Ciancio – G. De Minico – G. Demuro – F. Donati (a cura di), Nuovi mezzi di comunicazione e identità. Omologazione o diversità, Roma, 2012, p. 30.

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conto delle condizioni specifiche nazionali, ad un prezzo abbordabile”57. In termini sostanzialmente

analoghi si esprimeva, quindi, la Direttiva 98/10/CE (“Sull’applicazione del regime di fornitura di una

rete aperta … alla telefonia vocale e sul servizio universale delle telecomunicazioni in ambiente

concorrenziale”)58, mentre, dopo alcuni anni, il Libro Verde della Commissione sui servizi di interesse

generale del 21 aprile 2003 è intervenuto a specificare che “il concetto di servizio universale fa

riferimento ad una serie di requisiti di interesse generale che assicurano che taluni servizi siano messi a

disposizione di tutti gli utenti e consumatori finali al livello qualitativo stabilito, a prescindere

dall’ubicazione geografica e, tenuto conto delle specifiche circostanze nazionali, ad un prezzo

accessibile”.

Ora, vero è che la UE ad oggi non eroga direttamente prestazioni sociali, così come, d’altra parte, è

altresì vero – secondo quanto si ventilava poc’anzi – che la problematica dei diritti sociali non è

perfettamente sovrapponibile all’altra dei servizi forniti dalle amministrazioni pubbliche, sì potersi

considerare completamente assorbita da quest’ultima. Tuttavia, quelli finora accennati sono tutti

elementi che consentono di retrodatare, e anche di molto, la sensibilità europea verso i diritti sociali

persino rispetto all’elencazione assai nutrita fornitane infine dalla stessa Carta dei diritti fondamentali.

5. Verso uno statuto sociale della cittadinanza europea

Peraltro, non è compito di questo contributo andare oltre, preconizzando il futuro, trattandosi semmai

di ricercare le radici di quella, che, a prima vista, potrebbe sembrare soltanto un’acquisizione recente da

parte della UE circa la necessità di (ri)fondare il progetto di integrazione politica europea sulla base di

un principio di solidarietà economica e sociale interstatale, che renda l’Unione, e in essa l’eurozona più

in particolare, anche una comunità di rischi, in grado di assorbire gli shocks asimmetrici tra le varie aree,

attraverso una massiccia mutualizzazione dei debiti sovrani, a sua volta foriera di significative misure

redistributive, non solo trasversalmente ai diversi Stati membri, ma, altresì, all’interno di ciascuno di

essi, tra le diverse classi sociali59.

Invero, non è più tempo per dubitare che lo sviluppo dell’Unione dipende ormai dal buon

funzionamento del mercato del lavoro e dei sistemi di Welfare in tutti i suoi Paesi membri e per tutti i

suoi cittadini60.

57 Art. 2, I co. lett. g Dir. CE 97/33. 58 Art. 2, II co. lett. f Dir. CE 98/10, che identifica la nozione di servizio universale con “un insieme minimo definito di servizi, di una data qualità, a disposizione di tutti gli utenti, indipendentemente dalla localizzazione geografica e offerto, in funzione delle specifiche condizioni nazionali, ad un prezzo abbordabile”. 59 Nel medesimo senso, cfr. R. BIN – P. CARETTI – G. PITRUZZELLA, Profili costituzionali, cit., pp. 315 ss. 60 La sottolineatura dell’importanza della costruzione di un “droit social européen” in funzione di spinta propulsiva sul processo di integrazione politica era già in R. GOSALDO BONO, Les politiques et actions communautaires, in Rev. Trim. Dr. Eur., 1997, p. 784. Nel medesimo senso, molto più di recente, A. POGGI, Crisi economica, cit., p. 13, che

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Tuttavia, pur restando fedeli all’intenzione originaria, dall’indagine condotta si trae conferma per

concludere che la lamentata fiacchezza della UE sul piano della garanzia dei diritti sociali riguarda

prevalentemente i cd. diritti a prestazioni e, in quest’ottica, sia in ultima analisi riconducibile alla

resistenza degli Stati membri a trasferire le necessarie competenze (anche) di politica economica e

fiscale alle istituzioni comuni61. Queste ultime, invero, fino ad oggi hanno scontato la mancanza degli

adeguati strumenti operativi per attuare efficaci interventi redistributivi62 e, per tale via, per rendere

effettiva la cittadinanza europea anche nella sua dimensione sociale63, quale statuto unitario64, cioè, che

assicuri a tutti i cittadini UE il godimento dei medesimi livelli di servizi e prestazioni sociali

trasversalmente all’intero territorio dell’Unione65.

ritiene la scelta di proteggere i diritti sociali a livello europeo una decisione politica fondamentale nel senso schmittiano dell’espressione. 61 In proposito, ex multis, v. E. RAFFIOTTA, Il governo multilivello dell’economia, Bologna, 2013, pp. 54 ss.; cui adde, volendo, A. CIANCIO, I nodi della governance europea: euro, politica fiscale, bilancio unico dell’Unione. Per una nuova legittimazione democratica della BCE, in federalismi.it, 2015, n. 16, pp. 1 ss.; e ID., Verso un “pilastro europeo dei diritti sociali”, cit., pp. 1 ss. 62 Sui limiti che incontra la UE sul piano della (re)distribuzione delle risorse a fini sociali, v. anche A. D’ALOIA, Diritti sociali e politiche di eguaglianza nel “processo” costituzionale europeo, in M. Scudiero (a cura di), Il diritto costituzionale comune europeo. Principi e diritti fondamentali, Napoli, 2002, I, III t., p. 845. 63 Sui differenti profili che intercettano il tema v. anche i contributi raccolti nel volume di E. TRIGGIANI (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Bari, 2011. 64 Sulla cittadinanza dell’Unione come “statuto d’integrazione sociale” già L. AZOULAI, Le citoyenneté européenne, un statut d’intégration sociale, in Chemins d’Europe. Mélanges en l’honneur de Jean Paul Jacqué, Parigi, 2010, pp. 1 ss. 65 Analogamente, di recente, anche G. DE MURO, I diritti sociali tra dimensione europea e identità costituzionale degli Stati, in A. Ciancio (a cura di), Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai Trattati di Roma, Torino, 2017, pp. 199 ss., il quale auspica il superamento del paradigma dei diritti sociali come diritti legati al territorio ed alla sovranità statale, in vista della “creazione di un meccanismo di welfare comune fondato sulla dignità umana come base dell’autonomia personale” (p. 206).

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Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione

di Andrea Patroni Griffi

Sommario: 1. Premessa. La parte dimenticata del manifesto di Ventotene – 2. L’anima sociale del costituzionalismo del secondo dopoguerra – 3. Il lento cammino dell’Europa sociale – 4. Diritti sociali e futuro dell’Europa – 5. Per un nuovo scenario europeo di governo dell’economia

1. Premessa. La parte dimenticata del manifesto di Ventotene

Nell’Europa della crisi, unione economica, unione politica e unione sociale – e fiscale – non dovrebbero

essere considerate in modo disgiunto, ma come parti strettamente interconnesse del processo di

integrazione europeo. La realizzazione del mercato unico, almeno quando inteso come strumento di

un’integrazione più ampia, vive di variabili che non appaiono affatto indipendenti dal rispetto dei diritti

anche di quelli sociali.

Tale assunto, in realtà, è bene chiarire in premessa, non può essere considerato già acquisito a livello

europeo. La posizione rivestita dai diritti sociali, in tale sistema, è frutto di un emergere graduale, che va

sviluppandosi su di un piano invero differente rispetto al livello raggiunto nell’ordinamento

costituzionale italiano.

Il più recente e rilevante intervento in materia è rappresentato dal “Pilastro europeo dei diritti sociali”,

sottoscritto congiuntamente da Parlamento, Consiglio e Commissione durante il “vertice sociale per

l’occupazione equa e la crescita”, tenuto a Göteborg il 17 novembre 2017. Si tratta dell’esito ultimo del

processo di emersione della dimensione sociale all’interno del processo di integrazione, le cui vie di

rafforzamento si rinvengono sia, a diritto europeo invariato, nella normativa di settore e ancor più nelle

pronunce delle Corti, nazionali ed europee, sia, e soprattutto, a livello di scelte politiche di un’Europa

che voglia essere più unita nei diritti e nelle politiche sociali e fiscali, che necessitano dunque di riforme

in tale direzione. Riforme che peraltro potrebbero non riguardare tutti gli Stati, ma realizzarsi a

geometrie variabili solo tra alcuni dei Paesi membri.

Per cominciare occorre ricordare, sia pure per scenari ricostruttivi, in primo luogo, la portata che i diritti

sociali e l’eguaglianza, anche in senso sostanziale, al di là del mero principio di non discriminazione,

hanno nelle Costituzioni del secondo dopoguerra e conservano nel costituzionalismo della crisi,

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riguardata questa non solo sul piano economico, ma anche quale crisi di alcune categorie che erano

considerate acquisite al costituzionalismo contemporaneo e che con la globalizzazione e con il cambio

di paradigma nel rapporto tra politica e mercato, tra diritto e economia, giungono a incidere sul terreno

delle conquiste dei diritti.

In secondo luogo, e in tale ambito, si tratta poi di evidenziare come, a trattato vigente, anche alla luce

della giurisprudenza europea, l’aspetto sociale sia davvero, come è stato scritto, “la parte dimenticata del

Manifesto di Ventotene”1, e come ciò in realtà tradisca lo stesso significato più profondo del processo

di integrazione. Non vi è dubbio che i diritti sociali sono diritti pretensivi allo svolgimento di politiche

pubbliche in grado di realizzarli, ma l’argomento relativo al “costo” di questi diritti non può divenire

ragione per far prevalere, negli inevitabili bilanciamenti, le ragioni delle libertà economiche e del

mercato.

Si tratta infine di delineare quali misure sia possibile intraprendere sul piano delle riforme nonché in

definitiva di capire, nella situazione data, successiva all’allargamento ad Est, che si è tradotto, nello

scenario di crisi, nelle logiche egoistiche del gruppo di Visengraad e del post Brexit, la natura che

l’Unione vorrà assumere in previsione di scelte che potranno segnarne, nel prossimo futuro, il rilancio o

al contrario un rischio di dissoluzione, o ancora un ugualmente pericoloso scenario di stallo che si

protragga nel tempo.

2. L’anima sociale del costituzionalismo del secondo dopoguerra

L’essenza stessa del passaggio dallo Stato liberale alla democrazia pluralista della Costituzione

repubblicana è stata individuata a partire dall’insegnamento di Norberto Bobbio proprio nel “concetto

di libertà non scisso ma ancorato a quello di eguaglianza sostanziale”, e in una “nuova tipologia di diritti,

ispirata ai principi di giustizia sociale e fondata su un principio costituzionale sconosciuto al

costituzionalismo liberale ottocentesco, la «libertà dal bisogno»”2.

In tal senso, Welfare, diritti, prestazioni e relative politiche sociali hanno caratterizzato in modo decisivo

l’avvento delle democrazie pluraliste e il costituzionalismo del secondo dopoguerra nell’Europa

continentale, sicché, è possibile sostenere, “l’aggettivo «sociale» ha una funzione qualificativa della

1 L. PATRUNO, La parte dimenticata del Manifesto di Ventotene: il riformismo sociale dell'Europa libera e unita, in Costituzionalismo.it, n. 3/2006. 2 M. CALAMO SPECCHIA, L’Europa del disincanto tra rivendicazioni sovrane e sostenibilità “sociale”, in Europa e diritti sociali, a cura di D. CAPITANT, Rass. Dir. pubbl. eur., n. 1/2017, 3 che richiama N. BOBBIO, Sui diritti sociali, in Cinquant’anni di Repubblica italiana, a cura di G. NEPPI MODONA, Torino, 1996, 124.

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forma di Stato fatta propria dalle Costituzioni del secondo dopoguerra”3. Si tratta di un fattore di

possibile identità culturale e identità politica dell’Europa4.

La dimensione sociale costituisce elemento comune delle forme di Stato dei Paesi europei, sia pure

certo con alcuni distinguo e soprattutto con “differenti modalità di costituzionalizzazione dei diritti

sociali”5 e degli obblighi di solidarietà6.

Al di là del precedente rappresentato dalla sfortunata Costituzione di Weimar, si pone, solo nel secondo

dopoguerra, una nuova frontiera quella dell’eguaglianza, declinata come “libertà dal bisogno”, quale

orizzonte nuovo del costituzionalismo, che non dovrebbe potere essere ignorato, o anche indebolito,

ridimensionato, nello scenario sovranazionale, che amiamo definire di multilevel constitutionalism. Eppure,

come si tornerà a vedere, la pluralità degli ordinamenti e dei livelli di tutela dei diritti, anche sociali,

dinanzi a una pluralità di Corti non si risolve necessariamente in un innalzamento di tale tutela, anzi.

La centralità dell’eguaglianza in senso sostanziale e dei diritti sociali emerge evidente nella genesi stessa

della Costituzione repubblicana. Basti ricordare le parole pronunciate da Piero Calamandrei nel suo

famoso discorso sulla Costituzione: “La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si

muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile”; dove il combustibile

costituzionale è proprio quel “compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il

pieno sviluppo della persona umana”, perché “soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà

veramente dire che la formula contenuta nell'art. 1, il principio democratico stesso corrisponderà

pienamente alla realtà”7.

Ebbene anche oggi Luigi Ferrajoli ci mette in guardia da quella “utopia regressiva” 8, che soprattutto

l’Europa non può far propria, se non a rischio di dequalificare il processo politico di integrazione, di un

sostanziale regresso nel livello di tutela dei diritti soprattutto sociali raggiunto nei singoli ordinamenti.

Un tale regresso infatti non potrebbe aversi senza gravi contraccolpi sociali, politici, o anche “fatti”

3 F. RIMOLI, voce Stato sociale (dir. cost.), in Enc. Giur., Treccani, 2005. Per un quadro d’insieme v. tra gli altri A. D’ALOIA, Storie costituzionali dei diritti sociali, in Scritti in onore di Michele Scudiero, vol. II, Jovene, Napoli 2008, 689 ss. 4 Sulla biunivoca relazione tra identità culturale e politica v. P. HABERLE, Costituzione e identità culturale, Giuffrè, Milano, 2006. 5 M. CALAMO SPECCHIA, L’Europa del disincanto tra rivendicazioni sovrane e sostenibilità “sociale”, cit., spec. 15 ss. Paradigmatico il noto articolo 1 della Costituzione spagnola, laddove statuisce che “La Spagna è uno Stato sociale e di diritto…”. 6 In Francia in particolare, da ultimo, il Conseil consitutionnel (Décision n° 2018-717/718 QPC, del 6 luglio 2018) viene a riconoscere nella “divisa” della Repubblica, “Liberté, Égalité, Fraternité”, valore di pieno “principio di valore costituzionale” alla stessa fraternité. 7 P. CALAMANDREI, Discorso del 26 gennaio 1955, Salone degli Affreschi della Società Umanitaria Milano, di facile reperibilità in internet. 8 L. FERRAJOLI, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, 2018, XI.

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latamente “rivoluzionari”, o meglio forse qualificarli reazionari, quali il riemergere dei nazionalismi, che

vengono declinati come sovranismi9, con una differenza quasi più lessicale che sostanziale.

L’“eguaglianza costituzionale”, sancita nell’articolo 3, in cui eguaglianza e libertà, eguaglianza formale e

sostanziale, non sono più valori contrapposti di ideologie tra di loro belligeranti e incompatibili, ma

trovano la giusta sintesi, costituisce anche una possibile quanto necessaria prospettiva europea. L’

“utopia regressiva” trova il suo pericoloso acme nella prospettiva di deresponsabilizzazione dalla tutela

dei diritti sociali e dalle relative politiche, a livello tanto nazionale quanto europeo. La realizzazione

effettiva e la tutela giurisdizionale dei diritti sociali vanno invece ricondotti al centro del dibattito sia

politico e normativo, a trattati vigenti ma anche in un’auspicabile riforma degli stessi, sia giuridico, in

particolare nella prospettiva giurisdizionale delle Corti multilivello.

Eguaglianza e libertà costituiscono non solo il tessuto stesso di cui è fatta l’intera Costituzione italiana10,

ma sono i valori su cui si è forgiata l’idea dell’Europa unita nel pensiero dei suoi Padri più nobili11. Si

pensi alla grande tradizione liberal-socialista di “giustizia e libertà”, di Carlo Rosselli e poi del partito

d’azione, di cui dovrebbero in teoria essere eredi tutte le forze politiche che si muovano nell’alveo dei

valori costituzionali delle democrazie pluraliste.

L’Europa non può essere essa sede di un paradigma neoliberale, o ordoliberista12, che comporta e

legittima il ritrarsi dei diritti sociali per le ragioni del mercato.

L’Europa non può ridursi ad un sistema economico che favorisca le rendite finanziarie come paventano

ad esempio le teorie economiche di Piketty13. Deve, piuttosto, tornare a prendere coscienza del fatto

che essa nasceva proprio dal fallimento del sistema di mercato, che non era riuscito a garantire

un’esistenza dignitosa al maggior numero di persone e, anzi, aveva provocato terribili conflitti in

Europa e nel mondo.

Si tratta di frontiere ancor oggi delicatissime che non possono non toccare questioni di interesse

europeo, anche nell’ottica dello stesso mercato, riguardando in definitiva i nervi scoperti dei rapporti tra

politica, diritto e economia; delle politiche del lavoro e della necessaria dignità dello stesso, e una serie

di frutti avvelenati dell’ingiustizia sociale, politica ed economica globale, quali il dumping sociale e fiscale

9 Sul nesso tra “sovranismi” e “populismi”, quali “compagni” di una “crisi della democrazia”, cfr. nella recente saggistica, tra i vari: S. FELTRI, Populismo sovrano, Einaudi, Torino 2018; P. MAIR, Governare il vuoto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016; Y. MOUNK, Popolo vs democrazia, Feltrinelli, Milano 2018; M. REVELLI, Populismo 2.0, Einaudi, Torino 2017. 10 Come storica Corte costituzionale (sentenza n. 25/1966) ebbe a scrivere, ricostruendo l’uguaglianza come “principio [fondamentale] generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”. 11 Da un liberale come Luigi Einaudi a un (ex) comunista atipico come Altiero Spinelli. 12 Sull’ordoliberalismo e la Scuola di Friburgo, cfr. tra gli altri F. FELICE, L’economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, spec. 19 ss. 13 Cfr. T. PIKETTY, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Firenze, 2016 (ed. or.: T. PIKETTY, Le capitale au XXIe siècle, Seuil, Paris, 2013).

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che proprio all’interno di una comunità politica come l’Unione dovrebbe trovare, come si dirà, più

precisa regolazione e limitazione.

Non sarebbe accettabile intendere i diritti sociali quali meri “diritti condizionati”, non nel senso che il

livello della loro tutela dipenda dalle risorse disponibili, nei necessari ragionevoli bilanciamenti, ma nel

senso che il legislatore sarebbe libero di riconoscerli oppure no, senza altro limite che la propria scelta

pienamente discrezionale14. Si rischierebbe così di vanificare, in nome di pretesi, e in realtà inesistenti,

obblighi europei, l’effettività dei doveri di solidarietà sociale e di rinunciare a ogni funzione pubblica

ridistributiva del reddito proprio oggi di fronte a paradossali diseguaglianze che aumentano a causa dei

processi di accumulo della ricchezza nelle mani di pochi, sempre più ricchi, nonostante la soglia di

povertà investa percentuali crescenti di popolazione15.

La crisi non ha colpito tutti in modo indifferenziato, ma ha invece accentuato le diseguaglianze sia

verticali sia orizzontali. Sono aumentate le distanze tra i ceti sociali, senza neppure aversi sufficiente

mobilità sociale, e sono aumentate anche le distanze tra gli Stati e le regioni d’Europa.

Non si dovrebbe rinunciare a norme che regolano i rapporti economici, compresi quelli tra capitale e

lavoro – profitti e salari, attività finanziarie e contratti di lavoro –, in nome del processo di integrazione,

ma anzi a livello europeo andrebbe ritrovato un più solido fondamento a una politica di ridistribuzione

del reddito, che riguarda necessariamente tassazione e spesa pubblica, in funzione della realizzazione di

servizi di interesse generale e diritti sociali che siano alla base di un Welfare State forte e finanziariamente

sostenibile.

Su ciascuno di tali punti l’Europa non può essere indifferente e neutrale. Anzi, la sua neutralità formale

rischia di tradursi nell’imposizione di fatto di un modello di sviluppo economico che entra in inevitabile

tensione con la tenuta dello Stato sociale.

3. Il lento cammino dell’Europa sociale

Certo, non vi è cecità europea sul tema dei diritti sociali, ma emerge anche un’intrinseca debolezza della

pur “nuova” e rafforzata dimensione sociale europea, priva soprattutto di strumenti di effettività sul

piano della concreta realizzazione.

Il “Pilastro europeo dei diritti sociali”, firmato a Göteborg lo scorso novembre dal presidente della

Commissione europea Junker, dal presidente del Parlamento Antonio Tajani e dal ministro degli esteri

estone Ratas per la Presidenza di turno del Consiglio dell’UE, è atto che ha valore politico e simbolico

14 Cfr. già V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffre, Milano, 1952. 15 Cfr. i dati del Word inequality report 2018, coordinato da F. Alvaredo, L. Chancel, T. Piketty, E. Saez, G. Zucman, online qui https://wir2018.wid.world/files/download/wir2018-full-report-english.pdf. V. anche M. FRANZINI, M. PIANTA, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle. Laterza, Roma-Bari, 2016.

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per il futuro dell’Unione, ma che in sé considerato non acquista significato concreto, se non seguito da

quei necessari interventi, anche di tipo normativo, in grado davvero di mutare l’equilibrio tra le istanze

del mercato della concorrenza e quelle di un comune livello di tutela dei diritti sociali.

Sul piano del diritto vigente dell’Unione, vi è un impianto normativo complessivo che investe anche i

diritti sociali. Lo stesso Fondo Sociale Europeo, previsto già con il Trattato di Roma, è stato

gradualmente rafforzato in chiave di complessiva integrazione sociale. Con il Trattato di Maastricht poi

la dimensione sociale assurge a una più chiara emersione grazie inizialmente all’ “Accordo sulla politica

sociale”, che viene allegato al Protocollo, e che poi entra a fare parte del TUE. Il passaggio

fondamentale si ha poi con la Carta dei diritti fondamentali, in cui sono inclusi i diritti sociali. A partire

dal Trattato di Lisbona, l’art. 6 TUE parifica ai Trattati la Carta dei diritti dell’UE. Alla portata

vincolante della Carta si aggiunge l’esplicito richiamo, operato dal TFUE, alla stessa Carta sociale

europea del 1961. Ulteriore strumento è rappresentato dalla problematica adesione dell’Unione

Europea alla CEDU.

Tale impianto europeo non è riuscito a fungere da reale baluardo alla tutela effettiva dei diritti sociali dei

cittadini europei, che spesso in Italia, come in altri Stati, hanno ricevuto maggiore considerazione nelle

loro ragioni dinanzi alle Corti nazionali.

Ciò può essere considerato come un inevitabile vizio di origine della costruzione europea così come

inverata ad oggi nell’Unione. In un mercato comune che privilegi la coesione economica e monetaria, si

può sostenere con qualche ragione che i diritti diversi da quelli connessi alle libertà economiche

assumono inevitabilmente un ruolo minore, meramente funzionale alla realizzazione dei primi16. In tal

senso si potrebbe leggere tutta quella giurisprudenza della Corte di Giustizia che privilegia l’esigenza del

“buon funzionamento del mercato comune”17 e si limita a ridurre la tutela sociale a quella del principio

di non discriminazione del lavoratore.

La Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza non sembra avere voluto operare nel senso

dell’estensione delle competenze europee in ambito sociale, censurando anche talora scelte statali che

avevano fondamento sul piano della tenuta sociale dei diritti nel bilanciamento con le libertà

economiche. Così, pur avendosi sentenze della Corte di Lussemburgo rilevanti su (alcuni) diritti sociali,

non abbiamo, né è possibile in definitiva forse avere a Trattati vigenti, una giurisprudenza almeno

16 Come sembra emergere in diversi scritti. Cfr. tra gli altri G. FONTANA, Crisi economica ed effettività dei diritti sociali in Europa, in Forumcostituzionale.it, 27 novembre 2013; G. GRASSO, I diritti sociali e la crisi oltre lo Stato nazionale, in Rivista AIC, n. 4/2016; A. LUCARELLI, Diritti sociali e principi costituzionali europei, in Studi sulla Costituzione europea, a cura di A. LUCARELLI, A. PATRONI GRIFFI, Quaderni della Rass. Dir. pubbl. eur., n. 1, 2003; C. PINELLI, Il discorso sui diritti sociali fra Costituzione e diritto europeo, in Europa e diritto privato, 2011; C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, in Rivista AIC, n. 4/2013;. D. TEGA, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, in GruppodiPisa.it, 2012. 17 Cfr. M. CALAMO SPECCHIA, cit., 23, anche per l’analisi giurisprudenziale dei casi più noti lì svolta (20 ss.).

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equivalente a quella interna, costituzionale, ordinaria, amministrativa e contabile, in cui i diritti sociali

giungono ricollegarsi direttamente a principi supremi della Costituzione, quali limiti alla revisione

costituzionale e anche possibili “controlimiti” al diritto europeo.

La più attenta ricordata opera di codificazione dei diritti anche sociali sembra aiutare un processo di

rafforzamento delle tutele dinanzi alla stessa Corte di Lussemburgo, con un più attento e equilibrato

bilanciamento, all’ interno dell’ordinamento UE, tra libertà economiche e diritti sociali. Restano

comunque le discrasie e le difficoltà a ricondurre a sistema la tutela dei diritti sociali dinanzi alle Corti18.

La questione della centralità dei diritti sociali in Europa, di cui bisogna ritrovare adeguato fondamento

teorico e materiale, è questione al contempo giuridica, politica e economica in relazione ai “costi” che

comportano, invero, anche le politiche sociali e che possono trovare giustificazione solo in relazione agli

obblighi di solidarietà esistenti in una comunità, che si riconosca come tale sul piano dei conseguenti

doveri politici e sociali.

Tutti i diritti hanno un costo, come ci hanno spiegato nel noto saggio Holmes e Sunstein19, non solo i

diritti sociali, ma anche le stesse libertà dipendono dalle tasse e necessitano dell’intervento pubblico.

Anche la proprietà, il diritto non a caso definito “terribile”20, senza le tasse non esiste, nel senso che

non si potrebbero attivare tutte le pretese connesse all’esercizio del relativo diritto che presuppongono

l’esistenza di una serie di apparati pubblici. E lo stesso può dirsi per il libero mercato. “La tutela dei

diritti individuali non è mai priva di oneri finanziari” e la tutela di tutti i diritti comporta un “costo a

carico della finanza pubblica”21. La vera questione è la scelta politica di come allocare le risorse per

l’ottimale tutela dei diritti, finanziariamente sostenibile, e per lo svolgimento delle molteplici funzioni e

servizi pubblici attributi allo Stato.

4. Diritti sociali e futuro dell’Europa

Di qui alcune considerazioni, che muovono dal punto di osservazione costituito dal costo dei diritti

sociali, sulla natura e sul futuro dell’Europa.

18 V., nell’ampia letteratura e analisi giurisprudenziale, per le considerazioni e tentativi ricostruttivi più recenti: i vari contributi in Diritti sociali e crisi economica, a cura di F. BIONDI, M. D’AMICO, Franco Angeli, Milano, 2017 e in L’Unione europea e i diritti «abbandonati», a cura di A. M. NICO, G. LUCHENA, Rass. Dir. pubbl. eur., n. 2/2016; A. Ruggeri, Per uno studio sui diritti sociali e sulla Costituzione come “sistema” (notazioni di metodo), in Consulta online, n. 2/2015; S. SCIARRA, I diritti sociali e i dilemmi della giurisprudenza costituzionale, in Riv. it. diritto del lavoro, n. 3/2017, 347 ss.; F. PATRONI GRIFFI, Giudice amministrativo e integrazione giuridica europea, in Diritto pubblico europeo Rass. online, n. 1/2017; S. CARNOVALI, La garanzia dei diritti sociali quali diritti fondamentali tra giurisprudenza costituzionale italiana ed Unione europea, in Europa e diritti sociali, cit., 95 ss. 19 S. HOLMES, C.R. SUNSTEIN, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalla tasse, Il Mulino, Bologna, 2000. 20 Secondo la famosa definizione di S. RODOTÀ, Il terribile diritto: studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna 1990. 21 Come, scrivono giustamente S. HOLMES, C.R. SUNSTEIN, op. cit.

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La capacità di ridistribuire il reddito nello svolgimento delle politiche e degli interventi pubblici a

garanzia dei diritti e nella predisposizione dei servizi sociali è la leva fondamentale, in assenza della

quale ogni statuto sociale dei diritti dei cittadini resta privo di reale effettività. Infatti, come rilevato, i

diritti sociali sono conseguenza possibile dei doveri di solidarietà, in quanto il soddisfacimento di tali

diritti presuppone risorse che possono essere assicurate solo con l’adempimento dei doveri di

solidarietà22. Questi doveri dovrebbero avere un fondamento a livello europeo che si esplichi in una

capacità impositiva anche fiscale, svolgente una tale funzione redistributiva, al fine di ridurre davvero le

ricordate diseguaglianze non solo quelle tra gli Stati e le regioni d’Europa, ma tra gli stessi cittadini

europei individualmente considerati. Ciò rappresenta uno degli strumenti fondamentali perché l’Unione

si traduca in una comunità autenticamente politica e non operi quale mera, seppure particolarissima a

partire dalla primazia delle fonti, organizzazione regionale economica.

E’ evidente che un tale modo di agire pubblico presuppone uno spazio politico europeo e non può

essere in alcun modo concretizzato secondo le logiche tecnocratiche delle decisioni pubbliche. In tal

senso potremmo ancor più ricordare oggi la nobile dottrina di Habermas e la sua denuncia dei pericoli

di una spirale tecnocratica23 e l’ineludibile appello per la realizzazione di spazi politici di “solidarietà

europea” alla base di un’Europa dei diritti.

In realtà ciò che la crisi ha provocato è essenzialmente un processo opposto: in assenza di un reale

spazio politico europeo, si è prodotto l’effetto di una riduzione della spesa per i diritti sociali, a livello

dei bilanci statali, soprattutto dei Paesi in maggiore difficoltà e con un alto livello di debito pubblico

esposti per questo alle speculazioni dei mercati nonostante la protezione assicurata in alcuni periodi

dalle istituzioni finanziarie europee24. Ciò ha prodotto come rilevato dalla stessa Commissione europea

una perdita di capacità redistributiva delle politiche nazionali, anche in relazione alla riduzione della

tassazione sulle imprese con l’abbassamento di diverse unità percentuali delle aliquote fiscali nei diversi

Stati dell’Unione25. “In mancanza di armonizzazione fiscale e con le imprese capaci di spostare le loro

attività da un paese allʼaltro, la competizione fiscale tra paesi ha alimentato una corsa al ribasso che ha

complicato lʼequilibrio delle finanze pubbliche per molti paesi UE”26 e ciò alla fine, alla luce della

sostanziale indifferenza europea alla spesa interna, non può non incidere sui livelli di tutela sociale

assicurati negli Stati.

22 M. LUCIANI, Diritti sociali e integrazione europea, in Politica del diritto, n. 3/2000, 367 ss. 23 Cfr. J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza, Bari, 2014. 24 Il riferimento è fondamentalmente all’importante, e in parte osteggiata, azione messa in campo con il quantitative easing dalla Banca centrale. 25 V. rapporto “Taxation trends in the European Union” della Commissione Europea del 2017. 26 M. PIANTA, Diseguaglianze: le ragioni del loro aumento, le politiche che mancano, in Praxis, 12 gennaio 2018.

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Così, la riduzione dell’imposizione fiscale sulle imprese e soprattutto sui capitali e le rendite finanziarie,

la riduzione del carattere progressivo del sistema fiscale, sino ad arrivare all’idea della flat tax che mette

in discussione lo stesso principio costituzionale di progressività, i limiti alle imposte sulla ricchezza

immobiliare e finanziaria, la riduzione o eliminazione delle imposte sullʼeredità, lʼaumento di quelle

locali, soprattutto in territori che sono già più svantaggiati come nei comuni del Mezzogiorno d’Italia,

costituiscono tutte misure27, soprattutto nella prospettiva del costituzionalista, che appaiono indebolire

la capacità finanziaria dello Stato e, conseguentemente, la sua capacità di intervento nelle politiche

sociali.

Certo, l’equilibrio dinamico o tendenziale di bilancio, come elaborato dalla Consulta, è esigenza anche

costituzionale di tutela degli stessi diritti sociali, sicché tale tutela, nell’esercizio delle discrezionalità

legislativa, va comunque assicurata e deve vivere attraverso strumenti di intervento finanziariamente

sostenibili28.

Il tema, che non è solo statale per le ragioni dette, è quello dell’allocazione delle risorse nella copertura

dei “costi dei diritti” in un quadro sempre più necessitato, in cui la solidarietà sociale sia effettivo

obbligo europeo, a partire forse da un bilancio europeo29 basato su entrate proprie che consentano di

edificare, con vari strumenti possibili, un forte Stato sociale europeo, che è il vero strumento per

rafforzare una condivisa, più democratica cittadinanza europea.

La ripresa del processo costituente europeo non può non passare anche dalla costituzionalizzazione

dell’Europa30 sociale, casomai attraverso il metodo del coordinamento aperto in materia di protezione e

integrazione sociale. La realizzazione di un’Europa a due velocità sul piano sociale, come avviene già in

altri settori a partire da quello monetario – e si tratta di ambiti tra di loro connessi – è una strada che

27 Su cui, M. PIANTA, op. ult. cit., che evidenzia come tali questioni possono incidere sullo stesso cuore dei diritti sociali, quali salute e istruzione, che dovrebbe essere in parte preservato dal fatto che scuola e sanità restano ancora pubbliche e tendenzialmente ancora basate “sui bisogni e sulle esigenze delle persone e non sulla ricchezza e capacità di spesa degli individui”. Sennonché anche questo nocciolo duro dei diritti sociali fondamentali appare sempre più sotto attacco 28 Sulla “forte dialettica tra il principio della sostenibilità economica e quello di incomprimibilità di alcune prestazioni sociali” e soprattutto sull’ “esigenza di comporre la dicotomia tra vincoli finanziari e garanzia dei servizi sociali” e sul delicato ruolo della Consulta che fissa “effetti doverosi” per il legislatore “proprio attraverso il richiamo al principio dell’equilibrio dinamico del bilancio, inteso [anche] come fonte di doverosi adempimenti “riequilibratori” della legislazione”, v. A. CAROSI, La Corte costituzionale tra autonomie territoriali, coordinamento finanziario e garanzia dei diritti, in Rivista AIC, n. 4/2017, spec. 13. Senza dimenticare che il principio dell’equilibrio di bilancio, di cui al novellato articolo 81 della Costituzione assume valenza assiologica in funzione della tutela delle generazioni future. 29 Cfr., inter alia, A. MORRONE, La Costituzione finanziaria. La decisione di bilancio dello Stato costituzionale europeo, Giappichelli, Torino, 2015; Il finanziamento dell’Europa. Il bilancio dell’Unione e i beni pubblici europei, a cura di M. T. SALVEMINI, F. BASSANINI, Astrid 2009; A. MAJOCCHI, Nuove risorse per il finanziamento del bilancio europeo, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, n. 4/2015, 467 ss. 30 A. PATRONI GRIFFI, L’Europa e la sovranità condivisa: appunti di un discorso sulle ragioni del Diritto costituzionale europeo, in Diritto Pubblico Europeo Rass. online, n. 1/2015.

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potrebbe essere percorsa con convinzione dalle istituzioni europee con l’appoggio degli Stati con una

maggiore volontà di salvaguardare e fare avanzare in modo sostanziale il processo politico di

integrazione sul piano dei diritti.

Occorre ridurre quella “netta divaricazione tra il momento normativo, solidissimo, e il momento

politico, assai più fragile” in Europa31. Anche perché, esiste “un deficit genetico alla base dei diritti

sociali e del diritto sociale europeo che risente dell’incertezza del modello organizzativo e funzionale del

potere”32.

I diritti sociali potranno acquisire una reale dimensione europea solo nel quadro di un’elaborazione

pienamente politica a livello europeo nelle forme e attraverso gli strumenti di una reale democrazia

rappresentativa, che operi in particolare tramite un sistema dei partiti e organizzazioni sindacali, radicati

in tale contesto33.

Il fallimento del Trattato costituzionale fu il segno tangibile della difficoltà del processo di formazione

di un’Unione europea che volesse continuare a crescere in democrazia, forza e coesione politica, sociale

e economica, e non in mera estensione territoriale. Ciò è dimostrato anche dal limitato e carente

dibattito che si ebbe sull’allargamento dell’Unione ad Est vista per lo più come una mera opportunità

economica e quasi come un pericolo per la riconquistata libertà e democrazia: esattamente il contrario

di quanto l’integrazione europea ha voluto rappresentare nel suo più profondo significato. Un

allargamento che in tal senso è apparso funzionale al rafforzamento dello spazio di libera concorrenza,

piuttosto che al percorso dell’integrazione politica34. Il processo di integrazione politica e sociale

potrebbe, in ultima analisi, riprendere anche senza il supporto di tali Stati, che però a questo punto si

assumerebbero la responsabilità delle conseguenze del loro agire al di fuori di tale ambito e di tutto ciò

che comporta la creazione di un più forte spazio sociale – e, quindi, necessariamente anche fiscale –

comune.

I diritti sociali e le relative connesse politiche pubbliche hanno “costi” che l’Unione dovrebbe

considerare e che dovrebbe condurre alla predisposizione di una fiscalità europea e a un bilancio

dell’Unione su cui fondare politiche sociali e ridistributive di reale lotta alle diseguaglianze. Solo in tale

31 M. CARTABIA, La scrittura di una Costituzione europea e i poteri dei giudici, su www.astrid-online.it. 32 A. LUCARELLI, Il modello sociale ed economico europeo, in Dal Trattato costituzionale al Trattato di Lisbona. Nuovi studi sulla Costituzione europea, a cura di A. LUCARELLI, A. PATRONI GRIFFI, Quaderni Rass. Dir. pubbl. eur., 2009, spec. 299. 33 Altrimenti le rivendicazioni sociali appariranno come provenienti solo da alcuni Stati, semmai per ragioni opportunistiche dei loro modelli di sviluppo. Sul sistema parlamentare reticolare tra Parlamento europeo e Parlamenti dei singoli Stati, tanto da coniarsi l’espressione di “sistema parlamentare euro-nazionale” (Il sistema parlamentare euronazionale, a cura di A. MANZELLA e N. LUPO, Giappichelli, Bologna 2014), che pure dovrebbe vedere protagonisti partiti europei transnazionali (cfr. Verso un sistema partitico europeo transnazionale, a cura di M. MASCIA, Cacucci, Bari, 2014). 34 Come si ebbe modo di evidenziare, A. PATRONI GRIFFI, L’Europa e la sovranità condivisa: appunti di un discorso sulle ragioni del Diritto costituzionale europeo, cit.

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modo è possibile perseguire una reale armonizzazione anche nell’ambito dei diritti sociali ed evitare

un’intollerabile deriva di dumping sociale e fiscale, che rischia di ridurre il processo europeo alla

realizzazione di un paradigma neoliberista, in cui i soli diritti economici hanno dignità di piena tutela

anche a danno dei diritti sociali e delle relative politiche.

5. Per un nuovo scenario europeo di governo dell’economia

Il Fiscal compact ha ridotto di molto le capacità, o meglio le stesse possibilità, dei governi di gestire la crisi

economica a livello statale, essendo ad essi precluse alcune misure di intervento in contrasto per dirla in

modo brutale con i parametri dell’austerity35. Certo, difficile addentrarsi, da non economista, nell’analisi

di un tema sul quale la stessa analisi economica si è divisa intorno alle possibili soluzioni, ma appare

indubbio che alcune leve di intervento statale di risposta alla crisi, per quanto stabilito nel Fiscal compact

e per quanto presupposto dalla moneta unica, dal ricorso (invero pericoloso) al disavanzo, a certe

dinamiche del divieto degli aiuti di Stato e quant’altro, risultano per l’appunto sottratti, proprio in virtù

degli obblighi europei, al ventaglio delle scelte possibili da parte dei singoli governi statali.

Invero, più precisamente, già negli atti adottati per fronteggiare la nascente crisi economica a fine anni

2000, i forti limiti all’indebitamento degli Stati e l’obbligo di riduzione del debito pubblico, contenuti

nel trattato di Maastricht, vengono ulteriormente rafforzati proprio con le misure prese nel biennio

2011-2012, attraverso strumenti, quali il Patto Europlus, il cosiddetto Six pack e il Fiscal compact. Con il

Patto Europlus, gli Stati membri si sono “impegnati a recepire nella legislazione nazionale le regole di

bilancio dell’Unione europea fissate nel patto di stabilita e crescita…mantenendo gli Stati “la facolta

di scegliere lo specifico strumento giuridico nazionale cui ricorrere…” purché di “natura vincolante e

sostenibile sufficientemente forte (ad esempio costituzione o normativa quadro)”. Obbligo poi ribadito

dal cd. Fiscal Compact. Con il Six Pack, che si compone di cinque regolamenti e una direttiva) dell’ottobre

2011, viene offerta un’interpretazione rigorosa delle regole del Patto di stabilita. Mentre il 2 marzo

2012 viene adottato il trattato sulla stabilita, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione

economica e monetaria, il cosiddetto Fiscal compact, con il quale e stato esplicitamente richiesto che gli

Stati aderenti inserissero l’equilibrio di bilancio in Costituzione36.

35 C. DE FIORES, Introduzione, in Giurisdizioni e Unione europe di fronte alla crisi, a cura di C. DE FIORES, Rass. Dir. pubbl. eur., n. 1/2014, giunge a considerare che “uno Stato rigorista, strangolato dai vincoli di bilancio e dalle ossessioni contabili, è uno Stato costituzionalmente inetto, inabile a intervenire per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”. 36 Ai sensi dell’articolo 3 paragrafo 2 del “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria”, “le regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto nazionale delle parti… tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale...”. Ciò ha sollecitato non solo l’Italia, ma anche la Spagna, ad introdurre, a seguito della crisi economica del 2010/2011, il principio dell’equilibrio di bilancio nella Carta fondamentale. Sul punto, nella prospettiva comparata italo-

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Tali misure naturalmente incidono sull’azione degli Stati per l’adozione di politiche in favore

dell’eguaglianza sostanziale basate sul ricorso alla spesa pubblica.

A differenza di una “disciplina di bilancio che, nel testo originario della Costituzione… non

comprometteva la scelta per un determinato modello sociale”, con il rischio che la nuova disciplina

“determinerà radicali mutamenti nella forma di Stato, per i significativi riflessi che la scelta di

costituzionalizzazione della opzione di politica economica implicata dalle formule normative richiamate

determinerà sul sistema delle autonomie regionali e locali e sulla garanzia dei diritti fondamentali in

effettiva condizione di eguaglianza”, incidendosi sulla stessa “forma di Stato ponendo le premesse

giuridiche per il superamento, di fatto, dell’impianto sociale dell’economia di mercato”37. Si tratta di

difendere il necessario nesso tra “dimensione sociale e dimensione liberista nello spazio giuridico

europeo”, che costituiscono le due matrici del modello europeo38, dove l’integrazione sociale si lega

strettamente a quella economica e politica39.

Occorre soprattutto poi tenere presente la mancanza, a livello europeo, sia di un governo centrale

dell’economia in senso classico, sia di una Banca centrale che abbia pienezza di strumenti per agire in

funzione anticiclica, per favorire politiche monetarie espansive e realizzare un effettivo governo

dell’economia40. In particolare, basti ricordare che l’articolo articolo 123 del TFUE vieta alla BCE di

prestare moneta sia agli Stati membri che alle stesse istituzioni europee. Tutto ciò appare configurare

uno scenario in cui gli Stati vedono ridotti notevolmente i loro possibili spazi di intervento

nell’economia in funzione redistributiva, senza soprattutto che tale capacità di azione sia stata in alcun

spagnola, cfr. L. FERRARO, Il principio democratico e lo Stato sociale alla prova delle riforme costituzionali in tema di stabilità di bilancio, in Rass. diritto pubbl. europeo, n. 1/2014, cit., 17 ss. 37 Così, F. BILANCIA, Note critiche sul cd “Pareggio di bilancio”, in Rivistaaic.it, n.2/2012, 3. 30. 38 A. LUCARELLI, Il modello sociale ed economico europeo, cit., 279 ss. 39 V., tra gli altri, anche per alcune proposte A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Rivistaaic.it, n. 4/2011, spec. 10 ss. nonché Diritti sociali e crisi economica. Problemi e prospettive, a cura di S. GAMBINO, Giappichelli, Torino, 2015; S. MAROTTA, Giustizia sociale o giustizia del mercato? La Corte costituzionale italiana alle prese con la razionalità economica, in Metabasis.it, n. 22, novembre 2016; I. CIOLLI, I diritti sociali al tempo della crisi economica, in I diritti sociali al tempo della crisi economica, in Costituzionalismo.it, n. 3/2012. 40 Sulla necessità di un diritto pubblico dell’economia a livello europeo. V. tra gli altri P. BILANCIA, Il governo dell’economia tra Stati e processi di integrazione europea, in Rivistaaic.it, n. 3/2014, spec. 11 ss.; G. BUCCI, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo agli ordinamenti democratico-sociali in Costituzionalismo.it, n. 3/2012; C. IANNELLO, Il “non governo” europeo dell’economia e la crisi dello stato sociale, in Diritto Pubblico europeo Rassegna on line, n. 2/2015; A. LUCARELLI, Principi costituzionali europei, politiche pubbliche, dimensioni dell’effettività. Per un diritto pubblico dell’economia, in Politiche pubbliche, regolazione e mercato, a cura di A. LUCARELLI, Rass. Dir. pubbl. eur., 1/2006, 3 ss.; L. SICA, Procedura, tecnica, politica. La nuova governance economica: analisi di un processo costituente europeo tra ideologia e materialità, in Diritto pubblico europeo Rassegna online, n. 2/2018 e, sulla necessaria piena parità di armi della Banca centrale, come si rileva da tempo, v. già L. CHIEFFI, Banca centrale e sviluppi della governance europea, in Riv. ital. dir. pubbl. comunitario, 2005, 1085 ss. e egualmente F. BALAGUER CALLEJÓN, Crisi economica e crisi costituzionale in Europa, in koreuropa.eu, n. 1/2012, spec. 99.

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modo compensata dall’assunzione di nuove competenze in materia economica da parte delle istituzioni

europee.

Peraltro, sul piano delle politiche fiscali, la prospettiva del dumping fiscale – e conseguentemente sociale

– incide su una classica leva di intervento statale.

Il recente caso Embraco, di cui si è avuta ampia eco nel dibattitto pubblico, è stato emblematico di tali

pericoli con riguardo al profilo del costo del lavoro. Certo si tratta di effetti perversi della

globalizzazione, quando la stessa si traduce in perdita dei posti di lavoro o in una riduzione del livello di

tutela dei diritti dei lavoratori. Ma contro tali effetti proprio l’Unione europea dovrebbe essere sede di

elaborazione di anticorpi adeguati nell’ambito di una comunità politica con una condivisa visione

valoriale.

Un’Unione Europea, che non sappia porre adeguati limiti alla delocalizzazione all’interno dell’Unione,

non appare affatto neutrale rispetto alla garanzia dei diritti sociali, ma anzi sembra presupporre un

indebolimento dello Stato sociale per preservare la competitività economica quale fattore invariabile

rispetto alla stessa tenuta dei diritti.

Il dumping sociale e fiscale costituisce in definitiva un osservatorio significativo del modo di intendere lo

stare insieme degli Stati e dei popoli nell’Unione europea.

In uno scenario di comunità politica coesa la lotta alle diseguaglianze si pone quale necessario orizzonte

politico, giuridico ed economico comune europeo. Dovrebbe costituire esso il fattore invariabile sulla

base del quale calibrare le decisioni da assumere.

In Europe 2020, che vuole esprimere una strategia decennale della Commissione europea basata su una

crescita sostenibile e inclusiva41, sono stati posti una serie di obiettivi ai Paesi membri sul piano dei

vincoli di bilancio o in materia di occupazione, di ricerca e sviluppo, di istruzione o di ambiente, ma

nulla è stato previsto in termini di effettiva lotta alle diseguaglianze. Si parla solo di contrasto alla

povertà e all’emarginazione, ma è un’altra cosa rispetto alla necessità di reali interventi ridistributivi.

Peraltro, nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite42, tra i 17 obiettivi

individuati, si utilizza una terminologia più appropriata quando si chiede espressamente di ridurre la

diseguaglianza allʼinterno delle nazioni e tra le nazioni43. Ecco, un’Unione europea, che voglia essere

comunità politica ed assumere i connessi, illustrati doveri di solidarietà, dovrebbe, e potrebbe, porre

questo come suo chiaro obiettivo politico, avendone peraltro strumenti normativi e leve di intervento

41 Strategia per una “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva come mezzo per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività e la produttività e favorire l’affermarsi di un’economia di mercato sociale sostenibile”. 42 Testo della risoluzione in italiano disponibile al seguente link: https://www.unric.org/it/images/Agenda_2030_ITA.pdf. 43 “Obiettivo 10. Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le nazioni”.

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46 federalismi.it - ISSN 1826-3534 |numero speciale 4/2018

che mancano alle Nazioni unite, per ridurre proprio la diseguaglianza allʼinterno dei Paesi e tra i Paesi

membri.

Sul piano dei diritti sociali si rischia un tragico naufragio degli ideali del processo di integrazione

elaborati dai padri nobili dell’Europa unita. E se parliamo di naufragi basterebbe su di un altro piano

ricordare il disimpegno europeo sulla crisi dei migranti44, una torsione, quasi una deformazione della

stessa identità europea45.

In definitiva, non appare tollerabile, alla luce di un “pilastro” sociale che voglia essere davvero tale, un

aumento delle diseguaglianze proprio nei periodi della crisi, in cui la minoranza più ricca si arricchisce

sempre di più e il ceto medio e basso risulta ulteriormente impoverito. La crisi dei meccanismi di

ridistribuzione, che è il presupposto primo dell’eguaglianza sostanziale – quel combustibile che rende

viva la Costituzione secondo la ricordata definizione di Calamandrei – deve trovare strumenti di

responsabilizzazione dell’Europa sia a trattati vigenti, sia nella prospettiva di una futura costruzione di

un’Europa sociale.

D’altra parte, negli anni della crisi, i meccanismi di solidarietà tra gli Stati all’interno dell’Unione hanno

prodotto pericolose tensioni politiche e istituzionali anche perché si è fortemente indebolito il rapporto

di fiducia tra governo, gruppi dirigenti ed elettori dei vari Paesi dell’Unione. L’opinione pubblica

tedesca, ad esempio, rischia di difendere la competitività, anche dei modelli sociali, guardando con

diffidenza alla prospettiva della costruzione di una “unione di solidarietà” perché semmai non si fida

delle politiche dei governi dell’Europa del Sud. Si teme, in Germania, ovverosia che una volta trasferite

risorse per i salvataggi dei bilanci o una volta sostenuti i debiti pubblici degli Stati in difficoltà con

risorse nazionali o della Banca centrale, i governi di tali Stati vadano a “sperperare”, nella visione del

contribuente tedesco, le nuove dotazioni finanziarie. Occorre interrompere tale tipo di “narrazione”,

che è stata proprio alla base dell’imposizione nei Paesi periferici dell’Unione delle misure di austerity,

quale unico rimedio possibile. Sicché Stati centrali dell’Eurozona, attraverso i meccanismi di

condizionalità, hanno accettato di trasferire risorse agli Stati periferici solo a patto di andarne in

sostanza quasi a governare la politica economica. Di qui la stagione della troika e dei memorandum con

44 Un’Europa giustamente attenta e severa nel rispetto dei conti, del disavanzo e dei parametri economici dovrebbe essere ancor più severa nel chiedere il rispetto degli obblighi europei ad esempio delle ricollocazioni dei rifugiati nei confronti degli Stati inadempienti. Sia consentito rinviare a A. PATRONI GRIFFI, Le migrazioni e l’Unione Europea: considerazioni di scenario e alcune proposte, in Europa e migrazioni: le sfide per il futuro dell’Unione, a cura di A. PATRONI GRIFFI, in Rass. Dir. pubbl. eur., n. 1/2018, e ivi v. anche i contributi di F. BALAGUER CALLEJON, A. DEL GUERCIO, L. DI MAJO, F. FERRARO, S. MAROTTA, A. M. NICO, V. PEREIRA DA SILVA nonché già i vari contributi in Europa e migranti, a cura di A. PATRONI GRIFFI, Rass. dir. pubbl. eur., n. 2/2011, passim. 45 Così per L. FERRAJOLI, cit., spec. 198 ss.

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tutto ciò che ne è conseguito sul piano della tenuta dello Stato sociale, della svalutazione reale dei salari

e, talora, della stessa reazione elettorale anti europea e contraria ai partiti tradizionali.

Occorre superare in modo coraggioso tale impasse, dovuto al fatto che, da un lato, i Paesi centrali

dell’Eurozona non vogliono più finanziare meccanismi di solidarietà tra Stati europei, ad esempio

attraverso un qualche finanziamento dei debiti pubblici nazionali con risorse provenienti dalla BCE, e

che, dall’altro lato, senza meccanismi di solidarietà, l’unione monetaria rischia di diventare non più

economicamente né soprattutto politicamente sostenibile da tutti.

In tale quadro, si potrebbe anche pensare che ai trasferimenti tra Stati si affianchino nell’Unione, con

peso sempre più prevalente, trasferimenti direttamente tra individui. Tali trasferimenti, nel quadro di

un’Europa riformata nelle sue istituzioni e con un più forte spazio di legittimazione politica propria,

indipendente dagli Stati, potrebbero essere governati dalle stesse Istituzioni europee sia per il

reperimento delle risorse sia nella organizzazione e programmazione delle prestazioni, riducendo così

quanto più possibile la dimensione intergovernativa e interstatuale di un tale processo di

redistribuzione. In questo quadro lo stesso “Pilastro europeo dei diritti sociali” acquisirebbe un

significato nuovo e politicamente, molto più forte. Una comunità di reale integrazione politica si fonda

in modo più autentico quando la solidarietà si articola direttamente tra gli individui, oltre i soggetti

collettivi e gli stessi Stati.

Nel senso delineato, si è cercato di ragionare sulla necessità di un’Europa sociale, in cui l’Unione inizi

ad assumere finanche una funzione sostanzialmente suppletiva degli Stati nazionali rispetto alla

programmazione, alla modulazione e al finanziamento della spesa sociale.

Può sembrare arduo parlare di riforme che rendano effettivo, vero il prospettato pilastro sociale

europeo di fronte all’affermarsi di forze politiche antieuropee, che chiedono “limiti” all’Europa perché

in sostanza vogliono tornare a rafforzare la sovranità degli Stati. In realtà è vero il contrario. Proprio

nella congiuntura della crisi economica il salto di qualità dell’integrazione politica e sociale è ancor più

necessario, perché unica, vera condizione per preservare l’Europa unita dal momento che unità

economica ed unità politico-sociale costituiscono un’endiadi poiché non possono reggere l’una senza

l’altra46.

Lo stesso rapporto 2015 dellʼOcse sulla disuguaglianza sottolinea come effetto dell’incremento delle

disuguaglianze sia una contrazione della crescita economica47. Mentre nell’ “Analisi annuale della

46 Come già si sottolineò rispetto al quadro di alcune possibili riforme istituzionali, A. PATRONI GRIFFI, L’Europa e la sovranità condivisa: appunti di un discorso sulle ragioni del Diritto costituzionale europeo, cit. 47 Anche perché le famiglie con meno disponibilità economiche cessano di investire nella istruzione dei propri figli, così aprendosi la strada ad un circuito perverso di blocco di uno straordinario strumento di mobilità sociale. OECD, In it together. Why Less Inequality Benefits All. Parigi, 2015, disponibile on line al seguente link: http://www.oecd.org/social/in-it-together-why-less-inequality-benefits-all-9789264235120-en.htm.

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crescita 2018”48 la Commissione europea nel richiedere riforme strutturali al fine di consolidare la

ripresa economica, sottolinea come una maggiore produttività sia legata anche a una forza lavoro più

qualificata, evidenziando come investimenti sociali e in particolare in settori quali istruzione,

formazione e ricerca consentano di aumentare produttività e occupazione.

Sicché a ben vedere, la lotta alle diseguaglianze si traduce essa stessa in un elemento di rafforzamento

del mercato, oltre che, come visto, in una solida base sulla quale costruire finalmente una più coesa

Europa sociale.

48 Annual Growth Survey 2018 della Commissione europea, COM(2017) 690 final, 22 novembre 2017, “Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, alla Banca centrale europea, al Comitato economico e sociale europeo, al Comitato delle regioni, alla Banca europea degli investimenti”.

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Il futuro dei diritti sociali dopo il “social summit” di Goteborg: rafforzamento o impoverimento?

di Jörg Luther

Sommario: 1. Introduzione. 2. Le osservazioni del contesto globale. 3. L’attivismo politico programmatico dell’Unione europea. 4. L’Italia non rispetta gli standard europei di tutela dei diritti sociali. 5. Alcune esperienze e tendenze di sviluppo europee comparate.

1. Introduzione

Il saggio prende le mosse dal seminario milanese su “i diritti sociali tra ordinamento statale e

ordinamento europeo" (marzo 2018) che fa seguito ad alcune ricerche precedenti sulle tendenze di

sviluppo delle garanzie dei diritti sociali. La prima indagava sulle prospettive di un’adesione dell’Unione

europea alla Carta sociale europea (CSE) a conclusione del processo di Torino aperto nell’ottobre del

2014 con il quale si intendeva sviluppare questo strumento di fronte alle nuove crisi multipli europee.1

La seconda ricerca, di taglio più comparatistica, era una relazione a una conferenza indo-tedesca alla

National Law University di New Delhi che cercava di confrontare i diritti sociali tra Unione europea ed

Unione indiana2 e proponeva come risposta alla domanda quale fosse la componente sociale della cd.

economia di mercato sociale dell’UE la solidarietà e la pazienza dei diritti sociali umani, doveri rimossi

dallo spirito dei tempi (2016).3 La terza infine ha tentato la difesa di un minimo di ottimismo

argomentativo, sostenendo in un convegno a Catanzaro, organizzato da Massimo La Torre e aperto

dall’allora ministro degli esteri che anche alla luce delle nuove teorie critiche dei diritti e dei lavori per il

nuovo pilastro dei diritti sociali dell’UE, “i diritti umani sociali non sono insostenibili nell’Unione” (16-

17 giugno 2017).4

In seguito sono intervenute alcune novità a livello globale anche nel G7 sotto la presidenza italiana (2.),

a livello europeo con il social summit di Goeteborg (3) che aumentano la pressione sull’Italia di adottare

1 J. LUTHER, Perspectives for an Accession of the European Union to the (Revised) Social Rights Charter, in: J. LUTHER, L. MOLA 8eds.), Europe’s Social Rights under the Turin Process, Napoli, 2016, pp. 135 ss. 2 J. LUTHER, Comparing Fundamental Social Rights in the European and the Indian Union, in The Indian Yearbook of Comparative Law, 2016, pp. 277 ss.; anche in Lex Social 2017 3 J. LUTHER, The social part of the social market economy is solidarity and patience for social human rights (2017), in attesa di pubblicazione nello stesso Yearbook 2017. 4 J. LUTHER, I diritti umani sociali non sono insostenibili nell’Unione Europea, in Lex Social 8.2018, fasc. 2, pp. 106 ss. e negli atti del convegno, in attesa di pubblicazione.

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delle riforme sociali strutturali per non restare tra i paesi europei meno virtuosi nella tutela dei diritti

sociali (4). In questo contesto sono intervenute a livello nazionale anche le elezioni e la formazione di

nuovi governi in paesi come la Francia (France en marche), la Germania (CDU/CSU/SPD) e l’Italia

(M5S/Lega), considerati più o meno influenti, se non egemoni sulla determinazione degli indirizzi

politici a livello europeo (5). Essendo i diritti sociali tradizionalmente associati sia a norme sugli

obiettivi dello “Stato sociale” sia a politiche sociali multilevel, occorre peraltro sempre ben distinguere e

non confondere il lato giuridico da quello politico, i vari livelli di azione politica, le competenze delle

varie amministrazioni e le autonomie delle istituzioni sociali, culturali ed economiche ad essi funzionali.

Anche normativamente occorre distinguere i diritti sociali a seconda delle fonti delle loro dichiarazioni

e garanzie azionabili, in particolare fonti costituzionali (diritti sociali costituzionali) da o fonti

internazionali universali (diritti sociali umani) e fonti sovranazionali dell’UE (diritti sociali fondamentali

europei), da diritti sociali dichiarati e azionabili solo in virtù di fonti legislative o secondarie (diritti

sociali comuni e interessi legittimi accessori), da tutelarsi davanti a giurisdizioni ordinarie o

amministrative.5 I “diritti sociali fondamentali” tout court, sono invece garantiti da fonti di una pluralità

di ordinamenti, cioè internazionali/sovranazionali e costituzionali, o, come negli Stati Uniti, federali e

statuali. Le norme giuridiche relative ai diritti sociali oggi non possono più essere ritenute

(presuntivamente) solo programmatiche e non azionabili, ma nonostante la promessa di indivisibilità

dei diritti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, possono tuttora avere forme di tutela

più deboli in ambito internazionale e costituzionale conseguenti alla loro particolare complessità.

Infatti, possono essere distinti dalle altre categorie di diritti fondamentali più per il loro oggetto che

consiste principalmente in aspettative e pretese positive di azioni (status positivus) anziché, come nei

diritti di libertà, in pretese negative di omissioni (status negativus) o, come nei diritti di partecipazione,

in aspettative e pretese di condizionare decisioni pubbliche (status activus politicus, processualis vel

administrationis). L’obbligo di realizzare e proteggere prestazioni di beni e servizi pretesi dai diritti

sociali è in genere condizionato da un mandato di legislazione e di allocazione di risorse finanziarie, con

un principio di graduale sviluppo delle prestazioni nel tempo e con un divieto generale di irragionevole

regressione. Questi obblighi di prestazione e protezione ricadono non solo sullo Stato e su enti pubblici

sub- e sovranazionali da individuarsi secondo il principio di sussidiarietà, ma possono incombere anche

a soggetti privati, ad es. a datori di lavoro nel caso dei diritti dei lavoratori, di membri di famiglia nel

caso dei diritti all’alimentazione ed educazione, dei proprietari di terreni e case e di tutti i consociati,

specialmente in casi di necessità di soccorso o di prevenzione di emergenze. I diritti sociali

5 Sulle difficoltà di trovare il giudice dei diritti sociali in Italia cfr. soltanto G. MONACO, Spunti sulla tutela dei diritti sociali innanzi al giudice amministrativo, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2012, https://www.gruppodipisa.it/8-rivista/252-giuseppe-monaco-spunti-sulla-tutela-dei-diritti-sociali-innanzi-al-giudice-amministrativo.

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fondamentali sono un’acquisizione particolare caratteristica, ma non esclusiva della cultura giuridica e

politica europea. Fanno parte di questa cultura e sono investiti delle sue crisi soprattutto i poteri

intermediari dello stato costituzionale pluralista, cioè i partiti, i sindacati, le chiese e i media, inclusi

quelli sedicenti “social”. L’analisi costituzionale deve cercare un loro ordine equilibrato senza poter

produrre profezie ed evitando esasperazioni tanto dell’ottimismo e idealismo dei diritti dorati che

promettono felicità (post)socialista, quanto del pessimismo e realismo dei poteri grigi che riescono a

opporre veti neoliberali ed indebolirli, perfino violarli senza sanzioni. Nel momento attuale, le speranze

di un rafforzamento e i timori di un impoverimento dei diritti sociali alimentano incertezze ed

insicurezze.

2. Le osservazioni del contesto globale

Il contesto globale dei diritti sociali, secondo il report mondiale sulle diseguaglianze di reddito e di

benessere del 20186, sembra caratterizzato da una generale crescita delle diseguaglianze di reddito sin

dagli anni Ottanta nonostante la crescita economica asiatica, con una controtendenza verso la riduzione

delle diseguaglianze internazionali tra stati sin dal 2000 a fronte di un’ulteriore crescita delle

diseguaglianze interne degli stati. Mentre il Medio Oriente teatro delle principali guerre è la regione con

le maggiori diseguaglianze, l’Europa resta la regione con le minori diseguaglianze e con la minore

crescita delle stesse. La quota di reddito del top 1% resta quasi la metà di quella del bottom 50%, a

differenza degli Stati Uniti dove i rapporti si sono sin dagli anni ottanta sostanzialmente rovesciati, con

diseguaglianze imputabili, si ritiene, soprattutto alla distribuzione delle chances di istruzione. Il dato

forse più rilevante per le turbolenze politiche: “The global middle class (which contains all of the

poorest 90% income groups in the EU and the United States) has been squeezed”.

L’agenda per lo sviluppo sostenibile (Agenda 2030) e almeno i primi 12 dei 17 dei Sustainable

Developments Goals (SDGs) adotatti dalle Nazioni Unite nel 2015 (A/RES/70/1) riconoscono che a

livello globale i diritti sociali fondamentali sono ancora in costruzione per lo più obiettivi di azione

politica che non da azioni giudiziarie. Cercando di individuare condizioni minime di dignità sociale

legate ai diritti alla sopravvivenza e all’integrità personale, si prospettano nuovi diritti al cibo (o più

correttamente all’alimentazione), all’acqua e a un clima sostenibile, una “fine della fame” impossibile nei

paesi dilaniati dalle guerre e, last not but least, “decent work for all”.

In un documento preparatorio per il centenario dell’ILO, il rispetto universale dei diritti del lavoro che

costituiscono in qualche modo la prima parte dei cataloghi dei diritti sociali è criticata ancora come

“una prospettiva lontana” con qualche progresso e battute d’arresto: “La metà dei lavoratori di tutto il

6 https://wir2018.wid.world/files/download/wir2018-summary-english.pdf.

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mondo vive in paesi che non hanno ancora ratificato la Convenzione n. 87 del 1948 sulla libertà

sindacale e la protezione del diritto sindacale; ci sono ancora 168 milioni di bambini che lavorano e 21

milioni di vittime del lavoro forzato; il mondo del lavoro è ancora colpito da un processo di

discriminazione profondamente radicato, per motivi di sesso (…), di etnia, religione e disabilità.”7

L’ Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, OECD) ha evidenziato i

problemi principali dei mercati del lavoro odierni come segue:

In questo contesto si è tenuto il 29-30 settembre 2017 a Torino un G7 del lavoro che ha avviato un

“G7 Future of Work Forum”, gestito da OECD/OCSE e ILO/OIL. La conferenza ha focalizzato le

trasformazioni dei mercati di lavoro, spinte da “globalizzazione, automazione, digitalizzazione, cambi

demografici e migrazione internazionale” e formulato un consenso sulle politiche necessarie per

mantenere capacità dinamiche e di resilienza di questi mercati, definendo obiettivi pubblici comuni

quali

- “affrontare le disuguaglianze emergenti associate ai cambiamenti in corso”

- “condivisione dei benefici dell’innovazione tra i gruppi sociali particolarmente esposti alla

perdita di un impiego e alla riduzione dei salari e a coloro che affrontano ostacoli nell’accesso a

nuove opportunità di lavoro, inclusi i lavoratori meno qualificati, i lavoratori maturi e le persone

con disabilità, al pari di coloro che sono sottorappresentati nel mercato del lavoro, come le

donne ed i giovani.””,

- “fornire ai giovani le competenze appropriate e (…) sostenere la transizione dalla scuola al

lavoro”

- “estendere e migliorare l’occupabilità lungo tutta la durata della vita lavorativa”

- “incentivare le competenze per i lavori del futuro e promuovere i diritti del lavoro per fare in

modo che tutti i lavoratori possano migliorare la loro occupabilità mediante la identificazione

7 http://www.lavorochecambia.lavoro.gov.it/documenti/Documents7Centenario-ILO.pdf

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dei fabbisogni del mercato del lavoro (… ), l’ampliamento dell’ accesso all’istruzione e alla

formazione … possibilità di conti individuali … un apprendistato di qualità”,

- “proteggere la libertà di associazione e il diritto di parola dei lavoratori”,

- “alti standard nell’accesso e nella copertura dei sistemi di protezione e sicurezza sociale, per

sostenere i lavoratori impegnati sia in nuove forme di lavoro sia in attività non standard, inclusi

coloro che sono impegnati in attività lavorative sulle piattaforme digitali”, .

- “politiche attive del mercato del lavoro per promuovere una veloce re(integrazione)

nell’occupazione da parte di coloro che sono in cerca di lavoro, particolarmente per coloro che

incontrano ostacoli”,

- “conciliare la vita professionale e familiare, rafforzando i servizi di assistenza e promuovendo

politiche familiari, come il congedo materno, paterno e parentale, i servizi per la cura dei

bambini e l'assistenza a lungo termine, le infrastrutture sociali e modalità di lavoro flessibili.

- “mettendo in condizione e incentivando uomini e donne a conciliare la vita professionale e

familiare”.8

Non mancano principi e obiettivi condivisi nonostante le divisioni registrate nella dichiarazione dei capi

di governo di Taormina, ma resta il dovere della critica non solo alle restrizioni di pubblicità dei lavori,

ma anche alle drammaticità taciute e alle divergenze tra le posizioni del G7 dei paesi più industrializzati

e quelle del G20 Labour and Employment del 2017.9 In particolare, a fronte dei drammi della

migrazione, sarebbe stato possibile concordare sulla necessità di prevenire migrazioni economiche

spinte dalle crescenti ineguaglianze. Invece si è preferito non ricordare nemmeno la posizione del G20

di promuovere sotto il motto della “crescita inclusiva” un’integrazione equa ed effettiva dei migranti

regolari nei mercati del lavoro. Proprio i diritti dei lavoratori costituiscono infatti un ponte

indispensabile tra i diritti umani e quelli della cittadinanza. Inoltre, ricordando che la decenza fa parte

delle politiche della dignità e che la dignità umana è legata innanzitutto al diritto alla vita, sembrano

dimenticati i drammi delle morti causate dal lavoro, secondo le ultime stime dell’OIL del 2014 ca. 2,3

milioni all’anno, e le promesse di sostegno del G20 al “Vision Zero Fund” dell’OIL. A differenza del

G7, il G20 chiedeva addirittura di integrare la tutela dei diritti del lavoro e di condizioni di lavoro

decenti nei trattati di commercio, dispone da tempo di “minimum wage principles” e pretende a

differenza del G20 che rappresenta ca. 80 % della popolazione di lavoratori, il G7 antepone l’OCSE

all’OIL il cui statuto ricorda nel preambolo che “the failure of any nation to adopt human conditions of

8 http://www.lavorochecambia.lavoro.gov.it/news/Documents/G7-Lavoro-dichiarazione-finale-ITA%20(1).pdf 9 “Towards an Inclusive Future: Shaping the World of Work”, http://www.g20.utoronto.ca/2017/g20-labour-ministerial-declaration.pdf

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labour is an obstacle in the way of other nations which desire to improve the conditions in their own

countries”. Il G7 torinese non riconosce neanche le priorità di “protezione sociale effettiva per tutti” e

di “riduzione dei gender gaps” del G20.

Il G7 del lavoro era piuttosto legato ad altre conferenze sul futuro dell’industria e della scienza, ma

l’enfasi comune sull’innovazione non è servita a riflettere né sulle responsabilità per mancate

innovazioni emerse nel Dieselgate, né sull’impatto della robotica sui sistemi di sicurezza sociale. Se un

robot in più per mille lavoratori tende a ridurre il tasso di occupazione per ca 0.18-0.34 % e le

retribuzioni per 0.25-0.5 %, sorge il problema di come compensare tali costi sociali, ad es. tramite

contributi sociali per gli stessi robot. Anche l’impatto dello sviluppo demografico sulla giustizia sociale

intergenerazionale e sulla povertà dei bambini nelle società che invecchiano non viene affrontato nel

documento finale del G7. Si parla di partecipazione e diritto di parola, ma non si riflette

sull’affinamento di strumenti di cognizione, in particolarre di “social rights watching”, e di decisione, ad

es. referendum dei lavoratori. Lavorare “per un migliore futuro del lavoro” è sempre una intenzione

nobile con buona volontà, ma lascia la clientela sprovvista di strumenti di controllo sulle consegne ed

azioni della politica e confessa una mancanza di buon consiglio. Nella realtà delle democrazie

industrializzate serpeggia piuttosto il cinismo di chi sogna “smart-work” e “no-work-earnings”,

lasciando ad altri più poveri “hard-work” e “no-earnings-work”. Come diceva Antonio Gramsci: “Crisi

è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere.”

3. L’attivismo politico programmatico dell’Unione europea

Anche “fair jobs e crescita” rischia di essere percepito da chi lavora o vorrebbe lavorare come una

parola d’ordine sbiadita e ipocrita. Al cd. “social summit” dell’UE di Goteborg del 17 novembre 2017

con lo stesso titolo, le istituzioni dell’UE hanno definitivamente proclamato il “pilastro dei diritti

sociali”, le parti sociali hanno cercato un ‘nuovo avvio del dialogo sociale” e gli esperti lavorato su

azioni quali “Posting of Workers”, “Social Security Coordination”, Work–Life Balance, European

Accessibility Act, “Gender Pay Gap”, “European Skills Agenda”. Il comunicato conclusivo della

presidenza svedese invoca un’Europa più inclusiva e sociale, non necessariamente una Unione sociale, e

fa intravvedere quel che bolle nelle politiche sociali europee, anche in vista delle prossime elezioni

europee come stimolo della programmazione politica dei partiti politici europei.

Dal punto di vista giuridico, si tratta di una dichiarazione articolata di venti diritti e principi che

costituisce solo soft law. Questo non vuol dire che non sia privo di valore giuridico. In un primo tempo

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aveva solo il valore di una Raccomandazione della Commissione ex art. 292 TFEU10 e con la

proclamazione congiunta di Goeteborg può aver acquisito il valore di un accordo delle istituzioni

diverse dalla Corte di giustizia su un comune indirizzo politico. Questo atto atipico non rappresenta

solo un patto politico, ma produce in virtù dei principi di leale collaborazione e di certezza giuridica

anche un auto-vincolo delle stesse istituzioni nell’interpretazione del diritto dell’UE, potendo dare inizio

a un procedimento di formazione di consuetudini interpretative condivisibili dagli stati membri. È stato

segnalato peraltro che la raccomandazione aveva concepito il pilastro principalmente per l’area

dell’Euro e applicabile solo ad stati membri desiderosi di farne parte, mentre il proclama inter-

istituzionale “è indirizzato a tutti gli stati membri”, cercando di condizionare l’intera governance

economica dell’Unione e ottenere adesione da parte degli stessi stati membri negli ambiti di

coordinamento finora “aperto” delle politiche sociali.11 La ripetizione dei rituali di proclamazione

sperimentati per la Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) prima della loro incorporazione

nelle fonti pattizie costitutive dell’UE e la somiglianza del con il precedente della Carta comunitaria dei

diritti sociali non deve tuttavia trarre in inganno sul fatto che le disposizioni superano la Carta

comunitaria e operano accanto alle garanzie della CDFUE, cioè non sono di per sé azionabili, ma

costituiscono mandati di azione multi-livellare o, come sostiene la commissione, “will require a

translation into dedicated actionand/or separate pieces of legislation, at the appropriate level”. Da

questo punto di vista, il valore giuridico del pilatsro è quello di un programma di azioni di governance

che legittima e rafforza la validità di tutti gli atti destinati alla sua attuazione.

Rispetto ai diritti CDFUE il pilastro non è semplice ricognizione dell’acquis, ma ha l’ambizione di

spingere delle dinamiche di sviluppo del quadro normativo dei diritti sociali, cioè versare olio nel fuoco

di alcuni procedimenti già avviati. Un esempio è la direttiva “Work-Life Balance” che attuerebbe il

nuovo diritto alla compatibilità di lavoro e famiglia garantito dall’art. 33 CDFUE, migliorando le

condizioni dei congedi parentali per nascite, assistenza bambini e assistenza figli o parenti dipendenti.

Appare parimenti rilevante, inoltre, la Direttiva (UE) 2018/957 del Parlamento europeo e del Consiglio

del 28 giugno 2018, recante modifica della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori

nell'ambito di una prestazione di servizi che cerca di superare delle diseguaglianze tra lavoratori

distaccati e lavoratori locali, la quale si prefigge di escludere ogni dumping sociale attraverso una

restrizione dei fattori di competizione: “in un mercato interno veramente (!) integrato e competitivo le imprese

competono sulla base di fattori quali la produttività, l’efficienza, e il livello d’istruzione e di competenza della forza lavoro,

10 European Commission, Recommendation on the European Pillar of Social Rights, C(2017) 2600 final, and Communication of 26 April 2017 establishing a European Pillar of Social Rights, COM(2017) 250 final. 11 Cfr. S. GABEN, The European Pillar of Social Rights: Effectively Addressing Displacement?, in European Constitutional Law Review, 14. 2018, p. 220.

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nonché la qualità dei loro beni e servizi nonché il grado di innovazione delle stesse imprese competono sulla base di fattori

quali la produttività, l’efficienza, e il livello d’istruzione e di competenza della forza lavoro, nonché la qualità dei loro beni

e servizi nonché il grado di innovazione degli stessi.” (considerando 16) Lasciando immutate le competenze

nazionali in materia di retribuzioni, la norma impone comunque un principio di trasparenza

comparativa che è presupposta di ogni politica volta a garantire “fair wages” (art. 4 della Carta sociale

Europea CSE) che includono la definizione di “redditi minimi” (art. 6 del Pilastro), cioè quel che i

contratti collettivi di lavoro a livello nazionale sembrano non più in grado di garantire.

Nel marzo del 2018, la Commissione Europea ha inoltre approvato un pacchetto di proposte ulteriori

che segnano il definitivo distacco del pilastro dei diritti sociali dall’unione monetaria, il“social fairness

package”. Proprio all’informazione dei lavoratori e dei datori di lavoro servirebbe anche una nuova

agenzia, l’Autorità europea del lavoro (European Labour Authority)12 che si aggiungerebbe – anziché

integrarle – alle quattro agenzie più specialistiche già esistenti: European Foundation for the

Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound), the European Centre for the

Development of Vocational Training (Cedefop), the European Agency for Safety and Health at Work

(EU-OSHA) and the European Training Foundation (ETF).

Fa parte dello stesso pacchetto anche una raccomandazione sulla modernizzazione dei sistemi della

sicurezza sociale da più parti sollecitata nelle trattative del semestre europeo.13 Partendo tra l’altro dalla

premessa che i sistemi di protezione sono tarati per lo più su forme di lavoro a tempo indeterminato,

non coprendo le situazioni precarie più recenti come “on-demand work, voucher-based work, platform

work”, forme povere di “self-employment” e cambi frequenti tra lavoro dipendente e indipendente o

combinano entrambi, si raccomanda un’estensione ad esse della copertura formale, effettiva, adeguata e

trasferibile delle protezioni sociali con piena trasparenza dei relativi titoli negli ambiti di rischio classici

della sicurezza sociale che si presentano in ordine significativamente rovesciato e più articolato rispetto

a quello dell’art. 38 co. 2 (e quello oramai anacronistico dell’art. 37 co. 1 cost.) e dell’art. 34 CDFUE,

cioè a) disoccupazione, b) malattia, c) maternità/paternità, d) invalidità, e) vecchiaia, f) infortuni sul

lavoro e malattie del lavoro. Non sono raccomandate ulteriori forme di provvidenze per morte,

prepensionamento e famiglia disciplinate dal Regolamento CE/883/2004. Per i self-employed solo la

sicurezza contro i rischi di disoccupazione può essere non obbligatoria.

12 COM(2018) 131 final 2018/0064 (COD) Proposal for a REGULATION OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL establishing a European Labour Authority. 13 COM(2018) 132 final 2018/0059 (NLE) Proposal for a COUNCIL RECOMMENDATION on access to social protection for workers and the self-employed.

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Le spiegazioni del diritto alla sicurezza sociale del pilastro tralasciano peraltro gli impegni dell’art. 12

della Carta sociale europea secondo i quali il sistema della sicurezza sociale deve avere in ogni caso il

livello necessario alla ratifica del Codice Europeo della Sicurezza sociale.

Non può essere questa la sede per un raffronto puntuale di ognuno dei venti principi e diritti con le

garanzie della CDFUE, della CSE e delle costituzioni e legislazioni degli stati membri dell’UE o anche

solo dell’Italia.

Per quest’ultima va segnalato tuttavia innanzitutto il diritto al sostegno attivo all’occupazione che va

oltre il diritto di accesso a servizi per l’impiego ex art. 29 CDFUE ed impone alle politiche attive del

lavoro l’obiettivo di assicurare a ogni giovane una formazione continuativa, di apprendistato o di

tirocinio, o un’offerta di lavoro entro quattro mesi dalla fine della scuola o dall’inizio della sua

disoccupazione (art. 4 del Pilastro ) e per i disoccupati di lungo periodo un “in-depth assessment” entro

18 mesi di disoccupazione. Per questa iniziativa, la Commissione propone di aumentare rispettivamente

di un miliardo i fondi della Youth Employment Initiative (YEI) e del Fondo Sociale Europeo che

potrebbero avere funzioni di perequazione sociale e quindi offrire più benefici che costi all’Italia.

L’altro aspetto è quello delle politiche per la casa che devono garantire “access to social houses or

housing assistance” a chiunque ne ha bisogno e tutele contro sfratti a “vulnerable people”, quindi non

ai soli cittadini di uno degli stati membri (art. 19 co. 1, 2 del Pilastro). Nell’attuazione di questi e degli

altri diritti disegnati dal pilastro, il diritto dell’UE impone di considerare i diritti sociali diritti umani dei

lavoratori e non semplici diritti di cittadinanza nazionale.

Resta da vedere se e come si riesce a difendere tale impostazione contro i governi degli stati membri

che preferirebbero invece subordinare la solidarietà sociale alla cittadinanza nazionale o UE. Nulla

vieterebbe ai lavoratori esclusi a ricorrere a strumenti di azione collettiva, incluso uno sciopero

nazionale o europeo di tutti i lavoratori migranti.

In conclusione, il pilastro sociale dell’UE si presenta certo principalmente uno strumento di agenda

setting per un nuovo attivismo politico, se si vuole anche con uno sfondo elettorale. Tuttavia proprio per

il fatto di essere associato ad una serie di direttive, iniziative e raccomandazioni e di poter fungere da

parametro delle decisioni del Semestre Europeo nonché come quadro “Social Open Method of

Coordination”, potrebbe sortire effetti ben più incisivi della Carta comunitaria e della stessa CDFUE.

Resta tuttavia da chiarire meglio la rilevanza del pilastro sociale per la sostenibilità dell’unione

economica e monetaria. Nella misura in cui il consolidamento dell’unione monetaria richiede la

trasformazione almeno parziale del fiscal compact in fonti pattizie dell’Unione, potrebbe convenire

esigere un’almeno parziale trasformazione del pilastro in un protocollo addizionale alla CDFUE o

tornare sulle proposte di adesione dell’UE alla Carta sociale europea, finora non sostenuta dalla

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Germania che era stata censurata per aver eccessivamente compresso la libertà di sciopero, escludendo

scioperi non diretti alla conclusione di contratti collettivi del lavoro.14

4. L’Italia non rispetta gli standard europei di tutela dei diritti sociali

Almeno sulla carta la Costituzione italiana è notoriamente molto più favorevole ai diritti sociali delle

altre costituzioni. Se si leggono tuttavia le statistiche del Social Scoreboard 2017 che ha accompagnato il

lavoro sul pilastro dei diritti sociali dell’UE, il paese si trova purtroppo molto mal messo.

Per quanto riguarda il diritto “a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di

qualità e inclusivi” (art. 1), l’Italia è quart’ultima nella statistica degli abbandoni da scuola e formazione

(early leavers) tra 18 e 24, con una quota del 13,0 nel 2016 rispetto alla media UE28 del 11,1 %. In

termini di diseguaglianza di genere nell’accesso al lavoro (art. 2), l’Italia è dopo Malta penultima con un

gap cresciuto al 20,1 % nel 2016 rispetto a una media del 11,6. Meglio le diseguaglianze di reddito nel

loro insieme (S80/S20) che vedono l’Italia comunque purtroppo al di sopra della media UE (art. 3). Per

il diritto al sostegno attivo all’occupazione (art. 4), i dati italiani non sono risultati reperibili.

Nell’indicatore AROPE delle persone a rischio di povertà ed esclusione UE, l’Italia è ottava, con un

28,7 % nel 2015 al di sopra della media UE (23,4 %). All’Italia spetta poi il record dei giovani (15-24)

che sono né al lavoro, né in formazione (NEET), nel 2016 il 19,9% rispetto a una media UE dell’11,6%

(art. 5). Subito dopo la Grecia, l’Italia ha la seconda quota di occupazione (20-64) più bassa dell’UE,

con un 61,6 % (2016) rispetto a una media UE del 71,1% (art. 6). Per il tasso di disoccupazione (15-74),

l’Italia è invece sesta con un 11,7% 2016 rispetto a una media UE 8,6 %.

Per quanto riguarda l’indice EUROSTAT per il reddito lordo disponibile delle famiglie pro capite, la

povera Italia è terz’ultima dopo Grecia e Cipro con un indice 90,2 rispetto a un 103,0 della media UE

(art. 6). Appena sotto la media UE 22,8 € risulta invece il salario medio per ora di lavoro a 22,6 € che

oscilla tra il 4,6 € della Bulgaria e i 43,3 € del Lussemburgo. L’Italia è poi quart’ultima nella valutazione

dell’impatto delle politiche pubbliche sulla riduzione del rischio di povertà (21,6 % rispetto a media UE

33,7 %). Appena sotto la media UE (30,3%) è anche la quota di bambini (0-3) beneficiari di strutture di

assistenza all'infanzia. Sorprendentemente, anche il bisogno percepito di cure mediche non prestate

vede l’Italia sestultima, anche se i dati oggettivi indicano una qualità migliore. L’indicatore del possesso

di competenze digitali di base (16-74 anni) vede l’Italia quart’ultima, con 44% rispetto a una media UE

di 56% della popolazione. Aggregando i dati, in condizioni peggiori dell’Italia sembrano versare solo

Grecia e i nuovi stati UE Romania e Bulgaria.

14 C. M. BREUER, Impact of the Council of Europe on National Legal Systems, in: S. SCHMAHL, M. BREUER (eds.), The Council of Europe, Oxford 2017, pp. 858 ss.

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Si potrà discutere la validità di singoli indicatori e del loro insieme, ma anche altri studi evidenziano la

discrasia tra le parole della costituzione apparentemente più sociale dell’Europa e i numeri delle

statistiche che pretendono di rappresentare la realtà dell’Italia come una degli stati meno sociali

dell’Unione europea.

Basta guardare ad es. al EU Social Justice Index 2017 della Bertelsmann Stiftung15 che assegna il primo

posto alla Danimarca con il 7.39/10, l’ultimo posto alla Grecia (3.7/10) e vede l’Italia quart’ultima con

uno score del 4.84/10 e una media UE del 5.85/10. Questo voto si articola nelle voci “prevenzione

della povertà” 4.16, “istruzione equa” 5.40, “accesso al mercato del lavoro” 5.17, “coesione sociale e

non discriminazione” 4.88, “salute” 5.79 e “giustizia intergenerazionale”4.10.

Migliorano le posizioni se si guarda invece allo Better Life Index dell’OCSE16 che inquadra l’Italia sopra

la media in reddito e benessere oggettivo, work-life balance, legami sociali, salute e longevità, ma sotto

la media in impegno civile, abitazioni, benessere soggettivo, qualità dell’ambiente, lavoro e salari,

sicurezza sociale, educazione e formazione, anche se i dati del programma PISA indicano l’Italia solo un

punto sotto la media. La ricerca dell’OECD è peraltro basato su gli indicatori SERF dell’università del

Connecticut17:

La valutazione negativa si attenua invece se si prendono strumenti di valutazione globale anziché

europea come il “Social Progress Index” 201718. L’Italia risulta qui classificata al 24° posto su 128 paesi

con uno score di 82.62/100 e si registrano solo le seguenti criticità (e posizioni di ranking): Availability of

affordable housing (% satisfied) 48.66 (59), Satisfied demand for contraception (% of women) 66.00 74, Level of violent

crime (1=low; 5=high) 3.00 59, Perceived criminality (1=low; 5=high) 4.00 89, Press Freedom Index (0=most free;

15 https://www.bertelsmann-stiftung.de/fileadmin/files/BSt/Publikationen/GrauePublikationen/NW_EU_Social_Justice_Index_2017.pdf 16 http://www.oecdbetterlifeindex.org/countries/italy/ 17 https://serfindex.uconn.edu/explore-the-2017-serf-index-update/ 18 https://www.socialprogressindex.com/?tab=2&code=ITA

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100=least free) 28.93 59, Corruption (0=high; 100=low) 47.00 44, Tolerance for immigrants (0=low; 100=high)

63.40 56, Religious tolerance (1=low; 4=high) 2.00 92, Years of tertiary schooling 0.45 59.

Non è possibile in questa sede un esame più approfondito dell’utilità e attendibilità di questi strumenti

di misurazione della performance di tutela dei diritti sociali che normalmente non risultano essere presi

in considerazione dalla letteratura giuridica italiana sui diritti sociali che stenta a focalizzare le violazioni

strutturali e le conseguenti necessità di riforme strutturali a garanzia dei diritti sociali. Pertanto non

meraviglia neanche la scarsa attenzione finora data alle attività di monitoraggio internazionale sulla

situazione dei diritti sociali in Italia.

Al riguardo vanno ricordate innanzitutto le osservazioni critiche del Comitato dei diritti economici,

sociali e culturali nella sua 56° sessione del 25 settembre 2015.19 La lunga lista delle critiche, accanto ad

alcuni elogi, merita particolare interesse da parte dei cultori del diritto costituzionale che possono

interpretare non solo i principi e diritti costituzionali alla luce delle fonti internazionali, ma interrogarsi

anche sugli strumenti di tutela giurisdizionale nelle situazioni segnalate.

1) Le disposizioni del Patto internazionale non sono “fully reflected in the State party’s Constitution” e

non tutti i diritti del patto sono giustiziabili.

2) Si richiede un riesame dell’impatto di tutte le misure di austerity review sui diritti economici, sociali e

culturali.

3) Si richiede un “zero-tolerance policy against corruption” anche all’interno del potere giudiziario.

4) Si lamenta la riduzione dei fondi di assistenza allo sviluppo allo 0.15 del PIL nel 2010 (nel 2017 allo

0.29, ma ancora lontano dallo 0.7 dell’Agenda 2030).

5) L’Italia non si è dotata di un’autorità indipendente per la tutela dei diritti umani.20

6) Si censura la mancanza di una legislazione coerente di antidiscriminazione e l’imprecisione del

catalogo costituzionale dei divieti di discriminazione.

7) Il comitato è preoccupato per le riferite pratiche di respingimento di migranti, richiedenti asilo e

rifugiati e sul “limitato godimento dei diritti pattuiti arrivati sul territorio dello Stato, in particolare sul

numero di strutture di recezione nonché “the substandard conditions therein”, ragione per la quale si

raccomanda cooperazione con gli altri Stati UE e garanzie di interpreti, cibo adeguato, vestizione e

sostegno sociale negli stessi.

8) Si censurano discriminazioni delle persone con disabilità, in particolare l’insufficiente recezione del

ragionevole accomodamento.21

19 E/C.12/ITA/CO/5. Notizie sommarie (e in parte incomplete) in Annuario italiano dei diritti umani 2016, Padova 2016, 121ss. 20 Cfr. il parere inascoltato di N. RONZITTI del 2010, http://leg16.camera.it/temiap/temi16/PI0004Not.pdf.

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9) Sulle discriminazioni di genere, si osserva una persistenza di “gender role stereotypes” che, dal punto

di vista di chi scrive, sono rafforzati dal linguaggio anacronistico dell’art. 37 della costituzione, e di una

quasi assenza delle donne del sud e delle donne Rom dalla sfera pubblica.

10) Si lamenta la carenza di effettività degli strumenti adottati per contrastare la disoccupazione, le

disparità regionali e le discriminazioni nei confronti di giovani, disabili e migranti.

11) In merito al “gender wage gap”, si osserva che le donne trovano lavoro soprattutto nell’economia

informale e una perpetuazione di “vertical and horizontal occupational sex segregation”.

12) Si raccomanda una strategia di emersione dell’economia informale, nel rispetto della

raccomandazione OIL n. 204 (2015) sui “social protection floors”.

13) Si censura la mancanza di un salario minimo mensile indicizzato per lavoratori senza contratto

collettivo.

14) Si esprime dispiacere per la mancanza di una legge organica sui diritti dei sindacati, incluso sul

diritto allo sciopero – cioè la persistente inattuazione parziale dell’art. 40 cost. - sul quale l’Italia non ha

dato informazioni.

15) Si censurano i tagli alla spesa sociale e l’inadeguatezza delle tutele nelle situazioni di disoccupazione.

16) Si critica l’inefficienza delle protezioni contro violenze sulle donne, specialmente in ambito

domestico.

17) Si urge per politiche contro la crescente povertà, anche tra i bambini e con crescenti disparità

regionali.

18) Si raccomanda una legislazione nazionale organica sul diritto alla casa, con controlli sugli affitti,

misure per le situazioni dei senzatetto, un’indagine sulle cause della carenza di case per stranieri e norme

sull’accesso alle case popolari che non discriminino indirettamente i Roma.

19) Si raccomanda una legislazione organica sugli sfratti e la predisposizione di strumenti di accoglienza

o indennizzo per fare fronte alla cd. emergenza nomadi.

20) Si raccomandano numerose misure per la tutela dei diritti sociali dei Roma e Sinti, inclusi livelli

essenziali minimali per il loro diritto alla casa rispettose delle sentenze costituzionali.

21) Per quanto riguarda il diritto alla salute, si raccomandano misure che colmino le diseguaglianze

geografiche (nord-sud) nell’accesso ai servizi sanitari, superino barriere socioeconomiche, non

sacrifichino i più vulnerabili dai tagli e provvedano sistemi di assistenza alternativi per persone

dipendenti e con disabilità.

22) Si censurano restrizioni nell’accesso a servizi di interruzione della gravidanza.

21 Cfr. la lunga lista di censure nelle conclusioni del “Committee on the Rights of Persons with Disabilities” sulla relazione iniziale dell’Italia del 6. 10. 2016, CRPD/C/ITA/CO/1.

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23) Si sollecitano misure di lotta alla obesità, in particolare quella infantile, raccomandando tasse

specifiche su “junk foods” e “sweet beverages”.

24) Si raccomanda di rafforzare la lotta all’abbandono scolastico.

25) Si incoraggiano misure per l’istruzione inclusiva dei disabili.

26) Si lamenta la carenza di informazioni sul rispetto dei diritti culturali, osservando che ai figli dei

migranti deve essere garantito il diritto di conservare la lingua madre.

In questo contesto internazionale vanno lette anche le conclusioni più concrete sull’Italia del Comitato

europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, presentate il 23 gennaio 201822 in merito ai diritti ad

avere condizioni di lavoro sicure e non nocive (art. 3), alla tutela della salute (art. 11), alla sicurezza

sociale (art.12 CSE), all’assistenza sanitaria e sociale (art.13), ai servizi di welfare (art.14), alla protezione

degli anziani (art.23), alla difesa dalla povertà e dall’esclusione sociale (art.30 CSE). Su 19 situazioni

esaminate, 6 sono risultate conformi alle previsioni della Carta, 7 non conformi, e altre 6 tali da

richiedere ulteriori informazioni.

Sono stati giudicati non conformi e quindi violati dall’Italia

1) il diritto alla sicurezza e all’igiene sul lavoro con l’impegno di garantire “l’istituzione progressiva

sul lavoro di servizi con funzioni sostanzialmente preventive e di consulenza per tutti i

lavoratori” (art. 3§4), in quanto non si è dotata di una strategia per garantire l’accesso ai servizi

di salute del lavoro a lavoratori di tutti i settori dell’economia, inclusi lavoratori temporanei,

supplenti, self-employed, a domicilio e domestici.

2) il diritto alla sicurezza sociale con l’impegno di “adoperarsi per elevare progressivamente il

livello del regime di sicurezza sociale” (art. 12§3), in quanto l’informazione sulle riforme

intraprese non consente di constatare se la copertura della sicurezza sociale sia stata estesa o il

livello delle prestazioni sia cresciuto o si siano invece ristretti.

3) il diritto alla protezione sociale con l’impegno di garantire parità di trattamento e totalizzazione

dei periodi di contribuzione per i cittadini degli stati firmatari della CSE “a prescindere dagli

spostamenti” tra i loro territori (art. 12§4), in quanto “la parità di trattamento riguardo

all’accesso ai benefici delle famiglie non è garantita ai cittadini di tutti gli altri Stati”, restando

esclusi per ragioni di reciprocità non conformi alla Carta Albania, Armenia, Georgia e la

Federazione Russa, e in quanto “la durata della residenza (decennale) richiesta per l’ammissione

alle provvidenze sociali di stranieri cui non si applicano le norme UE o accordi bilaterali” è

eccessiva.

22 https://rm.coe.int/compilation-of-conclusions-2017-by-country/1680786061

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4) il diritto all’assistenza sociale e medica con l’impegno di offrire un’assistenza adeguata per ogni

persona che non dispone di risorse sufficienti neanche da prestazioni di sicurezza sociale (art.

13§1), in quanto il livello di assistenza sociale è giudicato inadeguato. In particolare, non sono

accertabili soglie regionali di indigenza e criteri comuni per l’elargizione delle prestazioni di

assistenza a fronte di una soglia di povertà calcolata in € 816.84 nelle aree metropolitane del

Nord e € 548,70 nelle piccole città del Sud. L’assegno sociale pari a € 5.830/anno 2015 era

inferiore alla soglia media di povertà pari € 7.920 ossia il 50 % del reddito medio. Richieste di

informazioni particolari riguarda l’assistenza sociale e medica agli stranieri regolari ed irregolari.

5) il diritto delle persone anziane ad una protezione sociale (art. 23), in quanto “il livello di

pensioni di vecchiaia, contributive e non, è manifestamente (sic!) inadeguato”. Questo varrebbe

sia per il minimo delle pensioni senza contributi pari a € 448.07+40/mese, sia per quelle

contributive € 501.89, mentre per i rapporti successivi al 1996 non sarebbe garantito alcun

minimo, da doversi calcolarsi sul 40–50% del reddito medio nazionale , da Eurostat calcolato in

€ 7923/annui per il 2015. Il 3.4% degli ultrasessantacinquenni avevano un reddito inferiore al

40 % (media UE: 2,9 %).

6) il diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione (art. 30), in quanto l’Italia continua

a non disporre di alcun approccio adeguato complessivo e coordinato al riguardo.

Se queste sono le situazioni che almeno nel loro insieme inducono tanto i cittadini a votare partiti

antisistema quanto i migranti a “votare con i piedi” contro la permanenza sul territorio ed entrambi a

fare sempre più reclami al Comitato, si potrebbe parlare di una vera e propria emergenza e di una crisi

sociale che rischia di travolgere anche le promesse altisonanti della costituzione. Il futuro dei diritti

sociali in Italia dopo la proclamazione del pilastro europeo richiede una sequenza di riforme strutturali

pluriennali che potranno essere finanziate in armonia con i vincoli del fiscal compact forse solo se si

ricorre al meccanismo europeo di stabilità.

5. Alcune esperienze e tendenze di sviluppo europee comparate

Se si prescinde dal percorso particolare del Regno Unito dopo la Brexit dall’UE e le minacce di una

Brexit ulteriore dal Consiglio d’Europa o dalla giurisdizione della Corte europea di diritti dell’uomo, alla

domanda circa il futuro conviene dare anche una risposta comparativa degli sviluppi negli stati sociali

più grandi dell’Europa, senza perdere di vista ad es. il l’esperimento del reddito di base in Finlandia

(fino alla fine del 2018), le riforme sociali della Polonia a partire dal programma “famiglia 500+” o la

scadenza del terzo piano triennale di aiuti dell’Eurogruppo alla Grecia.

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Al riguardo, il programma del nuovo governo francese del Presidente Emanuel Macron concretizza i sei

cantieri definiti dal “contratto con la nazione” del candidato presidente, dei quali i primi tre riguardano

istruzione e cultura, società del lavoro – con un diritto all’assicurazione contro la disoccupazione – e un

cantiere di modernizzazione dell’economia fondata su un nuovo modello di crescita – con riforme della

sanità e delle politiche della casa. Nel governo, gli affari sociali sono rimasti separati dal lavoro e

associati alla sanità, sotto il nuovo nome di Ministero delle solidarietà e della salute. E stato lanciato un

sito “www.mesdroitssociaux.gouv.fr” che offre informazioni sui diritti sociali a ogni persona dotata di

un’identità digitale e sono stati in parte già prodotti, in parte ancora in cantiere e non esenti da critiche e

proteste:

- una legge delega sulla base della quale sono state adottate cinque ordinanze “per il rafforzamento del

dialogo sociale nel codice del lavoro” (2017/18),23

- un progetto di legge per la "libertà di scegliere il proprio avvenire professionale” recante riforme

dell’apprendistato, della formazione professionale e dell’assicurazione contro la disoccupazione, che

crea peraltro un “conto personale della formazione (CPF) alimentato di 500 € per anno, rafforza la

parità di genere e attua la sopra citata direttiva europea sul lavoro distaccato (2018)

- un programma a favore dei lavoratori indipendenti (2017/18)

- una legge per l’orientamento e la riuscita degli studenti «Orientation et réussite des étudiants» (ORE)

(2018)

- un piano studenti (2017)

- un progetto di riforma del sistema pensionistico (2019)

- un progetto di legge a favore del diritto all’abitazione e delle politiche urbanistiche, intitolato

“Evolution du logement, de l’aménagement et du numérique” (ELAN) (2018)

- una legge per il riequilibrio delle relazioni commerciali nel settore agricolo e un’alimentazione sana e

sostenibile (2018).

Questo quadro delle riforme nazionali è poi completato dalle note iniziative di Macron per una

“maggiore giustizia e convergenza sociale in Europa”, inclusa una tassa sulle transazioni finanziarie a

favore dell’assistenza allo sviluppo.24

In Francia, la situazione dei diritti sociali è peraltro monitorata dalla Commissione nazionale

consultativa sui diritti umani che ha reso al nuovo governo un lungo parere sulle conseguenze del

23 Loi no 2017-1340 du 15 septembre 2017 d’habilitation à prendre par ordonnances les mesures pour le renforcement du dialogue social. 24 Cf. il discorso del 26/9/2017, http://www.elysee.fr/declarations/article/initiative-pour-l-europe-discours-d-emmanuel-macron-pour-une-europe-souveraine-unie-democratique/

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giudizio del comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite, in particolare le

raccomandazioni in merito ai problemi della precarietà sociale e del diritto del lavoro.25

Per quanto riguarda la Germania, è inevitabile dare invece una lettura del recente Koalitionsvertrag

2018 del governo federale tedesco, firmato e ratificato dai partiti politici CDU/CSU/SPD uniti in una

coalizione (per effetto dei risultati elettorali) non più grande.26 Il primo capitolo promette all’Europa un

poetico Aufbruch, letteralmente un’azione di rottura del ghiaccio, di incrostazioni o ostacoli, di apertura

di chiusure e otturazioni, di avviamento e ripartenza da una stasi. L’Unione europea, si legge, vuole

legare “integrazione politica e benessere a libertà, democrazia e giustizia sociale”. Si parla di nuove sfide

di “partnership e solidarietà” quali Brexit, fughe e migrazioni, delle ripercussioni della crisi finanziaria,

della disoccupazione giovanile in Europa, della difesa dei principi fondamentali comuni in un contesto

geopolitico mutato. Si vogliono rafforzare democrazia e “solidarietà reciproca”, competitività e

investimenti, in una economia di mercato sociale fondata su “responsabilità imprenditoriale,

partnership sociale, cogestione e una distribuzione equa del benessere prodotto dall’economia”.

Più concretamente, l’università deve aspettarsi una “politica strategica della ricerca” a livello europeo,

finalizzata anche alla digitalizzazione. Pertanto occorre “combattere la disoccupazione con più risorse

dell’UE”, rafforzare i diritti sociali fondamentali, in particolare il principio della pari retribuzione per

pari lavoro in pari luogo dell’UE attraverso un patto sociale. Si vuole sviluppare un quadro normativo

europeo per le discipline dei redditi minimi nonché per i sistemi nazionali di sicurezza sociale di base

negli Stati UE. Si deve lottare contro il dumping salariale e tributario, promuovere una mobilità equa e

prevenire una immigrazione abusiva nei sistemi di sicurezza sociale. Si mira a una comparabilità di

standards di istruzione nell’Unione europea. Non si obbliga il governo a sostenere la creazione di un

ministro europeo delle finanze, ma il nuovo ministro socialdemocratico delle finanze dovrà sostenere la

tassazione delle grandi corporazioni dell’economia di internet, aliquote minime e normative comuni per

le imposte sulle imprese e la realizzazione definitiva dell’imposta sulle transazioni finanziarie, in

convergenza implicita con le idee del governo francese.

Il terzo capitolo mette “al centro famiglie e bambini”, promettendo tra l’altro concretamente un

aumento del sussidio per i figli di € 25 al mese, dei fondi per asili nido e l’introduzione di un diritto a

un’assistenza a tempo pieno nella scuola elementare entro il 2025, piena parità di genere nell’impiego

pubblico entro il 2025.

25 Commission nationale consultative des droits de l’homme (CNCDH), Avis relatif au suivi des recommandations du Comité des Nations unies sur les droits économiques, sociaux et culturels adressées à la France, JORF n° 0254 du 29 octobre 2017. Cfr. anche i pareri relativi ai diritti sociali confluiti nel recente studio sui diritti umani nei territori oltremare http://www.cncdh.fr/sites/default/files/cncdh_outre-mer_complet.pdf 26 I risultati erano condizionati dalle scelte dell’allora governo federale in regime di prorogatio, ma dotato di pieni poteri anche sul parquet europeo.

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Nel quarto capitolo dedicato al fronte formazione, ricerca e digitalizzazione, si promettono tra l’altro 5

miliardi per la digitalizzazione delle scuole, un aumento delle risorse per ricerca e sviluppo fino a 3,5 %

del PIL, 10-12 miliardi per reti di fibra ottica e internet gratuito in tutte istituzioni pubbliche.

Nel quinto capitolo destinato ad “assicurare buon lavoro, ampi alleggerimenti e partecipazione sociale”

si prospettano 4 miliardi per la lotta alla lunga disoccupazione, riduzione del lavoro a tempo e

abolizione dei lavori a termine a rinnovi infiniti, diritto al part time a termine in imprese con più di 45

dipendenti, riduzione dei contributi per l’assicurazione contro la disoccupazione etc.

Nel settimo capitolo dedicato alla “gestione equa e affidabile della sicurezza sociale” si garantisce la

conservazione sia del livello attuale delle pensioni (48 %) fino al 2025, sia del tasso di contribuzione

massimo al 20 %, prospettando un’ulteriore stabilizzazione per il tempo successivo. Inoltre si prospetta

l’introduzione di una pensione base superiore del 10 % del minimo di esistenza sociale a chi “ha

lavorato tutta la vita”, l’inclusione del lavoro indipendente con opzioni di opting out per forme di

previdenza obbligatoria autonoma, un’azione concertata per le strutture di l’assistenza sociosanitaria

con 8.000 nuovi posti di lavoro infermieristico, una franchigia di 100.000 per i genitori di figli bisognosi

di cure permanenti, ripristino della parità di contribuzione di lavoratori datori di lavoro alla sicurezza

sanitaria, quote di medici per i distretti rurali, dossier sanitario elettronico entro il 2021 ecc.

Infine, nell’ottavo capitolo “governare l’immigrazione, esigere e sostenere l’integrazione” si concordano

limiti (180.000-220.000) e regole chiare per il ricongiungimento famigliare, nel nono capitolo “città

vivibili, regioni attraenti e abitazioni pagabili” si prospettano 1,5 milioni di abitazioni nuove € 2 miliardi

per case popolari, sussidi per la costruzione di case di famiglia (€1.200/figlio), nel decimo capitolo “uno

stato capace di agire e forte per una società libera” darà maggiore assistenza alle vittime di reati e tutela

dei consumatori.

Nella relazione annuale sulla situazione diritti umani tra il giugno 2016 e il giugno 2017,27 l’Istituto

tedesco per i diritti umani di Potsdam non esamina le relazioni degli organismi dell’ONU per il

monitoraggio della convenzioni sui diritti delle donne (CEDAW) e per la situazione di persone di

origine africana o del CoE per la prevenzione della tortura e contro razzismo e intolleranza,

approfondendo piuttosto in dettaglio situazioni di violazione dei diritti di domicilio e di riservatezza nei

centri di permanenza degli stranieri, dei diritti di rifugiati con disabilità e dei figli di incarcerati.

27 https://www.institut-fuer-menschenrechte.de/fileadmin/user_upload/Publikationen/Menschenrechtsbericht_2017/Menschenrechtsbericht_2017.pdf. Nell’anno precedente, la relazione aveva focalizzato i diritti umani dei rifugiati e le restrizioni dei diritti di voto dei disabili, in collegamento con una ricerca dell’agenzia dei diritti fondamentali dell’UE di Vienna. Per una sintesi in inglese https://www.institut-fuer-menschenrechte.de/fileadmin/user_upload/Publikationen/Menschenrechtsbericht_2016/Human_Rights_Report_2016_Short_version.pdf

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Le differenze tra Francia e Germania in materia di programmazione politica e di monitoraggio sui diritti

sociali non devono sorprendere e sono certo anche dovute a differenze della forma di governo più che

della forma di stato. Né deve sorprendere che l’Italia rappresenti un approccio intermedio.

Il contratto per il governo del cambiamento del 18 maggio 2018 tra Lega e M5S non ha una struttura

sistematica, seguendo un ordine meramente alfabetico. Alcune voci si riferiscono esplicitamente a diritti

umani o costituzionali o a disposizioni costituzionali in materia di diritti, altre implicitamente a

istituzioni legate ai diritti sociali, essendo qui e là bisognosi e suscettibili di interpretazioni adeguatrici

alle garanzie costituzionali ed internazionali dei diritti sociali.

Ad es. nel par. 13 si promette “osservanza dei diritti costituzionalmente garantiti” nelle procedure per la

verifica del diritto allo status di rifugiato e garantisce nelle sedi di permanenza degli immigrati irregolari

piena “tutela dei diritti umani”. E nel par. 29 “Unione europea” si pretende una cittadinanza UE

espressione della parità “dei diritti e degli interessi dei cittadini” e promette una opposizione a trattati

dell’UE con stati terzi che comportino “un eccessivo affievolimento della tutela dei diritti dei cittadini”.

Nel par. 5 si prospetta una revisione radicale delle disposizioni relative al “bail in” bancario “per una

maggior tutela del risparmio degli italiani secondo quanto afferma la Costituzione”.

Nel par. 14 si promette di garantire “una retribuzione equa al lavoratore in modo da assicurargli una

vita e un lavoro dignitosi, in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità, in attuazione dei principi

sanciti dall'articolo 36 della Costituzione”, peraltro fondato su un “salario minimo orario” già giudicato

insufficiente dal Comitato del CoE.

Nel par. 16 si promette un “generale rafforzamento dei fondi sulla disabilità e la non autosufficienza”,

con implicito riferimento all’art. 38 cost.

Nel par. 17 si prospetta “l’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma

delle pensioni cd. “Fornero””, con diritto alla pensione “quando la somma dell’età e degli anni di

contributi del lavoratore è almeno pari a 100”, “con 41 anni di anzianità contributiva” e misure speciali

per donne e per “lavoratori impegnati in mansioni usuranti” al costo di € 5 miliardi (a garanzia

apparente dell’art. 38 cost.).

Nel par. 18 si propongono varie provvidenze alle famiglie e alla natalità, ad es. “sostegno per servizi di

asilo nido in forma gratuita a favore delle famiglie italiane” – da conformare al diritto UE – o

l’innalzamento dell’indennità di maternità con implicito riferimento all’art. 31 (2) Cost..

Nel par. 19 si propone un non dettagliato “reddito di cittadinanza” come “misura attiva rivolta ai

cittadini italiani al fine di reinserirli nella vita sociale e lavorativa del Paese” per un ammontare di € 780,

lasciando aperto se tale misura possa o debba essere estesa anche a stranieri regolarmente soggiornanti.

A questo serve un investimento “di 2 miliardi di euro per la riorganizzazione e il potenziamento dei

centri per l’impiego”, una riforma del Fondo sociale europeo (ipotizzata da una risoluzione del

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parlamento europeo), ma si aggiunge anche una pensione di cittadinanza per chi vive sotto la soglia

minima di povertà.

Nel par. 20 è prospettato il “principio della cittadinanza digitale dalla nascita, prevedendo l’accesso

gratuito alla rete internet per ogni cittadino”, da interpretarsi sempre alla luce dei diritti alla non-

discriminazione. Si propongono tuttavia anche riforme costituzionali quali una difficilmente intelligibile

“affermazione del principio della prevalenza della nostra Costituzione sul diritto comunitario, in

analogia al modello tedesco, fermo restando il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione”.

Nei par. 21 e 22 si prospettano una serie di obbiettivi e riforme in materia di sanità e scuola, con

implicito riferimento agli art. 32-34 cost..

Nel par. 23 dedicato alla sicurezza si sottolinea l’obbligo di frequenza scolastica dei minori Rom “pena

l’allontanamento dalla famiglia o perdita della potestà genitoriale” e prospetta il “pieno superamento dei

campi Rom in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea”, che intende tuttavia rispettare anche

la giurisprudenza di Strasburgo al riguardo.

Nel par. 26 si prospetta infine un “taglio delle cd. pensioni d’oro (superiori ai 5.000,00 euro netti

mensili) non giustificate dai contributi versati”.

Concludendo questo esame sommario, non si può certo negare una volontà di tutela dei diritti sociali e

di maggiore trasparenza delle politiche governative rispetto al passato. Alla domanda, quale sia il futuro

dei diritti sociali in Italia, il programma sembra tuttavia indicare una preferenza per la riconversione e

riduzione dei diritti sociali umani in diritti sociali dei cittadini italiani e rivelare una imperfetta

realizzabilità finanziaria che rischia di fare crescere l’incertezza giuridica e l’insicurezza sociale anche

nell’ottica comparata. Tra speranze di rafforzamento e paure di impoverimento, non conviene tuttavia a

nessuno congedarsi dall’Europa dei diritti sociali.

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La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo

di Francisco Balaguer Callejón*

Sommario: Introduzione. 1. Un punto di partenza sbagliato: le politiche di austerità. 2. L’alternativa europea: politiche di austerità combinate con il pilastro sociale. 3. La portata del pilastro sociale e il recupero del patrimonio costituzionale europeo. Conclusioni.

Introduzione.

La Spagna è stato uno dei Paesi più colpiti dalla crisi finanziaria e ha sofferto, insieme con l’Italia e altri

Stati della zona Euro, l’impatto delle politiche europee di austerità, nonostante la sua situazione

economica, specialmente per quanto concerne il rapporto del debito pubblico in relazione con il PIL1,

non era particolarmente preoccupante quando cominciò la crisi economica2. A questo riguardo occorre

evidenziare che queste politiche di austerità non erano giustificate da ragioni economiche e che, almeno

nel caso della Spagna, nonostante lo scoppio della bolla immobiliare, la situazione del sistema

finanziario non era tanto problematica come in altri paesi (con l’eccezione delle Cajas de Ahorro) e le

condizioni economiche avrebbero permesso politiche differenti se non fosse stato per le limitazioni

derivanti dall’appartenenza alla zona Euro, che impedivano l’utilizzazione di meccanismi finanziari

tradizionali per fare fronte alla crisi e risolvere la mancanza di liquidità. Queste limitazioni misero la

Spagna, come l’Italia, in una situazione molto svantaggiosa nei confronti degli speculatori finanziari,

fino all’arrivo di Mario Draghi alla Presidenza della Banca centrale europea che diede luogo ad un

cambio di orientamento e pose le basi per il superamento della crisi dell’Euro3.

* Traduzione dal castigliano di Tommaso Nicola Poli. 1 Il debito pubblico spagnolo era inferiore al 40% del PIL quando iniziò la crisi (intorno al 36%) e cominciò a superare la media della zona Euro solamente nel 2013 in piena crisi economica, per la prima volta dall’avvio dell’Unione economica e monetaria. Cfr. a questo riguardo lo studio di L. GORDO – P. HERNÁNDEZ DE COS – J. J. PÉREZ, della Direzione Generale dei Servizio di Studio del Banco di Spagna: Evolución de la deuda pública en España en 2013, in: https://www.bde.es/f/webbde/SES/Secciones/Publicaciones/InformesBoletinesRevistas/BoletinEconomico/14/Jun/Fich/be1406-art5.pdf. 2 Cfr. P. DE GRAUWE, The Governance of a Fragile Eurozone, 2011, in: https://www.ceps.eu/system/files/book/2011/05/WD%20346%20De%20Grauwe%20on%20Eurozone%. 3 Cfr. il mio lavoro, Una interpretación Constitucional de la crisis económica, in Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 19/2013, in: http://www.ugr.es/~redce/REDCE19/articulos/15_F_BALAGUER.htm, e Crisi economica e crisi costituzionale in Europa, in Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna, n. 1/2012, in: https://www.unikore.it/index.php/francisco-balaguer-callejon-crisi-economica). Cfr. anche E. GUILLÉN

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L’“interpretazione economica della Costituzione”, che si impose durante gli anni della crisi, portò ad

una penetrazione dei vincoli di bilancio in tutti gli ambiti della vita pubblica, alterando le basi della

struttura costituzionale del nostro paese come degli altri Stati membri, non solo nell’aspetto sociale, ma

anche in quello democratico, nei diritti politici e nella decentralizzazione territoriale. Questa

interpretazione economica ha posto la Costituzione in “stand by” lasciando in sospeso le sue funzioni

fondamentali: dal controllo del potere fino alla garanzia dei diritti costituzionali, passando per

l’articolazione del pluralismo politico e la risoluzione dei conflitti sociali e politici. Dal punto di vista dei

diritti sociali, le politiche di austerità hanno colpito uno degli elementi essenziali del consenso sociale

che diede luogo alle costituzioni normative e hanno danneggiato gravemente la struttura dello Stato

sociale, che è un principio fondamentale del nostro sistema costituzionale. Il pilastro sociale europeo

deve inquadrarsi all’interno di questo contesto, nel quale le politiche promosse dall’Unione hanno

generato un’immagine molto negativa dell’Europa all’interno degli Stati membri4 e hanno provocato

trasformazioni rilevanti nei sistemi politici di alcuni paesi, con una forte involuzione democratica.

In Spagna, questa involuzione democratica è stata prodotta senza apparenti costi politici, nella misura in

cui i due grandi partiti politici che fino a poco tempo fa detenevano da soli le maggioranze di governo5

erano d’accordo nell’applicazione delle politiche economiche “raccomandate” dall’Unione europea.

Inoltre, il Tribunale costituzionale ammise queste politiche in virtù delle condizioni economiche

esterne, modificando gli indirizzi giurisprudenziali precedenti, che sono stati espressi nei voti particolari

presentati nelle sentenze relative alla crisi6. Ad ogni modo, con il passare degli anni, è stato evidente il

malessere che si stava generando nella società spagnola, che si è riflesso nella nascita di nuovi attori

LÓPEZ, La crisis económica y la dirección política: reflexiones sobre los conceptos de necesidad y de elección en la teoría constitucional, in Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 20/2013, in http://www.ugr.es/~redce/REDCE20/articulos/12_E_GUILLEN.htm. 4 Come è riconosciuto espressamente nella Prefazione del “Documento di riflessione sulla dimesione sociale dell’Europa”, Bruxelles, 26 aprile 2017: “La crisi economica ha avuto pesanti ripercussioni sulla vita delle persone e sulle nostre società. I cittadini si chiedono se i benefici e le sfide associati a società e mercati aperti, all’innovazione e ai cambiamenti tecnologici siano equamente distribuiti. La loro fiducia nella capacità dell’Europa di influire sul futuro e di dar vita a società eque e prospere è stata intaccata” in: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/reflection-paper-social-dimension-europe_it.pdf. 5 Fino alle elezioni politiche del 20 dicembre 2015, nelle quali apparirono nuove forze politiche (“Ciudadanos” e “Podemos”) che ruppero il bipartitismo esistente fino a quel momento. 6 Cfr. il mio lavoro Constitutional Courts under Pressure – New Challenges to Constitutional Adjudication. The Case of Spain, in Z. SZENTE – F. GARDOS-OROSZ (Edited by) New Challenges to Constitutional Adjudication in Europe. A Comparative Perspective, Routledge, London and New York, pp. 164-184. Cfr. anche A. AGUILAR CALAHORRO, El impacto de la crisis económica en España: el renacimiento de la política frente a la economía, in F. BALAGUER CALLEJÓN – M. AZPITARTE SÁNCHEZ – E. GUILLÉN LÓPEZ – J.F. SÁNCHEZ BARRILAO (Edited by), The impact of the Economic Crisis on the EU Institutions and Member States/El impacto de la crisis económica en las instituciones de la UE y los Estados miembros, Thomson Reuters Aranzadi, Pamplona, 2015, pp. 161-185.

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politici che hanno indebolito il peso dei partiti tradizionali. La ripresa economica non ha cambiato

questa situazione, sebbene consenta che le misure di austerità siano in qualche misura allentate.

Il pilastro sociale europeo sembra provare a restaurare una concertazione sociale che era praticamente

scomparsa con la crisi e promuovere misure nell’ambito lavoristico e sociale che permettano di

recuperare l’immagine molto compromessa del progetto di integrazione europea, mitigando la

percezione del regresso storico che è avvenuto negli ultimi anni7. La Spagna è un paese profondamente

europeista, a causa di diverse circostanze storiche e politiche che riguardano la preoccupazione di

rompere il suo isolamento tradizionale di fronte all’Europa, nonché la sua esperienza positiva

dell’integrazione europea, che spinse lo sviluppo del nostro paese, e la peculiarità della circostanza che

non esiste un partito di estrema destra antieuropeo con una rappresentanza parlamentare e che la

sinistra critica con l’Europa nemmeno è radicalmente antieuropea. Potremmo affermare che il dibattito

sull’Europa è più sereno in Spagna che in altri paesi europei, in termini generali.

1. Un punto di partenza sbagliato: le politiche di austerità.

La durezza delle politiche di austerità che sono state poste in essere a causa della crisi economica hanno

provocato una forte frammentazione sociale, con l’aumento della diseguaglianza e della povertà8, la

perdita delle misure di sostentamento di ampi settori della popolazione, la riduzione dei diritti dei

lavoratori, la precarietà nell’occupazione, l’indebolimento della concertazione sociale e altre

conseguenze molto negative per i diritti di cittadinanza. Dal punto di vista del processo di integrazione,

si sono sviluppati con grande forza movimenti antieuropei che sono arrivati ad avere un importante

risultato elettorale in paesi nei quali non erano precedentemente presenti, come in Germania, e a

formare il governo come in Italia.

L’iniziativa del Pilastro sociale europeo ha il proposito di contrastare la tremenda erosione del progetto

di integrazione e sedare in qualche misura le tensioni interne all’interno degli Stati membri cercando di

facilitare un orientamento diverso delle politiche sociali che renda possibile una certa ripresa del clima

sociale precedente alla crisi9. Il punto debole è che intende farlo senza modificare le politiche

7 L’importante regresso sociale che ha provocato la crisi è riconosciuto nel “Documento di riflessione sulla dimensione sociale dell’Europa”, Bruxelles, 26 aprile 2017, p. 9: “per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, vi è un rischio reale che i giovani adulti di oggi – la generazione più istruita che abbiamo mai avuto – si ritrovino in condizioni economiche peggiori rispetto ai loro genitori”: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/reflection-paper-social-dimension-europe_it.pdf. 8 Cfr. M. RODRIGUES CANOTILHO, El principio de igualdad en el Derecho Constitucional Europeo, Aranzadi, Pamplona, 2017. 9 “L’Europa ha dimostrato la sua volontà di superare la crisi economica e finanziaria e, grazie a un intervento deciso, l’economia dell’Unione è ora più stabile, con livelli di occupazione elevati come mai in passato e una costante riduzione della disoccupazione. Le conseguenze sociali della crisi sono tuttavia vaste – dalla disoccupazione giovanile e di lunga durata al rischio di povertà – ed è urgente affrontarle” del “Pilastro sociale

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economiche, mantenendo l’idea di austerità e chiarendo che l’istituzione del pilastro europeo dei diritti

sociali “non deve incidere sensibilmente sull’equilibrio di bilancio” degli Stati10.

Sebbene tutta la proposta di orientamento sociale dell’Unione europea deve valutarsi positivamente,

non si può fare a meno di sottolineare che, con la crisi economica, l’evoluzione delle politiche europee

ha evidenziato le regole del gioco, obbligando anche a riforme costituzionali che condizionano in

grande misura la spesa sociale e i diritti sociali precedentemente riconosciuti nelle costituzioni nazionali.

L’interpretazione economica della Costituzione alla base di queste politiche è già molto radicata e non

sembra che cambierà sostanzialmente con il Pilastro sociale. Lo squilibrio nella Costituzione economica

che è stato generato con la crisi11 continua ad esistere e non sembra che si ripristinerà con il Pilastro

sociale. Manca ancora nelle autorità europee la consapevolezza che vi è una tensione inevitabile tra

economia di mercato e diritti sociali, che è stata aggravata con il processo di globalizzazione e che deve

risolversi attraverso tecniche costituzionali.

La direzione per risolvere questa tensione e cercare un nuovo equibrio costituzionale, che non è più

praticabile a livello nazionale, è l’intensificazione del processo di integrazione e l’aumento simultaneo

della sua densità costituzionale fino a rendere possibile il principio dello Stato sociale a livello europeo.

Solamente un’Europa unita potrà avere gli strumenti necessari per recuperare i diritti colpiti dalla

globalizzazione. Non possiamo dimenticare che dietro il principio dello Stato sociale pulsava un

processo di emancipazione umana che formava parte del patrimonio costituzionale europeo e che

l’Europa dovrà recuperare per il futuro.

2. L’alternativa europea: politiche di austerità combinate con il pilastro sociale

Il Pilastro sociale europeo presuppone un tentativo di riorentare le politiche che hanno avuto tanto

impatto negativo durante la crisi economica. Tuttavia questo intento non conduce all’abbandono della

narrativa che è stata impiantata in Europa a causa della crisi, basata su una concezione dell’equilibrio di

bilancio che non contempla per il suo raggiungimento che limitazioni della spesa pubblica e tagli ai

europeo”, approvato congiuntamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione il 17 novembre 2017, durante il Vertice sociale in favore del giusto impiego e della crescita celebrata a Göteborg, Svezia, paragrafo 10 del Preambolo: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/social-summit-european-pillar-social-rights-booklet_it.pdf. 10 Cfr. “Pilastro europeo dei diritti sociali”, paragrafo 19 del Preambolo, in fine: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/social-summit-european-pillar-social-rights-booklet_it.pdf. 11 Cfr. il mio lavoro Parlamenti nazionali e Unione europea nella governance multilivello, pp. 16 e ss. in Nomos. Le attualita nel diritto, 2016. Anticipazioni CONVEGNO FINALE PRIN “Parlamenti nazionali e Unione europea nella governance multilivello”. In memoria di Antonio Zorzi Giustiniani: http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2016/04/Parlamenti-nazionali-e-Unione-europea-nella-governance-multilivello_ita.pdf.

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diritti sociali12. Il discorso non è stato cambiato, ma si è tentato di completarlo con una serie di misure

che possono essere ostacolate, anche a causa del suo precedente quadro in un ordinamento

costituzionale (a partire dal Fiscal Compact e, prima ancora della sua entrata in vigore, mediante

riforme costituzionali, come quella spagnola del’art. 135) che stabilisce l’equilibrio di bilancio come

regola obbligata senza tenere conto che questo equilibrio non dipende solamente dalla riduzione della

spesa ma dovrebbe essere inquadrato in una visione più ampia della politica economica.

In effetti, dall’inizio della crisi, la narrativa ufficiale imposta dai paesi con minori problemi finanziari si

concentrò sulla riduzione delle spese come meccanismo esclusivo per raggiungere l’equilibrio di

bilancio, senza tenere conto che queste spese erano più elevate per i paesi della zona Euro con difficoltà

finanziarie come conseguenza della mancanza di appoggio della Banca centrale europea (fino all’arrivo

di Mario Draghi alla Presidenza) che aumentò i tassi di interesse delle emissioni statali di debito, nonché

a causa dell’assenza di una politica fiscale che rendesse possibile l’aumento delle tasse per favorire

l’equilibrio di bilancio. Questa narrativa continua ad essere un ostacolo per lo sviluppo delle politiche

sociali da parte degli Stati, nonostante la ripresa economica che stiamo vivendo negli ultimi anni.

Questo ostacolo è stato riaffermato con il Pilastro sociale europeo, sebbene sia stato in qualche modo

modulato affermando che la sua istituzione non deve incidere “sensibilmente” sull’equilibrio di bilancio

dello Stato.

In effetti, anche se si allentano i limiti a livello europeo, non possiamo dimenticare che continueranno

ad esistere negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri nei quali sono state realizzate le riforme

costituzionali corrispondenti, com’è il caso della Costituzione spagnola, nel suo articolo 135. In questo

precetto si afferma nel suo comma 1 che “tutte le Amministrazioni Pubbliche adatteranno le loro azioni

al principio di stabilità del bilancio”, mentre nel comma 3 è stabilita la preferenza assoluta del

pagamento degli interessi e del capitale del debito pubblico13 e si afferma che “il volume del debito

pubblico di tutte le Amministrazioni Pubbliche in relazione con il prodotto interno lordo dello Stato

non potrà superare il valore di riferimento stabilito nel Trattato di Funzionamento dell’Unione

12 Come indica Zane Rasnaca, “The Pillar package reveals that the EPSR is mainly addressed towards the national level and aimed at completing and furthering the EU social dimension, rather than re-balancing the existing imbalances and reversing the austerity discourse that prevailed in the EU during the sovereign debt

crisis”, —Z. RASNACA, Bridging the gaps or falling short? The European Pillar of Social Rights and what it can bring to EU-level policymaking, in Working Paper 2017/05, European Trade Union Institute, p. 37: https://www.etui.org/Publications2/Working-Papers/Bridging-the-gaps-or-falling-short-The-European-Pillar-of-Social-Rights-and-what-it-can-bring-to-EU-level-policymaking. 13 “I crediti per soddisfare gli interessi e il capitale del debito pubblico delle Amministrazioni si intenderanno sempre inclusi nella dichiarazione delle spese dei loro bilanci e il suo pagamento godrà di priorità assoluta. Questi crediti non potranno essere oggetto di emendamento o di modificazione, finchè si adeguano alle condizioni della legge di emissione”. Cfr. sulla riforma di questo principio: J.F. SÁNCHEZ BARRILAO, La crisis de la deuda soberana y la reforma del artículo 135 de la Constitución española, in Boletín mexicano de derecho comparado, vol. 46 n. 137/2013.

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Europea”. A meno che non si operi una riforma dei Trattati che incida sui rinvii costituzionali o una

riforma costituzionale i limiti continueranno a condizionare le politiche pubbliche interne.

D’altro lato, si afferma anche nel paragrafo 18 del Preambolo del “Pilastro europeo dei diritti sociali”

che “a livello dell’Unione, il pilastro europeo dei diritti sociali non comporta un ampliamento delle

competenze e dei compiti dell’Unione conferiti dai Trattati e dovrebbe essere attuato entro i limiti di

tali poteri”14. In questo modo “il pilastro europeo dei diritti sociali dovrebbe essere attuato a livello

dell’Unione e degli Stati membri nell’ambito delle rispettive competenze, tenendo conto dei diversi

contesti socioeconomici e della diversità dei sistemi nazionali, compreso il ruolo delle parti sociali, e nel

rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità” (paragrafo 17 del Preambolo). Il problema è che

l’Unione ha alcune competenze molto limitate dal punto di vista delle politiche sociali e del lavoro, in

virtù del quale si verifica una situazione paradossale: se gli Stati vogliono implementare queste misure,

avranno limiti costituzionali che rinviano in ultima istanza all’UE e all’equilibrio di bilancio che è stato

stabilito attraverso il Fiscal Compact. Tuttavia, d’altro lato, se la UE intende introdurre queste misure

avrà limiti di competenza che renderanno difficile l’effettività di molte di queste.

In definitiva, l’UE avrà difficoltà ad applicare queste misure per la limitazione delle sue competenze e

gli Stati, che se hanno competenze, avranno difficoltà per farlo perché saranno sottoposte a limiti

economici, di natura contabile, che ha stabilito precedentemente la stessa UE. In ultima istanza

potrebbe dirsi che, fino ad un certo punto, gli Stati hanno le competenze per adottare queste misure ma

non hanno gli strumenti economici necessari a causa delle limitazioni di bilancio stabilite dall’Europa.

Da parte sua, l’UE potrà avere gli strumenti economici (con una configurazione distinta dal vincolo

europeo15) ma non ha le competenze. Questo spiega anche che si affermi espressamente che “il pilastro

europeo dei diritti sociali non impedisce agli Stati membri o alle parti sociali sociali di stabilire norme

sociali più ambiziose”16.

14 Cfr. “Pilastro europeo dei diritti sociali”, paragrafo 18 del Preambolo: https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/social-summit-european-pillar-social-rights-booklet_it.pdf. 15 Come si ammette nel “Documento di riflessione sulla dimensione sociale dell’Europa”, Bruxelles, 26 aprile 2017, p. 25: “sebbene una quota rilevante del bilancio dell’UE venga utilizzata per sostenere l’innovazione sociale e i progetti sociali negli Stati membri e per lottare contro la povertà, va osservato che il bilancio sociale dell’UE rappresenta solo lo 0,3 % del totale della spesa pubblica sociale complessiva nell’UE. Anche se in futuro questa quota potrebbe essere rivista, non vi è alcun dubbio sul fatto che il sostegno sociale è e rimarrà prevalentemente di competenza degli Stati membri”. https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/reflection-paper-social-dimension-europe_it.pdf. 16 “Pilastro europeo dei diritti sociali”, paragrafo 16 del Preambolo, che continua affermando, in linea con quanto stabilito nell’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “In particolare, nessuna disposizione del pilastro europeo dei diritti sociali deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti e dei principi riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, comprese la Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e le convenzioni e le raccomandazioni pertinenti dell’Organizzazione

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3. La portata del pilastro sociale e il recupero del patrimonio costituzionale europeo.

Se la crisi economica ha dato luogo alla configurazione di un quadro del bilancio statale che renderà

difficile l’implementazione del Pilastro sociale europeo, non costituirà nemmeno un ostacolo minore la

scomposizione che la crisi finanziaria e le politiche di austerità hanno generato nei sistemi politici

nazionali. In realtà, il contesto generale nel quale bisogna collocare il Pilastro sociale europeo si può

caratterizzare per la precedente esistenza di due grandi crisi che hanno colpito le strutture fondamentali

delle costituzioni nazionali. Da un lato, la crisi finanziaria che ha generato una involuzione democratica

esterna allo Stato mediante l’imposizione di politiche che non potevano essere discusse né negoziate

con i meccanismi propri della democrazia pluralista interna. Successivamente, è stata prodotta

un’involuzione democratica interna al sistema politico statale, derivata dalla destrutturazione

progressiva dello spazio pubblico, non solamente come conseguenza della crisi economica, ma anche a

causa della configurazione specifica della comunicazione politica negli ultimi anni, con lo sviluppo delle

reti sociali17.

Infine, queste due crisi hanno propiziato l’indebolimento delle fondamenta sulle quali si costruì il

costituzionalismo delle costituzioni normative: democrazia pluralista, Stato sociale e normatività della

Costituzione. Da un lato, la crisi economica ha evidenziato la fragilità dello Stato e le limitazioni esterne

al dibattito politico interno e alla promozione di accordi. D’altro lato, sul piano della comunicazione

politica è stata propiziata una frammentazione progressiva dello spazio pubblico con il declino degli

attori politici tradizionali e la crescente difficoltà a raggiungere accordi di governo e consensi

costituzionali, a causa delle condizioni strutturali dello spazio pubblico determinate dalle reti sociali. Nel

caso della Spagna questa tendenza è particolarmente evidente. Siamo davanti una situazione molto

delicata che tende a complicarsi ogni volta di più e nella quale (come abbiamo potuto vedere con la

Brexit e con le elezioni presidenziali nordamericane) il malessere sociale generato dalla crisi economica

è alimentato dalle condizioni di una comunicazione politica veicolata attraverso grandi agenti globali

che monopolizzano le piattaforme di Internet e che hanno uno specifico interesse generando instabilità

per catturare l’attenzione del pubblico e aumentare così le loro entrate pubblicitarie18.

Cosa può fare in questo contesto il pilastro sociale? Sebbene debba essere salutato con speranza e

contenga misure molto positive, il Pilastro sociale europeo non è la soluzione ai problemi che ha

attualmente l’Europa (intendendo per tale non solamente l’Unione europea ma anche gli Stati membri,

internazionale del lavoro”. https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/social-summit-european-pillar-social-rights-booklet_it.pdf. 17 Cfr. il mio lavoro Le grandi crisi del costituzionalismo dinanzi alla globalizzazione, di prossima pubblicazione in Nomos. 18 Cfr. a questo riguardo il mio lavoro Alcune lezioni dalla Brexitper il diritto costituzionale europeo. Referendum e social network versus democrazia pluralista, di prossima pubblicazione nel Liber Amicorum in onore di Silvio Gambino.

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in linea con l’approccio metodologico del Diritto costituzionale europeo19). Questi problemi si

collocano fuori dall’Unione europea, nel contesto globale e riguardano l’intervento di agenti globali che

agiscono sul piano economico e politico e che hanno provocato le due grandi crisi alle quali abbiamo

fatto riferimento prima. È possibile affrontarli solo con importanti progressi nell’integrazione europea

nella direzione di un Europa federale, democratica e sociale.

In ogni caso, il Pilastro sociale europeo è, naturalmente, un passaggio necessario20 nella direzione

adeguata che, tra le altre cose, può presupporre una spinta alla convergenza in materia di diritti del

lavoro e diritti sociali tra gli Stati membri. La volontà di metterlo in pratica per quanto possibile sembra

chiara e, di fatto, già si sta incorporando nella valutazione che la UE fa della situazione economica e

sociale degli Stati. L’esame dei progressi delle priorità economiche e sociali degli Stati membri, che è

stato realizzato nel “Pacchetto di inverno del Semestre europeo”, afferma che “per la prima volta le

relazioni per paese si concentreranno in particolare sull’integrazione delle priorità del pilastro europeo

dei diritti sociali, proclamato nel novembre 2017. Quest’anno viene prestata un’attenzione particolare

all’analisi delle sfide in materia di competenze e alle modalità di funzionamento delle reti di sicurezza

sociale su scala nazionale. I dati del quadro di valutazione della situazione sociale sono usati anche per

monitorare i risultati conseguiti in sociale sociale e occupazionale”. È lungo il cammino da percorrere,

ovviamente, e questo si riconosce espressamente: “la dimensione sociale del Semestre Europeo è stata

ulteriormente arricchita quest’anno grazie all’integrazione delle priorità del pilastro europeo dei diritti

sociali. Le relazioni per paese si avvalgono anche dei dati raccolti tramite il quadro di valutazione della

situazione sociale per monitorare i risultati conseguiti in ambito sociale e occupazionale. Le situazioni e

le priorità variano naturalmente e l’analisi tiene conto di questa diversità. Gli ambiti che destano

particolare preoccupazione in alcuni Stati membri comprendono l’offerta di competenze adeguate, il

persistente squilibrio occupazionale tra i generi, l’elevata segmentazione del mercato del lavoro e i

lavoratori esposti al rischio di povertà, lo scarso impatto dei trasferimenti sociali sulla riduzione della

povertà, la stagnazione della crescita salariale e il dialogo sociale inefficace”21.

Gli aspetti positivi del Pilastro sociale europeo non impediscono che possa essere apprezzato, nel suo

progetto e ambizione, un approccio funzionalista, molto in linea con la cultura politica delle istituzioni

19 Cfr., a questo riguardo, il mio lavoro Profili metodologici del Diritto Costituzionale europeo, in La cittadinanza europea, Anno XII, n. 1/2015, pp. 39-62. 20 Con le parole di Zane Rasnaca, “the EPSR could serve as the first step and the first trigger towards changing the current paradigm in Social Europe; however, for now it is still too early to say whether it will take a shape

that can fulfil this promise”, —Z. RASNACA, op. cit, p. 38: https://www.etui.org/Publications2/Working-Papers/Bridging-the-gaps-or-falling-short-The-European-Pillar-of-Social-Rights-and-what-it-can-bring-to-EU-level-policymaking. 21 “Pacchetto di inverno del Semestre Europeo: esame dell’andamento delle priorità economiche e sociali degli Stati membri”, Bruxelles, 7 marzo 2018: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-1341_it.pdf.

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europee. Questo approccio non deve essere valutato come qualcosa di necessariamente negativo per

quanto non sia incompatibile con la realizzazione di progressi significativi in materia di lavoro e in

materia sociale. Tuttavia, allo stesso tempo, non si può fare a meno di sottolineare che manca in queste

misure una coscienza chiara di quello che il principio sociale implica nel patrimonio costituzionale

europeo come progetto di emancipazione e come patto costituzionale che articola e convoglia la

tensione sociale22. Secondo questa prospettiva, al Pilastro sociale, tale e come è progettato gli manca

l’anima che dovrebbe battere dietro la sua concezione: l’anima del costituzionalismo. Risulta discutibile,

secondo questa prospettiva, che la dimensione sociale possa svincolarsi da quella democratica e

costituzionale. Pertanto, la soluzione non è solamente un riorientamento sociale dell’UE che continua

con l’attuale modello di integrazione. La soluzione consiste nel cambiare un modello di integrazione e

costruire un’Europa pienamente democratica e sociale.

Bisogna farsi carico della necessità di recuperare i diritti sociali secondo lo spirito del costituzionalismo

invece di proporre misure sociali che si muovono all’interno di una prospettiva funzionale, che

appaiono svincolate dal progetto emancipatorio che rappresenta il costituzionalismo e che si riflette

negli stessi testi fondamentali dell’Unione europea, specialmente nella Carta dei diritti fondamentali

dell’Unione europea. Una Carta nei confronti della quale le istituzioni europee non hanno ancora

accettato completamente la sua dimensione normativa e che continua ad essere applicata con

diffidenza, provando a collegarla sempre al piano delle competenze specifiche dell’Unione europea,

come si può notare nello stesso Pilastro sociale europeo, come se la garanzia dei diritti non fosse una

responsabilità delle istituzioni europee per se stessa23.

Cosa significa recuperare i diritti sociali secondo lo spirito del costituzionalismo? Innanzitutto,

comprendere che il costituzionalismo non può essere assunto parzialmente nella costruzione di progetti

politici ma deve essere assunto nella sua condizione di “sistema” nel quale la dimensione sociale, quella

democratica e quella normativa che sono incorporati nel principio dello Stato sociale e democratico di

Diritto non possono realizzarsi isolatamente ciascuno separatamente. Risulta necessario, pertanto,

costruire la democrazia pluralista a livello europeo perché la dimensione sociale dell’Europa abbia un

significato culturale secondo il punto di vista del patrimonio costituzionale europeo e non sia solamente

un congiunto di misure disarticolate.

22 Cfr. il mio lavoro La dimensione costituzionale dello Stato sociale di Diritto, in A. MARIA NICO (a cura di), Studi in onore di Francesco Gabriele, Cacucci Editore, Bari, 2016, pp. 1-22. Cfr. anche T.N. POLI, I diritti sociali nella prospettiva multilivello, Tesis Doctoral, Universidad de Granada/Università degli Studi di Bari Aldo Moro, en: https://hera.ugr.es/tesisugr/2146604x.pdf. 23 Una trappola nella quale si è caduti a partire dalle dichiarazioni relative alla circostanza che la Carta non implica nuove competenze per l’UE, ripetute come un mantra nel Trattato di Lisbona e nella medesima Carta. Cfr. a questo riguardo il mio lavoro Il Trattato di Lisbona sul lettino dell'analista. Riflessioni su statualita e dimensione costituzionale dell'unione europea, in Quaderni della Rassegna di Diritto Pubblico Europeo, n. 5/2009, pp. 13-52.

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È necessario anche recuperare le funzioni del diritto costituzionale tanto a livello europeo come a

livello interno agli Stati (tutela dei diritti, controllo del potere, risoluzione dei conflitti sociali e politici

fondamentali). Tra queste, risulta particolarmente importante l’articolazione di consensi costituzionali e

sociali a livello europeo per ristabilire l’equilibrio tra lo sviluppo economico e i diritti sociali. Tutto

questo sarà possibile sempre che l’Europa si rafforzi non solo economicamente ma anche

culturalmente, assumendo i valori che fino ad ora hanno configurato il patrimonio costituzionale

europeo.

Conclusioni.

L’iniziativa del Pilastro sociale europeo tenta di contrastare la tremenda erosione del progetto di

integrazione e sedare in qualche misura le tensioni interne all’interno degli Stati membri, cercando di

facilitare un orientamento diverso delle politiche sociali che renda possibile una certa ripresa del clima

sociale precedente alla crisi. Secondo il punto di vista del patrimonio costituzionale europeo non smette

di sorprendere che si proclamino diritti o facoltà che erano già presenti da molti anni nei sistemi

costituzionali degli Stati membri o, più recentemente, nel diritto dell’Unione. Tuttavia, d’altro lato, se

teniamo conto della portata dell’involuzione democratica che abbiamo vissuto da quando è iniziata la

crisi economica, questa reiterazione di diritti e facoltà e le misure concrete che si accompagnano

implicano un cambio di orientamento che, anche se incipiente, deve essere valutato positivamente.

Deve essere evidenziata anche la spinta alla convergenza in materia di diritti dei lavoratori e diritti

sociali che il Pilastro sociale può presupporre. La liberazione di questa materia dalle condizioni del

mercato non è reale perché incide anche sull’ambito economico e dovrebbe essere oggetto di

un’attuazione a livello europeo che favorirebbe una progressiva dimensione sociale del progetto di

integrazione. Secondo questa prospettiva, il Pilastro sociale merita anche una valutazione positiva

perché è in linea con il rafforzamento del progetto europeo nella direzione adeguata. Il punto debole

del Pilastro sociale sta nella circostanza che si intende mettere in pratica questo senza modificare le

politiche economiche, conservando l’idea di austerità e chiarendo che l’istituzione del pilastro europeo

dei diritti sociali non deve incidere “sensibilmente” sull’equilibrio finanziario degli Stati. Questa

coesistenza tra le politiche di austerità e i diritti del lavoro e i diritti sociali risulta complicata.

Certamente, la crescita economica può favorire l’implementazione di parte del programma sociale senza

rinunciare alle limitazioni di bilancio. Tuttavia questo richiederebbe ugualmente una politica fiscale

diversa da quella che si sta mettendo in pratica in alcuni paesi, che tende a ridurre la pressione fiscale e

che non fa lo sforzo necessario per combattere l’evasione fiscale.

In definitiva, il Pilastro sociale, come proposta di nuovo orientamento sociale dell’Unione europea,

deve valutarsi positivamente, ma non si può fare a meno di sottolineare che, con la crisi economica,

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l’evoluzione delle politiche europee ha evidenziato le regole del gioco, obbligando anche alle riforme

costituzionali che condizionano in grande misura la spesa sociale e l’effettività dei diritti sociali

precedentemente riconosciuti nelle costituzioni nazionali. L’interpretazione economica della

Costituzione alla base di queste politiche è già molto radicata e non sembra che cambierà

sostanzialmente con il Pilastro sociale. Lo squilibrio nella Costituzione economica che è stato generato

con la crisi non si ristabilirà con il Pilastro sociale. Manca ancora nelle autorità europee la

consapevolezza della circostanza che c’è una tensione inevitabile tra l’economia di mercato e i diritti

sociali, che è stata aggravata con il processo di globalizzazione e che deve risolversi per il tramite di

tecniche costituzionali.

La direzione per risolvere questa tensione e cercare un nuovo equilibrio costituzionale, che non è più

praticabile a livello nazionale, consiste nel recupero dei diritti sociali secondo lo spirito del

costituzionalismo. Per questo, bisogna comprendere che il costituzionalismo non può essere assunto

parzialmente nella costruzione di progetti politici, ma nella sua condizione di “sistema”, nel quale la

dimensione sociale, quella democratica e quella normativa che sono incorporati nel principio dello Stato

sociale e democratico di Diritto, non possono realizzarsi separatamente ciascuno senza gli altri. Risulta

necessario, pertanto, costruire la democrazia pluralista a livello europeo perché la dimensione sociale

abbia un significato culturale secondo il punto di vista del patrimonio costituzionale europeo e non sia

solamente un insieme di misure disarticolate. È necessario proseguire nel processo di integrazione

europea e aumentare simultaneamente la sua densità costituzionale, fino a realizzare il principio dello

Stato sociale a livello europeo. Solamente un’Europa unita potrà avere gli strumenti necessari per

recuperare i diritti colpiti dalla globalizzazione. Non possiamo dimenticare che dietro il principio dello

Stato sociale pulsa un progetto di emancipazione umana che formava parte del patrimonio

costituzionale europeo e che l’Europa dovrà recuperare per il futuro.

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La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?

di Anna Papa

Sommario: 1. Il diritto alla salute tra soggettività e comunità. 2. L’evoluzione del contenuto del bene salute e l’art. 32 della Costituzione italiana. 3. Salute, dimensione territoriale della “sanità” e costo della tutela. 4. La dimensione internazionale europea del diritto alla salute tra CEDU e Carta sociale europea. 5. La tutela della salute nell’Unione europea e l’adozione del Pilastro sociale europeo. 6. Considerazioni conclusive.

1. Il diritto alla salute tra soggettività e comunità

Il tema della tutela della salute nello spazio europeo, anche alla luce della recente adozione del “Pilastro

europeo dei diritti sociali”1, richiede di analizzare non solo la complessa definizione della nozione di

salute - e la necessità di separare la stessa da quella, organizzativa, di sanità - ma anche, e per certi

aspetti soprattutto, l’esigenza di indagare in che misura la protezione di questo diritto, sul piano delle

politiche, possa essere meglio garantita in una dimensione multilivello.

Il punto di partenza, dal quale questa riflessione prende avvio, è rappresentato dalla condivisa

considerazione che questo diritto, essendo intimamente legato al bene della vita, venga inteso da ogni

individuo in modo fortemente soggettivo e personalizzato, sia sul versante della percezione del proprio

benessere psico-fisico, sia relativamente agli interventi necessari per garantirlo2. Ciò comporta che

1 I diritti sociali previsti dal Pilastro sono articolati in tre grandi obiettivi: assicurare eguaglianza e opportunità nelle possibilità di accesso ai mercati del lavoro, garantire condizioni di lavoro eque ai lavoratori, quindi anche in termini salariali, e infine assicurare dei sistemi di protezione sociale sostenibili. Il diritto che qui rileva è inserito nel capitolo terzo che definisce le caratteristiche che dovrebbero presentare i sistemi di protezione sociale. Nell’inclusione sociale figura tra i primi principi quello della cura dei bambini e del loro sostegno che ha prodotto una importante azione di coordinamento a livello europeo. Nello stesso capitolo sono inseriti anche i sussidi alla disoccupazione e il reddito minimo, ai quali si affiancano il diritto alle pensioni di vecchiaia, il diritto alla salute, l’inclusione dei disabili, il diritto all’abitazione e la capacità di provvedere alle cure a lungo termine verso una società che invecchia progressivamente. Per un inquadramento sistematico del Pilastro e del suo ruolo nel futuro delle politiche dell’Unione cfr. P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in questo numero, la quale sottolinea come dall’introduzione del Pilastro ci si aspetti la conferma che “non è più e non solo il mercato il vero core business del processo di integrazione europea ma che finalmente sono le persone ed i loro diritti all’attenzione dei vertici dell’Unione”. Sul tema generale della tutela multilivello dei diritti cfr. P. BILANCIA - E. DE MARCO, La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004. 2 Come viene sottolineato, il diritto alla salute, almeno per l’accezione che appartiene a una nozione scientifica comune è un diritto personalissimo, del quale solo il titolare può realmente disporre, nei limiti sui quali ci si soffermerà nel testo. Cfr., tra gli altri, C. FLORIO, Libertà personale e diritto alla salute, Padova, 2002; A. GRECO, Il nocciolo duro del diritto alla salute, in La responsabilità civile, 2007, p. 299; V. DURANTE, La salute come diritto della

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l’individuo si aspetti che, senza differenziazioni, venga realizzato lo sforzo massimo – non solo in

termini terapeutici ma anche di prestazioni da parte del soggetto pubblico – qualora il proprio stato di

benessere sia stato compromesso. Ne consegue che, essendo così alta l’aspettativa e pur posta come

data la fiducia nella scienza medica3, inevitabilmente, almeno di regola, le cure ricevute in caso di

bisogno non sono percepite dal singolo come in grado di dare certezza del sicuro soddisfacimento delle

sue richieste e, dunque, del ristoro delle condizioni psicofisiche ottimali perché troppe sono le variabili,

soggettive e oggettive, che concorrono4.

Partendo da questo dato individuale e soggettivo, appare vieppiù evidente che nel processo di

definizione di un piano generale – e quindi politico – di tutela della salute, nel quale occorre operare

delle scelte che, a loro volta, sono influenzate dalla scienza medica, da posizioni etiche e, non da ultimo,

dalla volontà/necessità di ricondurre gli interventi in materia nei limiti di un budget pubblico

“determinato” 5, il perseguimento del soddisfacimento di tutte le esigenze manifestate è non solo

irrealizzabile ma neppure prospettabile6.

persona, in S. CANESTRARI, G. FERRANDO, C.M. MAZZONI, S. RODOTÀ, P. ZATTI (a cura di), Il governo del corpo, Milano, 2011. 3 Le profonde trasformazioni intervenute nella scienza medica, con l’accentuarsi della specializzazione e del tecnicismo, non debbono distogliere dalla relazione fondamentale, ossia dal rapporto medico-paziente, nel quale quest’ultimo rimane attore principale della gestione della propria salute e il primo è chiamato ad aiutarlo sulla base delle proprie conoscenze e competenze. Si tratta, come da più parti analizzato, di una relazione complessa, in continua evoluzione, nella quale resta centrale in ogni caso la necessità del rispetto dei soggetti coinvolti, primo fra tutti del paziente che evidenzia sempre più spesso l’istanza di essere considerato nella sua globalità, nella sua visione d’insieme, nel recupero di una dimensione olistica che la medicina attuale sovente trascura. Cfr., su questi temi, tra gli altri, S. MAFFETTONE, Come ripensare la medicina per essere più felici, in Quaderni di bioetica, San Martino di Sassina, 1996; L. CHIEFFI, I paradossi della medicina contemporanea, in L. CHIEFFI (a cura di), Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico, giuridico ed economico, Torino, 2003, pp. 9 ss.; E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, Milano, 2007. 4 Già Aristotele, nella Retorica (Τέχνη ῥητορική), sottolineava che “compito della medicina non è il produrre la salute, bensì solamente il favorirla al massimo grado”, dovendo tener conto dei mutevoli bisogni da soddisfare dei soggetti delle prestazioni, che mutano in relazione alle condizioni sociali ed economiche di questi ultimi, oltre che di fattori “endogeni” agli stessi, quali l’età o la storia clinica pregressa. Anche per questo il diritto alla salute viene oggi definito come una fattispecie a “geometria variabile” (così C. BOTTARI, Tutela della salute e organizzazione sanitaria, Torino, 2009, p. 34), dove assume rilevanza anche l’angolo prospettico con il quale lo si prende in considerazione. Ciò comporta che il modello di Stato nel quale questo diritto viene tutelato influenza non solo le modalità ma anche il contenuto dello stesso, elemento questo di particolare rilevanza nella prospettiva di una reale dimensione multilivello. Su questi temi cfr., seppure con riferimento al solo stato sociale, cfr., tra gli altri, C. COLAPIETRO, La giurisprudenza costituzionale nella crisi dello Stato sociale, Padova, 1996; M. LUCIANI, Diritti sociali e diritti di libertà nella tradizione del costituzionalismo, in R. ROMBOLI (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, 1994, pp. 90 ss.; S. GAMBINO, Assistenza sociale e tutela della salute. Verso un nuovo Welfare regionale-locale, Roma, 2004; P. GRIMAUDO, Lo Stato sociale e la tutela dei diritti quesiti alla luce della crisi economica globale: il caso italiano, in www.federalismi.it, 2013, p. 22. 5 Come è stato sottolineato, il sistema sanitario si presenta come un “perenne cantiere caratterizzato da costante e caotico movimento” (R. FERRARA, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007, p. 6). Infatti, in presenza di un diritto che si evolve continuamente, anche le politiche in materia sono chiamate ad un incessante divenire determinato dal progresso scientifico, dai mutamenti sociali e dal bilanciamento con altri diritti e interessi. A titolo esemplificativo, può ricordarsi che di recente (D.P.C.M. 12 gennaio 2017, n. 15) è stato deciso dal Ministero della

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Questo aspetto, inoltre, si accentua in presenza di una strutturazione territoriale e multilivello della

tutela, nella quale anche l’elemento del decentramento va ad incidere sulla valutazione della qualità del

rapporto tra tutela della salute e rispetto del principio di uguaglianza.

2. L’evoluzione del contenuto del bene “salute” e l’art. 32 della Costituzione italiana

La Costituzione italiana è stata tra le prime Carte democratiche del XX secolo a inserire esplicitamente

la tutela della salute nel novero dei diritti inviolabili7. Anzi, sebbene non sia possibile ricavare dai lavori

salute l’inserimento del ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa tra i livelli essenziali delle prestazioni (LEA), in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, che ha previsto la reintroduzione in Italia della possibilità di praticare e di sottoporsi a questa tecnica di fecondazione. Prima di questo inserimento, in sede di Conferenza Stato-Regioni si era comunque stabilito di assoggettare tale prestazione al pagamento di un ticket, il cui importo doveva essere determinato da ciascuna regione nell’ambito di un range predeterminato in sede di Conferenza. Ciò non ha tuttavia evitato il contenzioso amministrativo, prodotto dalla decisione della Regione Lombardia di far gravare l’intero costo della prestazione sugli interessati. La giustizia amministrativa, dapprima Tar Lombardia e successivamente Consiglio di Stato, hanno censurato tale decisione, ricollegandola proprio all’impossibilità, nel bilanciamento tra risorse finanziarie e bisogni sanitari, di escludere dal finanziamento pubblico alcune prestazioni inserite nei LEA. Come si legge nella sentenza del Consiglio di Stato 20 luglio 2016, n. 3297, “pur dovendo considerare la scarsezza dei mezzi e la limitatezza delle risorse di cui dispone, infatti, l’amministrazione non può ignorare una domanda di prestazione sanitaria che si faccia portatrice di interessi sostanziali parimenti bisognosi di risposta, perché verrebbe meno, altrimenti, al fondamentale compito che compete in uno stato sociale di diritto, quello di garantire i livelli essenziali di assistenza o, comunque, l’effettività di un diritto complesso - e così essenzialmente interrelato all’organizzazione sanitaria - come quello alla salute nel suo nucleo irriducibile, pur in un quadro di risorse finanziarie limitate”. Da qui, secondo i giudici, la considerazione che le esigenze finanziarie non possono “giustificare la mancanza di adeguate ragioni selettive, che pongano un ragionevole punto di discrimine nell’accesso alle prestazioni sanitarie di soggetti aventi diritto”. 6 La scelta di ricondurre gli interventi in materia di tutela della salute nell’ambito di un budget determinato rappresenta oggi un dato acquisito ma, almeno sul piano teorico, in passato è stata invece immaginata la possibilità di definire preventivamente le prestazioni da erogare, ponendo come finalità il massimo soddisfacimento delle esigenze in materia, e poi di individuare i mezzi per farvi fronte. Tale tentativo, teorizzato in Italia negli anni ‘70, che aveva portato a quello che è stato definito un “libro dei sogni”, si proponeva di valorizzare l’elemento soggettivo di tale diritto, ipotizzando di poter destinare ad esso risorse non preventivamente determinate. La realtà attuale richiede invece di applicare modelli diversi, primo tra tutti quello dell’universalismo selettivo, definendo a priori le regole per la distribuzione delle risorse in modo da consentirne un impiego ottimale, almeno in termini di bilanciamento. Sul punto cfr. L. CHIEFFI, I paradossi della medicina contemporanea, cit., p. 16. 7 Tra gli Stati europei, prima della fine della seconda guerra mondiale solo il Regio Unito aveva, nel 1942, grazie al c.d. Rapporto Beveridge, introdotto un primo sistema di assistenza sanitaria pubblica. La Costituzione francese del 1946, nel Preambolo, includeva tra i compiti dello Stato – senza tuttavia esplicare ulteriormente il concetto – la tutela della salute del singolo. Nulla è previsto invece nella Grundgesetz tedesca del 1949, né nella Costituzione francese del 1958. Questo aspetto – correlato al fatto che solo con le costituzioni post dittatoriali della Spagna, del Portogallo e della Grecia, approvate tutte a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, il diritto alla salute ha trovato esplicito riconoscimento e tutela – rende ancora più significativa la scelta del costituente italiano non solo di introdurre questo diritto nel catalogo costituzionale ma anche di inserirlo nell’ambito dei Rapporti etico-sociali e di qualificarlo come fondamentale. Su questi aspetti, senza pretesa di completezza cfr. S. LESSONA, La tutela della salute pubblica, in P. CALAMANDREI - A. LEVI, Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, pp. 336 ss.; C. MORTATI, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. infortuni e malattie professionali, 1961, I, ora in Raccolta di scritti, Milano, 1972, pp. 433 ss.; M. BESSONE - E. ROPPO, Diritto soggettivo alla salute, applicabilità diretta dell’art. 32 Cost. ed evoluzione della giurisprudenza, in Politica del diritto, 1974; M. BESSONE - S. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione, in Diritto e società, 1979; M. LUCIANI, Il diritto

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parlamentari un particolare dibattito su questo aspetto, il dettato finale dell’art. 32 giunge a qualificare,

unica tra le situazioni giuridiche soggettive espressamente indicate nella prima parte della Carta, questo

diritto come “fondamentale”8.

Tale scelta può certamente essere ricondotta alla volontà di sottolineare e soddisfare la naturale

correlazione che intercorre tra la salute e il bene della vita, essendo la prima necessaria a garantire la

seconda; ma certamente ha influito sul Costituente anche l’idea democratica secondo la quale il

benessere di ogni individuo rappresenta la misura di quello dell’intero corpo sociale di appartenenza. In

questa ottica, quindi, la tutela del diritto fondamentale alla salute è finalizzata non solo a tutelare il

benessere del singolo ma anche a misurare quello di tutta la società9 e questa dimensione si rinviene

pienamente anche nella definizione di salute, che rappresenta ancora oggi il punto di riferimento

definitorio in materia10 - anche per la correlazione che essa pone tra l’individuo e l’ambiente in cui vive,

lavora o trascorre il suo tempo libero11 - fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 1948,

costituzionale alla salute, in Diritto e società, 1980, p. 769 ss.; G. CORSO, I diritti sociali nella costituzione italiana, in Rivista trimestrale diritto pubblico, 1981, pp. 768 ss.; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Diritto e società, 1983, I, 21 ss.; B. CARAVITA, La disciplina costituzionale della salute, in Diritto e società, 1984; A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enc. giur. Treccani, 1989, XI, pp. 38 ss.; C. BOTTARI, Principi costituzionali e assistenza sanitaria, Milano, 1991; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992; F. MODUGNO, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1995, pp. 40 ss.; A. GIORGIS, La costituzionalizzazione dei diritti all’eguaglianza sociale, Napoli, 1999; D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana, Milano, 2002; R. BALDUZZI - G. DI GASPARE, Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, Milano, 2002; L. CHIEFFI (a cura di), Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico, giuridico ed economico, cit.; A. CATELANI, La sanità pubblica, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G.Santaniello, Padova, 2010; E. CATELANI - G. CERRINA FERONI - M.C. GRISOLIA (a cura di), Diritto alla salute tra uniformità e differenziazione, Torino, 2011; F. ROVERSI MONACO - C. BOTTARI, La tutela della salute tra garanzie degli utenti ed esigenze di bilancio, Rimini, 2012. 8 L’emendamento con il quale si propose la qualificazione come fondamentale del diritto alla salute fu motivano nella riunione del 4 aprile 1947. Sul punto cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma, 1970, p. 1215. 9 B. PEZZINI, Diritto alla salute e diritto all’assistenza tra tensione all’uniformità e logiche della differenziazione, in R. BALDUZZI - G. DI GASPARE (a cura di), Sanità e assistenza dopo la riforma del Titolo V, Roma 2003. 10 Questa definizione ha certamente contribuito alla diffusione di una nozione ampia, oggi sostanzialmente condivisa in tutti gli ambiti, in base alla quale la “salute” non coincide con la mera assenza di malattie, ma si riferisce, piuttosto, allo stato di benessere fisico e psichico dell’individuo. In una successiva Conferenza dell’OMS (Ottawa, 21 Novembre 1986) è stata poi adottata una “Carta sulla promozione della salute”, che fornisce una definizione più elaborata di promozione della salute: “La promozione della salute è il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e migliorarlo. Questo modo di procedere deriva da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo o un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie ambizioni e soddisfare i propri bisogni e dall’altro, evolversi con l’ambiente o adattarsi a questo. La salute è dunque percepita come risorsa della vita quotidiana e non come il fine della vita: è un concetto positivo che mette in valore le risorse sociali e individuali, come le capacità fisiche. Così, la promozione della salute non è legata soltanto al settore sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere”. 11 Su tale rapporto cfr. M. LUCIANI, Diritto alla salute (dir. cost.), in Enc. Giur Treccani, XI, Roma 1989, pp. 6 e ss. L’obbligo di garantire che il sistema sanitario sia in grado di rispondere in modo adeguato (tenuto conto delle conoscenze esistenti) ai rischi sanitari evitabili rappresenta un punto di analisi annuale da parte del Comitato dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, sul quale ci si soffermerà infra, che lo riferisce anche ai rischi derivanti dalle “minacce ambientali”. In questo senso, l’Articolo 11 della Carta sociale europea, nel comprendere il diritto ad un ambiente sano come componente della protezione della salute, obbliga gli Stati all’adozione delle misure

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secondo la quale “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in

un’assenza di malattia o di infermità”,

La nozione di salute, che emerge dal testo dell’art. 32 Cost., si presenta quindi prismatica, in quanto, pur

valorizzando la prospettiva soggettiva della sua tutela (in una dimensione di “libertà di”), affianca ad

essa altre situazioni giuridiche soggettive che la qualificano in senso democratico, richiamando i principi

di uguaglianza e solidarietà. In un testo stringato sono così previste ben quattro situazioni giuridiche

soggettive (un diritto di libertà individuale, un interesse della collettività e due diversi diritti sociali).

La prima include, almeno per coloro che hanno la capacità di agire, non soltanto il diritto di scegliere la

struttura, il medico e la cura, ma anche – al pari di tutti i diritti di libertà – di non curarsi o di ammalarsi,

con il conseguente riflesso dovere di astensione dall’intervenire che grava su tutti al fine di consentire al

singolo di autodeterminarsi12. Il godimento di tale diritto di libertà, nella sua accezione negativa di

diritto di non curarsi13, può essere limitato soltanto nell’interesse alla salute dell’intera comunità, dando

così sostanza alla seconda situazione giuridica soggettiva contemplata dalla disposizione costituzionale,

il dovere di “non ammalare”, del quale spetta alla legge determinare il contenuto, essendo solo ad essa

affidato, nel rispetto della persona umana, il bilanciamento ragionevole degli interessi nella

necessarie per prevenire malattie epidemiche, endemiche o di altro genere. Nell’ambito di quest’obbligo si è dunque fatta rientrare l’adozione di misure atte ad evitare o ridurre i rischi legati all’amianto (nel 2013 situazioni di non conformità su questo aspetto sono state rilevate, ad es., in Irlanda e Azerbaijan), quelli legati alla radioattività per le comunità viventi nelle vicinanze di centrali nucleari, i c.d. rischi alimentari Molto importante è poi, per comprendere la natura e le caratteristiche dell’obbligo degli Stati di prevenire i rischi per la salute, l’aspetto dei rischi derivanti dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua, sui quali i rapporti del Comitato sono particolarmente attenti. 12 L’esigenza di rispettare il diritto del singolo (capace di agire) di essere attore principale della propria salute e del proprio benessere rappresenta un principio fondamentale della scienza medica, sul quale il legislatore è chiamato ad intervenire in una prospettiva di garanzia e non di decisione surrogatoria, almeno nella misura in cui l’autodeterminazione sanitaria non sia suscettibile di produrre lesioni all’altrui diritto alla salute. In questa prospettiva va letta la sentenza n. 180 del 2017 della Corte costituzionale che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) ha chiarito che tale disposizione, in base alla quale che «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», va interpretata, come peraltro emerge dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, nel senso della non obbligatorietà, al fine della richiesta della rettificazione del sesso, dell’intervento chirurgico rappresentando quest’ultimo “solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali. […] Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica. La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente –, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. Per un’analisi di questa sentenza cfr. C.P. GUARINI, “Maschio e femmina li creò” …o, forse, no. La Corte costituzionale ancora sulla non necessità di intervento chirurgico per la rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso”, in Federalismi.it, 11 aprile 2018. 13 Cfr. A D'ALOIA, Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della “fine della vita”, in Politica del diritto, 1998.

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determinazione dei trattamenti sanitari obbligatori. Al riguardo può sottolinearsi che mentre appare non

controverso l’obbligo di sottoporsi a trattamenti sanitari obbligatori in presenza di una malattia infettiva

già contratta, al fine di evitare il propagarsi della stessa, maggiormente dibattuta si presenta l’ipotesi di

trattamenti preventivi, come i vaccini, volti ad evitare non solo che il singolo si ammali ma anche che,

ammalandosi, possa produrre danni a soggetti che non possono vaccinarsi14.

L’art. 32 Cost. contiene, poi ma non da ultimo, il riconoscimento di due distinti diritti sociali: a ricevere

le prestazioni sanitarie, la cui titolarità spetta a tutti, e quello di poterne fruire in ogni caso in modo

gratuito, qualora indigenti, non importa se cittadini o stranieri15, indipendentemente da altre valutazioni

poste in essere sul punto16.

Il quadro complessivo si presenta quindi articolato, con riferimento non solo alle richiamate situazioni

giuridiche soggettive previste dalla disposizione costituzionale e ai destinatari (cittadini italiani, europei

ed extraeuropei) ma anche alla natura degli interventi che sono infatti finalizzati sia alla cura delle

malattie sia alla prevenzione della loro insorgenza e più in generale al perseguimento di uno stato di

benessere psicofisico complessivo17.

Volendo porre un primo punto può quindi dirsi che esiste una nozione di base del diritto alla salute che

può dirsi consolidata, che travalica i confini nazionali ed è rappresentata dalla cura delle malattie. Vi

14 Su questo delicato tema cfr., di recente, C. MAGNANI, I vaccini e la Corte costituzionale: la salute tra interesse della collettività e scienza nelle sentenze 268 del 2017 e 5 del 2018, in Forum di quaderni costituzionali, 12 aprile 2018. 15 Sul punto, cfr. B. CARAVITA DI TORITTO, La disciplina costituzionale della salute, cit., pp. 41 ss., il quale rileva, appunto, l’unanimità della dottrina sul punto, richiamandosi, tra gli altri, a M. CHERUBINI, Tutela della salute e c.d. atti di disposizione del proprio corpo, in F.D. BUSNELLI – U. BRECCIA (a cura di), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 81; F. SCUTO, I diritti fondamentali della persona quale limite al contrasto dell’immigrazione irregolare, Milano, 2012. 16 In Italia, il finanziamento del servizio sanitario nazionale è stato assicurato, in alcuni periodi, interamente dal soggetto pubblico (Stato, Stato e Regioni). Attualmente, la disciplina è dettata dal d. lgs. 29 marzo 2000, n. 56, che ha previsto un sistema di finanziamento basato sulla capacità fiscale regionale, anche se corretto da alcune misure perequative, nel quale tuttavia è prevista anche la contribuzione dei privati mediante il pagamento del ticket. In base a quando previsto dal decreto, la legge statale determina annualmente il fabbisogno sanitario nazionale standard, ossia il livello complessivo delle risorse del Servizio sanitario nazionale al cui finanziamento concorre lo Stato. Tale livello deve essere coerente, in particolare, con quanto necessario al soddisfacimento del fabbisogno derivante dalla determinazione dei livelli essenziali di assistenza. La prima fonte di finanziamento è data da entrate proprie del SSN (ticket e ricavi derivanti dall’attività in intramoenia dei dipendenti). Concorrono poi le regioni con l’IRAP e l’addizionale regionale all’IRPEF, coperte da un Fondo di garanzia. Il residuo da finanziare è coperto dal bilancio dello Stato, attraverso l’IVA e il Fondo sanitario nazionale. 17 La complessità del sistema di tutela della salute, prodotto della compresenza di diverse situazioni giuridiche, è accentuata anche dalla natura, preventiva o successiva, degli interventi di tutela e dalla pluralità di questi ultimi, in applicazione al modello, oggi diffusamente applicato, del cd. “empowerment”, in base al quale si mettono a disposizione le prestazioni ma si riconosce al singolo la capacità di operare le proprie scelte in materia. Al riguardo può dirsi infatti non più prevalente, anche se non definitivamente superata, l’impostazione meramente paternalistica, tipica del XIX e di parte del XX secolo, in base alla quale spetta al servizio sanitario nazionale tutelare il paziente, guidandolo non solo nella situazione di cura della malattia ma anche nella prevenzione. Per un approfondimento sul tema cfr., tra gli altri, cfr. A. BUCHANAN, Medical Paternalism, in Philosophy and Public Affairs, 7(4), 1978, pp. 370 ss.; E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, cit., pp. 284 ss.

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sono poi gli stadi della prevenzione e del perseguimento del “benessere” individuale che sono invece

rimessi all’elaborazione delle politiche pubbliche in materia anche per la connessione che essi sovente

presentano con i valori etici, culturali, talvolta anche religiosi di una comunità: si pensi ad esempio da

un lato alla lotta alla ludopatia o al tabagismo, dall’altro alla procreazione18.

3. Salute, dimensione territoriale della “sanità” e costo della tutela

La circostanza, per cui – prima dell’approvazione della Costituzione – in Italia la salute e la sua cura

venissero considerati delle scelte e degli interessi eminentemente privati, non ha impedito l’istituzione e

lo sviluppo di una organizzazione pubblica deputata a garantire una seppur minima assistenza medica,

anche come bilanciamento della presenza sul territorio delle diverse strutture private, per lo più

riconducibili alla Chiesa cattolica. Può quindi dirsi che in Italia, ma non solo, si sia sviluppata prima la

nozione di sanità e poi quella di salute19. I primi interventi politico-amministrativi risalgono al periodo

statutario ed identificavano la tutela della salute come materia di ordine pubblico e in quella direzione

strutturavano le relative azioni. Solo diversi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, al fine di

conciliare tutela della salute e organizzazione a ciò deputata, si è avuto, nel 1958, il trasferimento delle

competenze dal Ministero dell’interno e da altre amministrazioni al neo istituito Ministero della salute.

La centralità statale nella definizione e gestione della sanità ha rappresentato, come è noto, una breve

esperienza nel periodo repubblicano dal momento che già nel 1972 si è avuto il trasferimento delle

competenze amministrative in materia alle Regioni e nel 1978 è stato istituito il Servizio sanitario

nazionale (operativo dal 1 luglio 1980), considerato al momento della sua istituzione come un modello

innovativo di tutela della salute e che ancora resta tale sotto molteplici aspetti. Nella sua formulazione

originaria esso mirava, almeno nelle intenzioni, a contemperare due diverse esigenze: da un lato la

18 Anticipando quanto si avrà modo di sottolineare nel testo in merito all’azione del Comitato europeo dei diritti sociali, che opera in seno al Consiglio d’Europa, si vuole qui sottolineare come esso segnali ormai in modo costante, nei suoi rapporti annuali, l’esigenza di politiche di sensibilizzazione e di educazione alla prevenzione avverso i rischi da tabacco, alcol e sostanze psicotrope. Il tabagismo in particolare costituisce la causa principale di morte “evitabile” nei Paesi sviluppati. Per questo motivo il Comitato raccomanda agli Stati di comportarsi in conformità con l’obbligo di proteggere il diritto alla salute, realizzando politiche di prevenzione efficaci, che restringano l’offerta di tabacco mediante regolamentazione e controlli della produzione, della distribuzione, della pubblicità, dei prezzi del tabacco, ecc. In particolare, ed in questo si individuano molte delle politiche attive in diversi paesi europei, si chiede di vietare la vendita di tabacco ai giovani; di rendere effettivo il divieto di fumo nei luoghi pubblici, compresi i trasporti; nonché il divieto di pubblicità a mezzo di manifesti o a mezzo stampa. Lo stesso approccio viene sollecitato anche per la lotta contro l’alcolismo e le tossicodipendenze. 19 Come attentamente è stato messo in luce dalla dottrina, per lungo tempo l’interesse dello Stato si è concentrato soltanto sul concetto di sanità, sia per la riconduzione della tutela della salute alla sfera più privata dell’individuo, sia per l’assenza di una visione sociale della tutela dei diritti. Da qui, come sottolineato nel testo, la riconduzione dell’interesse pubblico in materia alla sola attività di prevenzione e repressione della diffusione di malattie. Per un’analisi di questi aspetti cfr., tra gli altri, cfr., A. CATELANI, La sanità pubblica, cit.; C. BOTTARI, Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, cit.

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garanzia di una omogenea erogazione di servizi su tutto il territorio nazionale, dall’altra una presenza

capillare (per lo più comunale) di strutture su tutto il territorio, basate su un modello univoco e

chiamate a garantire il perseguimento dei medesimi obiettivi: universalità della tutela sanitaria; unicità

del soggetto istituzionale referente; uguaglianza dei destinatari delle prestazioni; globalità e socialità delle

prestazioni stesse, dal momento che agli interventi di cura venivano affiancati anche quelli di

prevenzione e controllo.

Come già ricordato, questo modello è stato definito un “libro dei sogni”20, avendo dimostrato

l’impossibilità di dare risposta ad ogni richiesta sanitaria presentata dal singolo; inoltre, negli anni la

dimensione territoriale dell’organizzazione ha manifestato l’esigenza di una diversificazione capace di

rispondere alle specifiche esigenze delle comunità di riferimento. Da qui una serie di interventi

legislativi successivi che hanno tentato di conciliare interessi ed esigenze diverse: la garanzia di livelli

dapprima minimi e poi essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale; il decentramento

organizzativo, al fine di poter rispondere in modo ottimale alle esigenze del territorio; la riduzione dei

trasferimenti statali, sia per esigenze di bilancio sia al fine di determinare una responsabilizzazione dei

decisori politici locali, ai quali è stato affidato il compito di nominare i vertici della sanità regionale.

Il sistema sanitario che ne è derivato può dirsi quindi multilivello, dal momento che Stato e regioni

condividono le responsabilità e le politiche in materia, ciascuno nel proprio ambito ma in modo

sinergico, almeno sul versante legislativo e del finanziamento21. Il decentramento organizzativo, seppure

in presenza di livelli essenziali di assistenza (LEA) erogati su tutto il territorio nazionale, ha tuttavia

evidenziato e in parte determinato una talvolta sensibile differenziazione nella tutela della salute nei

diversi territori, con il determinarsi di una mobilità interna, a carico del sistema regionale di partenza del

paziente, che non agevola la riduzione di queste disuguaglianze. Inoltre, l’innesto del nuovo modello

organizzativo sul precedente, che era stato in grado di generare significativi deficit di bilancio a livello

locale, ha costretto molte regioni ad adottare piani di rientro per ripianare il disavanzo con la previsione

di ticket, talvolta superiori allo stesso costo della prestazione in strutture private o convenzionate, e con

tagli all’erogazione dei servizi, nella forma di soppressione o accorpamento di strutture o di non

universalità delle prestazioni offerte dalla sanità pubblica, con conseguente allungamento delle liste di

attesa. Tutti questi elementi, e la rilevante differenziazione territoriale (non solo Nord-Sud) che ne è

derivata, hanno prodotto un ampio dibattito, in diverse sedi, sulla reale capacità, almeno nell’attuale

20 R. BALDUZZI, Trent'anni di Servizio Sanitario Nazionale. Un confronto interdisciplinare, Bologna 2009, p. 16. 21 Cfr. R. BALDUZZI, Titolo V e tutela della salute, in Quaderni Regionali, 2002, pp. 65 ss.; G. PASTORI, Sussidiarietà e diritto alla salute, in Dir. pubbl., 2002, pp. 85 ss; C. TUBERTINI, La giurisprudenza costituzionale in materia di tutela della salute di fronte alla nuova delimitazione delle competenze statali e regionali, su www.astrid-online.it , 2005; M. BELLETTI, Il difficile rapporto tra tutela della salute ed assistenza ed organizzazione sanitaria. Percorsi di una prevalenza che diviene cedevole, in Le Regioni, 2006, pp. 1176 ss.

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strutturazione, del decentramento e del federalismo sanitario di garantire la necessaria applicazione alla

tutela della salute dei principi di solidarietà e uguaglianza.

Pur non potendo approfondire questo aspetto, peraltro ampiamente analizzato in dottrina22, può

comunque sottolinearsi come il decentramento abbia in effetti fatto emergere ancora più nettamente

rispetto al passato la stretta correlazione esistente tra diritto alla salute e costo della sua tutela. Infatti,

sebbene sia assolutamente condivisibile l’affermazione che “tutti i diritti hanno un costo”23, lo è

altrettanto la considerazione che i diritti sociali non sono tali senza l’erogazione di prestazioni

pubbliche, che rappresentano quindi un elemento ad essi connaturato. E ciò è ancora più evidente nel

caso del diritto alla salute dal momento che l’esonero totale o parziale dal pagamento delle prestazioni

assurge a elemento coessenziale della tutela, sul versante sia della cura sia della prevenzione, dal

momento che difficilmente un individuo può anche solo teorizzare di essere in grado di far fronte ad

una severa patologia con le proprie risorse personali24. Anche per questo, quindi, ogni ipotesi di

bilanciamento con altri interessi, per quanto necessaria, deve comunque porsi come parametro il

perseguimento della miglior tutela possibile di questo diritto25.

4. La dimensione internazionale europea del diritto alla salute tra CEDU e Carta Sociale

europea

A livello internazionale l’attenzione per i diritti sociali, e per quanto qui rileva per il diritto alla salute, ha

tardato a realizzarsi, confermando la dimensione sostanzialmente statale della sua tutela. Nella stessa

Dichiarazione dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU nel 1948, il riferimento alla salute è solo

indiretto e tendente a valorizzarne essenzialmente il carattere soggettivo26.

22 Sul punto cfr., tra gli altri, A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. Giur Treccani., XI, Roma 1989; M. LUCIANI, Diritto alla salute (dir. cost.), cit.; R. BIFULCO, Osservazioni sulla legge n.42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, in Astrid, 24.5.2009; A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi, in Rivista AIC, 2011; R. BALDUZZI, Livelli essenziali e risorse disponibili: la sanità come paradigma, in F. ROVERSI MONACO e C. BOTTARI (a cura di), La tutela della salute tra garanzie degli utenti ed esigenze di bilancio, cit.; D. TEGA, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, in www.gruppodipisa.it, 3 settembre 2012; M. BENVENUTI, Diritti sociali, in Digesto delle discipline pubblicistiche; aggiornamento, Roma, 2013, pp. 219 ss.; M. BERGO, I nuovi livelli essenziali di assistenza. Al crocevia fra la tutela della salute e l'equilibrio di bilancio, in Rivista AIC 2017; B. VIMERCATI, L’aggiornamento dei LEA e il coordinamento della finanza pubblica nel regionalismo italiano: il doppio intreccio dei diritti sociali, in Le Regioni, 2017, pp. 133 ss. 23 Così S. HOLMES - C.R. SUNSTAIN, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Bologna, 2000. 24 Non a caso negli Stati in cui non è presente un sistema diffuso di protezione sociale è comunque prevista l’adesione ad una assicurazione sanitaria obbligatoria. 25 Per l’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia cfr. F. MINNI - A. MORRONE, Il diritto alla salute nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, in Rivista Aic, 2013; C. TUBERTINI, La giurisprudenza costituzionale in materia di tutela della salute di fronte alla nuova delimitazione delle competenze statali e regionali, in www.astrid-online.it. 26 La Dichiarazione dei diritti dell’uomo cita, infatti, la salute come situazione giuridica soggettiva conseguente al diritto della persona di poter avere un tenore di vita sufficiente a garantirlo e facendone quindi ricadere il costo

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Con riferimento allo spazio europeo, è noto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950

non prevede alcuna disposizione in materia e ciò ha reso necessario – ma ha anche consentito – alla

Corte di Strasburgo di definire nel tempo i caratteri di questo diritto e il bilanciamento con altre

situazioni giuridiche soggettive e interessi, ancorandone la tutela in particolare agli artt. 2, 3 e 8 della

CEDU27. La giurisprudenza che ne è scaturita ha fissato alcuni importanti principi ed ha influito, come

si avrà modo di sottolineare infra, anche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che nel corso degli

anni si è ritagliata uno spazio di intervento in questa materia.

Di tutela del diritto alla salute parla invece espressamente, all’art. 11, la “Carta sociale europea”, adottata

dal Consiglio d’Europa nel 1961 (entrata in vigore nel 1965 con il raggiungimento del numero

necessario di ratifiche) e rivista nel 1996 (con ratifica italiana nel 199628).

Con l’adozione e la ratifica della Carta, gli Stati firmatari hanno innanzitutto riconosciuto che “Ogni

persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute

ottenibile” e si sono poi impegnati ad “assicurare l’esercizio effettivo” di questo diritto mediante

l’adozione di misure adeguate, volte in particolare: “1) ad eliminare per quanto possibile le cause di una

salute deficitaria; 2) a prevedere consultori e servizi d’istruzione riguardo al miglioramento della salute

ed allo sviluppo del senso di responsabilità individuale in materia di salute; 3) a prevenire, per quanto

possibile, le malattie epidemiche, endemiche e di altra natura, nonché gli infortuni.”.

Pur essendo un Atto di particolare rilevanza in quanto rappresenta, come è stato sottolineato, il

“corrispettivo, in materia di diritti economici e sociali, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”

la Carta sociale europea è stata, e per certi aspetti è, sostanzialmente ignorata non solo dai singoli Stati,

interlocutori del Comitato europeo dei diritti sociali che vigila sulla sua attuazione, sia dalla stessa

Unione europea, che ha fatto ad essa solo due marginali riferimenti nelle revisioni del Trattato di Roma

del 1986 e 1997 e non l’ha invece menzionata o richiamata in sede di approvazione della Carta di Nizza

del 2000 e dell’incorporazione di quest’ultima nel Trattato di Lisbona del 200729.

sul singolo. Come sottolineato nel testo, le Costituzioni che inquadrano la salute nell’ambito dei diritti sociali si pongono invece in una prospettiva opposta, facendo quindi gravare – in tutto o comunque in larga parte – sull’intera comunità attiva l’onere economico della tutela della salute di tutti i consociati. 27 Sul punto cfr. F. CECCHINI, La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 2017, il quale sottolinea come tale assenza “si spiega con l’estraneità, rispetto all’originario sistema della Convenzione, della categoria dei cosiddetti diritti sociali”. Ne è riprova il fatto che l’estraneità non connoti unicamente la CEDU, ma più in generale sia riscontrabile nei vari sistemi internazionali di protezione dei diritti umani. 28 Legge 9 febbraio 1999, n. 30 (Ratifica ed esecuzione della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996). 29 Per una ricostruzione del complesso rapporto tra dimensione europea e eurounitaria della tutela dei diritti sociali cfr. O. DE SCHUTTER, La Carta sociale europea nel contesto dell’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Dipartimento generale delle Politiche interne, Commissione europea, 2016

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Con riferimento, invece, agli Stati aderenti, può rilevarsi come il loro impegno nella attuazione dei

contenuti della Carta sia tangibile ma certamente disomogeneo. Infatti, se da un lato influisce

negativamente il deficit di effettività che caratterizza in modo maggiore o minore tutte le Carte

internazionali plurilaterali, dall’altro si rileva come in questo caso gli Stati membri, in presenza di

raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa30, tendano ad attuare azioni e

politiche di riallineamento, in quella che è stata definita una “competizione virtuosa”31, volta proprio ad

adeguare le proprie normative e organizzazioni sanitarie in coerenza con le indicazioni che emergono

dai rapporti annuali32. Sul punto è, infatti, necessario sottolineare come, per lo Stato parte, l’impegno

giuridico derivante dalla Carta sociale vada inteso essenzialmente nella dimensione collettiva e generale

di garantire alla popolazione il migliore stato di salute possibile, piuttosto che come diretto a garantire a

ciascuna persona individualmente un diritto soggettivo alla protezione della salute, non essendo peraltro

previsti ricorsi diretti ma solo reclami collettivi (Protocollo addizionale approvato nel 1995) che stanno

comunque rappresentando sensibili incentivi per gli Stati al rispetto dei contenuti della Carta. Peraltro

deve sottolinearsi che dagli atti adottati in questi anni dal Comitato europeo emergono alcuni principi

che, mentre nell’ordinamento italiano sono già ricavabili dall’art. 32 Cost., non appaiono invece per

nulla scontati per altri Paesi aderenti, alcuni dei quali appartenenti alla stessa Unione europea.

Da qui, di conseguenza, l’emersione, nell’analisi delle concrete misure positive (di carattere legislativo,

amministrativo, formativo e tecnico-sanitario)33 posta in essere annualmente dal Comitato sulla base di

indicatori primari34, di sostanziali differenze, anno dopo anno, tra i diversi Stati.

30 La Carta sociale europea affida un ruolo centrale al Comitato europeo dei diritti sociali, che ha il compito di controllare il rispetto da parte degli Stati delle obbligazioni previste dalla Carta stessa. I suoi quindici membri, indipendenti e imparziali, sono eletti dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per un mandato di sei anni, rinnovabile una volta. Il Comitato decide se la situazione nazionale delle parti contraenti è conforme alla Carta (articolo 24 della Carta come modificato dal Protocollo di Torino del 1991), sulla base di un rapporto annuale che gli Stati presentano e nel quale indicano come la Carta viene applicata in diritto e nella prassi. Le sue decisioni sono chiamate “conclusioni” e sono pubblicate ogni anno. Se, nel caso di una decisione di non conformità del Comitato, uno Stato non prende le misure necessarie per conformarsi alla Carta, il Comitato dei Ministri raccomanda di modificare la situazione nel suo diritto interno o nella prassi. Il lavoro del Comitato dei Ministri è preparato dal Comitato governativo composto dai rappresentanti dei governi degli stati contraenti della Carta, assistiti da osservatori rappresentanti le parti sociali europee. 31 Così F. OLIVIERI, La Carta Sociale Europea tra enunciazione dei diritti, meccanismi di controllo e applicazione nelle corti nazionali. La lunga marcia verso l’effettività, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2008, pp. 509-540. 32 Sul punto cfr. G. GUIGLIA, Le prospettive della Carta sociale europea, in Jus, 2010, 3. 33 Dai Report annuali del Comitato emerge come un punto di forte criticità sia rappresentato dal non adeguato rispetto di molti Stati dell’obbligo di garantire l’accesso alle cure sanitarie senza costi a chi non dispone di risorse economiche e mantenere un accettabile livello di finanziamento del sistema sanitario anche in periodi di crisi economica, nei quali è particolarmente necessario che i costi delle cure sanitarie siano sostenuti, nella misura massima possibile, dalla comunità statale. Dall’esame, posto in essere dal Comitato, dei report degli Stati negli anni successivi al 2009, anno di inizio della forte crisi economica che ancora in parte preoccupa, emerge come il livello di non conformità con l’art. 11 sia sensibilmente aumentato. E la non conformità risulta sempre più derivante dalla non adeguatezza delle risorse e delle misure messe a disposizione dei sistemi sanitari che finisce

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5. La tutela della salute nell’Unione europea e l’adozione del Pilastro sociale europeo

In questo quadro, nel quale un numero significativo di Stati europei prevede oggi in Costituzione il

diritto alla salute e nel quale il Consiglio d’Europa manifesta sensibilità sul punto, l’adozione nel 2017,

da parte dell’Unione europea, del “Pilastro europeo dei diritti sociali”, nel quale è previsto anche il

diritto qui in oggetto, sembra rappresentare il superamento di una posizione di sostanziale neutralità

(per non dire disinteresse) eurounitaria nei confronti dei diritti sociali, lamentata anche in seguito

all’approvazione della Carta di Nizza35.

In effetti, l’Unione europea non è mai stata totalmente indifferente alla materia “salute” ma appare

possibile intravedere nei suoi vari interventi, almeno sino ad oggi, più una evoluzione dell’azione di

tutela della libertà di circolazione delle persone e dei servizi piuttosto che un embrione di intervento di

natura “sociale”. E’ indubbio, infatti, che i primi interventi in materia sono stati di “non azione”, nella

misura in cui si è stabilito che la tutela della salute delle persone rappresentava un limite alle libertà

sancite nel Trattato (art. 30 TCE). Solo con l’Atto Unico Europeo del 1986 si sono, invece, poste le

basi per un intervento diretto, con il rafforzamento del fondamento giuridico delle misure legate alla

protezione della salute e con l’estensione del campo d’azione della Comunità, per esempio alla sanità e

alla sicurezza dei lavoratori, in particolare inserendo un Titolo sulla coesione economica e sociale (art.

130 a-e) e indirizzando l’azione dell’allora Comunità verso obiettivi di giustizia sociale. Un ulteriore

passo in avanti è stato poi realizzato dapprima con il Trattato di Maastricht del 1992, che ha inserito nel

TCE il Titolo X riguardante proprio la sanità pubblica ed ha affermato la necessità di coordinamento

delle politiche nazionali in materia e lo scambio di informazioni tra gli Stati, volto a migliorare le

pratiche nei singoli settori, senza però fissare degli obblighi minimi per gli Stati, meccanismo che, per

questo motivo, è stato definito “metodo aperto di coordinamento”; successivamente con il Trattato di

Amsterdam del 1997, con l’art. 3, lettera p), ha imposto alla Comunità “il perseguimento di un elevato

livello di protezione della salute” e con l’art. 152 TCE (ora 168 TFUE) ha reso il diritto alla salute

autonomo e indipendente e non più subordinato ad altre politiche dell’Unione.

Con l’inserimento nei Trattati di queste disposizioni, l’Unione si è quindi spogliata del suo precedente

ruolo di coordinamento e sostegno delle politiche nazionali, divenendo responsabile del loro

completamento, dal momento che sulla Commissione grava l’obbligo di promuoverne la realizzazione.

Al tempo stesso però il paragrafo conclusivo di quello che è oggi l’art. 168 TFUE riconosce agli Stati la

inevitabilmente per colpire in modo sproporzionato soprattutto i soggetti più vulnerabili: poveri, anziani, malati cronici, comunità emarginate. 34 Tra gli indicatori utilizzati può annotarsi il tasso di mortalità infantile (entro il primo anno di vita) e materna (durante la gravidanza o entro 42 giorni dal termine) 35 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per un’analisi della posizione dell’Unione nei confronti del diritti sociali, cfr. M. LUCIANI, Diritti sociali ed integrazione europea, in Politica del diritto, 2000, pp. 367 ss.

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competenza esclusiva (“responsabilità”, nelle parole del Trattato) relativamente all’organizzazione e all’

erogazione dei servizi, delle prestazioni sanitarie e dell’assistenza medica, rilevando, dunque, come sia

ancora impensabile un’armonizzazione dei sistemi e delle normative nazionali nella disciplina della

sanità pubblica al fine di giungere alla nascita di un sistema sanitario europeo.

Un ulteriore tassello nella definizione della tutela della salute nell’Unione europea è rappresentato dalla

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, che all’art. 35, dedicato alla “Protezione

della salute”, inserito nel Capo IV relativo alla “Solidarietà”, stabilisce che “Ogni individuo ha il diritto

di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle

legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività

dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”36. Questo articolo fa propria

la giurisprudenza della Corte di Giustizia da tempo impegnata a riconoscere una dimensione

transfrontaliera del diritto alla salute, con particolare riferimento alla mobilità per ragioni di cura37. E

questa stessa giurisprudenza ha condotto sia all’elaborazione di alcune specifiche politiche, contenute in

Programmi d’azione38, sia all’adozione, da parte del legislatore europeo, di due atti di particolare

rilevanza: il Regolamento (CE) n. 883/200439 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile

36 Tale articolo, perfettamente in linea con l’allora art.152 TCE, introduce in maniera definitiva il “diritto soggettivo, autentico, assoluto e pienamente operante nei confronti della p.a. e dei privati tutelabile dinanzi agli organi giurisdizionali” di ciascun soggetto appartenente all’Unione Europea a ricevere cure preventive e riabilitative a tutela della propria salute. Un aspetto interessante delle disposizioni della Carta è il rinvio alle legislazioni nazionali che essa fa, relativamente agli strumenti di tutela nell’ambito della concreta attuazione delle politiche, ispirate però ad un elevato livello di protezione della salute definito dall’Unione. 37 Le principali sentenze della Corte di Giustizia sulla mobilità transfrontaliera dei pazienti sono: C-158/96, Kohll, 28 aprile 1998; C-120/95, Decker, 28 aprile 1998; C-368/98, Vanbraekel, 12 luglio 2001; C-157/99, Smits e Peerbooms, 12 luglio 2001; C-385/99, Müller-Fauré e van Riet, 13 maggio 2003; C-56/01, Inizan, 23 ottobre 2003; C-8/02, Leichtle, 18 marzo 2004; C-145/03, Keller, 12 aprile 2005; C-372/04, Watts, 16 maggio 2006; C-444/05, Stamatelaki, 19 aprile 2007; C-211/08, Commissione europea v. Regno di Spagna, 15 giugno 2010; C-173/09, Elchinov, 5 ottobre 2010; C-430/12, Luca, 11 luglio 2013; C-268/13, Petru, 9 ottobre 2014. 38 I programmi d’azione europei più importanti in materia di tutela della salute degli ultimi anni sono: il primo, relativo agli anni 2003-2008, si è posto principalmente tre obiettivi: 1. migliorare l’informazione e le conoscenze per promuovere la salute pubblica e i sistemi sanitari, 2. rafforzare la capacità di reazione rapida e coordinata alle minacce per la salute, come le minacce transfrontaliere quali l’ HIV o le affezioni connesse all’inquinamento, 3. agire sui fattori sanitari determinanti e aumentare le azioni di prevenzione in modo da ridurre i rischi. Il secondo Programma d’azione (2008-2013) 10 ha invece perseguito tre obiettivi prioritari: 1. migliorare la sicurezza sanitaria dei cittadini, 2. promuovere la salute, compresa la riduzione delle ineguaglianze in materia e, infine, 3. produrre e diffondere informazioni e conoscenze in materia di salute. L’ultimo e più recente Programma d’azione (2014-2020), istituito con il Regolamento UE n. 282/2014/CE e rientrante nella strategia Europa 2020, si pone principalmente quattro obiettivi: 1. contribuire alla creazione di sistemi sanitari innovativi e sostenibili, 2. potenziare l’accesso a cure sanitarie migliori e più sicure per i cittadini, 3. promuovere la buona salute e prevenire le malattie, 4. proteggere i cittadini dalle minacce sanitarie transfrontaliere. 39 Il Regolamento disciplina le misure di sicurezza sociale dei lavoratori che si spostano da un Paese all’altro dell’UE. In tale contesto, il Regolamento garantisce anche le prestazioni sanitarie legate al soggiorno temporaneo fuori dello Stato competente ritenute necessarie dal punto di visto medico (cure urgenti) nonché la possibilità di andare in un altro Stato membro diverso da quello di competenza esclusivamente per beneficiare dell’assistenza sanitaria (cure programmate).

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2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, e soprattutto la Direttiva UE n. 24 del 9

marzo 2011 (in Italia recepita nel 201440) che sancisce il diritto dei pazienti di scegliere liberamente il

prestatore di assistenza sanitaria41. Quest’ultima, infatti, introduce norme volte a garantire che i pazienti

usufruiscano di un’assistenza sanitaria sicura e di qualità42, a tutelare i diritti dei pazienti in qualunque

Stato membro si rechino, ad assicurare che i pazienti ricevano tutte le informazioni necessarie per

esercitare i propri diritti, a costituire un sistema efficiente di cooperazione tra i differenti sistemi sanitari

degli Stati membri facilitando forme di cooperazione e di mutua assistenza fra Paesi. Ciò non comporta,

tuttavia, come prima rilevato, la realizzazione di un sistema sanitario europeo, dal momento che

l’individuo è sì libero di scegliere dove curarsi ma l’onere finanziario di tale cura o viene da lui

interamente sopportato (caso che si verifica qualora la prestazione non sia prevista nel proprio Paese o

il paziente non sia stato autorizzato alla mobilità43) oppure è rimborsabile dal servizio sanitario di

residenza in forma indiretta e solo nella misura massima del costo che quest’ultimo avrebbe sostenuto

se le cure fossero state erogate sul territorio nazionale.

40 D. Lgs. 4 marzo 2014, n. 38 (Attuazione della direttiva 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera, nonché della direttiva 2012/52/UE, comportante misure destinate ad agevolare il riconoscimento delle ricette mediche emesse in un altro Stato Membro). 41 La direttiva approvata definitivamente nel 2017, dopo un lungo periodo di gestazione, individua nell’articolo 114 TFUE la propria base giuridica e, contemporaneamente, alla luce dell’articolo 168, par. 1, TFUE, si prefigge importanti obiettivi per il raggiungimento di un alto livello di protezione della salute umana, favorendo la creazione di standard comuni nel campo dell’accesso alle prestazioni sanitarie, l’istituzione di una rete europea di centri di eccellenza per la cura di malattie rare e di un sistema di informazione efficace per i cittadini che desiderino ottenere cure mediche all’estero. L’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri ha altresì lo scopo di individuare metodi comuni per una più efficiente allocazione delle risorse in campo sanitario e di rendere più semplice e immediato l’accesso alle cure. Al fine di perseguire tale risultato, il testo della direttiva ha definito tre principali linee direttrici: l’individuazione di alcuni principi comuni a tutti i sistemi sanitari europei; lo sviluppo di un quadro di cooperazione e coordinamento transfrontalieri, per garantire il mutuo riconoscimento delle prescrizioni mediche e farmaceutiche tra gli Stati membri e per creare una rete europea di valutazione delle tecnologie in campo medico; infine, la cristallizzazione dei principi stabiliti in via giurisprudenziale e l’armonizzazione dei procedimenti per le autorizzazioni e i rimborsi. Per un’analisi della direttiva cfr. S. DE LA ROSA, The directive on cross-border healthcare or the art of codifying complex case law, in Common market law review, 2012, 27; L. UCCELLO BARRETTA, Il diritto alla salute nello spazio europeo: la mobilità sanitaria alla luce della direttiva 2011/24/UE, in Federalismi.it, 15 ottobre 2014. 42 La Direttiva prevede che si possano ottenere, in uno degli Stati dell’Unione Europea, le cure erogate dal proprio sistema sanitario ad eccezione: dei servizi nel settore dell’assistenza di lunga durata; dell’assegnazione e dell’accesso agli organi ai fini dei trapianti; dei programmi pubblici di vaccinazione contro le malattie contagiose. 43 La possibilità che gli Stati membri possano subordinare ad autorizzazione preventiva l’assistenza sanitaria è espressamente prevista dalla Direttiva qualora la prestazione sia soggetta ad esigenze di pianificazione riguardanti l’obiettivo di assicurare, nel territorio dello Stato membro interessato, la possibilità di un accesso sufficiente e permanente ad una gamma equilibrata di cure di elevata qualità o alla volontà di garantire il controllo dei costi e di evitare ogni spreco di risorse finanziarie, tecniche e umane e comporta inoltre il ricovero del paziente per almeno una notte o richiede l’utilizzo di un’infrastruttura sanitaria o apparecchiature mediche altamente specializzate e costose; oppure qualora richieda cure che comportano un rischio particolare per il paziente o la popolazione; o, ancora, deve essere erogata da un prestatore di assistenza sanitaria che, all’occorrenza, potrebbe suscitare gravi e specifiche preoccupazioni rispetto alla qualità o alla sicurezza dell’assistenza.

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Sulla base di questi elementi appare possibile affermare che gli interventi dell’Unione hanno privilegiato

l’aspetto, certamente importante ma non qualificante sul piano sociale dei diritti, della libertà di cura,

valorizzando quindi la dimensione soggettiva della tutela del diritto, laddove viene consentito al singolo

di scegliere dove curarsi all’interno del territorio dell’Unione44. Il costo sociale di tale scelta ma, al

tempo stesso, la riconduzione della singola prestazione nel novero di quelle rimborsabili in quanto

rientranti nella natura sociale del diritto, vengono lasciati alla determinazione degli Stati membri,

confermando così la natura statale della tutela dello stesso che si esplicita con la individuazione delle

prestazioni ammissibili e con l’assunzione, da parte dell’intera comunità, del costo della cura fruita dal

consociato.

In questo contesto si inseriscono le disposizioni in materia di salute contenute nel già richiamato Pilastro

europeo dei diritti sociali, proclamato dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione nel

novembre 2017. Tali disposizioni non hanno valore giuridicamente vincolante ed appare condivisibile

l’opinione di quanti ritengono che in esse le istituzioni dell’Unione abbiano voluto cristallizzare l’acquis

communautaire sui singoli diritti piuttosto che apportare elementi di novità. Ciò emerge, almeno per

quanto si ricava dal testo, in particolare da due elementi: in primo luogo il Pilastro si rivolge agli Stati,

chiedendo quindi ad essi di farsi carico della tutela, in un settore che fortemente ha risentito della crisi

economica; inoltre leggendo gli articoli, in esso contenuti, si rinvengono molti dei principi fissati in

questi anni dalla giurisprudenza europea45.

Se si analizzano gli articoli riguardanti la salute46, quanto appena sottolineato emerge con sufficiente

chiarezza, in particolare dall’art. 16, rubricato “Assistenza sanitaria”, nel quale si legge che “ogni

persona ha il diritto di accedere tempestivamente ad un’assistenza sanitaria preventiva e terapeutica di

44 Una maggiore disponibilità di informazioni, data dalla loro velocità di circolazione e immediata reperibilità, una elevata facilità di movimento interterritoriale e, non ultimo, il fatto che sono i pazienti stessi a cercare di conoscere e comprendere il proprio stato di salute e a valutare le possibili alternative sono i fattori che hanno portato ad un sensibile aumento, negli ultimi anni, della mobilità per ragioni sanitarie all’interno dell’Unione europea. Sul punto cfr. I.G. COHEN, Patients with Passports: Medical Tourism, Law, and Ethics, Oxford, 2014; L. BUSATTA, La cittadinanza della salute nell’Unione europea: il fenomeno della mobilità transfrontaliera dei pazienti, dalla libera circolazione alla dimensione relazionale dei diritti, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, 2015, la quale sottolinea come il termine turismo poco riesca a rappresentare la mobilità nella sua effettiva dimensione di diritto soggettivo spettante ai cittadini europei, cui corrisponde l’obbligazione al suo rispetto e alla sua garanzia per gli Stati membri e le Istituzione dell’Unione; A. SANTUARI, Il diritto (transfrontaliero) alla salute e la crisi del welfare state. Diritti individuali versus equità e solidarietà dei sistemi sanitari nazionali, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2016, pp. 659 ss. 45 Cfr. Z.RASNAČA, Bridging the gaps of falling short? The European Pillar of Social Rights and what it can bring to EU-level policymaking. ETUI Working Paper 2017, 5. 46 Nell’art. 10 si fa invece riferimento al diritto alla salute dei lavoratori e nell’art. 18 si disciplina l’assistenza di lungo termine, prevedendo che “Ogni persona ha diritto a servizi di assistenza a lungo termine di qualità e a prezzi accessibili, in particolare ai servizi di assistenza a domicilio e ai servizi locali). Proprio questa disposizione aiuta a comprendere come il Pilastro voglia porsi su un piano diverso dalla direttiva 11/2014 che, come prima ricordato, esclude la mobilità nei casi di prestazioni di assistenza a lungo termine.

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buona qualità e a costi accessibili”, tutti elementi già presenti nella giurisprudenza della Corte di

Giustizia.

Tuttavia, proprio il dettato di questo articolo offre lo spunto per poter immaginare la prospettiva di un

passo in avanti nella costruzione di un diritto alla salute e di una sanità europea. Questa possibilità si

intravede, ad esempio, laddove il dettato lega buona qualità delle prestazioni e tempestività nell’accesso alle

cure, che richiama più la dimensione territoriale dell’assistenza che non la mobilità dei pazienti e fa

sperare che l’Unione voglia impegnarsi a migliorare il sistema delle strutture sanitarie e non solo la rete

delle eccellenze. Del pari è presente il richiamo all’accessibilità dei costi, alla quale è possibile pervenire

– come sarebbe auspicabile in Italia – sia attraverso un’azione di razionalizzazione sia mediante un

sostegno finanziario su scala europea.

6. Considerazioni conclusive

Il breve quadro sin qui tracciato della tutela multilivello della salute nell’Unione europea evidenzia come

quest’ultima si sia orientata sino ad oggi – e continuerà presumibilmente in questa direzione se il

Pilastro non verrà interpretato come elemento di reale innovazione – a garantire la tutela della sola

dimensione soggettiva del diritto alla salute, con particolare riferimento al diritto di ogni individuo di

salvaguardare il bene fondamentale della vita, ricevendo le migliori cure possibili. L’Unione non sembra

voler, invece, formalmente impegnarsi al momento nel definire il contenuto di tale diritto, lasciando tale

compito ai singoli Stati, chiamati quindi a definire le prestazioni erogabili dal proprio sistema sanitario e

quelle invece non erogabili per impedimenti di natura scientifica o etica. Del pari, è rimesso ai singoli

Stati il finanziamento del costo di tali prestazioni, e quindi la dimensione di comunità della tutela del

diritto, sia qualora i propri consociati si curino nel proprio Paese, sia qualora decidano – nella ricerca

della miglior cura possibile – di muoversi all’interno del territorio europeo.

Dal combinato disposto di questi elementi deriva la possibilità di leggere l’attuale tutela multilivello del

diritto alla salute da una duplice prospettiva. La prima è quella individuale, in relazione alla quale

l’accesso alle cure può essere considerato realmente multilivello, potendo il singolo decidere dove

curarsi47, beneficiando del sostegno economico del proprio servizio sanitario, e dove eventualmente

accedere anche alle cure non erogate o non consentite nel proprio Paese. Ciò tuttavia non può portare a

ritenere che per l’individuo sia “indifferente” curarsi nel proprio territorio o spostarsi in altra parte del

47 Tra le ragioni che possono spingere un paziente alla “mobilità sanitaria” sono state rilevate: l’affidabilità, la familiarità e la percezione della superiore qualità del servizio prestato da un sistema sanitario straniero, oppure la disponibilità, nel senso di ricevere cure in un tempo inferiore rispetto a quello assicurato dal proprio Stato di residenza o, ancora, una particolare specializzazione, posseduta da un determinato sistema sanitario diverso da quello nazionale, nella cura di alcune patologie. Si tratta di un fenomeno che è strettamente legato alla possibilità di cercare terapie più efficaci e di farsi curare nei centri migliori, riconosciuta come un diritto dei cittadini europei, così come è stato sancito più volte dalla Corte di giustizia.

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proprio Paese o all’estero. La mobilità ha infatti un costo, sia sul piano della sostenibilità economica per

tutte le spese che comunque non rientrano nel rimborso nazionale, sia su quello, per molti aspetti più

importante, della normalizzazione della cura e quindi del vivere nel proprio ambiente, con i propri

affetti, parlando la propria lingua. La mobilità è quindi certamente un diritto ma non può essere

considerato un fenomeno fisiologico.

La seconda prospettiva, dalla quale può analizzarsi la natura multilevel della tutela della salute, è invece

quella politica e in questo caso, partendo dal dato del riparto di competenza tra i diversi livelli di

governo coinvolti, la valutazione sulla dimensione sociale della tutela multilivello rende necessaria una

duplice riflessione.

La prima, critica, emerge proprio dallo scollamento tra la scelta individuale su dove curarsi e il

finanziamento “sociale” della stessa. Ad oggi la percentuale di coloro che si spostano da uno Stato

all’altro per curarsi è ancora minima ma già evidenzia il peso di questa mobilità, che ricade, come prima

ricordato, non solo sui singoli ma anche sui servizi sanitari nazionali, sia “di arrivo”, che devono

concretamente provvedere all’erogazione e all’organizzazione di servizi a favore non solo dei propri

cittadini ma anche di quelli stranieri, che vi si rivolgono per ottenere cure o trattamenti non disponibili,

non efficacemente erogati o inefficienti, nel proprio paese d’origine, sia “di partenza”, i quali devono

rimborsare le spese sostenute dai propri assistiti, che usufruiscono di cure all’estero, sottraendo tali

risorse ai sistemi sanitari territoriali48.

Come appare evidente, il rischio è l’attivazione di un circolo vizioso, nel quale gli Stati che vengono

considerati non efficienti dai propri cittadini debbono rinunciare a risorse che essi stessi potrebbero

utilizzare per migliorare le prestazioni sanitarie. A ciò si associa poi un effetto indiretto, dato dalla

diseguaglianza territoriale che si viene a creare tra zone dell’Europa nella quale la sanità si presenta

come eccellente ed operativa ed altre zone europee dove la realtà o la percezione della stessa non

raggiunge analoghe aggettivazioni. Ragionando in un’ottica concorrenziale si potrebbe affermare che

tale situazione è la diretta conseguenza della capacità di alcuni sistemi sanitari di essere efficienti,

scientificamente avanzati ed altro49. Tuttavia, quando l’oggetto della prestazione è la tutela di un diritto

48 Tale sottrazione non può non condizionare, più o meno direttamente, l’organizzazione interna dei servizi sanitari, potendo influire anche sulle decisioni inerenti i trattamenti medici da assicurare, sulle scelte sull’allocazione delle risorse oppure sui criteri in base ai quali attribuire le priorità nel settore della salute. 49 Come viene sottolineato, la Direttiva non fuga il rischio che il paziente possa essere ricondotto alla più generale figura del consumatore, capace come tale di influire sull’offerta di prestazioni. Appare evidente le criticità che sono sottese a tale ipotesi, in particolare perché il paziente si presenta come un consumatore atipico, in quanto la sua domanda riguarda servizi relativi alla salute che, in quanto tali, possono essere somministrati solamente da personale altamente qualificato (i medici e gli altri professionisti della salute), secondo specifiche regole individuate dalle legislazioni nazionali e, in alcune circostanze, possono essere fruite solamente all’interno di strutture specificamente adibite e autorizzate a tal fine (gli ospedali, per esempio). Da ciò deriva la necessità di garantire determinati standard di sicurezza delle strutture sanitarie e, parallelamente, un adeguamento

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fondamentale come la salute (ma analoga considerazione può farsi per il diritto al lavoro, all’istruzione e

più in generale per tutti i diritti sociali) occorre chiedersi se questo tipo di ragionamento sia accettabile o

se non si debba piuttosto intervenire, non solo finanziariamente ma anche sul piano organizzativo,

verso un innalzamento della qualità complessiva del sistema, non certo livellandola verso il basso ma

individuando uno standard qualitativo medio da realizzare su tutto il territorio dell’Unione. Su questo

sarebbe importante, come peraltro prevede in parte l’art. 168 TFUE, un intervento dell’Unione,

partendo dal presupposto, oggettivo, dato dalla circostanza che i singoli sistemi sanitari nazionali non si

trovavano, al momento dell’adozione della direttiva, in condizioni equiparabili, con la conseguenza che i

flussi di mobilità, che si stanno determinando, seguono direzioni unilaterali. In altri termini, la direttiva

si è innestata su sistemi sanitari molto diversi tra loro e questa circostanza rischia di accentuare le

disuguaglianze esistenti invece di ridurle.

Peraltro, occorre evitare che la preoccupazione di dover pagare rilevanti rimborsi ai sistemi sanitari di

altri Paesi porti gli Stati a non autorizzare tale mobilità, trasferendo quindi l’intero onere della mobilità

sul paziente50. In questo caso il rimedio rischia di essere peggiore del male, dal momento che, lasciata a

se stessa, la mobilità può creare una ulteriore inaccettabile disuguaglianza tra coloro che possono

finanziarsela e quanti invece non sono in grado di sostenerla.

Un secondo elemento di riflessione riguarda, invece, le tante ipotesi nelle quali la mobilità ha come

finalità il beneficio di una prestazione che nel proprio Paese non è consentita. Nel corso della lunga fase

di elaborazione del testo della direttiva, alcuni Stati membri avevano il timore che l’atto normativo

avrebbe comportato anche l’obbligo di garantire quei trattamenti che per ragioni di natura etica sono

vietati o limitati dalle legislazioni nazionali. Al fine di fugare tali preoccupazioni, nella direttiva è stato

esplicitata la volontà dell’Unione di rispettare «le scelte etiche fondamentali degli Stati membri»

(considerando 7); di conseguenza sono escluse dal rimborso quelle prestazioni che non sono previste

dalla legislazione nazionale del paziente (considerando 33). Anche questa decisione conferma che la

dimensione politica, che si esprime attraverso la definizione delle prestazioni e il loro finanziamento,

resta quella statale, escludendo che, rebus sic stantibus, possa parlarsi di una dimensione europea dei diritti

sociali, della quale invece ci sarebbe bisogno per riequilibrare le differenze territoriali e per affermare un

ragionevolmente bilanciato con l’incessante sviluppo della scienza medica. Si esprime talvolta in termini di paziente come consumatore anche la giurisprudenza italiana. Tra le altre, cfr. Cassazione civile, III sezione, sentenza n. 20 del 2 gennaio 2009; in senso contrario la stessa sezione, con l’ordinanza 8093 sempre del 2009. 50 Tutto ciò è stato fatto proprio anche dalla Corte di Giustizia, prima che dalla direttiva, attraverso il riconoscimento della legittimità delle restrizioni poste dalle legislazioni di alcuni Stati membri alle condizioni per fruire del rimborso da parte del sistema sanitario di appartenenza delle spese mediche. Nei considerando della direttiva viene dedicato comunque ampio spazio al riconoscimento del valore del rispetto dell’equilibrio e delle scelte allocative proprie di ciascun sistema sanitario nazionale, alla luce delle delicate valutazioni sottese e della necessità di garantire, in modo universalistico, l’accesso alla salute a tutti, indipendentemente dalla disponibilità individuale delle risorse necessarie per potersi curare al di fuori del proprio Paese.

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valore unitario e condiviso del principio di uguaglianza sostanziale. Peraltro, se è certamente vero che le

scelte normative concernenti i criteri di accesso alle prestazioni sanitarie, soprattutto nei settori

caratterizzati da un vasto dibattito etico e giuridico, rientrano nella competenza degli Stati membri, del

pari questi ultimi, pur mantenendo un ampio spazio discrezionale, devono comunque garantire il

rispetto delle obbligazioni derivanti dal diritto dell’Unione e di un certo grado di coerenza interna.

Ecco allora che, passando per il Pilastro europeo dei diritti sociali e andando oltre, appaiono necessari,

per la definizione di una reale dimensione multilivello e sociale del diritto alla salute, almeno due tipi di

intervento: in primo luogo la fissazione di standard essenziali di qualità delle prestazioni da raggiungere

in tutti i Paesi dell’Unione anche e soprattutto mediante il ricorso ad un fondo di perequazione

europeo, dal quale attingere per il miglioramento e l’ammodernamento delle strutture e delle tecnologie

che non soddisfano i requisiti prefissati; se la tutela del diritto alla salute risponde ad un principio

solidaristico il finanziamento non può, come prevede la direttiva, riguardare le eccellenze che – sia

consentito, “giocano un diverso campionato” e debbono beneficiare di finanziamenti ad hoc – ma deve

riguardare le strutture del territorio che necessitano di garantire un livello essenziale di qualità (anche in

termini di brevità delle liste di attesa) delle prestazioni. Che sull’uso di questi fondi sia necessario

vigilare, anche attivando meccanismi di responsabilizzazione di coloro che sono chiamati a gestirli e a

raggiungere gli obiettivi prefissati, è prerequisito necessario; ma il dubbio che strutture non efficienti

siano tali solo per motivi “interni” (e clientelari) non può rappresentare il pretesto per non intervenire al

fine di rimuovere le situazioni di carenza.

Il secondo intervento, strettamente legato a quello appena descritto, anzi propedeutico, si rinviene

nell’esigenza di riflettere sulla importanza della definizione di un livello essenziale delle prestazioni in

ambito europeo, delle quali i cittadini dell’Unione debbono poter beneficiare su tutto il territorio

europeo, seppure – almeno per il momento – con il metodo dell’assistenza a carico del proprio Paese.

Questa azione, senza dover necessariamente incidere su quelle prestazioni che riguardano

“fondamentali” ragioni etiche di una comunità, porterebbe all’attenzione della politica nazionale dei

diversi Paesi le tante prestazioni che essi non prevedono e che attivano quindi processi di mobilità. Si

avrebbe così un duplice effetto: di stimolare i singoli Stati a prevedere tali prestazioni tra quelle erogate

dalla propria sanità e di ampliare, di conseguenza, il novero delle prestazioni, erogate dai servizi sanitari

pubblici, delle quali possono usufruire i cittadini europei. Per fare questo, tuttavia, se davvero si vuole

determinare una dimensione europea del diritto sociale alla salute, è necessario che l’Unione – e gli Stati

che la compongono – superino l’impostazione seguita sino ad ora, limitata solo a garantire l’equilibrio

psico-fisico dei singoli, e si pongano nella prospettiva – democratica – di perseguire il benessere della

complessiva popolazione europea.

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“La scuola è aperta a tutti”? Potenzialità e limiti del diritto all’istruzione tra

ordinamento statale e ordinamento sovranazionale

di Marco Benvenuti*

1. È un tema, al tempo stesso, suggestivo e controverso quello che mi è stato chiesto di affrontare, se

non altro perché l’istruzione e il suo diritto sono una parte più o meno lunga e più o meno intensa

dell’esperienza di ciascuno di noi. Rispetto alla scuola vale, dunque, in una duplice prospettiva

l’ammonimento oraziano “mutato il nome, la favola è fatta per te”1: personale, per la ragione poc’anzi

detta, e generale, per il rilievo paradigmatico che il diritto all’istruzione, come nella sua configurazione

costituzionale e così nell’attuazione legislativa e nell’applicazione giurisprudenziale che ne sono

conseguite, assume nell’Italia del tempo presente.

Non ho fatto volutamente riferimento, in queste mie battute inziali, all’Unione europea, perché

considero doveroso, in proposito, svolgere una precisazione preliminare. Ritengo infatti che il

medesimo oggetto – il diritto all’istruzione, per l’appunto – risponda a logiche divergenti e, in qualche

misura, anche dissonanti nell’ordinamento statale e nell’ordinamento sovranazionale, tanto che i

principali enunciati di riferimento (rispettivamente, l’art. 34 Cost. e l’art. 14 CDFUE) sono

topograficamente collocati l’uno in un titolo relativo ai “rapporti etico-sociali” e l’altro in un capo

intestato alla “libertà”. Ciò si riverbera inevitabilmente sui contenuti propri delle due disposizioni

considerate. Per un verso, l’art. 34 Cost. si apre con una solenne affermazione di principio, “la scuola è

aperta a tutti” (co. 1); si sviluppa attraverso tre distinti diritti sociali, ovverosia il diritto ad una scuola

aperta (co. 1), il diritto alla gratuità dell’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni (co. 2), e il

* Si è ritenuto utile corredare il testo con i pertinenti riferimenti bibliografici, ancorché sommari e limitati all’ultimo quinquennio (2014-2018), mentre per quelli precedenti si rinvia da subito a quanto riportato in M. BENVENUTI, L’istruzione come diritto sociale, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, a cura di F. Angelini e M. Benvenuti, Napoli, 2014, pp. 147 ss.; ID., Presentazione del seminario sul tema “L’italiano, l’insegnamento e la Costituzione” svoltosi presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” il 27 aprile 2015”, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; ID., Un “problema nazionale”, in Federalismi.it, 2015, fasc. I, pp. 2 ss.; ID., Articolo 34, in La Costituzione italiana, a cura di F. Clementi et al., Bologna, 2018, vol. I, pp. 226 ss. 1 QUINTO ORAZIO FLACCO, Le satire, trad. it. in ID., Le opere, Torino, 1975, p. 93 o I, 69-70.

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diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi (co. 3); giunge financo ad esplicitare gli strumenti

attraverso i quali rendere effettivo l’ultimo dei diritti costituzionali summenzionati (co. 4)2. Per un altro

verso, l’art. 14 CDFUE evoca il diritto all’istruzione in tandem con l’“accesso alla formazione

professionale e continua” (§ 1); qualifica l’accesso gratuito all’istruzione obbligatoria come una “facoltà”

(§ 2); menziona un duplice profilo de libertate, cioè la libertà di creare istituti di insegnamento e il diritto

dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni

religiose, filosofiche e pedagogiche (§ 3)3. Si tratta, a ben vedere, di due grammatiche normative

difficilmente sovrapponibili o anche solo raffrontabili, in ragione sia della diversità di contenuto

riscontrabile, rispettivamente, nell’art. 34 Cost. e nell’art. 14 CDFUE, sia del più o meno intenso grado

di efficacia dei singoli enunciati normativi che vi si possono enucleare e, conseguentemente,

dell’attitudine di ciascuno di essi a fungere da parametro nei confronti della legislazione derivata.

I due profili della questione, per la loro rilevanza, richiedono quale considerazione ulteriore. In primo

luogo, a un raffronto anche sommario con la Carta repubblicana del 1947 spicca nel diritto dell’Unione

europea la mancata considerazione dell’istruzione quale materia autonomamente concepita e

configurata. Essa, infatti, compare all’art. 6, lett. e), TFUE4, unitamente a “formazione professionale,

gioventù e sport”, come un ambito nel quale “l’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a

sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri”. Si tratta dei medesimi oggetti che

campeggiano nel titolo XII della parte III del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea,

all’interno del quale l’art. 165 TFUE, a proposito dell’istruzione, prevede la possibilità per

l’ordinamento sovranazionale di adottare “azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi

armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”, e “raccomandazioni”

(165, § 4, TFUE)5.

Si è di fronte, com’è facile avvedersi, ad una disciplina scarna e vaga, nonché soprattutto – e sono così

giunto al secondo aspetto del problema – priva di forza giuridica autonoma e di portata sistematica, che

2 Cfr. E. FAGNANI, Tutela dei diritti fondamentali e crisi economica, Milano, 2014, passim; C. SALAZAR, Le dimensioni costituzionali del diritto all’istruzione, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 31 ss.; M. DE

BENEDETTO, Il diritto sociale all’istruzione, in I diritti sociali nella pluralità degli ordinamenti, a cura di E. Catelani e R. Tarchi, Napoli, 2015, pp. 73 ss.; A.M. POGGI, Il diritto all’istruzione come diritto sociale, ivi, pp. 59 ss.; E. CARLONI, Il diritto all’istruzione come diritto di cittadinanza, in Cittadinanze amministrative, a cura di A. Bartolini e A. Pioggia, Firenze, 2016, pp. 81 ss.; G. GALAZZO, “Obbligatoria e gratuita”, in Costituzione e istruzione, a cura di G. Matucci e F. Rigano, Milano, 2016, pp. 325 ss.; E. ROSSI ET AL., La libertà di insegnamento e il diritto all’istruzione nella Costituzione italiana, in Osservatorio costituzionale, 2016, fasc. I, pp. 1 ss. 3 Cfr. M. MIGLIAZZA, Art. 14, in Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea, II ed., s.l., 2014, pp. 1703-1704. 4 Cfr. R. BARATTA, Art. 6, in Trattati dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, II ed., Milano, 2014, pp. 393-394; L.S. ROSSI, Art. 6, in Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea, cit. nt. 4, p. 170. 5 Cfr. E. DE GÖTZEN, Art. 165, ivi, pp. 1030 ss.; D. SAVY, Art. 165, in Trattati dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, cit. nt. 5, pp. 1494 ss.

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si suole comunemente ascrivere alla formula del metodo aperto di coordinamento6. Così, compulsando

i motori di ricerca della Corte di giustizia dell’Unione europea, ci si avvede – invero senza sorpresa

particolare – che l’art. 14 CDFUE viene richiamato solamente in un’ordinanza (CGUE, C-590/15 P,

ord. 10 novembre 2016, Brouillard/Corte di giustizia dell’Unione europea) e in una sentenza (CGUE, C-

523/12, sent. 12 dicembre 2013, Dirextra Alta Formazione), nelle quali, tuttavia, non si rinviene alcuno

sviluppo argomentativo di rilievo in merito al tema qui affrontato. Se pure si allarga lo sguardo ai

Trattati, si ritrova l’assunto fondamentale per cui, secondo un costante orientamento giurisprudenziale,

“gli Stati membri sono competenti, ai sensi dell’articolo 165, paragrafo 1, TFUE, a stabilire i contenuti

dell’insegnamento e l’organizzazione dei rispettivi sistemi educativi”, ancorché, naturalmente, tali

competenze debbano essere esercitate “nel rispetto del diritto dell’Unione e, segnatamente, delle

disposizioni del Trattato relative alla libertà di circolare e di soggiornare sul territorio degli Stati membri,

quale riconosciuta dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE a qualsiasi cittadino dell’Unione” (CGUE, C-

359/13, sent. 28 febbraio 2015, Martens)7.

2. L’inattitudine del diritto all’istruzione a trarre fondamento o anche solo alimento dall’ordinamento

sovranazionale appare da ultimo confermata anche dalla più recente invenzione con cui si è

maldestramente cercato di ravvivare una altrimenti introvabile dimensione sociale europea8, il Pilastro

europeo dei diritti sociali9. Si tratta di un documento solennemente proclamato dal Parlamento

europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e dalla Commissione europea il 17 novembre 2017 e

qualificato dal Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, con la consueta retorica

sovranazionale, come un “momento storico per l’Europa”. Ebbene, l’istruzione vi si trova collocata,

assai più modestamente, all’interno del capo I, intitolato “pari opportunità e accesso al mercato del

lavoro”; compare, anche questa volta, insieme alla formazione e all’apprendimento permanente (punto

01); viene correlata “al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare

pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro” (punto 01). Nello

stesso testo, a scanso di ogni possibile equivoco, si precisa altresì che “a livello dell’Unione il pilastro

europeo dei diritti sociali non comporta un ampliamento delle competenze e dei compiti dell’Unione

6 Cfr. F. CORTESE, L’istruzione tra diritto europeo e diritto nazionale, in Unità e pluralismo culturale, a cura di E. Chiti et al., Firenze, 2016, pp. 151 ss. 7 Cfr. N. MACCABIANI, La multidimensionalità sociale del diritto all’istruzione nella giurisprudenza delle Corti europee e della Corte costituzionale italiana, in Forum di Quaderni costituzionali, 2015, fasc. VI, pp. 1 ss. 8 Cfr. M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione, Napoli, 2016, passim. 9 Cfr. A. CIANCIO, Verso un “pilastro europeo dei diritti sociali”, in Federalismi.it, 2016, fasc. XIII, pp. 2 ss.; E. ALES, Il Modello Sociale Europeo dopo la crisi, in Diritti lavori mercati, 2017, pp. 485 ss.; S. GIUBBONI, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, in Quaderni costituzionali, 2017, pp. 953 ss.; A.-O. COZZI, Perché il Pilastro europeo dei diritti sociali indebolisce la Carta europea dei diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 2018, pp. 516 ss.; N. MACCABIANI, The Effectiveness of Social Rights in the EU, Milano, 2018, passim.

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conferiti dai trattati e dovrebbe essere attuato entro i limiti di tali poteri” (preambolo, punto 18). Al

contempo, si puntualizza che “lo sviluppo del pilastro europeo dei diritti sociali non compromette la

facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza

sociale e di gestire le proprie finanze pubbliche, e non deve incidere sensibilmente sull’equilibrio

finanziario dello stesso” (preambolo, punto 19).

Se questo è vero, appare impervio presagire un futuro radioso per il Pilastro europeo dei diritti sociali,

destinato piuttosto a diventare l’ultimo, in ordine di tempo, dei molti cataloghi di buone intenzioni con

cui l’ordinamento sovranazionale illustra al mondo ciò che ambirebbe a diventare. A volere invece

rimanere con i piedi ben piantati su un terreno più propriamente giuridico – l’unico sul quale è

consentito avventurarci – occorre concentrarsi, in un convegno qual è quello odierno precipuamente

dedicato ai diritti sociali, sul diritto all’istruzione all’interno dell’ordinamento statale, provando a

scandagliare tanto le potenzialità quanto i limiti dell’art. 34 Cost. e cercando, di volta in volta, di porre

l’attenzione su alcune questioni che emergono dall’attualità. Si avrà modo di tornare solo in chiusura

sulle relazioni interordinamentali in questo ambito particolare, per affrontare l’unico caso di rilievo nel

quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha svolto un ruolo, per così dire, propulsivo rispetto a

quanto asseverato dalla Corte costituzionale e, in tal modo, per sviluppare qualche considerazione

critica sul problema oggi forse più discusso in Italia quando si parla di scuola: il precariato scolastico. Si

concluderà, dunque, sui gravi e seri problemi che il reclutamento del relativo personale, cagionato dalla

torbida stratificazione normativa sia antecedente che successiva alla l. n. 107/201510, sta attraversando e

sugli effetti deleteri che ne discendono, in particolare, sulla garanzia del diritto all’istruzione.

3. Non si comprende appieno la centralità costituzionale del diritto all’istruzione, che emerge già in

molte e belle discussioni svoltesi in seno all’Assemblea costituente11, a meno di collocare gli enunciati

alfine racchiusi nell’art. 34 Cost. nel prisma dei princìpi fondamentali della Carta repubblicana del 1947

e, in particolare, degli artt. 9, co. 1, e 1, co. 1, Cost.12. Ad essi occorre fare riferimento al fine di

10 Cfr. A.M. ALFIERI, Luci e ombre della riforma della scuola, in Iustitia, 2015, pp. 429 ss.; A. POGGI, Il d.d.l. sulla Buona scuola, in Federalismi.it, 2015, fasc. IX, pp. 2 ss.; M. D’ADDAZIO, L’organizzazione e la gestione delle istituzioni scolastiche oggi, Roma, 2015, passim; M. COCCONI, Gli ingredienti necessari per la ricetta di una “buona” autonomia scolastica, in Le istituzioni del federalismo, 2016, pp. 647 ss.; EAD., Le scommesse della cosiddetta Buona scuola, in Libro dell’anno del diritto 2016, Roma, 2016, pp. 259 ss.; M. NAVILLI, “La buona scuola”, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2016, pp. 613 ss.; E. PICOZZA, Linee generali della riforma della scuola italiana, in V. CAPUZZA ET AL., La buona scuola, Torino, 2016, pp. 1 ss.; A. ROMEO, Autonomia scolastica e diritti fondamentali, in Nuove autonomie, 2016, pp. 55 ss.; N. SPIRITO, Il sistema nazionale di reclutamento del personale docente, in V. CAPUZZA ET AL., La buona scuola, cit., pp. 73 ss.; M. FALANGA, Diritto scolastico, Brescia, 2017, passim; M. COCCONI, Decreti attuativi della riforma cosiddetta della Buona scuola, in Libro dell’anno del diritto 2018, Roma, 2018, pp. 184 ss. 11 Cfr. F. CORTESE, La costituzione scolastica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2018, pp. 45 ss. 12 Cfr. G. LANEVE, La scuola per la Costituzione e la Costituzione per la scuola, in Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre, Torino, 2014, vol. III, pp. 1473 ss.

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intendere appieno la valenza architettonica del diritto qui considerato e, con essa, la funzione a cui la

scuola repubblicana nel suo complesso è vocata.

In virtù dell’art. 9, co. 1, Cost.13, il diritto all’istruzione è espressione di quell’obiettivo di sicura sostanza

costituzionale che è la promozione dello sviluppo della cultura, che si accompagna a quello della ricerca

scientifica e tecnica, nonché alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico nazionale (art.

9, co. 2, Cost.). In questa cornice, in cui la “Repubblica” e la “Nazione” aprono e chiudono il

medesimo articolo, il diritto in questione si inserisce a pieno titolo in un più ampio progetto di crescita

intellettuale individuale e collettiva – di incivilimento, ben potrebbe dirsi, secondo una felice

espressione cara a Gian Domenico Romagnosi – a cui tutti e ciascuno sono chiamati a partecipare.

Quanto all’art. 1, co. 1, Cost., da parte sua, tale diritto è proiettato sul piano della continua

sostanziazione della cittadinanza repubblicana e, dunque, fornisce sempre nuova linfa al pactum societatis.

Da questo punto di vista, non v’è dubbio che il diritto all’istruzione serve a conoscere – da qui

massimamente il summenzionato legame di derivazione con l’art. 9, co. 1, Cost. – ma esso risulta

parimenti necessario per conoscersi e persino riconoscersi, in questo caso, in quanto appartenenti

all’Italia, prima parola della Carta repubblicana del 1947, cioè al Paese còlto nella sua immediata

dimensione storica, geografica, culturale, esistenziale. Tale duplice inquadramento dell’art. 34 Cost. nel

più ampio orizzonte ordinamentale porta a conseguenze di grande portata, perché fornisce la cifra

tangibile di una collettività che incessantemente interroga se stessa sulle ragioni più profonde della con-

vivenza. Di seguito si proverà a sollecitare l’attenzione su due aspetti concreti da cui emerge l’intreccio

tra il diritto all’istruzione, da un lato, e ciascuno dei due princìpi fondamentali suevocati, dall’altro.

4. In primo luogo, l’inscindibile connessione tra il diritto all’istruzione e la promozione dello sviluppo

della cultura ex art. 9, co. 1, Cost. consente di collocare nella loro giusta cornice costituzionale

l’universo della scuola e l’universo del lavoro, disciplinati in due diversi titoli della parte I della Carta

repubblicana del 1947, l’uno intestato ai “rapporti etico-sociali” e l’altro relativo ai “rapporti

economici”. La questione è tornata vivamente di attualità a cagione della più recente legislazione

scolastica e, in particolare, del discusso e discutibile istituto dell’alternanza scuola-lavoro14 – disciplinato

prima all’art. 4 l. n. 53/2003, poi con il d.lgs. n. 77/2005 e, da ultimo, all’art. 1, co. 33 ss., l. n. 107/2015

– la cui funzione normativamente predeterminata è di “assicurare ai giovani, oltre alle conoscenze di

13 Cfr. V. ATRIPALDI, Cultura e istruzione per la formazione di una cittadinanza consapevole, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 21 ss.; G. ZAGREBELSKY, Fondata sulla cultura, Torino, 2014, passim; M. AINIS e M. FIORILLO, L’ordinamento della cultura, III ed., Milano, 2015, passim; G. REPETTO, Articolo 9, in La Costituzione italiana, cit. nt. 1, vol. I, pp. 65 ss. 14 Cfr. E. MASSAGLI, L’alternanza formativa tra “la buona scuola” e jobs act, in Le nuove regole del lavoro dopo il jobs act, a cura di M. Tiraboschi, Milano, 2016, pp. 225 ss.; D. GENTILINI, Le novità in materia di apprendistato introdotte dal d.lgs. n. 81/2015, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2017, pt. I, pp. 107 ss.

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base, l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro” (art. 4, co. 1, l. n. 53/2003) e di

“incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti” (art. 1, co. 33, l. n.

107/2015).

Sulla scorta di tali intendimenti, nel momento in cui lo stesso art. 1, co. 33, l. n. 107/2015 stabilisce

l’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro e ne fissa la non trascurabile durata in almeno 400 ore negli

ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali e in almeno 200 ore negli ultimi tre anni dei licei,

emerge (pre)potente lo sviamento della disciplina legislativa considerata rispetto alla trama

costituzionale di riferimento e, per quanto qui più rileva, all’art. 9, co. 1, Cost. Infatti, non v’è dubbio

che la stessa Carta repubblicana del 1947 esalta il lavoro in tutte le sue forme e, in ispecie, “cura la

formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35, co. 2, Cost.)15. Tuttavia, proprio il plesso

normativo formato, rispettivamente, dall’art. 34 Cost. e dall’art. 35 Cost. prospetta due approcci

costituzionalmente distinti, per cui tra la scuola e il lavoro non può mai esservi propriamente

“alternanza”, ma solo alternatività o, per meglio dire, consecutività, nel senso che il secondo ben può

conseguire alla prima, ma mai surrogarsi ad essa.

Di contro, il rischio lucidamente paventato in un recente “parere autonomo” reso sul punto dal

Consiglio superiore della pubblica istruzione il 25 luglio 2018 è che “si configur[i] un ruolo e un

compito della scuola solo funzionale alle esigenze più immediate del mondo produttivo a nocumento di

una preparazione ampia e forte che è nell’interesse dello studente e dello stesso mondo del lavoro. Il

rischio è che l’A[lternanza] S[cuola] L[avoro] non si configuri come un’esperienza educativa e una

modalità didattica finalizzata alla crescita dell’individuo in un contesto formativo ampio, stimolante e

motivante, ma piuttosto come un’esperienza al servizio dei soggetti ospitanti rispetto ai quali gli

‘studenti-lavoratori’ si devono rendere disponibili a qualsiasi richiesta. In tali situazioni si corre il rischio

che il giovane venga ‘formato’ ad assumere un atteggiamento di passività e adattabilità alle esigenze

dell’azienda, oggi per un obiettivo scolastico, domani per non perdere il lavoro”.

Tali rilievi, per la loro gravità, meritano di essere attentamente considerati. Si assiste, infatti,

all’intollerabile paradosso per cui, dopo una stagione nella quale anche a chi ha un lavoro viene

garantito di poter studiare – si ricordano come paradigmatici, in questo senso, l’art. 10 l. n. 300/1970,

sulla figura dei “lavoratori studenti”, e l’art. 28 del contratto nazionale per i lavoratori addetti

all’industria metalmeccanica privata e alla installazione di impianti del 19 aprile 1973, sulle c.d.

centocinquanta ore – e, in anni a noi più vicini, anche a livello costituzionale è la formazione

professionale ad essere viepiù attratta nell’orbita dell’istruzione e non viceversa (art. 117, co. 3, Cost.,

15 Cfr. E. FERIOLI, Articolo 35, in La Costituzione italiana, cit. nt. 1, pp. 235 ss.

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come novellato con l’art. 3 l. n. 3/2001)16; ora, invece, a chi va scuola viene imposto il dovere di

dedicare una quota significativa del proprio tempo ad un’attività letteralmente intitolata al “lavoro” e

che, in quanto tale, dovrebbe comportare “retribuzione” (artt. 36, co. 1, e 37, co. 1 e 3, Cost.) e

“salari[o]” (art. 37, co. 2, Cost.). Poiché ciò naturalmente non accade, posto che il legislatore ordinario

si è premunito di specificare (legittimamente?) che “i periodi di apprendimento in situazione

lavorativa… non costituiscono rapporto individuale di lavoro” (art. 1, co. 2, d.lgs. n. 77/2015), la

conclusione che ne discende, invero sconfortante, è che il “lavoro” svolto in “alternanza” alla “scuola”

rischia di risolversi in quel che per la Costituzione non potrebbe mai essere: un lavoro in larga parte

minorile (art. 37, co. 3, Cost.) e gratuito.

5. Passando quindi a un secondo profilo involgente la relazione genetica tra il diritto all’istruzione e

l’art. 9, co. 1, Cost., il principio della promozione dello sviluppo della cultura che vi si trova recato è tale

da investire quoad effecta anche la lingua italiana, la quale costituisce, a giusto e pieno titolo, un “vettore

della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale” (C. cost., sent. n. 42/2017)17. Si

tratta di una questione della quale anche la Corte costituzionale si è dovuta suo malgrado occupare, in

anni recenti, a seguito dell’improvvida decisione del Politecnico di Milano – dunque di un’università

statale – di impartire i propri corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua

16 Cfr. M. GIACHETTI FANTINI, L’istruzione e la formazione professionale, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 367 ss.; P.G. RINALDI, Istituzioni scolastiche e autonomie territoriali, in Tra amministrazione e scuola, a cura di F. Cortese, Napoli, 2014, pp. 113 ss.; G. PERNICIARO, L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni, in Issirfa.cnr.it, 2016, pp. 1 ss.; P.A. VARESI, L’istruzione e la formazione professionale, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 169 ss. 17 Cfr. M. GALLO, Le sentenze interpretative di rigetto, in Critica del diritto, 2016, pp. 155 ss.; G. AMOROSO, Interpretazione adeguatrice e condizioni di ammissibilità della questione incidentale di costituzionalità, in Il foro italiano, 2017, pt. I, cc. 2560 ss.; D. ANDRACCHIO, Il “primato” della lingua italiana tra globalizzazione, plurilinguismi e obiettivi di internazionalizzazione universitaria, in Giustamm, 2017, fasc. VIII, pp. 1 ss.; C. BALDUS e P.-C. MÜLLER-GRAFF, Suicide, in Italian Journal of Public Law, 2017, pp. 583 ss.; M.A. CABIDDU, L’italiano siamo noi, in L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, Milano, 2017, pp. 15 ss.; EAD., La sentenza costituzionale n. 42 del 2017, in Studium iuris, 2017, pp. 1324 ss.; Q. CAMERLENGO, Istruzione universitaria, primato della lingua italiana, eguaglianza sostanziale, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.; P. CARETTI, A margine della sentenza della Corte costituzionale n. 42/2017, in L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, cit., pp. 127 ss.; ID. e A. CARDONE, Il valore costituzionale del principio di ufficialità della lingua italiana, in Giurisprudenza costituzionale, 2017, pp. 384 ss.; E. CAVASINO, Lingua ufficiale e uso di altre lingue tra funzioni della pubblica amministrazione ed autonomia privata, in Federalismi.it, 2017, fasc. VIII, pp. 2 ss.; V. COCOZZA, A proposito della lingua italiana nelle Università, in Quaderni costituzionali, 2017, pp. 371 ss.; D.U. GALETTA, Esigenze di internazionalizzazione e principi costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento, in Giurisprudenza costituzionale, 2017, pp. 401 ss.; EAD., Internazionalizzazione degli Atenei e tutela dei principi costituzionali del primato delle lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento, in Giustamm, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.; M. GNES, Una d’arme, di lingua…, in Giornale di diritto amministrativo, 2017, pp. 324 ss.; G. MILANI, Una sentenza anacronistica?, in Federalismi.it, 2017, fasc. IX, pp. 2 ss.; C. NAPOLI, A proposito della lingua italiana nelle Università, in Quaderni costituzionali, 2017, pp. 374 ss.; F. RIMOLI, Internazionalizzazione degli atenei e corsi in lingua straniera, in Giurisprudenza costituzionale, 2017, pp. 392 ss.; R. CARTA, La lingua come elemento identitario e vettore di trasmissione di cultura tra esigenze di internazionalizzazione e autonomia universitaria, in Forum di Quaderni costituzionali, 2018, fasc. V, pp. 1 ss.

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inglese, facendo leva sulla laconica previsione, contenuta nell’art. 2, co. 2, lett. l), l. n. 240/2010, del

“rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso… l’attivazione, nell’ambito delle risorse

umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di

forme di selezione svolti in lingua straniera”18.

Non è questa la sede per tornare sulle aporie della disposizione da ultimo evocata, del tutto inidonea, in

ragione dell’algido riferimento alle “risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione

vigente”, a consentire anche solo l’abbrivio di una seria politica universitaria in tema di insegnamento

delle lingue e non solo di lingua degli insegnamenti, com’è stato anche nel caso giudiziario del

Politecnico di Milano. Tuttavia, la decisione di tale Ateneo ha avuto il merito (ex malo bonum) di

illuminare i profili giuridici della questione, sulla quale si sono espressi con unità di intenti tanto i giudici

amministrativi (TAR Lombardia-Milano, sez. III, sent. n. 1348/2013; Cons. St., sez. VI, sent. n.

617/2018)19, quanto il giudice costituzionale (C. cost., sent. n. 42/2017), adìto sul punto dallo stesso

Consiglio di Stato (Cons. St., sez. VI, ord. n. 242/2015)20. Nel corso di una controversia lunga cinque

anni, il Politecnico di Milano è risultato soccombente in ogni grado di giudizio, per avere vulnerato con

la propria decisione il “primato della lingua italiana”, la cui “centralità costituzionalmente necessaria…

si coglie particolarmente nella scuola e nelle università” (C. cost., sent. n. 42/2017). Ne deriva, anche sul

fondamento dell’art. 34 Cost., l’illegittimità della previsione di interi corsi di studio impartiti

esclusivamente in lingua inglese; mentre ben potrebbero le università sia “affiancare all’erogazione di

corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, anche in considerazione della specificità di

determinati settori scientifico-disciplinari”, sia erogare “singoli insegnamenti in lingua straniera” (Cons

St., sez. VI, sent. n. 617/2018), purché ciò avvenga “secondo ragionevolezza, proporzionalità e

adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del

18 Cfr. G. DE MINICO, Inglese vs italiano tra mercato e diritti fondamentali, in Politica del diritto, 2014, pp. 189 ss.; EAD., Il monopolio anglofono vs. i diritti fondamentali, in Osservatorio costituzionale, 2014, fasc. I, pp. 1 ss. 19 Cfr. D.U. GALETTA, Internazionalizzazione degli Atenei e corsi di studio in lingua straniera, in Federalismi.it, 2018, fasc. IV, pp. 2 ss. 20 Cfr. M.A. CABIDDU, Intervento, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; A. CARDI, L’autonomia universitaria tra tradizione e modernità, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, 2015, fasc. IV, pp. 86 ss.; A. CARDONE, Tre questioni costituzionali in tema di ufficialità della lingua italiana e di insegnamento universitario, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; P. CHIRULLI, Introduzione, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; G. DELLA

CANANEA, Lingue e diritti, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; M. GIOVANNINI, Internazionalizzazione e lingua degli insegnamenti universitari, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2015, pp. 139 ss.; C. NAPOLI, L’internazionalizzazione delle Università italiane tra previsioni legislative e discrezionalità amministrativa, in Federalismi.it, 2015, fasc. XVII, pp. 2 ss.; V. PIERGIGLI, Le minoranze linguistiche storiche nell’ordinamento italiano, in Federalismi.it, 2015, fasc. VIII, pp. 2 ss.; E. CHITI e M.E. FAVILLA, Il regime linguistico delle amministrazioni nel processo di apertura europea e globale del sistema amministrativo italiano, in Unità e pluralismo culturale, cit. nt. 7, pp. 251 ss.; M.C. GRISOLIA, La lingua italiana, in La lingua come fattore di integrazione sociale e politica, a cura di P. Caretti e G. Mobilio, Torino, 2016, pp. 13 ss.; V. PIERGIGLI, Uguali senza distinzioni di lingua, in Percorsi di eguaglianza, a cura di F. Rescigno, Torino, 2016, pp. 271 ss.; G. TARLI BARBIERI, La lingua nelle aule universitarie, in La lingua come fattore di integrazione sociale e politica, cit., pp. 207 ss.

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primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della

libertà d’insegnamento” (C. cost., sent. n. 42/2017). In definitiva, tanto i giudici amministrativi quanto il

giudice costituzionale hanno ricusato qualunque stato di minorità della lingua italiana nella scuola,

sull’onda di una malintesa concezione dell’internazionalizzazione degli studi universitari, destinata a

risolversi, come in questo caso, in una forma surrettizia ma non meno clamorosa di subalternità

culturale.

6. Proprio la vicenda contenziosa da ultimo rievocata è in grado di esprimere compiutamente e

concretamente la coessenzialità del diritto all’istruzione nei confronti non solo della promozione dello

sviluppo della cultura, di cui all’art. 9, co. 1, Cost., ma anche della costruzione della cittadinanza

repubblicana, a cui richiama in capite libri l’art. 1, co. 1, Cost. In questa seconda prospettiva, venendo a

un primo profilo di concretizzazione, tanto la “scuola” (art. 34, co. 1, Cost.) quanto l’“istruzione

inferiore” (art. 34, co. 2 Cost.) sono testualmente prospettate al singolare e, dunque, assumono una

connotazione fondamentalmente unitaria; mentre sono i “gradi più alti degli studi” (art. 34, co. 3,

Cost.), semmai, ad essere assunti nella loro pluralità e poliedricità.

Tale considerazione fonda, sul piano dei diversi livelli territoriali di potere costituzionalmente evocati

all’art. 114, co. 1, Cost., l’esplicita e necessaria istituzione di “scuole statali per tutti gli ordini e gradi”

(art. 33, co. 2, Cost.)21, nonché la prospettazione all’art. 117, co. 2, lett. n), Cost. di “norme generali

sull’istruzione” distinte dai princìpi fondamentali dell’“istruzione”, di cui all’art. 117, co. 3, Cost., e

prevedute quale oggetto di una potestà legislativa esclusiva dello Stato. Come stabilito dalla Corte

costituzionale, sul punto, “il sistema generale dell’istruzione, per sua stessa natura, riveste carattere

nazionale, non essendo ipotizzabile che esso si fondi su una autonoma iniziativa legislativa delle

Regioni, limitata solo dall’osservanza dei principi fondamentali fissati dallo Stato” (C. cost., sent. n.

200/2009)22.

Certamente, non si ignora che le “norme generali sull’istruzione” ex art. 117, co. 2, lett. n), Cost., così

come i princìpi fondamentali dell’“istruzione” ex art. 117, co. 3, Cost., sono indicate quali ambiti

competenziali rispetto ai quali è consentito, ai sensi e per gli effetti dell’art. 116, co. 3, Cost., attribuire a

singole Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”23. Su questa strada sembrano

21 Cfr. V. DE SANTIS, L’istruzione tra Stato e Regioni, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 225 ss.; M. DRIGANI, L’istruzione tra Stato e Regioni, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 51 ss.; A. IANNUZZI, Articolo 33, in La Costituzione italiana, cit. nt. 1, pp. 220 ss. 22 Cfr. C.F. FERRAJOLI, La disciplina regionale in materia di diritto all’istruzione dei migranti, in I diritti degli altri, a cura di E. Di Salvatore e M. Michetti, Napoli, 2014, pp. 207 ss.; M. TROISI, Il perenne conflitto tra Stato e Regioni in materia d’istruzione, in Diritti fondamentali, 2018, fasc. I, pp. 1 ss. 23 Cfr. A. MORELLI, Diritto all’istruzione e autonomie speciali, in Diritti e autonomie territoriali, a cura di Id. e L. Trucco, Torino 2014, pp. 329 ss.

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essersi da ultimo avviate, pur con modalità diverse, le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto24,

le ultime due per il tramite di referendum consultivi svoltisi il 22 ottobre 201725. Resta però impregiudicata

la questione della sostenibilità e, dunque, della compatibilità costituzionale degli eventuali profili di

differenziazione in tema di istruzione, posto che la stessa giurisprudenza costituzionale ha attribuito

proprio agli artt. 33 e 34 Cost., e quindi anche al diritto all’istruzione, una “valenza necessariamente

generale ed unitaria che identifica un ambito di competenza esclusivamente statale” (C. cost., sent. n.

200/2009). Occorre allora collocare all’interno di questa cornice complessiva gli accordi preliminari in

merito all’intesa prevista all’art. 116, co. 3, Cost. tra il Governo e le tre Regioni interessate del 28

febbraio 2018, i quali, per un verso, mantengono fermo “l’assetto ordinamentale statale dei percorsi di

istruzione e delle relative dotazioni organiche”; e, per un altro, affrontano in maniera identica il

prospettato conferimento delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa e

legislativa”, come riporta l’art. 6 di ciascuno degli accordi in questione. Nell’attesa degli sviluppi che

(forse) seguiranno, tale inquadramento iniziale sembra intanto avvalorare, ove ve ne fosse bisogno, la

considerazione che ogni eventuale differenziazione della potestà legislativa regionale in tema di

istruzione si presenta limitata in re ipsa.

Al medesimo tratto unitario che caratterizza l’impronta costituzionale in materia si può altresì ascrivere

la soluzione di due recenti e vivaci controversie che hanno visto contrapporsi innanzi alla Corte

costituzionale lo Stato e la Regione Veneto, con quest’ultima sempre e inesorabilmente soccombente. Il

primo caso ha avuto ad oggetto il d.l. n. 73/2017, conv. con mod. nella l. n. 119/201726, relativo alle

24 Cfr. A. BONOMI e R.G. RODIO, Verso un regionalismo differenziato?, in Dirittifondamentali.it, 2017, fasc. II, pp. 1 ss.; O. CHESSA, Il regionalismo differenziato e la crisi del principio autonomistico, in Astrid rassegna, 2017, fasc. XIV, pp. 1 ss.; F. CORTESE, La nuova stagione del regionalismo differenziato, in Le Regioni, 2017, pp. 689 ss.; G. FALCON, Il regionalismo differenziato alla prova, diciassette anni dopo la riforma costituzionale, in Le Regioni, 2017, pp. 625 ss.; S. MANGIAMELI, Appunti a margine dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Le Regioni, 2017, pp. 661 ss.; A. MORELLI, Ascese e declini del regionalismo italiano, in Le Regioni, 2017, pp. 321 ss.; R. TONIATTI, L’autonomia regionale ponderata, in Le Regioni, 2017, pp. 635 ss.; L. VANDELLI, Prospettive di differenziazione regionale, in Astrid rassegna, 2017, fasc. XIII, pp. 1 ss.; M. CAMMELLI, Regionalismo differenziato oggi, in Astrid rassegna, 2018, fasc. X, pp. 1 ss.; E. CATELANI, Nuove richieste di autonomia differenziata ex art. 116 comma 3 Cost., in Osservatoriosullefonti.it, 2018, fasc. II, pp. 2 ss.; V. NASTASI, Il regionalismo differenziato e i problemi ermeneutici sorti in seguito alle recenti iniziative di attuazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione, in Forum di Quaderni costituzionali, 2018, fasc. V, pp. 1 ss.; A. NATALINI, Il regionalismo differenziato, in Astrid rassegna, 2018, fasc. X, pp. 1 ss.; S. NERI, I nodi interpretativi e le possibili soluzioni organizzative per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in Diritti regionali, 2018, fasc. II, pp. 3 ss.; G. PICCIRILLI, Gli “Accordi preliminari” per la differenziazione regionale, in Diritti regionali, 2018, fasc. II, pp. 3 ss. 25 Cfr. M. CARLI, Vizi e virtù dei referendum consultivi in Lombardia e Veneto, in Osservatoriosullefonti.it, 2017, fasc. III, pp. 2 ss.; L. DAINOTTI e L. VIOLINI, I referendum del 22 ottobre, in Le Regioni, 2017, pp. 711 ss.; L.A. MAZZAROLLI, Annotazioni e riflessioni sul referendum in materia di “autonomia” che si terrà in Veneto il 22 ottobre 2017, in Federalismi.it, 2017, fasc. XVII, pp. 2 ss.; A. MORRONE, Populismo referendario, in Federalismi.it, 2017, pp. 2 ss. 26 Cfr. S. AGOSTA, Il legislatore ed il nodo di Gordio della prevenzione vaccinale, in Consulta online, 2017, fasc. II, pp. 380 ss.; A. AMATO, Decreto-legge vaccini, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. VI, pp. 1 ss.; F.S. FLORIO, La questione vaccinale nel quadro degli assetti costituzionali, in Le istituzioni del federalismo, 2017, pp. 399 ss.; A. MAZZITELLI, Il ragionevole dubbio in tema di vaccinazioni obbligatorie, in Federalismi.it - Osservatorio di diritto sanitario, 2017, pp. 2 ss.; A.

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vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a sedici anni di età e alla previsione, per i casi di

inadempimento, di sanzioni amministrative pecuniarie e del divieto di accesso ai servizi educativi per

l’infanzia. In tale circostanza, il giudice costituzionale ha ricondotto alle “norme generali

sull’istruzione”, di cui all’art. 117, co. 2, lett. n), Cost., le relative disposizioni in materia di iscrizione e

adempimenti scolastici, giacché queste “vengono a definire caratteristiche basilari dell’assetto

ordinamentale e organizzativo del sistema scolastico” (C. cost., sent. n. 5/2018)27.

Nel secondo frangente, invece, è stata asseverata l’illegittimità costituzionale della pretesa di parte

regionale di limitare l’erogazione di prestazioni correlate al diritto all’istruzione, sulla base di un criterio

territorialmente orientato, qual è quello della residenza qualificata. Ciò era stabilito, da ultimo, all’art. 1,

co. 1, l.r. Veneto n. 6/2017 sugli asili nido, il quale prevedeva, quale titolo di precedenza per l’accesso al

relativo servizio, l’essere figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno

quindici anni o che avessero prestato attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici

anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, di mobilità o di disoccupazione. Anche

in tale frangente, spicca la motivazione della relativa declaratoria di illegittimità costituzionale,

pronunciata con riferimento ad un ampio spettro di parametri costituzionali (artt. 3, 31, co. 2, 117, co.

1, 120, co. 1, Cost.), giacché la “funzione educativa degli asili nido” si caratterizza per un’evidente

“estraneità… del ‘radicamento territoriale’ ” (C. cost., sent. n. 107/2018)28.

MORELLI ET AL., Vaccini obbligatori, in Rivista di BioDiritto, 2017, fasc. II, pp. 15 ss.; A.A. NEGRONI, Sul concetto di “trattamento sanitario obbligatorio”, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2017, fasc. IV, pp. 1 ss.; ID., Decreto legge sui vaccini, riserva di legge e trattamenti sanitari obbligatori, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. V, pp. 1 ss.; ID., L’obbligatorietà delle vaccinazioni (decreto legge n. 73/2017) è questione eminentemente di diritto costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. VI, pp. 1 ss.; ID., Trattamenti sanitari obbligatori e tutela della salute individuale e collettiva, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. XI, pp. 1 ss.; M. TOMASI, Politiche sanitarie vaccinali fra diritto, scienza e cultura, in Quaderni costituzionali, 2017, pp. 903 ss.; M. MONTANARI e L. VENTALORO, La nuova legge sui vaccini tra prevenzione, obblighi e criticità, in Famiglia e diritto, 2018, pp. 177 ss.; M. RENNA, Vaccinazioni obbligatorie, in Diritto e salute, 2018, fasc. III, pp. 36 ss. 27 Cfr. U. ADAMO, Materia “non democratica” e ragionevolezza della legge, in Consulta online, 2018, fasc. I, pp. 296 ss.; D. CODUTI, La disciplina sulle vaccinazioni obbligatorie alla prova di forma di Stato e forma di governo, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2018, fasc. III, pp. 1 ss.; A. IANNUZZI, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in Consulta online, 2018, fasc. I, pp. 87 ss.; M. LUCIANI, Osservazioni conclusive, in Diritto e salute, 2018, fasc. III, pp. 110 ss.; C. MAGNANI, I vaccini e la Corte costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 2018, fasc. IV, pp. 1 ss.; D. MORANA, Diritto alla salute e vaccinazioni obbligatorie, in Diritto e salute, 2018, fasc. III, pp. 48 ss.; G. PASCUZZI, La spinta gentile verso le vaccinazioni, in Mercato concorrenza regole, 2018, pp. 89 ss.; ID., Vaccini, in Il foro italiano, 2018, pt. I, cc. 737 ss.; F. PASSANANTI, Riflessioni sugli obblighi vaccinali, tra esigenze di unitarietà e ridotti spazi per le Regioni, in Consulta online, 2018, fasc. II, pp. 473 ss.; A. PATANÈ, Obbligo di vaccinazione e riparto di competenze legislative, in Rivista italiana di medicina legale, 2018, pp. 265 ss.; L. PEDULLÀ, Profili costituzionali in materia di vaccinazioni, in Federalismi.it - Osservatorio di diritto sanitario, 2018, pp. 2 ss.; S. PENASA, Obblighi vaccinali, in Quaderni costituzionali, 2018, pp. 47 ss.; C. PINELLI, L’obbligo di vaccinazione fra Stato e Regioni, in Diritto e salute, 2018, fasc. II, pp. 28 ss.; L. PRINCIPATO, Obbligo di vaccinazione, “potestà” genitoriale e tutela del minore, in Diritto e salute, 2018, fasc. III, pp. 1 ss.; C. SALAZAR, La Corte costituzionale immunizza l’obbligatorietà dei vaccini, in Quaderni costituzionali, 2018, pp. 465 ss. 28 Cfr. L. ARDIZZONE, La Consulta dichiara illegittimo il criterio della “residenza prolungata sul territorio regionale” per l’ammissione all’asilo nido, in Consulta online, 2018, fasc. II, pp. 447 ss.

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7. Un secondo motivo di sicuro interesse per la stretta correlazione tra il diritto all’istruzione e la

costruzione della cittadinanza repubblicana, che si ritiene di dover enucleare dall’art. 1, co. 1, Cost.29, si

rinviene negli ultimi dati dell’Istat disponibili30, nei quali si dà conto, con riferimento all’anno scolastico

2014/2015, della nutrita presenza nelle scuole primarie e secondarie di circa 650 mila studenti stranieri,

pari a quasi il 10 per cento del totale31. Si tratta, con ogni evidenza, di bambine e bambini, ragazze e

ragazzi che studiano in tutto e per tutto quello che studiano i loro coetanei italiani, condividendo con

essi una parte importante del proprio percorso di vita. Ciò appare tanto più rilevante quanto più, a

partire dall’anno scolastico 2008/2009, tra “le conoscenze e… le competenze” che tutti gli studenti –

dunque a prescindere dal loro status civitatis – sono tenuti ad acquisire vi sono quelle relative a “

‘Cittadinanza e Costituzione’, nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale e del monte ore

complessivo previsto per le stesse” (art. 1, co. 1, d.l. n. 137/2008, conv. con mod. nella l. n. 169/2008).

Ancorché tale disciplina si presenti come confusa e lacunosa, prevedendo immancabilmente che “si

provved[a] entro i limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”

(art. 1, co. 3, d.l. n. 137/2008, conv. con mod. nella l. n. 169/2008), non v’è dubbio che la successiva

evoluzione normativa sia andata nella direzione di un potenziamento delle attività relative a

“Cittadinanza e Costituzione”. Queste ultime, infatti, via via sono state qualificate come un vero e

proprio “insegnamento” (art. 2 d.m. n. 254/2012 del Ministro dell’istruzione, dell’università e della

ricerca); hanno incluso a partire dall’anno scolastico 2012/2013 “percorsi didattici, iniziative e incontri

celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare la riflessione sugli eventi e sul significato del

Risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’Unità nazionale, alla scelta dell’inno di

Mameli e della bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione

29 Cfr. F. BILANCIA, Sovranità, in Annuario 2016. Di alcune grandi categorie del diritto costituzionale, Napoli, 2017, pp. 155 ss.; O. CHESSA, Sovranità, ivi, pp. 225 ss.; A. MORRONE, Sovranità, ivi, pp. 3 ss.; ID., Articolo 1, in La Costituzione italiana, cit. nt. 1, vol. I, pp. 13 ss. 30 Cfr. ISTAT, Studenti e scuole dell’istruzione primaria e secondaria in Italia, [2017], su www.istat.it. 31 Cfr. M. CAPESCIOTTI, Su alcune novità legislative e giurisprudenziali in tema di seconde generazioni dell’immigrazione, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2014, fasc. I, pp. 1 ss.; M. GIOVANNETTI, I giovani di origine straniera tra appartenenza di fatto e cittadinanza negata, in Il dovere di integrarsi, a cura di M. Russo Spena e V. Carbone, Roma, 2014, pp. 161 ss.; M.C. LOCCHI, Lo ius soli nel dibattito pubblico italiano, in Quaderni costituzionali, 2014, pp. 483 ss.; M. SAVINO, Quale cittadinanza per l’Italia, in Oltre lo ius soli, a cura di Id., Napoli, 2014, pp. 13 ss.; V. VOLPE, Italia, ivi, pp. 35 ss.; S. FABIANELLI, Fenomenologia dello ius soli, in Forum di Quaderni costituzionali, 2016, fasc. XI, pp. 1 ss.; C. VAGGINELLI, Cittadinanza, in Forum di Quaderni costituzionali, 2016, fasc. VII, pp. 1 ss.; E. CODINI, La cittadinanza, Torino, 2017, passim; S. FABIANELLI, Le radici dello ius soli, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.; D. PORENA, Il travagliato iter della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza, in Federalismi.it, 2017, fasc. XXI, pp. 2 ss.; A. RAUTI, Lo ius soli in Italia, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.; A. DE FUSCO, Sul diritto all’istruzione come veicolo di integrazione delle seconde generazioni dell’immigrazione in Italia, in Osservatorio costituzionale, 2018, fasc. I, pp. 1 ss.

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della storia europea” (art. 1, co. 1, l. n. 222/2012)32; infine, sono divenute “oggetto di valutazione” (art.

2, co. 4, d.lgs. n. 62/2017; nonché artt. 12, co. 3, e 17, co. 10, d.lgs. n. 62/2017, con riferimento

all’esame di Stato).

Muovendo dalla considerazione del grande numero di minori stranieri scolarizzati in Italia – una

circostanza di fatto che in nessun modo può essere sottaciuta e men che meno negata – nel corso della

XVII legislatura era stato presentato il lungimirante disegno di legge AS209233, il quale disciplinava, tra

l’altro, una nuova ipotesi di acquisto della cittadinanza italiana per beneficio di legge: quella a cui

avrebbero potuto accedere i minori stranieri i quali, avendo fatto ingresso in Italia entro il compimento

del dodicesimo anno di età, avessero “frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno

cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema di istruzione e formazione

professionale” (art. 1, lett. d). Il richiamo di quella proposta, approvata dalla Camera dei deputati il 13

ottobre 2015, ma non dal Senato della Repubblica, e conseguentemente oggi decaduta con l’avvio della

XVIII legislatura, costituisce un anacronismo che si vuole qui rimarcare; ciò tanto più in una fase, qual

è quella attuale, caratterizzata da un indirizzo politico di maggioranza recisamente avverso a rivedere in

senso ampliativo la l. n. 91/1992, ma, in tal modo, destinata a mantenere in uno stato di minorità

giuridica centinaia di migliaia di giovani spesso privi di qualunque legame con il loro paese di origine e,

perciò, con un progetto di vita fondamentalmente radicato, proprio grazie alla scuola, in Italia. Per tale

ragione, quel tentativo, seppure fallito, appare ugualmente rimarchevole per le notevoli potenzialità che

il diritto all’istruzione, ieri come oggi e come domani, è in grado di sprigionare, al punto da costituire

uno dei possibili presupposti per l’acquisizione della cittadinanza.

8. Ho già avuto modo di dire nell’incipit di questa mia riflessione che dall’art. 34, co. 1, Cost. è d’uopo

enucleare, in primo luogo, il principio costituzionale della scuola aperta, il quale fa da cornice, per così

dire, al diritto all’istruzione nel suo complesso. Ciò deriva inequivocabilmente dalla assai ampia ed

incisiva formulazione prescelta per tale enunciato, “la scuola è aperta a tutti”, la quale scaturisce

dall’ancor più perentorio art. 28, co. 1, del Progetto di Costituzione approvato dalla Commissione per la

Costituzione dell’Assemblea costituente, che recava “la scuola è aperta al popolo”.

Al principio costituzionale della scuola aperta può essere attribuita una duplice proiezione, ora verso

l’interno ed ora verso l’esterno della scuola stessa, che anche in questo caso è utile apprendere

attraverso l’illustrazione dei suoi sviluppi più recenti. Verso l’interno, la prima e la più immediata

32 Cfr. L. CORRADINI, La Costituzione nella scuola, Trento, 2014, passim; F. PIZZOLATO, La dimensione pedagogica della Costituzione, in Iustitia, 2014, pp. 409 ss.; S. ILLARI, Insegnamento della Costituzione ed educazione civica, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 425 ss. 33 Cfr. d.d.l. AS2092, XVII legislatura, Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza, su www.senato.it.

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specificazione del principio in esame è che, se la scuola è aperta a tutti34, deve esserlo anche nei

confronti di ciascuno, nel senso che va “garanti[to] il diritto all’istruzione malgrado ogni possibile

ostacolo che di fatto impedisca il pieno sviluppo della persona” (C. cost., sent. n. 215/1987). È

d’obbligo, a questo proposito, almeno un riferimento al tema dell’istruzione degli studenti disabili

(rectius: con disabilità)35, sul quale, nonostante una legislazione tutto sommato evolutiva ed evoluta –

come dimostra, da ultimo, il d.lgs. n. 66/2017, intitolato alla loro “inclusione scolastica”36 – è ancora

una volta la giurisprudenza, amministrativa e costituzionale, ad aver scritto pagine importanti, tanto che

il diritto in questione pare legittimamente assurgere ad archetipo di tutti i diritti sociali

costituzionalmente garantiti.

Così, limitando lo sguardo alle pronunce più recenti, è proprio da una questione di legittimità

costituzionale concernente il servizio di trasporto degli studenti portatori di handicap o di situazioni di

svantaggio che è scaturita l’impegnativa asserzione della Corte costituzionale per cui “è la garanzia dei

diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa

erogazione” (C. cost., sent. n. 275/2016)37. Il medesimo assunto è stato poi confermato anche dal

34 Cfr. D. PORENA, La Scuola, l’Università e la Formazione professionale quale possibile veicolo per i processi di migrazione circolare, in Federalismi.it, 2017, fasc. I, pp. 2 ss. 35 Cfr. E. BOSCOLO, Istruzione e inclusione, in Munus, 2014, pp. 165 ss.; E. PAPARELLA, L’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 303 ss.; S. PENASA, La persona e la funzione promozionale della scuola, in Tra amministrazione e scuola, cit. nt. 17, pp. 1 ss.; P. ADDIS, Il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, in I diritti sociali nella pluralità degli ordinamenti, cit. nt. 3, pp. 147 ss.; L. BUSCEMA, Il diritto all’istruzione degli studenti disabili, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2015, fasc. IV, pp. 1 ss.; G. ARCONZO, Il diritto allo studio delle persone con disabilità dalla Riforma Gentile ai giorni nostri, in Scritti in ricordo di Walter Fornasa, Milano, 2016, pp. 21 ss.; L. BUSATTA, L’universo delle disabilità, in Le definizioni nel diritto, a cura di F. Cortese e M. Tomasi, Napoli, 2016, pp. 335 ss.; G. MATUCCI, Il diritto ad una didattica individualizzata e personalizzata, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 298 ss.; S. TROILO, I “nuovi” diritti sociali, in La democrazia costituzionale tra nuovi diritti e deriva mediale, a cura di G. Ferri, Napoli, 2016, pp. 57 ss.; F. MASCI, L’inclusione scolastica dei disabili, in Costituzionalismo.it, 2017, fasc. II, pp. 133 ss. 36 Cfr. G. MATUCCI, “Buona Scuola”, in Osservatorio costituzionale, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.; M. BRUSCHI e S. MILAZZO, L’inclusività parcellizzata nella scuola italiana tra paradigma normativo e scelte inclusive, in Federalismi.it, 2018, fasc. II, pp. 2 ss. 37 Cfr. L. CARLASSARE, Bilancio e diritti fondamentali, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, pp. 2339 ss.; A. LUCARELLI, Il diritto all’istruzione del disabile, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, pp. 2343 ss.; F. PALLANTE, Dai vincoli “di” bilancio ai vincoli “al” bilancio, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, pp. 2499 ss.; A. ANDREONI, Diritti sociali fondamentali ed equilibrio di bilancio, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2017, pt. II, pp. 207 ss.; A. APOSTOLI, I diritti fondamentali “visti” da vicino dal giudice amministrativo, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. I, pp. 1 ss.; G. ARCONZO, I diritti delle persone con disabilità durante la crisi economica, in Diritti sociali e crisi economica, a cura di M. D’Amico e F. Biondi, Milano, 2017, pp. 209 ss.; L. ARDIZZONE e R. DI MARIA, La tutela dei diritti fondamentali ed il “totem” della programmazione, in Diritti regionali, 2017, fasc. II, pp. 2 ss.; F. BLANDO, Soggetti disabili e istruzione, in Federalismi.it, 2017, fasc. X, pp. 2 ss.; R. CABAZZI, Diritti incomprimibili degli studenti con disabilità ed equilibrio di bilancio nella finanza locale secondo Corte costituzionale n. 275/2016, in Le Regioni, 2017, pp. 593 ss.; A. CAROSI, La Corte costituzionale tra autonomie territoriali, coordinamento finanziario e garanzia dei diritti, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2017, fasc. IV, pp. 1 ss.; I. CIOLLI, I diritti sociali “condizionati” di fronte alla Corte costituzionale, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2017, pt. II, pp. 353 ss.; C. DI MARCO, La difesa dei diritti fondamentali, beni comuni incomprimibili dello Stato sociale, in Federalismi.it, 2017, fasc. VI, pp. 2 ss.; E. FURNO, Pareggio di bilancio e diritti sociali, in Nomos, 2017, fasc. I, pp. 1 ss.; F. GAMBARDELLA, Diritto all’istruzione dei

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giudice amministrativo in un nutrito contenzioso che ha riguardato la predisposizione da parte degli

istituti scolastici del “piano educativo individualizzato”, previsto all’art. 12, co. 5, l. n. 104/1992 (Cons.

St., ad. plen., sent. n. 7/2016)38. Il Consiglio di Stato ha avuto così l’occasione di evidenziare la

circolarità del rapporto tra lo studente con disabilità e la generalità dei consociati, che la scuola può

senz’altro contribuire a valorizzare: in questo senso, “l’inserimento e l’integrazione nella scuola…

anzitutto evitano la segregazione, la solitudine, l’isolamento, nonché i patimenti e i pesi che ne derivano,

in termini umani ed economici potenzialmente insostenibili per le famiglie. L’inserimento e

l’integrazione nella scuola rivestono poi fondamentale importanza anche per la società nel suo

complesso, perché rendono possibili il recupero e la socializzazione” (Cons. St., sez. VI, sent. n.

2023/2017), con un mutuo e vicendevole beneficio per tutti e per ciascuno.

Verso l’esterno, il principio della scuola aperta configura quest’ultima come un organismo vivo e attivo,

che grazie ad una continua interlocuzione con la realtà politica, economica e sociale del Paese diventa

capace di esprimere bisogni, legami e interessi dei e tra i suoi protagonisti, gli studenti. In questo senso,

appaiono meritevoli di attenzione sia il recente art. 1, co. 16, l. n. 107/2015, per cui “il piano triennale

dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di

ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte

le discriminazioni”; sia, a monte di esso, l’art. 16, co. 1, lett. d), d.l. n. 104/2013, conv. con mod. nella l.

n. 128/2013, per cui le attività di formazione e di aggiornamento obbligatori del personale scolastico

sono tese, tra l’altro, all’“aumento delle competenze relative all’educazione[,] all’affettività, al rispetto

delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere”39.

disabili e vincoli di bilancio nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Nomos, 2017, fasc. I, pp. 1 ss.; A. LONGO, Una concezione del bilancio costituzionalmente orientata, in Federalismi.it, 2017, fasc. X, pp. 2 ss.; L. MADAU, “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”, in Osservatorio costituzionale, 2017, fasc. I, pp. 1 ss.; M. PICCHI, Tutela dei diritti sociali e rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio, in Osservatoriosullefonti.it, 2017, fasc. III, pp. 2 ss.; A. BONOMI, Brevi osservazioni sugli aspetti più problematici del delicato bilanciamento fra universalismo selettivo, diritti fondamentali e vincoli di bilancio, in Federalismi.it, 2018, fasc. VII, pp. 2 ss.; M. D’ONGHIA, Welfare e vincoli e economici nella più recente giurisprudenza costituzionale, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 93 ss.; A. GUAZZAROTTI, Corte costituzionale e sindacato dinanzi alla costruzione del soggetto (a)conflittuale, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2018, fasc. I, pp. 1 ss.; M. MASSA, Previdenza, assistenza e vincoli di bilancio, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 77 ss. 38 Cfr. A. BIFANI SCONOCCHIA, Il diritto fondamentale all’istruzione degli studenti disabili e i confini della giurisdizione amministrativa esclusiva, in Nuove autonomie, 2016, pp. 141 ss.; G. DI GENIO, Ante-PEI e post-PEI nel confine tra giurisdizioni in materia di sostegno scolastico, costituzionalmente garantito, in Forum di Quaderni costituzionali, 2016, fasc. VI, pp. 1 ss.; S. TROILO, Gli atti e i provvedimenti amministrativi nel settore dell’integrazione scolastica dei disabili, in Atti e provvedimenti amministrativi delle istituzioni scolastiche autonome, a cura di M. Falanga, Torino, 2016, pp. 33 ss.; F. GIRELLI, Sostegno scolastico, in Osservatorio costituzionale, 2017, fasc. I, pp. 1 ss.; G. URBANO, La “resilienza” dei diritti fondamentali, in Diritto e processo amministrativo, 2017, pp. 2023 ss. 39 Cfr. L. FOTI, Educazione di genere, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. III, pp. 1 ss.; B. LIBERALI, L’educazione e la prospettiva del “rispetto dei generi” quale strumento per contrastare la violenza e il bullismo, in Osservatorio costituzionale, 2015, fasc. III, pp. 1 ss.; M. PERINI, Educazione alla parità di genere, in GenIUS, 2016, fasc. II, pp. 150 ss.; G. MATUCCI, Scuola, genitori, figli, in Osservatorio costituzionale, 2018, fasc. II, pp. 1 ss.

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Nonostante il ricorso, in entrambi i casi, ad una tecnica normativa improvvisata, perché contrassegnata

da un gioco di rinvii che rendono disagevole il proposito di fornirne una lettura sistematica o

quantomeno strutturata, entrambe le disposizioni meritano, sotto il profilo qui considerato, una

notazione positiva. Esse, infatti, si pongono saldamente all’interno del perimetro tracciato dal testo

costituzionale, per cui, in particolare, a tutti (i cittadini) è riconosciuta “pari dignità sociale” (art. 3, co. 1,

Cost.), così come sono parimenti precluse distinzioni “di sesso [e] di condizioni personali e sociali” (art.

3, co. 1, Cost.). Poiché tra tali condizioni sono certamente da ascriversi tanto l’orientamento sessuale

quanto l’identità di genere – quest’ultima espressamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale

quale “elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei

diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)” (C. cost., sent. n. 221/2015)40 –

desta una certa inquietudine il clamore mediatico eccitato dai detrattori di un’immaginaria “teoria del

gender”, i quali, forse dimentichi o forse ignari della cornice costituzionale di riferimento, avversano lo

svolgimento delle attività didattiche summenzionate.

Con un tempestivamente intervento di provenienza ministeriale sì è così dovuto fare fronte alle

“numerose richieste di chiarimenti, sia da parte di dirigenti scolastici e docenti che di genitori”, e si è

conseguentemente chiarito (ma davvero ve ne era bisogno?) che la finalità dell’art. 1, co. 16, l. n.

107/2015 “non è… quella di promuovere pensieri o azioni ispirati ad ideologie di qualsivoglia natura,

bensì quella di trasmettere la conoscenza e la consapevolezza riguardo i diritti e i doveri della persona

costituzionalmente garantiti” (circ. n. 1972/2015 della Capo del Dipartimento per il sistema educativo

di istruzione e di formazione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca). Tale richiamo,

da ultimo formulato in merito ad asserite agitazioni francamente prive di qualunque pregio scientifico,

mostra ancora una volta le profonde legature delle attività didattiche suesposte con il plesso dei princìpi

40 Cfr. L. FERRARO, La Corte costituzionale e la primazia del diritto alla salute e della sfera di autodeterminazione, in Giurisprudenza costituzionale, 2015, pp. 2054 ss.; A. LORENZETTI, Corte costituzionale e transessualismo, in Quaderni costituzionali, 2015, pp. 1006 ss.; C. TOMBA, Il “depotenziamento” dell’obbligo di interpretazione conforme a Costituzione, in Giurisprudenza costituzionale, 2015, pp. 2063 ss.; E. COVACCI, Transessualismo, in GenIUS, 2016, fasc. I, pp. 108 ss.; P.I. D’ANDREA, La sentenza della Corte costituzionale sulla rettificazione anagrafica del sesso, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, pp. 263 ss.; L. FERRARO, Il giudice nel procedimento di rettificazione del sesso, in Questione giustizia, 2016, fasc. II, pp. 220 ss.; C. MEOLI, La correzione dell’interpretazione sulla correzione del sesso, in Giustamm, 2016, fasc. VI, pp. 1 ss.; N. POSTERARO, Identità di genere, transessualismo ed effettività del diritto alla salute in Italia, in Diritto e società, 2016, pp. 737 ss.; C.M. REALE, Corte costituzionale e transgenderismo, in Rivista di BioDiritto, 2016, fasc. I, pp. 283 ss.; I. RIVERA, Le suggestioni del diritto all’autodeterminazione personale tra identità e diversità di genere, in Consulta online, 2016, fasc. I, pp. 175 ss.; M. ROSPI, Il transessualismo e il (venir meno del) “costringimento al bisturi”, in Federalismi.it, 2016, fasc. II, pp. 2 ss.; R. RUBIO-MARÍN e S. OSELLA, Le precondizioni per il riconoscimento dell’identità sessuale, in Quaderni costituzionali, 2016, pp. 61 ss.; A. SPANGARO, Anche la Consulta ammette il mutamento di sesso senza il previo trattamento chirurgico, in Famiglia e diritto, 2016, pp. 639 ss.; C. ANGIOLINI, Transessualismo e identità di genere, in Europa e diritto privato, 2017, pp. 263 ss.; A. SCHUSTER, La rettificazione di sesso, in Forum di Quaderni costituzionali, 2017, fasc. VII, pp. 1 ss.; C.P. GUARINI, “Maschio e femmina li creò”… o forse no, in Federalismi.it, 2018, fasc. VIII, pp. 2 ss.

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fondamentali della Carta repubblicana del 1947 e, in particolare, con il principio costituzionale della

scuola aperta, di cui all’art. 34, co. 1, Cost.

9. Anche i tre diritti sociali che promanano, come ho già detto, rispettivamente dall’art. 34, co. 1, 2 e 3,

Cost. meritano una lettura attualizzata alla luce dei rilevanti profili attuativi e applicativi che investono

ciascuno di essi. Quanto al diritto costituzionale ad una scuola aperta, desumibile dall’art. 34, co. 1,

Cost., esso comporta il necessario approntamento da parte dello Stato di un apparato pubblico in grado

di accogliere tutti i potenziali studenti, comprendente tanto l’istruzione inferiore, impartita per almeno

otto anni, quanto quella superiore, che si articola e si sviluppa fino ai gradi più alti degli studi. Da questo

punto di vista, sussiste una correlazione strettissima tra lo stesso art. 34, co. 1, Cost. e l’art. 33, co. 2,

Cost., per cui devono indefettibilmente essere istituite “scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, alle

quali possono affiancarsi, se del caso, ma mai sostituirsi le scuole non statali, e comunque “senza oneri

per lo Stato” (art. 33, co. 3, Cost.)41. Se a ciò si aggiunge che l’art. 33, co. 5, Cost. prevede lo

svolgimento di un “esame di Stato” e non di un concorso per l’ammissione ai vari ordini e gradi di

scuole, ne discendono conseguenze di primo rilievo per l’assetto vigente dell’accesso agli studi

universitari, tale da richiedere, alla luce del quadro costituzionale così raffigurato, un pronto e

necessario ripensamento42.

Ciò è da dirsi, in primo luogo, per quei corsi di studio per i quali vi è una c.d. programmazione

nazionale (a norma dell’art. 1 l. n. 264/1999: Medicina e chirurgia, Medicina veterinaria, Odontoiatria e

protesi dentaria, Architettura, Professioni sanitarie, Scienza della formazione primaria)43, posto che –

diversamente da quanto sostenuto in termini invero apodittici da parte della Corte costituzionale (C.

cost., sent. n. 383/1998) – non vi è alcun vincolo di marca sovranazionale in subiecta materia. Al

contrario, la Corte di giustizia dell’Unione europea è ferma nell’affermare che “gli Stati membri sono…

liberi di optare o per un sistema di istruzione fondato sul libero accesso alla formazione – senza limiti di

iscrizione del numero degli studenti –, ovvero per un sistema fondato su un accesso regolato che

41 Cfr. S. CORNELLA, Scuola pubblica e scuola privata tra regole di diritto interno e principi comunitari, in Tra amministrazione e scuola, cit. nt. 17, pp. 151 ss.; M. CROCE, La scuola pubblica e la scuola privata, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 333 ss.; G. LUCHENA, Le esenzioni fiscali alle scuole paritarie e il dibattito sulla clausola costituzionale “senza oneri per lo Stato”, in Diritto e religioni, 2015, fasc. II, pp. 266 ss.; M. MADONNA, La parità scolastica tra principi costituzionali, evoluzione normativa e sviluppi giurisprudenziali, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 134 ss.; A. IANNUZZI, Articolo 33, cit. nt. 22, pp. 220 ss. 42 Cfr. M. CAPESCIOTTI, L’acceso programmato ai corsi di laurea e la sua applicazione alla Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, in Le dimensioni costituzionali dell’istruzione, cit. nt. 1, pp. 621 ss.; F. FONTANAROSA, Accesso programmato ai corsi di laurea universitari nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, ivi, pp. 607 ss. 43 Cfr. P. DE ANGELIS, Le prove di ammissione ai Corsi di laurea a numero programmato di ambito medico e sanitario, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2016, pp. 245 ss.

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selezioni gli studenti” (CGUE, C-73/08, sent. 13 aprile 2010, Bressol e a.)44; per cui vale, senza

limitazioni sovranazionali di sorta, il disposto dell’art. 34, co. 1, Cost.

In secondo luogo, quanto ai corsi di studio che possono eventualmente sottostare ad una c.d.

programmazione locale, ciò risulta consentito, giusta la (pur censurabile, per quanto ho detto)

normativa vigente, solo qualora “l’ordinamento didattico preveda l’utilizzazione di laboratori ad alta

specializzazione, di sistemi informatici e tecnologici o comunque di posti-studio personalizzati” (art. 2,

co. 1, lett. a, l. n. 264/1999). Si tratta, pertanto, di ipotesi che richiedono una puntuale motivazione da

parte delle università che ritenessero di procedere in questa direzione, senza che sia possibile, di contro,

limitare l’accesso agli studi universitari per ragioni innominate o diverse, pena il vizio, ancor prima

dell’eccesso di potere, della violazione di legge (art. 21-octies, co. 1, l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 14,

co. 1, l. n. 15/2005, e art. 29 d.lgs. n. 104/2010).

La questione non risulta affatto oziosa, posto che la disciplina ministeriale di riferimento in tema di

accreditamento dei corsi di studio prevede, al contempo, una serie stringente di requisiti quantitativi

posti in capo alle università ai fini dell’accreditamento dei corsi di studio (allegato A del d.m. n.

987/2016 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca) e risulta altresì corredata da un

meccanismo sanzionatorio in caso di “insufficienza della docenza necessaria in relazione al

superamento della numerosità massima di studenti” (art. 4, co. 4, d.m. n. 987/2016 del Ministero

dell’istruzione, dell’università e della ricerca). La contraddizione che ne deriva appare invero evidente.

Per la Costituzione è l’offerta (cioè le università) che deve (devono) adattarsi alla domanda (cioè agli

studenti); per il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, invece, l’aumento della domanda

senza un eguale aumento dell’offerta – sulla quale, tuttavia, le stesse università non possono

prontamente e validamente operare – comporta una loro impropria penalizzazione.

Tale è la ragione per la quale l’Università degli studi di Milano aveva disposto per l’anno accademico

2017/2018 la limitazione degli accessi anche ai corsi di studio in Filosofia, Lettere, Scienze dei beni

culturali, Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio, Storia e Lingue e letterature

straniere; una decisione che naturalmente non è sopravvissuta al vaglio del giudice amministrativo, il

quale ha correttamente rilevato in sede cautelare, per le ragioni innanzi dette, “sufficienti profili di

fondatezza” (TAR Lazio-Roma, sez. III, ord. n. 4478/2017). La vicenda controversa si è alfine conclusa

con una sentenza di improcedibilità (TAR Lazio-Roma, sez. III, sent. n. 5681/2018), per avere l’Ateneo

in questione rivisitato il proprio orientamento restrittivo, sulla base di una sopravvenuta

regolamentazione ministeriale meno stringente (d.m. n. 935/2017 del Ministero dell’istruzione,

dell’università e della ricerca), ed avere così ottemperato all’ordinanza cautelare, peraltro mai appellata.

44 Cfr. L. PASQUALI, L’accesso all’insegnamento superiore nello spazio giuridico europeo, in I diritti sociali nella pluralità degli ordinamenti, cit. nt. 3, pp. 89 ss.

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Questo importante precedente resta dunque di ostacolo per ogni futuro tentativo da parte delle

università di limitare abusivamente l’accesso agli studi universitari, che risulta, per le modalità sopra

riportate, inequivocabilmente contra legem e, a maggior ragione, contra constitutionem.

10. Venendo ora al diritto costituzionale alla gratuità dell’istruzione, impartita per almeno otto anni,

espresso all’art. 34, co. 2, Cost. e comunemente definito quale diritto all’istruzione in senso stretto, esso

richiede qualche ulteriore specificazione, per intenderne appieno il senso e la portata, anche in questo

caso, nei tempi più recenti. Tale diritto, infatti, pur essendo legislativamente presidiato dal divieto di

imporre agli studenti qualunque tassa scolastica erariale (art. 1, co. 622, l. n. 296/2006), attualmente

esigibile solo nei confronti degli studenti del quarto e del quinto anno dell’istruzione secondaria di

secondo grado (art. 4 d.lgs. n. 63/2017), è stato proditoriamente aggirato da parte di alcuni istituti

scolastici, i quali hanno preteso dai genitori, in circostanze non isolate, il versamento di erogazioni

liberali, quale “condizione necessaria per l’iscrizione degli studenti” (circ. n. 312/2012 della Capo del

Dipartimento per l’istruzione del Ministero dell’istruzione, l’università e la ricerca). Nonostante le

severe censure di parte ministeriale, tale vicenda appare esemplificativa, ai fini dell’effettiva garanzia

dell’art. 34, co. 2, Cost., delle distorsioni a cui può dare adito la prassi di richiedere, su base più o meno

spontanea, qualunque “erogazione liberale con cui le famiglie [scilicet i genitori], con spirito collaborativo

e nella massima trasparenza, partecipano al miglioramento dell’offerta formativa e al suo ampliamento

al di là dei livelli essenziali” (circ. n. 593/2013 della Capo del Dipartimento per l’istruzione del

Ministero dell’istruzione, l’università e la ricerca).

Se tanto vale quanto alla gratuità dell’insegnamento, lo stesso è da dirsi con riferimento alla gratuità

dell’istruzione, a cui si riferisce testualmente l’art. 34, co. 2, Cost., posto che l’uno è senz’altro

ricompreso nell’altra e, per questo, non ne esaurisce la portata. Al contrario – a discapito di quanto si

ritrova affermato nella giurisprudenza costituzionale più risalente (C. cost., sentt. n. 7/1967; n.

106/1968) – oltre all’insegnamento rientrano nel concetto di istruzione anche tutte quelle provvidenze,

quali sono il trasporto, la mensa, i libri di testo ecc., strettamente funzionali all’esercizio del diritto-

dovere in questione, peraltro penalmente sanzionato ex art. 731 c.p. (ancorché con riferimento alla sola

istruzione elementare: da ultimo, Cass. pen., sez. III, sent. n. 50624/2017).

Se tale assunto è vero, come non vi è motivo di dubitare, risulta ingiustificatamente limitativa della

portata dell’art. 34, co. 2, Cost. la garanzia dei “servizi di trasporto e [delle] forme di agevolazione della

mobilità”, dei “servizi di mensa”45, della “fornitura dei libri di testo e degli strumenti didattici

indispensabili negli specifici corsi di studi”, nonché dei “servizi per le alunne e gli alunni, le studentesse

45 Cfr. G. BOGGERO, “There is no such thing as a free lunch”, in Osservatorio costituzionale, 2017, fasc. III, pp. 1 ss.

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e gli studenti ricoverati in ospedale, in case di cura e riabilitazione, nonché per l’istruzione domiciliare”,

sì legislativamente prevista fino al compimento del percorso di istruzione secondaria, ma pur sempre

“nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie” (art. 2 d.lgs. n. 63/2017). Tale prospettazione, infatti,

contrasta con la stessa configurazione del diritto alla gratuità dell’istruzione, impartita per almeno otto

anni, quale autentico diritto costituzionale, che impone al legislatore ordinario di approntare le

conseguenti e coerenti risorse finanziarie quale conditio per quam e non quale conditio sine qua non per il suo

concreto esercizio.

11. Da ultimo, riveste un significato altrettanto cruciale dei precedenti il diritto costituzionale dei capaci

e meritevoli, anche se privi di mezzi, a raggiungere i gradi più alti degli studi, enunciato all’art. 34, co. 3,

Cost. e comunemente qualificato come diritto allo studio. Come ho già anticipato, si tratta certamente

di un “diritto sociale” (C. cost., sent. n. 87/2018), peraltro di tale importanza da risultare corredato – a

differenza degli altri due diritti di cui all’art. 34, co. 1 e 2, Cost. – con le misure volte a renderlo

effettivo: le “borse di studio”, gli “assegni alle famiglie” e le “altre provvidenze, che devono essere

attribuite per concorso” (art. 34, co. 4, Cost.)46.

In proposito, va subito precisato, a scanso di ogni possibile equivoco, che il diritto enunciato all’art. 34,

co. 3, Cost. si assomma e non si sostituisce al diritto ad una scuola aperta ex art. 34, co. 1, Cost. Ne

consegue, ad una lettura sistematica e concatenata dei due enunciati, che vale per tutti il diritto di

accedere all’istruzione superiore, anche eventualmente attraverso la predisposizione di un meccanismo

di compartecipazione alle spese legislativamente predeterminato (il cui rispetto è presidiato, anche in

questo caso, dalla giurisprudenza amministrativa, come dimostra la censurabile e alfine censurata

previsione da parte dell’Università degli studi di Pavia di una quota di contribuzione studentesca extra

legem: Cons. St., sez. VI, sent. n. 1834/2016). Inoltre (e non in alternativa), i (soli) capaci e meritevoli,

anche se privi di mezzi, godono di un ulteriore diritto costituzionale soggettivamente qualificato, qual è

quello a raggiungere i gradi più alti degli studi attraverso le provvidenze costituzionalmente indicate

all’art. 34, co. 4, Cost. Il significato dell’art. 34 Cost. nel suo complesso si appalesa invero evidente: per

tutti è necessaria l’esistenza di un apparato pubblico ed effettivamente accessibile, ai sensi e per gli

effetti dell’art. 34, co. 1, Cost., mentre (solo) per i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, vi è la

necessità di ricorrere all’art. 34, co. 3, Cost., posto che altrimenti questi ultimi non potrebbero

46 Cfr. M. COCCONI, Il nuovo diritto allo studio universitario, in L’università e la sua organizzazione, a cura di G. Piperata, Napoli, 2014, pp. 207 ss.; G. LUCHENA e L. GRIMALDI, Il diritto agli studi universitari tra Stato, Regioni e Università, in Dirittifondamentali.it, 2015, fasc. II, pp. 1 ss.; A. MUSUMECI, Università e diritto allo studio, in Scritti in onore di Antonio D’Atena, Milano, 2015, vol. III, pp. 2145 ss.; Q. CAMERLENGO, Diritto all’istruzione superiore e merito, in Costituzione e istruzione, cit. nt. 3, pp. 352 ss.; F. GRANDI, L’accesso ai più alti gradi dell’istruzione, in La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale, a cura di M. Della Morte, Napoli, 2016, pp. 57 ss.

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raggiungere i gradi più alti degli studi. Di converso, i capaci e meritevoli, se dotati di mezzi, non

abbisognano del dispositivo in questione, giacché essi potrebbero comunque raggiungere i gradi più alti

degli studi, ricorrendo, per l’appunto, a quei mezzi di cui sono dotati.

Da questo punto di vista, proprio la perimetrazione soggettiva contenuta nell’art. 34, co. 3, Cost. risulta

dirimente, al fine di verificare l’effettivo allineamento costituzionale della vigente disciplina legislativa in

tema di diritto allo studio. Infatti, tutti i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, devono essere

messi nella condizione di poter accedere ai gradi più alti degli studi, senza che il legislatore ordinario

possa vanificare la portata sostantiva del diritto in questione sulla base di limitazioni di ordine

finanziario. Viceversa, posto che solo i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, risultano titolari del

diritto costituzionale a raggiungere i gradi più alti degli studi, la sua eventuale estensione anche a

beneficio dei capaci e meritevoli, ma dotati di mezzi, potrà avere al più un fondamento legislativo.

Proprio per tale ragione, però, dovrà essere scrupolosamente rispettato l’ordine di priorità che la stessa

Carta repubblicana del 1947 stabilisce a beneficio degli uni e non degli altri.

Giusta tale premessa, il quadro normativo vigente in materia di diritto allo studio universitario risulta

doppiamente sbilanciato, sia (soprattutto) per difetto, sia (paradossalmente) per eccesso. Per difetto, le

provvidenze relative tanto all’istruzione secondaria di secondo grado quanto all’istruzione universitaria

sono erogate le prime “compatibilmente con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili” (art.

1 d.lgs. n. 63/2017) e le seconde “nei limiti delle risorse disponibili” (art. 7, co. 1, d.lgs. n. 68/2012); il

che non può essere, in ragione di quanto ho già più volte detto in ordine alla conformazione

costituzionale dei diritti sociali e al dovere incombente sul legislatore ordinario di individuare all’uopo la

relativa provvista finanziaria. In questo senso, l’attuale configurazione delle borse di studio universitarie,

contenuta nell’art. 7, co. 4, d.lgs. n. 68/2012, dà vita ad una figura, qual è quella dello studente “idoneo”

ma non vincitore, del tutto priva di giustificazione costituzionale, perché fondata su un grave

fraintendimento della lettera dell’art. 34, co. 4, Cost.47. Quest’ultimo, infatti, individua – come ho detto

– per rendere effettivo il diritto di cui all’art. 34, co. 3, Cost. le “borse di studio”, gli “assegni alle

famiglie” e le “altre provvidenze”. Solo queste ultime, però, e non già le “borse di studio” o gli “assegni

alle famiglie”, “devono essere attribuite per concorso”, perché altrimenti la concordanza tra il

sostantivo e il participio ne risulterebbe grammaticalmente forzata. Ne consegue che il legislatore

ordinario ben può (ed anzi deve) stabilire, non irragionevolmente, le soglie di capacità, di meritevolezza,

nonché di privazione di mezzi da cui consegue l’attribuzione delle borse di studio e degli assegni alle

47 Cfr. D. FIUMICELLI, L’istruzione universitaria tra crisi dello Stato sociale e sviluppo di politiche neo-liberiste, in I diritti sociali nella pluralità degli ordinamenti, cit. nt. 3, pp. 121 ss.; M. RUBECHI, Il diritto allo studio universitario, in La ricerca scientifica fra possibilità e limiti, a cura di A. Iannuzzi, Napoli, 2015, pp. 213 ss.

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famiglie; tuttavia, una volta posseduti tali requisiti legislativamente predeterminati, il diritto in questione

è da considerarsi perfetto.

Quanto, alla contravvenzione dell’art. 34, co. 3, Cost. per eccesso, si tratta di una situazione che – pur

sorprendente, a fronte della ricorrente invocazione nel dibattito pubblico odierno di risorse viepiù

limitate – ritorna anch’essa in maniera iterativa nella legislazione più recente. A questo riguardo, occorre

muovere dall’art. 4 l. n. 240/2010, con il quale si era inteso istituire un “fondo per il merito”, finalizzato

a “promuovere l’eccellenza e il merito fra gli studenti dei corsi di laurea e laurea magistrale individuati,

per gli iscritti al primo anno per la prima volta, mediante prove nazionali standard e, per gli iscritti agli

anni successivi, mediante criteri nazionali standard di valutazione” (art. 4, co. 1, l. n. l. n. 240/2010). Al

netto di ogni roboante retorica sull’eccellenza e sul merito a cui tale misura risultava normativamente

preordinata, spicca in tale enunciato, in una prospettiva di diritto costituzionale, l’assenza di qualunque

riferimento ai “mezzi” dei potenziali beneficiari delle provvidenze in esame, che comunque non sono

mai stati selezionati. Infatti, all’utilizzazione del fondo summenzionato era stata preposta una

Fondazione per il Merito, prevista all’art. 9, co. 3 ss., d.l. n. 70/2011, conv. con mod. nella l. n.

106/2011, di cui, però, non risulta la costituzione.

Cinque anni dopo, tale fantomatica Fondazione è stata curiosamente ridenominata Fondazione Articolo

34, ad opera dell’art. 1, co. 273, l. n. 232/2016, ed ha condiviso con la precedente il medesimo destino,

nel senso che neppure la Fondazione Articolo 34 è stata ad oggi istituita, probabilmente anche in

ragione del contenzioso tra lo Stato e le Regioni che ne è scaturito. Infatti, ricorrendosi alla “ ‘chiamata

in sussidiarietà’, giustificata dall’esigenza di rafforzare, in modo uniforme sul territorio nazionale,

l’effettività del diritto allo studio” (C. cost., sent. n. 87/2018), la predetta Fondazione avrebbe dovuto

bandire entro il 30 aprile 2017, a beneficio degli studenti dell’ultimo anno della scuola secondaria di

secondo grado, “almeno 400 borse di studio nazionali, ciascuna del valore di 15.000 euro annuali,

destinate a studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi, al fine di favorirne l’immatricolazione e la

frequenza a corsi di laurea o di laurea magistrale a ciclo unico, nelle università statali, o a corsi di

diploma accademico di I livello, nelle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e

coreutica” (art. 1, co. 275, l. n. 232/2016). Ai fini dell’ammissione, era stato opportunamente previsto il

possesso di un Isee inferiore o eguale a 20 mila euro (art. 1, co. 276, lett. a, l. n. 232/2016), nonché di

ulteriori requisiti di capacità e meritevolezza (art. 1, co. 276, lett. b e c, l. n. 232/2016), in linea con il

disposto costituzionale. Tuttavia, per la conferma delle borse di studio per gli anni accademici successivi

al primo, sarebbe stato sufficiente che lo studente avesse conseguito, ad un tempo, tutti i crediti

formativi degli anni accademici precedenti e almeno 40 crediti formativi dell’anno accademico in corso,

con una media dei voti riportati in tutti gli esami sostenuti non inferiore a 28/30 e nessun voto inferiore

a 24/30 (art. 1, co. 282, lett. b e c, l. n. 232/2016); mentre nulla era stabilito in merito ad una perdurante

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privazione di mezzi. Permane dunque inalterato, anche con riferimento a quest’ultimo esperimento

legislativo parimenti rimasto virtuale l’ammonimento a che il legislatore ordinario provveda pro futuro a

disciplinare un meccanismo per la garanzia del diritto allo studio universitario che sia, per un verso,

stabile e, per un alto, conforme sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo al disposto dell’art. 34, co. 3,

Cost.

12. Il quadro sin qui tratteggiato in ordine al diritto all’istruzione visto alla luce di alcune questioni

attuali fa emergere l’eccezionale vivezza del progetto costituzionale, capace di abbracciare problemi e

soluzioni che investono l’Italia di oggi, e consente altresì di apprendere tutta la distanza che separa in

questa materia l’ordinamento statale e l’ordinamento sovranazionale. Secondo tale prospettiva, i più

recenti interventi legislativi e giurisprudenziali, di cui si è dato conto, forniscono la cifra tangibile della

strada che, quanto all’attuazione e all’applicazione dell’art. 34 Cost., è stata fatta, ma anche di quella che

resta da fare.

In verità, vi è un’annosa e intricata questione sulla quale la giurisprudenza sovranazionale ha svolto una

funzione accrescitiva rispetto alla giurisprudenza costituzionale e che merita per ciò solo qualche

considerazione più meditata: quella relativa al precariato scolastico. Si tratta di un problema di diretta e

sicura rilevanza per lo stesso diritto all’istruzione, sul quale grava indirettamente, ma non per questo

meno incisivamente, una legislazione sul reclutamento del personale scolastico confusa e

contraddittoria, nonché un contenzioso di eccezionale portata che nel corso degli anni ne è scaturito. Al

contempo, tale questione investe il piano delle relazioni interordinamentali tra l’Italia e l’Unione

europea in maniera solo tangenziale; sicché ben può dirsi che il caso che verrà affrontato di seguito

costituisce, nel discorso qui sviluppato, l’eccezione e non la regola.

La questione contenziosa di cui si tratta muove da una serie di giudizi instaurati innanzi a giudici

ordinari (sub specie di giudici del lavoro) da parte di docenti e di personale amministrativo, tecnico e

ausiliario della scuola, a cagione del reiterato conferimento da parte del Ministero dell’istruzione,

dell’università e della ricerca di supplenze annuali su posti vacanti e disponibili, cioè su posti di cui si

attendeva sine die la copertura attraverso l’assunzione in ruolo. La questione è poi transitata innanzi alla

Corte costituzionale, per un asserito contrasto, tramite l’art. 117, co. 1, Cost., tra la disciplina applicabile

(art. 4, co. 1 e 11, l. n. 124/1999) e la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP

sul lavoro a tempo determinato, allegato alla dir. n. 70/1999; nonché innanzi alla Corte di giustizia

dell’Unione europea, per avere il giudice costituzionale – e si è trattato del primo caso nella storia, in

costanza di un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale – sollevato a sua volta una

questione pregiudiziale sull’interpretazione del predetto accordo quadro.

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Sul piano delle argomentazioni proposte da parte delle diverse istanze giurisdizionali coinvolte,

sorprende in negativo quella promanante dalla Corte costituzionale, tesa a giustificare la disciplina

legislativa attaccata proprio in ragione del diritto all’istruzione, il quale imporrebbe “allo Stato

l’organizzazione del servizio in modo da poterlo adattare anche ai costanti cambiamenti numerici della

popolazione scolastica” (C. cost., ord. n. 207/2013)48 e, conseguentemente, renderebbe in qualche

modo indefettibile e necessitato da parte dei pubblici poteri il ricorso al precariato scolastico. La

motivazione proposta appare recisamente fallace, almeno per un duplice ordine di considerazioni, l’uno

di metodo e l’altro di merito. Sul piano del metodo, nella vicenda qui osservata il giudice costituzionale

rinuncia a priori a svolgere qualunque esperimento nell’inesausta ricerca di un’“integrazione reciproca”

(C. cost., sent. n. 85/2013)49 tra diritti costituzionali, peraltro entrambi finalizzati a perseguire

l’“obiettivo comune di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana

(art. 3, secondo comma, Cost.)” (C. cost., sent. n. 158/2018). La pronuncia, al contrario, vede

contrapposti l’uno contro l’altro due diritti sociali di pari fondamento costituzionale, quali sono il diritto

48 Cfr. L. CALAFÀ, Giudici (quasi) federali e diritto del lavoro recente, in Lavoro e diritto, 2014, pp. 457 ss.; T. CERRUTI e M. LOSANA, La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2014, pp. 534 ss.; M.P. IADICICCO, Il precariato scolastico tra Giudici nazionali e Corte di Giustizia, in Osservatorio costituzionale, 2014, fasc. I, pp. 1 ss.; A. LO FARO, Compatibilità economiche, diritti del lavoro e istanze di tutela dei diritti fondamentali, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2014, pp. 279 ss.; M. LOSANA, La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale nei giudizi in via incidentale, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2014, fasc. I, pp. 1 ss.; C. NOVI, Corte costituzionale italiana, Corti costituzionali europee e rinvio pregiudiziale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2014, pp. 2074 ss.; A.-M. PERRINO, La Corte di giustizia come panacea dei precari?, in Il foro italiano, 2014, pt. IV, cc. 91 ss.; O. POLLICINO, From Partial to Full Dialogue with Luxembourg, in European Constitutional Law Review, 2014, pp. 143 ss.; R. ROMBOLI, Corte di giustizia e giudici nazionali, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, a cura di A. Ciancio, Roma, 2014, pp. 431 ss.; M.L. VALLAURI, I “precari” della scuola arrivano davanti alla Corte di giustizia, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2014, pt. II, pp. 369 ss.; C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, in Annuario 2013. Spazio costituzionale e crisi economica, Napoli, 2015, pp. 153 ss. 49 Cfr. M. BONI, Le politiche pubbliche dell’emergenza tra bilanciamento e “ragionevole” compressione dei diritti, in Federalismi.it, 2014, fasc. III, pp. 1 ss.; G. BUCCI, Stato ed economia andata e ritorno, in ApertaContrada, 2014, pp. 1 ss.; A. CIERVO, Esercizi di neo-liberismo, in Questione giustizia, 2014, fasc. II, pp. 125 ss.; C. CONTESSA, Il decreto ILVA, in Libro dell’anno del diritto 2014, Roma, 2014, pp. 268 ss.; B. DEIDDA e A. NATALE, Introduzione, in Questione giustizia, 2014, fasc. II, pp. 67 ss.; C. GASPARRO, La Corte costituzionale ed il ragionevole bilanciamento di interessi nel decreto Ilva, in Il diritto del mercato del lavoro, 2014, pp. 167 ss.; A. GUSMAI, Il valore normativo dell’attività interpretativo-applicativa del giudice nello Stato (inter)costituzionale di diritto, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2014, fasc. III, pp. 1 ss.; S. PALMISANO, Del “diritto tiranno”, in Questione giustizia, 2014, fasc. II, pp. 89 ss.; G. BUCCI, L’Ilva come laboratorio di uno Stato neo-corporativo tra conflitti di potere e disastri socio-ambientali, in La nuova dimensione istituzionale dei processi economico-sociali, a cura di G. Luchena e V. Teotonico, Bari, 2015, pp. 83 ss.; G. DI COSIMO, Corte costituzionale, bilanciamento di interessi e principio di precauzione, in Forum di Quaderni costituzionali, 2015, fasc. III, pp. 1 ss.; L. UCCELLO BARRETTA, Tutela della salute e dell’ambiente nel caso Ilva, in Profili attuali di diritto costituzionale, a cura di E. Catelani et al., Pisa, 2015, pp. 131 ss.; M. DI FRANCESCO TORREGROSSA, Il valore ambientale nel bilanciamento costituzionale e gli interessi sensibili nella nuova conferenza di servizi, in Nomos, 2016, fasc. III, pp. 1 ss.; A. MARCHETTI, Il caso Ilva tra giurisdizioni, pubblica amministrazione e legislatore, in Munus, 2016, pp. 193 ss.; F. SANTONASTASO, Tutela della salute, tutela dell’ambiente ed evoluzione della “governance” nelle imprese di interesse strategico nazionale, in Studi dedicati a Diego Corapi, Napoli, 2016, vol. I, pp. 409 ss.; M. FALCONE, La tutela dell’ambiente nel difficile bilanciamento tra diritti fondamentali ed esigenze economiche, in Studi sull’integrazione europea, 2017, pp. 365 ss.; D. PAMELIN, Il difficile bilanciamento tra diritto alla salute e libertà economiche, in Costituzionalismo.it, 2017, fasc. II, pp. 1 ss.; E. VERDOLINI, Il caso ILVA di Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali, in Forum di Quaderni costituzionali, 2018, fasc. II, pp. 1 ss.

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all’istruzione ex art. 34 Cost., ma anche il diritto al lavoro ex art. 4 Cost., nella sua declinazione di diritto

alla stabile occupazione; il primo considerato talmente assorbente e pervasivo da giustificare un

avvalimento strutturale e sistematico al precariato scolastico e il secondo, di contro, ritenuto

inesorabilmente recessivo. Sul piano del merito, poi, se è senz’altro vero – come peraltro ho già avuto

modo di affermare – che in virtù del diritto ad una scuola aperta, di cui all’art. 34, co. 1, Cost., deve

esservi un apparato statale in grado di accogliere tutti i potenziali studenti, risulta invece del tutto

indimostrata la correlazione tra la necessità di adattamento dell’organizzazione del servizio e il ricorso al

precariato scolastico; adattamento che avrebbe dovuto tenere conto, pena un evidente ragionamento per

saltum, quantomeno del fatto che si trattava di supplenze annuali su posti vacanti e disponibili, dunque

predeterminabili da parte dell’amministrazione procedente.

A fronte di simili poco sviluppate argomentazioni contenute nell’ordinanza di rinvio della Corte

costituzionale, è piuttosto la Corte di giustizia dell’Unione europea a cercare di riannodare le fila della

complessa, se non disordinata, normativa italiana in materia e a censurarla inesorabilmente a causa della

previsione di un “termine di immissione in ruolo dei docenti… tanto variabile quanto incerto”, oltre

che dipendente da “circostanze aleatorie e imprevedibili”. Se ne conclude che, “sebbene considerazioni

di bilancio possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e

possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare, esse non

costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono

giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di

contratti di lavoro a tempo determinato” (CGUE, C-22/13, sent. 26 novembre 2014, Mascolo e a.)50, qual

è quella che purtroppo si riscontra nella legislazione italiana.

50 Cfr. V. ALLOCCA, La Corte di Giustizia censura la normativa italiana applicabile ai precari della scuola, in Il diritto del mercato del lavoro, 2014, pp. 478 ss.; R. CALVANO, L’abuso dei contratti a tempo determinato nella scuola italiana, tra norme costituzionali e diritto dell’Unione europea, in Giurisprudenza costituzionale, 2014, pp. 4780 ss.; M. DE LUCA, Un grand arrêt della Corte di giustizia dell’Unione europea sul nostro precariato scolastico statale, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2014, pp. 499 ss.; C. DE MARCO, Il precariato pubblico tra normativa italiana e bacchettate dall’Europa, in Il diritto del mercato del lavoro, 2014, pp. 345 ss.; V. PINTO, Il reclutamento scolastico tra abuso dei rapporti a termine e riforme organizzative, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2014, pp. 915 ss.; P. SCIASCIA, Il precariato scolastico in Italia dopo l’intervento del giudice europeo, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, 2014, fasc. IV, pp. 39 ss.; M. AIMO, Presupposti, confini ed effetti della sentenza Mascolo sul precariato scolastico, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2015, pt. II, pp. 177 ss.; V. ALLOCCA, La normativa sul conferimento delle supplenze per il personale della scuola e il lavoro a termine dopo le recenti riforme, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2015, pp. 666 ss.; L. CALAFÀ, Il dialogo multilevel tra corti e la “dialettica prevalente, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2015, pt. II, pp. 336 ss.; B. CIMINO, Caso Mascolo, in Quaderni costituzionali, 2015, pp. 205 ss.; L. FLORE, La disciplina dei contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, in Il foro amministrativo, 2015, pp. l864 ss.; F. GHERA, I precari della scuola tra Corte di giustizia, Corte costituzionale e giudici comuni, in Giurisprudenza costituzionale, 2015, pp. 158 ss.; S. LATTANZI, Il conflitto tra norma interna e norma dell’Unione priva di effetti diretti nella vicenda dei precari della scuola italiana, in Il diritto dell’Unione europea, 2015, pp. 897 ss.; L. MENGHINI, Sistema delle supplenze e parziale contrasto con l’accordo europeo, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2015, pt. II, pp. 343 ss.; R. NUNIN, “Tanto tuonò che piovve”, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2015, pp. 146 ss.; C. ROMEO e G. URSO, Il monito dedlla Corte di giustizia dell’Unione europea sui precari della scuola, in Massimario di

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13. La controversia qui brevemente tratteggiata si è esaurita in anni a noi più recenti con un’ulteriore

poco convinta – e, forse per questo, anche poco convincente – decisione con cui la Corte

costituzionale, pur richiamando enigmaticamente i “delicati equilibri” che l’art. 34 Cost., tra gli altri,

imporrebbe nella disciplina del reclutamento del personale scolastico, è finalmente pervenuta ad una

declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina attaccata (C. cost., sent. n. 187/2016)51. In ogni

caso, essa appare di rilievo per la sicura incidenza del precariato scolastico sul diritto all’istruzione qui

considerato, ma per un ordine di ragioni speculare a quello predicato nelle pronunce della

giurisprudenza costituzionale di cui ho dato atto. Vi sono buone ragioni, infatti, per ritenere che un

congruo e stabile inquadramento normativo dei docenti e del personale amministrativo, tecnico e

ausiliario della scuola sia una condizione (non già sufficiente ma comunque) necessaria per la garanzia

giurisprudenza del lavoro, 2015, pp. 146 ss.; L. SALTARI, La precarietà del lavoro nella scuola nel difficile dialogo tra le Corti, in Giornale di diritto amministrativo, 2015, pp. 219 ss.; G. SANTORO PASSARELLI, Contratto a termine e temporaneità delle esigenze sottostanti, in Argomenti di diritto del lavoro, 2015, pp. 189 ss.; P. SARACINI, I precari nella Scuola e il diritto dell’Unione, in Federalismi.it, 2015, fasc. III, pp. 2 ss.; G.R. SIMONCINI, Illegittimità del lavoro a tempo determinato per il personale scuola, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2015, pp. 152 ss.; A. VALLEBONA, I precari della scuola, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2015, pp. 145-146; L. MENGHINI, Precariato pubblico, soluzioni giurisprudenziali e novità legislative, in Variazioni su temi di diritto del lavoro, 2016, pp. 127 ss.; L. SALTARI, Il regime giuridico della formazione e il reclutamento degli insegnanti in Italia, in Unità e pluralismo culturale, cit. nt. 7, pp. 75 ss. 51 Cfr. V. ALLOCCA, La Corte costituzionale supera l’illecito comunitario nelle leggi sul precariato scolastico, in Il diritto del mercato del lavoro, 2016, pp. 696 ss.; R. CALVANO, “Cattivi consigli” sulla “buona scuola”?, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2016, fasc. IV, pp. 1 ss.; I. CARLOTTO, Circuiti virtuosi, in Quaderni costituzionali, 2016, pp. 796 ss.; M. D’APONTE, Ancora sulla “stabilizzazione (anzi forse)” dei precari nel pubblico impiego, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2016, pp. 175 ss.; M. DEL FRATE, La Corte costituzionale sulla vicenda dei precari della scuola, in Diritto delle relazioni industriali, 2016, pp. 1117 ss.; M. DE LUCA, Il giusto riconoscimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2016, pp. 1053 ss.; G. FRANZA, Giochi di prestigio per i precari della scuola, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2016, pp. 624 ss.; M. MISCIONE, La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2016, pp. 745 ss.; D. NOCILLA, Diritto europeo e diritto costituzionale dello Stato membro in un’insoddisfacente sentenza della Corte costituzionale in tema di precariato scolastico, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, pp. 1895 ss.; R. NUNIN, Precariato scolastico, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2016, pp. 886 ss.; A. PAOLITTO, Il precariato scolastico tra “la buona scuola” e il dialogo “multilevel” delle corti, in Giustizia civile.com, 2016, pp. 3 ss.; F.M. PUTATURO DONATI, P.a. e contratti a termine illegittimi, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2016, pp. 603 ss.; L. TASCHINI, L’illegittima precarizzazione del rapporto di pubblico impiego, in Le recenti riforme dei rapporti di lavoro delle pubbliche amministrazioni e della scuola pubblica, a cura di M. Cerreta e M. Riommi, Torino, 2016, pp. 217 ss.; L. TRIA, Il dialogo incessante tra le corti europee e la Corte suprema di cassazione sui rapporti privatizzati di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ivi, pp. 51 ss.; M. AIMO, Incostituzionalità (parziale) del sistema delle supplenze e riforma della scuola, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2017, pt. II, pp. 4 ss.; V. ALLOCCA, Il giudizio della Corte costituzionale sul conferimento di supplenze nelle scuole pubbliche prima e dopo la legge sulla “buona scuola”, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2017, pt. II, pp. 339 ss.; M. DE LUCA, Precariato pubblico, in Labor, 2017, pp. 399 ss.; V. DE MICHELE, Alla ricerca della tutela effettiva dei precari pubblici in Europa e in Italia, in Labor, 2017, pp. 415 ss.; N. FRASCA, La flessibilità nel pubblico impiego, in Argomenti di diritto del lavoro, 2017, pp. 506 ss.; M.F. LUCENTE, I più recenti approdi giurisprudenziali sull’annosa questione del precariato scolastico, in Lavoro e previdenza oggi, 2017, pp. 695 ss.; C. RUSSO, Il contratto di lavoro a tempo determinato nella scuola statale, in Riforme del lavoro e contratti a termine, a cura di P. Saracini e L. Zoppoli, Napoli, 2017, pp. 281 ss.; L. TRIA, Il contenzioso sul precariato pubblico e scolastico, in Libro dell’anno del diritto 2017, Roma, 2017, pp. 399 ss.; L. CALAFÀ, Le riforme della scuola e del lavoro, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 35 ss.

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del diritto all’istruzione, perché – come ha affermato, questa volta condivisibilmente, la stessa Corte

costituzionale – “organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri

implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno

indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni

l’organizzazione” (C. cost., sent. n. 383/1998).

Infine, anche sul piano delle relazioni interordinamentali la vicenda del precariato scolastico induce a

qualche spunto di riflessione, perché ci presenta il giudice costituzionale e il giudice sovranazionale in

un ruolo inedito, se non invertito, rispetto a quello che la configurazione della dimensione sociale nei

due ordinamenti di riferimento lascerebbe presagire. Probabilmente, l’esito di questa querelle affonda le

proprie radici più di tutto nella difficoltà di (far) comprendere i bizantinismi del meccanismo di

reclutamento del personale scolastico, a fortiori fuori dai confini repubblicani; il che porta a considerare,

su un piano più generale, che gli esiti di quell’interlocuzione tra giudici costituzionali e supremi

comunemente qualificata, con formula metaforica, dialogo tra giudici appaiono tutt’altro che

prevedibili.

14. Certamente, la sent. n. 187/2016 della Corte costituzionale, nel pervenire ad una declaratoria di

illegittimità costituzionale “nei sensi e nei limiti di cui in motivazione”, si appoggia molto, e forse

troppo, sulla capacità delle innovazioni legislative medio tempore intervenute di superare l’assetto

previgente, limitando a trentasei mesi, a mente dell’art. 1, co. 131, l. n. 107/2015, la durata complessiva

dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati per la copertura di posti vacanti e disponibili. Vi è

tuttavia da dubitare che la disciplina legislativa summenzionata sia effettivamente dotata di quelle

caratteristiche di congruità e stabilità che, come ho già detto, appaiono come un vero e proprio

prerequisito per l’effettiva garanzia del diritto all’istruzione. Ciò è da dirsi non tanto (e non solo) per le

ricorrenti declaratorie di illegittimità costituzionale successivamente pronunciate su altre disposizioni di

quel medesimo testo legislativo (C. cost., sentt. n. 284/2016; n. 251/2017)52; quanto per la

prosecuzione, se non per l’aggravamento, di un contenzioso alluvionale in tema di precariato scolastico,

destinato a procrastinarsi lungo un periodo ultradecennale e segnato da revirements giurisprudenziali che

destano preoccupazione per l’ampia platea dei soggetti coinvolti e per il lungo tempo trascorso.

Sul piano legislativo, infatti, il d.lgs. n. 59/2017, adottato in virtù dell’art. 1, co. 180 e 181, lett. b), l. n.

107/2015, ha sì istituito un unico procedimento per l’assunzione in ruolo dei docenti a tempo

indeterminato, consistente in un concorso pubblico nazionale, un successivo percorso triennale di

formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione docente (c.d. percorso FIT) e un accesso

52 Cfr. R. TOSI, Il neocentralismo della Corte costituzionale, in Le Regioni, 2016, pp. 619 ss.

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previo superamento delle valutazioni intermedie e finali di tale percorso (art. 2, co. 1, d.lgs. n. 59/2017);

ma, al tempo stesso, ha delineato un intricatissimo canale di reclutamento transitorio e parallelo,

destinato ad assorbire, con un orizzonte temporale potenzialmente illimitato, non solo i docenti precari,

ma anche i soggetti variamente abilitati nel corso degli anni (art. 17 d.lgs. n. 59/2017)53. Sul piano

giurisdizionale, inoltre, spicca il caso della controversa riapertura delle graduatorie ad esaurimento per i

possessori di un diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002, su cui, dopo una

serie di pronunce favorevoli (Cons. St., sez. II, par. n. 3813/2013; ma soprattutto Cons. St., sez. VI,

sentt. n. 1973/2015; n. 3628/2015; n. 3673/2015; n. 3675/2015; n. 3788/2015), si è definitivamente

espressa in termini negativi l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., ad. plen., sent. n.

11/2017) e si sta tuttora ricercando in sede politica, giusta la presenza di soggetti portatori di interessi

confliggenti, una soluzione costituzionalmente equilibrata.

Tale vicenda da ultimo ripercorsa, così come, più in generale, lo stato dell’attuazione e dell’applicazione

del diritto all’istruzione che ho qui cercato di delineare lascia nell’osservatore, in definitiva, una

sensazione agra: quella di un assetto che fatica a trovare forme adeguate di sedimentazione legislativa e

giurisprudenziale, a fronte dell’inequivocabile linearità e schiettezza della trama costituzionale in

materia. Al contempo, però, questa situazione dischiude anche potenzialità di inveramento di quel

disegno sinora rimaste inesplorate; il che chiama in causa, una volta ancora, i pubblici poteri nel farsi

interpreti, per quanto di propria spettanza, del diritto all’istruzione come costituzionalmente

configurato, delle sue potenzialità e dei suoi limiti.

53 Cfr. M. CERRETA, I recenti problemi dei rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in Le recenti riforme dei rapporti di lavoro delle pubbliche amministrazioni e della scuola pubblica, cit. nt. 52, pp. 135 ss.; F. DE

CUIA, La buona scuola nella legge n. 107/2015, ivi, pp. 205 ss.; M. GISSI, Il nuovo precariato della scuola pubblica, ivi, pp. 105 ss.; C. TOMIOLA, Le sanzioni in tema di contratti di lavoro a termine nel settore della scuola, in Legalità e rapporti di lavoro, a cura di M. Brollo et al., Trieste, 2016, pp. 561 ss.; M. BRUSCHI e S. MILAZZO, L’integrazione tra la formazione dei docenti e l’accesso ai ruoli in attuazione della “buona scuola”, in Munus, 2017, pp. 587 ss.; A. PRETEROTI, Il personale scolastico, in La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, a cura di M. Esposito et al., Torino, 2018, pp. 422 ss.

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Accesso a Internet tra mercato e diritti sociali nell’ordinamento europeo e nazionale

di Giovanna De Minico

Sommario: 1. L’accesso alla rete verso un “nuovo diritto sociale”. 2. Il governo delle reti di nuova generazione. 2.1. Qualche idea sull’identità del gestore delle nuove reti. 3. La net neutrality: nuovo diritto o bene finale dell’accesso? 4. Il cerchio si chiude.

1. L’accesso alla rete verso un “nuovo diritto sociale”

Il nostro discorso intorno al diritto di accesso può partire da un’affermazione: l’accesso come pretesa

del cittadino a che lo Stato stenda sull’intero territorio nazionale la rete a banda larga, così da consentire

a chiunque di servirsene ovunque lui risieda e a un prezzo abbordabile. Il cittadino digitale conseguirà

un vantaggio una volta che il soggetto pubblico abbia adempiuto alla sua prestazione: potrà telefonare

tramite Internet, partecipare alle comunità virtuali o ricevere i servizi virtuali dall’amministrazione.

E fin qui ci siamo limitati a riproporre il nostro originario disegno dell’accesso coerente con la

fattispecie “diritto sociale”1: invero, l’obbligo di garantire la disponibilità della connessione veloce

favorisce la partecipazione attiva del cittadino alla società dell’informazione e al tempo stesso inventa

modalità inedite di esercizio della democrazia, capaci di rivitalizzare il dialogo tra rappresentante e

rappresentato. Effetti questi, dovuti tutti alla capacità della rete di asciugare le distanze tra remoti, di

azzerare le differenze di età e di livellare le impari condizioni fisiche, ma chiariamo subito che questo

esito benefico dipende da una precisa condizione: la regolazione su Internet deve essere eteroguidata

verso l’obiettivo uguaglianza, perché se lasciata da sola non è in grado di procurare il common good.

Infatti, dimostratosi illusorio il mito della tecnica come fatto buono in sé, l’evoluzione tecnologica sarà

disciplinata dalle regole dettate dai privati forti, che la piegheranno ai loro esclusivi progetti di egemonia

economica sul mercato o informativa sull’opinione pubblica.

L’accesso alla rete, così inteso, rende uguali coloro che tali non erano a causa delle differenti condizioni

di partenza: agisce come una leva capace di rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che si

frappongono al pieno sviluppo della persona2 (art. 2 Cost.), consentendole l’effettivo esercizio delle

1 M. MAZZIOTTI, Diritti sociali, in Enc. Dir., vol. XII, Giuffrè, Milano, 1964, p. 808. 2 In Assemblea Costituente (Relazione alla Costituente, I, 145 ss.) si avanzò un’interpretazione dell’uguaglianza sostanziale come fondamento assiologico dei diritti sociali. La dottrina che sviluppò questa intuizione è ricca di voci, tra le tante, almeno cfr.: F. PERGOLESI, Alcuni lineamenti dei diritti sociali (collana quaderni della Costituzione), Giuffrè, Milano, 1953, a p. 38; U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto

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libertà fondamentali, quali la manifestazione del pensiero e la comunicazione intersoggettiva,

nell’ambiente digitale. La missione equilibratrice del diritto di accesso, in definitiva, lo rende funzionale

all’uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 Cost.

Fino a qualche anno fa voci isolate3 sostenevano l’appartenenza dell’accesso al genus diritti sociali; oggi

la dottrina reputa incontestabile questa inclusione.

Rimane invece ancora aperta la domanda se questo diritto digitale abbia caratteristiche tali da isolarlo

dal modello di riferimento; oppure se le deviazioni non ne impediscono l’appartenenza. Ebbene, il

diritto di accesso si presenta con attributi suoi propri, che non sono atipici al punto da configurare una

deroga dal genus di riferimento; ne consegue che l’accesso non gode di una posizione a sé stante nel

panorama dei diritti sociali, sebbene presenti peculiarità significative.

di lavoro, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1955, a p. 72; L. PALADIN, Il principio costituzionale di uguaglianza, Giuffrè, Milano, 1965, a p. 319; A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili della persona e valori costituzionali, Giappichelli, Torino, 1997, a p. 151 e M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in AA.VV., Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, vol. II, Cedam, Padova, 1995, a p. 101. 3 Questa tesi fu da noi avanzata e argomentata già in Tecnica e diritti sociali nella regulation della banda larga, in G. DE MINICO (a cura di), Dalla tecnica ai diritti. Il caso della banda larga, Jovene, Napoli, 2010; Nuovi diritti e diseguaglianze digitali, in Astrid Rass., 11.10.2010. Nella stampa quotidiana, volendo: L’informazione bene costituzionale da proteggere, in Il Sole 24 Ore, 24.5.2011; Internet non si fermi a Eboli, in Il Sole 24 Ore, 7.7.2011; Welfare a rischio per lo stop del debito pubblico, in Il Sole 24 Ore, 02.10.2011. Abbiamo ripreso e approfondito il tema de qua con lo studio monografico Internet. Regola e anarchia, Jovene, Napoli, 2012. Fra le principali posizioni contrarie alla ricostruzione da noi proposta, si segnalano i lavori di: P. PASSAGLIA, Diritto di accesso ad Internet e giustizia costituzionale. Una (preliminare) indagine comparata , in http://www.giurcost.org/studi/passaglia.htm , a p. 20; P. TANZARELLA, Accesso a Internet: verso un nuovo diritto sociale?, Relazione al Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia: Il ruolo della giurisprudenza, Trapani, 8-9 Giugno 2012, in La Riv. Del Gruppo di Pisa, 3, 2012, in https://www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Palmina_Tanzarella_-_Accesso_a_Internet_verso_un_nuovo_diritto_sociale.pdf ; L. CUOCOLO, La qualificazione giuridica dell’accesso a Internet, tra retoriche globali e dimensioni sociale , in Pol. Dir, 2-3, 2012, a pp. 263 ss.; F. BORGIA, Riflessioni sull’accesso ad Internet come diritto umano , in La Com. Intern., 65, 3, 2012, a pp. 395 ss; T. E. FROSINI, Il diritto costituzionale di accesso a Internet, in M. PIETRANGELO (a cura di), Il diritto di accesso a internet, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011, a pp. 23 ss., e P. COSTANZO, Miti e realtà dell’accesso ad Internet (una prospettiva costituzionalistica), in P. CARETTI (a cura di), Studi in memoria di Paolo Barile, Passigli Editore, Firenze, 2013, a pp. 9 ss. Nella dottrina straniera, da tempo attenta al tema dei nuovi diritti connessi alle tecnologie, si vedano: W. SAUTER, Services of general economic interest and universal service in EU law, in European Law Review, 33(2), 2008, a pp. 167-193; D. F. SPULBER - C. S. YOO, Rethinking Broadband Internet Access, in http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1177378; nonché si consulti l’intero numero di Info - (con contributi di Berne, Falch, Feiio, Forge, Goggin, Milne, Simmon e Timmers), 19, 5/6, 2008, curato da M. CAVE - che offre una lettura economicamente orientata. Per un’analisi comparata cfr.: D.R. REISS, Agency Accountability Strategies After Liberalization: Universal Service in the United Kingdom, France, and Sweden, in Law & Policy, 31, 1, 2009, a pp. 111-141. Si veda il recentissimo documento della Corte dei Conti europea, Broadband in the EU Member States: despite progress, not all the Europe 2020 targets will be met, in http://www.astrid-online.it/static/upload/it_e/it_eca-special-report_broadband.pdf, quanto allo stato dell’arte della banda larga in Europa, il che dimostra quanto distanti siano le affermazioni sulla carta dalla loro concreta implementazione.

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Queste particolarità recano “indicazioni di prospettiva”4, che si risolvono nel valorizzare la dimensione

dinamica del diritto di accesso, che, lasciatosi alle spalle l’immagine statica coincidente con la sola

prestazione sociale, guarda al bene ultimo cui l’accesso tende. La suggerita lettura teleologica

dell’accesso lo promuove a strumento indispensabile per esercitare sul terreno digitale altre situazioni

soggettive: libertà fondamentali e/o economiche, sempre che Internet lo permetta.

Ci preme sottolineare che quando si parla di accesso a Internet si incontrano e si mescolano più piani:

uno è quello dell’intervento individuale del cittadino – titolare del diritto di accedere a Internet – l’altro,

quello macroeconomico, è il luogo di incontro tra operatori di rete e fornitori di contenuti; il giurista

dovrà tener conto di questo complicato intreccio se intenderà ideare una regolazione reasonable alla

consistenza effettiva di Internet.

Indicheremo prima i tratti comuni tra il diritto di accesso e i diritti sociali, e solo dopo le differenze.

Ricordiamo la limpida definizione di Mazziotti di Celso5 sui diritti sociali: pretese a che lo Stato faccia

quel quid satisfattivo rivendicato dall’individuo. Così il diritto a stare bene si realizza con la prestazione

sanitaria resa in conformità a certi parametri, perché in quel preciso momento la risposta pubblica

incontra la domanda collettiva di godere di buona salute. Il fatto che il bisogno sia comune ai consociati

non comporta per lo Stato il dovere di rendere la prestazione a chiunque, o almeno questo obbligo

generalizzato si attenua in proporzione alle capacità di spesa di ciascuno perché in tempo di crisi

all’etica dell’universalismo dei diritti sociali come l’uguaglianza formale vorrebbe, sintetizzabile nel

dovere di dare tutto a tutti, è subentrato il relativismo avaro nei beneficiari e nelle prestazioni, come

l’uguaglianza sostanziale giustifica. Lo diceva bene Luigi Ferrajoli6: lo Stato deve fare un passo avanti, si

deve muovere in direzione di coloro che hanno bisogno, non anche verso chi è già libero dalla

necessità. Il diritto sociale in questo spostare flussi di ricchezza da chi ha a favore di chi non ha realizza

una finzione: pone sulla stessa linea persone partite da punti diversi, iniziando così il suo percorso

costituzionalmente orientato verso l’uguaglianza sostanziale (art. 3, 2 co., Cost.).

Vediamo ora in che cosa l’accesso si allontanerebbe dalla categoria “diritto sociale”.

In primo luogo, intendiamoci sul concetto di accesso alla rete. Fermo restando la definizione

dell’OCSE7, che ha il limite di essere eccessivamente tecnica per un pubblico di giuristi, noi preferiamo

4 Il riferimento è al saggio introduttivo di P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in questa Rivista. 5 Cfr. nota 1. 6 L. FERRAJOLI, Stato sociale e Stato di diritto, in Pol. dir., 1, 1982, a p. 44, pensiero ripreso in seguito per esempio in Id., Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. ZOLO (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari, 1999, a pp. 263-292; Id., I diritti fondamentali nella teoria del diritto, in Id., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari, I ed., 2001, a pp. 119-175. Da ultimo, le chiare pagine in Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, 2018, passim. 7 OECD, Convergence and next generation networks (Rapporto reso in occasione del Ministerial meeting on the future of the internet economy, Seoul, Korea, 17 giugno 2008), in http://www.oecd.org/dataoecd/25/11/40761101.pdf, in part. a p. 9:

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proporre un’immagine: l’accesso come traghettatore digitale delle anime del nuovo millennio, che

sottrae l’uomo dalla sua realtà finita per immergerlo nell’universo illimitato e ignoto della rete. Già in

precedenti studi8 avevamo sottolineato la capacità la plurivalente di Internet: terreno di esercizio delle

libertà classiche, ma anche luogo per sperimentare forme inedite di democrazia diretta9 e, infine, trade

union tra i privati e l’amministrazione, in grado di consegnare ai primi prestazioni, E-Administration, E-

Health, o E-Education, un tempo non recapitabili a domicilio.

Se questa è la definizione di accesso, già il primo elemento che caratterizza i diritti sociali qui non

ricorre: la soddisfazione di un bisogno specifico dell’individuo. Infatti, nel momento in cui la piena

copertura digitale avrà raggiunto le nostre abitazione, questa prestazione ci tornerà utile se troveremo in

rete servizi e beni in grado di appagare la diversità dei nostri gusti e tendenze. Soltanto nel momento in

cui eserciteremo queste ulteriori libertà – fondamentali, sociali o economiche – l’accesso avrà assolto

alla sua missione di essere strumentale agli artt. 2 e 3 della Costituzione, perché ci avrà posto in

condizione di dialogare tra remoti, di seguire una conferenza tramite skype o di essere cittadini

equiordinati alla pubblica amministrazione. A differenza dei diritto alla salute o al lavoro – che

procurano il vantaggio al loro titolare con l’adempimento della prestazione da parte del debitore – il

diritto alla connessione non potrà dirsi soddisfatto con l’atto della copertura digitale, esso vede differito

il suo momento satisfattivo a un evento futuro e incerto: l’acquisizione di quella specifica utilità di volta

in volta procurata dalla navigazione. Quindi, la prima differenza è nel fatto che la mera disponibilità

della rete di per sé non basta, occorre invece che la rete offra svariate utilità secondo le diverse

inclinazioni del cittadino, altrimenti Internet sarà poco più di una scatola vuota, lontana dall’immagine

della prateria che moltiplica i terreni di gioco per lo sviluppo della dignità umana.

Un secondo elemento di differenza dal modello del diritto sociale secondo l’archetipo di Mazziotti, o

dei nostri padri costituenti Aldo Moro10 o Palmiro Togliatti11 – interessa il bisogno al quale il diritto è

funzionale. Ebbene, la pretesa alla connessione a Internet dovrebbe servire molteplici esigenze

«as a packed network able to provide services including telecommunications services and able to make use of multiple broadband, […] in which service related functions are independent from underlying transport-related technologies». 8 Il riferimento è a: Internet. Regola e anarchia, cit. sopra. 9 A. PAPA, Espressione e diffusione del pensiero in Internet, Torino, Giappichelli, 2008, in part. il cap. II, aveva da tempo rivolto la sua attenzione verso il pluralismo dei diritti in rete. 10 L’on. A. Moro, in Assem. Cost., seduta del 13 marzo 1947, a p. 2044 (http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed060/sed060nc.pdf), affermò la piena giuridicità dei diritti sociali e la necessità del loro inserimento nel testo costituzionale, contrariamente alla proposta di Calamandrei che li qualificava come mere aspettative, confinandoli non a caso nel preambolo. 11 P. Togliatti, in Assem. Cost. - I Sottocommissione, seduta del 9 settembre 1946 (http://www.camera.it/_dati/costituente/lavori/I_Sottocommissione/sed003/sed003.pdf), affermò la precedenza della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella, per cui la garanzia di affermazione dei nuovi diritti di carattere sociale dipendeva dall’indirizzo impresso alla iniziativa economica.

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dell’individuo, in quanto varie possono essere le attività, le libertà che esercitiamo in rete; in sintesi il

diritto è in grado di procurare utilità plurime differenziate, diversamente dal diritto sociale di prima

generazione che tendenzialmente giovava a quell’unico e corrispondente bisogno al quale era collegato.

Un ultimo tratto di autonomia consegue al fatto che mentre i diritti di accesso di prima generazione

sono un ascensore sociale che giova ai soli appartenenti alla medesima categoria, equiordinandoli nelle

effettive condizioni di esercizio di un dato diritto, l’accesso dell’età digitale pone sulla stessa linea

persone appartenenti a diversi gruppi sociali. Questa caratteristica, che potremmo definire multitasking,

discende dal fatto che i terreni di intervento si mescolano, si confondono reciprocamente in ragione del

fatto che Internet gioca su più piani sociali e su più livelli economici istantaneamente o in progressione

temporale. E allora inevitabile che la domanda del titolare dell’accesso non si possa limitare a esigere

dallo Stato una semplice e tipizzata prestazione, ma si articolerà nella pretesa a ulteriori e più complesse

condotte attive del debitore pubblico, e questo particolare profilo lo esamineremo da qui a breve.

2. Il governo delle reti di nuova generazione

Alcuni studiosi hanno da tempo auspicato che la fornitura di banda larga, cioè l’accesso veloce alla rete,

fosse acquisita alle prestazioni del servizio universale, adempiendo a una precisa missione sociale:

promuovere l’inclusione digitale con la fornitura di servizi a valore aggiunto, erogabili a un prezzo

accessibile e disponibili a prescindere dal luogo di residenza del cittadino, come la nostra impostazione

di un accesso costituzionalmente ancillare all’art. 3, co. 2, Cost. impone. Questa lettura teleologica

dell’accesso genera specifici dovere di attivazione in capo allo Stato, le cui modalità esecutive

dipendono dall’adozione di politiche regolatorie idonee, proporzionali e sufficienti alla mission indicata.

Giova sottolineare che, da ultimo, anche l’Europa si sta orientando verso il riconoscimento della banda

larga come prestazione da includere nel paniere del servizio universale: la proposta di nuovo Codice

europeo delle comunicazioni elettroniche12, per esempio, mira a modernizzare il regime del servizio

universale, ridefinendo il cd. servizio universale di base secondo un elenco minimo e a carattere

dinamico delle prestazioni erogabili online, ma comunque determinato ex post in ragione del grado di

diffusività della domanda. E su questa linea di policy si è mossa anche la nostra ANR13 che ha deciso,

anche se tardivamente, di inserire la banda larga a 2 Megabit nel perimetro del servizio universale, con

la conseguenza che al pari degli altri servizi insopprimibili (come l’acqua, il gas, la linea telefonica) essa

comporta per il soggetto pubblico l’obbligo di riconoscere al cittadino la copertura capillare.

12 COM(2016) 590 final, che mira a fondere in orizzontale le quattro direttive esistenti (quadro, autorizzazioni, accesso e servizio universale) per ricomprenderle in un’unica. 13 L’acronimo sta per autorità nazionale di regolazione, nel caso nostro è l’AGCOM, Delibera n. 253/17/Cons, All. A.

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Eppure, impegno europeo a parte, non valutiamo appagante la definizione europea di servizio

universale: se da un lato, essa finalmente acquisisce la banda larga – quella che ci fa dialogare, che ci fa

stare sui social network – al servizio universale; dall’altro lascia, fuori dal genus proprio la superfast broadband,

quella cioè necessaria ai cittadini per ricevere dall’amministrazione prestazioni di sanità, informazione e

intrattenimento da casa, come invece alcuni paesi già fanno.

Questo ritardo del legislatore europeo, che, destatosi dal torpore, rimane sempre un passo indietro

rispetto al progresso tecnologico, è dipeso dall’adozione di un criterio statico per selezionare le

prestazioni del paniere. Risulta di facile constatazione che un bene, non sufficientemente diffuso in

rerum natura – quale è appunto la connessione veloce a Internet – non possa essere richiesto dal

consumatore che, ignorandone i vantaggi, non domanda ciò che non conosce. Quindi, l’attuale

definizione di servizio universale è datata, vecchia, perché include nel paniere solo ciò che la

maggioranza dei cittadini è abituata a chiedere; ma siccome la maggioranza dei cittadini non ha la

superfast, non è propensa a farne richiesta. È un cane che si morde la coda, l’ho detto anche a Bruxelles,

mi hanno guardato male ma è così, è fare diritto vecchio mentre la tecnica va avanti14.

Ritengo invece che la superfast broadband debba rientrare nel paniere del servizio universale perché la sua

disponibilità diffusa consente ai cittadini un ruolo attivo sia come titolari dell’accesso nei confronti della

pubblica amministrazione che a titolo di operatori privati.

Vediamo ora quali le conseguenze di questa mutata prospettiva, qualora si adottasse, sul piano

economico del libero mercato. Essa rovescerebbe l’impostazione ideologica elaborata rispetto alle

imprese che gestiscono le reti di nuova generazione. Se le reti di nuova generazione non sono servizio

universale, l’impresa che governa quella infrastruttura rimane un’azienda privata tout court e quindi è

assolutamente libera di adottare la condotta in grado di garantirle il massimo profitto e a realizzare

un’architettura di rete più confacente alla sua politica aziendale. Ne consegue che gli altri operatori, i cd.

OLO, spesso privi dell’infrastruttura fisica di rete, potranno accedere alle next generation networks solo alle

condizioni poste da chi ha realizzato la rete.

Questa concezione dominicale della rete, tutta ripiegata su se stessa, perché egoisticamente gestita,

impedisce il compiersi della funzione sociale dell’impresa, pur imposta dall’art. 41 Cost., e alla

illegittimità interna si aggiunge la sua dubbia compatibilità comunitaria per manifesta irragionevolezza

con l’idea di base del Trattato di Lisbona. Quest’ultimo, pur riconfermando nel Protocollo 27 la fede

nell’economia di libero mercato, attenua gli eccessi di una visione isolatamente lucrativa dell’attività di

14 In un nostro precedente lavoro sia consentito il rinvio a: G. DE MINICO, Tecnica e diritti sociali nella regulation della banda larga, cit., a pp. 6-9, dove si suggeriva di sostituire il criterio quantitativo con quello dinamico-finalistico: l’inclusione nel paniere del servizio universale si dovrebbe concentrare sul bene ultimo procurato dalla prestazione di accesso piuttosto che sulla sua diffusività.

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iniziativa con i correttivi della coesione sociale e del riequilibrio territoriale (art. 3, comma 3, TUE) e in

crescendo rossiniano concretizza il concetto dell’economia sociale di mercato nel riconoscere

all’impresa assegnataria di un servizio di pubblica utilità una posizione a sé stante (art. 14 TFUE),

separata da quella propria dell’azienda finalizzata al solo guadagno.

Teniamoci sullo sfondo le aspirazioni sociali del Trattato di Lisbona, ben affermate ma timidamente

attuate nei fatti, per passare a esaminare le politiche pubbliche adottate dai nostri Governi nazionali.

a) Sul punto i programmi dei principali partiti e movimenti politici italiani concordano nel ritenere che

l’implementazione dei servizi a banda larga e ultralarga possa costituire la leva per la ripresa economica,

nonché lo strumento di superamento delle originarie condizioni di asimmetria sociale e territoriale del

Paese.

Si segnala, a tal proposito, che nel corso della precedente legislatura il Governo ha delineato la propria

linea di intervento nel documento “Strategia italiana per la banda ultra larga”, risalente al 3 marzo

201515, nel quale ha descritto le principali iniziative pubbliche a sostegno della rete veloce, in particolare

nelle cd. “aree bianche” (aree sottoposte a fallimento di mercato), in ottemperanza agli obiettivi fissati

dall’Agenda Digitale Europea. Nel marzo 2018 a questo documento ha fatto seguito l’adozione di un

Piano di intervento nelle “aree grigie”16 (cioè aree in situazioni di monopolio), e focalizzato soprattutto

sui servizi ultraveloci (cd. salto di qualità di 1 Giga), da attuarsi in parallelo con le politiche in tema di

sviluppo dei servizi cd. 5G.

L’intervento pubblico, in particolare, si sarebbe articolato attraverso le modalità di presenza già

delineate dalla precedente Strategia, vale a dire secondo politiche di attuazione a geometria variabile,

diversamente articolate in ragione delle specifiche esigenze17. Il piano si è poi concretizzato

nell’affidamento alla società Open Fiber SPA18 della concessione per la realizzazione e gestione della

rete nelle aree bianche presenti nelle principali regioni italiane.

15 Reperibile al seguente link: http://bandaultralarga.italia.it/piano-bul/strategia/. 16 Cfr. http://www.infratelitalia.it/wp-content/uploads/2018/04/banda-ultralarga-aree-grigie-aprile-2018.pdf. 17 La strategia delineata dal Governo PD prevedeva tre modalità di intervento: - modello di affidamento diretto: costruzione e mantenimento della proprietà infrastruttura in mano pubblica, cui seguirà l’affidamento ai privati su specifica richiesta; - modello a gara agevolata: costruzione e mantenimento della proprietà in mano dell’operatore privato, individuato dietro gara ad evidenza pubblica; l’operatore privato aggiudicatario dovrà ottemperare a precisi obblighi comportamentali, come obbligo di accesso e interconnessione, a prezzi abbordabili, a chiunque ne faccia richiesta; - modello del cd. partenariato pubblico privato, nel quale la proprietà dell’infrastruttura è affidata a un soggetto terzo, società o consorzio. 18 L’assetto azionario di Open Fiber è costituito da una partecipazione paritetica (50%) tra Enel S.p.A. e Cdp Equity S.p.A. (CDPE), società del Gruppo Cassa depositi e prestiti. Si occupa della realizzazione, gestione e manutenzione della rete in fibra ottica con la tecnologia Fiber to the Home (FTTH). In particolare, Open Fiber nasce da un progetto condiviso tra il Gruppo Enel e la Cassa Depositi e Prestiti, volto a realizzare l’infrastruttura lì

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Si tratta di un modello di costruzione della rete che secondo me presenta alcuni punti critici che

rappresentano un errore che si sconsiglia ai nuovi policy maker di perpetrare.

Il programma del precedente Governo sconta il difetto della varietà delle soluzioni individuate, che

creano una molteplicità di reti (reti ex incumbent, reti di proprietà pubblica, reti private). Si tratta di un

mix di investimenti pubblici e privati che non si sintetizza in un modello gestorio condiviso da un’unica

rete nazionale con evidenti duplicazione di tempi e costi. Ne sia prova il parallelo muoversi dei

principali operatori privati indipendentemente dalla mano pubblica. Infatti, TI ha annunciato il Piano

DigiTIM, che prevede di investire nel triennio 2018-2020 9 miliardi di euro per lo sviluppo

dell’ultrabroand. Né d’altro canto la pluralità di reti sembra in grado di soddisfare la competition fra gli

operatori, poiché la competizione è stimolata dalla pluralità dell’offerta, elemento che in questo caso

sembra mancare poiché l’offerta resterà immutata, e si baserà sull’utilizzo delle diverse reti realizzate a

livello wholesale. Senza contare che gli operatori più forti economicamente preferiscono investire

autonomamente nella costruzione dell’essential facility, da cui possono trarne vantaggio a livello wholesale e

retail, evitando di acquisirla a bene pubblico condiviso, in nome di un fisiologico conflitto di interessi.

b) L’altra soluzione indicata nei programmi di altre forze politiche19 in occasione del voto del 4 marzo

2018 prevede invece un’unica infrastruttura di rete a capitale prevalentemente pubblico.

Questa soluzione presenta il vantaggio20 di scindere l’operatore, attualmente verticalmente integrato, in

due soggetti economicamente e giuridicamente distinti: il gestore di rete, che in ragione delle sue origini

pubbliche sarebbe tenuto a sopportare buona parte del peso economico dell’intera operazione

infrastrutturale, e gli operatori privati del mercato a valle, legittimati ad accedere alla rete unica del

primo in condizioni di reciproca parità economica e contrattuale. Va tenuto presente che il risultato

dell’equivalenza negoziale tra operatori sarebbe naturalmente assicurato dal fatto che il titolare della

rete, non avendo interesse nelle contrattazioni sul mercato a valle, potrebbe considerare nello stesso

modo la domanda di accesso tanto dell’incumbent che del piccolo operatore perché per lui tutti i

richiedenti sarebbero al pari clienti nell’acquisto della capacità trasmissiva.

dove attualmente passano i cavi per l’energia elettrica, evitando lunghe e costose operazioni di scavo, e ad affittare quest’ultima a livello wholesale a tutti gli operatori privati che ne facciano richiesta. 19 Nel programma elettorale presentato dal Movimento 5 Stelle, poi ripreso nel Contratto di governo sottoscritto dal primo e dalla Lega, il Contratto per il governo del cambiamento, si ritrovano solo pochi cenni al grande tema delle TLC. Mentre per un esame comparativo dei vari programmi elettorali dell’ultima competizione, sempre in tema di policy regolatoria delle telecomunicazioni, si rinvia allo studio di G. DELLA CANANEA, Le convergenze tra i programmi delle forze politiche: prime indicazioni,in http://www.ilblogdellestelle.it/Immagini/Relazione%202.pdf , studio realizzato su incarico dell’on.le L. Di Maio. 20 Sottolineammo questo vantaggio quando, almeno da noi, si era eretici a contestare un conflitto fisiologico di interessi nell’ex dominante Telecom, in quanto operatore verticalmente integrato, sia in numerosi articoli apparsi sul Sole 24 Ore, che in sedi scientifiche: Tecnica e diritti, cit., cap. I, e in Internet. Regola e anarchia, cap. III.

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Anche questa proposta ha punti di debolezza: essa concentra l’intera platea degli operatori su

quell’unica next generation network creata dal soggetto pubblico. Quindi, diversamente dalla soluzione

precedente, essa non moltiplica le piattaforme, cioè il mezzo tecnico, ma diversifica i soggetti economici

operanti sul mercato a dettaglio, costretti ad avvalersi della medesima rete per prestare il servizio

all’utente finale.

Il principale svantaggio di questa impostazione è di tipo economico perché imputa al soggetto pubblico

gli insostenibili costi fissi di realizzazione dell’infrastruttura, lì dove il fatto che già esistano parti

consistenti di rete in fibra, costruite dagli operatori privati, avrebbe consigliato il loro ragionevole

utilizzo, salvo ulteriori azioni di completamento dove la mano privata per disutilità economiche era

mancata. Né questa tesi è in grado di risolvere il problema della dominanza dell’ex incumbent che,

disponendo già di una sua rete in fibra, avrebbe un interesse antagonista a quello dello Stato a

trasmigrare sull’infrastruttura di quest’ultimo, il che incentiverebbe il perpetrarsi di suo comportamenti

abusivi a danno degli altri operatori.

2.1. Qualche idea sull’identità del gestore delle nuove reti

Come ci insegna l’Unione Europea in materia21, quando si tratta di reti, il servizio erogato si considera

di pubblica utilità, perché le reti fanno trasferire le idee, incrementare il nostro patrimonio conoscitivo,

mescolare le opinioni politiche, in ultima istanza intervengono sulla formazione del consenso politico;

di conseguenza le next generation network dovrebbero essere imprese – dalla forma pubblica o privata il

che sarebbe abbastanza indifferente – caratterizzate da una forte vocazione sociale.

Questo vincolo di destinazione imprescindibile comporterebbe che la regìa dell’intera operazione – dal

disegnare la fisionomia del futuro gestore all’orientarne l’azione verso l’integrazione territoriale e

l’inclusione sociale – debba rimanere ben salda nelle mani dello Stato. Questi, infatti, si avvarrebbe dei

privati, preferibilmente nella loro dimensione collettiva, per lo svolgimento di un’attività d’interesse

generale, sempre che i suoi delegati fossero all’altezza dei compiti affidati loro. Se la sussidiarietà è una

relazione di ausilio del privato allo Stato, a quest’ultimo spetterà decidere se e a quali condizioni

condividere il lavoro con i privati, guidandone in anticipo gli sviluppi e, se del caso, intervenendo per

riallinearlo ai fini sociali22.

21 Si consulti il sito ad hoc della European Commission, in particolare della DG Communications Networks, Content and Technology, dove, tra i vari obiettivi, figura anche quello di “Ensuring everyone in the EU has the best possible internet connection, so they can fully engage in the digital economy, the so-called “connectivity for a European gigabit society”, in https://ec.europa.eu/commission/priorities/digital-single-market_en. 22 Problemi analoghi ricorrono ogni qual volta lo strumento negoziale venga impiegato per realizzare public policies, è il caso, ad esempio, dell’autoregolazione promossa a fonte di produzione del diritto. In proposito: G. DE MINICO, Regole. Comando e consenso, Giappichelli, Torino, 2005, in part. Cap. 4.

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In caso contrario, cioè in assenza di intervento conformativo dello Stato, gli operatori gestirebbero la

rete a proprio esclusivo vantaggio, con inevitabile sacrificio del bene comune: pluralismo delle fonti

informative, inclusione sociale ed equilibrio territoriale, asservito al progetto egoistico dell’impresa

commerciale.

In un’ottica funzionalizzata al bene comune l’impresa commerciale, sensibile agli interventi orientativi

del legislatore, subisce una profonda deviazione dal modello privatistico, perché il perseguimento del

fine lucrativo è ammesso nella misura in cui è compatibile con gli scopi sociali della promozione

territoriale delle zone in digital divide e dell’equal access alla rete tra i fornitori di servizi. Le deroghe al

diritto commerciale si giustificheranno allora alla luce di queste finalità e l’impresa di diritto speciale

riserverà poteri statici e dinamici allo Stato, anche lì dove fosse estraneo alla compagine societaria23.

Mi preme sottolineare che l’impostazione da me proposta presenta l’indubbio vantaggio di lasciare ai

privati l’iniziativa economica anche nella realizzazione della rete, liberando lo Stato dai pesanti oneri, ma

comporta che il soggetto pubblico imponga al gestore privato della rete almeno tre condizioni affinché

sia assolta la vocazione sociale dell’essential facility.

In primo luogo, l’architettura delle reti non potrebbe essere definita dal titolare, perché deve essere

neutrale in modo da consentire agli altri operatori il suo utilizzo compatibilmente con la propria rete,

altrimenti l’accesso rimarrebbe sulla carta, perché di fatto subordinato alle condizioni unilateralmente

imposte dal titolare.

In secondo luogo, va ricordata una Raccomandazione europea del 201024 che ha rappresentato una

chiave di volta nella policy regolatoria europea, essa infatti ha preferito la forma della società consortile, il

cui patrimonio si compone degli apporti, in denaro o in natura, di tutti gli operatori per il gestore di

rete. La Raccomandazione, corretta nell’impostazione di base, devia nelle sue implicazioni: in questa

specie di condominio, coloro che conferiscono gli apporti economici per creare la rete in comune non

sono equiordinati a colui che ha investito economicamente di più nella costruzione della rete e,

conseguentemente, quando si tratterà di andare a decidere la gestione della rete, il voto dei primi peserà

di meno. Per queste ragioni da tempo ho ritenuto che il soggetto pubblico debba imporre, non solo

obblighi di struttura, ma anche di comportamento, nel senso che i diritti amministrativi di coloro che

gestiscono la rete dovrebbero essere equiordinati secondo un criterio pro capite, a differenza dei relativi

introiti economici, che invece devono seguire la logica del capitale e quindi essere proporzionati al

conferimento iniziale. Solo a queste condizioni l’accesso degli operatori minori alla rete sarà assicurato

23 Per un approfondimento delle questioni strutturali e funzionali della società di gestione sia consentito il rinvio alle pagine di Internet. Regola e anarchia, cit., a pp. 116-126, e più in generale all’intero Cap. 3. 24 Commissione Europea, Draft Commission Recommendation on regulated access to Next Generation Access Networks (NGA) C(2010), giugno 2010, in http://ec.europa.eu/information_society/policy/ecomm/library/public_consult/nga/index_en.htm.

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quanto quello dell’incumbent perché i primi potranno sedere al tavolo delle trattative con gli stessi poteri

amministrativi del dominante. In caso contrario, avremo arricchito lo scenario tecnologico, ma non

avremo moltiplicato le occasioni di iniziativa economica degli altri imprenditori; e agli utenti del

mercato a valle verranno offerti servizi formalmente differenti, perché imputabili a soggetti diversi, ma

con le stesse caratteristiche, in quanto determinate dall’incumbent che ha disegnato solitariamente

l’architettura di rete. Questa evenienza rimanda a una concezione romanistica della rete, oggetto di

dominio esclusivo, di acquisizione proprietaria di chi la ha costruita, come se le antiche categorie

concettuali dello ius escludendi omnes alios potessero essere trasferite automaticamente su Internet realtà

della condivisione.

La terza condizione, sempre secondo il nostro punto di vista, prevede un’attiva vigilanza quanto

all’obbedienza della società della rete alle condizioni di governance socialmente orientate; e tale controllo

anticipato o postumo secondo l’occorrenza ben si potrebbe affidare alle ANR nazionali sulla base della

loro supposta indipedenza genetica e funzionale dagli operatori forti, salvo un accertamento del

possesso reale di questo requisito.

In conclusione, la nostra proposta richiede che il modello di società di gestione, alla quale ogni

operatore di TLC conferisce la sua porzione di rete, sia conforme a precisi obblighi dettati dalla sua

vocazione sociale: l’equiordinazione dei partecipanti nei diritti amministrativi, l’equal access degli stessi nei

poteri gestori, ma l’asimmetria nel godimento dei diritti economici proporzionali col conferimento

iniziale, e infine la subordinazione a un organismo di vigilanza pubblico e neutrale.

3. La net neutrality: nuovo diritto o bene finale dell’accesso?

A questo punto della trattazione interroghiamoci sulla relazione che corre tra chi dispone della capacità

trasmissiva e coloro che vendono i servizi e beni veicolati dal flusso di dati.

Qui il riferimento è alla net neutrality, che ha un’incidenza immediata sul nostro diritto di accesso, a

condizione che l’intero discorso abbia il suo punto di attenzione sulla persona, e non sull’iniziativa

economica.

La definizione di net neutrality non è univoca25, variando in ragione dell’ottica politico-giuridica adottata.

Tuttavia, possiamo muovere dalla sua concezione originaria, vale a dire quella elaborata nel 2005 dal

Congresso degli Stati Uniti, che rappresenta oggi il contenuto minimo del principio. Tale principio si

identifica sostanzialmente nel divieto per il fornitore dell’accesso alla rete di discriminare, in qualità o

velocità, contenuti, applicazioni o servizi offerti da chi vuole diffonderli alla comunità indifferenziata

25 A.A. GILROY, CRS Report for the Congress. Net neutrality: Background and issues, 2008, in http://price.house.gov/issues/uploadedfiles/media5.pdf, a p. 4: «There is ono single accepted definition of net neutrality».

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dei naviganti in Internet26. Declinato in positivo, esso si risolvere nell’imporre l’obbligo di parità di

trattamento da parte del titolare della rete nei confronti dell’operatore che chieda l’accesso alla

medesima.

Alla luce del valore della neutralità della rete, quest’ultima è accostabile al bene comune27, perché

parimenti si sottrae a pretese dominicali esclusive; infatti, il titolare della rete non è libero di decidere se

e a quali condizioni mettere a disposizione la sua azienda, cioè la capacità trasmissiva di rete. Questi è

invece tenuto a condividere i byte con chiunque e a riservare pari trattamento negoziale, trattando le

domande di accesso in modo uguale. Nel caso in cui il gatekeeper rallentasse un contenuto per accordare

più banda al contenuto del concorrente che ha pagato un’eccedenza in cambio di maggiore velocità,

avrebbe disposto della rete come se fosse un bene di sua esclusiva pertinenza. Al contrario, le

precedenti riflessioni sulla indipendenza di Internet da titoli di acquisizione esclusiva hanno come

conseguenza la necessaria parificazione dei fornitori dei contenuti nella pretesa di accedere alla rete a

prescindere dalle rispettive capacità di spesa28.

All’analisi della rete come bene comune si affianca la ricostruzione della stessa rete come essential facility29

di un’attività d’impresa. Infatti, la rete virtuale, non diversamente da quelle fisiche di telecomunicazioni,

26 Sul tema la discussione giuridica ha ormai assunto dimensioni globali. Nell’ambito dell’Unione europea si ricordano i contributi monografici – quanto ai saggi in riviste essi saranno citati di volta in volta – di: K. MANIADAKI, EU Competition Law, Regulation and the Internet: the Case of Net neutrality, Aspen Pub, Aspen, 2014; Observatoire européen de l’audiovisuel, Why Discuss Network Neutrality?, Strasbourg, 2011. Sull’azione regolatoria negli Stati Uniti sono intervenuti, tra gli altri: D. LAMBERT, Net Neutrality & the fcc, Nova Science Publishers Inc, Commack, NY, 2015; M. HOWARD, Net Neutrality for Broadband: Understanding the fcc’s Open Internet Order and Other Essays: Volume 3, Puma Concolor Aeternus Press, 2015; A. C. FIRTH e N. H. PIERSON, The Open Internet, Net Neutrality and the FCC, Nova Science Publishers, New York, Commack, NY, 2011. Più in generale, ai particolari fini di questo scritto, sono risultati di particolare interesse: Z. STIEGLER, Network Neutrality and the Fate of the Open Internet, Lexington Books, Lanham, 2014; C. T. MARSDEN, Net Neutrality: Towards a Co-regulatory Solution, Bloomsbury Academic, London, 2010. In una prospettiva inclusiva dei beni giuridici coinvolti: L. BELLI – P. DE FILIPPI (a cura di), Net neutrality Compendium: Human Rights, Free Competition and the Future of the Internet, Springer International Publishing Switzerland, Cham, ZG, 2015; F. DELL’AVERSANA, Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e copyright, Aracne, Roma, 2014; D. C. NUNZIATO, Virtual Freedom: Net neutrality and Free Speech in the Internet Age, Stanford Law Books, Stanford, Calif., 2009. Né mancano le voci critiche, tra cui: T. W. HAZLETT, The Fallacy of Net Neutrality, Encounter Books, New York, 2011; R. ZELNICK e E. ZELNICK, The Illusion of Net Neutrality: Political Alarmism, Regulatory Creep, and the Real Threat to Internet Freedom, Independent Publishers Group, Stanford, 2013. 27 Consapevoli della non pertinenza dei beni comuni all’impostazione del nostro lavoro, ci limiteremo a ricordare nella dottrina straniera l’autorevole voce di E. OSTROM, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990 (traduzione italiana: Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006). Il suo lavoro è stato oggetto di approfonditi studi anche da parte della nostra scienza giuridica, dai civilisti (Rodotà) ai pubblicisti (Lucarelli), che hanno contribuito ad arricchirne la tesi con apporti originali. 28 Per una ricostruzione critica delle problematiche legate alla diffusa pratica commerciale fra titolare di rete e fornitori di contenuti e servizi, cd. di zero rating, e delle implicazioni sulla tutela della net neutrality e dei diritti degli utenti finali, si veda: M. AVVISATI, Autoritá indipendenti, vigilanza e procedimento amministrativo. Il caso zero rating, in Pol. Dir., 3, 2017, a pp. 505 ss. 29 La dottrina dell’essential facility nasce nelle Corti americane (per i leading case cfr.: United States v. Terminal Railroad Association of Saint Louis, 224 US 383, 1912; United States v. Griffith, 334 US 100, 1948; Otter Tail Power Co.v. United

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è uno strumento indispensabile per consentire l’esercizio dell’iniziativa economica online. Quindi, il

gatekeeper nell’aprire e chiudere la porta che introduce in rete i fornitori dei contenuti non li deve

selezionare in ragione della loro capacità economica, altrimenti l’accesso da libero diventerebbe

condizionato da una barriera negoziale costituita dalla volontà del gatekeeper.

Gli obblighi posti a tutela del principio della net neutrality sono stati inoltre accostati alla disciplina

asimmetrica30, che vige principalmente proprio nel settore delle comunicazioni elettroniche, e che

impone al titolare della rete fissa – un imprenditore verticalmente integrato e presente anche nel

mercato a valle – di consentire a essa l’accesso e assicurare un equal treatment agli operatori economici

privi di rete. In questa prospettiva, allora, la funzione della net neutrality – che pure interviene tra i

medesimi soggetti, vale a dire tra un fornitore di rete fissa o virtuale e un fornitore di servizi che di

quella rete ha bisogno per trasmettere – non ha nulla a che vedere con la norma asimmetrica, perché

non è volta a riequilibrare una posizione di iniziale vantaggio tra l’operatore verticalmente integrato

titolare della rete e i fornitori dei servizi che ne sono privi31. La sua funzione consiste invece nel

prevenire che si crei tra i vari fornitori dei servizi finali una disparità dovuta a differenti condizioni di

accesso ai byte.

In sintesi, all’obbligazione positiva del titolare della rete di equiordinare le domande dei fornitori dei

contenuti corrisponde in favore di questi ultimi il diritto a ricevere condizioni negoziali imparziali

secondo il principio dell’equal treatment, nel senso che la capacità trasmissiva che viene distribuita tra i

vari fornitori di servizi dovrebbe essere la stessa a prescindere dalla capacità di spesa, per quanto detto

prima: qui si sta operando sul mercato delle idee, non sulla piazza dei prodotti.

Veniamo ora al rapporto che si instaura fra titolare della rete e l’utente che chiede l’accesso alla

medesima.

In tal caso Internet non può più essere considerata solo come un’essential facility, disciplinata da regole

volte a equiordinare i fornitori di contenuti al fine di non alterare la competitività a discapito del

States, 410 US 366, 1973; Aspen Skiiing Co. v. Aspen Highland Skiing Corp., 472 US 582, 1985). Ridotta ai minimi termini, essa impone a un’impresa, in posizione dominante e nella disponibilità di un’infrastruttura, a sua volta indispensabile per competere, l’obbligo di renderla accessibile ai concorrenti a condizioni non discriminatorie. La letteratura italiana è estesa, sul punto per noi pertinente del rapporto tra eteronomia e legge di mercato, tra i primi si vedano: D. DURANTE – G. MOGLIA – A. NICITA, La nozione di essential facility tra regolamentazione ed antitrust, in Mercato, Concorrenza, Regole, 2, 2001, a pp. 257 ss. Sulla giurisprudenza dell’Unione Europea, almeno: I. PICCIANO, I confini interpretativi della dottrina dell’essential facility e sua applicazione al mercato del trasporto ferroviario in Italia: problemi e limiti, in Dir. Com. Scambi Inter., 2, 2004, in part. a pp. 388-390. 30 Non è questa la sede per approfondire attributi e finalità della regolazione asimmetrica, sia pertanto consentito il rinvio a: G. DE MINICO, Le Direttive CE sulle comunicazioni elettroniche dal 2002 alla revisione del 2006. Un punto fermo?, in P. COSTANZO – G. DE MINICO – R. ZACCARIA (a cura di), I “tre codici” della società dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2006, in part. a pp. 170-173. 31 D. L. SIERADZKI – W. J. MAXWELL, The FCC’s Network Neutrality Ruling in the Comcast Case: Towards a Consensus with Europe?, in Comm. and strategies, 72, 2008, a p. 80.

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consumatore finale. Qui prevale, invece, la concezione della rete intesa quale strumento essenziale per

l’esercizio di una libertà, alla quale si estende in principio la tutela accordata alla stessa libertà. Già la

nostra Corte Costituzionale32 aveva affermato l’inscindibile endiadi tra libertà e accesso al mezzo, pur

subordinando questo al limite del “tecnicamente possibile”. Più di recente il principio è stato ripreso dal

Conseil Constitutionnel33, proprio con specifico riferimento alla rete, rispetto alla quale «l’expression des idées

et des opinions, […] implique la liberté d’accéder à ces services». Sicché, il fornitore dell’accesso che accordasse

priorità a un contenuto e, di conseguenza, ne rallentasse un altro, sceglierebbe per il consumatore le

idee che lo debbano raggiungere in anticipo rispetto alle altre.

In definitiva, ledere il principio di neutralità della rete significa menomare il diritto di accesso sui due

versanti del rapporto: difatti, il comportamento discriminatorio del gatekeeper non solo limita in prima

battuta il diritto all’iniziativa economica dei fornitori di contenuti esclusi dalla corsia preferenziale,

unitamente al loro diritto alla manifestazione del pensiero, ma consuma altresì la libertà di scelta del

cittadino della rete, che solo in apparenza si potrà orientare tra più contenuti, ma di fatto sarà guidato

verso l’idea che gode del privilegio della fast lane accordata dal fornitore dell’accesso.

Tutto ciò era accaduto in America, l’antica definizione del 2005 di network – dico antica perché nel

mondo della tecnologia è tutto rapidissimo – riformulata nel 2015 dalla Federal Communication

Commission, net neutrality34, significa che non si deve strozzare un contenuto rispetto a un altro, non lo si

deve rallentare, non lo si deve postergare.

Cambiata l’amministrazione, ossia il vertice politico degli Stati Uniti d’America, è cambiato anche il

vertice della Federal Communication Commission e questa regola dell’obbligo di Net posto da una norma

eteronoma è caduta, abbiamo avuto la vera e propria revoca di questa regola tramite l’introduzione di

una regola opposta. È avvenuta la piena deregulation, lo Stato si è ritirato, ha fatto un passo indietro, e

consentito che la capacità trasmissiva fosse oggetto di negozio fra le diverse parti coinvolte. Tutto

questo pregiudica l’iniziativa economica, ma a conti fatti pregiudica anche la nostra posizione di utenti.

Difatti, in concreto disporremo dell’accesso alla rete, ma quando vi entreremo non saremo

32 La Corte Costituzionale (sentenze nn. 48/1964 e 225/1974 e, più recentemente, 112/1993) ha riconosciuto l’“indispensabile strumentalità” tra il mezzo divulgativo del pensiero e quest’ultimo, ritenendo il primo fase prodromica per la realizzazione della libertà. In dottrina, in senso adesivo: P. BARILE, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. Dir., vol. XXIV, Giuffrè, Milano, 1974, a p. 424 ss., nonché C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano , Giuffrè, Milano, 1958, a p. 26. Parzialmente diversa è la posizione di A. PACE (A. PACE e M. MANETTI), Art. 21, in G. BRANCA – A. PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 2006, a pp. 27-28. 33 Conseil constitutionnel, Décision n. 2009-580 DC, sur projet de loi «favorisant la diffusion et la protection de la création sur internet», del 10 giugno 2009, in AJDA, 2009, a p. 1132 (con osservazioni di S. BRONDEL). 34 Il 26 febbraio 2015 il regolatore statunitense FCC (Federal Communications Commission) approvò il cosiddetto Open Internet Order che definiva le regole volte a preservare la natura aperta di Internet. Il rapporto è reperibile al seguente link: https://docs.fcc.gov/public/attachments/FCC-15-24A1.pdf.

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effettivamente liberi di scegliere il prodotto che vogliamo, piuttosto ci verrà imposto il prodotto che ci

arriva più velocemente, ancorché non lo abbiamo deciso noi, ma lo ha deciso chi a monte ha distribuito

diversamente la capacità trasmissiva.

La giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, che non è mai intervenuta sul tema, ma è

intervenuta tantissimo sulla radiotelevisione, proprio questo ci aveva detto, che la libertà del diritto è

come se fosse un’ombra che si proietta indietro sulla pretesa all’equiordinazione nella disponibilità del

mezzo, quindi non diversamente da quanto si sta affermando rispetto all’argomento in esame. Questa

impostazione non ha avuto seguito nel nuovo corso regolatorio del presidente Trump35, mentre ha

incontrato il favore di una parte economisti americani, che hanno preso le distanze dalla posizione

presidenziale in una famosa lettera inviatagli36.

Andiamo infine al terzo scenario, molto attuale, che riguarda l’accesso alla rete e le relative libertà

fondamentali nei momenti di crisi, che quindi potrebbero subire ingiustificate compressioni, anche

quando esercitate attraverso la rete. Qui faccio riferimento a tutta la legislazione antiterroristica, anche

Europea – ultima la Direttiva 2017/541 sulla lotta contro il terrorismo – nella quale si disegnano nuove

figure di reati terroristici ritenute fortemente lesive dei principi fondamentali del diritto comunitario.

Il terrorismo oggi sfrutta tutte le potenzialità della rete, utilizzandola come strumento per raggiungere i

propri obiettivi, ma quando si tratta di scegliere dove posizionare l’ago della bilancia tra le esigenze di

sicurezza e la protezione delle libertà, a nostro parere il legislatore europeo sposta il baricentro verso la

sicurezza a danno dei diritti fondamentali.

Questo errore nella ricerca del punto di equilibrio d’altro canto accomuna il legislatore sovranazionale

con quello francese, che nella recente Loi 1510 del 2017 Renforçant la sécurité intérieure et la lutte contre le

terrorisme37 revoca lo Stato d’emergenza, per mantenere fede alla promessa elettorale di Macron, ma poi

si dimentica di alleggerire le libertà dal peso delle misure limitative dettate dal pregresso état d’urgence. Il

risultato è stato la stabilizzazione permanente dello Stato d’emergenza a tutto danno del principio di

legalità, della rule of law e quindi anche delle libertà in rete.

35 Il Governo Obama la FCC aveva stabilito regole cogenti a difesa della net neutrality, riassumibili nella seguente triade: no degradation, no prioritization and no blocking. Per una posizione in chiave critica delle recenti scelte del Governo Trump (Federal Communication Commission, Declaratory Report, Ruling and Order on the Matter of Restoring Internet Freedom, December 14th 2017, FCC-17-166, WC Docket No. 17-108, in https://www.fcc.gov/document/fcc-releases-restoring-internet-freedom-order), che ha ristabilito la libertà di prevedere accordi commerciali fra operatori anche a discapito del principio della parità di trattamento, sia consentito il rinvio al mio Net Neutrality: Trump’s Deregulation Sets Digital Giants Free, in Social Europe, 5 febbraio 2018. Per un disteso esame delle questioni di diritto costituzionale inerenti la net neutrality si veda il mio recente lavoro: Net neutrality e le generazioni future, in M.R. ALLEGRI – G. D’IPPOLITO (a cura di), Accesso a Internet e neutralità della rete fra principi costituzionali e regole europee, Roma, Aracne, 2017, a pp. 159 ss. 36 Cfr. Internet Pioneers and Leaders Tell the FCC: You Don’t Understand How the Internet Works, reperibile in: https://pioneersfornetneutrality.tumblr.com/. 37 Reperibile in: https://www.legifrance.gouv.fr/eli/loi/2017/10/30/INTX1716370L/jo/texte.

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Esaminiamo la normativa francese nelle premesse ideologiche e nel contenuto.

Quanto alle prime, che costituiscono l’occasio legis dell’atto in oggetto, essa dà seguito alla promessa del

Presidente Macron di non differire ulteriormente la vigenza dello stato di emergenza, dichiarato nel

2015 e giunto alla sua ventiseiesima proroga38: cioè la legge vuole essere un ritorno alla normalità

istituzionale perché ragioni di opportunità politica e valutazioni giuridiche consigliavano una lettura

della realtà nei termini del venire meno dello stato d’emergenza. Ne consegue che la legge in esame non

si presenta più come una disciplina eccezionale e a tempo determinato, ma nelle vesti di una regolazione

ordinaria e a vigenza illimitata.

Chiediamoci se la promessa del Presidente di revocare l’état d’urgence sia stata mantenuta anche nella

sostanza. Risponderemo a questa domanda dopo aver esaminato la legge francese nel suo contenuto.

La legge intende individuare un’equilibrata misura di coesistenza tra sicurezza e libertà, ma, a differenza

dei modelli che la hanno preceduta, non ha come presupposto lo stato d’emergenza, non più prorogato,

bensì la constatazione di una singolare situazione di fatto: il terrorismo del tempo ordinario. Con questa

espressione intendo dire che giustamente i francesi hanno smesso di differire di tre mesi in tre mesi la

situazione eccezionale perché essa ha perso i tratti dell’eccezionalità e della temporaneità per acquisire

quelli dell’ordinarietà e della longevità. La legge coglie bene una situazione di fatto effettiva: il

terrorismo non è più quell’episodio racchiudibile in una parentesi temporale irripetibile, ma un

concatenarsi di eventi che si dilatano e si distendono nello spazio e nel tempo.

Il terrorismo di ultima generazione rivela un nuovo volto, mutando da evento isolato e straordinario a

fenomeno endemico: pur se imprevedibile nel quando, dove e come, la nuova eruzione di violenza

accadrà. Esso dunque non è più un fatto compreso in un arco temporale definito, superato il quale la

vita di un ordinamento ritorna alla sua normalità, ma tende a protrarsi sine die, accompagnando tutti

nell’agire quotidiano. È dunque un terrorismo del tempo ordinario39.

Anche le nuove tecnologie concorrono per molteplici versi: mentre da un lato amplificano a dismisura

la conoscenza e la percezione della gravità degli atti di violenza, facendo crescere nei cittadini la

consapevolezza della necessità di difendersi; dall’altro, possono fornire strumenti per il proselitismo, la

38 Volendo, per un’analisi della normativa francese e per un inquadramento generale dello stato di necessità e della sua compatibilità costituzionale e comunitaria, si rimanda al nostro volume: Costituzione. Emergenza e Terrorismo, Jovene, Napoli, 2016, passim. 39 È altresì un terrorismo i cui autori sfuggono a una categorizzazione tradizionale, secondo i canoni tipici del ribellismo sociale o della sovversione politica, fomentata da organizzazioni interne o straniere. La libertà di riunione o di associazione del vicino di casa può essere la radice occulta di un atto di violenza che ci coinvolge. La libertà di culto può diventare il terreno di coltura della radicalizzazione violenta di un giovane fino a ieri integrato in un comune tessuto sociale. Lo stesso può dirsi per la libertà di manifestazione di pensiero o di stampa, mentre la libertà di domicilio cambia da presidio essenziale della privacy a occasione di occultamento di strumenti di morte. In tal modo, concetti giuridici che hanno concorso decisivamente a costruire la civiltà moderna e lo stato di diritto si tramutano in strumenti di quotidiane diffidenze disgregatrici del tessuto sociale e di distruttive paure.

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formazione di gruppi eversivi, la progettazione di strumenti di morte e dell’occasione per usarli, o infine

essere veicoli della propaganda volta ad aumentare la paura in chi teme di essere colpito. Le radici della

nostra moderna convivenza civile sono anche le radici di una quotidiana paura.

“Per questo siamo davanti a un fenomeno che per le sue caratteristiche e dimensioni fa pensare a un

vero e proprio stato di guerra”40.

Quindi, con un’apprezzabile senso pragmatico, il legislatore francese ha smesso di fingere e ha trattato il

terrorismo per ciò che è: un’emergenza quotidiana che come tale non potrà più essere dichiarata con un

atto straordinario del Consiglio dei ministri. Non è in discussione la sua esistenza, bensì la legittimità

costituzionale di questa azzardata operazione legislativa. La legge francese ha normalizzato lo stato

d’emergenza e ha convertito la sua regolazione eccezionale e derogatoria in generale e ordinaria.

Dalla lettura della legge41 viene fuori una torsione a danno delle libertà accentuata dall’aggravante che

col venir meno dell’état d’urgence, sparisce anche la necessaria garanzia del controllo giurisdizionale

sull’atto costitutivo dello stato d’eccezione. Questa osservazione ci introduce alla questione forse più

controversa della nuova legge: il controllo del giudice. Qui la legge dimentica una norma basilare della

Costituzione della V Repubblica francese, l’art. 66, che, stando alla lettura costituzionalistica più

garantista, affida l’intero fascio delle libertà fondamentali al sindacato anticipato o successivo del giudice

ordinario. Invece il legislatore di oggi ha preferito un’interpretazione più restrittiva dell’art. 66,

rimettendo la sola libertà personale alle cure del giudice imparziale ordinario. Tutte le altre libertà

spettano al giudice amministrativo, il quale per status e provenienza offre attenuate garanzie di neutralità

rispetto all’Esecutivo, il che lo rende l’autorità meno adatta a decidere sulle libertà.

Si condivide l’equiparazione della proroga ripetuta dello stato d’urgenza alla sua normalizzazione, ma al

tempo stesso si deve criticare il non aver alleggerito le misure limitative delle libertà, come il mancato

rafforzamento delle garanzie giudiziarie, perché è venuta meno la tradizionale giustificazione di una loro

durata definita nel tempo.

La Francia della rivoluzione francese si sta avviando a essere uno stato di polizia a tempo indefinito che

si propone di scavalcare lo Stato di diritto di giacobina memoria.

In conclusione riteniamo che il legislatore quando si accosta a Internet si dovrebbe comportare con

leggerezza, accarezzare le libertà fondamentali piuttosto che imporvi regole costrittive e irrispettose

della proporzionalità e della precauzionalità, perché se questa ipotesi si dovesse verificare, a noi cittadini

40 L’espressione di E. CHELI è parte della sua più ampia riflessione svolta nel recensire il nostro libro, citato nella nota 37, e apparsa in Dir. Pubbl, 2, 2017, p. 648 ss. 41 Per un approfondimento dei punti critici della politica di normalizzazione dello stato d’emergenza sia consentito il rinvio a: Terrorismo: emergenza, promesse (mancate?) del presidente Macron?, in http://www.affarinternazionali.it/2017/11/terrorismo-emergenza-promesse-macron/

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digitali si spalancano le porte di una camera buia, non i confini di una prateria dove si compie la nostra

dimensione costituzionale.

4. Il cerchio si chiude

Per chiudere il nostro ragionamento svolgeremo un’ultima riflessione: assistiamo a un crescente

interesse del decisore politico verso la realtà digitale, i ripetuti tentativi di costituzionalizzare Internet ne

sono una prova.

Nel corso della XVI legislatura l’Atto Senato 248542 voleva aggiungere un nuovo comma all’art. 21

Cost. per introdurre il diritto di accesso a Internet. In quella occasione43 espressi la mia contrarietà a

modificare la Costituzione anche per come era formulato tale disegno di legge, incapace di andare oltre

la nuda affermazione del diritto in esame. Ebbene, questa disposizione rischiava di essere inutile,

considerato che Internet è serenamente acquisibile alla nozione di “altri mezzi di diffusione del

pensiero” per sintesi citati nella stessa endiadi libertà di parola e mezzi espressivi, di cui all’art. 21, co.1,

Cost. Per altro verso, il ricorso all’art. 138 Cost. non sarebbe stato privo di rischi perché avrebbe aperto

la via a inopinate modifiche della Prima parte della Costituzione, che neanche l’argomento

dell’irrivedibilità del nocciolo duro delle libertà sarebbe riuscito ad arginare per la debolezza di un limite

indefinito.

Inoltre, affermare l’esistenza di un nuovo diritto senza indicarne il debitore – come faceva il precedente

disegno di legge – significa negare il diritto che si vuole riconoscere44 «(…) non esistono diritti

giuridicamente tutelabili in assenza di doveri che l’ordinamento è in grado di imporre, è questa la

ragione per cui la legge non può permettere solamente nel momento stesso in cui obbliga».

Anche l’ultima legislatura è ritornata sulla costituzionalizzazione di Internet – benché con un linguaggio

nuovo – con l’Atto Sen. N. 1561, che, nell’inserire un nuovo art. 34-bis45, introduceva due elementi

necessari al testo precedente: il debitore e il contenuto minimo di questa prestazione, consegnando al

diritto quella forza prescrittiva indispensabile alla sua azionabilità in giudizio. Quanto alla collocazione

della norma, rubricata 34-bis, rimangono ferme le mie obiezioni in quanto se è pur vero che essa

42 Leg. XVI, Disegno di legge costituzionale, Atto Senato n. 2485, recante Introduzione dell’articolo 21-bis della Costituzione, recante disposizioni volte al riconoscimento del diritto di accesso ad Internet, in http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/36202.htm. 43 Ampiamente: Internet. Regola e anarchia, cit, a pp. 173 ss. 44 S. HOLMES – C. R. SUNSTEIN, The cost of rights. Why liberty depends on taxes, Norton and Company, London, 1999, passim. 45 Leg. XVII, Disegno di legge costituzionale, Atto Senato 1561, recante Introduzione dell'articolo 34-bis della Costituzione, recante disposizioni volte al riconoscimento del diritto di accesso ad Internet, in http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/testi/44665_testi.htm.

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arricchiva il catalogo delle prestazioni sociali, dall’altro canto ne trascurava la funzione come strumento

di esercizio delle libertà fondamentali.

Ma anche la costruzione, che lo consegnava in un comma aggiunto all’art. 21 Cost., era incapiente

perché costruendolo in vista del bene finale-manifestazione del pensiero, mortificava la dimensione

valorizzata dalla prima tesi.

Quanto premesso potrebbe rendere ragione a una terza ipotesi, al momento non ancora avanzata dal

legislatore di revisione: quello di accostarlo all’art. 2. Fermo restando le nostre obiezioni proprio sulla

necessità di una revisione costituzionale in materia, la disposizione da ultimo richiamata e la sua

apertura ai diritti inviolabili avrebbe almeno il pregio di coprire entrambe le identità dell’accesso: quella

di diritto sociale, pretesa a che lo Stato stenda la banda larga, ma anche l’altra di libertà negativa, pretesa

a che lo Stato limiti le libertà fondamentali nei limiti dello stretto indispensabile.

Una costruzione dell’accesso proiettata in avanti consente al nostro sguardo di scivolare dal piano

statico, dove l’accesso si risolveva nell’entrare in rete, a quello dinamico, dove l’accesso diventa il

presupposto per l’esercizio dei diritti politici46, delle altre libertà fondamentali, ma anche dei diritti

economici tra il titolare delle NGN e gli operatori privi di rete, nonché delle facoltà nascenti dalla Net

neutrality. A queste condizioni l’accesso sarebbe diventato la leva per attuare una uguaglianza tra i

diseguali, che opererebbe, non solo a favore di una categoria, ma a beneficio di più ambiti sociali. In

caso contrario, cioè se isolassimo l’accesso dai diversi contesti in cui interviene, ripiegheremmo su una

concezione individualistica dell’impresa, col sacrificio della sua vocazione sociale, per ammettere la

negoziazione su beni indisponibili ai privati, con la vendita al miglior offerente della capacità

trasmissiva.

Questo è un esito inevitabile se la tecnica non è etero guidata verso il common good, bensì affidata ai

governi privati che la piegano verso i loro obiettivi egoistici. Il dominio incontrollato di una tecnica

anarchica attuerebbe alla rovescia l’art. 3 co. 2 Cost.: precisamente, la distanza tra l’incluso e

l’emarginato si dilaterebbe, invece di accorciarsi; i ricchi vedrebbero crescere il loro benessere e i poveri

il loro disagio; e l’incumbent sarebbe rafforzato nella sua dominanza e i piccoli imprenditori ulteriormente

indeboliti nella competizione col primo.

Se invece l’obiettivo è attuare l’uguaglianza sostanziale verso l’equiordinazione, allora sarà necessario

tenere insieme tecnica-diritti e regole imperative47 in tal modo la nostra dimensione costituzionale avrà

46 Si rinvia alle riflessioni di P. MARSOCCI, La rete Internet come spazio di partecipazione democratica, in M. R. ALLEGRI – G. D’IPPOLITO (a cura di), Accesso a Internet e neutralità della rete fra principi costituzionali e regole europee, cit., a pp. 45 ss. 47 M. VILLONE, La Costituzione e il “diritto alla tecnologia”, in G. DE MINICO (a cura di), Dalla tecnologia ai diritti, cit., a p. 261.

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uno spazio senza confini e oltre il tempo dove esprimersi, e non una camera buia dove rimanere

asfittica.

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“Reddito minimo”, contrasto all’esclusione sociale e sostegno all’occupazione tra Pilastro

europeo dei diritti sociali ed evoluzioni dell’ordinamento italiano

di Filippo Scuto

Sommario: 1. Premessa. 2. Contrasto all’esclusione sociale e forme di sostegno al reddito. 3. La direzione del Pilastro europeo dei diritti sociali nel sostegno al reddito e all’occupazione. 4. Sostegno al reddito e Costituzione: un tendenziale allineamento tra Pilastro europeo e impianto costituzionale. 5. Il nuovo “Reddito di Inclusione” (ReI) introdotto dal legislatore. 6. Lo stretto legame del ReI con la logica della condizionalità. 7. Criticità, prospettive del ReI e differenze rispetto al “reddito di cittadinanza” proposto dal M5S. 8. Da Bruxelles a Roma: andata e ritorno?

1. Premessa

Il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale1 e il sostegno all’occupazione riguardano, considerati

singolarmente, tematiche significativamente ampie e oltremodo complesse sul piano giuridico, politico

ed economico. Si tratta di questioni che hanno a che fare con alcune delle principali sfide di fronte alle

quali si trovano oggi l’Europa e il mondo occidentale. Mettere in relazione, poi, queste due tematiche

accentua le complessità, tanto più dopo un periodo di prolungata crisi economica a seguito del quale è

stato seriamente messo a dura prova in numerosi Stati membri il tradizionale modello di stato sociale e

di welfare nato con le Costituzioni rigide del Secondo Dopoguerra ed affermatosi nei decenni successivi.

La complessità di questa relazione discende in primis da un dato forse banale ma certamente ineludibile

se si vuole tentare in qualche modo di affrontare tale questione: è infatti evidente che, tanto le misure di

lotta alla povertà, quanto quelle di sostegno all’occupazione, richiedono l’utilizzo di ingenti risorse

pubbliche da parte degli Stati e che questo intervento sia stato pesantemente ridimensionato dalle

politiche di austerity perseguite dall’Unione europea negli ultimi anni che hanno profondamente inciso

sugli ordinamenti nazionali. I vincoli di bilancio derivanti dalle regole europee, il Fiscal Compact e la

1 In tema di povertà ed esclusione sociale e sul suo inquadramento sul piano costituzionale v. M. RUOTOLO, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Diritto pubblico, fasc. 2/2011, pp. 391 ss.

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golden rule dell’equilibrio di bilancio che l’Italia ha inserito in Costituzione nel 20122, la condizionalità

degli aiuti agli Stati in difficoltà che sta alla base del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) hanno

certamente influito negativamente sulle politiche e gli investimenti pubblici nazionali degli Stati con un

più alto debito pubblico e, di conseguenza, sui loro impianti costituzionali orientati sulla base dei

principi di solidarietà ed eguaglianza.

È del resto altrettanto evidente che, allo stato attuale, i tradizionali paradigmi con cui si sono affrontate

per decenni le tematiche della povertà e dell’esclusione sociale, del lavoro e dell’occupazione, nonché,

più in generale, dello stesso modello di welfare, necessitino di essere riconsiderati alla luce della grave

crisi economica, dei cambiamenti radicali avvenuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, nonché,

evidentemente, delle crescenti diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza all’interno delle

democrazie occidentali.

L’oggettiva complessità del rapporto esistente tra contrasto all’esclusione sociale e sostegno

all’occupazione appare, poi, ancora più rilevante in ragione di un quadro costituzionale come quello

italiano che, come si cercherà di evidenziare più avanti, sembra collegare in maniera imprescindibile

lavoro e lotta all’esclusione sociale non consentendo scelte di tipo univoco a favore dell’uno o dell’altra.

In questo contesto, un elemento di interesse è rappresentato dall’“intreccio” che deriva dall’incontro tra

le politiche dell’Unione europea e le recenti evoluzioni che hanno caratterizzato, da ultimo,

l’ordinamento italiano. Sotto questo profilo, un approfondimento del contenuto del recente Pilastro

europeo dei diritti sociali – solennemente proclamato nel novembre del 20173 – appare necessario

poiché può fornire alcune indicazioni sulle modalità con cui conciliare forme di sostegno alla povertà e

lotta alla disoccupazione alla luce del quadro costituzionale italiano.

Il legame tra ordinamento europeo e dinamiche nazionali è poi certamente confermato se si analizzano,

da un lato, l’origine delle problematiche attuali sul piano delle crescenti diseguaglianze e dell’esclusione

sociale e, dall’altro, le possibili prospettive future. Come si accennava in precedenza, le politiche di

austerity imposte dall’Unione in dieci anni di crisi economica hanno certamente influito negativamente

sulla sostenibilità dei sistemi di welfare nazionali ed hanno reso più difficile per l’Italia e per altri Stati

membri con un significativo debito pubblico adottare misure di sostegno al reddito e all’occupazione.

Sul piano delle prospettive future, come si cercherà di evidenziare più avanti4, la soluzione per

contrastare con efficacia disoccupazione, esclusione sociale e povertà non sembra possa essere fornita

2 Mediante la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”. 3 Il Pilastro europeo dei diritti sociali è stato proclamato e firmato il 17 Novembre 2017 dal Consiglio dell'UE, dal Parlamento europeo e dalla Commissione durante il vertice sociale per l'occupazione equa e la crescita di Göteborg. 4 Si rinvia all’ottavo paragrafo.

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dal solo livello di governo statale. Il che rende dunque necessario lo sviluppo di un proficuo connubio

tra adeguate politiche nazionali ed interventi dell’Unione nell’ambito di una rinnovata governance

dell’eurozona che, si auspica, divenga in tempi brevi un effettivo governo dell’eurozona5. Alla luce dei

livelli raggiunti dal debito pubblico italiano, infatti, appare proibitivo per il nostro Paese adottare misure di

lotta alla povertà e alla disoccupazione che siano al tempo stesso efficaci e sostenibili sul piano dei conti

pubblici senza il sostegno dell’Unione. Un’Unione che, evidentemente, dovrebbe però invertire la

propria rotta ed orientarsi anche nel senso di un deciso rafforzamento della sua dimensione sociale.

2. Contrasto all’esclusione sociale e forme di sostegno al reddito

Allo stato attuale, quando si fa riferimento a misure di contrasto a povertà ed esclusione sociale ci si

riferisce, in primis, a forme di sostegno al reddito. In questo ambito le denominazioni – reddito di

cittadinanza, reddito minimo, reddito di base – e le definizioni sono molte, forse troppe e in alcuni casi

sfuggenti. Di conseguenza, pare opportuno prendere le mosse dalla distinzione di fondo esistente tra

“reddito di cittadinanza” e “reddito minimo” e, successivamente, evidenziare le differenze esistenti tra

diverse tipologie di reddito minimo.

Sintetizzando al massimo i termini di un ampio e approfondito dibattito scientifico e multidisciplinare

che è andato sviluppandosi negli ultimi anni6, si può affermare che con il termine “reddito di

cittadinanza” si fa riferimento a quella che è probabilmente la forma più espansiva e universale del

welfare state. Il reddito di cittadinanza garantisce una forma di sostegno al reddito universale e

incondizionata, a prescindere dalle condizioni economiche individuali e del nucleo familiare di

appartenenza, dalla situazione individuale in termini di occupazione lavorativa e dalla disponibilità a

cercare un lavoro7.

5 Questione su cui si rinvia a P. BILANCIA, La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti nazionali, in Federalismi.it, n. 23/2012. 6 Il dibattito scientifico sul tema del sostegno al reddito è stato affrontato da sociologi, politologi, economisti e giuristi. Senza pretesa di completezza si rinvia a G. BRONZINI, Il reddito di cittadinanza, Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, 2011; ID., Il diritto a un reddito di base, Torino, 2017; P. VAN PARIJS, Y. VANDERBORGHT, Il reddito minimo universale, Milano, 2006; ID., Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, 2017; AA.VV., La democrazia del reddito universale, Roma, 1997; J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, 2017 (I ed. 1982, traduzione di A Theory of Justice, Harward University Press, Cambrifge Mass., 1971; L. FERRAJOLI, Il futuro dello stato sociale e il reddito minimo garantito, in AA.VV., Ai confini dello stato sociale, Roma, 1995; F. PIZZOLATO, Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi, Milano, 2004; BIN-ITALIA (a cura di), Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Torino, 2012; S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Bari-Roma, 2012; C. TRIPODINA, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di cittadinanza, Torino, 2013; S. TOSO, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Bologna, 2016; G. BUSILACCHI, Welfare e diritto al reddito, Milano, 2013; C. SARACENO, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, 2015; C. DEL BÒ, Un reddito per tutti. Un’introduzione al basic income, Como-Pavia, 2004; L. ZOPPOLI, Reddito di cittadinanza, inclusione sociale e lavoro di qualità: profili giuridico-istituzionali, in Diritti Lavori Mercati, 2007, pp. 75 ss. 7 Per un approfondimento delle questioni definitorie relative a reddito di cittadinanza, reddito minimo e reddito di base, si rinvia, tra i tanti, a S. TOSO, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, cit., pp. 7 ss., C. TRIPODINA,

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È invece indubbiamente più “contenuta” la misura del reddito minimo che, in un certo senso, si

contrappone al reddito di cittadinanza poiché destina le sue risorse solamente alle famiglie in

condizione di indigenza economica ed introduce l’elemento decisivo della condizionalità. L’erogazione

del beneficio economico, infatti, è in questo caso legata alla disponibilità da parte del beneficiario a

cercare un lavoro e a partecipare ad attività di formazione professionale per potersi inserire o reinserire

nel mondo del lavoro. Più in generale, la condizionalità può riguardare anche la disponibilità a

partecipare a molteplici e diversificate attività di reinserimento sociale come il recupero dell’abbandono

scolastico, di assistenza sociale come la cura dei minori e degli anziani e di protezione del patrimonio

ambientale e culturale8. Com’è evidente, partendo da questa definizione è facile comprendere che le

varianti nel campo delle misure riconducibili al c.d. reddito minimo possano essere molte in base

all’utilizzo del fondamentale criterio della condizionalità che collega il beneficio alla disponibilità del

beneficiario ad “attivarsi” e reinserirsi nel mondo del lavoro e che può essere declinato in molteplici e

diverse forme. L’altro elemento dirimente riguarda le modalità con cui viene utilizzato il criterio della

selettività che impone di scegliere la platea dei beneficiari del sostegno al reddito individuando i requisiti

per l’accesso.

Va peraltro rilevato che il reddito di cittadinanza non ha trovato effettiva applicazione continuativa in

nessuno Stato, ad esclusione dell’esperienza dell’Alaska dove ogni cittadino riceve un reddito ulteriore

derivante dai proventi delle attività petrolifere. Assai diffuso, sia pur in diverse forme, è invece il reddito

minimo che la quasi totalità dei Paesi dell’Unione europea ha da tempo inserito tra gli interventi

nazionali di lotta alla povertà.

L’Unione si è da tempo attivata in questo ambito, pur limitandosi a un’azione di impulso sugli Stati

membri che sono comunque liberi di scegliere se adottare o meno misure di sostegno al reddito. I primi

“inviti” dell’Unione a introdurre misure strutturali riconducibili al reddito minimo risalgono al 19929 e

sono proseguiti – prima e durante la crisi economica – mediante l’adozione di Comunicazioni della

Commissione e Risoluzioni del Parlamento europeo10, sino ad arrivare, da ultimo, alle indicazioni

contenute nel Pilastro europeo dei diritti sociali.

Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in Costituzionalismo.it, Fasc. 1/2015. 8 Cfr., ancora, S. TOSO, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, cit., p. 7. 9 Mediante la Raccomandazione 92/441 CEE del Consiglio del 24 giugno 1992, in cui si definivano “i criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale”. 10 Ci si limita a ricordare, in questa sede: la Comunicazione della Commissione del 1999 (COM. (98)774 def.) sui regimi nazionali di reddito minimo; la Comunicazione della Commissione del 12 dicembre 2003 – Relazione comune sull’integrazione sociale contenente una sintesi dei risultati dell’esame dei piani d’azione nazionali per l’integrazione sociale (20032005)[COM(2003)773]; la Risoluzione del Parlamento europeo del 9 ottobre 2008 sulla promozione dell’inclusione sociale e la lotta contro la povertà, inclusa la povertà infantile, nell’Unione europea (2008/2034); la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ruolo

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In Italia il dibattito pubblico attorno alle misure di sostegno al reddito si è sviluppato soprattutto a

partire dalla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2013 quando il MoVimento 5 Stelle

propose l’introduzione di un non meglio specificato reddito di cittadinanza come radicale misura di

lotta alla povertà legata anche alla crescente disoccupazione. Nel corso della XVII legislatura il tema è

poi stato affrontato a livello di proposte parlamentari provenienti dallo stesso M5S che, in realtà, ha

presentato un disegno di legge contenente misure riferibili non al reddito di cittadinanza bensì al

reddito minimo poiché il sostegno era indirizzato soltanto alle persone che si trovassero al di sotto di

una certa soglia di reddito11. Nello stesso periodo, anche Sinistra Ecologia e Libertà (SEL) ha presentato

una proposta di legge finalizzata ad introdurre una misura di reddito minimo12. Successivamente,

nell’ultima fase della legislatura, la maggioranza parlamentare e il Governo Gentiloni hanno introdotto

nell’ordinamento italiano una nuova forma di reddito minimo, denominato Reddito di Inclusione (ReI).

Il dibattito politico italiano di questi ultimi anni si è quindi concentrato su un erroneo riferimento al

reddito di cittadinanza poiché neppure la proposta di legge del M5S era finalizzata ad introdurre

nell’immediato una misura di questo tipo. Del resto, lo stesso M5S ha proseguito sulla strada di questa

ambiguità terminologica nel “Contratto di governo” recentemente sottoscritto insieme alla Lega in vista

della formazione del Governo Conte attualmente sostenuto in Parlamento dalle due forze politiche13.

I nodi cruciali attorno alle misure di sostegno al reddito sembrano dunque riguardare, essenzialmente,

tre aspetti.

Il primo è relativo ai criteri scelti per la determinazione della platea dei destinatari delle misure di

sostegno al reddito, dal momento che sembra esservi una sostanziale condivisione tra le forze politiche

italiane sul fatto che le misure di sostegno non possano essere indirizzate indistintamente a tutti.

Il secondo nodo riguarda la condizionalità della prestazione. Su questo punto le divergenze sembrano

invece più ampie dal momento che, come si vedrà meglio in seguito, la tendenza di alcune forze

politiche è quella di porre l’accento, nel dibattito politico e nelle proposte presentate, sulle misure di

sostegno al reddito mettendo in secondo piano il tema del reinserimento lavorativo e sociale del

del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa (2010/2039); e, da ultimo, la Risoluzione del Parlamento europeo del 27 ottobre 2017 sulle politiche volte a garantire il reddito minimo come strumento per combattere la povertà (2016/2270(INI)). 11 Si fa riferimento al d.d.l. n. 1148 presentato al Senato della Repubblica dal M5S il 29 ottobre 2013 e relativo a “Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario”. Per un approfondimento della proposta del M5S si rinvia al settimo paragrafo. 12 Si tratta del d.d.l. n. 1670 presentato presso il Senato nel 2014 da SEL (che riprendeva una precedente p.d.l. depositata presso la Camera dei deputati) che faceva riferimento a un “reddito minimo garantito”. 13 Ci si riferisce al “Contratto per il governo di cambiamento” presentato dalle due forze politiche il 18 maggio 2018 nel quale si fa riferimento, a pag. 35, sin dalla titolazione al “reddito di cittadinanza” definendolo “una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirli nella vita sociale e lavorativa del Paese”.

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beneficiario, mentre altre forze politiche condizionano in toto l’erogazione della prestazione allo

svolgimento dei programmi di reinserimento.

Un terzo aspetto di notevole rilevanza investe il tema della quantificazione delle risorse da impiegare

per far fronte a questa nuova (per l’ordinamento italiano) tipologia di intervento sociale, quantomeno

sotto due profili che vanno considerati di assoluto rilievo costituzionale, come si cercherà di evidenziare

più avanti14. Da un lato, infatti, è necessario approfondire con attenzione il tema del quantum in

relazione al beneficio da erogare poiché l’obiettivo dovrebbe consistere nella ricerca di un non facile

punto di equilibrio attraverso l’adozione di misure che siano in grado di contrastare la povertà senza

finire per disincentivare la ricerca di lavoro e influire quindi negativamente sulla ripresa

dell’occupazione. Su un piano più generale e alla luce dei principi costituzionali, poi, è anche lecito

domandarsi quante delle limitate risorse disponibili possano essere sottratte agli interventi pubblici per

rilanciare l’occupazione ed essere, invece, indirizzate al sostegno al reddito.

In ogni caso, dopo decenni di prolungata disattenzione, nel più recente dibattito politico italiano si sta

registrando una tendenziale convergenza tra le forze politiche, quantomeno a parole e nei programmi

presentati agli elettori per il governo del Paese, nel ritenere opportuni interventi di sostegno al reddito

finalizzati alla lotta alla povertà. Questa tendenza sembra essersi affermata in particolare nella campagna

elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo 2018. Le divergenze, non di poco rilievo, riguardano le

modalità con cui realizzare questi interventi. Del resto, il legame tra contrasto all’esclusione sociale e

sostegno all’occupazione che, come si cercherà di evidenziare, traspare molto chiaramente sia nel

Pilastro europeo dei diritti sociali sia nei più recenti interventi legislativi italiani, tocca alcune delle

questioni cruciali di ieri, di oggi e probabilmente anche di domani per il nostro Paese.

3. La direzione del Pilastro europeo dei diritti sociali nel sostegno al reddito e all’occupazione

La solenne proclamazione, nel novembre 2017, del Pilastro europeo dei diritti sociali da parte di

Parlamento europeo, Consiglio e Commissione testimonia indubbiamente l’intento di rafforzare la

dimensione sociale dell’Europa15. Il contenuto del Pilastro, però, conferma al tempo stesso tutti i limiti

che l’Unione ha sino ad oggi incontrato nella sua azione in materia. Limiti che sono peraltro anche

14 Si rinvia, in questo senso, al sesto e al settimo paragrafo di questo lavoro. 15 Il Pilastro europeo dei diritti sociali è stato proclamato e firmato il 17 Novembre 2017 dal Consiglio dell'UE, dal Parlamento europeo e dalla Commissione durante il vertice sociale per l'occupazione equa e la crescita di Göteborg. In precedenza la Commissione europea aveva presentato una Comunicazione, nell’aprile del 2017, relativa all’istituzione di un Pilastro europeo dei diritti sociali (cfr. Commissione europea COM(2017) 250 final, 26.4.2017. Per un approfondimento del contesto attorno al quale ha visto la luce il Pilastro europeo e delle criticità legate all’effettivo sviluppo della dimensione europea dei diritti sociali, si veda P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in questo numero.

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riconducibili ai Trattati che non le assegnano una reale ed effettiva competenza nel campo dei diritti

sociali.

Indubbiamente, al di là delle singole questioni affrontate, il limite principale del Pilastro risiede nella

stessa natura giuridica che, come è stato osservato16, rimanda di fatto più che altro agli strumenti del soft

law e non consente un effettivo ampliamento dei diritti sociali dal punto di vista della loro diretta

applicabilità. Come è stato evidenziato dalla Commissione europea, principi e diritti in esso contenuti

non sono direttamente applicabili e devono essere tradotti in azioni specifiche condotte, però,

essenzialmente a livello statale17. Il Pilastro non è dunque dotato di valore giuridico vincolante, non è in

grado di incidere su diritti e principi già contenuti nel diritto dell’Unione e non comporta un

ampliamento delle competenze dell’Unione stabilite dai Trattati18.

I limiti di questo nuovo intervento dell’Unione in campo sociale sono del resto confermati in pieno in

tutti i passaggi della Comunicazione della Commissione dell’aprile del 2017 relativa all’istituzione del

Pilastro europeo19. Nella Comunicazione si ammette esplicitamente che la maggior parte degli strumenti

necessari per realizzare il Pilastro dei diritti sociali è nella competenza degli Stati e che l’operatività

dell’Unione in questo campo si può limitare solo a “definire il quadro, dando orientamenti, nel pieno

rispetto delle specificità delle circostanze e delle strutture istituzionali nazionali”. Abbastanza desolante,

sotto questo profilo, può essere considerato il passaggio in cui la Commissione evidenzia che l’obiettivo

del Pilastro in riferimento ai diritti in esso richiamati sia soltanto quello di “renderli più visibili, più

comprensibili e più espliciti per i cittadini e per gli attori a tutti i livelli” (pag. 6).

Del resto, permangono due rilevanti limiti di fondo dell’Unione in questo campo che il Pilastro, da solo,

non è in grado di superare: innanzitutto gli Stati membri hanno competenze primarie, se non esclusive,

nei settori del diritto del lavoro, della retribuzione minima, dell’organizzazione dei sistemi di protezione

sociale, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria; inoltre, la quasi totalità dei finanziamenti nei settori di

intervento individuati dal Pilastro proviene dagli Stati membri.

16 Cfr. S. GIUBBONI, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, in Quaderni costituzionali, fasc. 4/2017, pp. 953 ss. che evidenzia come, data la natura giuridica del Pilastro, i suoi principi e diritti non sono direttamente applicabili e, di conseguenza, poiché il livello di intervento appropriato, nel rispetto delle competenze attribuite dall’Unione in materia sociale e del principio di sussidiarietà, è essenzialmente quello degli Stati membri (dei governi nazionali), ciò spiega la grande prudenza e la parsimonia con cui la Commissione intraprende nuove iniziative legislative in questo campo. 17 La richiamata Comunicazione COM(2017) 250 final specifica, a pag. 7, che “data la natura giuridica del pilastro, tali principi e diritti non sono direttamente applicabili: devono essere tradotti in azioni specifiche e/o atti normativi distinti, al livello appropriato”. La stessa Commissione sottolinea, poi, che “l'attuazione del pilastro sarà principalmente di competenza dei governi nazionali, delle autorità pubbliche e delle parti sociali a tutti i livelli”. 18 Come viene evidenziato molto chiaramente nel Pilastro stesso (pag. 9). 19 Commissione europea COM(2017) 250 final, 26.4.2017.

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Indubbiamente le criticità e i difetti del Pilastro europeo in relazione alla sua effettiva possibilità di

incidere sui diritti sociali e sul welfare sono numerose e forse difficilmente superabili con questo assetto

dell’UE. Non bisogna però dimenticare che l’art. 3.3 TUE individua nel modello di “economia sociale di

mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale” uno dei suoi obiettivi

principali20. Un’economia sociale di mercato che, come richiede il medesimo articolo, promuova la

protezione sociale, “la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri”. I trattati già da

tempo in vigore, dunque, richiamano i principi di solidarietà e coesione sociale che stanno alla base

delle tradizioni costituzionali comuni di molti Stati membri e indicano una possibile nuova direzione,

maggiormente orientata in senso sociale, per gli interventi dell’Unione. Questi principi, peraltro,

vengono anche richiamati in diverse parti del TFUE in relazione alla definizione e attuazione delle

politiche dell’Unione e, in particolare, negli artt. 9 e 151 dove si evidenziano con ancora maggiore forza

gli obiettivi di un elevato e duraturo livello di occupazione nonché la necessità di garantire un’adeguata

protezione sociale e di contrastare l’esclusione sociale21.

Considerata dunque in un’ottica meno pessimistica, la proclamazione del Pilastro europeo dei diritti

sociali potrebbe anche essere letta come uno step intermedio nel lungo (anche se eccessivamente lento)

percorso europeo finalizzato a realizzare il modello contenuto nei Trattati di un’economia sociale di

mercato competitiva ma al tempo stesso orientata alla coesione e al progresso sociale da realizzarsi

anche mediante l’obiettivo della piena occupazione.

Nel Pilastro europeo sono presenti numerosi riferimenti a principi e diritti riconducibili all’intreccio di

misure riguardanti il contrasto all’esclusione sociale e alla povertà e il sostegno all’occupazione che

peraltro, come si è visto, trovano un fondamento giuridico anche nei Trattati dell’UE.

Per quanto riguarda il lavoro e l’obiettivo della piena occupazione, il Pilastro si muove su più fronti. Il

Capo I fa riferimento ad un “sostegno attivo all’occupazione” in cui emergono alcuni elementi di interesse.

Innanzitutto, spicca il diritto a ricevere sostegno nella ricerca di un impiego che si deve tradurre nel

diritto a un supporto personalizzato e calibrato sulle caratteristiche della persona (un’assistenza

“tempestiva e su misura”) per migliorare le prospettive individuali di occupazione. Ai disoccupati va

garantito non soltanto un sostegno personalizzato ma anche un accompagnamento “continuo e

coerente” e per i disoccupati di lungo periodo si fa riferimento a un diritto ad una valutazione

20 Si veda, sul punto, P. BILANCIA, The social market economy model between the Italian Constitution and the European Treaties, in The European Union Review, n. 1-2-3/2013, 97 ss. 21 L’art 9 del TFUE, stabilisce che l’UE nell’attuazione delle sue politiche e azioni tiene conto tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale. L’art 151 TFUE stabilisce che L’UE e gli Stati membri hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, , il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione.

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individuale che sia anche “approfondita”. I diritti individuati si concentrano dunque su tre elementi

fondamentali: intervento tempestivo; assistenza personalizzata e sostegno al miglioramento della

formazione individuale. Quest’ultimo risulta decisivo, evidentemente, poiché fa riferimento al diritto a

ricevere sostegno per la formazione o per l’ottenimento di nuove qualifiche in un contesto in cui appare

sempre più necessario l’adattamento del lavoratore a un mercato del lavoro in continua e rapida

evoluzione22. Per quanto riguarda la problematica della disoccupazione giovanile, particolarmente grave

nel nostro Paese, il Pilastro individua un diritto al tirocinio, all’apprendistato e a un’offerta di lavoro

entro quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione o dalla perdita del lavoro.

In relazione alle condizioni di lavoro, il Capo II, oltre a fare riferimento al diritto dei lavoratori ad

accedere alla protezione sociale e alla formazione, mette in luce l’impostazione politica dell’Unione

rispetto alle caratteristiche del mercato del lavoro. Si parla infatti di “necessaria flessibilità” del lavoro e

agevolazione della mobilità professionale alle quali si accompagna la promozione del passaggio verso

forme di lavoro a tempo indeterminato viste come punto di approdo di un percorso che comunque, si

specifica, dovrebbe prevedere periodi di prova di durata “ragionevole”, scoraggiare il lavoro precario e

vietare l’abuso dei contratti atipici. Di rilievo, inoltre, è il riferimento alla garanzia di retribuzioni

minime adeguate che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia.

Per quanto riguarda la questione della protezione sociale e della lotta alla povertà, il Capo III appare

chiaramente orientato nel senso di affrontare il tema del welfare connettendo in maniera profonda

protezione sociale, inclusione e occupazione. Emerge, nella sostanza, il legame tra misure di contrasto

all’esclusione sociale e politiche di sostegno all’occupazione. Per i c.d. disoccupati involontari si fa

riferimento a un diritto a un adeguato “sostegno all’attivazione” da parte dei servizi pubblici per l’impiego

al fine di agevolarne l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro, nonchè a un diritto ad

adeguate prestazioni di disoccupazione di durata ragionevole. Il reinserimento e l’attivazione lavorativa

delle persone non occupate può quindi essere letta come una delle più importanti forme di protezione e

inclusione sociale nell’ottica del Pilastro. Ed è in questo contesto che devono di conseguenza rientrare

le forme di sostegno al reddito cui fa esplicito riferimento il Pilastro mediante il richiamo a un “diritto a

un adeguato reddito minimo” finalizzato a garantire un’esistenza dignitosa in tutte le fasi della vita. Per i

disoccupati involontari la misura del reddito minimo dovrebbe dunque accompagnarsi a un percorso di

sostegno pubblico finalizzato al (re)inserimento nel mercato del lavoro. Reinserimento lavorativo e

sostegno al reddito devono dunque andare di pari passo e non possono procedere autonomamente

l’uno dall’altro. Viceversa, coloro che non sono nelle condizioni di poter svolgere un lavoro dovranno

22 Questo aspetto viene giustamente messo in rilievo nel Documento di lavoro dei servizi della Commissione (cfr. p. 20) Bruxelles SWD (2017) 201 final, 26.4.2017, documento che accompagna la già richiamata Comunicazione COM(2017) 250 final.

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ricevere forme di tutela attraverso il sostegno al reddito senza che sia evidentemente richiesta, in questo

caso, la disponibilità all’attivazione o alla riattivazione lavorativa. Come ha inoltre evidenziato la

Commissione nel suo documento di lavoro allegato alla Comunicazione relativa al Pilastro europeo23, è

comunque necessario che l’introduzione del reddito minimo sia coerente con gli incentivi a svolgere un

lavoro e non renda meno conveniente per i disoccupati accettare un posto di lavoro. Le misure di

sostegno al reddito devono dunque evitare il pericolo che i beneficiari del reddito minimo restino

intrappolati in situazioni di inattività.

Si tratta di un insieme di diritti e garanzie che, come si è evidenziato, non sono direttamente applicabili

e la cui portata non può quindi essere enfatizzata eccessivamente. Al tempo stesso però, i diritti del

Pilastro e, tra questi, il diritto a un reddito minimo, possono essere letti come un tentativo di porre le

basi per sviluppare il contenuto dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, quantomeno

richiedendo agli Stati membri di orientarsi nella direzione da esso tracciata. Tale richiesta dovrebbe

rappresentare soltanto una prima fase in vista di una auspicabile partecipazione attiva dell’Unione sul

piano delle risorse finanziarie. L’art. 34 riconosce infatti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’UE

e dalle legislazioni e prassi nazionali, il diritto all’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale anche nei

casi di perdita del posto di lavoro. Previsione quest’ultima, piuttosto scarna che il Pilastro provvede

dunque a integrare. Letto in quest’ottica, il Pilastro accresce il livello di tutela contenuto nella Carta di

Nizza per quanto riguarda le questioni legate alla lotta all’esclusione sociale e al sostegno

all’occupazione. Appare abbastanza evidente, infatti, il tentativo di arricchire di contenuto non soltanto

l’art. 34 della Carta, ma anche l’art. 14 relativo al diritto all’istruzione e alla formazione professionale

continua e l’art. 29 riguardante il diritto di accedere a un servizio di collocamento gratuito.

L’approccio del Pilastro rispetto alla questione del contrasto alla disoccupazione richiede quindi di

affrontare questa sfida cruciale per l’Europa (e per l’Italia) anche attraverso l’impiego di risorse

pubbliche finalizzato a garantire un sostegno al reddito delle persone in maggiore difficoltà economica

che sia tendenzialmente condizionato alla disponibilità da parte del beneficiario a reinserirsi nel mondo

del lavoro. Il che significa, di conseguenza, che le misure per rilanciare l’occupazione non si traducono,

nell’ottica dell’Unione, soltanto in investimenti pubblici e privati, in incentivi fiscali e nella ricerca di

un’efficace disciplina delle regole relative al mercato del lavoro, ma anche nell’impiego di risorse

pubbliche a sostegno del reddito per i bisognosi nell’ottica di un loro reinserimento lavorativo e sociale.

Come si accennava in precedenza, la portata del contenuto del Pilastro è pesantemente ridimensionata

dal fatto che la sua implementazione viene affidata in toto alla responsabilità degli Stati. Sotto questo

profilo, può essere considerato di interesse il passaggio del Documento tecnico della Commissione in

23 Cfr. Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Bruxelles SWD (2017) 201 final, 26.4.2017.

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cui si fa riferimento alla possibilità di “sfruttare” il semestre europeo, nell’ambito del coordinamento

delle politiche economiche degli Stati da parte dell’UE, per il monitoraggio delle azioni sul piano

nazionale in riferimento a punti qualificanti del Pilastro come il reddito minimo e il sostegno

all’occupazione24. Il semestre europeo, dunque, potrebbe teoricamente rappresentare l’occasione per le

Istituzioni europee per acquisire un margine di manovra su queste materie esercitando “pressioni” sugli

Stati affinché diano concreta attuazione a principi e diritti del pilastro. Il che non consentirebbe, però,

in ogni caso, di risolvere le problematiche nazionali relative all’effettiva applicabilità e sostenibilità di

queste misure che richiedono l’utilizzo di ingenti risorse finanziarie non facilmente reperibili nei Paesi

con un alto debito pubblico come l’Italia25.

Al di là dei suoi evidenti limiti, il Pilastro europeo dei diritti sociali è comunque sufficientemente chiaro

nell’indicare una direzione per le politiche di contrasto all’esclusione sociale. Tra le misure individuate,

una posizione di rilievo è assegnata all’utilizzo di risorse pubbliche per il sostegno al reddito delle

persone in difficoltà: un “sostegno all’attivazione” condizionato e finalizzato al (re)inserimento del

beneficiario nel mercato del lavoro.

4. Sostegno al reddito e Costituzione: un tendenziale allineamento tra Pilastro europeo e

impianto costituzionale

Com’è evidente, affrontare sul piano costituzionale le questioni relative al sostegno al reddito, al

contrasto alla disoccupazione e all’esclusione sociale significa doversi confrontare con l’essenza più

profonda della Costituzione repubblicana. Si tratta, evidentemente, di tematiche strettamente legate al

principio personalista e al principio solidarista dell’art. 2 Cost., al principio di eguaglianza sostanziale

dell’art. 3, secondo comma Cost. e alla declinazione della forma di Stato sociale delineata dalla nostra

Costituzione, nonché al principio lavorista dell’art. 4 Cost. e al suo riferimento al lavoro come diritto e

come dovere26. Del resto, le attuali questioni, complesse e problematiche, del sostegno all’occupazione e

24 Cfr. Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Bruxelles SWD (2017) 201 final, 26.4.2017, p. 4. 25 Aspetto, quest’ultimo, su cui si tornerà più avanti nell’ottavo paragrafo. 26 Sulla concezione del lavoro come dovere si rinvia a M. MAZZIOTTI DI CELSO, Lavoro (dir. Cost.), in Enciclopedia del diritto, 1973, che evidenzia come il riferimento al dovere dell’art. 4 vada inteso sì come un dovere, benché prevalentemente morale: infatti l'espressione usata, “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”, esclude l'applicabilità di qualsiasi sanzione come d'altronde risulta, sia dal fatto che per sanzionare tale dovere lo Stato dovrebbe stabilire esso quali siano le attività o funzioni socialmente utili, il che, in un ordinamento ispirato a princìpi liberali come il nostro, appare impossibile, sia dall'espressa volontà dei Costituenti. Come mette inoltre in luce l’A., «la disposizione di cui si tratta non intende costringere il cittadino a lavorare, bensì esprime soltanto l'ovvia esigenza che, per aver diritto a vivere a spese della collettività, occorre essere in condizioni tali da non poter sostentarsi, né con i propri beni, né con il proprio lavoro. (…) Viceversa, sembra che una sanzione indiretta del dovere di lavorare possa configurarsi in ciò che, essendo la Repubblica fondata sul lavoro, chi non si rende socialmente utile con la propria attività resta privo di tutti i vantaggi che l'ordinamento vi ricollega,

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del contrasto all’esclusione sociale riguardano da vicino quel che è il fondamento stesso su cui poggia la

Repubblica italiana che, come prescrive l’art.1, è fondata sul lavoro. L’osservazione può apparire ovvia e

scontata ma spesso si tende a trascurarne la portata sia nel dibattito politico che in quello scientifico

quando viene affrontato il tema del sostegno al reddito. Un’analisi sugli aspetti legati al “reddito

minimo”, al contrasto all’esclusione sociale e alla disoccupazione deve dunque necessariamente mettere

in rilievo la “specialità” della Costituzione italiana rispetto alle altre costituzioni europee che, con il suo

art. 1, dà vita a un ordinamento giuridico in cui il lavoro è posto a fondamento della Repubblica27.

Per rintracciare un percorso costituzionale soddisfacente partendo dalle questioni che pone il reddito

minimo l’art. 38 Cost. fornisce alcune indicazioni preziose distinguendo gli inabili al lavoro dai

lavoratori28. Per i primi è previsto un diritto al mantenimento e all’assistenza sociale nel caso in cui siano

sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. Ai lavoratori, invece, è riconosciuto un diritto ad avere

assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita in casi specifici e, tra questi, nel caso di “disoccupazione

involontaria”. La questione potrebbe quindi essere affrontata anche oggi in termini non dissimili

rispetto alle conclusioni cui giungeva Costantino Mortati nel suo saggio sul lavoro nella Costituzione

del 1954: la Costituzione, in armonia con il principio di tutela della libertà e della dignità della persona

deve garantire a tutti, con l’esclusione delle persone in grado di lavorare che non sono attive nella

ricerca di un’occupazione, il diritto alla protezione sociale in caso di bisogno29.

attraverso le norme che, come si è visto, pongono i cittadini che esercitano attività concorrenti al progresso della società in una posizione di vantaggio». Sul fatto che il 2° co. dell'art. 4 Cost. non ponga una vera e propria norma giuridica assistita da una corrispondente sanzione e alluda piuttosto ad un contenuto etico minimo senza il quale nessun ordinamento sociale potrebbe sussistere si veda, inoltre, A. CARIOLA, Art. 4, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, pp. 114 ss. secondo cui il 2° co. dell'art. 4 Cost. con il suo amplissimo riferimento alle possibilità ed alle inclinazioni finisce per costituire più un limite per l'azione statale, che non un obbligo per il soggetto privato. 27 Sulla peculiarità italiana legata alla scelta della Costituzione di porre il lavoro a fondamento della Repubblica, v. C. PINELLI, I diritti sociali nello spazio europeo (sistemi di valore a confronto), in L. CORAZZA, L. ROMEI (a cura di), Diritto del lavoro in trasformazione, Bologna, 2014, p. 212; M. CAVINO, Il lavoro politico come fondamento della Repubblica, in M. CAVINO, I. MASSA PINTO, Costituzione e lavoro oggi, Bologna, 2013, pp. 35 ss. 28 Fa riferimento ad una sorta di doppia anima dell’art. 38 Cost., ad impianto sia solidaristico sia mutualistico, che resta presente - pur con alterne vicende normative e giurisprudenziali - fino ai giorni nostri L. VIOLINI, Art. 38, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006. Come rileva l’A., delle due partizioni ideali che lo compongono, la prima è dedicata all'enunciazione dei diritti del singolo mentre la seconda delinea l'assetto organizzativo del sistema della sicurezza sociale. E, invero, al 1° co., che sancisce il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale del cittadino inabile al lavoro e indigente, fa seguito, nel 2° co., il diritto alla previdenza, garantito ai "lavoratori" ed avente per oggetto non il solo mantenimento, ma "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita", secondo un elenco non tassativo di eventi, tutti peraltro riferibili lato sensu alla categoria degli "ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" di cui all' art. 3, 2° co., Cost. 29 In riferimento all’art. 38 Cost. a giudizio di C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, in Il diritto del lavoro, 1954, p. 242 ss. (ora ID in Raccolta di scritti, Milano, 1972, III, pp. 237 ss). «l’unica forma di assistenza che nell’ipotesi considerata deve ritenersi dovuta, secondo una interpretazione sistematica della costituzione, è l’offerta al bisognoso abile di un posto di lavoro a lui adatto»; e, in relazione all’art. 38, co. 2, Cost., «il dovere di procurare un posto di lavoro rientra fra le prestazioni incontrovertibili (alla pari di quella rivolta ad imporre l’occupazione

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La premessa di questo percorso è rinvenibile nell’art. 4, secondo comma, Cost. in base al quale il

lavoro30 si configura anche come un dovere se si considera che esso è l’espressione primaria della

partecipazione del singolo al vincolo sociale ed è con il lavoro (nella sua ampia accezione dell’art. 4) che

la persona restituisce alla società quello che riceve in termini di diritti e servizi, contribuendo a

rinsaldare il comune vincolo sociale31. Anche alla luce dell’art. 4, gli interventi di sostegno al reddito

possono quindi essere compatibili con il quadro costituzionale e sono da considerare ammissibili in

quanto legati al reinserimento lavorativo delle persone in grado di lavorare che siano involontariamente

disoccupate. Il beneficiario riceve una forma di assistenza sociale tramite il sostegno al reddito a

condizione che sia disposto a (ri)attivarsi per restituire lavoro alla società e contribuire a rafforzare il

vincolo sociale.

In altri termini, appare dubbia la legittimità costituzionale di misure di sostegno al reddito non

rigorosamente vincolate a programmi finalizzati al reinserimento lavorativo delle persone in grado di

svolgere attività lavorative32. Questo limite potrebbe peraltro trovare una conferma anche nell’art. 3,

secondo comma, Cost. laddove si fa esplicito riferimento non ai cittadini, bensì ai lavoratori. Se è

degli invalidi, o, nella categoria delle prestazioni a carico del cittadino, l’obbligo del servizio militare), poiché il bene che si vuole assicurare non è solo la sussistenza ma una sussistenza ottenuta con il lavoro produttivo». Per Mortati, pertanto, «coloro che mancano di mezzi di sussistenza pur essendo abili al lavoro» non possono avanzare «alcuna pretesa di fronte allo Stato». Il riferimento dell’A. è in questo caso diretto alla «categoria degli oziosi, volontariamente ed abitualmente tali», ai quali la costituzione riserva «una posizione differenziata di minorazione rispetto agli altri cittadini». 30 Inteso come un diritto e come un dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso della società. Sulla concezione ampia ed estesa di lavoro alla luce dell’art. 4 Cost. che consente di ricomprendere sotto il termine lavoro diverse nozioni che hanno riguardo ora al lavoro subordinato, ora a questo e al lavoro autonomo, altre volte a qualsiasi attività relativa allo scambio di beni e servizi, e ancora a qualsiasi attività socialmente utile, v. A. CARIOLA, Art. 4, cit. pp. 144 ss.; M. MAZZIOTTI DI CELSO, Lavoro (dir. Cost.), cit. 31 Cfr. M. LUCIANI, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, n. 3/2010, p. 637 che, partendo dal presupposto per cui «La valenza egalitaria ed eguagliatrice del riferimento al lavoro come fondamento della Repubblica sottintende la centralità antropologica del lavoro, inteso come tratto tipico della condizione umana», evidenzia che «Se si è scelto di costruire il lavoro (anche) come un dovere, dunque, è perché si è ritenuto che, laddove la sua centralità antropologica venisse a mancare, soccorrerebbe la sua centralità etica: il lavoro è l’espressione primaria della partecipazione del singolo al vincolo sociale ed è attraverso il lavoro che ciascuno restituisce alla società (in termini di progresso generale) ciò che da essa ha ricevuto e riceve in termini di diritti e di servizi, contribuendo a costruire e rinsaldare il comune vincolo sociale». A tale riguardo, propone invece di superare l’obiezione ad un reddito universale incondizionato derivante dagli artt. 38 e 4 Cost. M. RUOTOLO, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri, cit., pp. 411 ss. che ritiene che tale obiezione si fondi sull’equivoco per cui il dovere dell’art. 4, secondo comma, sarebbe mero risvolto del diritto al lavoro del primo comma: in realtà, a giudizio dell’A., il secondo comma fa riferimento alla necessità di svolgere una attività o una funzione e dunque non necessariamente una prestazione lavorativa, costituendo semmai il fondamento del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost. 32 Giungono a diversa conclusione e ritengono invece che, alla luce del dettato costituzionale, sia necessario allontanarsi dalla prospettiva di un coinvolgimento dei beneficiari che sia ispirato alla rigida logica della condizionalità, V. CASAMASSIMA, E. VIVALDI, Ius existentiae e politiche di contrasto della povertà, in Quaderni costituzionali, n. 1/2018, pp. 119 ss.

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certamente vero che per la Costituzione è il cittadino, prima del lavoratore, al centro della

partecipazione politica33, il riferimento all’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione

politica, economica e sociale del Paese può essere letto come una conferma della funzione essenziale

del lavoro anche considerato come strumento di consolidamento del vincolo sociale.

Peraltro, la mancanza dell’elemento della condizionalità rispetto all’erogazione del beneficio, ma anche

una sua disciplina non adeguatamente dettagliata e pregnante, rischierebbero di aumentare la platea dei

non occupati, in questo caso non dei disoccupati involontari bensì “volontari”, in ragione del fatto che

potrebbe risultare conveniente non lavorare percependo comunque un reddito. Il che rende ancora più

lontane dalla Costituzione forme di sostegno al reddito incondizionate o anche “debolmente”

condizionate – ancorché destinate a soggetti effettivamente bisognosi in grado di svolgere attività

lavorative – poiché rappresenterebbero un ulteriore ostacolo al primario obiettivo costituzionale della

piena occupazione34.

Anche il riferimento all’art. 36 Cost. da cui potrebbe teoricamente derivare la garanzia di un reddito

minimo ai più bisognosi, a prescindere dall’elemento decisivo della condizionalità della prestazione,

come misura urgente legata alla necessità di garantire un’esistenza libera e dignitosa, sembra in realtà

condurre ancora una volta alle conclusioni cui si è giunti in precedenza. Non è casuale che anche l’art.

36 faccia riferimento al lavoro che deve garantire al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e

dignitosa. Il lavoro, non il reddito minimo svincolato dal reinserimento lavorativo. La Costituzione

richiede certamente interventi a sostegno di un’esistenza libera e dignitosa, tanto più nei periodi di crisi

economica, ma al tempo stesso essa dovrebbe configurarsi come un diritto del lavoratore, non

dell’”assistito” (con l’esclusione, com’è ovvio, degli inabili al lavoro sprovvisti di mezzi necessari per

vivere di cui all’art. 38, primo comma, Cost.). Non a caso, in questo percorso logico si inserisce l’art. 38,

secondo comma, Cost. in base al quale i lavoratori hanno diritto che siano assicurati mezzi adeguati alle

loro esigenze di vita in caso di disoccupazione involontaria.

Lo “spirito” della Costituzione sembra dunque richiedere che i possibili interventi di sostegno al reddito

nell’ordinamento italiano debbano essere condizionati alla disponibilità, da parte del beneficiario, ad

accettare un percorso di reinserimento lavorativo. Peraltro, non va trascurato il pericolo che forme di

sostegno al reddito prive dell’elemento della condizionalità finiscano per riportare indietro a logiche in

qualche modo riconducibili a quelle dello stato liberale ottocentesco. Gli interventi discrezionali del

legislatore potrebbero infatti in questo caso risultare assimilabili ai concetti di “carità” e beneficienza

33 Cfr. M. LUCIANI, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, cit., p. 644 secondo cui, però, ciò «non intacca in alcun modo quella triplice centralità costituzionale (antropologica, etica, economica) del lavoro» derivante dalla Carta fondamentale. 34 Che Mortati considerava come un «vero e proprio obbligo giuridico dello Stato» (cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., p. 250).

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pubblica. Si tratterebbe, infatti, di interventi ben lontani dal realizzare quelle forme di emancipazione in

senso ampio della persona e di partecipazione alla vita politica sociale ed economica del Paese che sono

alla base del modello di Stato sociale previsto dalla nostra Costituzione a partire dall’art. 3 Cost. e

dall’art. 2 nella sua duplice dimensione del principio personalista e del principio solidarista.

La necessità di forme di condizionalità per l’accesso al beneficio relativo al sostegno al reddito può

anche essere ricondotta agli stessi doveri inderogabili di solidarietà cui fa riferimento l’art. 2 Cost.35 che,

nell’esprimere l’assoluta centralità costituzionale dei diritti inviolabili della persona, richiama tali doveri a

cui si ricollegano, peraltro, i diritti sociali36. Il dovere inderogabile di solidarietà sociale può quindi essere

collegato anche all’art. 4, secondo comma, Cost. in riferimento al dovere verso il lavoro per la

fondamentale funzione sociale che esso riveste per la persona. In questo senso, sembra dunque corretto

ricollegare l’elemento della condizionalità nelle possibili tipologie di sostegno al reddito al dovere di

solidarietà e al dovere verso il lavoro in riferimento a coloro che possono svolgere attività lavorative.

Il percorso sin qui seguito per verificare il fondamento costituzionale ma anche i limiti delle forme di

sostegno al reddito nell’ordinamento italiano si presta, comunque, ad essere discusso e anche contestato

in considerazione dell’assoluto rilievo che la Costituzione italiana assegna al lavoro. A tale riguardo, si è

fatto riferimento alla necessità di ricostituzionalizzare il diritto del lavoro rimettendolo al centro

dell’azione politica e, di conseguenza, alla necessità che i poteri pubblici agiscano non per garantire

reddito, bensì lavoro37. La questione chiama in causa, evidentemente, il tema cruciale dell’utilizzo delle

risorse pubbliche disponibili che, dopo un decennio di crisi economica e in ragione dell’enorme debito

pubblico italiano, sono sempre più limitate. Il contesto italiano rende oggettivamente reale il rischio

che, per dotare di risorse adeguate gli interventi relativi al reddito minimo, sia necessario effettuare una

35 Più in generale, fa riferimento al fondamento della richiesta di prestazione corrispettiva, collegandolo all’art. 2 Cost. e ai doveri inderogabili di solidarietà, E. ROSSI, Prestazioni sociali con “corrispettivo”? Considerazioni giuridico-costituzionalistiche sulla proposta di collegare l’erogazione di prestazioni sociali allo svolgimento di attività di utilità sociale, in Consulta online, 2012, pp. 9 ss. 36 Evidenzia E. ROSSI, Prestazioni sociali con “corrispettivo”?, cit., p. 9, che «come coerente applicazione di questa prospettiva la Costituzione qualifica alcune situazioni alla stregua di diritti ed al contempo di doveri: si pensi al lavoro, affermato come diritto dal primo comma dell’art. 4 e sancito come dovere dal secondo comma dello stesso articolo; all’istruzione, configurata come diritto costituzionale ma al contempo fondamento dell’obbligo di istruirsi di cui all’art. 34 comma 2; al voto, che l’art. 48 sancisce come diritto per tutti i cittadini al primo comma e come dovere civico al secondo; alla salute, “fondamentale diritto dell’individuo” per l’art. 32, ma anche causa giustificatrice del dovere imposto a tutti di accettare trattamenti sanitari obbligatori sul proprio corpo quando previsti dalla legge (dovere che sulla base del principio di solidarietà sociale dovrebbe essere interpretato con riferimento a quei trattamenti necessari per tutelare la salute “come interesse della collettività”, ancorché non essenziali per garantire la salute del singolo individuo cui essi si riferiscono)». 37 Cfr. M. BENVENUTI, Quali misure per assicurare un’esistenza libera e dignitosa? Lavoro e reddito in una prospettiva costituzionale, in Quaderno della Rivista Diritti Lavori Mercati – 2/2016, p. 199, da cui discenderebbe la sollecitazione «a sperimentare, in opposizione alla proposta di un reddito di cittadinanza, forme nuove e concrete di un “lavoro di cittadinanza”».

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scelta tra politiche pubbliche di sostegno alla crescita e all’occupazione o, in alternativa, interventi su

larga scala di sostegno al reddito contro la povertà e l’esclusione sociale.

La questione appare oggettivamente molto complessa. Un’interpretazione complessiva dei principi

costituzionali sembrerebbe richiedere l’introduzione di misure sociali di sostegno al reddito contro la

povertà, in particolare nei periodi di crisi economica e in attesa che i destinatari di quell’intervento di

sostegno siano nelle condizioni di “riattivarsi” e (ri)entrare nel mercato del lavoro in termini

ragionevolmente brevi. Seguendo questo percorso si potrebbe teoricamente ritenere che, se si tiene dritta la

barra sulla funzione primaria che è assegnata al lavoro nella Costituzione, si dovrebbe trattare di una

misura da considerare non strutturale sul lungo periodo: non strutturale nel senso che potrebbe essere

accantonata o comunque ridimensionata nel quantum nei periodi di significativa ripresa della crescita

economica e dell’occupazione stabile.

Il reddito minimo potrebbe quindi essere considerato un intervento costituzionalmente non obbligato

ma costituzionalmente opportuno e, forse, necessario38, in particolare nei periodi di crisi economica e di

crescente sviluppo delle disuguaglianze economiche che rischiano di ridimensionare pesantemente la

portata del principio di eguaglianza sostanziale, del principio solidarista e del principio lavorista. Non

potendosi sostituire al lavoro, il reddito minimo va necessariamente inquadrato come una misura

temporanea di accompagnamento al reinserimento lavorativo. Letto in quest’ottica, l’intervento di

sostegno al reddito potrebbe anche essere considerato, in ragione della presenza di un incentivo per il

reinserimento lavorativo, uno strumento utile per ridurre i tassi di disoccupazione e contribuire

all’obiettivo costituzionale della piena occupazione. Va infatti considerato che, specialmente negli ultimi

anni, una platea sempre più ampia di persone non occupate ha rinunciato a cercare un lavoro. Di

conseguenza, potrebbe essere più utile l’attivazione di un percorso personale di reinserimento

lavorativo accompagnato dall’incentivo del reddito minimo piuttosto che il “solo” intervento pubblico

finalizzato a sostenere la crescita economica e l’occupazione stabile. Inoltre, considerando il quadro

costituzionale39, non sembra possibile ignorare l’esigenza di contrastare la povertà e l’esclusione sociale

in nome del principio lavorista, pur riconoscendo la centralità del lavoro nella Costituzione italiana.

38 Ritiene “costituizionalmente necessario” il reddito minimo nella forma di una misura di sostegno condizionata all’attivazione del beneficiario C. TRIPODINA, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa, cit., p. 240. 39 Soprattutto in riferimento ai principi fondamentali e, in particolare, agli art.. 2 e 3 della Costituzione. Del resto, la dottrina ha da tempo messo in rilievo la primaria necessità di contrastare le diseguaglianze che deriva dalla Costituzione italiana in un contesto in cui la libertà, come sottolineato da V. CRISAFULLI, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Diritto del lavoro, 1954, p. 74, si traduce «in capacità e possibilità di libera scelta e di reale autodeterminazione in ciascun soggetto ed implica (…) il concetto della sicurezza, intesa come libertà dal bisogno e dal timore». A tale riguardo L. ELIA, Si può rinunciare allo “Stato sociale”?, in R. ARTONI, E. BETTINELLI, Povertà e Stato, Roma, 1987, p. 112., prefigurava la necessità di far fronte a nuovi doveri e sacrifici collettivi per non rassegnarsi a una società in cui una parte della popolazione versasse in gravi disagi, sacrifici che l’A. riteneva necessari non per motivi di compassione, bensì in ragione di «precise direttive costituzionali».

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Ad ogni modo, dall’analisi dei principi costituzionali sembrano emergere alcuni punti fermi. Il reddito

di cittadinanza inteso come misura di sostegno al reddito incondizionata ed estesa a tutti non appare

conforme con la Costituzione. Il reddito minimo, inteso come intervento di sostegno al reddito

indirizzato alle persone in grado di svolgere un lavoro che si trovino in condizioni di povertà appare

invece coerente con l’impianto costituzionale, purché sia strettamente condizionato alla disponibilità del

beneficiario a partecipare a un percorso di reinserimento lavorativo e abbia le caratteristiche di una

misura temporanea e non permanente.

Seguendo questo percorso, inoltre, è possibile individuare un tendenziale allineamento tra l’indirizzo del

Pilastro europeo dei diritti sociali e l’impianto costituzionale. Gli interventi volti a introdurre misure di

sostegno al reddito sono ammissibili e probabilmente necessari nei periodi di crisi economica e di

aumento delle diseguaglianze, ma devono andare di pari passo con la finalità di reinserimento lavorativo

e, dunque, con l’obiettivo della piena occupazione che è certamente più forte e stringente nella

Costituzione italiana ma che possiede un suo fondamento giuridico anche nei Trattati europei.

5. Il nuovo “Reddito di Inclusione”(ReI) introdotto dal legislatore

L’Italia si è contraddistinta a lungo per l’adozione di discipline frammentate e non strutturali per quanto

riguarda le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. In relazione agli interventi di

sostegno al reddito, il nostro Paese è stato per lungo tempo, sino al recente intervento del 2017, l’unico

Stato membro dell’Unione insieme alla Grecia a non aver introdotto un intervento strutturale di

sostegno al reddito riconducibile alla tipologia del reddito minimo40.

Il carattere episodico e non strutturale e la limitatezza degli interventi anche dal punto di vista della

platea dei destinatari, ha caratterizzato tutte le misure susseguitesi negli ultimi vent’anni in Italia, dal

Reddito minimo di inserimento (RMI) la cui sperimentazione prevista per il biennio 1999-2000 si è poi

protratta sino al 2007, al reddito di ultima istanza del 2003 mai reso effettivamente applicativo, sino alla

Carta acquisti (“social card”) del 2008 e alla nuova Carta acquisti prevista dal legislatore nel 2012

successivamente rinominata Sostegno per l’inclusione attiva (SIA) con D.M. 26 maggio 201641. Al

problema dei limiti, anche sotto il profilo dell’impegno delle risorse destinate, che caratterizzavano

questi interventi si è poi aggiunta la criticità di una diffusione a macchia di leopardo delle misure di

sostegno al reddito dovuta al progressivo intervento delle leggi regionali in materia che, per sua natura,

40 Come evidenziato dal Rapporto del Parlamento europeo, Minimum income policies in EU member states, april 2017. Come avvenuto in Italia, anche la Grecia ha da ultimo introdotto una disciplina sperimentale del reddito minimo. 41 Per una ricostruzione degli interventi frammentati operati nell’ultimo ventennio in Italia v. M. VINCIERI, Verso la tutela della povertà: l’ipotesi del reddito di inclusione, in Lavoro e Diritto, n. 2/2017, p. 308 ss.; e sull’intreccio di queste misure con gli interventi normativi rientranti nel Jobs Act, si rinvia a C. TRIPODINA, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”, cit., M. BENVENUTI, Quali misure per assicurare un’esistenza libera e dignitosa? , cit., pp. 179 ss.

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non poteva essere distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. A partire dagli anni

duemila, infatti, sono state approvate alcune leggi regionali e negli ultimi anni si è poi assistito a un

incremento della produzione legislativa regionale in materia che è evidentemente ricollegabile

all’aumento della povertà conseguente alla crisi economica42.

La prolungata mancanza di un intervento statale di tipo strutturale in questo ambito non può essere

considerata una casualità. Sin dagli anni dell’aumento incontrollato del debito pubblico italiano e di una

gestione “allegra” delle finanze dello Stato certamente favorevole alla spesa pubblica e, in seguito, negli anni

precedenti alla crisi economica, l’Italia non ha introdotto nessuna forma strutturale di lotta alla povertà e di

reddito minimo. A differenza di quel che invece è avvenuto nei principali Paesi europei: a partire dagli anni ’80 la

Francia e il Regno Unito e, ancora prima, la Germania negli anni ’6043, hanno infatti introdotto misure

assimilabili al reddito minimo. L’Italia, invece, non ha proceduto in questa direzione e questa scelta non

sembra frutto del caso: è probabile che in questo prolungato immobilismo abbia giocato un ruolo la

forza del principio lavorista della Costituzione che, nella sua specialità, ha fondato la Repubblica sul

lavoro. Allo stato attuale, peraltro, sembra necessario rileggere la questione alla luce degli eventi

dell’ultimo decennio e, in particolare, della durissima crisi economica e dei profondi cambiamenti del

lavoro umano generati dagli sviluppi delle tecnologie e dalla digitalizzazione che, inevitabilmente,

stanno trasformando e sono destinati a trasformare sempre di più il mercato del lavoro. Questo

ripensamento, pur necessario, va comunque condotto continuando ad avere come riferimento, senza

snaturarlo, l’impianto profondamente “lavorista” della Costituzione italiana da cui derivano,

inevitabilmente, alcuni limiti per il legislatore per quanto riguarda le modalità di erogazione di misure di

sostegno al reddito.

42 Si richiamano, innanzitutto, ad esempio, Friuli Venezia Giulia, l. r. n. 6/2006; Lazio, l. r. n. 4/2009; Campania, l. r. n. 2/2004; Basilicata, l. r. n. 3/2005; Provincia autonoma di Trento, l. r. n. 13/2007; e, più di recente, Friuli Venezia Giulia l. r. n. 15/2015; Emilia Romagna l. r. n. 24/2016; Sardegna l. r. n. 18/2016; Valle d’Aosta, l. r. n. 18/2015; Puglia, l. r. n. 3/2016 Lazio. Interventi finalizzati al sostegno al reddito sono inoltre stati adottati negli ultimi anni anche in Lombardia, Basilicata e Molise. La produzione normativa regionale in materia ha probabilmente avuto un ruolo di stimolo nei confronti del legislatore statale. Si tratta, nel complesso, di misure assimilabili tra loro poiché hanno riguardato interventi sperimentali che spesso si sono interrotti, si sono caratterizzate come forme di reddito minimo di cui hanno beneficiato soprattutto le persone anziane e hanno invece rappresentato un intervento poco tempestivo per le persone senza reddito e per coloro che hanno perso un lavoro. Va inoltre segnalato che, in generale, le risorse messe a disposizione sono state piuttosto esigue che si sono tradotte in concreto in benefici per numeri ristretti di persone (in relazione alla legge Campana, nella città di Napoli ha avuto accesso al sostegno economico il 12% degli aventi diritto). Per un approfondimento si rinvia a S. TOSO, Reddito di cittadinanza, cit., pp. 112 ss. e a M. VINCIERI, Verso la tutela della povertà: l’ipotesi del reddito di inclusione, cit., pp. 312 ss.; in particolare sulla legge pugliese, v. E. MONTICELLI, I nuovi strumenti di lotta alla povertà in Italia: prime considerazioni sulla legge delega in materia di reddito di inclusione, in Osservatorio costituzionale, fasc. 2/2017; A BONOMI, Brevi osservazioni sul “Reddito di dignità” introdotto dalla l. r . n. 3/2016 della Regione Puglia: aspetti positivi e punti di criticità sotto il profilo della compatibilità costituzionale, in Dirittifondamentali.it, fasc. 2/2016. 43 Per un approfondimento v. S. TOSO, Reddito di cittadinanza, cit., pp. 82 ss.

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L’introduzione da parte del legislatore del “Reddito di Inclusione” (ReI) con la legge di delega n. 33 del

2017, seguita dal decreto legislativo n. 147 del settembre 201744, rappresenta indubbiamente un

passaggio di rilievo poiché il legislatore sembra essersi orientato verso misure di contrasto all’esclusione

sociale che si pongono in discontinuità rispetto all’approccio parziale e frammentario che aveva

caratterizzato i decenni precedenti.

Si tratta di una misura di contrasto alla povertà a carattere universale finalizzata ad introdurre un

sostegno al reddito per i nuclei familiari in condizione di bisogno e che poggia su di una “doppia

condizionalità”: l’erogazione del beneficio è infatti condizionata alla valutazione della situazione

economica familiare e all’accettazione da parte del beneficiario di partecipare ad un progetto

personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. La legge di bilancio del 2018 ha

introdotto, poi, importanti novità riguardo alla portata di questo intervento. La legge istitutiva del ReI,

infatti, aveva ancora un carattere categoriale nel senso che individuava uno specifico e ristretto target di

famiglie al di sotto della soglia di povertà ma anche in possesso di determinati requisiti45. Grazie alle

modifiche contenute nella legge di bilancio 201846, il ReI può essere considerato un intervento non più

categoriale ma a carattere universale, rientrante nel c.d. universalismo selettivo poiché, a partire dal 1°

luglio 2018, sono venuti meno i requisiti familiari e i destinatari sono individuati soltanto sulla base dei

requisiti economici calcolati sul nucleo familiare47.

44 Si tratta, rispettivamente, della Legge 15 marzo 2017, n. 33 “Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali”, e del Decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, recante “Disposizioni per l'introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà”. Per un commento sull’iter, sul contenuto della delega e del relativo decreto legislativo, v. N. MACCABIANI, Una misura nazionale e strutturale di contrasto alla povertà: portata, iter e profili di rilievo costituzionale, in Osservatorio costituzionale, fasc. 3/2017; A. ALAIMO, Il reddito di inclusione attiva: note critiche sull’attuazione della legge n. 33/2017, in Rivista del Diritto della sicurezza Sociale, fasc. 3/2017, pp. 419 ss.; 45 Per richiedere il beneficio il nucleo familiare doveva infatti trovarsi in almeno una delle seguenti condizioni: presenza di un minorenne; presenza di persona con disabilità; donna in stato di gravidanza, presenza di un disoccupato di età maggiore ai 55 anni. 46 Si fa riferimento all’art. 1, commi 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, Legge 27 dicembre 2017, n. 205 che hanno modificato il contenuto del d. lgs. n. 147 del 2017 con cui si era data attuazione alla delega relativa all’introduzione del ReI. 47 In base a quanto previsto dall’art. 3, primo comma, del d. lgs. n. 147 del 2017 che individua i seguenti requisiti: un valore ISEE (indicatore situazione economica equivalente) non superiore a 6 mila euro; un valore ISRE (indicatore situazione reddituale equivalente) non superiore a 3 mila euro; un valore del patrimonio immobiliare (diverso dalla casa di abitazione) non superiore a 20000 euro; un patrimonio mobiliare non superiore a 10000 euro e 8mila per la coppia e 6mila per la persona sola; un valore non superiore alle soglie di cui ai numeri 1 e 2 relativamente all'ISEE e all'ISRE riferiti ad una situazione economica aggiornata nei casi e secondo le modalità di cui agli articoli 10 e 11. Inoltre, con riferimento al godimento di beni durevoli e ad altri indicatori del tenore di vita, il nucleo familiare deve trovarsi congiuntamente nelle seguenti condizioni: nessun componente intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di autoveicoli, ovvero motoveicoli immatricolati la prima volta nei ventiquattro mesi antecedenti la richiesta, fatti salvi gli autoveicoli e i motoveicoli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità ai sensi della disciplina vigente; nessun componente intestatario a qualunque titolo o avente piena disponibilità di navi e imbarcazioni da diporto di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171.

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Il sostegno è indirizzato a cittadini italiani ed europei e a cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornati

che siano in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Viene inoltre

previsto il requisito, valido sia per cittadini italiani ed europei che per cittadini stranieri, della residenza

in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda48.

Condivisibile appare, per ragioni di equità, la scelta di individuare nei destinatari del ReI i nuclei

familiari anziché le singole persone non limitandosi all’utilizzo del dato del reddito individuale ma

considerando la condizione economica complessiva sul piano dei redditi e dei patrimoni dei nuclei

stessi. L’entità del beneficio varia in misura crescente sulla base del numero dei componenti del nucleo

familiare: l’importo medio per la persona sola è di 187,50 euro mensili e raggiunge la cifra di 539 euro

per un nucleo composto da 6 o più persone49. L’importo del beneficio economico viene erogato

attraverso una Carta di pagamento elettronica per un massimo di diciotto mensilità, rinnovabile a

determinate condizioni per altre dodici mensilità50. Quest’ultimo elemento conferma la natura del ReI,

non qualificabile come misura assistenziale permanente di sostegno al reddito fine a se stessa, bensì

come intervento temporaneo per affrontare un’emergenza e accompagnare il nucleo familiare verso il

reinserimento sociale e lavorativo.

Oltre alla suo carattere “universale”, un secondo elemento di interesse è rappresentato dal fatto che il

ReI aspira a superare la frammentarietà degli interventi sino a oggi previsti nel campo del sostegno alle

fasce più deboli della popolazione. Nell’ottica di introdurre una misura in grado di accorpare ed

incanalare in un’unica direzione gli interventi in questo settore, infatti, il legislatore ha previsto che a

partire dal 2018 il ReI debba sostituire il SIA (Sostegno per l’inclusione attiva) e l’ASDI (Assegno di

disoccupazione).

Il ReI può dunque essere considerato come una tipologia di reddito minimo che ha introdotto, per la

prima volta nell’ordinamento italiano, una misura a carattere universale volta a un riordino e a una

tendenziale unificazione degli interventi di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale indirizzati alla

popolazione in età lavorativa. Si tratta, evidentemente, di un universalismo di tipo selettivo poiché

l’erogazione del beneficio è subordinata alla verifica della condizione economica dei beneficiari.

48 In base alle previsioni contenute nell’art. 3 del D. Lgs.147 del 2017. Sui rischi di una possibile irragionevolezza del criterio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e del criterio della residenza di due anni in rapporto alla finalità della legge e alla luce della giurisprudenza costituzionale relativa all’accesso al welfare dei non cittadini v. N. MACCABIANI, Una misura nazionale e strutturale di contrasto alla povertà: portata, iter e profili di rilievo costituzionale, cit., pp. 27 ss.; , V. CASAMASSIMA, E. VIVALDI, Ius existentiae e politiche di contrasto della povertà, cit., p. 136; e, su tale giurisprudenza, sia consentito il rinvio a F. SCUTO, Le Regioni e l’accesso ai servizi sociali degli stranieri regolarmente soggiornanti e dei cittadini dell’Unione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2013, pp. 57 ss. 49 I dati sono forniti dall’Osservatorio statistico sul ReI dell’INPS e sono reperibili nel sito web dell’INPS. L’importo del beneficio per un nucleo di due persone è di 294.50 euro e di 382.50 euro per tre persone. 50 L’art. 4, quinto comma del D. Lgs. n. 147 del 2017 prevede che al termine dei diciotto mesi di erogazione il ReI non possa essere rinnovato se non sono trascorsi almeno sei mesi da quando ne è cessato il godimento. In caso di rinnovo, la durata è fissata, in sede di prima applicazione, per un periodo non superiore a dodici mesi.

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L’ambizione di questo intervento è confermata dalla scelta del legislatore di inquadrarlo come nuova

misura resa necessaria per garantire il mantenimento delle caratteristiche essenziali della nostra forma di

Stato sociale adeguandole, come evidenziato dall’art. 1 della legge n. 33 del 2017, “ai bisogni emergenti”

e alla necessità di introdurre forme di protezione più eque e omogenee nell’accesso alle prestazioni.

Coerentemente, l’art. 1 individua la finalità dell’intervento nell’obiettivo di contribuire a rimuovere gli

ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e uguaglianza dei cittadini e il pieno sviluppo della

persona, nonché di contrastare la povertà e l’esclusione sociale, in attuazione dell’art. 3 Cost. L’altro

elemento di rilievo che caratterizza in maniera forte, quantomeno nei suoi intenti, la nascita del ReI,

riguarda la sua qualificazione come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente sul

territorio nazionale. Il legislatore ha quindi utilizzato una competenza esclusiva statale finalizzata a

garantire un intervento omogeneo su tutto il territorio che evitasse livelli di tutela difformi51, come è

avvenuto sino ad oggi con l’azione limitata soltanto ad alcune leggi regionali di diverso contenuto. Una

volta introdotta una misura uniforme a livello nazionale, il legislatore regionale potrà, comunque,

intervenire in questo ambito innalzando i livelli di tutela.

Nelle intenzioni del legislatore, il ReI può dunque essere considerato come un dei nuovi ambiti di

intervento dello Stato sociale italiano che appare inevitabilmente in via di trasformazione, in particolare

dopo gli eventi dell’ultimo decennio. Si tratta di una misura che viene saldamente ancorata

all’eguaglianza sostanziale e che appare in questo senso dotata di una sua coerenza complessiva rispetto

all’impianto costituzionale, nel suo configurarsi come un “nuovo” ma al contempo “classico”

intervento sociale finalizzato all’attuazione dell’art. 3, secondo comma, Cost.

6. Lo stretto legame del ReI con la logica della condizionalità

Sulla base delle sue caratteristiche “strutturali”, il ReI segue un approccio saldamente legato alla logica

della condizionalità e, come tale, lontano da un modello di reddito minimo indirizzato principalmente

51 Come noto, in base all’art. 117, quarto comma, Cost., la materia dei servizi sociali è rientra nella potestà legislativa residuale delle Regioni. Di conseguenza, l’introduzione del ReI come “livello essenziale delle prestazioni” ex art. 117, secondo comma, lett. m, Cost., ambito di competenza esclusiva statale rende costituzionalmente legittimo l’intervento statale che non può essere considerato come eccessivamente limitativo delle competenze regionali nell’ambito dei servizi sociali. Va peraltro ricordato che la Corte costituzionale nella sent. n. 10/2010 ha legittimato (nella sentenza sulla c.d. “carta acquisti”) interventi del legislatore statale finalizzati a garantire, tanto più in un contesto di crisi economica, la «protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana» e come tali, legittimati a limitare l’autonomia legislativa regionale per assicurare un livello uniforme del godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione. Impostazione peraltro confermata nella sent. n. 275 del 2016. V., sul punto, A. RUGGERI, “Livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti e ridefinizione delle sfere di competenza di Stato e Regioni in situazioni di emergenza economica (a prima lettura di Corte cost. n. 10 del 2010), in Forum di Quaderni costituzionali, 2010. In generale, sulle possibili criticità di interventi legislativi sul reddito minimo alla luce del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, v. C. TRIPODINA, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa, cit., pp. 210 ss.; P. BOZZAO, I primi passi del Jobs acts, in Federalismi.it, fasc. 7/2015, p. 4.

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alla lotta alla povertà ma non al reinserimento lavorativo. Questa finalità è perseguita mediante la

previsione di una necessaria adesione del beneficiario ad un progetto personalizzato di attivazione

indirizzato all’inclusione sociale e lavorativa e predisposto in seguito a una “valutazione

multidimensionale” orientata ad identificare gli effettivi bisogni del nucleo familiare che comprende,

oltre al focus sulla situazione economica, l’esame delle condizioni sociali, abitative di istruzione e

formazione52. Le azioni da mettere in campo sulla base del piano personalizzato riguardano, dunque,

non solo gli interventi relativi all’ambito del lavoro e della formazione, ma anche quelli riconducibili alle

politiche sanitarie, educative e abitative53. Il progetto personalizzato individua, in tal senso, gli impegni

da parte dei componenti del nucleo familiare a svolgere specifiche attività cui il beneficio economico è

condizionato54. Impegni che si traducono nella frequenza di contatti con i competenti servizi

responsabili del progetto e nell’impegno attivo nella ricerca di lavoro. In particolare, rimandando al

decreto legislativo n. 150 del 2015 (uno dei decreti del “Jobs Act”)55, si prevede che il piano

personalizzato debba includere le modalità con cui il beneficiario dimostri al responsabile delle attività il

suo impegno nella ricerca di lavoro e confermi la disponibilità a partecipare ad iniziative formative per il

rafforzamento delle proprie competenze. Soprattutto, è richiesta al beneficiario la disponibilità ad

accettare “un’offerta di lavoro congrua”56. L’elemento della “congruità” dell’offerta di lavoro è

questione centrale per la determinazione, in concreto, della condizionalità della misura di sostegno al

reddito. Nella declinazione di reddito minimo prevista dal ReI il sostegno al reddito risulta strettamente

e severamente legato alla disponibilità “incondizionata” del beneficiario ad accettare offerte di lavoro,

purché si tratti di offerte congrue così come sono state definite dal legislatore nel 2015 che ha previsto

una serie di criteri per stabilire la congruità di un’offerta di lavoro quali, ad esempio, la coerenza con le

esperienze e le competenze lavorative maturate in precedenza e la durata della disoccupazione57.

Oltre alla temporaneità che caratterizza questa tipologia di sostegno al reddito, l’altro elemento centrale

è dunque rappresentato dalla necessità di accettare la prima offerta di lavoro (congrua) che viene

52 Questa impostazione è conforme rispetto alla scelta che appare corretta di intendere il concetto di povertà in senso ampio e quindi di misurarla, come evidenzia M. RUOTOLO, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri, cit., p. 398, secondo un indicatore “multidimensionale” che tenga conto sia della situazione occupazionale che della fragilità e dell’esclusione sociale. Sul legame, derivante dal D. Lgs. n. 147/2017, tra sostegno al reddito e valutazione multidimensionale v. G. GRASSO, Appunti su reddito di inclusione, assistenza socio-sanitaria e vincoli sulle risorse disponibili, in Osservatorio costituzionale, fasc. 3/2017. 53 Art. 6, quarto comma, D. Lgs. n. 147 del 2017. 54 Art. 6, secondo comma, D. Lgs. n. 147 del 2017. 55 D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 150, “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”. 56 Come prescritto dall’art. 12, quinto comma, del D. Lgs. n. 147 del 2017. 57 Il D. Lgs. n. 150 del 2015, all’art. 25, definisce congrua un offerta di lavoro sulla base dei seguenti principi: a) coerenza con le esperienze e le competenze maturate; b) distanza dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico; c) durata della disoccupazione; d) retribuzione superiore di almeno il 20 per cento rispetto alla indennità percepita nell'ultimo mese precedente.

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proposta: in caso contrario è subito prevista l’automatica cessazione del beneficio58. Entrambi gli

elementi contribuiscono dunque a caratterizzare il ReI come misura di sostegno al reddito strettamente

legata alla logica della condizionalità e al reinserimento lavorativo.

L’approccio delineato nel dettaglio dal decreto legislativo n. 147 risulta indubbiamente ambizioso ma al

tempo stesso condivisibile nella scelta di individuare un piano personalizzato sulla base delle esigenze

del nucleo familiare. Un piano che sia finalizzato non soltanto al reinserimento lavorativo ma anche

all’effettiva inclusione sociale, come prevede l’art. 7 che individua interventi e servizi sociali (tirocini,

sostegno socio-educativo, servizi di pronto intervento sociale) indirizzati all’inclusione sociale. Si tratta

di obiettivi che, evidentemente, non sono raggiungibili con la sola erogazione di prestazioni

standardizzate e uguali per tutti. In presenza di obiettivi così ambiziosi, è certamente utile e necessaria la

continua interazione tra soggetto erogante e beneficiario delineata dal legislatore delegato59.

Questo complesso insieme di azioni ed interventi richiede il coinvolgimento di Regioni ed enti locali

per dare concreta applicazione a questa misura di sostegno al reddito. Il suo funzionamento in

concreto, infatti, chiama in causa direttamente il ruolo cruciale dei Comuni, in forma singola o

associata, che vengono individuati, congiuntamente con l’INPS, quali soggetti attuatori del ReI e di

tutte le azioni ed iniziative ad esso collegate60. I Comuni sono innanzitutto responsabili di creare punti

per l’accesso al ReI in grado di offrire informazioni, consulenza e orientamento ai nuclei familiari. Ai

Comuni che devono operare insieme ai centri per l’impiego e al terzo settore, è poi affidata la regia per

la concreta attuazione delle numerose misure di integrazione sociale e lavorativa previste dal legislatore

delegato. Anche le Regioni sono chiamate a svolgere un ruolo di rilievo nell’applicazione delle misure

previste, a partire dalla loro competenza in materia di formazione e programmazione delle politiche

sociali. Il decreto legislativo, peraltro, si spinge oltre, indicando alle Regioni il compito di adottare un

Piano regionale triennale per la lotta alla povertà quale atto fondamentale di programmazione dei servizi

necessari per l’implementazione del ReI come livello essenziale delle prestazioni61. Viene dunque

promossa la partecipazione attiva delle Regioni nella loro decisiva funzione di programmazione delle

politiche sociali di contrasto all’esclusione sociale, programmazione che deve esplicarsi mediante il

58 Come prevede l’art. 12, quinto comma, D. Lgs. n. 147 del 2017. Nell’articolo sono indicati i meccanismi sanzionatori e, in particolare, i casi di sospensione e decadenza della prestazione. 59 Sottolinea l’importanza di una continua interazione con il beneficiario di prestazioni sociali E. ROSSI, Prestazioni sociali con “corrispettivo”? Considerazioni giuridico-costituzionalistiche sulla proposta di collegare l’erogazione di prestazioni sociali allo svolgimento di attività di utilità sociale, cit. pp. 16 – 17 secondo cui sarebbe necessario che il soggetto fosse attivamente coinvolto, sia al fine di individuare il migliore apporto che egli potrebbe offrire alle esigenze della società, sia allo scopo di meglio motivarlo in relazione alle finalità della richiesta di una prestazione di pubblica utilità. A tal fine, la continua interazione tra soggetto erogante e destinatario della prestazione appare come la via più corretta da seguire. 60 Art. 13 D. Lgs. n. 147 del 2017. 61 Art. 14 D. Lgs. n. 147.

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confronto con le autonomie locali e la consultazione delle parti sociali e degli enti del terzo settore

operanti nell’ambito della lotta alla povertà.

Il necessario coinvolgimento di Regioni ed enti locali rischia di scontrarsi, evidentemente, con il nodo

irrisolto dei rapporti tra Stato e Autonomie in Italia anche a seguito della riforma incompiuta del Titolo

V della Costituzione del 2001. Per poter funzionare, il ReI necessita indubbiamente di un soddisfacente

livello di cooperazione tra Stato ed enti territoriali. È poi essenziale che funzionino anche le politiche

attive di inclusione, ambito in cui i Comuni sono chiamati a svolgere un ruolo importante. Inoltre,

l’attività di coordinamento e programmazione delle Regioni appare di vitale importanza per la

realizzazione delle complesse attività connesse a questa misura di inclusione sociale. Alla luce della

grandezza di questa sfida, viene naturale nutrire un certo pessimismo sull’efficace realizzazione in

concreto di queste misure se si riconosce che, complessivamente, sia pur con alcune eccezioni, in

questo periodo le autonomie territoriali e il regionalismo italiano non versano affatto in buone

condizioni, soprattutto nelle aree del Paese in cui maggiori sono i livelli di disoccupazione e in cui

dovrebbero dunque concentrarsi con più forza gli interventi delineati dal legislatore. Al tempo stesso,

però, l’applicazione del ReI potrebbe rappresentare una nuova occasione per un rilancio del ruolo delle

autonomie nel nostro Paese, a partire dall’acquisizione di una più decisa consapevolezza da parte delle

Regioni dell’importanza del loro ruolo di enti di programmazione.

Considerato nelle sue caratteristiche essenziali, come si è visto, l’impianto di fondo del ReI è ben

lontano da misure di tipo assistenziale che diano luogo a forme di reddito minimo slegate dalla logica e

dalla finalità primaria del reinserimento lavorativo. L’obiettivo del reddito minimo, infatti, non

dovrebbe essere quello di assistere, quanto piuttosto, come indicato in una Risoluzione del Parlamento

europeo, di “sostenere i beneficiari a passare da situazioni di esclusione sociale a una vita attiva”62. Del

resto, come si è evidenziato in precedenza, l’impianto costituzionale non appare conforme a modelli di

tipo meramente assistenziale. Inoltre, come precisava la stessa Risoluzione, “la lotta alla povertà

presuppone la creazione di posti di lavoro dignitosi e durevoli per le categorie sociali svantaggiate”.

Quest’ultimo aspetto può senz’altro essere considerato centrale e dirimente. La lotta all’esclusione

sociale e le misure a essa connessa, infatti, richiedono come elemento imprescindibile di contrasto alla

povertà l’obiettivo di mettere al centro dell’azione il lavoro e l’occupazione stabile, tanto più alla luce

dell’impianto costituzionale. Il che, peraltro, mette in evidenza ulteriori nodi problematici italiani

dell’ultimo ventennio come l’alto tasso di disoccupazione giovanile e le difficoltà relative al

62 Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010. È tornata con decisione sulla questione anche la più recente Risoluzione del Parlamento europeo sul reddito minimo del 2017 (per i riferimenti v. nota successiva) in cui il Parlamento ritiene che “il reale obiettivo dei regimi di reddito minimo non sia semplicemente assistere, ma soprattutto accompagnare i beneficiari nel passaggio da situazioni di esclusione sociale a una vita attiva, evitando così una dipendenza a lungo termine”.

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consolidamento dell’occupazione stabile e duratura. In ogni caso, la natura temporanea ed

“emergenziale” del ReI e l’utilizzo di un severo criterio di condizionalità rendono questo tipo di

intervento senz’altro conforme all’obiettivo di contrastare la povertà mediante la (ri)attivazione

lavorativa.

Il percorso tracciato dal legislatore con il “progetto personalizzato” basato su una “valutazione

multidimensionale” delle esigenze del beneficiario, inoltre, appare conforme anche rispetto all’indirizzo

indicato dal Pilastro europeo dei diritti sociali. Come si ricorderà, il Pilastro, oltre a indicare

l’introduzione di forme di reddito minimo collegate alla disponibilità a una “(ri)attivazione”, pone

l’accento sul necessario sostegno personalizzato, sull’accompagnamento “continuo e coerente”, sulla

valutazione individuale “approfondita” e sul sostegno al miglioramento della formazione individuale.

Sul punto, peraltro, merita di essere evidenziata la coerenza dell’intervento del legislatore anche rispetto

alle indicazioni contenute in una recente Risoluzione del Parlamento europeo sul reddito minimo in cui

risulta particolarmente accentuata la necessità di collegare forme di sostegno al reddito a un intervento

parallelamente orientato all’integrazione sociale dei beneficiari63.

Peraltro, se si considera l’introduzione di una forma di reddito minimo in Italia come una nuova

tipologia di intervento di welfare, essa potrebbe teoricamente essere considerata non soltanto come un

nuovo costo sociale, ma anche come un investimento64 sotto un duplice profilo: da un lato, potrebbe

contribuire allo sviluppo dell’inclusione e della coesione sociale; dall’altro, sarebbe in grado di

incrementare le entrate statali derivanti da reddito da lavoro. Più in generale, rappresenterebbe un buon

esempio di maggiore sostenibilità per un welfare rinnovato se davvero riuscisse a riassorbire in un’unica

misura e in via strutturale le varie forme di intervento nel campo dell’assistenza per le persone

bisognose in età lavorativa.

63 Si fa riferimento alla Risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017 “sulle politiche volte a garantire il reddito minimo come strumento per combattere la povertà” (2016/2270(INI)), in cui si evidenzia (punto 25) “che i regimi di reddito minimo dovrebbero essere integrati in un approccio strategico orientato all'inclusione e all'integrazione sociale, che preveda sia politiche generali sia misure mirate in materia di alloggi, assistenza sanitaria, istruzione e formazione, servizi sociali e altri servizi di interesse generale, che aiutino le persone a combattere la povertà, fornendo nel contempo un sostegno personalizzato, nonché assistenza nell'accesso al mercato del lavoro per chi può lavorare. 64 Rileva a tale riguardo E. ROSSI, Prestazioni sociali con “corrispettivo”? Considerazioni giuridico-costituzionalistiche sulla proposta di collegare l’erogazione di prestazioni sociali allo svolgimento di attività di utilità sociale, cit. p. 19 che l’ipotesi di prevedere una prestazione corrispettiva in relazione all’erogazione di prestazioni sociali consente di superare la logica del servizio prestato dall’ente pubblico in termine di costo per considerarlo alla stregua di un investimento.

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7. Criticità, prospettive del ReI e differenze rispetto al “reddito di cittadinanza” proposto dal

M5S

L’analisi delle caratteristiche del ReI introdotto dal legislatore si presta dunque ad una lettura che

consente di evidenziarne le potenzialità sotto diversi profili. Al tempo stesso, non si possono

nascondere i problemi e le difficoltà che l’implementazione di una misura come questa rischia di

incontrare nel contesto italiano.

Innanzitutto, la classica obiezione generale che viene mossa agli interventi di sostegno al reddito, vale a

dire che rischierebbero di disincentivare l’attivazione lavorativa dei beneficiari, è dotata di una sua

logicità. Questo rischio è certamente presente in Italia dove una certa tendenza a privilegiare logiche di

tipo assistenziale è reale, al di là dell’immagine caricaturale che viene spesso proposta in alcuni Stati del

Nord Europa di un Paese naturalmente portato all’ozio per il suo clima mediterraneo e per le bellezze

naturali. Sul piano concreto, però, il ReI sembra scongiurare questo pericolo per due motivi.

Innanzitutto, come si è visto, l’erogazione del beneficio è strettamente condizionata all’accettazione di

un percorso di (ri)attivazione lavorativa che non ammette forme di assistenza che consentano l’”ozio”.

Inoltre, l’esiguità in concreto del sostegno economico predisposto per i beneficiari - anche in ragione

delle difficoltà nel reperire le risorse necessarie per far fronte ai costi del reddito minimo - limita di per

sé la tendenza a logiche assistenziali nel senso che le cifre erogate dal ReI non sono in grado di coprire

le esigenze di vita di un nucleo familiare. Quest’ultimo è comunque un profilo molto delicato in relazione

alle misure di sostegno al reddito nell’ordinamento italiano. Il quantum del beneficio economico è uno

degli elementi decisivi per la valutazione di questa tipologia di politiche sociali che, alla luce

dell’impianto costituzionale e, quindi, a prescindere dalla disponibilità delle risorse da poter impiegare,

non sembrano comunque legittimate a introdurre forme di sostegno al reddito troppo “generose” e,

come tali, disincentivanti rispetto alla ricerca di un lavoro.

Un ulteriore rischio per una buona implementazione del ReI, in questo caso, purtroppo, molto

concreto alla luce della realtà italiana, è ricollegabile ad alcune delle piaghe strutturali del nostro Paese.

Oltre a una certa tendenza al clientelismo e all’assistenzialismo, il riferimento va, in primis, alla larga

diffusione del lavoro nero e dell’evasione fiscale. Questi fenomeni, evidentemente, rischiano non

soltanto di ostacolare la buona attuazione del ReI ma di minarne alle fondamenta il suo obiettivo di

misura di welfare finalizzata a contrastare le crescenti disuguaglianze e a dare effettiva tutela

all’eguaglianza sostanziale prefigurata dall’art. 3.2 Cost. È infatti evidente che, in assenza di interventi

seri e strutturali di lotta al lavoro nero e all’evasione fiscale, ogni misura di sostegno al reddito, per

quanto ben organizzata, rischia di essere indirizzata a destinatari il cui reddito effettivo si collochi ben al

di sopra delle soglie di povertà individuate. Un beneficio assegnato a coloro che non rientrino

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effettivamente tra i bisognosi potrebbe escludere altre persone indigenti e finirebbe per dar vita a nuove

forme di disuguaglianze.

Un ulteriore ostacolo, poi, come si è rilevato in precedenza, può derivare dal cattivo stato di salute delle

autonomie territoriali italiane il cui ruolo essenziale nell’applicazione di questa tipologia di sostegno al

reddito rischia di scontrarsi con alcuni nodi di fondo della forma di Stato italiana. Sono certamente

evidenti, infatti, i difetti del nostro regionalismo e le problematiche ancora irrisolte della riforma del

Titolo V del 2001 a cui si è aggiunto il ridimensionamento delle entrate per gli enti territoriali negli anni

della crisi che si è tradotto in una maggiore difficoltà a svolgere le funzioni loro assegnate. Come si è

visto, a Comuni e Regioni è affidato un ruolo centrale nell’implementazione del ReI ma, allo stato

attuale, sembra difficile che tutti gli enti territoriali siano in grado di portare avanti i progetti

personalizzati di reinserimento sociale oltre che lavorativo previsti dal legislatore. Un recente studio ha

messo in rilievo alcune delle difficoltà che potrebbe comportare l’applicazione del ReI65. Si stima che in

cinque Regioni – Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Basilicata – dovrebbe concentrarsi circa il 50%

della platea dei beneficiari. Si tratta delle Regioni che incontrano le maggiori difficoltà nella gestione

associata dei servizi sociali da parte dei Comuni, che hanno una percentuale più bassa di assistenti

sociali sul territorio, un numero maggiore di Comuni in default e una minore competenza nell’utilizzo

delle tecnologie dell’informazione che sono essenziali per dare attuazione alle misure previste. Se a

questi dati si aggiungono le difficoltà complessive nel funzionamento dei Centri per l’impiego che

andrebbero potenziati su tutto il territorio e un ancora scarso livello di collaborazione di questi ultimi

con gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS)66 si comprende facilmente come l’implementazione del ReI

richieda tempo, impegno e investimenti affinché sia in grado di realizzare le sue potenzialità.

Più in generale, poi, la sfida ambiziosa del ReI nel suo porsi come strumento per il reinserimento

lavorativo si scontra oggettivamente con le gravi difficoltà epocali del mondo del lavoro che, per le sue

evoluzioni dovute a molteplici fattori – economia digitale, delocalizzazione, sviluppo dei robot – rende

ancora più difficile e forse irrealizzabile l’obiettivo della piena occupazione. Non è un caso che nel

dibattito scientifico e politico sulle forme di sostegno al reddito vi siano correnti di pensiero che

sottolineano l’esigenza di tipologie di reddito minimo svincolate dal tema del lavoro67, poiché il lavoro

65 Cfr. Alleanza contro la povertà, Rapporto di valutazione: dal SIA al REI. Ricerca valutativa sulla prima fase di implementazione del programma di contrasto della povertà – sostegno per l’inclusione attiva, 8 novembre 2017. 66 Come noto, in base a quanto previsto dalla legge 328/2000, la legge quadro “per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” l’Ambito Territoriale Sociale è una aggregazione intercomunale che ha il compito di pianificare e programmare i servizi sociali dei Comuni. Evidenziando il ruolo dei Comuni nell’ambito dei servizi sociali, la legge ha previsto il metodo della pianificazione e programmazione in forma associata e in relazione con altri soggetti del territorio, sia pubblici che privati. 67 A tale riguardo M. VINCIERI, Verso la tutela della povertà: l’ipotesi del reddito di inclusione, cit., pp. 320-321, facendo riferimento a parte della dottrina francese che si sta orientando nel senso di introdurre un sistema universale di

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non è più “disponibile” né si sa dove “ritrovarlo” e si pensa che in futuro il quadro tenderà a

peggiorare. Con questa impostazione, però, si smarrisce la funzione primaria del lavoro come

strumento di integrazione sociale ed emancipazione individuale che è così forte nella Costituzione e nel

principio lavorista. Ed è con questa caratteristica di fondo della Costituzione che è necessario ancora

oggi confrontarsi e che rende di stringente attualità il pensiero di Costantino Mortati nel suo

Commento all’art. 1 nel Commentario alla Costituzione: il lavoro va considerato non soltanto come

mezzo di sostentamento ma anche come strumento di emancipazione necessario all’esplicarsi della

personalità, lavoro che in quanto tale non può essere «in nessun modo surrogabile» da altre forme di

sostegno al reddito che «pur se provvedono al diritto alla vita lasciano insoddisfatta quell’esigenza»68.

Sembra dunque necessario affrontare in questi termini la questione, sia che si scelga di inquadrare il

sostegno al reddito come misura riconducibile a un diritto fondamentale collegato alla garanzia di un

“minimo vitale” per alleviare situazioni di bisogno e tendenzialmente svincolato dall’elemento della

condizionalità69, sia che lo si consideri principalmente come una nuova misura di welfare legata a una

logica di condizionalità.

tutela svincolato dalla logica della condizionalità, ritiene che lo scenario europeo si stia progressivamente spostando sul fronte della sperimentazione del reddito di base incondizionato. A livello di iniziative concrete in tale direzione, recentemente, a partire dal 2017, la Finlandia ha sperimentato una forma di reddito minimo non condizionato su un campione di 2000 disoccupati (cfr. A. TARQUINI, Finlandia, gli effetti di 560 euro di reddito garantito: meno ansia e più voglia di trovare lavoro, in Repubblica.it, 17 febbraio 2018). Si tratta comunque, allo stato attuale, di un esperimento piuttosto unico che è stato portato avanti in un Paese di piccole dimensioni e su un numero ridotto di beneficiari, ragioni per cui sembra difficile potersi pronunciare sui suoi effetti. 68 Cfr. C. MORTATI, Commento all’art. 1, in G. BRANCA (a cura di). Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1975, p. 16. 69 Sulla garanzia di un minimo vitale come diritto fondamentale si rinvia a M. RUOTOLO, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, cit., p. 404 secondo cui dai principi di dignità umana e dello Stato sociale si ricava che la garanzia di un minimo vitale costituisce un diritto fondamentale rivolto ad assicurare le condizioni materiali indispensabili all’esistenza e a un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. Va peraltro ricordato che la Corte costituzionale con la già richiamata sent. n. 10/2010 ha fatto riferimento, ricavandolo dai «principi fondamentali degli artt. 2 e 3, co. 2, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, co. 2, lett. m, Cost.» a un «diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in particolare alimentare». In riferimento alla questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di politiche sociali, in questa sentenza la Corte ha ritenuto ammissibile l’intervento statale in quanto «necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale» che, ha sottolineato la Corte, soprattutto in presenza di una congiuntura economica eccezionalmente negativa, deve potere essere garantito uniformemente su tutto il territorio nazionale in maniera appropriata e tempestiva. Sulla prospettiva di un diritto a un reddito di base tendenzialmente svincolato dall’elemento della condizionalità v., inoltre, L. FERRAJOLI, Manifesto per l’uguaglianza, Bari-Roma, 2018, p. 176 ss.; G. BRONZINI, Il diritto a un reddito di base, cit. Sulla questione dell’ammissibilità dell’imposizione di un obbligo (condizionalità) in relazione alla previsione di una prestazione riguardante un diritto alla luce dei doveri derivanti dal principio solidarista v. E. ROSSI, Prestazioni sociali con “corrispettivo”? Considerazioni giuridico-costituzionalistiche sulla proposta di collegare l’erogazione di prestazioni sociali allo svolgimento di attività di utilità sociale, cit. pp. 15-16 e, in riferimento al sostegno al reddito, A. BONOMI, Brevi osservazioni sugli aspetti più problematici del delicato bilanciamento fra universalismo selettivo, diritti fondamentali e vincoli di bilancio: alla ricerca dell’universalismo selettivo temperato, in Federalismi.it, n. 7/2018, pp. 35 ss.

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Con queste difficoltà “strutturali” derivanti da alcuni nodi irrisolti in Italia ma anche da questioni

epocali per il mondo occidentale nel suo insieme, il ReI previsto dal legislatore si è messo in cammino

in questi mesi. Secondo le stime dell’ISTAT in Italia vivono sotto la soglia di povertà 5 milioni di

persone, circa l’8 per cento della popolazione, e 1 milione e 800mila famiglie. Si tratta di dati

evidentemente preoccupanti che testimoniano il sensibile aumento delle diseguaglianze negli ultimi

anni. Il ReI introdotto dal legislatore nel 2017 era indirizzato a cinquecentomila famiglie e, dopo

l’estensione prevista dalla legge di bilancio del 2018, è ora in grado di raggiungere settecentomila

famiglie, all’incirca 2,5 milioni di persone. Il primo elemento da tenere in considerazione è dunque che,

allo stato attuale, il ReI non raggiunge tutte le famiglie sotto la soglia di povertà, bensì meno della metà.

Evidentemente, le misure fino ad oggi destinate al sostegno al reddito sono ancora ampiamente

insufficienti per attenuare le condizioni di bisogno di un numero così rilevante di persone.

Il trasferimento medio mensile del ReI è di 297 euro per famiglia e risulta variabile a livello territoriale

dal momento che, complessivamente, le Regioni del Sud hanno un valore medio del beneficio più alto

di quelle del Nord e del Centro70. Recenti stime hanno evidenziato che il beneficio economico

attualmente erogato dal ReI copre all’incirca la metà del fabbisogno per i consumi di beni di prima

necessità di una famiglia che si trovi al di sotto della soglia di povertà71. Anche sul piano dell’entità del

beneficio, dunque, sarebbe opportuno aumentare i valori medi per disporre di una misura che sia

effettivamente in grado di contrastare le situazioni di povertà. In considerazione di quel che si è già

evidenziato, però, bisognerebbe anche porre attenzione a non rendere più conveniente beneficiare del

sostegno piuttosto che ricercare un lavoro.

Il ReI è sostenuto dal fondo contro la povertà il cui stanziamento è stato rafforzato con la legge di

bilancio del 2018. Sono previsti 2 miliardi di euro per il 2018, 2,5 miliardi per il 2019, e 2,7 miliardi dal

2020: l’obiettivo è quindi quello dell’espansione di questa misura per raggiungere più beneficiari

investendo maggiori risorse pubbliche. Il legislatore ha previsto di destinare il 15% dei fondi messi a

disposizione (dunque, all’incirca 250 milioni di euro all’anno) per realizzare gli ambiziosi percorsi di

inclusione sociale e lavorativa previsti dal ReI. Data l’importanza di queste misure per l’attuazione degli

importanti obiettivi perseguiti dal legislatore che necessitano un ingente investimento di risorse, tanto

sul piano applicativo, quanto su quello altrettanto decisivo dei controlli, recenti studi hanno dimostrato

che la cifra attualmente stanziata è troppo bassa e dovrebbe essere innalzata quantomeno al 20% della

70 Si rinvia all’Osservatorio Statistico sul Reddito di inclusione, Documento pubblicato dall’INPS e riferito al trimestre gennaio-marzo 2018. Il documento è disponibile sul sito web dell’INPS. L’importo medio mensile varia da 225 euro per i beneficiari della Valle d'Aosta a 328 euro per la Campania. Complessivamente le regioni del Sud hanno un valore medio del beneficio più alto di quelle del Nord (+20%) e del Centro (+14%). L’importo medio varia sensibilmente, per costruzione della misura, per numero dei componenti il nucleo familiare, passando da 177 euro per i nuclei monocomponenti a 429 euro per i nuclei con 6 o più componenti. 71 Cfr. F. PERALI, Reddito di inclusione: cosa serve perché funzioni, in lavoce.info, 05.01.2018.

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misura annuale contro la povertà72. L’obiezione è pienamente condivisibile dal momento che le azioni

connesse al ReI sono oggettivamente molto estese e ambiziose e quindi la loro realizzazione, unita alla

necessità di controllarne l’implementazione, richiede inevitabilmente risorse e investimenti piuttosto

significativi. Complessivamente, sarebbe dunque necessario un investimento ben più consistente di

risorse pubbliche rispetto a quelle attualmente destinate al ReI per completare questa misura

estendendola alle famiglie bisognose e per renderne più efficace l’applicazione73.

In questo contesto, nel primo trimestre del 2018, in attesa dell’ampliamento dei destinatari previsto a

partire dal 1° luglio, sono stati erogati benefici economici a 110 mila nuclei familiari raggiungendo 317

mila persone e, com’era prevedibile, la maggior parte di essi riguarda le Regioni del Sud74.

A pochi mesi dalla nascita del ReI, dunque, appare evidente l’esigenza di un aumento delle risorse da

destinare a questa misura di contrasto all’esclusione sociale. Nel caso in cui non sia possibile stanziare

nell’immediato tutti i fondi necessari, si potrebbe procedere secondo un ordine di priorità di questo

tipo: raggiungere un numero più alto di famiglie estendendo progressivamente il beneficio alla totalità

dei nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà; rafforzare il sostegno per realizzare gli ambiziosi

percorsi di inclusione sociale e reinserimento lavorativo previsti dal ReI – anche attraverso il

potenziamento dei centri per l’impiego – nonchè le attività di controllo e di verifica sui beneficiari e

sulla corretta applicazione della misura; accrescere “ragionevolmente” l’entità del beneficio da erogare.

Negli ultimi mesi, contestualmente all’avvio dell’implementazione del ReI introdotto dai governi di

centro-sinistra a guida PD e dalla maggioranza parlamentare della XVII Legislatura, la campagna

elettorale, prima, e le vicende successive alle elezioni del 4 marzo 2018, poi, hanno riproposto con forza

il tema del reddito minimo. In particolare Forza Italia e MoVimento 5 Stelle hanno avanzato proposte

relative all’introduzione di forme di sostegno al reddito diverse dal ReI. Alcune ricerche hanno

analizzato principalmente sul piano quantitativo le misure proposte in campagna elettorale dalle due

forze politiche. In base alle stime effettuate, il “reddito di dignità” nella versione di Forza Italia e il

reddito di cittadinanza del M5S costerebbero circa 30 miliardi di euro all’anno75. In entrambi i casi si

72 M. BALDINI, C. GORIM, Reddito d’inclusione: non deve essere una riforma incompiuta, in lavoce.info, 8.9.2017. 73 Secondo le stime fornite da M. BALDINI, C. GORIM, Reddito d’inclusione: non deve essere una riforma incompiuta, cit. servirebbero, a regime, almeno 7 miliardi di euro l’anno. 74 In particolare, il 72% dei benefici (con un interessamento del 76% delle persone coinvolte) ha riguardato le Regioni del Sud. Campania, Calabria e Sicilia sono le Regioni con il maggiore numero di nuclei beneficiari (insieme rappresentano il 60% del totale dei nuclei familiari e il 64% del totale delle persone coinvolte). Si rinvia nuovamente all’Osservatorio Statistico sul Reddito di inclusione pubblicato dall’INPS. 75 Si vedano le cifre fornite da M. BALDINI, F. DAVERI, Garantire la dignità costa, in lavoce.info, 9 gennaio 2018 che stimano il costo in 29 miliardi di euro. Secondo le stime del Presidente dell’INPS Tito Boeri, il reddito di cittadinanza proposto dal M5S avrebbe un costo anche superiore, toccando una cifra compresa tra i 35 e i 38 miliardi di euro (cfr. A. GAGLIARDI, INPS, reddito di cittadinanza M5S costerebbe fino a 38 miliardi, in ilSole24 ore, 28 marzo 2018. Non concorda con queste stime il M5S che ritiene invece che la cifra complessiva si aggirerebbe intorno ai 15 miliardi di euro.

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allargherebbe di molto la platea dei beneficiari e l’importo assegnato. In base alla proposta di Forza

Italia, sarebbero destinatarie del beneficio 2 milioni di famiglie cui andrebbe un trasferimento medio

mensile di 1200 euro. Il reddito di cittadinanza proposto dal M5S sarebbe invece rivolto ad una platea

ancora più ampia di 4.9 milioni di famiglie vale a dire il 19% dei nuclei familiari, ben al di là del numero

di famiglie che, come si è visto, in base alle stime dell’ISTAT vivono sotto la soglia di povertà (1

milione e 800mila famiglie, circa il 6% del totale dei nuclei familiari).

Data l’importanza che la proposta del “reddito di cittadinanza” ha avuto in questi anni per il M5S,

divenuto nel frattempo forza di governo, appare necessario un breve approfondimento del suo

contenuto anche confrontando questa misura con il ReI.

Al di là dell’erroneo richiamo al reddito di cittadinanza76, si tratta di una forma di reddito minimo che

possiede alcune peculiarità, a partire dalla già segnalata ampia estensione delle famiglie destinatarie che

va ben al di là della soglia di povertà individuata dall’ISTAT. Il M5S ha presentato nella passata

legislatura un disegno di legge relativo all’introduzione di questa tipologia di sostegno al reddito il cui

impianto generale è stato sostanzialmente confermato, di recente, nel “Contratto di governo” stipulato

insieme alla Lega in vista della formazione di un Governo sostenuto in Parlamento dalle due forze

politiche, con l’aggiunta del riferimento a una “pensione di cittadinanza”77. La proposta prevede un

sostegno al reddito indirizzato ai soli cittadini italiani maggiorenni, con l’esclusione dei cittadini stranieri

regolarmente soggiornanti78, che varia in funzione della composizione del nucleo familiare e del reddito

già percepito e che può raggiungere la cifra di 780 euro mensili nel caso di una singola persona79.

Comparare i benefici massimi mensili previsti dal ReI con quelli contenuti nella proposta del M5S rende

già chiara la differenza di approccio dei due interventi: il ReI prevede per la persona singola un

massimo di188 euro a fronte dei 780 euro previsti dal M5S; a un nucleo di quattro persone sono

76 Si rimanda, sul punto, alle distinzioni tra reddito minimo e reddito di cittadinanza richiamate nel secondo paragrafo. 77 Si fa riferimento, in primis, al d.d.l. n. 1148 presentato al Senato della Repubblica dal M5S il 29 ottobre 2013 e relativo a “Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario”. Per quanto riguarda invece il “Contratto per il governo del cambiamento” presentato insieme alla Lega nel maggio 2018, in esso è presente un’apposita sezione denominata “Reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza”. In riferimento alla “pensione di cittadinanza” ci si limita ad inquadrarla come “una proposta di un’integrazione per un pensionato che ha un assegno inferiore ai 780,00 euro mensili, secondo i medesimi parametri previsti per il reddito di cittadinanza”. 78 A meno che non siano provenienti da Paesi che hanno sottoscritto accordi di reciprocità sulla previdenza sociale, secondo quanto previsto dal d.d.l. presentato dal M5S nella passata legislatura. 79 Agli artt. 2 e 3 il disegno di legge del M5S prevedeva che il reddito di cittadinanza fosse stabilito in ordine alla composizione del nucleo familiare ed all’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione europea (at risk of poverty), di valore pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare (reddito entro il quale rientra la metà delle famiglie italiane), quantificato per la persona singola nell’anno 2014 in euro 9.360 annui e euro 780 mensili. La misura era quindi riferita al valore mediano del reddito che in Italia era stato fissato nel 2013 da Eurostat a euro 15.514.

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destinati, nel primo caso, fino a 461 euro, nel secondo 1638 euro80. Come si è già segnalato, i benefici

attualmente erogati dal ReI andrebbero rivisti al rialzo per attenuare maggiormente le condizioni di

povertà. Il quantum ipotizzato dalla proposta del M5S suscita però alcune perplessità in relazione al

rischio che una tale misura possa disincentivare la ricerca di lavoro.

Ai beneficiari del “reddito di cittadinanza” verrebbe richiesto di iscriversi ai centri per l’impiego e di

dare la disponibilità a partecipare a percorsi di formazione e a progetti di utilità sociale gestiti dai

Comuni. Il sostegno al reddito cesserebbe di essere erogato nel caso in cui il beneficiario sostenesse

“più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere esito negativo”81 o rifiutasse più di tre

proposte di lavoro ritenute congrue e ottenute tramite i centri per l’impiego. Oltre ad una certa

indeterminatezza in ordine alla verificabilità della prima causa di decadenza del beneficio, emerge in

ogni caso anche sotto questo profilo la distanza che separa questa proposta dal ReI. Quest’ultimo,

infatti, cessa di essere erogato secondo criteri indubbiamente più rigidi che ne accentuano il profilo di

misura strettamente legata alla logica della condizionalità: in caso di mancata partecipazione ai progetti

personalizzati derivanti dalla “valutazione multidimensionale”, alle iniziative di carattere formativo o, si

noti bene, come si è già visto, nel caso di mancata accettazione anche di una sola offerta di lavoro

“congrua”82. Il diverso livello di collegamento alla logica della condizionalità è peraltro anche

desumibile dalla durata prevista del beneficio: nel caso del ReI, essendo il sostegno chiaramente

collegato all’obiettivo primario di una (ri)attivazione lavorativa in tempi brevi, la misura ha carattere

temporaneo83; nella proposta del M5S, invece, l’intervento ha carattere strutturale ed è garantito senza

limiti temporali ai beneficiari il cui reddito sia inferiore ai livelli individuati nella proposta di legge84.

Anche sotto questo profilo, dunque, la proposta del M5S sembra assumere più il carattere di una misura

di sostegno al reddito di tipo strutturale che non un intervento strettamente legato all’obiettivo di un

reinserimento lavorativo nel breve periodo.

80 Per una visione delle tabelle relative alle cifre del reddito di cittadinanza in relazione ai benefici erogabili si veda F. BINI, Reddito di cittadinanza, che cos’è e come funziona, in Repubblica.it, 7 marzo 2018. 81 Secondo la formulazione contenuta nell’art. 12 del d.d.l. n. 1148 del 2013 presentato dal M5S. 82 Secondo quanto previsto dall’art. 12 del D. Lgs. n. 147 del 2017. Nel caso di mancata partecipazione ai progetti personalizzati derivanti dalla “valutazione multidimensionale” effettuata sul nucleo familiare o alle iniziative di carattere formativo, la sanzione prevista dall’art. 12 è crescente nel senso che prevede, nel primo caso, una decurtazione della mensilità alla prima e alla seconda mancata partecipazione e la decadenza della prestazione in caso di ulteriore assenza, nel secondo caso la decurtazione alla prima assenza e la decadenza della prestazione già alla seconda assenza. 83 Come si è visto in precedenza, l’art. 4, quinto comma del D. Lgs. n. 147 del 2017 prevede che Il beneficio economico del ReI è riconosciuto per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi e, superati tali limiti, non può essere rinnovato se non trascorsi almeno sei mesi da quando ne è cessato il godimento. In caso di rinnovo, la durata è fissata, in sede di prima applicazione, per un periodo non superiore a dodici mesi. 84 Come previsto dall’art. 8 del d.d.l. n. 1148 del 2013.

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Al di là della questione della sostenibilità finanziaria, su cui è lecito nutrire diversi dubbi, delle misure

presentate in campagna elettorale da M5S e Forza Italia, si tratta di proposte di reddito minimo che

suscitano alcune perplessità poiché potrebbero scoraggiare la ricerca di un lavoro. Inoltre, le stime di

spesa sarebbero teoricamente destinate a crescere se si verificasse un effetto a catena derivante

dall’aumento delle persone che potrebbero ritenere non più “conveniente” lavorare potendo invece

ricevere sussidi generosi. Il principale elemento di perplessità sul piano costituzionale deriva dal fatto

che nelle proposte del M5S l’elemento della condizionalità non sembra adeguatamente stringente e

appare, invece, piuttosto attenuato. In altri termini, non è chiaro quanto queste tipologie di reddito

minimo siano effettivamente finalizzate al reinserimento sociale e lavorativo o non si configurino,

piuttosto, come misure di sostegno al reddito di fatto slegate dalla logica della condizionalità, con tutte

le criticità che da ciò derivano rispetto al quadro costituzionale e ad alcune problematiche strutturali del

nostro Paese richiamate in precedenza85.

Allo stato attuale, l’unica, relativa, certezza è che nell’ordinamento italiano è stata introdotta una forma

di sostegno al reddito – il ReI – riconducibile all’universalismo selettivo. Si tratta di un intervento

strutturale nelle intenzioni, com’è testimoniato dalla messa a regime di un’azione pluriennale. Il

legislatore ha dunque tracciato una strada indicando un percorso. L’elemento di rilievo primario del ReI

sembra essere non tanto il beneficio in denaro – invero limitato – quanto, piuttosto, il percorso di

inclusione sociale e reinserimento lavorativo del nucleo familiare. Elemento decisivo, quest’ultimo, che

lo fa preferire, alla luce della sua conformità con i principi fondanti della Costituzione, alle altre

proposte attualmente in campo nel dibattito politico italiano. Non è chiaro, al momento, se il Governo

Conte e l’attuale coalizione “giallo-verde” (M5S-Lega) che lo sostiene in Parlamento, al di là delle

dichiarazioni, intendano effettivamente indirizzarsi verso sostanziali modifiche all’impianto del ReI. Alla

luce delle considerazioni svolte, la strada migliore da percorrere sembrerebbe piuttosto quella di

aumentare le risorse da destinare al sostegno al reddito senza però snaturare le caratteristiche portanti

della misura di reddito minimo introdotta dal legislatore nel 2017.

85 Non va dimenticato, infatti, che gli interventi di sostegno al reddito si concentrano in misura maggiore nel Mezzogiorno che è da sempre l’area più problematica del nostro mercato occupazionale per numerose ragioni che hanno le loro radici nella storia economica, sociale e culturale delle Regioni del Sud. Si pone quindi nuovamente il tema della necessità primaria, in particolare per questa area del Paese, del lavoro e del rilancio dell’occupazione. Come evidenzia M. FERRERA, Stimoli, non sussidi per chi cerca lavoro, in Correire.it, 28 giugno 2018, «La sfida non è certo quella di «inserire» le persone, ma quella di creare nuovi posti di lavoro. I confronti internazionali segnalano che l’economia del Mezzogiorno è incapace di assorbire personale in aree chiave dei servizi: turistici, ricreativi, culturali, sociali, sanitari, educativi. Fatte le debite proporzioni, mancano centinaia di migliaia di posti. Prima di sussidiare chi cerca lavoro, bisogna stimolarne la domanda. Ciò richiede investimenti infrastrutturali e sociali, incentivi fiscali, una sostanziosa riduzione del costo del lavoro. Secondo alcune stime, circa il 70% dei venti miliardi del reddito di cittadinanza andrebbero al Sud. È probabile che si crei così un circolo vizioso: più spesa pubblica assistenziale, meno disponibilità di bilancio per investimenti e incentivi, persistenza o aggravamento del sottosviluppo, più spesa assistenziale».

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Si tratta, del resto, di un percorso che ha appena avuto inizio nel nostro Paese e che appare tutt’altro

che scontato negli esiti. Sullo sfondo, peraltro, rimane concreto il pericolo dell’irrealizzabilità di efficaci

e strutturali misure di sostegno al reddito in ragione delle scarse risorse a disposizione e dell’enorme

debito pubblico italiano.

8. Da Bruxelles a Roma: andata e ritorno?

Anche alla luce delle oggettive difficoltà cui si è appena fatto cenno, se il nostro Paese intende adottare

misure adeguate e strutturali di sostegno al reddito per le famiglie in difficoltà sembra necessario

“tornare a Bruxelles”. Il tema degli interventi di contrasto all’esclusione sociale e alla disoccupazione

dovrebbe infatti necessariamente essere affrontato in maniera congiunta tra ordinamenti nazionali e

governo dell’eurozona, anche in ragione delle gravi difficoltà che sta attraversando da tempo il processo

di integrazione europea.

La prolungata assenza dell’Unione europea rispetto al tema delle politiche sociali che hanno un impatto

facilmente percepibile dal cittadino nella vita quotidiana, è certamente una delle principali cause dello

scarso sentimento di appartenenza europea registrato negli ultimi anni86. È questo uno dei nodi di

fondo della crisi che sta attraversando il progetto di integrazione europea, in particolare in questi anni di

grave crisi economica. Se, nei decenni passati e, sostanzialmente, sino agli anni ’90, l’Unione europea

era vista dai cittadini europei come una fonte di ulteriori opportunità e garanzie rispetto alla tradizionale

dimensione statale, con la crisi economica il quadro è radicalmente cambiato. Il nascente governo

comune dell’eurozona si è affermato all’insegna dell’introduzione di rigide regole di bilancio, peraltro

scarsamente legittimate da un punto di vista democratico87, che hanno imposto politiche nazionali di

rigore che a loro volta hanno impattato negativamente sui sistemi di welfare e protezione sociale

nazionale. Ciò ha ovviamente contribuito ad accentuare il distacco, se non l’ostilità, dei cittadini europei

nei confronti dell’Unione ritenuta la principale responsabile di scelte che hanno reso più difficile la vita

delle persone a causa della mancata crescita, degli alti tassi di disoccupazione e della contrazione delle

spese per le protezioni sociali che hanno ampliato le diseguaglianze. L’Unione è stata considerata, in

ultima istanza, come la principale responsabile della riduzione del livello di tutela dei diritti sociali e dei

86 Si veda, sul punto, H. VOLLAARD, H. VAN DE BOVENKAMP, D. SINDBJERG MARTINSEN, The Making of a European Healthcare Union: A Federalist Perspective, in Journal of European Public Policy, vol. 23, n. 2/2016. 87 Sul noto problema del deficit democratico dell’Unione e sul ricorso al metodo c.d. intergovernativo si vedano P. BILANCIA, La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti nazionali, in Federalismi.it, n. 23/2012.; P. BILANCIA, Il governo dell’economia tra Stati e processi di integrazione europea, in Rivista AIC, n. 3/2014. Sulla crisi economica ed il suo impatto negli ordinamenti nazionali che ha generato una crisi costituzionale e messo in discussione il significato della democrazia pluralista si veda F. BALAGUER CALLEJÓN, Crisi economica e crisi costituzionale in Europa, in KoreEuropa, 2014.

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servizi sociali che hanno contraddistinto, sino ad oggi, le forme di Stato sociale dei principali Paesi

europei.

Per queste ragioni appare necessario, se si vuole salvare il progetto comune europeo, introdurre in

tempi brevi, nell’ambito del rafforzamento e del completamento dell’Unione economica e monetaria

(UEM), interventi orientati ad affrontare l’attuale emergenza sociale e garantire il futuro del modello

sociale europeo avviando investimenti comuni nei sistemi di welfare e nei servizi essenziali. È dunque

necessario cambiare la prospettiva in base alla quale l’UEM è considerata, oggi, la fonte dei tagli al

welfare e, invece, assegnarle dei compiti in questa materia consentendole di intervenire con misure

significative di contrasto alle disuguaglianze e di sostegno al welfare basate anche sulla solidarietà tra i

territori dell’Unione88.

Sebbene alcuni Stati membri tra cui l’Italia abbiano presentato, negli ultimi anni, alcune proposte

evolutive finalizzate a rafforzare il bilancio dell’UEM anche per utilizzare risorse da destinare al welfare e

ai diritti sociali89, la risposta dell’Unione è stata, sino ad oggi, insoddisfacente. Oltre al Fondo Sociale

Europeo, “tradizionale” strumento utilizzato dall’Unione per sostenere l’occupazione attraverso il

finanziamento di progetti locali, regionali e nazionali, un ulteriore intervento ha riguardato l’iniziativa

per l’occupazione giovanile mediante il sostegno finanziario all’attuazione dei progetti della “garanzia

per i giovani” nelle regioni in cui è più alto il tasso di disoccupazione giovanile (sopra il 25%). Avviata a

partire dal 2013, si tratta di un’iniziativa senz’altro positiva la cui dotazione complessiva, però, non è in

88 Per un approfondimento di questi aspetti sia consentito il rinvio a F. SCUTO, Il governo dell'economia nello stato regionale italiano tra riforme costituzionali e crisi economica: l'indissolubile legame con i principi di solidarietà, eguaglianza e tutela dei diritti sociali : possibili "spunti" per una costruzione federale europea, in F. BALAGUER CALLEJÒN; M. AZPITARTE SANCHEZ; E. GUILLEN LOPEZ; J.F. SANCHEZ BARILLAO (a cura di), The reform of the European Union economic governance and the progress of political integration - La reforma de la gobernanza económica de la Union Europea y el progreso de la integración política, Thomson Reuters Aranzadi, 2017, pp. 300 ss. Sottolinea la necessità di progredire verso un’”Unione sociale europea” come condizione necessaria per un’Unione politica M. FERRERA, Rotta di collisione. Euro contro Welfare?, Bari, 2016, pp. 103 ss. L’A. mette in evidenza la necessità di sviluppare una solidarietà pan-europea in termini di reciprocità superando l’attuale politica sociale UE di tipo allocativo che è sotto finanziata, limitata e poco visibile. L’attuale sistema, infatti, limitandosi alla libertà di circolazione e di accesso ai sistemi nazionali di welfare, non ha prodotto una sicurezza sociale pan-europea (p. 143). 89 Sotto questo profilo, sembrava andare nella giusta direzione il documento elaborato dal Governo italiano nel maggio 2015 e contenente alcune proposte per il rafforzamento dell’UEM (Governo italiano, Un’Unione Economica e Monetaria da completare e rafforzare. Contributo italiano, maggio 2015). Nel documento si proponeva, innanzitutto, l’individuazione di diritti sociali come “diritti di cittadinanza europea”, con l’obiettivo di rafforzare l’identità europea e dare alle giovani generazioni buone regioni per intendere l’Unione come fonte di opportunità e non di minaccia per i sistemi di protezione sociale, come è di frequente percepita. Tra gli strumenti per procedere in questa direzione si proponeva l’introduzione di un meccanismo comune di assicurazione contro la disoccupazione come strumento per smussare le contrazioni del ciclo economico, strumento da finanziare tramite un Fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione ricavabile da una parte delle risorse attualmente utilizzate per le azioni condotte a livello nazionale. Significativa, in tal senso, anche la proposta del documento in ordine all’adozione di misure comuni contro la povertà estrema e la marginalità sociale destinando risorse dal bilancio UEM da gestire, poi, a livello nazionale secondo linee guida comuni.

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grado di affrontare con forza il problema della disoccupazione giovanile che infatti è rimasta elevata in

diversi Stati membri90. Anche il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD) – intervento finalizzato a

coadiuvare gli Stati membri nel sostegno a compiere i primi passi per uscire dalla povertà fornendo agli

indigenti assistenza materiale (generi alimentari, abiti, ecc.) – è certamente utile ma non può essere

considerato un intervento strutturale e di rilievo primario nel contrasto alla povertà, all’esclusione

sociale e alla disoccupazione, anche in considerazione delle scarse risorse di cui è dotato91. Un discorso

simile vale pure per il Programma dell’UE per l’occupazione e l’innovazione sociale (EaSI), tanto

ambizioso negli intenti (promuovere un elevato livello di occupazione sostenibile e di qualità, garantire

una protezione sociale adeguata, combattere l'emarginazione e la povertà e migliorare le condizioni di

lavoro), quanto scarsamente dotato nelle risorse (circa 920 milioni di euro per il periodo 2014-2020). Si

tratta dunque di iniziative certamente utili ma, nel complesso, ampiamente insufficienti per realizzare gli

interventi che sarebbero necessari.

Dato il difficile contesto attuale, l’Unione dovrebbe invece procedere speditamente nella direzione di

un intervento strutturale e significativo in questo campo, superando le resistenze e gli egoismi nazionali

e dando vita ad un nuovo e cospicuo fondo europeo contro la povertà e a sostegno dell’occupazione.

Anche alla luce di queste brevi considerazioni sulle carenze dell’Unione sul piano sociale, il principale

difetto del Pilastro europeo dei diritti sociali sembra risiedere non tanto nella sua incapacità di estendere

il livello di tutela dei diritti o di adottare atti vincolanti in questo ambito, né nell’idea che esso finisca per

assecondare una sorta di «neoliberismo progressista»92, quanto, piuttosto, nella sua incapacità

quantomeno di prefigurare un salto di qualità decisivo mediante l’individuazione di un nuovo fondo

europeo dotato di risorse significative per intervenire nel contrasto alla povertà e alla disoccupazione.

Alcuni segnali sono giunti di recente dalla Commissione Europea che, in vista del prossimo bilancio

dell’UE, ha proposto di migliorare e rafforzare il Fondo sociale europeo per il periodo 2021-2027. Nelle

90 La dotazione complessiva dell'iniziativa per l'occupazione giovanile (per tutti gli Stati membri dell'UE ammissibili) è pari a 8,8 miliardi di euro per il periodo 2014-2020. A conferma dell’insufficienza dei fondi destinati il livello di disoccupazione giovanile è rimasto molto elevato e per questa ragione nel giugno 2017 il Consiglio e il Parlamento hanno convenuto un aumento di 2,4 miliardi di euro per il periodo 2017-2020 a favore degli Stati membri ammissibili, cifra che appare, evidentemente, ancora insufficiente. 91 Per il periodo 2014-2020 sono stati stanziati per il FEAD circa 3,8 miliardi di euro. 92 Secondo quanto sostiene S. GIUBBONI, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, cit., p. 961 che utilizzando questa espressione in relazione al Pilastro europeo fa riferimento a N. FRASER, Il neoliberismo progressista contro il populismo reazionario: una scelta di Hobson, in H. GEISELBERG (a cura di), La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Milano, 2017, pp. 61 ss. Facendo risalire questo “neoliberismo progressista” all’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti nel 1992, l’A. ne individua la caratteristica principale nello sviluppo di politiche che identificano il progresso con la meritocrazia (al posto dell’eguaglianza) e con l’ascesa di donne e minoranze in un sistema gerarchico basato sul modello del vincitore; un sistema che, a giudizio del’A., ha rafforzato un nuovo modello di capitalismo che ha eliminato i poteri regolatori degli Stati consentendo alla finanza mondiale di subordinare governi e popoli agli interessi degli investitori privati.

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intenzioni della Commissione, il nuovo “Fondo sociale europeo Plus (FSE+), al quale si dovrebbe

aggiungere un (modesto nelle cifre) Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG)

indirizzato ai lavoratori che hanno perso il lavoro, dovrebbe riunire in sé i fondi già esistenti richiamati

in precedenza ed essere indirizzato in particolare al contrasto della disoccupazione giovanile e

all’inclusione sociale destinando specifiche risorse ed impegnando gli Stati ad utilizzarle con queste

finalità93. Si tratta, però, soltanto di timidi segnali e di proposte che non affrontano con coraggio le

questioni sul tavolo e non colgono l’urgenza di interventi che andrebbero invece adottati

nell’immediato. Ci si limita, infatti, a rimandare al futuro bilancio e, quindi, al 2021.

Nel contesto di una prolungata incapacità dell’Unione di procedere con più decisione nell’ambito del

welfare e verso l’Europa sociale, molti Stati membri e, tra questi, certamente l’Italia in ragione del suo

debito pubblico, non sembrano in grado di far fronte da soli alle enormi sfide che derivano

dall’aumento delle diseguaglianze, dal profondo cambiamento dei mercati del lavoro e dall’emergere

della questione della povertà e dell’esclusione sociale. I tempi sono quindi certamente maturi per

introdurre nel breve periodo interventi di solidarietà sociale e territoriale mediante azioni comuni

dell’UEM che siano indirizzate con decisione e con risorse adeguate al sostegno all’occupazione e al

contrasto alla povertà mediante l’istituzione di un adeguato fondo comune. Non bisogna dimenticare

che attualmente la quasi totalità dei finanziamenti nei settori di intervento individuati dal Pilastro

europeo dei diritti sociali proviene dagli Stati membri. Sarebbe dunque necessario che l’Unione si

concentrasse in questa direzione, magari estendendo anche i meccanismi di flessibilità a favore degli

investimenti pubblici nazionali per sostenere l’occupazione, senza limitarsi a richiedere agli Stati sacrifici

dettati da esigenze di bilancio e contenimento della spesa pubblica. Si tratta di un percorso che appare

obbligato se si vuole recuperare il consenso (significativamente eroso da dieci anni di crisi economica

mal governata dall’Unione) delle opinioni pubbliche nazionali e dei cittadini europei riguardo al

processo di integrazione euro-unitaria.

93 Cfr. Commissione europea, Comunicato stampa del 30 maggio 2018, “Bilancio dell’UE: un nuovo Fondo sociale, un nuovo fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione e un nuovo Fondo Giustizia, diritti e valori”. Per il periodo 2021-2027 il valore del Fondo sociale europeo Plus ammonterà a 101,2 miliardi di euro, mentre quello del Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione a 1,6 miliardi di euro. In base alle intenzioni della Commissione, gli Stati membri che presentano un tasso elevato di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione dovranno destinare almeno il 10% dei finanziamenti dell'FSE+ al sostegno dell'occupazione giovanile. Inoltre, almeno il 25% dei finanziamenti dell'FSE+ dovrebbe essere assegnato alle misure che promuovono l'inclusione sociale e che vanno a beneficio delle persone più bisognose.

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La tutela del diritto all’abitazione tra Europa, Stato e Regioni e nella prospettiva del Pilastro

europeo dei diritti sociali

di Gloria Marchetti

Sommario: 1. Premessa. Il diritto all’abitazione nella dimensione della “tutela multilivello dei diritti”. 2. Il diritto all’abitazione nella Costituzione italiana e nella giurisprudenza costituzionale. 3. Il diritto all’abitazione nel diritto europeo. 3.1. La rilevanza della Carta sociale europea e del Comitato europeo dei Diritti sociali. 3.2. Il diritto all’abitazione secondo una lettura della Carta dei diritti coordinata con la Carta sociale europea. 4. La tutela del diritto all’abitazione nel nostro Paese tra Stato e Regioni. 4.1. Le politiche abitative statali. 4.2. Le politiche abitative regionali. 5. Le politiche abitative italiane nella prospettiva del cd. social housing. 6. Il diritto di accesso all’alloggio e all’assistenza abitativa nel Pilastro europeo dei diritti sociali. 7. Considerazioni conclusive sui possibili sviluppi del diritto all’abitazione.

1. Premessa. Il diritto all’abitazione nella dimensione della “tutela multilivello dei diritti”

Il diritto all’abitazione si inserisce nella dimensione di una “tutela multilivello dei diritti”, caratterizzata

da un sistema integrato di protezione degli stessi che coinvolge, oltre il livello internazionale

(rappresentato dalla CEDU), il livello europeo (rappresentato dalla Carta europea dei diritti

fondamentali dell’Unione europea e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia), nazionale e

regionale1.

A livello statale, sebbene la nostra Costituzione non riconosca espressamente il diritto all’abitazione,

quest’ultimo lo si può dedurre da diverse disposizioni costituzionali. Tant’è che la Corte costituzionale è

arrivata a riconoscere il diritto all'abitazione come “diritto sociale” senza però spingersi a garantirne un

“contenuto minimo”. In questo modo, si è lasciata al legislatore un’ampia discrezionalità di intervento2,

1 Sull’argomento, si vedano: L. MONTANARI, I diritti dell’uomo nell’area europea tra fonti nazionali e fonti interne, Torino, 2002; P. BILANCIA — E. DE MARCO (a cura di), La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti momenti di stabilizzazione, Milano, 2004; P. BILANCIA, Possibili conflittualità e sinergie nella tutela dei diritti fondamentali ai diversi livelli istituzionali, in P. BILANCIA — F.G. PIZZETTI, Aspetti e problemi del costituzionalismo multilivello, Milano, 2004, pp. 259-270; E. DE MARCO, La tutela dei diritti nel quadro del costituzionalismo multilivello, in ID., Percorsi del “nuovo costituzionalismo”, Milano, 2008, pp. 83-103 e, recentemente, P. BILANCIA— E. DE MARCO ― F.G. PIZZETTI, “Nuovi diritti” e “tutela multilivello dei diritti”, in P. BILANCIA ― E. DE MARCO (a cura di), L’ordinamento della Repubblica. Le Istituzioni e la Società, terza ed., Milano, 2018, pp. 462-477. 2 Si cfr. F. BILANCIA, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, in Istituzioni del federalismo, n. 3-4/2010, p. 236, ora in Scritti in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, p. 347 ss.

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il quale ha individuato — come si vedrà diffusamente di seguito — una serie di politiche abitative che si

sono vieppiù rilevate, salve rare eccezioni, piuttosto fallimentari.

In ambito europeo, invece, si riscontra un atteggiamento a favore di una lettura “forte” del diritto alla

casa, inteso come posizione soggettiva avente un “contenuto essenziale”, che si sostanzia nel diritto di

un soggetto a disporre di un’abitazione dignitosa e idonea a soddisfare i propri bisogni individuali e

famigliari. Ciò, nell’ottica di riconoscere ad ognuno il diritto a un livello di vita dignitoso e a migliorare

le proprie condizioni sociali, attraverso la garanzia di disporre di un’abitazione adeguata.

Sarebbe auspicabile, pertanto, che il diritto all’abitazione fosse interpretato a livello nazionale, alla luce

del diritto europeo, dotandolo di un “nucleo essenziale” di contenuti. Al riguardo, infatti, non si può

trascurare come la Corte costituzionale abbia ricostruito un sistema europeo di protezione dei diritti

fondamentali; essa ha sottolineato che il Trattato di Lisbona si inserisce in una prospettiva di

rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali, riconoscendo, a tal fine, la

concorrenza di tre fonti nello spazio giuridico europeo: la Carta di Nizza, la Convenzione europea dei

diritti dell’Uomo, in conseguenza all’adesione ad essa dell’Unione, e i principi generali, comprendenti i

diritti sanciti e risultanti dalle comuni tradizioni costituzionali. È stato, pertanto, delineato un complesso

sistema di protezione dei diritti fondamentali in cui ciascuna componente ha una propria funzione,

inserendosi nell’ottica di tutela multilivello degli stessi che implica, come conseguenza, oltre ad una

forte interconnessione tra i diversi livelli normativi, un costante dialogo con le due Corti europee: quella

di Strasburgo, preposta all’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e quella di

Lussemburgo, posta a tutela della Carta di Nizza.

Una lettura “forte” del diritto alla casa, a fronte, peraltro, della scarsità delle risorse pubbliche,

comporta, ovviamente, un radicale cambiamento delle tradizionali politiche abitative. Sebbene a partire

dagli ’90 —come si avrà modo di sottolineare ― il legislatore, statale e regionale, ha definito nuovi

modelli di politiche abitative, ciò che è stato fatto finora non è sufficiente a soddisfare il bisogno

abitativo e non è certo in linea con una lettura “forte” e maggiormente garantista del diritto

all’abitazione che emerge dal contesto europeo. Pertanto, quello che preme particolarmente mettere in

luce in questo lavoro è che, per rendere effettivo il diritto all’abitazione, in un’ottica europea, devono

essere intraprese e rafforzate nuove politiche pubbliche, sperimentate con successo in altri Stati membri

dell’Unione (come il social housing, sul quale ci si soffermerà diffusamente nelle pagine che seguono).

In questo quadro, come si cercherà di dimostrare di seguito, l’implementazione del Pilastro europeo dei

diritti sociali, che la Commissione europea ha presentato il 26 aprile 2017, potrebbe costituire

un’importante occasione per rendere maggiormente effettiva la tutela del diritto all’abitazione.

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2. Il diritto all’abitazione nella Costituzione italiana e nella giurisprudenza costituzionale

La Costituzione italiana ― a differenza di altri Stati europei quali il Belgio, il Portogallo, la Spagna e la

Svezia3 ― non riconosce espressamente il diritto all’abitazione.

L’art. 47 Cost. ― che, al primo comma, disciplina i principi costituzionali sul risparmio e sul credito —

stabilisce, al secondo comma, che la Repubblica favorisce l'accesso del risparmio popolare ― oltre alla

proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi

produttivi del Paese ― alla proprietà dell'abitazione4. Pertanto, l’oggetto della disposizione

costituzionale non è l’abitazione ma il risparmio, protetto, peraltro, “anche” attraverso l’acquisto della

casa. Da tale articolo non si desume, dunque, un impegno della Repubblica di garantire a tutti di

diventare proprietari dell'abitazione, in quanto si limita ad indicare una delle forme privilegiate di

destinazione del risparmio5. Tuttavia, il diritto all’abitazione è desumibile da diverse disposizioni

costituzionali, in quanto l’abitazione costituisce il presupposto ― oltre che per la realizzazione di

un’eguaglianza sostanziale tra cittadini di cui all’art. 3, comma 2 — per l’esercizio di diritti e libertà

costituzionalmente riconosciuti, tra i quali la libertà di domicilio (art. 14 Cost.), i diritti della famiglia

(art. 29-31 Cost.), il diritto alla salute (art. 32 Cost), il diritto al lavoro (art. 4, comma 1 e 35, comma, 1)6.

Del resto, appare innegabile che il tema dell’abitazione assume una particolare rilevanza proprio perché

incide sul godimento dei diritti fondamentali7.

3 Sulla disciplina costituzionale del diritto all’abitazione, nei diversi Paesi europei, si veda R. ROLLI, Il diritto all’abitazione nell’Unione europea, in A. BUCELLI, L’esigenza abitativa. Forme di fruizione e tutele giuridiche. Atti del Convegno in onore di Gianni Galli. Firenze 19-20 ottobre 2012, Padova, 2013, p. 51-61 ss. Sul diritto all’abitazione in Gran Bretagna e in Spagna, si vedano, rispettivamente, C. HUNTER, The right to housing in the UK e G.G. ÁLVAREZ, El derecho a la vivienda en España, in Istituzioni del Federalismo, n. 3-4/2010, pp. 313 ss. e 325 ss. 4 Si vedano, al riguardo: F. MERUSI, Art. 47, in G. BRANCA (a cura di ), Commentario della Costituzione, III, Bologna-Roma, 1980, p. 153 ss.; G. SALERNO, Art. 47, in Commentario breve della Costituzione, a cura di V. CRISAFULLI — L. PALADIN, Padova, 1990, p. 318 ss.; S. BARONCELLI, Art. 47, in R. BIFULCO ― A. CLOTTTO — M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, p. 945 ss. 5 Tra coloro che negano che dall’art. 47 Cost. possa derivare un diritto all’abitazione si veda D. SORACE, A proposito di “proprietà dell’abitazione”, “diritto all’abitazione” e “proprietà (civilistica) della casa”, in AA.VV., Scritti in onore di Costantino Mortati, III, Milano, 1977, pp. 1035 ss. In tal senso, ma solo prendendo in considerazione l’art. 47, comma 2, Cost. isolatamente (mentre afferma che un diritto all’abitazione possa derivare dal quadro costituzionale nel suo complesso), U. BRECCIA, Il diritto all’abitazione, Milano, 1980, p. 30 ss. In proposito, M. CIOCIA, Il diritto all’abitazione tra interessi privati e valori costituzionali, Napoli, 2009, p. 43, ritiene che “a mezzo dell’art. 47 l’abitazione si erige a diritto soggettivo pubblico, rappresentando un elemento sostanziale alla formazione e sviluppo della persona umana”. Si veda, inoltre, U. BRECCIA, Itinerari del diritto all’abitazione, in A. BUCELLI (a cura di), L’esigenza abitativa. Forme di fruizione e tutele giuridiche, cit., p 123 ss. 6 Al riguardo, si vedano: A. BARBERA, Art. 2, in G. BRANCA (a cura di ), Commentario della Costituzione, Bologna –Roma, 1975, p. 107, il quale ritiene che il “diritto all'abitazione (…) sembra timidamente emergere sotto la spinta delle lotte sociali di questi ultimi anni”); G. BERTI, Nota introduttiva, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, Milano, I, 1986, p. 5 ss. e ID., Aspetti costituzionali, ivi, IV, 1987, p. 7, il quale, pur negando che sia individuabile un diritto soggettivo all’abitazione, afferma, tuttavia, che l'abitazione “è protetta dalla Costituzione”. 7 Riflette se l’abitazione sia un bene indispensabile o essenziale per avere una vita libera e dignitosa e se è oggetto di una pretesa costituzionalmente garantita, A. GIORGIS, Il diritto costituzionale all’abitazione. I presupposti per una

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La Corte costituzionale8, sebbene in un primo momento della sua giurisprudenza aveva negato la

configurabilità del diritto all'abitazione9, a partire dalla fine degli anni '80, ha riconosciuto l'esistenza di

quest'ultimo qualificandolo come “diritto sociale fondamentale”10 e annoverandolo “fra i diritti

inviolabili (...) di cui all'art. 2 Cost.”11. Essa, tuttavia, ha sottolineato che il diritto all'abitazione, come

tutti i diritti sociali, è “finanziariamente condizionato”12. Va osservato, al riguardo, che la Corte non si è

mai spinta ― come ha invece fatto, ad esempio, per le prestazioni sanitarie — a garantire un “contenuto

minimo” di tale diritto sociale13. In quest’ottica, dunque, il diritto all'abitazione, nel nostro Paese,

sarebbe da considerare ― come ha ritenuto il giudice delle leggi ― un diritto inviolabile e, al contempo,

un diritto sociale e precisamente un “diritto sociale condizionato”.

immediata applicazione giurisprudenziale, in Questione giustizia, n.6/2007, p. 1129 ss. Al riguardo, sono sempre valide le riflessioni di T. MARTINES, Il diritto alla casa, in N. LIPARI (a cura di), Tecniche giuridiche e tutela della persona, Roma-Bari, 1974, p. 391 ss., ora in Opere, IV, Libertà ed altri temi, Milano, 2000, p. 13. G. GILARDI, Abitare: un diritto, non una semplice aspettativa, in Questione giustizia, n. 1/2008, pp. 111 ss. 8 Sul diritto all’abitazione nella giurisprudenza costituzionale, si vedano: M.M. COMENALE PINTO, La rilevanza del bisogno abitativo nella recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Giur. It., 1984, I, 1, p. 889 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, La politica della casa nella giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, I, cit., p. 27 ss.; R. LENZI, La famiglia di fatto e la locazione della casa di abitazione, in Giur. cost., 1988, I, p. 1802 ss.; PACE, Il convivente more uxorio, il “separato in casa” e il c.d. diritto “fondamentale” all’abitazione, ivi, p. 1801 e, più recentemente, G. PACIULLO, Il diritto all’abitazione nella prospettiva dell’housing sociale, Napoli, 2008, p. 75 ss.; M. MEZZANOTTE, Quando la casa è un diritto, in www.forumcostituzionale.it, 9 giugno 2009; A. VENTURI, Dalla legge Obiettivo al Piano Nazionale di edilizia abitativa: il (ri)accentramento (non sempre opportuno) di settori strategici per l’economia nazionale, in Le Regioni, n. 6/2010, p. 1378 ss.; V. ATRIPALDI, Il diritto costituzionale all’abitazione, in A. BUCELLI, L’esigenza abitativa. Forme di fruizione e tutele giuridiche, cit., p. 31 ss.; G. SCOTTI, Il diritto alla casa tra la Costituzione e le Corti, in www. forumcostituzionale.it, 18 settembre 2015, p. 11 ss.; G. CATALDO, Verso l'ossimoro di una tutela elusiva del diritto all'abitazione? Riflessioni a margine di due pronunce della Corte costituzionale in materia di edilizia residenziale pubblica, in Rivista AIC, n. 3/2017, p. 10 ss.; E. OLIVITO, Il diritto costituzionale all’abitare. Spinte proprietarie, strumenti della rendita e trasformazioni sociali, Napoli, 2017, p. 27 ss. 9 Nella sent. n. 252/1983, ad esempio, la Corte costituzionale, pur affermando che “l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge”, non considera il diritto all’abitazione “come l'indispensabile presupposto dei diritti inviolabili” previsti dall'art. 2 Cost. La Corte ha dedotto tale diritto dall’art. 2 e dall’art. 3, comma 2, Cost., definendo l’abitazione come diritto inviolabile dell’uomo, strumentale a garantirgli un’esistenza dignitosa e a realizzare il principio di eguaglianza sostanziale. 10 Si cfr. Corte cost., sent. n. 217/1988, sulla quale si rinvia alle considerazioni di G.F. FERRARI, “Diritto alla casa” e interesse nazionale, in Giur. cost., n. 2/1988, p. 833 ss. 11 Si cfr. Corte cost., n. 404 del 1988. Il diritto all’abitazione è successivamente richiamato dalla Corte in diverse sentenze, tra le quali le sentt. nn. 166/2008 e 209/2009. Si veda, sull’argomento, S. SCAGLIARINI, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista del Gruppo di Pisa, n. 1/2012, p. 1 ss. 12 Così sent. n. 252/1989, in cui la Corte sottolinea “come ogni altro diritto sociale, anche quello all'abitazione è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione delle risorse della collettività”. 13 In tal senso, M. ALLENA, Il social housing: posizioni giuridiche soggettive e forme di tutela tra ordinamento nazionale ed europeo, in Dir. pubbl., n. 1/2014, p. 177, la quale parla di “nucleo essenziale” di questo diritto sociale.

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3. Il diritto all’abitazione nel diritto europeo

Il diritto all’abitazione nel diritto europeo assume rilevanza per diverse ragioni14.

Innanzitutto, in termini generali, sebbene l’Unione europea non abbia competenza esclusiva in materia

di abitazione15, essa ha, tra le proprie finalità, il raggiungimento di fini rispetto ai quali la garanzia del

diritto all’abitazione è strumentale, quali la lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni; la

promozione della giustizia e della protezione sociale; la tutela dei diritti del minore; la promozione della

coesione economica, sociale e territoriale16. In questo contesto, particolarmente rilevanti sono le

direttive in materia di divieto di discriminazione che menzionano anche il diritto d’accesso ad un

alloggio. Significativa, in tal senso, è, ad esempio, la direttiva 2000/43/CE che stabilisce il divieto di

discriminazione “nell'accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l'alloggio”17. Più

specificatamente, riguardo il diritto all’abitazione, la legislazione dell'Unione garantisce una protezione

alle persone particolarmente vulnerabili quali minori non accompagnati, richiedenti asilo e rifugiati. In

questo contesto, ad esempio, si inserisce la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del

Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato

e che prevede che siano forniti loro alloggi o altra eventuale sistemazione temporanea. In materia di

esclusione sociale, fortemente connesso al diritto all’abitazione, invece, pur essendo escluso l’intervento

dell’UE con direttive e regolamenti, è possibile adottare misure di soft law, al fine di rafforzare la

cooperazione e il coordinamento tra Stati membri nell’adozione delle politiche sociali. Ed invero, non

sono mancate raccomandazioni della Commissione e Comunicazione dell’UE in cui si stabilisce che gli

14 Sul diritto all’abitazione nel diritto internazionale e comunitario, si vedano: G. PACIULLO, Il diritto all’abitazione nella prospettiva dell’housing sociale, cit., pp. 27-45; R. ROLLI, Il diritto all’abitazione nell’Unione europea, in A. BUCELLI, L’esigenza abitativa. Forme di fruizione e tutele giuridiche, cit., p. 61 ss. Sul tema, più in generale, dei diritti sociali nel contesto europeo, si veda M. LUCIANI, Diritti sociali e integrazione europea, in Politica del diritto, n. 3/2000, p. 367 ss. e ID., Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni nei sessant’anni della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 3/2016. 15 L’obiettivo di tutelare il diritto all’abitazione è rimesso, dunque, agli Stati membri. Si veda, al riguardo, R. ROLLI, Il diritto all’abitazione nell’Unione europea, in Contratto e Impresa/Europa, n. 2/2013, p. 727. 16 Art. 3, ex art. 2 del Trattato sull'Unione europea (TUE). In tema di esclusione sociale (strettamente legato al diritto all’abitazione) il Trattato sul funzionamento europeo (TFUE) stabilisce (art. 153, par. 1, lett. j) che, al fine di conseguire gli obiettivi di politica sociale nelle materie di competenza concorrente EU-Stati membri, l'Unione sostiene e completa l'azione degli Stati membri nella lotta contro l’esclusione sociale e prevede (art. 153, par. 2) che si possono adottare misure destinate a incoraggiare la cooperazione tra Stati membri attraverso iniziative volte a migliorare la conoscenza, a sviluppare gli scambi di informazioni e di migliori prassi, a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze fatte, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. 17 Si cfr. l’art. 3, comma 1, lett. h) della direttiva, in attuazione della quale il d.lgs. n. 215 del 2003 prevede che “Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale (…)”, con specifico riferimento, tra l’altro, all’“accesso a beni e servizi, incluso l'alloggio”.

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Stati membri dovrebbero adottare politiche di sostegno all’alloggio, al fine di garantire una maggiore

coesione sociale18.

Per altro verso, l’UE ha competenza in relazione a diverse politiche ― ambiente, energia, trasporti e,

soprattutto, politica sociale19 ― che sono in grado di incidere, direttamente o indirettamente, sulle

politiche abitative degli Stati membri.

Inoltre, pur essendo esclusa una competenza esclusiva dell’UE in materia di abitazione, essa può

intervenire, attraverso i principi di sussidiarietà e proporzionalità, di cui all’art. 5 del TUE, in

sostituzione dello Stato se la sua azione è insufficiente a perseguire determinati obiettivi.

Sempre in termini generali, inoltre, non va dimenticato che, alla luce del processo di integrazione

comunitaria, rilevano anche le tradizioni costituzionali degli Stati membri che valgono, ai sensi dell’art. 6

del Trattato di Lisbona, come principi generali del diritto comunitario. Di conseguenza, assume una

particolare rilevanza il fatto che il diritto all’abitazione sia espressamente previsto dalle Costituzioni di

Spagna, Portogallo, Belgio e Svezia.

Più specificatamente, poi, il diritto all’abitazione è previsto in documenti approvati dal Consiglio

d’Europa e dall’Unione europea ed è stato oggetto di riconoscimento da parte delle diverse Corti (Corte

europea dei diritti dell’uomo e Corte di giustizia UE).

Il diritto all'abitazione non è espressamente sancito nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo —

a differenza di quanto previsto, come si vedrà a breve, dalla Carta sociale europea ― ma la Corte di

Strasburgo — nella solco di una tendenza ad estendere, in via interpretativa, il contenuto di diritti in

una prospettiva anche sociale ― ha, in diverse occasioni, riconosciuto il diritto all’abitazione, attraverso

la tutela di aspetti strettamente legati a tale diritto, seppure in casi estremi di lesione, dando

un’interpretazione estensiva dell’art. 8 della CEDU che garantisce la tutela della vita privata e familiare e

del domicilio. Ciò, comunque, senza spingersi fino a riconoscere, in capo ai singoli Stati firmatari, un

obbligo positivo di fornire un’abitazione per coloro che non ne dispongono o che si trovano in

condizioni di disagio economico e/o sociale20. Semmai dalla CEDU discenderebbero obblighi di mezzi,

18 La raccomandazione 2008/867/CE della Commissione, relativa all'inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro, stabilisce che gli Stati membri dovrebbero fornire servizi di qualità essenziali per sostenere le politiche di inclusione sociale ed economica attiva, quali il sostegno all'alloggio e all'alloggio sociale. La raccomandazione 2013/112/UE della Commissione, dal titolo "Investire nell'infanzia per spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale", nel considerare le condizioni di vita dei bambini poveri, fa riferimento alla problematica dell’abitazione. La Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni ("Quadro dell'UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020 (COM(2011) 173 definitivo) riconosce l’accesso ad un alloggio come condizione essenziale per l'inclusione delle popolazioni Rom svantaggiate. 19 In particolare, l’Ue è chiamata a svolgere un importante ruolo attraverso l’adozione delle misure di “politica sociale” che rientrano nella competenza concorrente e di coordinamento 20 Si cfr.: la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), art. 25, comma 1, “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente e garantire (... il benessere proprio e della sua famiglia con particolare riguardo (...)

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nel senso che lo Stato si deve impegnare per affrontare il problema abitativo per i soggetti

maggiormente in difficoltà e per assisterli a trovare delle soluzioni.

Al riguardo, non va dimenticata l’apertura del nostro ordinamento alle norme CEDU, così come più

volte sottolineato dalla Corte costituzionale (soprattutto a partire dalle note sentenze gemelle nn. 348 e

349 del 2007)21. Quest’ultima, infatti, ha costantemente considerato le disposizioni della Convenzione,

nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, con norme interposte idonee a integrare, se

conformi alle tutele costituzionali, il parametro dell’art. l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al

legislatore statale e regionale il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e

dall’ordinamento comunitario. Pertanto, se un giudice ritiene che vi sia incompatibilità del diritto

interno con le norme della Convenzione, e non riesce a risolvere l’antinomia attraverso gli ordinari

strumenti ermeneutici, non può disapplicare la norma interna ma deve promuovere l’incidente di

costituzionalità denunciando la violazione degli obblighi derivanti dall’adesione alla Convenzione.

3.1. La rilevanza della Carta sociale europea e del Comitato europeo dei Diritti sociali

Il diritto all'abitazione è, invece, espressamente previsto dalla Carta sociale europea (d’ora innanzi CSE)

approvata dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, soprattutto nel testo revisionato nel 1996, il quale

prevede, nella Parte I, n. 31 che “tutte le persone hanno diritto all'abitazione” e dispone, nella Parte II,

art. 31, che, per garantire l'effettivo esercizio di tale diritto, gli Stati firmatari “s'impegnano a prendere

misure destinate” tra l'altro “a favorire l'accesso ad un'abitazione di livello sufficiente”; a “prevenire e

ridurre lo status di “senza tetto” in vista di eliminarlo gradualmente”, a “rendere il costo dell'abitazione

accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti”. Appare degno di nota che la CSE ―

i cui contenuti, relativamente ai diritti sociali, sono stati, peraltro, spesso richiamati dai giudici di

Strasburgo, al fine di integrare il significato di alcuni diritti fondamentali — assume rilevanza nel nostro

ordinamento, alla luce della novella dell’art. 117, primo comma, Cost. e di quanto affermato dalla Corte

costituzionale, con le già ricordate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in cui si è riconosciuto alla

Convenzione europea dei diritti dell’uomo il valore di norma interposta nei giudizi di costituzionalità

delle norme interne. Secondo il ragionamento della Corte, dunque, si potrebbe dedurre che tutte le

all'abitazione...” e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966), art. 11, comma 1 “Gli Stati (...) riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita (...) che includa un'alimentazione (...) ed un alloggio adeguati”. Il diritto all'abitazione non è espressamente sancito nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, perché in origine essa doveva essere volta alla protezione dei diritti civili e politici. Sul tema, si veda F. BESTAGNO, La dimensione sociale dell’abitazione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in G. VENTURINI — S. BARIATTI (a cura di), Diritti individuali e giustizia internazionale Liber Fausto Pocar, Milano, 2009, p. 19 ss. 21 Sull’argomento, si veda F. BESTAGNO, La dimensione sociale dell’abitazione nella giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, op. cit., p. 19 ss.

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previsioni di diritto internazionale pattizio alle quali l’Italia ha aderito, hanno il valore di norme

interposte e, quindi, l’obbligo di risultato derivante dall’ordinamento internazionale ― e, per quanto qui

più interessa, dalla CSE, in ordine al diritto di abitazione ― si imporrebbe anche, a livello interno, a tutti

gli organi competenti ad attuarlo, compresi quelli giurisdizionali22. Ciò anche se, effettivamente, il

giudice delle leggi ― pur avendo riconosciuto l’importanza della CSE ed essendosi riferita, talora, ad

alcune sue disposizioni — non si è ancora pronunciato sul suo carattere di norma interposta rispetto

all’art. 117 , primo comma, Cost.23. La Corte costituzionale, tuttavia, avrà presto occasione di chiarire la

sua posizione su questo punto grazie all’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato del 4 maggio

2017, in cui si prospetta un parallelismo tra CEDU e CSE, quali parametri interposti, ai sensi dell’art.

117, primo comma, Cost.24. Al riguardo, appare innegabile che la Carta sociale europea abbia assunto, a

seguito dell’ordine di esecuzione25, la capacità di produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento. Carta

che, come si è visto, impone agli Stati membri un obbligo di “garantire l’effettivo esercizio del diritto

all’abitazione”. Sotto il profilo legislativo, quindi, ai sensi dell’art. 117 Cost., il legislatore ordinario,

regionale e statale, sarebbe tenuto a dare attuazione agli obblighi contratti nell’ambito dell’ordinamento

internazionale e quindi anche degli obblighi contenuti nella Carta sociale. Al riguardo, non va

dimenticato che se gli Stati adottano norme interne volte a garantire i diritti sociali contemplati nella

CSE, tali norme diventano giustiziabili anche a livello convenzionale, al fine di accertare l’eventuale

profilo discriminatorio, da parte della Corte EDU26. Anche se, come si è già detto, la Corte EDU non si

è spinta finora a riconoscere in capo alle autorità nazionali e locali un obbligo positivo di fornire un

alloggio, mentre il CEDS ha previsto un’ampia garanzia del diritto all’abitazione, fino a compiere un

esame non solo delle normative degli Stati ma anche delle relative politiche pubbliche, al fine di

constatare se sono stati perseguiti determinati risultati.

22 Così, G. GUIGLIA, Il diritto all’abitazione nella Carta sociale europea: a proposito di una recente condanna da parte del Comitato europeo dei diritti sociali, cit., p. 11. 23 In due casi la Corte ha affrontato la questione di costituzionalità sulla base della violazione della Carta sociale, quale norma interposta, ma non ha accolto l’occasione per chiarire la sua posizione (sentt. n. 434 del 2005 e 80 del 2010). 24 L’ordinanza ha a oggetto le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d. lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o di aderire ad associazioni sindacali, in riferimento agli artt. 117, comma 1, Cost. Sull’argomento, si vedano le riflessioni di B. LIBERALI, Un nuovo parametro interposto nei giudizi di legittimità costituzionale: la Carta Sociale Europea a una svolta?, in federalismi.it, n. 17/2017. 25 La Carta è stata ratificata con la legge 9 febbraio 1999, n. 30. 26 In proposito, si vedano, più in generale: G. GUIGLIA, Le prospettive della Carta sociale europea , in Jus: Rivista di Scienze Giuridiche, 2010, p. 505 ss.; ID., Il diritto all’abitazione nella Carta Sociale Europea: a proposito di una recente condanna dell’Italia da parte del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, in M. D’AMICO ― B. RANDAZZO, (a cura di), Alle frontiere del Diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2011, p. 1013 ss., ID., Non discriminazione ed uguaglianza: unite nella diversità, in G. D’ELIA — G. TIBERI ― M.P. VIVIANI SCHLEIN, Scritti in memoria di Alessandra Concaro, Milano, 2012, p. 137 ss.

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In questo contesto, inoltre, ha avuto un importante ruolo il Comitato europeo dei Diritti sociali (d’ora

innanzi CEDS) chiamato a decidere sui reclami collettivi ― che possono essere presentati anche quando

non sono state esaurite le vie nazionali di ricorso ― per violazione della CSE.

Il CEDS ha delineato meglio i contorni del diritto all’abitazione, individuando un “nucleo essenziale e

incomprimibile” dello stesso. Significato, al riguardo, è che il CEDS non si è limitato a valutare

l’efficacia dei mezzi impiegati ma si è spinto a verificare l’effettivo raggiungimento degli obiettivi

imposti: in altri termini, le pronunce del CEDS hanno imposto obblighi di risultato, al fine di garantire

concretamente i diritti coinvolti, dimostrando un approccio interpretativo a favore dei diritti sociali più

profondo rispetto a quello della Corte Cedu che, sui diritti sociali, ha sempre avuto un atteggiamento di

cautela. Le pronunce del CEDS si basano così non solo sulla valutazione delle legislazioni, ma anche

sull’esame delle politiche economiche e sociali e sulle prassi adottate dagli Stati, al fine di tutelare i diritti

sociali coinvolti, e sulle lacune legislative o amministrative che non garantiscono adeguatamente gli

stessi27. In particolare, riguardo al diritto all’abitazione, il CEDS ha riconosciuto che gli Stati hanno

l’obbligo di: impiegare i mezzi (normativi, finanziari e operativi) che consentano di progredire

effettivamente verso la realizzazione degli obiettivi imposti dalla Carta; effettuare statistiche che

consentano di confrontare i fabbisogni con i mezzi e i risultati; procedere a regolari verifiche

dell’efficacia delle strategie impiegate; definire delle tappe intermedie da raggiungere, evitando di

rinviare all’infinito la verifica dei risultati prefissati; prestare particolare attenzione all’impatto che le loro

scelte hanno su tutte le categorie dei soggetti coinvolti, in particolare sui soggetti più vulnerabili28.

Al riguardo, inoltre, va sottolineato che le decisioni del CSER, pur non avendo i ricorsi natura

giurisdizionale, possono avere conseguenze sia politiche che giuridiche. Tali decisioni hanno un seguito

politico, in quanto il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è competente a “sanzionare” gli Stati

che hanno disatteso gli obblighi, attraverso risoluzioni o raccomandazioni29. Le decisioni del CSER

producono altresì effetti giuridici: se le norme del diritto internazionale pattizio, tra cui quelle della

CSE, hanno carattere sub-costituzionale — prevalenti su qualunque norma primaria interna, nazionale

o regionale, successiva, con esse confliggenti, e con la conseguenza che, nelle ipotesi di contrasto tra

una disposizione legislativa interna e la CSE, ove non sia risolto dal giudice comune attraverso

27 In tal senso, G. GUIGLIA, Il diritto all’abitazione nella Carta sociale europea: a proposito di una recente condanna da parte del Comitato europeo dei diritti sociali, in Rivista AIC, n. 3/2011, p. 3 e 5. Sull’argomento, più in generale, si vedano: G. GUIGLIA, La rilevanza della Carta sociale europea nell'ordinamento italiano: la prospettiva giurisprudenziale, in M. D’AMICO — G. GUIGLIA ― B. LIBERATI (a cura di), La Carta Sociale Europea e la tutela dei diritti sociali, Napoli, 2013, p. 63 ss.; M. D’AMICO — G. GUIGLIA, European Social Charter And The Challenges Of The XXI Century, Napoli, 2014. 28 Obblighi che si desumono dal § 29 della decisione sul recl. n. 53/2008 (European Federation of National Organisations working with the Homeless (FEANTSA) v. Slovenia). 29 Si veda, al riguardo, R. ROLLI, Il diritto all’abitazione nell’Unione europea, cit., p. 744.

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l’interpretazione conforme, può profilarsi un profilo di illegittimità costituzionale della prima — si può

ritenere che, qualora le disposizioni legislative interne siano implicitamente censurate dal CEDS,

possano essere impugnate in giudizio di fronte alla Corte costituzionale.

Di conseguenza, i nostri giudici dovrebbero iniziare a prendere in seria considerazione le decisioni del

CEDS e le conseguenti risoluzioni o raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa

nelle proprie sentenze, così come hanno fatto, sempre più spesso, in merito alla giurisprudenza della

Corte EDU. Ciò che preme qui particolarmente sottolineare è che una maggiore considerazione dei

giudici interni nei confronti di risoluzioni e raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio

d’Europa, che fanno seguito alle decisioni del CEDS sui reclami collettivi ― specie quando esse

evidenziano la necessità per lo Stato contraente di adeguare la propria legislazione interna, al fine di

evitare violazioni della CSE ― può costituire un presupposto per una maggiore garanzia del diritto

all’abitazione, senza alcuna discriminazione, secondo quanto stabilito dalla CSE.

Da un punto di vista concreto, è il caso di ricordare che il CEDS ha condannato il nostro Paese, in due

occasioni, in relazione al diritto all’abitazione. La prima condanna è rappresentata dalla decisione del 7

dicembre 2005, in esito al reclamo n. 27/2004, presentato dall’European Roma Rights Center (ERRC)

contro l’Italia. Dalla decisone emerge che il diritto all’abitazione, ex art. 31 CSER, deve essere garantito

a tutti i soggetti, anche agli stranieri, qualora non si riesca a distinguere tra questi ultimi e i titolari

“ordinari” del diritto. Inoltre, nell’ottica di delineare meglio i contorni del diritto all’abitazione, in tale

decisone, pronunciata in relazione alla situazione dei campi rom in Italia, il CEDS, ha statuito che una

casa può dirsi “di livello sufficiente” se si configura come “alloggio salubre, ossia fornito di tutti gli

elementi di confort essenziali – acqua, riscaldamento, scarico domestico, impianti sanitari ed elettricità

― costituito da strutture sane, non sovraffollato e provvisto di una garanzia legale di abitabilità” e che il

diritto deve essere garantito per “un periodo di tempo ragionevole”. La seconda condanna si è avuta

con decisione del 25 giugno 2010, in esito al reclamo n. 58/2009, presentato dal Centre on Housing Rights

and Evictions (COHRE) per violazione degli art. 16, 30, 31 e 19 (diritto dei lavoratori migranti e delle

loro famiglie) E della CSE, nei confronti delle minoranze Rom e Sinti presenti sul territorio nazionale.

In particolare, la decisione è incentrata sull’accertamento di una perdurante situazione di

discriminazione razziale, attuata dall’Italia nei confronti delle minoranze Rom e Sinti e riguarda, in un

rapporto di stretta interconnessione, non solo il diritto all’abitazione dell’art. 31 della CSER, ma anche il

diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale (art. 30), il diritto della famiglia a una

tutela sociale, giuridica ed economica (art. 16) e il diritto dei lavoratori migranti e delle loro famiglie alla

protezione e all’assistenza (art. 19).

Appare degno di nota che il CEDS abbia individuato un obbligo, da parte degli Stati, di adottare

politiche pubbliche che garantiscano l’accesso a tutti i cittadini, a prescindere dalle condizioni

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economiche e senza discriminazioni, a un’abitazione che abbia determinate caratteristiche definite dallo

stesso. Secondo questa impostazione, dunque, ai cittadini andrebbe riconosciuta una posizione

giuridica, nell’ambito del quale sarebbe esigibile un “nucleo essenziale” del diritto all’abitazione. Per

altro verso, inoltre, da un punto di vista concreto, la decisione del CSER del 2010 ha prodotto

conseguenze sul piano politico-istituzionale, in quanto è seguito un intervento del Comitato dei Ministri

del Consiglio d’Europa, che, avendo ricevuto dal Comitato stesso il rapporto concernente la decisione

di cui si tratta, secondo quanto prescrive la CSE stessa, ha adottato a sua volta una Risoluzione

(CM/ResChS(2010)8); risoluzione dalla quale si evince, tra l’altro, l’impegno del nostro Paese a rendere

effettivi anche per i Rom e i Sinti i diritti contemplati nella CSE.

3.2. Il diritto all’abitazione secondo una lettura della Carta dei diritti coordinata con la Carta

sociale europea

Il diritto all’abitazione è altresì previsto, a livello comunitario, dalla Carta dei diritti fondamentali

dell'Unione europea, alla quale, come è noto, il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore

giuridico dei Trattati.30. Pertanto, in ragione dell’efficacia giuridica di tale Carta, i diritti in essa

contemplati sono giuridicamente vincolanti per gli Stati membri e possono essere fatti valere sia nei

confronti dello Stato che dei privati. Essa, all'art. 34, par. 3, prevede che l'Unione “riconosce e rispetta il

diritto (...) all'assistenza abitativa”, al fine di “assicurare un’esistenza degna a tutti quelli che non

dispongono di risorse sufficienti”31. Al riguardo, è evidente come la Carta non tuteli direttamente il

diritto all’abitazione ma sia prevista una sua tutela, al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la

povertà, attraverso la garanzia di un’esistenza degna a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti.

30 In un primo tempo la Carta era priva di efficacia giuridica, pur essendole riconosciuto un rilievo interpretativo ed espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti degli Stati membri (sentt. Corte cost. nn. 135 del 2002, 349 del 2007 e 251 del 2008). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta è stata riconosciuta come fonte di rango primario del diritto internazionale. In tal senso, si vedano, in particolare, le sentt. Corte cost. nn. 138 del 2010, 80 del 2011, 70 del 2015. In particolare la sent. n. 80 del 2011 ha sottolineato come, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nell’ambito dell’Unione europea il sistema di protezione dei diritti fondamentali poggia su tre fonti distinte, ciascuna con una propria funzione: la Carta dei diritti fondamentali che l’Unione riconosce e che ha lo stesso valore giuridico dei trattati; la CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; ed i principi generali , che comprendono i diritti sanciti dalla CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei trattati mira, in particolare, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali ancorandola ad un testo scritto, preciso e articolato. 31 Per un commento dell’art. 34 si vedano: A. GIORGIS, Art. 34. Sicurezza sociale e assistenza sociale, IN R. BIFULCO— M. CARTABIA — A. CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Bologna, 2001, p. 240 ss.; L. FERRARI BRAVO ― F.M. DI MAJO — A. RIZZO (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea commentata con la giurisprudenza della Corte di giustizia CE e della Corte europea dei diritti dell’uomo e con i documenti rilevanti, Milano, 2001, p. 115 ss. Si vedono, altresì, M. CARTABIA — S. NINATTI, L’efficacia giuridica della Carta dei diritti: un problema del futuro o una realtà presente?, in Quad. cost., n. 2/2001, p. 423 ss.; A. CELOTTO ― G. PISTORIO, L’efficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rassegna giurisprudenziale 2001-2004), in Giur. it., n. 2/2005, p. 427 ss.

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Pertanto, ogni Stato membro è libero di definire il livello di protezione del diritto che ritiene più

adeguato. Tuttavia, sebbene si tratti di una previsione piuttosto generica, quella della Carta dei diritti,

potrebbe assumere una particolare importanza se letta alla luce della disciplina del diritto all’abitazione

contenuta nella Carta sociale europea, che ― come si è visto ― definisce un “nucleo essenziale” di tale

diritto. Del resto, il preambolo della Carta dei diritti contiene un riferimento esplicito ai “diritti derivanti

(…) dalle Carte sociali adottate dal Consiglio d’Europa”. Si tratterebbe di considerare ― come, del resto

la Corte europea di giustizia ha già fatto in alcune occasioni ― le previsioni della Carta dei diritti alla

luce delle corrispondenti previsioni della CSE, così come interpretata e valorizzata dal CEDS, anche se

in realtà non vi è alcuna previsione che impone tale lettura. Ciò porterebbe a meglio definire il diritto

all’abitazione e a dargli un “contenuto sostanziale” anche nell’ambito dell’Unione europea: in altri

termini, pur essendo in Italia il diritto all’abitazione “finanziariamente condizionato” (e, pertanto, non

immediatamente giustiziabile da parte dei suoi titolari, se non nei limiti delle risorse disponibili), lo Stato

dovrebbe, comunque, prevedere un “contenuto minimo” di tale diritto, che non può essere negato ai

cittadini, e i giudici dovrebbero impegnarsi per un suo effettivo riconoscimento.

Ed invero, la Corte europea di giustizia si è già mossa in questa direzione, statuendo che “è impossibile,

in un caso avente ad oggetto la natura e la portata di un diritto fondamentale, ignorare gli enunciati

pertinenti della Carta sociale europea, né tantomeno la sua vocazione ad essere impiegata, quando le sue

disposizioni lo consentono, come parametro di riferimento sostanziale per tutti gli attori (…) dell’arena

comunitaria” 32. Si tenga conto, inoltre, che nella spiegazione della Carta ― elaborata e poi aggiornata

sotto la responsabilità del Praesidium — relativa all’art. 34, si afferma che il “paragrafo 3 è ispirato all’art.

13 della Carta sociale europea e agli artt. 30 e 31 della Carta sociale riveduta nonché al punto 10 della

Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali di lavoratori. Esso deve essere rispettato dall’Unione

nel quadro delle politiche fondate sull’art. 153 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”. Il

riferimento all’art. 153 del TFUE implica l’adozione di politiche di inclusione sociale, oggetto di

competenza concorrente UE-Stati, che dovrebbero contenere anche indicazioni sulla concreta garanzia

del “diritto (…) all’assistenza abitativa”. E, comunque, anche volendo rifiutare la tesi di una diretta

invocabilità delle disposizioni della Carta sociale europea, come qui si prospetta, sarebbe difficile non

ammettere l’importante ruolo interpretativo che essa può svolgere per i giudici nazionali ed europei.

In questo contesto, si inserisce, del resto, una giurisprudenza della Corte costituzionale maggiormente

attenta alla tutela dei diritti, in conformità alla Carta dei diritti. In tema di diritto all’abitazione,

significativa, ad esempio, la sent. n. 168 del 2014, in cui la Corte ha affermato che la legislazione in

materia di edilizia residenziale pubblica è volta a perseguire la finalità, enunciata dall’art. 34 della Carta

32 Si cfr. le conclusioni dell’Avocato generale Tizzano nel caso 26 giugno 2001, c-173/99, BECTU c. Secretary of Stat of Trade and Industry, anche se in riferimento al diritto di godimento delle ferie annuali retribuite.

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dei diritti fondamentali, di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse

sufficienti.

È solo il caso di ricordare, infine, che si è assistito, a livello europeo, ad un crescente interesse per il

tema del diritto all’abitazione, attraverso l’elaborazione di specifici documenti volti a garantirne

l’effettività. Così, ad esempio, la Carta europea dell'alloggio, elaborata nel 2006 dall'intergruppo Urban

logement del Parlamento europeo, all'art. 1 definisce il diritto all'abitazione “un diritto sociale

fondamentale componente del modello sociale europeo” e la risoluzione del Parlamento europeo

2006/2108/(INI) sugli alloggi e la politica regionale, del 2007, al n. 1, considera il “diritto a un alloggio

adeguato e di buona qualità a un prezzo ragionevole” (Right to social and affordable Housing) come “un

diritto fondamentale”. A ciò si aggiunga che la Commissione europea ha dichiarato, in termini generali,

che l’“housing exclusion” – ovvero l’essere privi di una casa dignitosa – è una delle manifestazioni più serie

della povertà e dell’esclusione sociale nella società moderna. La casa ha, infatti, un ruolo fondamentale

nel raggiungimento del benessere individuale e familiare delle persone poiché è l’ambito nel quale trova

risposta un’ampia gamma di bisogni economici e sociali.

L’orientamento volto a tutelare maggiormente il diritto all’abitazione si riscontra, altresì, nella decisione

della Commissione del 28 nov. 2005 (2005/842/CE), la quale, nel fissare le condizioni alle quali gli aiuti

di Stato (connessi a determinate imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse generale) sono da

considerare “compatibili con il mercato comune ed esentati dall’obbligo di notificazione di cui all’art.

88, n. 3, del Trattato”, ha espressamente preso in considerazione “gli ospedali e le imprese aventi

incarichi di edilizia popolare”.

Alla luce di queste osservazioni, si ritiene che, sul piano giurisprudenziale, sia necessario favorire una

maggiore integrazione tra i diversi cataloghi dei diritti, considerando non solo la CEDU e la Carta di

Nizza, ma anche la Carta sociale europea. Ciò al fine di garantire il massimo pluralismo nella tutela dei

diritti fondamentali in Europa. Su questo fronte, appare auspicabile un maggiore impegno da parte dei

giudici nazionali, i quali dovrebbero iniziare a prendere in considerazione la giurisprudenza del CEDS

nelle proprie sentenze, così come fanno sempre più spesso in relazione delle decisioni della Corte

EDU. Anzi, le stesse risoluzioni e raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa,

che fanno seguito alle decisioni del CEDS sui reclami collettivi, dovrebbero essere evidenziate nei

giudicati interni, soprattutto quando da esse emerge la necessità, per lo Stato contraente, di adeguare la

propria legislazione interna, per evitare violazioni della Carta. I giudici comuni, invece, continuano a

manifestare scarso interesse per la CSE, anche dopo l’entrata in vigore del novellato primo comma

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dell’art. 117 Cost. Per altro verso, poi, anche le Corti (comprese la Corte di giustizia UE33 e la Corte

europea dei diritti dell’uomo) dovrebbero ― nell’ottica di un incremento della protezione sociale in

Europa, avviato con il Trattato di Lisbona e che ora ha trova conferma nel Pilastro sociale — garantire

maggiormente la tutela del diritto all’abitazione.

4. La tutela del diritto all’abitazione nel nostro Paese tra Stato e Regioni

Dopo aver sottolineato come il diritto all’abitazione andrebbe interpretato a livello nazionale, alla luce

del diritto europeo, dotandolo così di un “nucleo essenziale” di contenuti, considerando anche le

previsioni della Carta sociale europea come interpretata dal CEDS, è utile soffermarsi a rammentare le

forme attraverso le quali il nostro Paese ha cercato di tutelare tale diritto. Va premesso, al riguardo, che

vi è un sistema integrato di protezione del diritto all’abitazione che coinvolge sia lo Stato che le Regioni;

entrambi i livelli di governo hanno un ruolo importante nell’elaborare politiche pubbliche volte a creare

le condizioni per rendere effettivo tale diritto.

In generale, si può affermare che il diritto all'abitazione può essere tutelato, sostanzialmente, attraverso

due modalità34. La prima modalità di tutela consiste nell'introduzione di una disciplina dei contratti di

locazione vincolati (cd. legislazione vincolistica) che garantisce ai locatari di appartamenti una durata

adeguatamente lunga del contratto di locazione e determinati tetti dei relativi canoni. La seconda

modalità di tutela del diritto all'abitazione comprende, invece, quelle politiche incentrate sulla c.d.

“edilizia residenziale pubblica” (configurabile ora — come si avrà modo di sottolineare in seguito ―

come “edilizia residenziale sociale”); politiche finalizzate alla costruzione e gestione ― da parte di enti

pubblici e, più recentemente, con il coinvolgimento dei privati ― di abitazioni per far fronte alle

esigenze abitative dei ceti sociali meno abbienti (ossia alloggi da assegnare a persone che non possono

permettersi di pagare il canone di locazione, in base alla contrattazione di libero mercato, ma non sono

in grado neppure di pagare un canone moderato imposto dalla legislazione vincolistica).

Il legislatore, statale e regionale, è coinvolto in maniera diversa nelle due modalità di tutela del diritto

all'abitazione. Per quanto attiene la legislazione vincolistica, riguardando la disciplina di contratti di

locazione, essa è di competenza esclusiva dello Stato, in quanto rientra nella materia del diritto privato

o, meglio, nella materia “ordinamento civile”35 Quanto, invece, alla materia dell’edilizia residenziale

pubblica (o sociale), essa non viene menzionata della Costituzione (nel testo novellato dalla riforma del

Titolo V, parte seconda, della Costituzione del 2001, così come non lo era nel vecchio testo). Tuttavia,

33 Sulla tutela dei diritti sociali, in generale, da parte della Corte di giustizia si veda, in particolare, F. ANGELINI, L’Europa sociale affidata alla Corte di giustizia Ce: “sbilanciamento giudiziale” versus “omogeneità costituzionale”, in AA.VV., Studi in onore di Vincenzo Atripaldi, II, Napoli, 2010, p. 1495 ss. 34 In tal senso, P. VIPIANA, La tutela del diritto all’abitazione a livello regionale, in federalismi.it, n. 10/2014, p. 5 ss. 35 Di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l) Cost.

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tale materia può essere fatta rientrare nella più vasta materia delle “politiche sociali”, di potestà

legislativa delle Regioni, sebbene nel rispetto dei principi fondamentali in materia di legislazione

concorrente “governo del territorio” e dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti (...)

sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”36.

4.1. Le politiche abitative statali

Nel rispetto del riparto di competenze sopra visto, le politiche vincolistiche si sono concretizzate, a

partire dagli anni ’70, in numerose di provvedimenti volti a: tutelare la stabilità nel godimento

dell’abitazione, predefinendo la durata delle locazioni abitative e un canone dovuto dal conduttore,

prefissato dalla legge, in base a una serie di parametri (il cd. “equo canone”, poi abrogato)37; rinnovare,

in maniera costante, la sospensione degli sfratti per rilascio di immobili, sia per fine locazione che per

morosità (c.d. blocco degli sfratti)38; contrastare il fenomeno dell’occupazione abusiva degli immobili,

soprattutto con la recente legislazione prevista nel d.l. n. 47 del 2014, contenente il Piano nazionale di

edilizia abitativa (cd. “Piano casa”)39, e nel d.lgs. n. 72 del 201640.

36 Di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. 37 La l. 27 luglio 1978 n. 392, cd. dell’“equo canone”; equo canone che, successivamente, nell’ottica di una maggiore liberalizzazione del mercato delle locazioni, è stato eliminato dalla l. 9 dicembre 1998, n. 431, che, tuttavia, ha mantenuto la normativa relativa alla predeterminazione della durata del contratto di locazione e ha istituito di un fondo nazionale per l’erogazione di contributi a favore di conduttori meno abbienti e benefici fiscali sia per gli inquilini che per i proprietari (detrazione dell’affitto dalle dichiarazione dei redditi). 38 Così, la l. 8 febbraio 2007, n. 9 (Recante “Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali”), ha previsto per i Comuni ad alta tensione abitativa, la sospensione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione degli immobili ad uso abitativo per le categorie sociali più svantaggiate, prevedendo, quale bilanciamento di tale forma di tutela dei conduttori, benefici fiscali in favore dei proprietari. 39 Il d.l. 28 marzo 2014, n. 47, converto in l. 23 maggio 2014, n. 80, oltre a prevedere disposizioni volte a favorire la dismissione del patrimonio residenziale pubblico (art. 3), ha stabilito, al fine di contrastare il fenomeno dell’occupazione abusiva degli immobili, il divieto di concessione della residenza anagrafica e la nullità dei contratti di allaccio o voltura delle utenze di gas, acqua, elettricità e telefono e l’impossibilità per i soggetti che occupano abusivamente alloggi di edilizia residenziale pubblica di partecipare alle procedure di assegnazione di alloggi della medesima natura per i cinque anni successivi alla data di accertamento dell’occupazione abusiva (art. 5). Su quest’ultimo articolo e, in particolare sulle misure adottate per contrastare il fenomeno delle occupazioni abusive di immobili, sotto il profilo della loro legittimità costituzionale e compatibilità con la democraticità dell’ordinamento, si vedano: E. PONZO, L’articolo 5 del “Piano casa” del Governo Renzi. Un dubbio bilanciamento tra esigenze di legalità e diritto alla casa, in Costituzionalismo.it, n. 2/2014, A. SCHILLACI, Tempo da lupi per il diritto alla casa, in www.diritticomparati.it, 22 maggio 2014; S. TALINI, Piano casa Renzi-Lupi, art. 5: quando la cieca applicazione del principio di legalità contrasta con la garanzia costituzionale dei diritti fondamentali, in www.costituzionalismo.it, 2014, p. 1 ss. 40 Il d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72, recante attuazione della direttiva 2014/17/UE, in cui si è previsto che, in caso di mancato pagamento di diciotto rate di muto, anche non consecutive, da parte del mutuatario, la banca titolare dell’ipoteca possa procedere alla vendita dell’immobile direttamente, senza dover sottostare ai vincoli previsti per la vendita tramite intervento dell’autorità giudiziaria.

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Quanto, invece, alla disciplina relativa all’edilizia residenziale pubblica (o sociale), lo Stato ha elaborato,

nel tempo, numerose politiche pubbliche41. A partire dal dopoguerra, fino agli anni ’70, lo Stato ha

assunto un ruolo incisivo, anche se sempre indiretto, nell’assicurare alloggi, attraverso gli istituti

autonomi, quali l’INA-Casa42e la GESCAL43, per la formazione e la gestione del patrimonio abitativo

pubblico. I finanziamenti sono stati assicurati, in parte, da un prelievo fiscale a carico dei contribuenti e,

in parte, da prelievi sugli stipendi dei lavoratori. A partire dagli anni ’70, invece, viene intrapresa una

nuova politica abitativa – non più incentrata, come in passato, su un sistema prevalentemente

mutualistico nei confronti, per lo più, dei lavoratori – basata su un intervento diretto dello Stato nella

costruzione degli immobili e sull’offerta di abitazione alle fasce sociali più bisognose, mediante un

aumento dei finanziamenti statali e un’organizzazione dell’edilizia residenziale pubblica incentrata nel

Ministero dei lavori pubblici e nel CER (Comitato Edilizia Residenziale), organismo di coordinamento

delle diverse tipologie d’intervento pubblico nel settore, nonché attraverso una riorganizzazione degli

IACP (Istituti Autonomi Case Popolari), quali enti pubblici periferici del Ministero, trasferiti poi alle

Regioni44. Successivamente, a partire dal 1977, si introduce una politica volta a realizzare i seguenti

41 Sulle politiche abitative in Italia si vedano: M. NIGRO, L’edilizia popolare come servizio pubblico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, p. 118 ss.; V. DOMENICHELLI, Dall'edilizia popolare ed economica all'edilizia residenziale pubblica: profili giuridici dell'intervento pubblico, Padova, 1984; ID., Edilizia residenziale pubblica, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1990, p. 411 ss.; G. PERULLI, Casa e funzione pubblica, Milano, 2000; P. DI BIAGI, La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni cinquanta, Roma, 2001; M.C. PAGLIETTI, Percorsi evolutivi del diritto all’abitazione, in Riv. dir. priv., n. 1/2008, p. 55 ss.; S. CIVITARESE MATTEUCCI, L'evoluzione della politica della casa in Italia, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2010, p., 169 ss.; E. OLIVITO, Il diritto costituzionale all’abitare. Spinte proprietarie, strumenti della rendita e trasformazioni sociali, cit., p. 103 ss. Si veda, inoltre, S. AMOROSINO, Politiche pubbliche e regolazione dell’edilizia e delle infrastrutture nella “costituzione economica”, in Studi in onore di Vincenzo Atripaldi, II, Napoli, 2010, p. 1283 ss.; V. CERULLI IRELLI ― L. DE LUCIA, Il secondo “piano casa”: una (incostituzionale) depianificazione del territorio, in Democrazie e diritto, n. 1/2009, p. 106 ss. 42 Il c.d. piano INA-casa (istituto di assicurazioni, l. 28 febbraio 1949, n. 43), volto alla costruzione di abitazioni per i lavoratori, aveva anche l’obiettivo di operare una ricostruzione post-bellica e di incrementare l’occupazione operaia attraverso lo sviluppo del settore edilizio. La l. n. 43 del 1949 ha dato il via ad un programma settennale di costruzione di abitazioni per i lavoratori, finanziato da prelievi sugli stipendi e contributi statali, imperniato sull’idea di privilegiare la proprietà della casa attraverso la possibilità, per coloro che abitavano la casa stessa, di pagare un riscatto inferiore al prezzo di mercato. 43 Il c.d. piano Gescal – Gestione Case per i lavoratori (l. 14 febbraio 1963, n. 60) che riprendeva lo stesso modello del piano INA ma che si rilevò piuttosto fallimentare sia per le inefficienze degli organi centrali che per la mancata predisposizione dei piani di zona da parte dei Comuni. 44 Con l. 22 ottobre 1971, n. 865, la quale ha anche previsto lo strumento dell’espropriazione delle aree private occorrenti per l’edilizia economica e popolare. Si tratta senz’altro di una legge significativa sia per l’entità dei finanziamenti previsti che per la predisposizione dello strumento dell’espropriazione. I Comuni furono autorizzati ad espropriare le aree incluse nei piani, ferma restando la possibilità per il privato di evitare l’espropriazione dell’area attraverso l’assunzione dell’obbligo di utilizzarla comunque per fini edificatori. Al riguardo, veniva fissato un criterio per il calcolo dell’indennizzo espropriativo per l’ aree urbane commisurato al valore agricolo medio dell’area geografica considerata. La legge, inoltre, ampliava la fascia dei aventi diritto all’accesso all’abitazione: lavoratori che occupavano abitazioni improprie, malsane e fatiscenti da demolire, soggetti che abitavano in zone colpite da calamità naturali, studenti, lavoratori, immigrati, persone bisognose riunite in cooperative. Quanto al riordino delle funzioni, la legge trasformava gli IACP da enti pubblici economici in enti pubblici non economici, procedendo con l’incorporazione del GESCAL e dell’INCIS e riordinava le

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obiettivi: coinvolgere maggiormente gli enti territoriali (attribuendo alle Regioni funzioni di

programmazione locale e ai Comuni funzioni relative all’assegnazione degli alloggi45); rinnovare i fondi

stanziati dalle precedenti normative46; realizzare un piano decennale per l’edilizia residenziale47; operare

interventi di recupero del patrimonio esistente48 e di alienazione del patrimonio49. Sono poi seguite, più

di recente, politiche incentrate sulla realizzazione del “Piano casa”, previsto dal d.l. n. 112 del 200850 e

definitivamente approvato con il d.l. n. 47 del 201451. Il “Piano casa” è finalizzato all’incremento del

patrimonio immobiliare ad uso abitativo mediante l’offerta di abitazioni residenziali, da realizzare con il

coinvolgimento di capitali pubblici e privati e con l’alienazione del patrimonio immobiliare di edilizia

residenziale52, attraverso la costruzione di nuove abitazioni e/o la valorizzazione di quelle esistenti,

destinate prioritariamente alle categorie sociali svantaggiate (giovani coppie a basso reddito, nuclei

familiari a basso reddito, studenti fuori sede, soggetti preposti a procedure di rilascio, immigrati regolari

a basso reddito residenti da almeno dieci anni o da almeno cinque anni nella stessa Regione53). Il

funzioni centrali, come si è visto, attorno ad un Comitato per l’edilizia residenziale (CER), che operava presso il Ministero dei lavori pubblici, con funzioni di programmazione e finanziamenti degli interventi e quelle periferiche in capo agli IACP. Anche alle Regioni era attribuito un importante ruolo, in quanto partecipavano alla programmazione nazionale e avevano poteri di programmazione regionale e di controllo nella realizzazione degli interventi. Il sistema introdotto dalla l. n. 865 del 1971, in merito all’edilizia residenziale pubblica, era destinata a rimanere sostanzialmente immutato nel successivi vent’anni, non avendo avuto significative innovazioni fino agli anni Novanta; anni in cui viene meno l’idea di politiche caratterizzate da una forte programmazione e da ingenti finanziamenti in questo settore. 45 D.lgs. 24 luglio 1977, n. 616. 46 L. 8 agosto 1977, n. 513. 47 L. 5 agosto 1978, n. 457, la quale prevedeva il finanziamento di un nuovo piano decennale di edilizia residenziale volto al finanziamento di interventi diretti alla costruzione di abitazioni e al recupero del patrimonio edilizio, nonché l'acquisizione e l'urbanizzazione di aree destinate agli insediamenti residenziali mediante sovvenzioni, agevolazioni e convenzioni con soggetti privati. 48 L. 17 febbraio 1992, n. 179. 49 L. 24 dicembre 1993, n. 560, modificata dalla l. n. 136 del 1999 ― tuttora vigente ― la quale ha come obiettivo la vendita degli immobili direttamente ai conduttori, vincolando la maggior parte del ricavato a nuove costruzioni o comunque all’individuazione di nuove aree da destinare all’edilizia residenziale. In questo modo si vogliono realizzare due obiettivi: permettere l’accesso alla proprietà degli immobili, da parte dei conduttori, e consentire un’offerta abitativa con un minore impatto sulle finanze statali e regionali. 50 D.l. 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 2008). Si veda, sull’argomento, P. URBANI, L’edilizia residenziale pubblica tra Stato e autonomie locali, in Istituzioni del federalismo, n. 3-4/2010, p. 258 ss., il quale mette in luce gli aspetti innovativi e le criticità del Piano nazionale di edilizia abitativa di cui alla legge n. 133 del 2008. 51 D.l. 28 marzo 2014, n. 47, recante “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 80 del 2014. Sull’argomento, si veda, nel dettaglio, A. DONATI, Piano casa 2014, Tutte le novità dopo la conversione del D.L. 47/2014, Rimini, 2014. 52 L’art. 13 ha previsto una disciplina di semplificazione delle procedure di alienazione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale, previste dalla l. n. 560 del 1993, mediante accordi con le Regioni e gli enti locali in sede di Conferenza unificata. 53 Sul diritto all’abitazione degli stranieri come strumento di integrazione, si vedano tra gli altri: F. SCUTO, Il diritto sociale alla salute, all’istruzione e all’abitazione degli stranieri «irregolari»: livelli di tutela, in Rassegna parlamentare, n. 2/2008, p. 381 ss.; ID., I diritti fondamentali della persona quale limite al contrasto dell’immigrazione irregolare, Milano, 2012,

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contributo pubblico alla costruzione degli alloggi non è più soltanto economico, ma, nell’ottica di un

partenariato pubblico-privato, si realizza attraverso una serie di attività di: promozione di investimenti

privati; programmazione e realizzazione degli interventi basati sullo scambio edificatorio

pubblico/privati; attivazione di procedure di evidenza pubblica finalizzate alla selezione dei gestori dei

fondi immobiliari54; determinazione delle caratteristiche dell’intervento edilizio; concessione di diritti di

superficie, di aree edificabili o di fabbricati, a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato, in

favore di promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo; riduzione dell’imposizione

fiscale e/o degli oneri di costruzione in favore di soggetti privati coinvolti nell’offerta di alloggi. Il

“Piano Casa”, inoltre, prevede un innovativo programma integrato di promozione di edilizia

residenziale che persegue le seguenti finalità: coniugare l’intervento edilizio con la realizzazione di

servizi e infrastrutture; migliorare l’integrazione sociale e la convivenza umana; garantire un’elevata

qualità delle abitazioni sia di quelle di nuova costruzione che di quelle ristrutturate; rendere l’offerta di

alloggi maggiormente flessibile, in grado di rispondere in tempi rapidi ad un aumento della domanda di

abitazioni; assicurare la sostenibilità non solo economica ma anche sociale delle politiche abitative55;

rendere più equo il meccanismo di distribuzione degli alloggi.

4.2. Le politiche abitative regionali

Le Regioni, come si è in parte detto, hanno assunto, soprattutto a seguito della riforma del Titolo V,

parte seconda, della Costituzione del 2001, un importante ruolo nell’elaborare politiche abitative. In

sp. pp. 303-307; M. MEO, Il diritto all’abitazione degli stranieri quale presupposto per un’effettiva integrazione, in F. RIMOLI (a cura di), Immigrazione e interazione. Dalla prospettiva globale alle realtà locali, vol. I, Napoli, 2014, p. 415 ss.; F. PALLANTE, Gli stranieri e il diritto all’abitazione, in Costituzionalismo.it, n. 3/2016, p. 135 ss. Sull’argomento, si vedano, inoltre: P. BONETTI — L. MELICA, L’accesso all’alloggio, in B. NASCIMBENE (a cura di), Diritto degli stranieri, Padova 2004, pp. 1017 ss.; C. CORSI, Il diritto all’abitazione è ancora un diritto costituzionalmente garantito anche agli stranieri?, in Diritto immigrazione e cittadinanza, nn. 3/4, 2008, pp. 141 ss.; M. GOLINELLI, “La casa è il mio mondo”. I migranti e la questione abitativa, in Questione giustizia, n. 1/2008, p. 136 ss.; F. CORVAJA, Libera circolazione dei cittadini e requisito di residenza regionale per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, in Le Regioni, n. 3/2008, p. 611 ss.; ID., L’accesso dello straniero extracomunitario all’edilizia residenziale pubblica, in Diritto immigrazione cittadinanza, n. 3/2009, pp. 89 ss., L. DE GREGORIS, Provvedimenti amministrativi discriminatori e tutela delle pretese abitative degli immigrati extracomunitari, in Giustizia-amministrativa.it, 2011, p. 6 ss.; A. CIERVO, Il diritto all’abitazione dei migranti, in L. RONCHETTI (a cura di), I diritti di cittadinanza dei migranti. Il ruolo delle Regioni, Milano 2012, p. 285 ss. 54 Fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento dell’offerta abitativa, ovvero alla promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’edilizia residenziale (art. 11, comma 3). 55 In generale, sul tema della sostenibilità del welfare si vedano le riflessioni di E. ROSSI, La sostenibilità del welfare al tempo della crisi. Una proposta, in Dir. soc., n. 1/2014, p. 1 ss. Sulla garanzia dei diritti sociali ai non cittadini, si veda, B. PEZZINI, Una questione che interroga l'uguaglianza: i diritti sociali del non–cittadino, in AA.VV., Lo statuto costituzionale del non-cittadino, Atti del XXIV Convegno annuale A.I.C., Cagliari 16-17 ottobre 2009, Napoli, 2010, p. 178 ss. Sul rapporto tra diritti sociali e diritto all’abitazione, P. CHIARELLA, Il diritto alla casa: un bene per altri beni, in Tigor: rivista di scienze della comunicazione, n. 2/2010, p. 140 ss.

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proposito, va ricordato che la Corte costituzionale, successivamente a tale riforma, ha individuato tre

livelli normativi in materia dell'edilizia residenziale pubblica: il primo, rientrante nella competenza

legislativa esclusiva dello Stato56, riguarda “la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a

soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti”; il secondo, rientrante nella materia “governo del

territorio” di legislazione concorrente57, attiene alla “programmazione degli insediamenti di edilizia

residenziale pubblica”; il terzo, rientrante nella competenza residuale delle Regioni58, riguarda “la

gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica” sul territorio regionale59. Le

Regioni, pertanto, hanno un ruolo importante nella tutela del diritto all’abitazione, nel quadro di una

tutela multilivello. Mentre lo Stato è tenuto a garantire i livelli essenziali delle prestazioni connesse al

fabbisogno abitativo, le Regioni sono chiamate a disciplinare ulteriori forme di garanzia del diritto

all’abitazione che tengano conto delle effettive esigenze delle diverse realtà territoriali. Ed invero, talune

Regioni hanno recentemente adottato politiche abitative maggiormente innovative, rispetto a quelle

statali, cercando di far fronte in maniera più adeguata ai cambiamenti territoriali, sociali ed economici60.

Alcune Regioni ― quali Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta,

Lombardia e Sardegna ― hanno disciplinato in maniera organica, in un unico testo legislativo, i vari

aspetti dell’edilizia residenziale pubblica o sociale, prevedendo normative molto dettagliate; normative

che si muovono nella direzione di garantire il diritto alla casa, ovvero il soddisfacimento del bisogno

abitativo. In questo contesto, sono state disciplinate varie forme di intervento regionale, anche

attraverso il coinvolgimento di soggetti privati, e previste talora nuove politiche abitative, dirette a

soddisfare anche nuovi bisogni61. Politiche abitative hanno come obiettivi principali: l’incremento e la

56 Ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. 57 Ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost. 58 In base all'art. 117, quarto comma, Cost. 59 Sentt. nn. 486 del 2005, 94 del 2007 e 121 del 2010. Sull’argomento, si vedano, P. VIPIANA, La tutela del diritto all’abitazione a livello regionale, cit., p. 8 ss., la quale esamina la disciplina contenuta negli statuti e nelle leggi regionali volta a tutelare in diritto all’abitazione. Sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di edilizia residenziale pubblica, si vedano: V. VALENTI, L'edilizia residenziale pubblica tra livelli essenziali delle prestazioni e sussidiarietà. Osservazioni alla sentenza della Corte Costituzionale, n. 166 del 2008, in federalismi.it, n. 4/2009, p. 11 ss , F. BILANCIA, Brevi osservazioni sul diritto all’abitazione, cit., p. 238 ss. 60 Per un esame delle politiche abitative adottate dalle Regioni si vedano: V. VALENTI, Il diritto alla casa nelle politiche regionali, in E. BALBONI (a cura di), La tutela multilivello dei diritti sociali, II, Napoli, 2008, p. 609 ss.; P. VIPIANA, La tutela del diritto all’abitazione a livello regionale, op. cit. Per un esame delle leggi regioni in materia di abitazione, in particolare volte a tutelare le famiglie, si veda F. FURLAN, L’accesso all’abitazione e le agevolazioni per le famiglie nella normativa regionale, in P. BONETTI (a cura di), La famiglia e la casa, I, Il diritto alla casa, Piacenza, 2007, p. 243 ss.; 61 La l.r. Emilia-Romagna 8 agosto 2001, n. 24 (“Disciplina generale dell'intervento pubblico nel settore abitativo”, così come modificata dalla l.r. 13 dicembre 2013, n. 249), che disciplina il sistema di edilizia residenziale sociale, costituito dall'insieme dei servizi abitativi finalizzati al soddisfacimento delle esigenze primarie e, in particolare: alla programmazione regionale degli interventi pubblici di edilizia residenziale sociale, compresi quelli di edilizia residenziale pubblica; alla definizione del regime giuridico e delle modalità di gestione del patrimonio di alloggi di edilizia residenziale pubblica; al riordino istituzionale ed organizzativo del sistema

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riqualificazione del patrimonio pubblico degli alloggi62; il recupero del patrimonio edilizio esistente63;

l’ampliamento dell'offerta di abitazioni in locazione a canone ridotto, rispetto ai valori di mercato64;

l’agevolazione per l’acquisto della prima casa65; il sostegno finanziario ai ceti meno abbienti per

consentire loro un accesso al mercato delle abitazioni in locazione66; la definizione di nuovi criteri per

l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, talora definendoli in maniera molto

dettagliata67. Alcune leggi regionali hanno, talora, previsto politiche dirette a soddisfare il bisogno

regionale dell'edilizia residenziale pubblica; la l.r. Umbria 28 novembre 2003, n. 23 (“Norme di riordino in materia di edilizia residenziale sociale”, recentemente modificata dalla l.r. 7 giugno 2017, n. 6) che prevede una serie di politiche abitative; la l.r. Marche 16 dicembre 2005, n. 36 (“Riordino del sistema regionale delle politiche abitative”, successivamente modificata con l.r. 14 ottobre 2013, n. 32) che disciplina, in particolare: “a) la programmazione regionale degli interventi pubblici per le politiche abitative anche attraverso l'istituzione di un fondo unico regionale e la compartecipazione a piani e programmi statali e comunitari; b) l'utilizzo e la gestione del patrimonio di Edilizia residenziale pubblica (ERP) sovvenzionata; c) il riordino degli Istituti autonomi per le case popolari” (art. 1); la l.r. Liguria 3 dicembre 2007, n. 38 del 2007 (“Organizzazione dell’intervento regionale nel settore abitativo”, così come modificata dalla l.r. 6 giugno 2017 n. 13) che ha come obiettivo la promozione del sistema di edilizia residenziale sociale, da realizzare con il coinvolgimento anche di soggetti privati; la l.r. Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3 (“Norme in materia di edilizia sociale” disciplina il sistema dell'intervento pubblico nel settore dell'edilizia sociale attraverso: “a) l'individuazione delle modalità di assegnazione degli alloggi e di calcolo del relativo canone di locazione; b) l'ordinamento degli enti operanti in materia; c) la definizione dei criteri per l'alienazione degli alloggi”; la l.r. Valle d'Aosta 13 febbraio 2013, n. 3 (“Disposizioni in materia di politiche abitative”, successivamente modificata con l.r. 21 luglio 2016 n. 13, che ha abrogato la precedente l.r. 26 ottobre 2007, n. 28 (“Disposizioni di riordino in materia di edilizia residenziale”) che prevede la promozione di una serie di interventi coordinati volti a soddisfacimento del bisogno abitativo; la l.r. Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (“Disciplina regionale dei servizi abitativi”) che definisce il sistema regionale dei servizi abitativi come un sistema unitario di offerta abitativa, costituito dall'insieme degli alloggi sociali diretti a soddisfare il fabbisogno abitativo primario e ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonché di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio; la l.r. Sardegna 23 settembre 2016, n. 22 (“Norme generali in materia di edilizia sociale e riforma dell'Azienda regionale per l'edilizia abitativa”, che abrogava la precedente l.r. 8 agosto 2006, n. 12 (“Norme generali in materia di edilizia residenziale pubblica e trasformazione degli Istituti autonomi per le case popolari (IACP) in Azienda regionale per l'edilizia abitativa (AREA)”) disciplina le funzioni in materia di edilizia sociale pubblica e privata e ricomprende nell’ambito dell’edilizia sociale: “le attività relative all'edilizia residenziale pubblica; gli interventi di edilizia sovvenzionata a totale carico del soggetto pubblico volti ad aumentare la disponibilità di alloggi destinati alle fasce sociali più deboli e tutte le forme di "alloggio sociale" inteso quale unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente” (art. 1). 62 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Marche n. 36 del 2005; l.r. Valle d’Aosta n. 3 del 2013; l.r. Sardegna n. 22 del 2016. 63 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Valle d’Aosta n. 3 del 2013; l.r. Sardegna n. 22 del 2016. 64 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Marche n. 36 del 2005; l.r. Liguria n. 38 del 2007; l.r. Lombardia n. 16 del 2016. 65 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Marche n. 36 del 2005; l.r. Valle d’Aosta n. 3 del 2013. 66 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Marche n. 36 del 2005; l.r. Valle d’Aosta n. 3 del 2013; l.r. Lombardia n. 16 del 2016; 67 Art. 1, l.r. Piemonte n. 3 del 2010 e l.r. Liguria 29 giugno 2004, n. 10 (“Norme per l'assegnazione e la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica”, successivamente modificata con l.r. 6 giugno 2017 n. 13). La legge del Piemonte prevede i seguenti requisiti per conseguire l'assegnazione di un alloggio di edilizia sociale: “a) essere residente o prestare attività lavorativa da almeno tre anni nel comune che emette il bando di concorso o in uno dei comuni del medesimo ambito territoriale di cui all’articolo 5, comma 2. I Comuni hanno facoltà, in sede di bando, di incrementare tale requisito fino ad un massimo di ulteriori due anni; b) non essere titolare di diritti

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abitativo, oltre che delle famiglie meno abbienti, di nuovi soggetti e, più nello specifico, di nuove

categorie sociali68. In tal senso, appare significativa la l.r. Liguria n. 38 del 2007 che si pone come

obiettivo la garanzia del diritto all’abitazione adeguata a soggetti che appartengono a diverse aree sociali

di disagio (area della marginalità sociale; area del disagio grave; area del disagio diffuso, area della

difficoltà) attraverso la realizzazione di interventi diversi. Sempre la Regione Ligura69, inoltre, ha

previsto nuovi criteri per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica permettendo la

partecipazione ai bandi a nuovi soggetti che prima ne erano esclusi (gli anziani, i portatori di handicap,

le famiglie con malati terminali a carico, le giovani coppie, i genitori separati, le persone sole con figli e

nuclei familiari in condizioni abitative improprie)70.

esclusivi di proprietà o di altri diritti reali esclusivi di godimento su alloggio di categoria catastale A1, A2, A7, A8, A9 e A10 ubicato nel territorio regionale; c) non essere titolare di diritti esclusivi di proprietà o di altri diritti reali esclusivi di godimento su alloggio di categoria catastale A3, A4, A5 e A6 ubicato nel territorio regionale di superficie utile massima superiore a: 1) 40 metri quadri per nucleo richiedente composto da una o due persone; 2) 60 metri quadri per nucleo richiedente composto da tre o quattro persone; 3) 80 metri quadri per nucleo richiedente composto da cinque o sei persone; 4) 100 metri quadri per nucleo richiedente composto da sette o più persone (5); d) non avere avuto una precedente assegnazione in proprietà o con patto di futura vendita di alloggio realizzato con contributo pubblico o finanziamento agevolato concesso in qualunque forma dallo Stato, dalla Regione, dagli enti territoriali o da altri enti pubblici, sempre che l'alloggio non sia inutilizzabile o perito senza dare luogo al risarcimento del danno; e) non essere alcun componente del nucleo richiedente assegnatario di alloggio di edilizia sociale nel territorio regionale; f) non avere ceduto in tutto o in parte, fuori dai casi previsti dalla legge, l'alloggio eventualmente assegnato in precedenza in locazione; g) non essere occupante senza titolo di un alloggio di edilizia sociale; h) non essere stato dichiarato decaduto dall'assegnazione dell'alloggio a seguito di morosità, salvo che il debito conseguente a morosità sia stato estinto prima della presentazione della domanda; i) essere in possesso di un indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109 (“Definizioni di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, a norma dell'articolo 59, comma 51, della legge 27 dicembre 1997, n. 449”), non superiore al limite stabilito con il regolamento di cui all'articolo 19, comma 2 (art. 1)”. 68 La l.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001 prevede che le politiche abitative della Regione e degli enti locali siano dirette: a rispondere al fabbisogno abitativo delle famiglie meno abbienti e a quello di particolari categorie sociali; la l.r. Umbria n. 23 del 2003 si prefigge l’obiettivo di “risolvere, anche con interventi straordinari, gravi ed imprevedibili emergenze abitative presenti nei Comuni od espresse da particolari categorie sociali”; l.r. Marche n. 36 del 2005 è finalizzata a promuovere politiche abitative dirette, tra l’altro, “ rispondere meglio a particolari categorie sociali”; la l.r. Valle d’Aosta si popone di risolvere “anche con interventi straordinari, gravi e imprevedibili emergenze abitative presenti sul territorio regionale o espresse da particolari categorie sociali” (art. 1); la l.r. Lombardia n. 16 del 2016 si pone come obiettivo la riduzione del disagio abitativo “dei nuclei familiari, nonché di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio”. 69 Con l.r. 29 giugno 2004, n. 10 (“Norme per l'assegnazione e la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, successivamente modificata con l.r. 6 giugno 2017, n. 13). 70 Oltre agli italiani che vivono in un alloggio di edilizia pubblica che, per gravi motivi di salute o per motivi di lavoro, si spostano in Comuni vicini, purchè nello stesso bacino, coloro che risiedono da più anni in Liguria. La normativa prevede, tuttavia, tra i principali requisiti per l’accesso agli alloggi: per gli stranieri il possesso della residenza da 10 anni sul territorio nazionale; per tutti da 5 anni nel bacino di utenza del Comune che emana il bando; assenza di condanne penali passate in giudicato ad eccezione di coloro che hanno concluso un percorso di riabilitazione (art. 5).

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Per altro verso, poi, alcune leggi regionali hanno promosso politiche abitative dirette ad integrarsi con

altre politiche pubbliche, soprattutto urbanistiche e ambientali71, o con quelle sociali e per il lavoro, per

l’immigrazione e per il diritto allo studio72.

Altre leggi regionali prevedono interventi organici per la costruzione di abitazioni e infrastrutture e

l’erogazione di servizi73 o la realizzazione di soluzioni abitative caratterizzate da elevati standard di

accessibilità e dotate di verde e servizi74. Diverse leggi regionali, inoltre, promuovono nuove finalità che

riguardano l’esigenza di garantire anche una certa qualità delle abitazioni, attraverso l’introduzione del

concetto di un’edilizia sostenibile. In questo contesto, sono previsti: interventi di recupero del

patrimonio edilizio, ai fini di adeguarlo ai requisiti di risparmio energetico, di sicurezza sismica e

accessibilità75; forme di sperimentazioni finalizzate, in particolare, alla sostenibilità ambientale, con

l'introduzione di tecniche bioclimatiche ecologiche e di bioedilizia76; l'utilizzo di tecniche, materiali e

forme di gestione orientati alla tutela dell'ambiente e della salute e all'efficienza e al risparmio

energetico77; la diffusione di soluzioni di architettura ecocompatibile e di risparmio energetico78;

interventi edilizi che perseguono obiettivi di qualità e di vivibilità dell'ambiente interno ed esterno

all'abitazione79.

Altre Regioni, invece, hanno adottato leggi settoriali volte a realizzare i seguenti obiettivi: recuperare il

patrimonio edilizio esistente80; riordinare gli enti di edilizia residenziale pubblica81; sostenere l’attività

edilizia e migliorare il patrimonio edilizio e residenziale82; incrementare il patrimonio di edilizia

residenziale pubblica, in alcuni casi anche attraverso i beni confiscati alla criminalità organizzata83;

71 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Marche n. 36 del 2005; l.r. Valle d’Aosta n. 3 del 2013; l.r. Sardegna n. 22 del 2016. 72 Art. 1, comma 3, l.r. Marche n. 36 del 2005. 73 L.r. Umbria n. 23 del 2003. 74 L.r. Sardegna n. 22 del 2016. 75 L.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001; l.r. Umbria n. 23 del 2003. 76 L.r. Marche n. 36 del 2005. 77 L.r. Sardegna n. 22 del 2016. 78 L.r. Umbria n. 23 del 2003; l.r. Valle d'Aosta n. 3 del 2013. 79 L.r. Valle d'Aosta n. 3 del 2013. 80 L.r. Abruzzo 1 agosto 2017, n. 40; l.r. Lazio 18 luglio 2017, n. 7; l.r. Molise7 luglio 2006, n. 17 (“Norme di riordino in materia di edilizia residenziale pubblica”, successivamnete modificta con l.r. 6 maggio 2014, n. 14); ll.rr. Sicilia 10 luglio2015, n. 13 (“Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici”) e 3 gennaio 2012, n. 1 (“Riqualificazione urbanistica con interventi di edilizia sociale convenzionata. Misure urgenti per lo sviluppo economico”); l.r. Toscana 8 maggio 2014, n. 24. 81 L.r. Abruzzo 1 agosto 2017, n. 40. 82 L.r. Calabria 27 dicembre 2016, n. 46; l.r. Molise 14 aprile 2015, n. 7; l.r. Toscana 22 gennaio 2014, n. 5. 83 È questo il caso della l.r. Campania 12 febbraio 2018, n. 3. Volte a incrementare il patrimonio di edilizia residenziale pubblica e al recupero patrimonio edilizio è anche la l.r. Molise 7 luglio 2006, n. 17 (“Norme di riordino in materia di edilizia residenziale pubblica”).

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disciplinare l’esercizio delle funzioni di edilizia residenziale pubblica da parte di diversi soggetti84. Si

tratta, in questi casi, di leggi che contengono misure tampone per cercare di far fronte al disagio

abitativo non affrontando, invece, la problematica nella sua globalità.

Significativo, poi, è il caso della Regione Toscana: quest’ultima, sebbene non abbia previsto una legge

organica in materia di edilizia residenziale ha, comunque — attraverso diversi provvedimenti volti a far

fronte al disagio abitativo sul territorio ― intrapreso iniziative, basate sul coinvolgimento dei privati,

finalizzate ad ampliare l'offerta di abitazioni in affitto (ed in parte anche in vendita). Si tratta soprattutto

di abitazioni in locazione per il medio/lungo periodo a costi adeguati alla capacità economica di

famiglie che non sono in grado di accedere al libero mercato. In particolare, tra le misure previste,

alcune hanno lo scopo di definire politiche abitative, sostenibili economicamente, maggiormente

integrate con le politiche pubbliche locali e con i programmi comunali che riguardano l’edilizia sociale,

la riqualificazione e trasformazione urbana, nonché la realizzazione di infrastrutture strategiche per

l’offerta di servizi ai cittadini.

5. Le politiche abitative italiane nella prospettiva del cd. social housing

Una volta esaminate le forme attraverso le quali il legislatore, statale e regionale, ha cercato di tutelare il

diritto all’abitazione, diventa stimolante considerare gli aspetti peculiari delle recenti politiche abitative,

al fine di stabilire se queste ultime si inseriscono o meno nell’ottica del cd. social housing, concetto

sviluppato a livello europeo e introdotto in numerosi Stati membri.

Nel contesto europeo, ci si riferisce al social housing per indicare un insieme di politiche dagli aspetti

particolarmente innovativi85. Il primo aspetto consiste nell’introduzione di nuovi modelli di governance sia

nel finanziamento sia nella gestione dei cd. “progetti abitativi”. In particolare, il social housing può essere

finanziato direttamente dalle istituzioni pubbliche o indirettamente, attraverso la concessione di terreni

a prezzi scontati o agevolazioni fiscali che riducano i costi di costruzione per privati. Il secondo aspetto

riguarda i beneficiari, che non sono più solo famiglie numerose in difficoltà economiche, ma quelle

persone, sempre più numerose, appartenenti alla cd. “classe media impoverita”; persone non riescono a

soddisfare il proprio bisogno abitativo, perché non hanno i requisiti reddituali per accedere all’edilizia

popolare ma nemmeno un reddito che gli permetta di ricorrere al mercato immobiliare. Il terzo aspetto

84 Come nel caso della recente l.r. Veneto 3 novembre 2017 n. 39 (“Norme in materia di edilizia residenziale pubblica”) la quale, oltre a definire le funzione della Regione, definisce “gli indirizzi e le modalità per l'esercizio delle funzioni di edilizia residenziale pubblica, da parte delle aziende territoriali di edilizia residenziale (ATER) e dei Comuni” (art. 1, comma 2, artt. 3, 6 e 7). 85 Mentre più restrittiva è la definizione fornita da Cecodhas Housing Europe, che descrive il social housing come “l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari”.

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attiene alla particolare attenzione per le nuove tipologie di bisogno che il social housing cerca di

soddisfare: bisogni che derivano da esigenze abitative temporanee (studenti fuori sede, lavoratori

temporanei, genitori separati, anziani soli, parenti di pazienti ricoverati in ospedale, homeless, ospiti di

strutture di accoglienza) e da nuove situazioni di marginalità, non più esclusivamente derivanti dalla

situazione economica (malattia, disabilità, ecc.). L’obiettivo è quello di far fronte a diverse esigenze

abitative che includono situazioni di emergenza abitativa assoluta, di alloggio temporaneo, di abitazione

stabile attraverso nuove tipologie di alloggio che tengano conto, tra l’altro, della sostenibilità ambientale

e del risparmio energetico. L’ultimo aspetto, il più innovativo del social housing, concerne la modalità di

soddisfare il bisogno abitativo: l’obiettivo delle iniziative di social housing sono volte a offrire un alloggio

di una certa qualità, in un contesto abitativo dignitoso. Iniziative che considerano le caratteristiche

urbane e sociali e gli elementi architettonici del contesto abitativo e, al contempo, garantiscono,

attraverso le politiche abitative, l’inclusione sociale, come previsto dalla normativa europea, mediante la

fornitura di servizi sul territorio e il rafforzamento del senso di appartenenza ad una comunità. In

questo contesto, si inseriscono quelle politiche volte alla realizzazione di abitazioni con spazi comuni e

servizi di vario tipo (servizi di orientamento, servizi socio-sanitari e di accompagnamento, assistenza

domiciliare, ecc.) e, talora, al coinvolgimento attivo dei residenti nella fase di realizzazione o di

manutenzione (autocostruzione, autorecupero, recupero e cohousing) delle abitazioni.

Al riguardo, è significativo come si sia assistito ad un progressivo interesse per il social housing da parte

delle istituzioni comunitarie86. La sessione plenaria del Parlamento europeo, ad esempio, in data 11

giugno 2013, ha approvato una relazione sul Social Housing nell’Unione Europea, in cui si affronta il

tema dell’edilizia sociale europea in relazione alle attuali problematiche delle diverse società e si

sottolinea come il diritto alla casa sia da considerare come diritto fondamentale per il raggiungimento

della giustizia e della coesione sociale in tutti gli Stati membri, con particolare riferimento a quei gruppi

di popolazione vulnerabile (donne con basso reddito, persone con disabilità, anziani, assistenti familiari,

migranti, ecc.) che vivono in alloggi inadeguati, in condizioni che influiscono negativamente sulla loro

salute e sicurezza.

Altrettanto indicativo è che siano state intraprese, con successo, alcune iniziative di social housing in

diversi Paesi europei, in cui si sono vieppiù sviluppate politiche di maggiore coesione sociale, volte a

fronteggiare le esigenze abitative che tengono conto, altresì, della domanda di servizi da parte dei

86 La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha preso in considerazione il social housing, seppure indirettamente, in una sentenza del 2015. Il caso riguardava la Gran Bretagna, dove veniva applicata un’aliquota Iva ridotta ai “materiali efficienti sotto il profilo energetico” da impiegare in immobili residenziali, non rispettando le regole europee in materia di Iva. I giudici, riconoscono la possibilità di applicare un’aliquota Iva ridotta per gli interventi di social housing che riguardano “cessioni, costruzioni, restauri e trasformazioni che si rapportino ad abitazioni o a servizi forniti nell’ambito della politica sociale”.

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soggetti coinvolti. Così, ad esempio, il social housing in Olanda è stato utilizzato per garantire il diritto

all’istruzione, all’assistenza e ai servizi sociali e in Gran Bretagna, oltre che per sviluppare comunità

integrate e sostenibili, anche per supportare l’erogazione di servizi quali istruzione e salute.

Si può quindi sostenere che, pur essendo consapevoli della difficoltà a fornire un’univoca definizione di

social housing — in quanto il concetto varia, in parte, da Stato a Stato ― vi sono alcuni elementi, sopra

esaminati, che lo caratterizzano. In questo quadro, dunque, appare interessante vagliare se le recenti

politiche abitative, introdotte nel nostro Paese, possono essere inserite nell’ambito del social housing.

A livello statale, si è iniziato a parlare di “Social Housing” e dell’opportunità di realizzare un modello per

l’edilizia parallelo rispetto alla tradizionale “edilizia residenziale pubblica” a seguito della normativa sul

“Piano casa2, contenuta nel d.l. n. 112 del 2008. Ciò alla luce del fatto che tale decreto, oltre a prevede

la realizzazione di “programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale”87, inserisce

le politiche abitative in una nuova prospettiva. Tale prospettiva è maggiormente incentrata sulla

collaborazione pubblico-privato88 che permette di trasferire, in una certa misura, il costo sostenuto per

la costruzione delle abitazioni sui soggetti privati (imprenditori, cooperative, gruppi immobiliari,

soggetti non profit, banche e fondazioni private) dando loro, in cambio, una serie di benefici e di

agevolazioni nella realizzazione di immobili (riduzione degli oneri di costruzione, agevolazioni e

detrazioni fiscali e la cessione di diritti edificatori)89. In questo contesto, dunque, le politiche abitative

più recenti sono volte a stimolare gli investimenti privati in aree che non sono caratterizzate da un

estremo disagio abitativo; ciò al fine di offrire alloggi, anche non in proprietà90, a diverse categorie

sociali, rispetto al passato.

Tuttavia, sebbene tale disciplina si ponga in un’ottica di Social Housing, sembrerebbe più corretto definire

le politiche ivi previste come un insieme di interventi di “edilizia residenziale sociale”91, che comprende

solo alcune delle caratteristiche del social housing, quali: il partenariato pubblico-privato nei progetti di

87 Art. 11, comma 3, d.l. n. 112 del 2008. 88 In tal senso, si veda, G. SCOTTI, Il diritto alla casa tra la Costituzione e le Corti, in www.forumcostituzionale.it, 2015, p. 28. 89 In tal senso, M. ALLENA, Il social housing: posizioni giuridiche soggettive e forme di tutela tra ordinamento nazionale ed europeo, cit., p. 177 ss. 90 Si è quindi sviluppato un approccio diverso alle politiche abitative, rispetto al passato — politiche che derivavano da una lettura congiunta degli artt. 42 e 47 della Costituzione dalla quale si ricavava un favor per la proprietà della casa ― che considera soddisfatti i bisogni abitativi anche attraverso politiche alternative a quelle dirette alla proprietà. 91 In tal senso, R. LUNGARELLA, Social housing: una definizione inglese di “edilizia residenziale pubblica”?, in Istituzioni del federalismo, n. 3-4/2010, p. 271 ss., il quale mette in evidenza la continuità di obiettivi perseguiti, di condizioni di fattibilità e soggetti coinvolti tra l’edilizia residenziale pubblica e l’edilizia residenziale sociale. In proposito, F. BILANCIA, Brevi osservazioni sul diritto all’abitazione, cit., p. 242 parla di “specifica declinazione del cd. social housing”. Si veda, sull’argomento, M. BRONZINI, Nuove forme dell’abitare. L’housing sociale in Italia, Roma, 2014; A. PISANESCHI, “Diritto all’abitazione” e housing sociale, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, III, Torino, 2016, p. 1799 ss.

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edilizia; la rilevanza della dimensione sociale degli interventi; l’intervento in contesti di disagio sociale

non estremo. Ciò che, invece, non sembra essere adeguatamente preso in considerazione, dalla

disciplina delle politiche abitative, è proprio l’elemento maggiormente innovativo del social housing, ossia

l’effettiva promozione di iniziative di coesione sociale — coesione imposta, come si è sottolineato,

dall’Unione europea ― da perseguire, principalmente, coniugando le diverse esigenze abitative con il

bisogno di servizi di determinate categorie di persone. Nel nostro Paese, pertanto, il concetto di social

housing sembra essere più restrittivo di quello che si è sviluppato in ambito europeo92 . Del resto, sembra

difficile assimilare il nostro concetto di “edilizia residenziale sociale” al social housing sviluppatosi in

Unione europea e sperimentato con successo in altri Paesi (soprattutto, come si è visto, in Gran

Bretagna).

Alcune Regioni, invece, hanno compiuto qualche passo avanti nel disciplinare nuove politiche

incentrate su interventi che presentano gli aspetti tipici del social housing. In alcuni leggi regionali, infatti,

vi è un approccio ampio alla nozione di edilizia residenziale sociale — tradizionalmente tripartizione in

edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata ― spingendosi in taluni casi a ricomprendere la

nozione anglosassone ed europea di social and affordable housing. Ciò è da considerare senz’altro positivo,

anche se, in realtà, andrebbe valutata, caso per caso, la concreta realizzazione di interventi abitativi.

Si può, pertanto, affermare, che il concetto di social housing in Italia non ha ancora trovato una piena

definizione. È pur vero che, in concreto, vi sono state alcune esperienze significative di social housing ma

sono state alquanto isolate e realizzate, per lo più, a livello regionale e locale. Si tratta, inoltre, di

iniziative eterogenee che hanno prodotto, a differenza di altri Stati membri dell’Unione europea (Paesi

Bassi, Austria, Danimarca, Regno Unito, Svezia, Francia e Finlandia)93, uno scarso impatto sulle

politiche abitative94.

92 Peraltro, il concetto di social housing introdotto dalla legislazione italiana è particolarmente restrittivo anche rispetto alla definizione che ne ha fornito l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato; essa ha definito l’housing sociale come una “modalità di intervento nella quale gli aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei contenuti sociali, affrendo una molteplicità di risposte per le diverse tipologie di bisogni, dove al contenuto sociale è prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla qualità dell’abitare” (cfr. Cons. Stato. ad. Plen. n. 7 del 2014). 93 I Paesi Bassi presentano il livello più alto di social housing (pari al 32%), segue l’Austria (con il 23%), la Danimarca (con il 19%), il Regno Unito e la Svezia (con il 18 %), la Francia (con il 17%) e la Finlandia (con il 16%). Dall’altro verso, poi, vi sono Paesi dove la percentuale di social housing è particolarmente bassa, dalla Germania (5%) fino alla Grecia (0%) (dati Cocodhas 2012). In proposito, si veda C. LODI RIZZINI, Le politiche di Social Housing in Unione europea: a che punto siamo?, in http://www.secondowelfare.it/terzo-settore/le-politiche-di-social-housing-in-unione-europea-a-che-punto-siamo.html, 7 gennaio 2013, p. 1 ss.. 94 Sulle esperienze di social housing nel nostro Paese, si veda: C. LODI RIZZINI, Le politiche di Social Housing in Unione europea: a che punto siamo?, op.cit., p. 17 ss.

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Da un lato, alcune Fondazioni hanno intrapreso iniziative, insieme ad enti pubblici e locali, finalizzate a

garantire il diritto all’abitazione a famiglie con redditi bassi, attraverso la creazione di un fondo

immobiliare etico diretto a finanziare il social housing95.

Dall’altro lato, si sono avute esperienze abitative diverse e innovative rispetto al passato: di cohousing, che

consistono in contesti abitativi costituiti da alloggi privati destinati alla coabitazione, avente un debole

impatto ambientale ed energetico, dalle dimensioni ridotte con ampi spazi condivisi destinati ai servizi

comuni, al fine di potenziare la coesione sociale tra i soggetti96; di “condomini solidali” basati su forme

di cooperazione tra soggetti che, pur abitando in alloggi separati, svolgono insieme una serie di attività

e, talora, forniscono servizi ai residenti del quartiere97; di “eco-villaggi”, il cui obiettivo è quello di vivere

in complessi abitativi collocati al di fuori del contesto urbano e che si ispirano all’ecologia e al rispetto

dell’ambiente (e in cui si può anche arrivare ad un’autosufficienza energetica). In alcuni casi, si sono

95 In Lombardia è stato sperimentato, a livello locale, il primo Fondo etico dedicato al social housing, il Fondo Immobiliare Lombardia, nato dalla collaborazione tra Regione Lombardia, Società Polaris Investment SGR Spa, Fondazione Housing Sociale (FHS) e Fondazione Cariplo, volto ad incrementare gli investimenti per la realizzazione di nuovi interventi di edilizia, al fine di fronteggiare il crescente disagio abitativo. A Torino, la Compagnia di San Paolo ha avviato, a partire dal 2006, il Programma Housing che ha realizzato, in collaborazione con i soggetti pubblici e privati del territorio, un fondo immobiliare etico per finanziare la costruzione o la ristrutturazione di edifici da affittare a canone moderato. Va segnalato, inoltre, il Fondo Parma Social House, fondo comune di investimento immobiliare chiuso, riservato a investitori qualificati (Comune di Parma, Fondazione Cariparma, Parma Social House Scarl, Coopfond-Legacoop, Regione Emilia Romagna), destinato all’investimento nel territorio della città di Parma e gestito da Polaris Investment Italia Sgr. La Regione Toscana ha altresì intrapreso iniziative immobiliari che comprendono la realizzazione di fondi immobiliari da destinare a finalità abitative. 96 Si veda, al riguardo, M. ZUCCHINI, Aspetti operativi: il cohousing dal punto di vista giuridico, in A. SAPIO (a cura di), Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, Roma, 2010, p. 211 ss. Significativi sono, ad esempio, due progetti del Comune di Torino: “Portierato solidale –coabitazioni solidali” e “Stesso piano – coabitazioni per giovani”. Il progetto “Portierato solidale” è volto a creare comunità di coabitazione per giovani volontari, i quali, in cambio di uno sconto del 90% sul costo dell’affitto degli alloggi messi a disposizione dal Comune, offrono ore di lavoro volontario finalizzato a sostenere le persone fragili e ad accompagnare ai servizi sociali o sanitari i più deboli. Il progetto “Stesso piano” è finalizzato a promuovere la formazione di gruppi di coabitazione tra giovani (il 50% lavoratori e per il resto studenti universitari), cofinanziata dalla Compagnia di San Paolo, e realizzati dall’associazione Y.L.D.A. (composta da giovani coabitanti) e dalla cooperativa sociale Tenda Servizi. Per i proprietari sono previsti incentivi a fondo perduto e un budget di garanzia in caso di morosità. Elementi caratterizzanti il progetto sono, inoltre: la previsione di momenti di socialità collettiva tra tutti i coabitanti o aspiranti tali e la disponibilità, da parte dei coabitanti, per attività di buon vicinato tra i condomini. 97 In quest’ottica, degno di nota è condominio solidale “A casa di zia Jessi”, a Torino, in via Romolo Gessi, area residenziale con un’alta percentuale di anziani e con una carenza di esercizi commerciali e servizi. L’edificio è stato ristrutturato dal Comune di Torino, con un contributo della Compagnia di San Paolo, e gestito dall’Agenzia Territoriale per la Casa (A.T.C.). Il condominio è composto da 30 bilocali, di dimensioni contenute, che accolgono anziani inseriti nell’edilizia popolare e ospiti temporanei (giovani single, coppie o genitori soli con figli minori). Il piano terreno è destinato a servizi e funzioni collettive: il “soggiorno comune” del condominio solidale, un ampio locale polivalente più una cucina comune ed un locale per il gioco dei bambini; “spazio anziani” aperto agli anziani del quartiere (con doccia assistita, lavanderia, pedicure e parrucchiera). La gestione del condominio solidale è stata affidata all’Associazione Gioventù Salesiana per il Territorio (AGS) e prevede la disponibilità di un educatore, di due famiglie volontarie che si occupano dei soggetti ospiti “fragili” e di alcuni volontari.

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concretamente implementate politiche volte a garantire un’abitazione adeguata e decorosa, attraverso

l’offerta di diverse tipologie di alloggi: residenze temporanee (che consistono in alloggi, individuali e

collettivi, per far fronte a situazioni di difficoltà temporanea di determinati soggetti, in un contesto di

maggiore inclusione sociale e di condivisione di servizi: es. pensioni e alberghi sociali, case di

accoglienza, micro comunità protette)98 e alloggi individuali destinati alla locazione permanente99. Non

mancano nemmeno esempi di politiche abitative che hanno particolarmente tenuto conto delle

politiche locali, in particolare riguardanti la riqualificazione urbana e una maggiore garanzia di servizi ai

cittadini, nonché della sostenibilità sia sociale che ambientale e della qualità dell’abitare100.

98 Un’innovativa struttura di social housing temporanea è rappresentata dal “Sharing Hotel Residence Torino”, avente la finalità di rispondere alle esigenze di ospitalità temporanea in città, a costi calmierati, con un’attenzione particolare alla sostenibilità ambientale e all’efficienza energetica. La struttura, situata nella periferia nord di Torino, offre 58 camere a uso hotel 3 stelle e 122 unità residenziali arredate. Una caratteristica della struttura è l’estrema flessibilità dell’offerta abitativa: vi è una Formula Housing, relativa alle camere con cucina per soggiorni di almeno 12 mesi; la Formula Campus, per soggiorni di minimo 6 mesi pensata per lo più per studenti, giovani professionisti e ricercatori; la Formula Residence, per soggiorni superiori a 14 notti; la Formula Hotel, per brevi soggiorni. Altra caratteristica è rappresentata dalla previsione di spazi comuni per rafforzare la socialità e la condivisione di servizi (poliambulatorio con servizi dentistici e di psicoterapia; sportello di orientamento al lavoro, Centro di Mediazione Culturale; sportello di consulenza legale; attività di microcredito; banca del tempo; attività a carattere socio-culturale; servizio di car sharing e bike sharing; esercizi commerciali (ristorante, sala bar, lavanderia automatica, biomarket); caffè letterario; sportello di ascolto con esperto psicologo; doposcuola per bambini delle elementari). Un significativo progetto è rappresentato anche dal progetto “Parma Social House”, finanziato attraverso il Fondo Parma Social House, volto a realizzare alloggi nella città di Parma destinati in gran parte alla vendita a prezzo convenzionato, e in parte minore all’affitto convenzionato con successiva possibilità di riscatto e all’affitto a canone sostenibile. Gli alloggi, caratterizzati da elevati standard di qualità e funzionalità, in un’ottica di sostenibilità ambientale, sono destinati alle categorie sociali “deboli”, quali giovani coppie, famiglie monogenitoriali, famiglie numerose, nuclei composti da almeno un anziano di età superiore ai 70 anni e studenti. Il progetto prevede servizi per i residenti (definiti “Servizi integrativi per l’abitare” (verde comune, lavanderia d’uso condominiale, sala ricreativa per incontri, laboratorio per il bricolage) e servizi per i residenti e per gli abitanti del quartiere, finalizzati potenziare una maggiore integrazione sociale (definiti “Servizi locali e urbani”): spazi ricreativi, atelier per giovani creativi, centri dedicati a bambini e genitori). 99 La Regione Piemonte, con delibera della Giunta n. 27-7346 del 5 novembre 2007, ha stabilito, al fine di diminuire il disagio e la vulnerabilità dei cittadini nella ricerca di un’abitazione adeguata e decorosa, delle linee guida per il social housing prevedendo, in particolare, due tipologie di alloggi. La prima tipologia riguarda residenze temporanee, a loro volta articolate in alloggi individuali e residenze collettive ― al fine di offrire una prima risposta alla perdita di stabilità dovuta a cambiamenti delle condizioni di lavoro e/o delle situazioni familiari, nonché alla rigidità dell’offerta immobiliare in locazione ― e alloggi per l’inclusione sociale (quali microcomunità protette o pensioni/alberghi sociali), per lavoratori precari, studenti, stagisti, persone sfrattate, parenti di malati in cura in strutture ospedaliere che hanno un reddito del nucleo familiare inferiore a certi parametri. La seconda tipologia riguarda, invece, residenze individuali destinate alla locazione permanente, al fine di far fronte all’esigenza di trovare un alloggio stabile a canoni inferiori a quelli del libero mercato (con eventuale futura possibilità di riscatto per quei cittadini che pur avendo redditi superiori al limite di permanenza nell’edilizia sovvenzionata, non riescono ad accedere al mercato della libera locazione o della proprietà). Successivamente, sulla base di tali linee guida, la Regione Piemonte ha proceduto alla selezione e alla realizzazione dei casi pilota. 100 In questo senso, come si è visto, si è mossa la Regione Toscana. La Regione Lombardia, insieme and ANCI Lombardia, Fondazione Housing Sociale e Fondazione Cariplo hanno promosso il social housing attraverso la partecipazione finanziaria e la realizzazione di progetti e interventi di carattere abitativo e sociale. In Lombardia, pertanto, si è cercato di offrire servizi abitativi in grado di coniugare finalità abitative e sociali, al fine di rispondere meglio ai bisogni diversificati del territorio e che si inserisce in un’ottica di sinergia tra soggetti

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Infine, nell’ambito del social housing, rientrano quegli interventi volti a sostenere l’accesso e il

mantenimento dell’abitazione in locazione, a canone calmierato o concordato, da parte di persone e

famiglie in condizioni di fragilità, attraverso la creazione di strutture (Agenzie sociali immobiliari) che

facilitano l’incontro tra domanda e offerta abitativa, all’interno del mercato immobiliare privato, e

garantiscono, al contempo, i proprietari contro il rischio di morosità, stimolandoli così ad affittare

alloggi che altrimenti rimarrebbero sfitti101.

pubblici e privati. Le finalità del social housing sono: garantire una pluralità di offerte abitative a canoni diversificati (moderato, convenzionato e sociale) per favorire l’accesso ai servizi abitativi e la sostenibilità dei costi di locazione; promuovere la crescita della comunità dei residenti attraverso l’intervento di operatori non profit in grado di coniugare gestione immobiliare e sociale; realizzare interventi di recupero e ristrutturazione di alloggi esistenti per renderli nuovamente disponibili in affitto in tutto il territorio lombardo. L’obiettivo principale è quello di realizzare alloggi di qualità a basso costo in un contesto in cui siano offerti adeguati servizi, al fine di creare le condizioni per sviluppare comunità maggiormente integrate e solidali che partecipano in modo attivo alla gestione degli stessi. In particolare, la Fondazione Housing Sociale, costituita dalla Fondazione Cariplo con la partecipazione della Regione Lombardia e dell'ANCI Lombardia, ha sviluppato soluzioni innovative e, al contempo, sostenibili per affrontare le esigenze abitative e sociali. La Fondazione, oltre ad occuparsi della pianificazione finanziaria, della progettazione e della gestione degli interventi di edilizia sociale, ha il compito di promuovere un maggiore coinvolgimento degli operatori non profit che si occupano della gestione non solo immobiliare ma anche dei servizi per i residenti dell’area e di sviluppare iniziative di residenzialità temporanea, attraverso, ad esempio l’Edilizia Universitaria Convenzionata. Nel Comune di Milano, il progetto “Figino, il borgo sostenibile” (situato nella periferia nord-ovest di Milano), volto ad affrontare bisogni abitativi, non solo attraverso la costruzione di alloggi, ma anche costruendo esercizi commerciali e offrendo servizi: spazi comuni destinati a servizi per i residenti (living room, sala brico, utensileria); servizi locali; living room per gli abitanti del quartiere; eco-club con orto didattico e allevamento di animali da cortile; area per il co-lavoro; assistenza sanitaria e centro medico. L’obiettivo principale è quello di realizzare un’inclusione di soggetti svantaggiati attraverso progetti che contribuiscono a rafforzare il senso di appartenenza e di identità “al Borgo” e i rapporti interpersonali. Gli interventi, inoltre, sono eco-compatibili e tengono conto dell’efficienza energetica e della tutela dell’ambiente. Il progetto è stato reso possibile attraverso un partenariato tra il Comune di Milano, la Fondazione Cariplo e la Fondazione Housing sociale. Il progetto è finanziato principalmente attraverso il Fondo Immobiliare Lombardia — comparto Uno (già “fondo abitare sociale 1”) – gestito da Polaris Investment Italia Sgr S.p.A. — avente come investitori, tra gli altri, Fondazione Cariplo, Regione Lombardia, Cassa depositi e prestiti, Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Milano, Unicredit, Assicurazioni Generali, Cassa Italiana Geometri, Prelios-agenzia immobiliare di Milano, Telecom Italia. Sempre a Milano è particolarmente rappresentativo il progetto del Villaggio Barona (realizzato tra il 2003 e il 2009): nato da convenzione tra il Comune di Milano e la Fondazione Cassoni, supportato dal contributo di Fondazione Cariplo e Banca Polare di Milano, e basata sul coinvolgimento attivo degli abitanti: nel Villaggio coesistono residenze sociali con affitto agevolato, erogazione di servizi alla persona (assistenza e accompagnamento sociale), pensionato, gestito da una cooperativa sociale, per studenti e soggetti deboli, servizi di foresteria/ostello. In questa esperienza coesistono, pertanto, le principali caratteristiche dell’housing sociale: il partenariato pubblico-privato-non profit dei progetti; la considerazione di soggetti che appartengono ad un’area di disagio sociale non estremo, che non possono accedere all’edilizia popolare e non sono però in grado di accedere al mercato immobiliare; la considerazione di nuove tipologie di bisogno, dall’emergenza abitativa, al bisogno di un alloggio temporaneo (studenti fuori sede, lavoratori temporanei, parenti di pazienti ricoverati in ospedale, ecc.) o stabile; la dimensione sociale degli interventi, al fine di garantire una connessione tra diritto all’abitazione e inclusione sociale: residenze con spazi comuni e servizi di vario tipo (servizi di orientamento, servizi socio-sanitari e di accompagnamento, assistenza domiciliare, ecc.); progetti abitativi che puntano sul coinvolgimento attivo dei residenti nella fase di realizzazione o di manutenzione (autocostruzione, autorecupero, recupero, cohousing, riqualificazione energetica); apertura di servizi forniti ai residenti e al vicinato. 101 Un significativo esempio, in tal senso, è offerto dall’Agenzia AISA (Agenzia di Intermediazione Sociale all’Abitare), nata nel 2004 dalla collaborazione fra Fondazione La Casa Onlus, Cooperative Sociali aderenti al

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Si tratta di iniziative interessanti che si sono sviluppate sul territorio ma che dovrebbero essere inserite

in un’azione statale volta a sostenere politiche abitative nella prospettiva del social housing. Politiche

finalizzate ad offrire alloggi dignitosi non più solo agli esclusi, ma a tutte le categorie che si trovano in

difficoltà, non solo economica, in un contesto urbanistico e sociale decoroso che garantisca una serie di

servizi e una maggiore inclusione sociale, nel quadro delle indicazioni che provengono, come si è visto,

dall’Unione europea. Andrebbero, pertanto, realizzati interventi maggiormente innovativi, in grado di

rispondere ad un nuovo e più diffuso bisogno abitativo, anche temporaneo102, che riguarda categorie

sociali diverse, rispetto al passato: categorie che non hanno i requisiti reddituali per accedere all’edilizia

residenziale pubblica ma che non sono nemmeno in grado di affittare o comprare casa sul libero

mercato immobiliare103.

Al riguardo, non si può fare a meno di sottolineare che le politiche finora adottate nel nostro Paese si

sono dimostrate inadeguate a soddisfare l’esigenza abitativa104. Soprattutto negli ultimi decenni,

nonostante l’adozione degli importanti provvedimenti legislativi, sopra esaminati, e la previsione del

“Piano casa”, avviato nel 2008, non vi sono stati interventi significativi; ciò anche a causa di un certo

disimpegno, sia politico che finanziario, da parte dello Stato e delle Regioni, nei confronti di un

crescente disagio abitativo105. Le risorse destinate agli interventi di edilizia pubblica (o sociale) sono state

sempre più esigue106 e a ciò ha contribuito una serie di fattori quali la crisi economico-finanziaria,

Consorzio Villaggio solidale e Camera di Commercio di Padova. L’obiettivo è di creare una rete integrata di agenzie che facilitino l’accesso alla casa, da parte di soggetti in situazione di disagio abitativo, attraverso una mediazione tra questi ultimi e i proprietari di immobili. L’AISA, oltre a fornire consulenza ai soggetti nella ricerca di un’abitazione, propone servizi innovativi: garanzie patrimoniali e accompagnamento sociale degli inquilini, attraverso un educatore che segue la locazione e si prende cura dell’immobile e del locatore; microprestiti; assicurazione sui rischi dell’immobile; indennizzo per morosità, garanzie per l’accesso al mutuo. In concreto, AISA ha attivato una rete integrata di agenzie in numerose province del Veneto (Padova, Verona, Rovigo, Venezia, Vicenza, Belluno e Treviso) e in Umbria (Perugia). 102 Causato da lavori a tempo determinato e che richiedono maggiori spostamenti rispetto al passato. 103 Si pensi, al riguardo: alle nuove forme di famiglie, monogenitoriali, senza figli, con un figlio (e non più “famiglie numerose”); alle famiglie a basso reddito; alle giovani coppie a basso reddito; agli anziani che vivono in condizioni di disagio sociale ed economico; ai lavoratori “atipici”; agli studenti fuori sede; agli immigranti regolari a basso reddito e agli sfrattati. 104 Un’indagine condotta da Nomisma per Federcasa nel gennaio del 2016 mette in evidenza come l’edilizia residenziale pubblica sia in grado di far fronte alle esigenze abitative di un terzo di quelle che avrebbero realmente necessità di un alloggio. 105 Si veda, al riguardo, G. SIRIANNI, Il disagio abitativo, in C. PINELLI (a cura di), Esclusione sociale. Politiche pubbliche e garanzie dei diritti, Bagno a Ripoli, 2012, p. 247 ss. Su tema, in generale, si veda M. RUOTOLO, Povertà e diritto, in Liber amicorum in onore di Augusto Cerri. Costituzionalismo e democrazia, Napoli, 2016, p. 873 ss. 106 In Italia la spesa pubblica per l’abitazione è agli ultimi posti circa l’1% mentre in Gran Bretagna, ad esempio, si aggira attorno al 5% e in Francia per il 2,9%. Inoltre, la percentuale di famiglie italiane (5,3% nel 2008) che vivono in alloggi a canone ridotto rispetto a quello di mercato sono inferiori rispetto alla media europea (circa 7%). Anche la quota di alloggi di edilizia sociale pubblica (4%) è inferiore sia alla media comunitaria (20%) sia si quella di altri Paesi (36% in Olanda e 22% in Gran Bretagna (dati Cittalia-Anci 2011).

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l’inserimento del principio del pareggio di bilancio in Costituzione107, come conseguenza dei vincoli di

bilancio europei108, e il taglio della spesa pubblica destinata ai servizi sociali. Di conseguenza, gli

obiettivi del “Piano Casa” sono rimasti in gran parte inattuati. Per altro verso, poi, le politiche

pubbliche in materia di edilizia pubblica (o sociale) non hanno adeguatamente tenuto conto dei nuovi

bisogni abitativi.

6. Il diritto di accesso all’alloggio e all’assistenza abitativa nel Pilastro europeo dei diritti

sociali

In questo complesso quadro, che definisce la tutela multilivello del diritto all’abitazione, si inserisce il

Pilastro europeo dei diritti sociali (d’ora innanzi PSDE) presentato dalla Commissione europea

nell’aprile 2017 e proclamato, congiuntamente dalla Commissione, dal Consiglio e dal Parlamento

europeo, al vertice sociale di Göteborg, nel novembre dello stesso anno. Si tratta di un Documento che

si basa su tre Capi principali ― riguardanti: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; condizioni

di lavoro eque; protezione e inclusione sociale — all’interno dei quali vengono specificati 20 principi o

diritti, finalizzati a sostenere il buon funzionamento e l'equità del mercato del lavoro e dei sistemi di

protezione sociale, garantendo i “livelli minimi di inclusione e coesione sociale”.

In termini generali, si può affermare che il PEDS costituisce un passo importante nella direzione di una

maggiore valorizzazione della dimensione sociale dei diritti dell’Europa. Esso, rivolgendosi in primis agli

Stati membri, dovrebbe rappresentare un quadro di riferimento per questi ultimi che dovrebbero

impegnarsi affinché determinati diritti sociali possano essere resi effettivamente esigibili. I diritti inclusi

nel PEDS, infatti, dovrebbero essere intesi come diritti che i soggetti possono far valere nei confronti

degli Stati membri. Pur non avendo il PEDS effetti giuridici vincolanti, esso dovrebbe spingere gli Stati

membri a chiedersi se le prestazioni sociali fornite ai cittadini siano effettivamente sufficienti a garantire

una vita dignitosa. Inoltre, appare significativo che nel Preambolo del testo del vertice sociale di

Göteborg sia stata ribadita l’importante funzione del PEDS, volta sia a riaffermare diritti sociali già

presenti nell’acquis comunitario sia a prevederne di nuovi. Gli Stati, quindi, dovrebbero dare attuazione,

attraverso la propria legislazione, ai principi del PEDS, offrendo ai cittadini diritti nuovi e più efficaci.

107 Art. 97, comma 1, e 81, comma 1, Cost. 108 Sul rapporto tra vincoli di bilancio e diritti sociali si veda, tra gli altri, D. CONTE, La nuova governace economica europea e la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio: il Parlamento nazionale tra partecipazione al funzionamento dell’Unione europea e spinte autonomiste, in A. PAPA (a cura di), Le Regioni nella multilevel governance europea. Sussidiarietà, partecipazione, prossimità, Torino, 2016, p. 239 ss. Sul pareggio di bilancio, in generale, si vedano: A. MORRONE, La “Costituzione finanziaria”. Un’introduzione, e T.G. GIUPPONI, L’equilibrio di bilancio in Italia, tra Stato costituzionale e integrazione europea, entrambi in A. MORRONE (a cura di), La Costituzione finanziaria. La decisione di bilancio dello Stato costituzionale europeo, Torino, 2015, pp. VII-XXI e p. 15 ss. Al riguardo, si veda, inoltre, B. CARAVITA DI TORITTO, Trasformazioni costituzionali nel federalizing process europeo, Napoli, 2012.

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Anche la Commissione dovrebbe proporre provvedimenti legislativi concreti, volti a dare attuazione al

PEDS e, più in generale, l’UE dovrebbe ricorrere a strumenti di soft law per implementare,

concretamente, il Pilastro e dei suoi principi. In altri termini, all’UE è attribuito un importante ruolo di

sostegno nei confronti degli Stati membri109. Gli eventuali effetti positivi del PEDS dipenderanno, però,

dalla volontà politica di implementarlo concretamente, attraverso l’adozione di determinate misure che,

nel rispetto dell’autonomia degli Stati Membri, nel definire le proprie politiche sociali, e degli equilibri

finanziari degli stessi, rispondano all’esigenza di rilanciare la dimensione sociale dell’UE. Per altro verso,

poi, non va dimenticato che la proclamazione del Pilastro potrebbe avere effetti sulla giurisprudenza

della Corte di giustizia dell’UE: quest’ultima, nel pronunciare le proprie sentenze, potrebbe tener conto

dei principi in esso contenuti. Al riguardo, non va trascurato che lo stesso riferimento alla Carta

europea dei diritti fondamentali, nel Preambolo della proclamazione di Göteborg, porta ad auspicare

che anche il PEDS possa essere successivamente incorporato nei Trattati, comportando, come

conseguenza, la possibilità, per i soggetti interessati, di ricorrere in giudizio contro gli Stati membri che

non hanno rispettato i principi in esso sanciti.

Ma quel che più interessa, ai nostri fini, è che alcuni diritti indicati dal PEDS, che potrebbero essere

concretamente esigibili, sono fortemente legati al diritto dell’abitazione: l’inclusione sociale delle

persone; il diritto a servizi adeguati ad un costo ragionevole per le persone non autosufficienti e

l'accesso a servizi essenziali (dall'acqua ed energia elettrica fino ai servizi digitali).

Più precisamente, poi, il Pilastro europeo, nel prevedere principi e diritti fondamentali, in ambito sociale

si riferisce, al punto 19, agli “Alloggi e assistenza per i senzatetto”. In questo punto è previsto che: “a.

Le persone in stato di bisogno hanno accesso ad alloggi sociali o all’assistenza abitativa di qualità. b. Le

persone vulnerabili hanno diritto a un’assistenza e a una protezione adeguate contro lo sgombero

forzato. c. Ai senzatetto sono forniti alloggi e servizi adeguati al fine di promuoverne l’inclusione

sociale”.

Le previsioni del PEDS assumono una particolare rilevanza rispetto al diritto di alloggio. Per la prima

volta, tale diritto viene considerato in maniera globale nell’ambito europeo. La Carta dei diritti

fondamentali stabilisce il diritto ad una abitazione adeguata, ad un costo accessibile, per le persone che

non dispongano di risorse sufficienti, considerando soprattutto la possibilità di fornire un sostegno

all’“alloggio sociale”. Il principio 19, lettera a), invece, prevede due modalità volte ad assicurare il diritto

all’alloggio: la fornitura di “alloggi sociali” o la garanzia ad un'assistenza abitativa, che può comprendere

un’ampia gamma di iniziative quali, ad esempio, la previsione di indennità di alloggio, il sostegno al

109 In tal senso, si cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo. Monitorare l'attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali — COM(2018) 130 definitivo.

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reddito, le detrazioni fiscali e le garanzie locative. Inoltre, l'assistenza abitativa non è prevista solo per

coloro che non dispongono di risorse finanziarie sufficienti ― come disposto dalla Carta dei diritti —

ma per chiunque abbia particolari bisogni, in relazione a situazioni di disabilità, disgregazione del nucleo

familiare, ecc. Nello specifico, poi, il principio 19, lettera b), nell’ottica di rafforzare la sicurezza

abitativa, prevede un’assistenza alle persone vulnerabili in caso di sgombero. Pur non specificando il

testo quali sono le categorie di persone vulnerabili, appare ragionevole farvi rientrare sia i locatari che i

proprietari che, a seguito di un’espropriazione, sono a rischio di sgombero. Quanto alle modalità

attraverso le quali garantire assistenza ai locatari, si possono ipotizzare forme di assistenza legale e

mediazione a costi accessibili e, per altro verso, misure di tutela nell’accesso al debito, per limitare il

rischio di rimanere senza abitazione. Ciò, però, tenendo conto dei legittimi interessi dei proprietari

dell’alloggio. Da ultimo, il principio 19, lettera c), del PEDS stabilisce l'accesso universale ad alloggi e

servizi adeguati a coloro che sono senza fissa dimora, allo scopo di promuovere la loro reintegrazione

sociale. Da un lato, quindi, è previsto che l’alloggio sia adeguato e idoneo dal punto di vista della

sicurezza abitativa, dell’accessibilità, anche economica, del contesto urbano e socio-culturale. Dall’altro

lato, è contemplata la promozione di servizi ai senza tetto, tra i quali, proprio al fine di realizzare una

loro inclusione sociale, dovrebbero rientrare una serie indefinita di servizi volti al reinserimento.

Una volta analizzate le previsioni del PEDS in merito al diritto di accesso all’alloggio e all’assistenza

abitativa, occorre interrogarsi sulle possibili conseguenze delle stesse sulla concreta tutela del diritto

all’abitazione nel nostro Paese.

Innanzitutto, va sottolineato che, mentre nell’ordinamento costituzionale italiano ― come si è visto —

la pretesa ad avere un’abitazione è stata intesa come un interesse semplice o come diritto sociale, il

PEDS si inserisce in un contesto europeo che — come si è altresì evidenziato ― riconosce il diritto

all’abitazione come diritto fondamentale, caratterizzato da un “contenuto essenziale”, implicante la

pretesa di un individuo a vedere soddisfatta al propria esigenza abitativa qualora si trovi in una

situazione di non poterla soddisfare.

L’Italia, pertanto, potrebbe essere chiamata, ai sensi del punto 19, ad adottare misure in materia di

alloggi; misure a livello nazionale, regionale o locale che possono consistere sia nella fornitura diretta di

“alloggi sociali” sia nella garanzia ad un'assistenza abitativa — ad esempio con contributi in denaro ―

per sostenere un accesso universale all'alloggio, ossia per le persone che si trovano in “qualsiasi”

situazione di difficoltà. Ciò dovrebbe implicare un impegno ad adottare nuove politiche abitative che

offrano ai soggetti “deboli” — comprese le persone vulnerabili in caso di sgombero e i senza fissa

dimora ― accesso ad alloggi di qualità e, al contempo, garantiscano assistenza e servizi adeguati a

promuovere, tra l’altro, l’inclusione sociale. Si potrebbe, quindi, avere una maggiore tutela del diritto

all’abitazione nel nostro Paese, come conseguenza anche del fatto che l’Europa potrà potenziare le

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misure di soft law per implementare tale diritto. L’UE potrebbe adottare, ad esempio, linee guida per la

realizzazione di modelli di social housing che potenzino il partenariato pubblico-privato e garantiscano

una serie di servizi, nonché per la formazione di soggetti chiamati non solo a realizzare gli alloggi ma

anche, in un secondo momento, a gestirli.

Inoltre, potrebbero essere rafforzate le iniziative, da parte degli Stati, volte a scambiare informazioni e

migliori prassi e a promuovere approcci innovativi al tema del diritto all’abitazione. L’Italia, dunque,

potrebbe essere chiamata a un maggiore impegno nella lotta all’esclusione sociale, soprattutto attraverso

politiche abitative ispirate al social housing, affinché il diritto all’abitazione possa essere reso

concretamente esigibile.

7. Considerazioni conclusive sui possibili sviluppi del diritto all’abitazione

Ciò che si vuole ulteriormente sottolineare, infine, è che un’effettiva implementazione dei principi del

PEDS dovrebb portare il nostro Paese a rafforzare, alla luce anche del principio di sussidiarietà

orizzontale, il social housing, inteso come un insieme di iniziative volte ad offrire a soggetti in difficoltà,

non solo economica, alloggi adeguati (garantendo un certo livello di qualità dell’abitare secondo

parametri di salubrità, risparmio energetico, ecc.) o un’assistenza abitativa, sotto forma, ad esempio, di

contributi in denaro, al fine di sostenere un accesso universale al diritto all’abitazione. Ciò in un

contesto che garantisca assistenza (home care) e servizi adeguati a promuovere una maggiore inclusione

sociale come previsto dalla normativa europea e, da ultimo, proprio dal PEDS. Appare evidente, al

riguardo, che il punto 19 del PEDS debba essere letto in maniera coordinata con le altre previsioni in

esso contenute e, soprattutto con il punto 20 (“Accesso ai servizi essenziali”) che prevede: “Ogni

persona ha il diritto di accedere a servizi essenziali di qualità, compresi l'acqua, i servizi igienico-sanitari,

l'energia, i trasporti, i servizi finanziari e le comunicazioni digitali. Per le persone in stato di bisogno è

disponibile un sostegno per l'accesso a tali servizi.” In altri termini, il PEDS potrebbe portare ad un

cambio di prospettiva nella tutela del diritto all’abitazione nel nostro Paese; prospettiva che implica una

tutela non più limitata solamente, come in passato, agli “esclusi” ma a garantire a tutti i soggetti che si

trovano in una situazione di fragilità, non solo economica (single, divorziati, anziani, immigrati, ecc.)

l’accesso ad un’abitazione dignitosa e, al contempo, assicurare adeguati livelli di assistenza e di servizi.

Certamente il social housing non potrà essere in grado di risolvere i problemi abitativi del nostro paese ma

potrebbe comportare, nell’ottica europea della tutela del diritto all’abitazione, una serie di vantaggi quali:

una riduzione della disuguaglianza abitativa; un miglioramento dell’offerta di alloggi e della qualità delle

costruzioni; una maggiore integrazione sociale e sostenibilità sociale, coniugata a quella economica.

In questo contesto, tuttavia, non si possono trascurare le principali problematiche che potrebbero

impedire la concreta realizzazione del principio del PEDS relativo all’accesso all’alloggio.

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Il primo ostacolo potrebbe essere costituito dalla mancanza di fondi da impiegare nelle politiche

abitative. Al riguardo, l’attuazione di tale principio dovrebbe essere sostenuta dai fondi dell'Unione, fra

cui il Fondo europeo per gli investimenti strategici a favore degli investimenti negli alloggi sociali, il

Fondo europeo di sviluppo regionale per le infrastrutture edilizie, il Fondo sociale europeo per i servizi

sociali e il Fondo di aiuti europei agli indigenti per l'assistenza alimentare ai senzatetto. Inoltre, l’UE

dovrebbe continuare a finanziare, come già fa, le principali organizzazioni della società civile che

operano nel campo della promozione dell'inclusione sociale e della riduzione della povertà, fra cui

quelle che si occupano, più nello specifico, della lotta al fenomeno dei senzatetto. Ciò nonostante,

sembra innegabile che vi sia un problema della sostenibilità finanziaria delle iniziative di politiche

abitative in un contesto, peraltro, dove si è acuito il disagio abitativo. Al riguardo, peraltro, il PEDS

prevede che le misure per la sua realizzazione non possono mettere in discussione gli equilibri finanziari

degli Stati membri. Ciò rende difficile reperire le risorse necessarie ad implementare la garanzia del

diritto all’abitazione anche alla luce della perdurante politica di austerità europea. In questo contesto,

dunque, anche nel nostro Paese si renderà necessario implementare il partenariato pubblico-privato

(con soggetti provenienti dal Terzo settore e dal mondo delle Fondazioni). Del resto, si è visto che nei

casi di sperimentazione di social housing a livello locale, è stata determinante la sinergia tra diversi enti:

Regione, Comune, Fondazioni, associazioni di imprese di costruzioni, cooperative sociali per la

realizzazione e gestione degli immobili, società di investimento, banche e assicurazioni. Sinergia che ha

talora portato alcuni Comuni a realizzare alloggi a costo zero. La partnership tra attori pubblici, privati e

del Terzo Settore ha quindi portato a buoni risultati a livello locale. In quest’ottica, dovrebbe essere

superato il modello dell’edilizia residenziale pubblica, in cui lo Stato gestiva quasi esclusivamente la

realizzazione e l’offerta degli alloggi, e passare ad un modello maggiormente innovativo in cui l’ente

pubblico si fa promotore della realizzazione delle abitazioni, affidando a investitori privati il

finanziamento della costruzione degli immobili e al Terzo settore la gestione degli aspetti sociali.

Il secondo ostacolo alla concreta realizzazione del principio del PEDS, relativo all’accesso all’alloggio,

potrebbe derivare, invece, dalla mancanza di volontà di dargli un’adeguata attuazione e di reperire

sufficienti risorse economiche per farvi fronte. Appare evidente, al riguardo, che dovrà essere compiuto

uno sforzo da parte degli Stati membri, delle istituzioni dell'UE, delle parti sociali e di altri soggetti

interessati ad implementare, con risorse adeguate, il PEDS e dei suoi principi, al fine di rafforzare la

dimensione sociale dell’UE, pur preservando l’autonomia degli Stati membri e i loro equilibri di

bilancio. Altrimenti il rischio è che il Pilastro rimanga lettera morta, anche per quanto riguarda il diritto

all’abitazione.

Al momento, comunque, appare estremamente difficile valutare se l’UE, in un’ottica di tutela

multilivello dei diritti, riuscirà, concretamente, a realizzare i principi del PEDS.

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La dimensione sociale della libertà di movimento

di Giovanni Cavaggion

Sommario: 1. Libertà di movimento e diritti sociali. 2. Le diseguaglianze della cittadinanza europea. 3. L’“abuso” della libertà di movimento come “valvola di sfogo” delle diseguaglianze interne alla cittadinanza europea. 4. L’abuso della libertà di movimento nel fenomeno della Brexit. 5. Perequazione e livelli essenziali delle prestazioni: soluzioni italiane per un problema europeo? 6. Conclusioni.

1. Libertà di movimento e diritti sociali

Il tema dell’utilizzo in chiave sociale della libertà di movimento, che si pone come trasversale rispetto

alle modalità di fruizione dei diversi diritti sociali riconosciuti in una prospettiva multilivello, oltre che

come tema fondamentale alla base dell’introduzione, nel 2017, del Pilastro sociale europeo, non può

essere affrontato senza prima svolgere alcune brevi considerazioni sulla natura e sullo stato della

cittadinanza europea e sulle libertà ad essa collegate. La cittadinanza europea, introdotta nel 1992 con il

Trattato di Maastricht e ora disciplinata dall’articolo 20 TFUE1, è come noto una cittadinanza in

qualche modo “atipica”: vero è che essa garantisce il diritto di elettorato attivo e passivo, per le elezioni

europee e quelle locali, nello Stato membro dell’Unione di residenza (oltre a una serie ulteriore di diritti,

come ad esempio la tutela delle autorità diplomatiche e consolari degli altri Stati membri ove quelle del

proprio Stato non siano presenti o la possibilità di presentate petizioni al Parlamento europeo) ma vero

è altresì che si tratta di una cittadinanza che si affianca a quelle nazionali e che è da esse in qualche

modo dipendente2.

1 Così l’articolo 20: “È istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce. I cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l’altro: a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato; c) il diritto di godere, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato; d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua. Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi”. 2 Si vedano sul tema: C. PINELLI, Cittadinanza europea, in Enciclopedia del diritto, annali I, Milano, Giuffrè, 2007; P. BILANCIA, The dynamics of the EU integration and the impact on the national constitutional law, Milano, Giuffrè, 2012, 5 ss.; A. CELOTTO, La cittadinanza europea, in Il diritto dell’Unione europea, n. 2/2005, pp. 379 ss.; E. CASTORINA, Diritto alla non-discriminazione e cittadinanza europea: uno sguardo al cammino costituente dell’Unione, in Rassegna parlamentare,

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Il diritto probabilmente più rilevante (nella misura in cui esso si avvicina maggiormente alle

caratteristiche di un diritto costituzionale individuale fondamentale3) che la cittadinanza europea

attribuisce ai cittadini dell’Unione è la libertà di movimento, e dunque il diritto di circolare e di

soggiornare liberamente nel territorio dei singoli Stati membri. Il diritto in esame faceva parte delle

quattro libertà economiche fondamentali originariamente garantite dai Trattati delle Comunità europee,

a fianco delle libertà di circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi4. Lo stretto collegamento tra la

libertà di movimento delle persone e la tutela dei diritti sociali è immediatamente evidente se si

considera che il diritto dell’Unione ha, sin dalla nascita del mercato comune, fatto discendere

dall’esercizio legittimo della libertà di circolazione il godimento dei diritti sociali in condizione di

eguaglianza con i cittadini dello Stato membro verso il quale tale libertà viene esercitata, attraverso un

complesso meccanismo di coordinamento dei sistemi di welfare che è stato però deliberatamente

calibrato in modo tale da ridurre al minimo le invasioni della sovranità nazionale5.

La parificazione nel godimento dei diritti sociali era riconosciuta, inizialmente, ai soli cittadini

economicamente attivi, a corollario e completamento della libertà di stabilimento a fini lavorativi (e

dunque avendo in mente, prevalentemente, l’accesso del lavoratore ai diritti di tipo previdenziale e

pensionistico, strumentali rispetto allo svolgimento dell’attività lavorativa). Del resto, il progetto di

integrazione disegnato con il Trattato di Roma era un progetto di integrazione prevalentemente

economica, al punto che il sistema delle Comunità europee delle origini è stato descritto come un

sistema duale, caratterizzato da un lato dall’integrazione sempre più stretta del mercato comune, e

dall’altro dalla separazione funzionale dei sistemi di welfare dei singoli Stati membri6. In questo senso, si

n. 4/2000, pp. 773 ss.; S. BARTOLE, La cittadinanza e l’identità europea, in Quaderni costituzionali, n. 1/2000, pp. 39 ss.; S. CASSESE, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n. 5/1996, pp. 869 ss.; V. LIPPOLIS, La cittadinanza europea, in Il Mulino, 1994, 21 ss. 3 Osserva F. BILANCIA, Il “referendum” del Regno Unito sulla “Brexit”: la libertà di circolazione dei cittadini UE nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, in Istituzioni del federalismo, n. speciale 1/2016, p. 74, che il diritto in esame si configurava più come strumento per la costruzione del mercato comune che non come diritto individuale di cittadinanza. 4 Evidenzia come le quattro libertà fondamentali fossero state ritenute sufficienti a prevenire distorsioni in seno al mercato comune G. GRASSO, Il costituzionalismo della crisi. Uno studio sui limiti del potere e sulla sua legittimazione al tempo della globalizzazione, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012. 5 Si veda S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, in German law journal, vol. 15, n. 5/2014, pp. 940 ss. 6 Si veda in questo senso M. FERRERA, The boundaries of welfare. European integration and the new spatial politics of social protection, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 111 ss. Parla di una “frigidità sociale” dei padri fondatori G. F. MANCINI, Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento delle Comunità europee, in AA. VV., Il lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano, Padova, 1988, CEDAM, p. 26. In senso contrario si veda tuttavia R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, in questo numero, p. 7, che evidenzia come i Paesi fondatori dell’Unione fossero accomunati da una stessa visione dello Stato sociale.

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comprende perché la dottrina abbia parlato di ordinamenti “separati ma coordinati”, ormai da tempo in

attesa di un credibile processo di integrazione politica e sociale7.

Originariamente libertà prevalentemente economica quindi, concepita ai fini di consentire la

circolazione dei lavoratori nell’ambito del mercato comune8 e pertanto limitata a categorie ben

delimitate di individui, la libertà di movimento è gradualmente divenuta sempre più una libertà delle

persone9. L’espansione della platea delle situazioni giuridiche tutelate dal diritto in esame è dovuta, in

via preminente, all’opera ermeneutica della Corte di Giustizia, che con le sue pronunce ha

progressivamente legato in modo sempre più saldo cittadinanza europea e libertà di movimento,

riconducendo la libertà di movimento al cuore stesso della cittadinanza europea10. L’opera evolutiva

della Corte è stata compiuta in primo luogo attraverso una graduale estensione delle maglie della

definizione di “lavoratore”, abbandonando le interpretazioni restrittive desumibili dalla lettera dei

Trattati, sino ad includervi sostanzialmente ogni attività suscettibile di un, seppur minimo,

apprezzamento economico. In questo senso, la definizione si è allargata fino a ricomprendere i

lavoratori stagionali, i lavoratori part-time, o finanche individui in cerca di occupazione11.

In parallelo, la Corte di Giustizia ha altresì chiarito la portata del legame tra libertà di movimento e

godimento dei diritti sociali, estendendo progressivamente la parificazione oltre al limite dei soli

cittadini “economicamente attivi”, in una prospettiva di integrazione sociale che ha trasceso quindi la

dimensione dei soli individui che contribuiscono economicamente al mercato comune12. La Corte ha

pertanto affermato un’idea di cittadinanza sociale fondata sul principio per cui gli Stati membri sono

tenuti a un minimo di solidarietà finanziaria nei confronti dei cittadini di altri Paesi dell’Unione, a patto

che esista un livello effettivo, per quanto minimo, di integrazione sociale di questi ultimi

nell’ordinamento ospitante13. Si è fatta quindi strada, in dottrina, una ricostruzione della cittadinanza

europea come “statuto di integrazione sociale”, come motore dell’integrazione non più soltanto

7 Si veda A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europa, in Quaderni costituzionali, n. 1/2014, p. 99. 8 Si veda sul tema S. GIUBBONI, Libertà di mercato e cittadinanza sociale europea, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4/2007, pp. 13 ss. 9 Si veda in questo senso F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, in European law journal, vol. 17, n. 6/2011, p. 732. 10 Secondo il ruolo storicamente espansivo della portata del diritto europeo assunto dalla Corte. Si veda P. BILANCIA, The dynamics of the EU integration and the impact on the national constitutional law, cit., pp. 5 ss. 11 Si veda S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, cit., p. 941. 12 Cfr., per tutti: C-85/96, Martinez Sala; C-413/99, Baumbast e R; C-34/09, Zambrano; C-140/12, Brey. Sul tema e per un’approfondita analisi della giurisprudenza in esame, si veda F. STRUMIA, Citizenship and free movement: European and American features of a judicial formula for increased comity, in Columbia journal of European law, vol. 12, n. 3/2006, pp. 716 ss. 13 Cfr. C-184/99, Grzelczyk.

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economica tra gli Stati membri14. In questa prospettiva il diritto di accesso ai diritti sociali si è affrancato

dalla subordinazione rispetto al contributo dell’individuo al mercato comune, divenendo meno

“ancillare” rispetto alla libertà di stabilimento e per converso maggiormente provvisto di una sua

autonomia ontologica.

Emblematico dell’opera espansiva della Corte è il caso del diritto alla salute: la giurisprudenza della

Corte di Lussemburgo (facendo leva su di un’interpretazione “consumeristica” dello statuto del

paziente) ha infatti superato il criterio dell’autorizzazione preventiva dello Stato di residenza,

originariamente previsto dal diritto derivato, affermando la libertà del cittadino europeo di scegliere in

quale Stato membro ricevere una prestazione sanitaria, per poi essere rimborsato dallo Stato membro di

origine15. Gli orientamenti giurisprudenziali in esame sono, in ultimo, stati recepiti dalla direttiva

2011/24/UE “concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria

transfrontaliera” che ha di fatto posto le basi per un’integrazione crescente dei diversi sistemi sanitari

nazionali16.

La Corte di Giustizia sembra avere avvicinato, con la sua giurisprudenza, la nozione di libertà di

movimento a quella più tipica del costituzionalismo nazionale, che tradizionalmente riconosce un

diritto fondamentale individuale alla libera circolazione atto a incidere sull’idea stessa di sovranità,

contrapposto alla discrezionalità dello Stato nel regolamentare le modalità degli spostamenti sul proprio

territorio17. Detta libertà deve necessariamente ricomprendere la libertà di scegliere il luogo dove

lavorare (in attuazione del principio lavorista di cui agli articoli 1 e 4 Cost.)18: e tuttavia una libertà

siffatta implica altresì il riconoscimento del pieno godimento dei diritti sociali nel luogo in cui si sceglie

di soggiornare, in quanto il diniego di tali diritti si frapporrebbe come limite oggettivo a un suo effettivo

dispiegarsi, “ancorando” il cittadino al suo luogo di origine. In questo senso, l’articolo 120 Cost. vieta

alle Regioni di adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle

persone e delle cose tra le Regioni e di limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del

14 Si veda L. AZOULAI, La citoyenneté européenne, un statut d’intégration sociale, in AA. VV., Chemins d’Europe: melanges en l’honneur de Jean Paul Jacque, Paris, Dalloz, 2010. 15 Cfr.: C-158/96, Kohll; C-120/95, Decker; C-372/04, Watts. Per un’ampia ricognizione della materia si veda A. E. PARRINO, La consumerizzazione del paziente e la direttiva 2011/24 sull’assistenza sanitaria transfrontaliera, in Europa e diritto privato, n. 1/2017, 329 ss. 16 Si veda sul tema A. PAPA, La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, in questo numero, pp. 13 ss., che evidenzia peraltro come il rimborso dei costi sostenuti avvenga nel limite massimo del costo che sarebbe stato sostenuto avvalendosi del sistema sanitario del proprio Stato di origine. 17 Si vedano in questo senso: G. DEMURO, Art. 16, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, UTET, 2006; L. FERRAJOLI, La libertà di circolazione e soggiorno. Per chi?, in M. BOVERO (a cura di), Quale libertà. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 179. 18 Si veda in questo senso M. MAZZIOTTI DI CELSO, Circolazione e soggiorno (libertà di), in Enciclopedia del diritto, VII, Milano, Giuffrè, 1960.

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territorio nazionale, e la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità con tale disposizione di

trattamenti differenziati tra cittadini fondati irragionevolmente sul legame con il territorio19.

La giurisprudenza evolutiva della Corte di Giustizia sembra essere stata recepita nel diritto primario

dell’Unione e basti pensare che, se i Trattati fino al Trattato di Maastricht menzionavano soltanto la

libera circolazione dei lavoratori, a partire dal Trattato di Nizza sono state scisse in due separati articoli

la libera circolazione dei lavoratori, disciplinata dall’articolo 45 TFUE20, e la libera circolazione dei cittadini,

disciplinata dall’articolo 21 TFUE21. Quest’ultimo articolo tuttavia, nel riconoscere a ogni cittadino

dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fa

espressamente salve le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati e dal diritto derivato. Le

restrizioni in esame non sono peraltro recepite, significativamente, dall’articolo 45 della Carta dei Diritti

Fondamentali dell’Unione europea22.

Si è osservato pertanto che il rapporto di proporzionalità diretta tra allargamento della libertà di

circolazione dei lavoratori ed espansione degli istituti di protezione sociale (attraverso diritto primario,

19 Cfr. Corte Cost. n. 13/1961. Si veda sul tema C. MAINARDIS, Art. 120, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit. La Consulta ha inoltre, come noto, più volte escluso la rilevanza della cittadinanza quale criterio per l’accesso alle prestazioni necessarie per un pieno godimento dei diritti sociali sul territorio nazionale. Al contrario, può divenire criterio di distinzione la residenza, laddove tale criterio appaia ragionevolmente correlato alle finalità della norma e la prestazione non sia prestazione essenziale. Si vedano sulla giurisprudenza in materia F. SCUTO, Le Regioni e l’accesso ai servizi sociali degli stranieri regolarmente soggiornanti e dei cittadini dell’Unione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2013; F. BIONDI DAL MONTE, I diritti sociali degli stranieri. Politiche di appartenenza e condizioni di esclusione nello Stato sociale, in E. CAVASINO, G. SCALA, G. VERDE (a cura di), I diritti sociali dal riconoscimento alla garanzia: il ruolo della giurisprudenza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013. 20 Così l’articolo 45: “La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”. 21 Così l’articolo 21: “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. Quando un’azione dell’Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1. Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo”. 22 Così l’articolo 45: “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. La libertà di circolazione e di soggiorno può essere accordata, conformemente al trattato che istituisce la Comunità europea, ai cittadini dei paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato membro”.

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diritto secondario e giurisprudenza della Corte di Giustizia) ha storicamente rappresentato un “punto

cardine” del processo di integrazione europea, specie verso una prospettiva sociale23.

Attualmente, le restrizioni legittime al godimento dei diritti sociali negli Stati membri diversi da quello

di provenienza trovano la loro disciplina nella direttiva 2004/38/CE (“relativa al diritto dei cittadini

dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati

membri”). La direttiva recepisce fedelmente il disposto del diritto primario, riconoscendo a ogni

cittadino dell’Unione europea (e alla sua famiglia) il diritto di spostarsi in uno Stato membro e di

stabilirvisi per fini di lavoro o di ricerca di lavoro, potendo ivi godere dello stesso trattamento che detto

Stato riserva ai propri cittadini. Esistono alcune limitazioni (nella sostanza piuttosto blande) che

conferiscono agli Stati membri la facoltà di restringere la libertà di movimento e conseguentemente

l’accesso al welfare. In particolare, la condizione che viene posta per il soggiorno inferiore a tre mesi,

così come per quello superiore a tre mesi, è che il cittadino non divenga un onere eccessivo per il

sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante24.

Gli Stati membri, da parte loro, hanno storicamente interpretato in modo estensivo la libertà di

movimento e stabilimento (come testimoniato dal fatto che il numero di espulsioni in danno di cittadini

di altri Stati membri è da sempre risibile) e in modo restrittivo l’accesso ai diritti sociali dei cittadini di

altri Paesi dell’Unione (tentando di limitarlo, per il tramite di misure normative o di prassi

amministrative e per quanto consentito dal diritto europeo, ai soli cittadini economicamente attivi) così

creando una situazione che è stata efficacemente definita dalla dottrina come di “entrate a vostro

rischio e pericolo”25, nella quale cioè l’accesso all’ordinamento è quasi interamente liberalizzato, ma una

volta stabilitivisi non è garantito che ogni individuo potrà avere accesso al sistema del welfare.

La ricostruzione sinora operata, per quanto sommaria, consente di apprezzare come la libertà di

movimento così come concepita nel diritto europeo sia cosa ben diversa dalla libertà di circolazione e

soggiorno di cui all’articolo 16 Cost. Se infatti quest’ultima libertà è caratterizzata da una natura

“spaziale e residenziale” del collegamento tra individuo e territorio26, le limitazioni a cui la libertà di

movimento europea è soggetta non consentono di ritenere sussistente un simile collegamento al livello

sovranazionale (o quantomeno impongono di ritenerlo sussistente in misura attenuata). Trattasi di

23 In questo senso R. BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, cit., p. 6. 24 Sulla direttiva in esame si veda F. BIONDI DAL MONTE, Cittadinanza europea, libera circolazione e parità di trattamento. Il diritto all’assistenza sociale dei cittadini dell’Unione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4/2012, pp. 37 ss. 25 Secondo l’espressione coniata da A. HEINDLMAIER, M. BLAUBERGER, Enter at your own risk: free movement of EU citizens in practice, in West European politics, vol. 40, n. 6/2017. 26 Secondo la definizione di S. BARILE, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 171.

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differenze di non poco conto, che come si cercherà di argomentare presentano ricadute sull’assetto del

processo di integrazione europea a tutti i suoi livelli.

2. Le diseguaglianze della cittadinanza europea

Alla luce di quanto esposto, si deve rilevare come la natura della cittadinanza europea, nonostante

alcuni passi avanti (specie giurisprudenziali) sia ancora prevalentemente quella di una cittadinanza

economica (secondo la celebre definizione del cittadino europeo come “homo oeconomicus”) e

transnazionale, nella misura in cui essa attribuisce all’individuo diritti esigibili dai singoli Stati membri, e

non invece dall’Unione27. Vero è anche, però, che in un’ottica di futura integrazione non solo

economica e politica, ma soprattutto sociale, una cittadinanza di questo tipo non potrà che essere

ripensata, ai fini di completare la transizione verso una vera cittadinanza sovranazionale, passando dalla

nozione di “homo oeconomicus” a una nozione di cittadino compatibile con l’idea di persona alla base delle

teorie dei diritti costituzionali fondamentali28.

Uno dei motivi principali per cui la cittadinanza europea non può, allo stato, essere considerata una

cittadinanza in senso stretto, è l’incompatibilità della sua configurazione con l’assunto per cui

cittadinanza significa, evidentemente, eguaglianza nei diritti tra i cittadini e, a partire dal Secondo

Dopoguerra, con l’avvento del cosiddetto “welfare State”, cittadinanza, almeno in Europa, significa

inoltre cittadinanza sociale29. Il collegamento tra mobilità dei cittadini e cittadinanza sociale è infatti un

elemento costante della forma di Stato composito, attraverso il quale viene garantita la coesione sociale

e l’unitarietà della cittadinanza in un dato ordinamento30.

In questa prospettiva, sembra impossibile parlare di cittadinanza sociale o di eguaglianza nei diritti tra i

cittadini europei e sembra essere fallita la visione sottesa alla nascita del mercato comune, fondata sul

convincimento per cui la crescente integrazione economica avrebbe ingenerato un processo di

convergenza graduale dei sistemi di welfare degli Stati membri verso livelli di tutela sostanzialmente

equivalenti, senza che fosse necessario un intervento sopranazionale in materia sociale31. L’assenza di un

adeguato riconoscimento e di una effettiva tutela dei diritti sociali è stata pertanto definita dalla dottrina

come la “cartina di tornasole” dell’imperfezione del processo di integrazione europea32, al punto che si è

27 Si veda C. PINELLI, Cittadinanza europea, cit. 28 Si veda in questo senso J. LUTHER, Europa constituenda, studi di diritto, politica e cultura costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007. 29 Si veda S. GAMBINO, I diritti sociali fra Costituzioni nazionali e costituzionalismo europeo, in Federalismi.it, n. 24/2012. 30 Si veda S. MABELLINI, Mobilità sanitaria e unitarietà della cittadinanza sociale nell’esperienza degli Stati composti: un cammino avviato anche nell’Unione europea?, in Rassegna parlamentare, n. 2/2017, pp. 351 ss. 31 Sul tema si veda S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, cit., p. 940. 32 Si veda A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Rivista AIC, n. 4/2011, p. 2.

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parlato di un “deficit sociale” 33 che andrebbe ad affiancarsi al cosiddetto (e meglio noto) “deficit

democratico” dell’Unione34.

Tale imperfezione sembrerebbe peraltro evidente se si considerano le profonde diseguaglianze che, con

riferimento ai livelli di tutela dei diritti fondamentali, e soprattutto dei diritti sociali, esistono tra i diversi

Stati membri dell’Unione. Dette diseguaglianze sono cagionate da diversi livelli di sviluppo economico

che emergono chiaramente da una ricognizione, pur sommaria, di alcuni dei principali indicatori

quantitativi e statistici del benessere socioeconomico35.

E così sul Social Progress Index, indicatore che classifica i Paesi in base alla loro capacità di rispondere

alle esigenze dei cittadini con riferimento alle tre macro-categorie dei bisogni umani fondamentali, del

benessere e delle opportunità, con riferimento all’anno 2017 si va dal 1° posto della Danimarca e dal 2°

posto della Finlandia al 44° della Romania e al 41° della Bulgaria (l’Italia è al 24° posto)36.

Per quanto riguarda la spesa pro capite per il welfare, con riferimento all’anno 2013 si va dai 22.207 $

del Lussemburgo ai 3.243 $ della Lettonia e ai 5.314 dell’Ungheria, passando per i 10.149 $ dell’Italia37.

Con riferimento al diritto alla salute, nella classifica dei sistemi sanitari della World Health Organization

(per la verità datata, essendo aggiornata all’anno 2000, ma che rende comunque bene l’idea della portata

delle disparità esistenti) si va dal 1° posto della Francia e 2° posto dell’Italia al 102° della Bulgaria e 99°

della Romania38.

Nel Global Competitiveness Index del World Economic Forum, indicatore che valuta come dato

aggregato la qualità del sistema sanitario e quella del sistema dell’istruzione primaria, nel biennio 2016-

2017 si va dal 1° posto della Finlandia e 3° posto del Belgio all’88° della Romania e 78° dell’Ungheria

(l’Italia occupa il 23° posto)39.

Per quanto riguarda invece l’ammontare medio di uno stipendio netto mensile, si va dai 3.263 euro della

Danimarca ai 439 euro della Bulgaria e ai 584 euro della Romania40.

Il quadro che si va delineando appare inoltre confermato dai dati dello European Social Scoreboard,

indicatore funzionale rispetto all’implementazione del nuovo Pilastro Sociale europeo, che evidenzia

33 Si veda in questo senso D. TEGA, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e crisi economica, in E. CAVASINO, G. SCALA e G. VERDE (a cura di), I diritti sociali dal riconoscimento alla garanzia, cit., pp. 83 ss. 34 Va comunque evidenziato che, se è vero che vi è stato un generale disinteresse dell’Unione per i diritti sociali redistributivi, essa ha invece attuato numerose politiche ascrivibili a necessità di tutela dei diritti sociali “di libertà”. Si veda sul tema A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali, in questo numero. 35 Si veda F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, cit., pp. 728 ss. 36 Cfr. Social Progress Index Report 2017. 37 Cfr. dati OCSE 2013. 38 Cfr. World Health Report 2000. 39 Cfr. Global Competitivenes Report 2016-17. 40 Cfr. dati Eurostat.

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come accanto ai livelli eccellenti di tutela dei diritti sociali riscontrabili in Paesi come la Svezia o la

Danimarca, altri Stati membri come la Bulgaria, la Romania e la Grecia (e, per alcuni aspetti, anche

l’Italia) presentino livelli quasi sempre bassi o medio-bassi41.

Una prima osservazione che si può formulare sulla base dei pochi ma significativi dati appena

menzionati è che appare di tutta evidenza come l’entità della diseguaglianza tra gli Stati membri e i loro

cittadini sia stata esasperata, almeno in parte, come conseguenza dei due “allargamenti a est” della

prima decade degli anni 2000, che hanno portato all’ingresso di ben 12 nuovi Stati nel 2004 e nel 2007.

Non sembra casuale, in questo senso, che in quasi tutti gli indicatori Bulgaria e Romania, Paesi che

hanno fatto ingresso nell’Unione europea proprio con l’allargamento del 2007, figurino agli ultimi posti.

E del resto la stragrande maggioranza dei flussi migratori intra-europei è diretta dai Paesi dell’est verso i

Paesi di quella che era l’Europa dei 15 (e dunque Paesi fondatori, Paesi nordici e Paesi mediterranei: la

cosiddetta “Europa occidentale”) e in particolare verso il Regno Unito (che nel 2012 accoglieva più di

un terzo dei migranti intra-europei) e verso la Germania (che nel 2012 accoglieva circa un quinto dei

migranti intra-europei)42.

È stato sottolineato come i flussi appena descritti siano causati, almeno in parte, proprio dai diversi

livelli di tutela dei diritti fondamentali, e soprattutto dei diritti economici e sociali, che si registrano tra

est e ovest dell’Unione, e dunque dall’attrattività esercitata sui cittadini europei dell’est dalle opportunità

lavorative e dai sistemi del welfare incardinati negli Stati membri dell’ovest43. La situazione sbilanciata

che risulta dal doppio ordine di criticità evidenziate ha innescato una serie di dinamiche sociali e

politiche sulle quali si è innestato un dibattito che ha raggiunto, in anni recenti, i massimi livelli

dell’ordinamento europeo.

3. L’“abuso” della libertà di movimento come “valvola di sfogo” delle diseguaglianze interne

alla cittadinanza europea

Le sperequazioni interne alla cittadinanza europea con riferimento ai livelli di tutela dei diritti sociali,

lette congiuntamente alle sopraccitate dinamiche dei flussi migratori intra-europei, sono state all’origine

di considerevoli tensioni che hanno contribuito a rallentare sotto diversi profili il già precario processo

di integrazione europea. I migranti intra-europei, in mancanza di un meccanismo di solidarietà al livello

sovranazionale, finiscono inevitabilmente per ricadere, in termini di costi sociali, unicamente sulle spalle

41 Cfr. European Social Scoreboard 2016. 42 Cfr. dati Eurostat 2012. 43 Si veda in questo senso e per una più ampia analisi degli indicatori rilevanti, F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, cit., pp. 728 ss.

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dello Stato membro ospitante, esercitando un’oggettiva pressione sul suo sistema di welfare44. In

particolare, è stato denunciato da parte di alcuni Stati membri un presunto abuso della libertà di

movimento delle persone così come essa è riconosciuta dai Trattati, con la comparsa della categoria dei

cosiddetti “turisti del welfare”, cittadini dei Paesi meno sviluppati dell’Unione che sfrutterebbero la

libertà di circolazione delle persone ai fini di accedere ai sistemi di welfare e ai benefici sociali

considerevolmente più elevati riconosciuti da altri Stati membri, in condizioni di parità con i cittadini di

questi ultimi.

La questione, inizialmente relegata alla retorica (per certi versi populista) del dibattito politico interno ai

singoli Stati membri, è stata in ultimo formalizzata al livello sovranazionale nel 2013, per il tramite di

una lettera congiunta di Austria, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito indirizzata alla presidenza del

Consiglio e alla Commissione45. Con detta lettera gli Stati membri in questione denunciavano come si

fossero registrati negli anni precedenti dei costi aggiuntivi eccessivi per i rispettivi sistemi di welfare con

riferimento a istruzione, sanità e housing, in conseguenza della comparsa di un “certo tipo di migranti

dagli altri Stati membri” che “si giovano delle opportunità che la libertà di movimento offre, senza

tuttavia essere in possesso dei requisiti per esercitare tale diritto”. Nella lettera veniva peraltro sostenuto

espressamente il concetto di “abuso sistematico della libertà di movimento”, affermando che l’intento

dell’iniziativa era quello di “combattere l’uso fraudolento della libertà di movimento da parte di cittadini

dell’Unione e di Paesi terzi che intendono abusare dei diritti di libero movimento per aggirare i controlli

nazionali sull’immigrazione”.

La lettera si concludeva con la richiesta di una riforma della direttiva 2004/38/CE volta a introdurre

mezzi idonei a contrastare gli abusi sopradescritti, comprese sanzioni come l’espulsione e il divieto di

reingresso, oltre che la possibilità di limitare l’accesso ai diritti sociali dei cittadini europei nei primi anni

di stabilimento nel nuovo Stato membro. I firmatari richiedevano inoltre che gli Stati membri di

provenienza dei “turisti del welfare” provvedessero a “migliorare permanentemente le condizioni di vita

locali dei soggetti interessati” (sic!) così da scoraggiare il loro spostamento in altri Stati membri.

La Commissione replicava portando all’attenzione dei quattro Stati membri i principi fondanti della

libertà di movimento così come interpretata dalla Corte di Giustizia e offrendo assistenza per

l’applicazione del diritto europeo vigente ove necessario. Precisava peraltro che nessuno dei quattro

Stati era stato in grado di sostanziare le proprie doglianze con il supporto di dati adeguati e oggettivi46.

44 Si veda sul tema S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, cit., p. 945. 45 Cfr. la lettera dell’aprile 2013 a firma dei Ministri dell’Interno di Austria e Germania, dal Ministro dell’Immigrazione dei Paesi Bassi e dal Segretario di Stato per l’Home Department del Regno Unito. 46 Cfr. la lettera della Commissione del maggio 2013. Cfr. inoltre il Migration News Sheet April 2013 della Commissione.

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La critica relativa ai cosiddetti “turisti del welfare” si fonda su di una interpretazione restrittiva circa la

portata della libertà di movimento riconosciuta dai Trattati, concependola sostanzialmente, secondo

una lettura storica, come libertà di movimento prettamente economica, e pertanto invocabile soltanto

dai cittadini “economicamente attivi” che con il proprio contributo alle finanze pubbliche giustifichino

l’estensione dei benefici sociali altrimenti riservati ai soli cittadini. Ciò emerge peraltro chiaramente nella

sopraccitata lettera del 2013, che specifica che il fine della libertà di movimento dovrebbe essere quello

di “promuovere la mobilità di quei cittadini europei che vogliono lavorare, studiare o iniziare

un’impresa in un altro Stato membro”.

In realtà, nella maggior parte dei casi come quelli denunciati nella lettera sopraccitata, non sembra

potersi parlare di un vero e proprio abuso nel senso giuridico del termine, atteso che la Commissione

ha chiarito, in conformità con l’orientamento della Corte di Giustizia, che l’utilizzo da parte dei cittadini

dell’Unione di un “vantaggio inerente all’esercizio del diritto di libera circolazione tutelato dai Trattati”

non può mai costituire un abuso da parte dei cittadini europei “a prescindere dallo scopo per il quale si

trasferiscono in quello Stato” e che dunque le situazioni di abuso effettivo sono da intendersi come

limitate a casi estremi, quali ad esempio i matrimoni di convenienza o l’aggiramento delle norme

nazionali in materia di ricongiungimento con cittadini di Paesi terzi47.

Con riferimento alla fondatezza del problema sotto il profilo oggettivo, gli indicatori non sembrano

fornire risposte conclusive. I dati provenienti da fonti europee non sembrano infatti evidenziare

problemi di abuso dei sistemi di welfare per mezzo del movimento intra-europeo, mentre dati forniti

dai singoli Stati membri sono più pessimistici in questo senso. Uno studio del 2014, condotto proprio

sui quattro Stati membri firmatari della lettera del 2013, ha tuttavia evidenziato che, in effetti, alcuni

indicatori potrebbero suggerire una pressione addizionale sui sistemi del welfare in virtù dei flussi intra-

europei dopo l’allargamento a est, anche se non è chiaro quanta di questa pressione possa essere

ricondotta a casi di abuso della libertà di movimento e quanta invece al suo utilizzo legittimo48.

In tutti e quattro gli Stati membri in esame, tra il 2009 e il 2013, il costo dei benefici sociali ricevuti da

migranti provenienti da altri Stati membri è aumentato del 35% (in Germania addirittura del 51%).

In tutti e quattro gli Stati membri in esame, nel 2013 la probabilità che fosse richiesto un sussidio di

disoccupazione era più alta per i cittadini di altri Stati membri rispetto ai cittadini nazionali (in Austria la

probabilità era addirittura doppia).

47 Cfr. la comunicazione COM(2009)313. Per l’orientamento della Corte di Giustizia si vedano, per tutti, i casi: C-212/97; C-147/03; C-109/01; C-1/05. 48 Cfr. il report Fiscal Impact of EU Migrants in Austria, Germany, the Netherlands and the UK del 2014, realizzato da European Citizen Action Service, al quale fanno riferimento i dati che seguono.

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In Austria, Germania e nei Paesi Bassi il tasso di disoccupazione dei cittadini di altri Stati membri è più

elevato di quello dei cittadini (in controtendenza rispetto a quanto avviene nell’Unione europea nel suo

complesso).

In tutti e quattro gli Stati membri in esame la percentuale di migranti intra-europei sulla popolazione è

circa raddoppiata tra il 2005 e il 2013. Di conseguenza, è raddoppiata anche la spesa sociale sostenuta in

favore di detti migranti, ed è costantemente aumentata la percentuale della spesa sociale destinata ad

accordare il godimento dei benefici del welfare a migranti intra-europei.

Il rischio di povertà è, a livello europeo, più elevato tra i migranti intra-europei che tra i cittadini (nel

2013 rispettivamente 22,2% e 15%, con picchi del 190% in Austria nel 2013 e del 175% nei Paesi Bassi

nel 2011).

Va tuttavia sottolineato che l’impatto fiscale dei migranti intra-europei sui sistemi di welfare degli Stati

membri è in genere positivo, salvo alcune eccezioni relative a Stati facenti parte dell’Europa dei 15

(come ad esempio i Paesi Bassi).

Va comunque considerato che gli effetti dell’allargamento a est sulla libertà di movimento si sono di

fatto dispiegati in concomitanza con gli anni peggiori della crisi economica globale, che ha sottoposto le

finanze pubbliche degli Stati a uno stress considerevole, comprimendo in particolare i livelli di tutela dei

diritti sociali49. Non a caso, si è potuto osservare un contestuale “rallentamento” nell’opera di

interpretazione estensiva della Corte di Giustizia, che con un parziale revirement rispetto alla sua

giurisprudenza precedente50 ha affermato che la dipendenza di un cittadino europeo da benefici del

sistema di welfare dello Stato membro ospitante potrebbe portare alla perdita del diritto a risiedere

legalmente in detto Stato, essendo sintomatica di una non autosufficienza economica51 e che gli Stati

membri possono legittimamente escludere il cittadino europeo in cerca di occupazione dai benefici del

49 Il tema delle conseguenze della crisi economica e finanziaria globale sui livelli di tutela dei diritti sociali è ampiamente trattato dalla dottrina giuspubblicistica e non può essere riproposto in questa sede. Si vedano, senza pretesa di esaustività, almeno: S. GAMBINO, Crisi economica e costituzionalismo contemporaneo. Quale futuro europeo per i diritti fondamentali e per lo Stato sociale?, in Astrid rassegna, n. 5/2015; F. ANGELINI, M. BENVENUTI (a cura di), Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, Napoli, Jovene, 2012; A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europa, cit.; P. BILANCIA, Il processo di integrazione europea alla prova della crisi economica, in A. IACOVIELLO (a cura di), Governance europea tra Lisbona e Fiscal Compact, Milano, Giuffrè, 2016, pp. 58 ss.; A. POGGI, Crisi economica e crisi dei diritti sociali nell’Unione europea, in Rivista AIC, n. 1/2017; M. BENVENUTI, Diritti sociali, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Agg. V, Torino, UTET, 2012. 50 Si è addirittura detto che la crisi globale avrebbe innescato una svolta neoliberale nella giurisprudenza della Corte. Si vedano M. CINELLI, S. GIUBBONI, Cittadinanza, lavoro, diritti sociali. Percorsi nazionali ed europei, Torino, Giappichelli, 2014, p. 98. Si veda sul tema anche F. BILANCIA, Il “referendum” del Regno Unito sulla “Brexit”: la libertà di circolazione dei cittadini UE nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, cit., pp. 77 ss. 51 Cfr. i casi: C-333/13, Dano; C-67/14, Garcia-Nieto; C-308/14, Commission v. United Kingdom.

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welfare a prescindere dalla verifica della sussistenza di un “onere eccessivo” per il sistema di assistenza

sociale52.

In ogni caso, si può ritenere che l’opportunità offerta dalla libertà di movimento abbia rappresentato, e

in parte continui a rappresentare, nel quadro descritto, una vera e propria “valvola di sfogo” delle

diseguaglianze, anche profonde, che caratterizzano le condizioni socioeconomiche e i livelli di tutela dei

diritti sociali nei diversi Stati membri. In questa prospettiva si potrebbe sostenere, pertanto, che

l’Unione europea abbia già da tempo assunto una sua dimensione sociale53, pur in assenza di specifiche

competenze in tal senso, proprio in virtù del fatto che i suoi cittadini hanno iniziato sempre più a

sfruttare le opportunità che i Trattati presentano, esercitando i diritti sociali “con i piedi”54. È tuttavia

importante evidenziare come detta dimensione sociale sia stata implementata in assenza di una

qualsivoglia solidarietà e coesione sociale tra Stati membri, e anzi come essa si sia inverata, in effetti,

nonostante gli Stati membri, che hanno attivamente tentato di porvi un freno. Inoltre, più che di una

dimensione sociale dell’Unione europea, sembra più corretto parlare di una dimensione sociale europea,

atteso che, in assenza di competenze in materia (e delle relative risorse) in capo all’Unione, la

dimensione sociale della libertà di movimento è dimensione esclusivamente transnazionale55, e non

anche sovranazionale.

4. L’abuso della libertà di movimento nel fenomeno della Brexit

Una soluzione siffatta, in cui la libertà di movimento faccia da “valvola di sfogo” alle diseguaglianze tra

Stati membri, non sembra tuttavia né giuridicamente né socialmente sostenibile nel lungo periodo. In

particolare, essa non sembra più essere sostenibile proprio in conseguenza dell’intersezione del diritto

alla libertà di movimento con l’istituzione della cittadinanza europea, che ha fatto in un certo senso

“saltare il tappo” della libertà economica di movimento, assimilandola per molti aspetti a una libertà

costituzionale tout court, ampliando quindi esponenzialmente la platea dei possibili beneficiari della libera

circolazione (originariamente limitata ai soli lavoratori) fino a farla virtualmente coincidere con tutti i

cittadini degli Stati membri. In questo senso, l’interpretazione restrittiva sposata dagli esecutivi di alcuni

Stati membri, che del resto trova un suo innegabile attaglio nella lettera dei Trattati, sembra essere

52 Cfr. il caso Alimanovic; C-299/14. Si veda sul caso M. E. BARTOLONI, Lo status del cittadino dell’Unione in cerca di occupazione: un limbo normativo?, in European papers, vol. 1, n. 1/2016. 53 Sul tema si veda P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, in questo numero. Sulla problematica definizione del concetto di dimensione sociale europea si veda l’approfondita analisi di M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione (a proposito dell’introvabile “dimensione sociale europea”), in A. M. NICO (a cura di), Studi in onore di Francesco Gabriele, I, Bari, Cacucci, 2016. 54 Si veda F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, cit., p. 732. 55 Sul concetto di diritto transnazionale e la sua distinzione dal diritto sovranazionale si veda, da ultimo, S. SASSI, Diritto transnazionale e legittimazione democratica, Padova, CEDAM, 2018.

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entrata in crisi, in assenza di un intervento riformatore che adegui la lettera della norma al suo spirito

nell’interpretazione della Commissione e della Corte di Giustizia.

Una situazione di questo tipo, laddove non sia debitamente affrontata, presta il fianco a

strumentalizzazioni, ed è destinata a ingenerare tensioni tutt’altro che trascurabili in seno al processo di

integrazione europea, e basti pensare al ruolo centrale che il dibattito sull’abuso della libertà di

movimento ha assunto nell’ambito del fenomeno della Brexit, rappresentando in ultimo una delle

ragioni che hanno portato la maggioranza dei cittadini del Regno Unito a esprimersi per il Leave nel

referendum del giugno 201656.

Il sistema di welfare britannico è stato infatti sottoposto a una notevole pressione proprio per via della

grande attrattività del suo mercato del lavoro e del suo sistema universitario, tra i più competitivi e

all’avanguardia non solo in Europa, ma nel mondo intero. I diritti sociali sono stati quindi parte

integrante e fondamentale della campagna per il Leave, e basti pensare al noto pullman che girava il

Regno Unito promettendo, con una scritta sul suo fianco, che con la Brexit si sarebbero risparmiati 350

milioni di sterline per settimana, che sarebbero stati reinvestiti nel sistema sanitario nazionale.

Nella lettera al Presidente del Consiglio europeo con cui il Primo Ministro britannico David Cameron

poneva le quattro condizioni per la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea57 egli denunciava,

tra le altre cose, proprio l’insostenibilità dell’immigrazione verso il suo Paese, spiegando che, mentre è

possibile cercare di contenere l’immigrazione extra-europea, la libertà di movimento accordata dai

Trattati ai cittadini dell’Unione impedisce di fatto un analogo controllo sull’immigrazione intra-europea,

che avrebbe assunto “dimensioni imprevedibili per i padri fondatori dell’Europa”. Torna quindi l’idea

per cui l’unica interpretazione possibile delle libertà riconosciute dai Trattati sarebbe quella letterale, e

dunque la riduzione delle stesse a mere libertà economiche.

Cameron sosteneva inoltre che il fenomeno delle migrazioni intra-europee verso il Regno Unito

avrebbe rappresentato un danno anche per gli Stati membri di partenza, che avrebbero perso così i loro

cittadini più qualificati. Egli individuava la ragione fondante del fenomeno proprio nella “forza

attrattiva che il nostro sistema di welfare esercita sul resto dell’Europa” e parlava espressamente (con

toni che richiamavano da vicino quelli della lettera del 2013, che del resto era sottoscritta anche dal

Regno Unito) di un “abuso della libertà di movimento”, affermando la necessità di “restituire un senso

di equità al nostro sistema di immigrazione”.

56 Sulla stretta connessione tra la Brexit e le istanze protezionistiche in tema di diritti sociali si veda F. BILANCIA, Il “referendum” del Regno Unito sulla “Brexit”: la libertà di circolazione dei cittadini UE nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, cit., pp. 71 ss. 57 Cfr. la lettera del Primo Ministro David Cameron al Presidente Donald Tusk del 10 novembre 2015.

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Cameron proponeva, per risolvere il problema, una sorta di manovra “a tenaglia”, volta ad impattare sia

sui futuri allargamenti dell’Unione che sui diritti acquisiti dei cittadini di Stati già facenti parte

dell’Unione. Sotto il primo profilo, egli proponeva l’introduzione di una moratoria della libertà di

movimento per i cittadini degli Stati membri che avrebbero aderito in futuro all’Unione, fino al

raggiungimento di una convergenza economica accettabile con gli Stati membri “storici”, in modo da

ridurre l’incentivo a cercare altrove migliori livelli di tutela dei diritti economici e sociali. Sotto il

secondo profilo, egli proponeva l’introduzione del requisito (apparentemente contrastante con gli

orientamenti della Corte di Giustizia), in capo agli individui provenienti dagli Stati membri già facenti

parte dell’Unione, di almeno quattro anni di residenza prima di poter accedere al sistema di welfare

britannico in condizioni di parità rispetto ai cittadini.

Le richieste britanniche venivano sostanzialmente recepite nell’accordo raggiunto tra Consiglio europeo

e Regno Unito nel 201658.

Più precisamente, detto accordo prevedeva la modifica del regolamento 883/2004/CE relativo al

coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, al fine di offrire agli Stati membri, con riferimento alla

“portabilità” delle prestazioni per figli a carico verso uno Stato membro diverso da quello in cui il

lavoratore soggiorna, la possibilità di indicizzare tali prestazioni alle condizioni dello Stato membro in

cui i figli risiedono in concreto.

Era prevista inoltre la modifica del regolamento 492/2011/UE relativo alla libera circolazione dei

lavoratori all’interno dell’Unione, prevedendo un meccanismo di allerta e salvaguardia per rispondere a

situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale e per un

periodo di tempo prolungato, anche a seguito dei precedenti allargamenti dell’Unione. Il meccanismo

proposto prevedeva la notifica alla Commissione e al Consiglio, da parte dello Stato membro,

dell’esistenza di una situazione emergenziale “di entità tale da ledere aspetti essenziali del suo sistema di

sicurezza sociale”, o “da determinare difficoltà che sono gravi e rischiano di protrarsi nel suo mercato

del lavoro o da mettere un’eccessiva pressione sul corretto funzionamento dei servizi pubblici”. Il

Consiglio, su proposta della Commissione avrebbe potuto autorizzare provvisoriamente lo Stato

membro a introdurre le necessarie limitazioni con riferimento all’accesso “alle prestazioni a carattere

non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa” e all’accesso dei lavoratori nuovi arrivati

nell’Unione (per un periodo di sette anni) “alle prestazioni a carattere non contributivo collegate

all’esercizio di un’attività lavorativa per un periodo totale di massimo quattro anni dall’inizio del

rapporto di lavoro”. Trattasi di limitazioni a progressione inversa, nel senso che il nuovo lavoratore è

inizialmente escluso dal sistema del welfare, potendovi accedere, secondo un criterio temporale, solo in

58 Cfr. le conclusioni del Consiglio europeo del 18-19 febbraio 2016, EUCO 1/16.

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proporzione al “crescente collegamento del lavoratore con il mercato del lavoro dello Stato membro

ospitante”.

Con riferimento ai futuri allargamenti dell’Unione europea, l’accordo prevedeva infine la previsione di

“appropriate misure transitorie concernenti la libera circolazione delle persone” negli atti di adesione,

convenute da tutti gli Stati membri. Si ipotizzava espressamente una moratoria di sette anni della libertà

di movimento, similmente a quanto già accaduto con i due allargamenti a est della prima decade del

nuovo millennio.

5. Perequazione e livelli essenziali delle prestazioni: soluzioni italiane per un problema

europeo?

La diseguaglianza della cittadinanza europea e il conseguente utilizzo in chiave sociale della libertà di

movimento da parte dei cittadini ricordano per molti versi dinamiche già note all’ordinamento

nazionale, e in particolare il problema della diseguaglianza nei livelli di tutela dei diritti tra nord e sud del

Paese, noto ormai da tempo come “questione meridionale”, che rappresenta una dei temi storicamente

centrali del dibattito politico e sociale italiano59. Il divario tra nord e sud del Paese ha del resto costituito

il fondamento di un numero ormai indefinito di politiche, ultima delle quali è stato il cosiddetto

“federalismo fiscale”, il cui obiettivo primario era proprio una migliore redistribuzione delle risorse tra

le Regioni ricche e le Regioni povere60. Nonostante ciò, permangono elevati dislivelli di tutela dei diritti

sociali che provocano ogni anno lo spostamento di migliaia di persone per usufruire dei sistemi di

welfare settentrionale, ritenuti più efficienti di quelli meridionali.

Il fenomeno riguarda prevalentemente la tutela del diritto alla salute61, e ha dato origine alla cosiddetta

“mobilità sanitaria” interregionale, che ha assunto dimensioni tali da rendere necessaria l’introduzione

di un apposito strumento ai fini di compensare i suoi effetti sui sistemi sanitari delle singole Regioni,

nella forma dell’“accordo interregionale per la compensazione della mobilità sanitaria”. Basti pensare

che, con riferimento al triennio 2014-2016, i flussi generati dal fenomeno ammontavano a circa 4,6

miliardi di euro, e che tutte le Regioni meridionali (a eccezione del Molise) presentavano un saldo

59 Si vedano sul tema, per tutti: S. GAMBINO, Unità d’Italia e Mezzogiorno. (riflessioni in occasione del 150 anniversario dell’unificazione del Paese), in Federalismi.it, n. 7/2011; V. M. SBRESCIA, Uniformità amministrativa, federalismo, regionalismo e Mezzogiorno alla Costituente, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, nn. 1-2/2011, pp. 161 ss.; C. A. CIAMPI, La questione meridionale e la sua centralità nella politica italiana, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, n. 1/2006, pp. 183 ss.; S. CASSESE, Questione meridionale, legge sul Mezzogiorno, cassa, in Democrazia e diritto, nn. 3-4/1980, pp. 361 ss.; S. CASSESE, Questione amministrativa e questione meridionale, Milano, Giuffrè, 1977. 60 Si veda B. CARAVITA DI TORITTO, Federalismi, federalismo europeo, federalismo fiscale, in Federalismi.it, n. 9/2011, p. 5. 61 Si veda sul tema A. PAPA, La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, cit., p. 10.

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negativo, a fronte dell’attivo di oltre seicento milioni di euro della sola Regione Lombardia62. In questo

senso, la mobilità sanitaria interna è stata definita come il “bypass per le diseguaglianze dei territori”,

nella misura in cui essa garantisce, attraverso lo spostamento delle persone, l’unitarietà della cittadinanza

sociale nell’ordinamento63.

Il modello di regionalismo italiano è pertanto incompatibile con modalità di distribuzione delle risorse

tipiche del cosiddetto “federalismo cooperativo” (come quello statunitense)64: una lettura del principio

autonomista (e di pluralismo istituzionale) di cui all’articolo 5 Cost. attraverso il prisma dell’eguaglianza

sostanziale e della solidarietà di cui agli articoli 2 e 3 comma 2 Cost., impone forme di “regionalismo

solidale”, per cui ogni forma di autonomia dovrà essere bilanciata da meccanismi redistributivi che

contengano il dislivello nella tutela dei diritti fondamentali entro un margine che non ne intacchi il

nucleo incomprimibile. In quest’ottica non stupisce, quindi, che le “pre-intese” (rectius, accordi

preliminari) recentemente stipulate dal Governo con alcune Regioni (tutte Regioni considerate “ricche”)

ai sensi dell’articolo 116 Cost. non prevedano la destinazione di risorse nuove, e dunque un’alterazione

dell’equilibrio attuale della redistribuzione, bensì la sola possibilità di gestire autonomamente al livello

decentrato risorse che sono già attualmente spese nel territorio regionale dallo Stato65.

Una delle misure principali attraverso cui si garantisce, nell’ordinamento italiano, l’omogeneità della

tutela dei diritti sociali come espressione del fondamentale principio solidarista di cui all’articolo 2 Cost.

è quello dei livelli essenziali di prestazione. Per livelli essenziali di prestazione (o LEP) deve intendersi il

livello essenziale della prestazione positiva che lo Stato, ai diversi livelli di governo, deve

necessariamente erogare, in quanto direttamente riconducibile alla tutela del nucleo incomprimibile di

un diritto civile o sociale fondamentale dell’individuo66. I livelli essenziali non sono tuttavia livelli

minimi, bensì livelli adeguati, e dunque il livello di prestazione necessario affinché il contenuto

62 Secondo i dati pubblicati dalla Conferenza della Regioni. 63 Secondo l’espressione coniata da S. MABELLINI, Mobilità sanitaria e unitarietà della cittadinanza sociale nell’esperienza degli Stati composti: un cammino avviato anche nell’Unione europea?, cit. 64 Si veda L. ANTONINI, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica e prospettive, in Rivista AIC, n. 4/2014, p. 7 ss. 65 Sulla necessità di bilanciare le istanze di maggiore autonomia ex articolo 116 Cost. con esigenze di perequazione si veda S. MANGIAMELI, Appunti a margine dell'art. 116, comma 3, della Costituzione, in Le Regioni, n. 4/2017, pp. 663 ss. 66 Sui livelli essenziali delle prestazioni si vedano almeno: M. BELLETTI, Le Regioni “figlie di un Dio minore”. L’impossibilità per le Regioni sottoposte a Piano di rientro di implementare i livelli essenziali delle prestazioni, in Le Regioni, nn. 5-6/2013, pp. 1078 ss.; C. PINELLI, Livelli essenziali delle prestazione e perequazione finanziaria, in Diritto e società, n. 4/2011, pp. 731 ss.; M. LUCIANI, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte Costituzionale, in Rivista AIC, n. 3/2016; C. PANZERA, I livelli essenziali delle prestazioni secondo i giudici comuni, in Giurisprudenza costituzionale, n. 4/2011, pp. 3371 ss.; L. CUOCOLO, I livelli essenziali delle prestazioni: spunti ricostruttivi ed esigenze di attuazione, in Il diritto dell’economia, nn. 2-3/2003, pp. 389 ss.; M. BELLETTI, I “livelli essenziali delle prestazioni concernenti di diritti civili e sociali” alla prova della giurisprudenza costituzionale. alla ricerca del parametro plausibile, in Istituzioni del federalismo, nn. 3-4/2003, pp. 613 ss.; C. PINELLI, Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, co. 2, lett. m, cost.), in Diritto pubblico, n. 3/2002, pp. 881 ss.

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incomprimibile del diritto sia effettivamente tutelato67. La determinazione dei livelli essenziali di

prestazione è materia di competenza esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117 comma 2 lettera m) Cost.,

che è stata ricondotta dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’alveo delle competenze

trasversali del legislatore statale, potenzialmente idonee a comprimere le competenze regionali con

riferimento a ogni altra materia68.

L’individuazione dei livelli essenziali di prestazione è espressione del principio di eguaglianza di cui

all’articolo 3 Cost. al contempo nella sua accezione formale, nella misura in cui garantisce che non vi

siano livelli inaccettabilmente diversi di tutela di un medesimo diritto fondamentale su base geografica,

e sostanziale, garantendo l’erogazione di prestazioni volte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico

e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo

della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,

economica e sociale del Paese. Sotto questo profilo essa potrebbe essere interpretata come un

necessario bilanciamento del principio autonomista di cui all’articolo 5 Cost. in nome dell’attuazione del

contenuto incomprimibile del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost.

L’individuazione dei LEP è inoltre attuazione del principio solidarista di cui all’articolo 2 Cost., nella

misura in cui l’erogazione delle prestazioni viene finanziata (anche) secondo logiche di tipo perequativo.

Si è parlato in questo senso di un profilo di “solidarietà territoriale” dell’istituto, anche alla luce della

giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto in capo allo Stato la facoltà di esercizio della potestà

legislativa sostitutiva in caso di inerzia delle Regioni in materia di individuazione dei LEP, oltre alla

facoltà di intervenire nelle materie di competenza esclusiva regionale69.

Lo strumento nazionale dei livelli essenziali di prestazione potrebbe servire da “ispirazione” per il

livello europeo, atteso che risulta auspicabile che, per le ragioni che si sono dette e nella prospettiva di

una futura ulteriore integrazione politica e sociale, sia individuato al livello sovranazionale un nucleo

incomprimibile dei diritti sociali che dovrà essere riconosciuto in modo uniforme da tutti gli Stati

membri. Si è sostenuto in dottrina che sarebbe necessario individuare al livello europeo almeno i livelli

essenziali di prestazione assolutamente indispensabili, a cui ciascuno Stato membro dovrà conformarsi

per poter rientrare nell’ambito della definizione di “ordinamenti sociali di mercato” di cui all’articolo 3

67 Si veda sul tema R. BALDUZZI, Livelli essenziali di assistenza versus livelli minimi, in G. BARBERIS, B. SORO, I. LAVANDA (a cura di), La politica economica tra mercati e regole. Scritti in ricordo di Luciano Stella, Soveria Mannelli, Rubettino, 2005. 68 Cfr. Corte Cost., sentenza n. 282/2002. 69 Si veda F. SCUTO, Il governo dell’economia nello Stato regionale italiano tra riforme costituzionali e crisi economica: l’indissolubile legame con i principi di solidarietà, eguaglianza e tutela dei diritti sociali. Possibili “spunti” per una costruzione federale europea, in F. BALAGUER CALLEJÓN, MIGUEL AZPITARTE SÁNCHEZ, ENRIQUE GUILLÉN LÓPEZ, JUAN FRANCISCO SÁNCHEZ BARRILAO (a cura di), The reform of the economic governance in the European Union and the progress of the political integration, Cizur Menor, Thomson Reuters Aranzadi, 2017, p. 308. Cfr.: Corte Cost., sentenza n. 10/2010; Corte Cost., sentenza n. 78/2011.

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TUE70. In questo senso, si è sottolineato come, almeno in un primo momento, il livello delle

prestazioni individuato dall’Unione europea potrebbe essere anche soltanto il livello minimo, anziché

quello essenziale previsto nell’ordinamento costituzionale italiano71. Un’impostazione siffatta dovrebbe

peraltro condurre a ritenere che l’adesione ai livelli di prestazione così individuati debba costituire un

requisito per l’adesione degli Stati all’Unione.

Con riferimento alle modalità attraverso cui i livelli essenziali (o minimi) di prestazione europei

dovrebbero essere determinati, la dottrina ha indicato la via normativa (e dunque la loro individuazione

tramite atto di diritto derivato) e quella giurisprudenziale (e dunque la loro individuazione tramite la

giurisprudenza della due Corti europee)72. La prima soluzione, e cioè quella normativa, appare

certamente preferibile, atteso il maggiore grado di vincolatività sostanziale del diritto europeo rispetto

alle decisioni della Corte EDU, oltre che la maggiore difficoltà per i singoli cittadini di avere accesso

diretto alla Corte di Giustizia. È evidente tuttavia che una soluzione siffatta presupporrebbe una

(attualmente estremamente improbabile) revisione dei Trattati, con l’attribuzione all’Unione delle

necessarie competenze, che in qualche modo riecheggino quelle riconosciute allo Stato dall’articolo 117

comma 2 lettera m) Cost.

Altro istituto che nell’ordinamento italiano garantisce la coesione sociale dando applicazione concreta al

principio solidarista è quello della perequazione, e dunque del trasferimento di risorse dai territori più

ricchi a quelli più poveri, ai fini di garantire l’eguaglianza effettiva tra i cittadini e di impedire che la

cittadinanza divenga una cittadinanza diseguale. Anche in questo caso la materia è attribuita alla

competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117 comma 2 lettera e) Cost.73. In concreto, la

perequazione viene attuata attraverso l’istituzione di un apposito fondo, previsto dall’articolo 119

comma 4 Cost., che dispone che lo Stato istituisca un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione,

per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

È stato evidenziato come lo strumento del fondo perequativo sia strettamente connesso a quello dei

livelli essenziali di prestazione, nella misura in cui la sua funzione primaria è il trasferimento di risorse in

favore delle Regioni con minore capacità economica proprio ai fini di garantire il livello essenziale e

70 Si veda A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), cit., 15. 71 In questo senso F. SCUTO, Il governo dell’economia nello Stato regionale italiano tra riforme costituzionali e crisi economica: l’indissolubile legame con i principi di solidarietà, eguaglianza e tutela dei diritti sociali. Possibili “spunti” per una costruzione federale europea, cit., 319. 72 Si veda A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), cit., pp. 15 ss., che ritiene inoltre che l’individuazione possa avvenire anche per via dottrinale. 73 Sulla perequazione si vedano almeno: F. BASSANINI, Principi e vincoli costituzionali in materia di finanza regionale e locale nel nuovo articolo 119 della Costituzione, in Astrid rassegna, n. 26, 2006; F. GUELLA, L’evoluzione delle logiche perequative nella finanza regionale italiana: redistribuzione delle risorse o delle competenze?, in Le Regioni, n. 2, 2016, pp. 225 ss.; C. PINELLI, Livelli essenziali delle prestazione e perequazione finanziaria, cit.; F. PICA, La perequazione: appunti per una relazione, in Rivista dei tributi locali, n. 6, 2004, pp. 579 ss.

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inderogabile dei servizi necessari per la tutela del nucleo incomprimibile dei diritti sociali74. In questo

senso è stata teorizzata in dottrina l’esistenza di un vero e proprio “principio perequativo” sotteso

all’impianto dei principi costituzionali fondamentali, che si attaglierebbe su di una lettura del principio

di unità della Repubblica di cui all’articolo 5 Cost. orientata secondo il principio solidarista di cui

all’articolo 2 Cost., e che comporterebbe l’obbligo per lo Stato di armonizzare “al rialzo” i livelli di

godimento dei diritti sociali anche attraverso il trasferimento dalle Regioni più ricche a quelle più

povere75. La via tracciata dal legislatore italiano ai fini di garantire una effettiva perequazione è quella dei

cosiddetti “costi standard”, e non invece quella della “spesa storica”, essendo stata ritenuta la prima

maggiormente conforme al principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. in virtù del suo raccordo

con il principio solidarista76.

Con riferimento al livello europeo, appare ancora lontana l’introduzione di forme di redistribuzione

paragonabili al fondo di perequazione di cui all’ordinamento costituzionale nazionale, nonostante si sia

evidenziato come la nuova regolamentazione dell’eurozona, resasi necessaria in seguito alla crisi

economica degli anni recenti, abbia ingenerato nuove forme di solidarietà interstatale (e si pensi, ad

esempio, allo European Stability Mechanism77) che avrebbero posto le basi per un futuro progresso verso

politiche comuni in materia fiscale e sociale78. Per la verità, appare dubbio che la ratio sottostante

all’istituzione dello ESM (che peraltro elargisce risorse con la formula del prestito) o del cosiddetto

“Fiscal Compact” possa promuovere logiche di solidarietà e integrazione sociale, se si considera che

l’accesso ai benefici previsti dagli strumenti in esame risulta subordinato, in concreto, a interventi

normativi (comunemente noti come “misure di austerity”) che spesso comportano tagli estesi e

generalizzati ai livelli di tutela dei diritti sociali garantiti al livello nazionale79.

Ciò che sarebbe auspicabile è quindi, in ultima analisi, l’introduzione, in parallelo, di una competenza

dell’Unione in materia di tutela dei diritti sociali, con particolare riferimento all’individuazione di livelli

minimi di prestazione che debbano essere garantiti in tutti gli Stati membri, a cui si affianchi un

74 Si veda F. SCUTO, Il governo dell’economia nello Stato regionale italiano tra riforme costituzionali e crisi economica: l’indissolubile legame con i principi di solidarietà, eguaglianza e tutela dei diritti sociali. Possibili “spunti” per una costruzione federale europea, cit., p. 309. 75 Si veda in questo senso P. BONETTI, L’autonomia finanziaria regionale e locale come motore delle autonomie territoriali. Un’introduzione dall’art. 114 all’art. 119 Cost., in Le Regioni, n. 5/2010. 76 Si veda in questo senso L. ANTONINI, L’autonomia finanziaria delle Regioni tra riforme tentate, crisi economica e prospettive, cit., p. 10. 77 Sul tema si veda P. BILANCIA, The current state of the governance of the Eurozone and the increase in the European democratic deficit, in S. MANGIAMELI (a cura di), The consequences of the crisis on European integration and on the Member States, New York, Springer, 2017, pp. 65 ss. 78 Si veda A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo Stato costituzionale in Europa, cit., 84 ss. 79 Si veda F. SCUTO, Il governo dell’economia nello Stato regionale italiano tra riforme costituzionali e crisi economica: l’indissolubile legame con i principi di solidarietà, eguaglianza e tutela dei diritti sociali. Possibili “spunti” per una costruzione federale europea, cit., 320.

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adeguato stanziamento di risorse proprie, acquisite secondo logiche redistributive (e dunque secondo

criteri di proporzionalità che non penalizzino gli Stati economicamente meno sviluppati) attraverso le

quali sia possibile attuare politiche europee di armonizzazione sociale ispirate a logiche perequative. In

questo senso, l’istituzione di un fondo europeo con le finalità appena menzionate consentirebbe di dare

attuazione a politiche immediatamente percepibili dai cittadini, in quanto attributive di diritti di

prestazione, contribuendo ad arrestare, se non a colmare, l’allargamento del deficit democratico che

ormai da anni è considerato una delle criticità strutturali dell’Unione80.

6. Conclusioni

Alla luce di quanto esposto, il nuovo Pilastro sociale europeo presenta delle potenzialità indubbie per il

rafforzamento della dimensione sociale europea81, rafforzamento che tuttavia non sembra poter

prescindere, se inteso in una prospettiva di futura integrazione politica, da una eventuale revisione dei

Trattati esistenti, posto che non appare né desiderabile né percorribile la strada (seppur perorata, nella

sostanza se non nella forma, da alcuni Stati membri) di un ritorno a un sistema della cittadinanza a due

classi, con cittadini economicamente attivi di serie A e cittadini non economicamente attivi di serie B,

ove solo i primi godono di un’effettiva eguaglianza con i cittadini dello Stato membro di residenza. Una

revisione dei Trattati in questo senso dovrebbe auspicabilmente includere l’adesione dell’Unione alla

Carta Sociale Europea, analogamente a quanto previsto dal Trattato di Lisbona con riferimento alla

Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così conferendo a tale fonte un adeguato livello di

vincolatività (anche nella forma delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali) negli

ordinamenti nazionali82.

Una soluzione proposta in dottrina è la valorizzazione della reciprocità che anima i modelli europei di

welfare, per cui l’accesso agli stessi non dovrebbe essere riconosciuto indiscriminatamente a tutti i

cittadini europei, ma solo a quelli che contribuiscano attivamente, in virtù della loro integrazione

nell’ordinamento, alla società dello stesso83. Un’impostazione siffatta, tuttavia, segnerebbe una evidente

battuta d’arresto nel processo di costituzionalizzazione dell’Unione, atteso che uno Stato così come

esso è inteso dal costituzionalismo europeo non può subordinare l’accesso a un diritto fondamentale

80 Sul deficit democratico dell’Unione si vedano almeno: P. BILANCIA, La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti nazionali, in Federalismi.it, n. 23/2012; E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in P. BILANCIA, M. D’AMICO (a cura di), La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 63 ss.; C. PINELLI, Il deficit democratico europeo e le risposte del Trattato di Lisbona, in Rassegna parlamentare, n. 4/2008, pp. 925 ss.; L. PALADIN, Il deficit democratico nell’ordinamento comunitario, in Le Regioni, n. 6/1996, pp. 1031 ss. 81 Si veda P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, cit. 82 Si veda in questo senso A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), cit., p. 14. 83 Si vedano: F. DE WITTE, EU law, politics and the social question, in German law journal, vol. 14, n. 5/2013, pp. 605 ss.; S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, cit., p. 963.

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alla richiesta di prestazioni positive da parte dell’individuo che esorbitino dal criterio di progressività e

proporzionalità (e dunque non può essere richiesto agli indigenti di adempiere al dovere di contribuire

alle finanze pubbliche).

Anche a voler ipotizzare un progresso dell’integrazione europea (necessariamente in senso federale) tale

per cui la libertà di movimento tra gli Stati membri si perfezioni assumendo una portata paragonabile a

quella di cui all’articolo 16 della Costituzione repubblicana, sanando dunque di fatto quello che

attualmente si configura per molti versi come un “abuso” (se non altro secondo un’interpretazione

letterale del diritto primario) della libertà di movimento, non sembra che la mobilità intra-europea

rappresenti una soluzione desiderabile, efficace e sostenibile nel lungo periodo, come del resto la

mobilità non sembra rappresentare una soluzione nell’appena menzionato caso italiano con riferimento

alle disparità tra Regioni settentrionali e meridionali.

In questo senso la dottrina ha ipotizzato una dimensione negativa della libertà di movimento o, meglio,

un vero e proprio “diritto a non muoversi”84. Un diritto siffatto potrebbe dirsi tutelato laddove le

prestazioni erogate dallo Stato (rectius, dall’Unione) ai fini di garantire un determinato diritto positivo

siano sufficienti a indurre il cittadino a usufruire di detto diritto nel luogo di residenza. In altre parole, il

dislivello nella tutela dei diritti sociali interno all’ordinamento dovrebbe essere contenuto entro un

margine che l’individuo giudichi accettabile quale prezzo da pagare per non doversi muovere. Se detto

dislivello dovesse assumere invece proporzioni inaccettabili, i cittadini potrebbero essere indotti ad

esercitare i diritti sociali “con i piedi”, attraverso la libertà di movimento. Libertà di non muoversi non

deve tuttavia significare immobilismo, e dunque un diritto a ricevere qualsiasi prestazione nel luogo di

residenza, e questo è particolarmente vero con riferimento all’attuazione del principio lavorista di cui

all’articolo 4 Cost. Si pensi, ad esempio, al caso della cosiddetta “Buona scuola”, con una percentuale

elevata di insegnanti a cui era stato offerto un posto fisso nel pubblico impiego che hanno rifiutato, per

non rischiare di essere trasferiti in sedi lontane dal luogo di residenza, dando peraltro vita a un aspro

contenzioso con lo Stato.

In quest’ottica, la perequazione diviene pertanto elemento imprescindibile ai fini di evitare che livelli

disomogenei di tutela dei diritti sociali inducano gli individui a confluire laddove gli standard delle

prestazioni sono più elevati. E tuttavia l’istituzione di meccanismi perequativi al livello europeo si trova

inevitabilmente a collidere con la natura transnazionale, e non sovranazionale, della cittadinanza

europea, per cui essa attribuisce un diritto sociale nei confronti degli Stati membri diversi da quello di

84 Si veda F. STRUMIA, Remedying the inequalities of economic citizenship in Europe: cohesion policy and the negative right to move, cit., 736 ss.

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appartenenza ma, in assenza di un fondo sociale europeo con risorse condivise, non attribuisce alcun

diritto sociale nei confronti dell’Unione85.

L’Unione infatti, fino a oggi, nell’ambito delle competenze attribuite dai Trattati, ha senz’altro

intrapreso politiche di coesione sociale attraverso la redistribuzione di fondi al livello territoriale, ma

non ha potuto elaborare meccanismi di tutela diretta dei diritti sociali dell’individuo86. Una dimensione

siffatta non appare tuttavia, nella congiuntura politica ed economica attuale, più sufficiente: una

prosecuzione del processo di integrazione europea impone infatti l’introduzione di competenze e

meccanismi di redistribuzione che però non deve essere solo redistribuzione della ricchezza, attraverso

le libertà di circolazione nel libero mercato (seppur in prospettiva sociale), bensì redistribuzione

territoriale, capace di fare fronte agli squilibri macroeconomici e alle diseguaglianze da essi generate87. In

questa prospettiva, gli strumenti dei livelli essenziali e del fondo di perequazione sviluppati

nell’ordinamento costituzionale italiano potrebbero rappresentare un’utile ispirazione per il legislatore

europeo.

Ne consegue che l’attribuzione di competenze in materia di tutela dei diritti sociali in capo all’Unione

dovrebbe essere auspicabilmente (e, forse, ineludibilmente) accompagnata dall’introduzione di un

sistema di fiscalità generale europea88, non soltanto perché in assenza di adeguate risorse qualsiasi nuova

dimensione sociale dell’azione europea rischia di restare poco più che lettera morta, ma anche perché

ciò rappresenterebbe il corollario di un processo di integrazione realmente ispirato (anche) a principio

di solidarietà, che non può essere solo solidarietà tra Stati membri, ma deve essere altresì solidarietà tra

cittadini europei. Un primo passo in questa direzione è rappresentato dall’istituzione del Fondo sociale

europeo Plus, che si ripromette di sostenere il nuovo Pilastro Sociale riunendo in sé una serie di fondi e

di programmi esistenti, e che potrebbe rappresentare la base per l’istituzione, in futuro, di un fondo

perequativo vero e proprio89.

85 Si vedano in questo senso: C. PINELLI, Cittadinanza europea, cit.; S. GIUBBONI, European citizenship and social rights in times of crisis, cit., p. 944. I fondi esistenti (come ad esempio il FSE) hanno infatti la diversa finalità di completare e supportare le azioni intraprese dagli Stati membri. Si veda sul tema P. BILANCIA, La dimensione europea dei diritti sociali, cit. 86 Si vedano: A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), cit., p. 2; A. CIANCIO, Alle origini dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali, cit.; G. DEMURO, I diritti sociali tra dimensione europea e identità costituzionale degli Stati, in A. CIANCIO (a cura di), Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai Trattati di Roma, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 204 ss. 87 Si veda in questo senso F. BILANCIA, Crisi economica e asimmetrie territoriali nella garanzia dei diritti sociali tra mercato unico e unione monetaria, in Rivista AIC, n. 2/2014, p. 11. 88 Si veda M. BENVENUTI, Libertà senza liberazione (a proposito dell’introvabile “dimensione sociale europea”), cit. 89 Con riferimento all’Italia si è addirittura ipotizzato di attingere a tale fondo per finanziare, in parte, l’introduzione di un reddito di cittadinanza. Cfr. G. POGLIOTTI, Reddito di cittadinanza, l’Ue frena sull’uso dei fondi europei, in Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2018.

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L’attribuzione di competenze all’Unione in tema di tutela dei diritti sociali risponderebbe quindi a

ottiche di perequazione consequenziali rispetto a una effettiva attuazione del principio di solidarietà tra

gli Stati europei, dalle quali un effettivo processo di integrazione politica, oltre che economica, non

sembra poter prescindere. E del resto l’articolo 3 TUE già prevede per l’Unione lo scopo della

promozione della coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.

Una delle principali preoccupazioni circa l’introduzione di competenze europee nel campo della tutela

dei diritti sociali è quella per cui la perequazione che ne deriverebbe potrebbe avvenire al ribasso, e che

dunque gli standard tutto sommato elevati di tutela dei diritti sociali garantiti nell’Europa occidentale (e

in Italia) finiscano per abbassarsi. Bisogna tuttavia tenere conto del fatto che, a ben vedere, un tale

rischio esiste anche (e forse soprattutto) nel caso di una mancata introduzione di una dimensione

sociale europea: l’abuso della libertà di movimento può infatti ingenerare (e in parte ha già ingenerato, e

si pensi al caso del Regno Unito90) una “gara al ribasso” negli standard di tutela dei diritti sociali volta a

diminuire l’attrattività dei sistemi di welfare dei singoli Stati membri con riferimento alle migrazioni

intra-europee.

Un sistema perequativo in materia sociale, oltre a contribuire a colmare in qualche misura il deficit

democratico dell’Unione, avvicinandola ai suoi cittadini con interventi “tangibili” e immediatamente

percepibili, potrebbe pertanto consentire di risolvere le problematiche relative a sostanziali abusi della

libertà economica di movimento che attualmente rischiano di avere (e hanno già avuto, come nel caso

della Brexit) un effetto disgregativo anche con riferimento alla già logorata coesione sociale tra i popoli

degli Stati membri. In questa prospettiva, una reale coesione sociale non sembra poter prescindere da

una cittadinanza europea che superi la dimensione strettamente economica, assumendo una dimensione

maggiormente rispondente ai fondamentali principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale.

Vi è infine da chiedersi se esista, nell’Europa attuale e provata dalla crisi, un’identità che possa

sorreggere la volontà e la capacità di individuare un orizzonte comune per affrontare in modo

condiviso le questioni sociali o, in termini più concreti, se esista un quantum minimo di solidarietà tra

cittadini europei che possa giustificare una redistribuzione delle risorse tra gli stessi91. Senza ambire a

dare una risposta all’interrogativo, ci si può forse limitare a osservare che la solidarietà intra-europea,

nella forma di una dimensione sociale dell’Unione, non è soltanto il prodotto di un’identità comune

europea, ma ne è anche il presupposto. La questione non dovrebbe quindi essere ricostruita in termini

90 Si veda di nuovo, sul tema, F. BILANCIA, Il “referendum” del Regno Unito sulla “Brexit”: la libertà di circolazione dei cittadini UE nel mercato interno ed il problema del costo dei diritti sociali, cit., pp. 71 ss. 91 Si veda sul tema A. LO GIUDICE, L’Europa sociale come risposta alla crisi di legittimazione dell’Unione Europea, in Federalismi.it, n. 13/2016, 14 ss. Ha sottolineato che l’identità europea è fondata, tra le altre cose, proprio sul welfare State, A. SPADARO, La “cultura costituzionale” sottesa alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Fra modelli di riferimento e innovazioni giuridiche, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 2/2016, p. 309.

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unidirezionali, bensì bidirezionali: vero è che non può esistere solidarietà senza senso di appartenenza

comune, ma vero è altresì che un senso di appartenenza comune non può svilupparsi senza politiche

sovranazionali che promuovano la solidarietà.

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Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed

Europa della politica

di Renato Balduzzi

1. Anni fa, a un convegno genovese sui rapporti Stato-regioni, Massimo Severo Giannini esordì nel

proprio intervento con un’affermazione che gli astanti, compreso chi scrive (allora giovanissimo

ricercatore), faticarono a intendere univocamente nella sua profondità e che all’incirca suonava così:

“Per quanto ripetitivo possa essere il suo tema, nessun convegno è mai inutile”. Ricordo anche che

l’organizzatore del convegno non la prese molto bene …

L’episodio mi è tornato in mente, quasi per contrasto, a conclusione del convegno “I diritti sociali tra

ordinamento statale e ordinamento europeo”, svoltosi a Milano gli scorsi 5 e 6 marzo 2018 sotto

l’attenta regia di Paola Bilancia1: davvero un convegno utile, sia per il tema in sé, sia soprattutto perché

esso è stato l’occasione di una approfondita messa a punto.

Quanto al tema in sé, perché, pur trattandosi di un argomento molto arato, è tornato di stretta attualità

a seguito della proclamazione congiunta, da parte del Parlamento europeo, del Consiglio e della

Commissione, del cosiddetto “Pilastro europeo dei diritti sociali” (Göteborg, 17 novembre 2017).

Per quanto attiene alla messa a punto, essa è consistita nell’approfondimento e nella verifica di una idée

reçue assai ripetuta, quella secondo cui la costruzione europea avrebbe trascurato, nella sua genesi e nei

suoi primi sviluppi, la dimensione sociale, anzi essa avrebbe fatto sorgere (scrive un autore non proprio

accusabile di frettolosità di analisi …) “un’area di economia pura, ossia un’emancipazione dall’economia

sociale di mercato”2.

Al pari dei diritti sociali, oggetto di “pregiudizi”3 e di “luoghi comuni” (come è stato scritto da altra

prospettiva disciplinare)4, anche il rapporto dell’integrazione europea con essi ha sofferto di

un’insufficiente messa in prospettiva storica, di cui il passaggio, appena citato, di Böckenförde dà

1 Si veda, P. Bilancia, La dimensione europea dei diritti sociali, in questo numero. 2 Così E.-W. Böckenförde, Dove sta andando l’Europa (1997), in Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Bari, Laterza, 2010, p. 182 (corsivo dell’A.). 3 Così J. Luther, Quale futuro per i diritti sociali dopo il summit di Göteborg?, in questo numero. 4 G. Pino, Diritti sociali per una critica di alcuni luoghi comuni, in Ragion pratica, 2016, n. 2, pp. 495 ss.

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eloquente testimonianza: se muove da siffatto assunto anche un autore per il quale prospettiva storica e

prospettiva dommatica sono sempre state strettamente intrecciate, non stupisce che, per decenni e

ancora oggi, si sia continuato a studiare e a insegnare sulla base della premessa circa la “freddezza”

sociale del percorso di integrazione europea e che lo spazio dei diritti sociali nell’ordinamento

comunitario sia stato considerato storicamente secondario e residuale a fronte di una palese e

predominante forza generatrice delle libertà e dei diritti c.d. economici e, per contro, siano state

salutate come vere rotture rispetto al passato talune clausole del Trattato di Maastricht e, prima ancora,

dell’Atto unico europeo del 19865.

Chiarisco: non si vuole negare che, da Maastricht in poi, passando per Amsterdam, per Nizza, per il

secondo e meno fortunato trattato di Roma e, infine, per Lisbona, l’evoluzione del diritto primario

eurounitario abbia mostrato un elevarsi di “tono” e di “rango” del riconoscimento degli obiettivi sociali

dell’Unione e, grazie all’inclusione della Carta di Nizza nel corpo dei trattati, dei correlativi “diritti di

solidarietà”6, né che la progressiva costruzione di una Unione più politica abbia portato con sé

certamente anche l’ambizione a un’Europa più sociale, e reciprocamente7.

Quello che si vuole semplicemente sostenere è che la c.d. clausola sociale orizzontale dell’art. 9 TFUE8,

insieme ad altre disposizioni del diritto eurounitario primario9, costituiscono uno svolgimento, e non

un’alterazione, delle premesse sulle quali la costruzione europea era stata pensata e proposta, e che

l’embricazione biunivoca tra sviluppo economicamente sostenibile e rafforzamento della dimensione

sociale, lungi dall’essere un abbaglio dei padri fondatori, costituisce un postulato indefettibile anche

oggi, a maggior ragione a seguito dell’impatto della crisi economico-finanziaria che ha preso avvio nel

2007-2008.

Siano qui sufficienti alcune rapide considerazioni.

5 Sulla presunta vocazione esclusivamente economica dell’istituenda Comunità europea, giacché essa si sarebbe (pre)occupata di garantire le libertà economiche e, più generale, di assicurare il buon funzionamento del mercato comune v. puntualmente A. Ciancio, All’origine dell’interesse dell’Unione europea per i diritti sociali, in questo numero. 6 Sul punto v., tra i lavori più recenti, O. de Schutter, La Carta sociale europea nel contesto dell’attuazione della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Studio per la Commissione Afco, in Parlamento europeo, Direzione generale politiche interne, 2016 (disponibile sul sito http://www.europarl.europa.eu/committees/it/studies.html). V. ora A. Ciancio, All’origine dell’interesse, cit., spec. §§ 1-2. 7 Sulla correlazione tra Europa politica ed Europa sociale v. A. Patroni Griffi, Ragioni e radici dell’Europa sociale: frammenti di un discorso sui rischi del futuro dell’Unione, in questo numero. 8 «Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana». 9 Si veda soprattutto, oggi, il titolo X del TUE, e in particolare l’art. 151 (già 136): “L’Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti dalla Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duratura e la lotta contro l’emarginazione”.

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In primo luogo, il miglioramento delle condizioni di vita e di occupazione è, sin dall’inizio, esplicitato

come obiettivo e affidato allo strumento dell’integrazione economica essenzialmente per due ragioni di

fondo: la prima, che l’integrazione economica è considerata essenziale per preservare la pace, a partire

già dalla Déclaration di Schuman-Monnet del 9 maggio 195010; la seconda, che i sei Stati membri originari

condividevano tutti, nella legislazione prima ancora che nei testi costituzionali, sia la medesima

concezione di “Stato sociale”, sia la convinzione che la crescita economica avrebbe potuto rafforzare le

politiche sociali (a partire naturalmente dagli aumenti salariali)11. Questo era il comune sentire degli

anni Cinquanta, com’è confermato da una vicenda che, ancorché raramente ricordata da commentatori

sedicenti “delusi”, meglio di altre ci consente di cogliere quel sentire: quando era ancora in fase di

negoziazione, la Carta sociale europea (che pure è una Carta à la carte, la vincolatività delle cui

prescrizioni viene largamente demandata alla volontà degli Stati membri, da cui principalmente è

derivata la sua debolezza, che permane) ebbe un impatto decisivo sull’architettura del Trattato che

istituì la Comunità economica europea nel 195712. Ciò significa che, nello spirito fondatore

dell’integrazione europea, dimensione economica e dimensione sociale sono intese come

indissolubilmente intrecciate, e pertanto la formula di Lisbona dell’”economia sociale di mercato

fortemente (o altamente) competitiva” (art. 3 TUE) va salutata come una presa d’atto e una

precisazione esplicativa di un acquis. Anche sotto questo profilo, dal convegno milanese di marzo 2018

sono emersi utili spunti, a partire dalla menzione, presente già nella relazione introduttiva, della

sottolineatura che il presidente Juncker, in occasione della firma del “pilastro sociale” al vertice di

Göteborg, ha dedicato alla storia del rapporto tra Unione europea (da intendere qui lato sensu,

comprensivo dell’esperienza iniziale delle Comunità) e dimensione sociale13.

10 Le cui lettera e logica non paiono equivocabili: la creazione di un’Europa organizzata e vitale è indispensabile al mantenimento della pace fra le nazioni; l’Europa unita «non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme», ma «sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto»; la fusione delle produzioni del carbone e dell’acciaio, che assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico e getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica, è considerata il primo passo in quella direzione perché contribuirà «al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace», iniziando dall’«uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera» dei settori industriali interessati. In quelle parole la garanzia della pace sta insieme alla diffusione del benessere e si afferma di voler perseguire entrambe attraverso una solidarietà di fatto realizzata grazie a realizzazioni concrete che assumono primariamente le forme dell’integrazione dei mercati e delle economie nazionali. 11 L’osservazione è spesso ripetuta (v., ad es., P. Costanzo, Il sistema di protezione dei diritti sociali nell’ambito dell’Unione europea, relazione alle Primeras Jornadas Internacionales de Justicia Constitucional (Brasil-España-Italia), Belém do Parà (Brasil), 25-26 agosto 2008, consultabile nella Rivista telematica Consulta Online), ma allo scopo di sottolineare l’estraneità del tema dei diritti sociali ai trattati fondativi, al cui interno le preoccupazioni sociali, pure esistenti, “erano come relegate sullo sfondo” (così M. Luciani, Diritti sociali e integrazione europea, in Politica del diritto, 2000, p. 367). 12 Ripercorre la vicenda O. de Schutter, La Carta sociale europea, cit., pp. 13 ss. 13 “La nostra Unione è sempre stata fondamentalmente un progetto sociale. Va al di là del mercato unico, dell’economia e dell’euro e riguarda i nostri valori e il nostro modo di vivere”: v. P. Bilancia, La dimensione europea,

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2. Non varrebbe, per confutare quanto sin qui accennato, opporre che, al di là degli obiettivi enunciati

dall’art. 3 del TUE, nei trattati sono ancora evidenti e resistenti i limiti che l’azione dell’Unione incontra

nelle “materie sociali”: non sussistono in questo campo competenze esclusive; nei settori della sanità,

dell’istruzione e della formazione professionale, l’esercizio della competenza di supporto,

coordinamento e completamento ex art. 6 TUE avviene nel «rispetto delle responsabilità degli Stati» in

ordine alla definizione delle rispettive politiche e dei rispettivi sistemi organizzativi (cfr. ad es. artt.

165.1, 166.1, 168.7 TFUE); la portata del promettente titolo “politica sociale” previsto all’art. 4, lett. b),

TFUE viene fortemente compressa sia in considerazione della clausola che in questa stessa sede

circoscrive la competenza concorrente dell’Unione agli «aspetti definiti nei trattati», sia alla luce della

necessaria “convivenza” con l’art. 5, sia in ragione dello svolgimento che essa trova negli artt. 151 ss.,

ove spesso i confini tra competenza concorrente e competenza di supporto, coordinamento e

completamento appaiono sfumati a seguito della stessa formulazione letterale delle disposizioni.

In sintesi, nelle “materie sociali” l’Unione, prevalentemente, “tiene conto”, “rispetta”, “incoraggia”,

“facilita”, “sostiene”, “completa”; mentre sono gli Stati a mantenere la responsabilità della tutela dei

diritti sociali attraverso i rispettivi sistemi organizzativi. Tutto ciò, ovviamente, indebolisce l’idea di un

“pilastro sociale” dell’Unione che la proclamazione di Göteborg ha inteso erigere a competenze

invariate14. Tuttavia, come accennato, questa lettura tradizionale non rispetta a sufficienza l’andamento

storico del problema: non solo perché, come è stato sottolineato proprio a Milano, tende a considerare

soltanto la dimensione dei diritti a prestazione positiva, trascurando il versante dei c.d. diritti sociali di

libertà15, ma soprattutto perché non dà conto dell’intreccio profondo tra la dimensione economica e

quella sociale insito nello spirito e nella lettera dei Trattati fondativi.

Non è un mistero, da questo punto di vista, che il combinato disposto tra principio di non

discriminazione e libertà di movimento dei lavoratori, valorizzato sia nell’evoluzione della

giurisprudenza della Corte di giustizia, sia nelle periodiche revisioni del diritto secondario in materia di

mercato comune del lavoro, abbia progressivamente costruito, fin dai primi anni della CEE, una forma

indiretta e peculiare di garanzia dei diritti sociali da parte dell’Unione europea: una garanzia

caratterizzata non dalla portabilità nel territorio dell’Unione di un uniforme contenuto dei singoli diritti

pretensivi - il quale muta a seconda dei livelli di protezione previsti nei diversi ordinamenti nazionali per

cit., nt. 16). In senso analogo v. ora G. Pitruzzella, La costituzione economica europea: un mercato regolato e corretto, nulla a che vedere con il fondamentalismo di mercato, in questa Rivista, n. 16/2018. 14 Cfr. punto 18 del Preambolo. Su questo e altri limiti del “pilastro”, oltre ai contributi presenti in questo numero, cfr. S. Giubboni, Appunti e disappunti sul pilastro europeo dei diritti sociali, in Quaderni costituzionali, 2017, n. 4, pp. 953 ss. 15 A. Ciancio, Alle origini., cit.

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i propri cittadini - ma dalla tendenziale portabilità dell’abilitazione ad accedere a siffatto mutevole

contenuto, e che, in ragione dell’interpretazione estensiva della nozione di lavoratore compiuta dalla

Corte di giustizia (in condizioni nel tempo rese favorevoli dalla creazione dello spazio di Schengen),

può oggi considerarsi a corredo della libertà di movimento delle persone tout court e perciò ricompresa

nel bagaglio della cittadinanza europea16.

Inoltre, in nome della libera di circolazione dei servizi, sono nel tempo cresciuti altresì gli spazi di

convergenza sul versante dell’offerta, benché su questo piano il percorso sia assai meno avanzato17.

3. Quando, perciò, l’art. 151 TFUE manifesta fiducia verso la capacità del mercato unico di favorire

l’armonizzazione dei sistemi sociali, l’affermazione merita di essere letta non solo per i limiti intrinseci

dell’Europa sociale che essa dichiara, ma altresì per le potenzialità, già collaudate nella storia

dell’integrazione comunitaria, che essa riconosce. Come sempre nell’esperienza storica, non si tratta di

percorsi ad andamento rettilineo e progressivo.

Ricordare che tali potenzialità non sono il frutto di un accidente della storia o degli innesti progressivi

compiuti sul diritto dei trattati, ma il portato di un pensiero fondativo e antico (si è già fatto cenno alla

dichiarazione Schuman-Monnet)18, se induce, in primo luogo, a prospettare che anche il discorso sul

riconoscimento e la garanzia eurounitaria dei diritti sociali debba fare i conti con quanto spesso si ripete

circa lo studio della “forma di governo” dell’Unione e che vale a maggior ragione per lo studio della sua

“forma di Stato” (che cioè le categorie e gli schemi interpretativi elaborati con riferimento agli Stati

nazionali non siano da soli sufficienti a leggere l’evoluzione di questo unicum della storia che è

l’integrazione europea), tuttavia non implica, in secondo luogo, il rifiuto di guardare alla realtà delle cose

per come essa si presenta.

Così, all’interno della dinamica che per decenni ha visto una positiva interazione, da un lato, tra

espansione delle libertà economiche e portabilità del diritto dei singoli ad accedere ai regimi di

protezione sociale nazionali e, dall’altro, tra questi sviluppi della giurisprudenza e del diritto secondario

e il rafforzarsi del riconoscimento degli obiettivi sociali dell’integrazione a livello di diritto primario,

oggi osserviamo segnali di un rallentamento, se non di un inceppamento, proprio su un punto cardinale

16 Sugli sviluppi più recenti della giurisprudenza eurounitaria si vedano le indicazioni di G. Grasso, I diritti sociali e la crisi oltre lo Stato nazionale, in Diritti sociali e crisi economica, a cura di M. D’Amico e F. Biondi, Milano, FrancoAngeli, 2017, pp. 58 ss. 17 Si vedano a questo proposito le sollecitazioni del Comitato economico sociale contenute nel parere del 13 dicembre 2012 sul tema “Tendenze e ripercussioni dei futuri sviluppi nell’industria dei servizi sociali, sanitari e didattici alla persona nell’Unione europea” (2013/C 44/03). Il quadro della qualità dei servizi di interesse generale (SIG), che comprende anche quelli sociali, è stato presentato, insieme ai relativi obiettivi e linee di azione, nella comunicazione della Commissione COM/2011/900def. 18 Retro, testo e nt. 10.

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quale quello della proporzionalità diretta tra allargamento della libertà di circolazione dei lavoratori ed

espansione degli istituti di protezione sociale. Giustamente nel Convegno milanese è stato sottolineato

che l’ampliamento della libertà di movimento e, insieme, di accesso ai diritti sociali garantiti dagli Stati

membri, di cui sono particolarmente beneficiari i cittadini di quegli Stati che conoscono minore

sviluppo economico e sociale, ha raggiunto livelli la cui sostenibilità inizia ad essere posta in dubbio, alla

luce delle diseguaglianze esistenti all’interno dell’Unione tra sistemi economici, prima che sociali19.

Il progetto degli anni Cinquanta aveva di fronte la prospettiva di unire Paesi, come i primi sei membri

della Ceca, i quali, condividendo una stessa concezione sociale dello Stato, avrebbero visto

fisiologicamente rafforzate le politiche sociali a seguito della crescita economica. Il quadro si è

progressivamente complicato sia con gli allargamenti nell’area dell’Europa occidentale, sia soprattutto

con l’ingresso degli Stati membri dell’ex blocco socialista: la problematica dello Stato sociale si intreccia

quindi con le molteplici fratture che corrono da Nord a Sud e da Est ad Ovest. Al suo interno, non solo

devono convivere differenti visioni nazionali o regionali dello Stato sociale, le quali, a loro volta, si sono

evolute reagendo diversamente alle grandi transizioni geopolitiche ed economiche; ma soprattutto

coesistono diseguaglianze di fatto di fronte alle quali la “valvola di sfogo” della libertà di movimento

non basta più e la leva del ravvicinamento delle legislazioni inizia ad essere utilizzata anche per arginare

i costi che i sistemi sociali dei Paesi più ricchi non intendono sostenere incondizionatamente nei

confronti dei cittadini di quelli più poveri, i quali, a loro volta, sono interessati a frenare la mobilità

quando questa rischia di ripercuotersi sulle loro finanze in base alle regole comuni sui rimborsi.

Si tratta di rallentamenti o inceppamenti che un po’ frettolosamente sono negli ultimi anni imputati alla

crisi economico-finanziaria20 e che per contro sembrano più propriamente da ricollegare alla ben più

profonda, e risalente, crisi delle identità collettive conseguente al declino della modernità e rispetto alla

quale la prima ha funzionato da moltiplicatore.

4. Nel nostro discorso non dobbiamo mai trascurare la circostanza che quella dei diritti sociali non è

una categoria omogenea e uno dei pregi della due giorni milanese è stato proprio quello di aver ben

equilibrato una visione generale del problema con analisi dedicate ai singoli diritti.

La riflessione su come l’accesso transfrontaliero alle prestazioni sanitarie sia oggi regolato dall’Unione

europea offre l’occasione per alcune considerazioni tanto generali, sulla transizione che sta vivendo

l’Europa sociale, quanto puntuali, sulle tecniche di protezione dei singoli diritti21.

19 G. Cavaggion, La dimensione sociale della libertà di movimento delle persone, in questo numero. 20 Ma si vedano le condivisibili considerazioni di M. Luciani, La giurisprudenza costituzionale nel tempo della crisi, in Diritti sociali e crisi economica, cit., pp. 15 ss. 21 A. Papa, La tutela multilivello della salute nello spazio europeo: opportunità o illusione?, in questo numero.

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Come noto, l’Unione ha varato nel 2011 la direttiva n. 24 sull’assistenza sanitaria transfrontaliera22. Essa

è, anzitutto, un esempio emblematico di come la costruzione di un’Europa sociale e di una garanzia

europea dei diritti sociali possa avvenire attraverso il perseguimento dell’obiettivo di «migliorare il

funzionamento del mercato interno e la libera circolazione di merci, persone e servizi»23, compensando,

grazie alla base giuridica dell’art. 114 TUE sul ravvicinamento delle legislazioni, le limitazioni che la

competenza dell’Unione (ex art. 6 TFUE) in materia di sanità pubblica incontra rispetto all’assistenza

sanitaria (cfr. art. 168.7 TFUE). Inoltre – e qui sta il punto che sollecita di più la nostra riflessione –

l’operazione condotta con la direttiva mostra assai bene il duplice volto che possono avere gli atti

secondari di ravvicinamento delle legislazioni volti a disciplinare l’accesso dei cittadini europei ai sistemi

di protezione sociale nazionali.

Da una parte, essa, delineando un quadro comune di regole per la fruizione da parte delle persone delle

prestazioni sanitarie all’interno di uno Stato membro diverso dal proprio, conferisce un apprezzabile

grado di determinatezza alla garanzia eurounitaria di un diritto, quello ad ottenere prestazioni sanitarie,

che l’art. 35 della Carta di Nizza consegnava per intero alle «condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi

nazionali»: a queste condizioni, ora, si aggiungono quelle previste nella direttiva, cui gli Stati membri

devono conformarsi (quelli “di cura” nell’aprire i propri sistemi sanitari; quelli “di affiliazione” a

riconoscere, in presenza di non poche condizioni invero, il rimborso delle prestazioni ai propri cittadini

che vanno a curarsi all’estero per l’impossibilità di trovare adeguata tutela in patria24). Si badi, lo schema

resta quello di una garanzia indiretta da parte dell’Unione e «alla (condizionata) armonizzazione della

possibilità di godere di un diritto prestazionale non si abbina l’armonizzazione dei sistemi di protezione

sociale (sanitaria) nazionali»25. E tuttavia con la direttiva l’Unione scende su di un terreno nuovo e apre

prospettive di armonizzazione indiretta anche dei sistemi sanitari, non immediate ma neppure

trascurabili: si pensi ai principi comuni che gli Stati devono rispettare nell’erogazione dell’assistenza da

parte dei propri servizi, alla promozione da parte della direttiva di una maggiore cooperazione in alcuni

settori come la valutazione delle tecnologie o le malattie rare, all’incentivo al miglioramento della qualità

22 Per un quadro aggiornato cfr. Aa. Vv., L'assistenza sanitaria transfrontaliera. Verso un welfare state europeo?, a cura di D. Morana, Napoli, ESI, 2018. In tema si veda anche L. Busatta, La cittadinanza della salute nell’Unione Europea: il fenomeno della mobilità transfrontaliera dei pazienti, dalla libera circolazione alla dimensione relazionale dei diritti, in DPCE online, 2015, n. 3. 23 Così il secondo considerando della direttiva 2011/24/UE. 24 Per una disamina della direttiva, la cui applicazione non pregiudica l’assistenza garantita ai sensi del reg. 833/2004, e della sua attuazione cfr. C. Giunta, La direttiva sull’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera; G. Cosmelli, Il recepimento della direttiva 2011/24/UE sull’assistenza sanitaria transfrontaliera in ottica comparata: percorsi attuativi, opportunità, prospettive; C. Giunta, L’impatto della direttiva sull’assistenza sanitaria transfrontaliera in Italia: il d.lgs. n. 38/2014 tra attuazione, rinvii ed impegni all’attuazione, tutti in Aa. Vv., L’assistenza sanitaria, cit., rispettivamente pp. 37 ss., 69 ss. e 81 ss. 25 Così D. Morana, Diritto alle cure e mobilità sanitaria nell’Unione europea: un banco di prova per l’Europa sociale. Note introduttive, in Aa. Vv., L’assistenza sanitaria, cit., p. 8.

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dei propri servizi rappresentato dai rimborsi che lo Stato di affiliazione deve riconoscere al cittadino

che può legittimamente ottenere il pagamento di quanto speso per curarsi in altro Stato membro

proprio per l’incapacità del proprio sistema sanitario di prestare quanto dovrebbe essergli assicurato in

forza della legislazione nazionale.

Dall’altra parte, l’adozione della direttiva può leggersi anche come una reazione di “difesa” dei sistemi

sanitari nazionali da una mobilità sanitaria non controllata e, alla luce dell’evoluzione della

giurisprudenza della Corte di giustizia favorevole ad un allargamento delle maglie del principio

dell’autorizzazione preventiva previsto dalla disciplina in materia di protezione sociale dei lavoratori

(reg. 883/2004), potenzialmente costosa.

Si potrebbe quindi affermare che la direttiva 2011/24 ponga di fronte a un caso di impiego del

ravvicinamento delle legislazioni finalizzato a rallentare l’integrazione comunitaria sul terreno della

garanzia dei diritti sociali, che la Corte di giustizia stava facendo avanzare per via interpretativa in nome

del corretto funzionamento del mercato unico e del rispetto delle libertà fondamentali.

Quest’ultima lettura non va sottovalutata.

Ad essa è possibile replicare che la storia dell’Europa sociale conosce simili processi dialettici di

sviluppo della garanzia indiretta dei diritti sociali – il percorso che ha portato al regolamento

1408/1971 e da questo all’appena menzionato regolamento 883/2004 è caratterizzato, ad esempio, da

dinamiche non troppo dissimili –, ove il combinarsi di giurisprudenza della Corte e di legislazione

comunitaria ha tradizionalmente condotto, tra frenate e accelerazioni, a un complessivo avanzamento

dell’integrazione e ad un’espansione dei margini di azione dell’Unione. Sicché vi sono argomenti per

immaginare che il bilancio tra avanzamenti e arretramenti sarà nel tempo positivo.

D’altro canto, il processo di evoluzione dell’Europa sociale deve fare i conti oggi sia con l’opinione

prevalente per cui le politiche di austerity avrebbero eroso la fiducia dei cittadini europei nell’Unione (ne

dà conferma la stessa iniziativa della Commissione Juncker relativa al pilastro sociale)26, sia con la

progressiva assunzione a tema cruciale del dibattito politico dei movimenti interni di cittadini

eurounitari – ai quali nella percezione generale si associano, impropriamente ma con inesorabile

frequenza, quelli dei cittadini extracomunitari nell’ambito dei flussi migratori dall’Africa e dall’Asia. In

un contesto sfavorevole alla crescita di solidarietà tra popoli e tra Stati membri, è plausibile il dubbio

che, anche questa volta, quel bilancio sarà positivo.

Insomma, detto in altri termini, è possibile che l’Europa del diritto, che agisce nelle maglie e nei limiti

dei trattati vigenti, debba essere aiutata, in questa fase ancor più che nel passato, dall’Europa della

26 Su questi profili sono interessanti le notazioni di F. Balaguer, La prospettiva spagnola sul pilastro sociale europeo, in questo numero.

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politica, che di quelle maglie e limiti teoricamente dispone. Ma l’Europa della politica, in tempi di

“sovranismi” di ritorno, sarà all’altezza?

5. Di fronte a questi scenari il Convegno milanese ha offerto dunque indicazioni non trascurabili.

Le considerazioni sin qui svolte possono aiutare ad orientarsi tra due posizioni nitidamente emerse con

riferimento al giudizio sulle prospettive aperte dal “nuovo” pilastro sociale: una “social-scettica” ed una

“scontenta”. Semplifico, ovviamente, ma può essere utile per trarre alcune provvisorie conclusioni.

La posizione “social-scettica” è iperpragmatica, nel senso però di considerare l’esistente come un dato

quasi naturale e immodificabile.

La posizione “scontenta”, al cui interno possiamo collocare anche i costituzionalisti “insoddisfatti”,

rischia un eccesso di astrattezza e tende a condizionare l’uscita dal guado ad una modifica dei trattati

rimessa all’Europa della politica, che non potrebbe cavarsela con il soft law di Göteborg.

Prendere le distanze dagli eterni scontenti non significa appiattimento sull’esistente.

L’Europa della politica, infatti, non soltanto è quella in grado di modificare i trattati, ma anche di dare

un colpo di reni al processo d’integrazione attraverso una pluralità di strumenti, che sono emersi anche

nel Convegno milanese.

Un primo strumento sono i fondi strutturali e il connesso rafforzamento delle politiche di coesione: ne

sono state segnalati i limiti27, ma anche le opportunità28.

Un secondo strumento è invece rappresentato dal rafforzamento della sinergia con l’altro sistema di

protezione dei diritti nello spazio europeo, quello del Consiglio d’Europa, il quale nella nostra materia è

dotato di un atto apposito qual è la Carta sociale europea. L’adesione alla Carta rappresenta un percorso

lungo il quale è più facile la sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, ma che

provocherebbe una mutazione implicita della portata delle norme dei trattati che dichiarano di “tener

conto” dei diritti ivi sanciti. E, secondo la linea interpretativa che è emersa anche nel nostro convegno,

l’adesione non richiederebbe a sua volta un’abilitazione specifica delle istituzioni comunitarie. Inoltre, il

sistema di controllo non è affidato alla Corte EDU, ma al monitoraggio del Comitato europeo dei diritti

sociali, la cui azione, pur valorizzando la giurisprudenza di Strasburgo, non ha portata giurisdizionale29:

il che, forse, preverrebbe anche una buona parte delle criticità nei rapporti con la Corte di giustizia che

si sono incontrate sul percorso, oggi in stallo, di adesione dell’Unione alla CEDU.

27 Si vedano le condivisibili osservazioni espresse da P. Bilancia, La dimensione europea, cit., in questo numero, con riferimento ai tempi di istituzione e funzionamento del Fondo Sociale europeo Plus. 28 Ad esempio nel settore dell’housing sociale: cfr. G. Marchetti, La tutela del diritto all’abitazione tra Europa, Stato e Regioni e nella prospettiva del Pilastro europeo dei diritti sociali, in questo numero. 29 Sul punto cfr. C. Panzera, Diritti in effettivi? Gli strumenti di tutela della carta sociale europea, in Rivista AIC, 2017, n.1

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Se l’economia sociale di mercato è nei geni dell’integrazione europea, non è detto che il “pilastro” non

possa sorgere occupandosi anzitutto di rendere saldo uno dei suoi tradizionali “zoccoli duri”: insomma,

per erigere il pilier, occorre riandare al socle. È forse questo “minimo uniforme” che oggi l’Europa sociale

non ha e dovrebbe impegnarsi a costruire che potrebbe presidiare con garanzie effettive quell’oggetto

un po’ bon à tout faire che talvolta appare essere il c.d. modello sociale europeo. E, su questo piano, il

tema del diritto alla salute merita di essere considerato emblematico nella misura in cui richiama, da un

lato, il problema della garanzia dei diritti sociali negli Stati composti e, dall’altro, l’istituto dei livelli di

assistenza e il connesso dibattito sulla loro natura minima o essenziale.

Tutti temi sui quali i costituzionalisti, come studiosi e come cittadini, potrebbero utilmente impegnarsi

per ridefinire i contorni, e dunque rimettere in movimento, il sogno europeo.

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Notizie sugli autori

- Paola Bilancia è Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano;

- Adriana Ciancio è Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Catania;

- Andrea Patroni Griffi è Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi

della Campania “Luigi Vanvitelli”;

- Jörg Luther è Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi del Piemonte

Orientale “Amedeo Avogadro”;

- Francisco Balaguer Callejón è Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Universidad de Granada;

- Anna Papa è Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Napoli

“Parthenope”;

- Marco Benvenuti è Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso la Sapienza – Università di

Roma;

- Giovanna De Minico è Professore associato di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli

“Federico II”;

- Filippo Scuto è Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Milano;

- Gloria Marchetti è Ricercatore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano;

- Giovanni Cavaggion è Dottorando di ricerca in Autonomie, Servizi pubblici e Diritti presso l’Università degli

Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”;

- Renato Balduzzi è Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di

Milano.