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contemporary city visions_visioni contemporanee della città Parole e immagini sulla città di Bologna I 02 luglio 2009 SGUARD

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contemporary city visions_visioni contemporanee della cittàParole e immagini sulla città di Bologna

I

n°02 luglio 2009

SGUARD

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SGUARD

PROJECT & COORDINATIONProgetto e coordinamento

GRAPHIC DESIGNgrafica e imPaginazione

Finito di stampare

©Luglio 2009

Manuela AssilliFrancesca Barichello

Anna BredaVirginia CaldarellaDaniela CiamarraAntonella CosolaSimone Cucuzza

Miguel Angel D’erricoGiorgia Dolfini

Caterina FacciaDenise Ferrari

Erica GomezDaniela Guccini

Mozhde NourmohammadiChiara Segreto

Giulua SerriZaira Stabile

Julia TikhomirovaLara Zibret

Maurizio Berlincioni

Alfredo Ranieri

COTRIBUTORSIcoLLaBoratori

La foto di copertina e di Alfredo Ranieri.

La quarta di copertina è diMaurizio Berlincioni.

Accademia di Belle ArtiBologna

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SOMMARIO05 EditorialE di Maurizio Berlincioni

06 L’appassionata ricerca... di francesca Barichello e denise ferrari

12 Contratto? No grazie di zaira Stabile e antonella cosola

15 Bologna la verde di daniela ciamarra

20 L’altra immagine della città di anna Breda

26 We are not emo... anymore! di daniela guccini

30 Tana Libera tutti... di chiara Segreto

34 L’asta di bicicletta di erica gomez rodriguez

38 Pa Kua di Simone cucuzza e giulia Serri

42 Un’arte antica di Virginia caldarella

46 I never want to be different, I just want to be me! di Lara zibret

50 Il Cassero: l’importante è partecipare di giorgia dolfini

54 Un porto sulla via di miguel angel d’errico

58 E’ davvero facile smettere di fumare di manuela assilli

61 Un’amante straordinaria di caterina faccia

64 C come calcio di mozhde nourmohammadi

68 Il viaggio continua di Julia tikhomirova

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SGUARD

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EDITORIALEdi Maurizio Berlincioni

Siamo finalmente giunti al secondo appuntamento della rivista SGUARDI, spazio di lavoro per gli studenti del Corso di Fotografia e Comunicazione Sociale del Biennio di Specializzazione in Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e francamente è difficile non provare un senso di soddisfazione nel ritrovarsi oggi tra le mani il frutto del lavoro della nuova redazione che quest’anno ha raggiunto il ragguardevole numero di 19 unità! Come già era stato detto nell’editoriale del primo numero, questa pubblicazione “pensata come il contenitore naturale del lavoro progettuale e sul campo degli studenti coinvolti, prende l’avvio con l’intento di affrontare temi di interesse generale, con caratteristiche di notiziabilità giornalistica e con riferimento costante alla città di Bologna, ai suoi spazi urbani, alle persone che la abitano, alle situazioni che, per vari motivi, rendono questa città un importante centro culturale ad alto tasso di vitalità e animato da un continuo desiderio di sfida e di confronto.” Un’altra città, spazi urbani vicini e lontani, nuovi cittadini dal mondo, piccoli gioielli “verdi” nascosti nel cuore del centro storico, modificazioni corporee e giovanissimi Emo, momenti di aggregazione nelle iniziative del Cassero, il cuore pulsante dello stadio, la scienza al servizio dei grandi disabili, i diversamente abiil e lo sport, i problemi del fumo e quelli che a Bologna cercano di smettere, i giovani sempre alla ricerca di nuovi spazi e momenti di aggregazione, storie di immigrati e creatività all’interno del Pilastro, la città e le sue biciclette nel giorno dell’asta, le mense sociali, gli studenti e l’odissea dell’alloggio a Bologna ed infine la liuteria, una tradizione molto importante per la città. Questi sono i temi affrontati dalla nuova squadra e i risultati ottenuti sono decisamente interessanti. Il numero delle pagine è aumentato: dalle 48 della prima uscita siamo adesso passati alle 76 del secondo numero e l’interesse nei confronti della pubblicazione è certamente cresciuto. Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro che a vario titolo hanno reso possibile la sua realizzazione. Come avevo già accennato all’inizio, quest’anno il numero dei “redattori” è più che triplicato rispetto all’anno scorso e quindi, dovendo fare i conti con un budget decisamente limitato (e per motivi oggettivi purtroppo non modificabile) siamo stati costretti, per non mortificare l’impegno degli studenti, a privilegiare il mantenimento della coerenza e dell’integrità dei singoli reportage rispetto a quello che poteva essere il ritmo grafico dell’impaginazione se solo avessimo avuto un maggior numero di pagine a disposizione e più ampi margini di manovra. I lettori ci vorranno per questo scusare se il risultato potrà apparire graficamente “un pò affollato” nella successione senza troppo respiro dei singoli lavori… non avevamo altra scelta!

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Tante possono essere le motivazioni che riguardano un fenomeno come quello dell’immigrazione. A partire da quelle di tipo economico, con la ricerca di mi-gliori condizioni di vita, si passa a quelle di tipo religioso e politico per sfuggire a repressioni e dittature, e anche per mo-tivi ideologici, sentimentali e quelli legati all’istruzione e allo studio. Ma in parti-

colare quella che abbiamo riscontrato essere la ragione principale per quanto riguarda il trasferimento permanente o temporaneo di gruppi di persone in un paese diverso da quello di origine, negli ultimi 10 anni, è senza dubbio la ricerca di un lavoro. Dando uno sguardo alla città di Bologna, ci siamo rese conto che una del-le comunità straniere meglio integrata e

con il più alto tasso di cittadini presenti in città è quella Bengalese. Nel 1995 i ben-galesi sfioravano i 100 residenti per poi passare in soli 9 anni, a partire dai primi anni novanta, a 1800 iscritti all’anagrafe comunale. Ad oggi si contano all’ incirca 5000 cittadini con regolare permesso di soggiorno il che equivale a porli come la terza etnia rappresentata in città.

“L’APPASSIONATA RICERCA…”testi e fotografie di Francesca Barichello e Denise Ferrari

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Il lavoro, la ricerca di un impiego dignito-so per sfuggire alle mancanze di un paese che non offre opportunità adeguate agli studi da loro frequentati, l’ ipotesi di una qualità di vita migliore, sia da un punto di vista economico che socio-ambientale e la speranza di poter realizzare sogni e de-sideri spesso solo immaginati verso terre lontane… ha portato molti giovani ra-gazzi ad allontanarsi dai loro paesi, dalla loro cultura, dalla religione e dalle proprie famiglie. Dopo aver chiacchierato con al-cuni di loro, giovani dall’età comprese tra

i 22 e i 30 anni, abbiamo scoperto che quasi tutti sono arrivati grazie all’appog-gio di parenti o amici già qui residenti da tempo e già decisamente ben integrati. Sono famiglie per l’appunto arrivate nella città di Bologna circa 20 anni fa e ad oggi qui residenti con buoni lavori e una vita soddisfacente.Quello che sembra essere una costante ridondante nelle loro parole è proprio questa esigenza e il desiderio di trovare un lavoro per poter guadagnare dei sol-di che gli permettano di vivere una vita

come ad oggi in Bangladesh sarebbe per loro impossibile. Arrivati qui con questa energia positiva, hanno ben presto ini-ziato il loro percorso verso l’integrazione con usi, costumi e cultura di un paese che non gli appartenevano. Hanno seguito corsi di italiano organizzati dai Salesiani, luogo all’interno del quale si sono cono-sciuti e hanno creato le prime amicizie. A differenza dei loro parenti, arrivati qui in nave come clandestini e completamente soli, questi ultimi arrivati hanno trovato molte porte aperte.

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Questo non significa che piccole difficol-tà di comprensione ed inserimento non siano ancora presenti, ma probabilmente anche gli stessi cittadini bolognesi si sono ormai “abituati” a condividere spazi e vita sociale con questi nuovi concittadini..

Non dev’ essere facile lasciare il pro-prio paese, i colori e gli odori abituati a respirare, il paesaggio con il quale si è cresciuti…i costumi, il cibo e soprattutto gli affetti. Forse è proprio quest’ ultimo aspetto, quello più sentimentale, comu-

ne ad ognuno di noi, a creare malinconia negli sguardi di questi ragazzi.Taher Abu, che in lingua Bangla significa sacro, ha 22 anni, proviene da Comilla ed è qui da un anno e sei mesi. Vive con lo zio e la sua famiglia di sei persone.

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Ha lavorato per sei mesi per un’azienda come metalmeccanico e oggi è disoccu-pato. Non ha problemi con gli italiani, si è sempre sentito ben accetto e gioca a cal-cio con la squadra del Corticella. Ma tutto questo non ha comunque cambiato il suo obbiettivo principale: guadagnare soldi a sufficienza che gli permettano di torna-re in Bangladesh, sposare la sua ragazza Shushmita e ritornare qui con lei.Mentre ci parlava della sua vita non ab-biamo potuto fare a meno di scorgere dietro a quel giovane sguardo vivo e spe-ranzoso un velo di tristezza e solitudine.Uscire con il cugino coetaneo e con altri ragazzi bengalesi, pur dovendo rientrare presto la sera, nel rispetto di alcune re-gole presenti nella loro religione musul-mana, non è sufficiente a cancellare i loro sentimenti per le persone lontane.Così avviene anche per Faroque Hos-sain, (giudicare,dividere), un ragazzo di 28 anni proveniente da Dhaka. E’ qui da due anni e nonostante una forte nostal-gia iniziale,ad oggi è felice di vivere nel nostro paese e qui vuole restare perché si sente più libero e con maggiori possi-bilità di lavoro. Laureato in matematica, non avendo trovato lavoro nel suo setto-re aveva inizialmente pensato di trasfe-rirsi a Londra ma la morte del padre l’ha costretto, anche per motivi economici a raggiungere la sorella ed il cognato già qui da 15 anni. Appena arrivato ha lavo-rato per sei mesi distribuendo la rivista “City” e da 8 mesi lavora presso una fab-

brica per 1000 euro al mese.La libertà di cui qui riescono a godere, anche se non direttamente legata all’in-dipendenza economica, è senza dubbio molto superioriore per ciò che riguarda il divertimento.La religione Islamica vieta infatti l’assun-zione di alcool e di carne d’origine sui-na e li obbliga a rientrare presto la sera per rispetto verso le loro famiglie, forse è per questo che alcuni di loro ormai da tempo non seguono più con stretta os-servanza le leggi del corano e assumono con maggior frequenza atteggiamenti occidentali. Anche per quanto riguarda il lato amoroso nelle due culture le cose

sono decisamente diverse. I Bengalesi fa-ticano molto ad entrare in sintonia con i modi di fare delle ragazze italiane perché sono abituati a lunghi corteggiamenti e promesse di fidanzamento e successivo matrimonio già decisi in giovane età.Esiste poi chi qui ha trovato “il proprio posto nel mondo”. Bhuiyan H.M.Nazmul Haque, (generazione),per gli amici Nau-shad, di 29 anni, ormai qui da due anni, laureato in filosofia, ha trovato lavoro in una cartoleria in Via Petroni perché il tito-lare del negozio è del suo paese.Vive al Pilastro con la famiglia di sua sorel-la e tutto di qui sembra piacergli. La casa ed il quartiere in cui vive, il cibo, il clima

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e il suo lavoro. E’ sposato da quattro anni ma sua moglie vive in Bangladesh per-ché non ha ancora ottenuto il nulla osta, per averlo è infatti necessario un reddito annuo pari a 7.400 euro. Dopo un inizio difficile che solo dopo otto mesi l’aveva riportato nel suo paese per la mancanza di un lavoro, oggi ha finalmente raggiun-to il suo scopo: un’ impiego sicuro, amici bengalesi e italiani e una famiglia attorno a se che speriamo presto possa comple-tarsi.La ricerca della felicità, del proprio spazio nel mondo, la speranza di migliorarsi e migliorare la propria vita è un percorso lungo e travagliato. Spesso percorriamo sentieri sbagliati e più e più volte cambia-mo le nostre rotte, la strada da percorre-re, sperando di imboccare quella giusta, quella che ci farà stare meglio, che ci do-nerà serenità e gratificazione…con la vo-lontà e la speranza di alzarci ogni giorno con il sorriso, pronti ad iniziare così una nuova giornata. I motivi che ci spingono sono molti, ma al di là degli aspetti eco-nomico-lavorativi, crediamo che siano gli affetti, l’amore di cui ognuno di noi ha bisogno, per poter veramente far restare

una persona in un luogo e farla sentire a casa propria. La scoperta, la novità e la gioia non sono le stesse se non si possono condividere con qualcuno che si ama… ed è per questo che chi, pur venendo da un paese lontano, ha trovato qui l’amore, forse ha realmente coronato e concluso la sua “ricerca”.Amin Ruhul Kazi, 30 anni, di B.Baria è or-mai qui in Italia da 7 anni e quindi a tutti

gli effetti adesso è un vero e proprio “cit-tadino bolognese”. Per integrarsi nel no-stro paese e sopravvivere ha fatto qual-siasi lavoro: lavapiatti, cuoco, cameriere, barista… ma la sua indubbia capacità di adattamento, la sua disponibilità ed aper-tura verso una società che non conosceva e ben diversa dalla sua, il suo sorriso con-tagioso e la voglia di fare, l’hanno portato ben presto a farsi amare da chiunque lo

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incrociasse, conoscesse o anche solo ci lavorasse assieme.Carattere e spirito positivi, pronto a non arrendersi mai neppure di fronte alle diffi-coltà e come nel suo caso, completamen-te solo in un paese a lui sconosciuto, sono forse queste le caratteristiche per poter-cela fare. Averlo conosciuto ha portato nelle nostre vite qualcosa in più, qualcosa di nuovo che prima avevamo solo letto in libri o visto nei documentari.Ogni volta che sali le scale di casa, profumi di spezie esotiche arrivano alle tue narici portando con sé le immagini e i colori di terre lontane…nuovi sapori, nuove usan-ze… mangiare il riso con le mani, con un rituale da rispettare nell’ordine delle por-tate. Ascoltare le storie che si celano die-tro ogni atteggiamento che noi interpre-tiamo con la nostra mentalità occidentale e che invece per loro sono spesso legate ad esempi e storie delle vite animali, leg-gende, quasi magici rituali.Allora tutto diventa uno scambio, una crescita che si fa insieme e che ad orecchi curiosi ed intelligenti può solo aggiun-gere invece che togliere. Amin ha sapu-to amare e farsi amare ed è per questo, che proprio nel nostro paese ha trovato l’Amore. Circa un anno fa ha conosciuto Paola, una ragazza di Reggio Emilia con la quale il 24 Aprile di quest’anno si è spo-stato. Una semplice cerimonia in comune alla presenza dei suoi amici più cari, ha coronato la loro storia d’amore e legaliz-zato una relazione che già porta con sé il frutto del loro amore… aspettano, infatti, una bimba che presto verrà al mondo.Dopo aver vissuto in squallidi buchi e monolocali, aver condiviso piccoli spa-zi, stenti e difficoltà con amici e/o sco-nosciuti, aver lottato per il permesso di soggiorno, per un lavoro in regola, per la possibilità di avere una vita dignitosa, regolare e serena qui in Italia… finalmen-te egli ha trovato tutto questo assieme all’amore. Oggi egli vive in centro, è spo-sato, ha un lavoro e ben presto diventerà padre. Continuerà così una storia che ha inizio circa 20 anni fa, quando i primi nu-clei familiari provenienti dal Bangladesh si stabilirono nel nostro paese portando qualcosa di nuovo e diverso nella nostra società e nella nostra cultura.

“Perché la vita è così. Procediamo a piccoli passi. rialziamo la testa e torniamo ad affrontare il volto feroce e sorridente del mondo. Pensiamo. agiamo. Sentiamo. diamo il nostro piccolo contributo alle maree del bene e del male che inondano e prosciugano la terra. trasciniamo le nostre croci ammantate d’ombra nella speranza di una nuova notte. lanciamo i nostri cuori coraggiosi nelle promesse di un nuovo giorno. Con amore:l’appassionata ricerca di una realtà diversa dalla nostra. Con struggimento:il puro, ineffabile anelito di essere salvati. Poiché fino a quando il destino ce lo consente, continuiamo a vivere.”Gregory david roberts, “Shantaram”

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LASCIATE OGNI SPERANZA O VOI CH’ ENTRATE ...

Ogni anno migliaia di studenti decidono di proseguire gli studi lontano dalla pro-pria famiglia con tante difficoltà. Prima tra tutte c’è la ricerca della “casa perfetta” che è quasi impossibile e pur-troppo le strutture pubbliche sono insuf-ficienti. Ci si imbatte così in una giungla immobiliare fatta di contratti irregolari, subaffitti e prezzi esorbitanti. Sono, ovviamente, gli studenti fuori sede a pagare le conseguenze di questa situa-zione che rappresenta un vero e proprio business per i proprietari più furbi! Le città più care d’Italia sono Milano, Roma, Firenze e Bologna dove il costo di una stanza varia da 300 a 500 euro al mese, spese escluse. A Bologna un posto letto in camera doppia è mediamente 230 euro, in camera singola 390 euro e dulcis in fundo: posto letto con divano letto in cucina a soli 170 euro. I prezzi logicamente variano se si sceglie di abi-tare in un sottoscala o in una ex cantina con “vista asfalto”. La cosa peggiore è che molto spesso le condizioni degli alloggi

non sono tanto confortevoli, i prezzi sono più alti di quanto si possa immaginare, per case che non sono nemmeno degne di essere chiamate case e i contratti di lo-cazione sono spesso inesistenti o irrego-lari. Nel 2008, con il contributo delle fiam-me gialle, sono state scoperte due donne bolognesi (madre e figlia) che affittavano un centinaio di immobili (per la maggior parte in nero) a studenti e immigrati. Un altro problema è che una buona par-te delle abitazioni sono state costruite nei primi anni ’50 e spesso gli impianti non sono a norma. Come si può dimenticare il caso della studentessa molisana morta nel 2007 per le esalazioni di monossido di carbonio di uno scaldabagno. Per far fronte a questo disagio, anche la sinistra universitaria ha organizzato in passato cortei e manifestazioni per protestare contro le condizioni delle case in affitto a studenti, attraversando la città con lo slogan: “ BOLOGNA LA ROSSA AFFITTA IN NERO”. L’Arstud (Azienda Regionale per il Diritto

CONTRATTO? NO GRAZIE

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Franco: “290 euro senza contratto per una doppia con la muffa sulle pareti. la casa è molto vecchia e tenuta male. Gli infissi non si chiudono, c'è muffa ovunque e i mobili sono fatiscenti. tra un pò andrò via”.

angela: “in 3 anni ho cambiato 4 case. dove sono ora pago un pò di più, 380 euro in singo-la spese escluse, ma la casa è stata ristruttu-rata di recente. l'unica pecca: il contratto non proprio regolare”.

O VOI CH’ ENTRATE ...

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allo Studio Universitario) mette a disposi-zione ogni anno un certo numero di bor-se di studio e posti alloggio in studentati che, naturalmente, riescono a soddisfare solo in parte la richiesta degli studenti fuori-sede. In particolare l’ER.GO, (Azien-da Regionale per il Diritto agli Studi Su-periori), offre alloggi nelle 44 residenze presenti sul territorio nazionale. L’acces-so avviene tramite una graduatoria che presuppone requisiti sia economici che di merito, ma non tutti gli studentati of-frono gli stessi servizi. Lo studente deve spesso accontentarsi di vivere lontano dalla propria struttura universitaria, in una camera con bagno e cucina in comu-ne e lavanderia a pagamento. Di fronte a questa situazione alcuni studenti op-tano per studentati privati, che, a prezzi leggermente superiori, offrono servizi migliori, in cambio però di regole più rigi-de. Si diventa una vera e propria famiglia dove ci si preoccupa del comportamen-to, dei bisogni e della sicurezza comune. Si organizzano incontri per confrontarsi e periodiche prove anti incendio in re-gola con le vigenti norme comunitarie. A tal proposito è assolutamente vietato in qualsiasi struttura fumare nelle camere e

introdurre elettrodomestici. Intervistando i fuori-sede che popolano il centro universitario bolognese è emer-so che solo una minoranza può permet-tersi una stanza tutta per sé, mentre gli altri sono costretti a dividere la camera con una o più persone. E’ abbastanza dif-fuso anche il problema delle discrimina-zioni. Spesso ci si ritrova la porta chiusa in faccia per aver “ingenuamente” dichia-rato di frequentare facoltà artistiche, di essere un papa boy o amanti di Maria De Filippi.

lucio: “Nello studentato privato l’atmosfe-ra è molto accogliente e non ho limitazioni di orari. Ci sono degli incontri facoltativi come quello dei vespri ( mercoledì sera, ogni settimana) o le messe stabilite pre-festive). obbligatorio, invece, è il colloquio a fine anno, dove si valutano gli esami sostenuti, il comportamento e in base a questo si ha una eventuale riconferma del posto letto”.

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L’unico modo per porre fine a questa odissea potrebbe essere un intervento pubblico sulla questione degli alloggi studenteschi e una moltiplicazione dei posti alloggio in studentati per calmiera-re il mercato privato e ricondurlo a livelli di accettabilità. Con questi affitti proibi-tivi il diritto allo studio diventa un lusso da ricchi e chi non ha possibilità econo-miche è costretto a rinunciare.

Francesca: “la vita in studentato pone alcune li-mitazioni, ad esempio non poter ospitare nessu-no, ma in compenso ci sono delle agevolazioni: lavanderia a 1 euro e internet gratuito!Per gli assegnatari di borsa di studio la spesa è davvero minima rispetto ai prezzi di mercato. ad ogni modo, con piccolo aumento, chiunque può far domanda per un posto letto in queste strutture”.

andrea: “io abito in una casa molto carina e il mio proprietario è una persona squisita. E' un pò fuori il centro universitario, ma in singola spendo 300 euro con tutte le spese incluse!”

laria: “370 euro per una singola spazio-sa, l’uminosa e carina perchè l’ho arredata io. la casa in generale però è tenuta male: impianto elettrico non a norma, servizi igie-nici in pessime condizioni, infissi vecchi che non si chiudono e senza contratto. l’unico punto a favore?E’ in centro”.

antonio: “No comment. Vivo in una casa che per andare in bagno devo attraversa-re il pianerottolo del palazzo ed entrare in un altro appartamento. Quanti sacrifici per spendere solo 180 euro!”

Marika: “ io spendo 267 euro in doppia spe-se escluse, non molto lontano dalla mia facoltà. Ho un contratto regolare e la casa non è messa tanto male, solo che ci entrano a mala pena 2 letti, 1 armadio a 3 ante e 1 sola scrivania”.

Paola: “ la ricerca di un posto letto è sta-ta difficile. Per giorni ho raccolto numeri di telefono e visitato molte case prima di fare la scelta definitiva. Molto spesso però, ho trovato stanze in condizioni che non corri-spondevano agli annunci accattivanti”.

Testo e Fotografie di Antonella Cosola e Zaira Stabile

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B O L O G N AL A V E R D Efoto e testo di Daniela Ciamarra

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Avere un giardino a Bologna non è cosa da molti, soprattutto se vivi in centro.O meglio, avere un giardino a Bologna se vivi in centro equivale a non condividere questa fortuna con chi, passeggiando per le vie cittadine, ignora del tutto che dietro quei portoni, quelle mura, si nascondono edere, prati, alberi, scoiattoli, statue dei sette nani. Ma basta osservare una foto di Bologna dall’alto su Google Maps per ca-pire che il verde c’è, e neanche poco. Mo-dificando il proprio punto di vista cambia anche la percezione che si ha della città

e con questa anche la consapevolezza di vivere in un posto che si crede di cono-scere ma si scopre pieno di angoli sco-nosciuti e nascosti. Tanto più sconosciuti e nascosti quanto più sono gli spazi che vanno sotto l’etichetta di “proprietà pri-vata”. Decido quindi di scoprirne alcuni, e mi ritrovo spesso con il naso infilato tra le sbarre dei cancelli nell’impossibilità di inoltrarmi in queste piccole “giungle” cit-tadine. A volte trovo qualcuno a cui chie-dere se posso entrare a fare qualche foto, alcuni dicono sì, altri no, ma anche quelli che dicono sì non sembrano esattamente felici. Concludo quindi che i giardini nelle case del centro esistono, semplicemen-te non è così facile riuscire a vederli in quanto ad esclusivo uso e consumo, an-che solo strettamente visivo, dei legittimi proprietari. Girovagando alla ricerca di frammenti fo-tografici mi sono ritrovata a percorrere tutta Bologna, da via Santo Stefano a via San Vitale, via Castiglione fino a via Bat-

tisti, zone ad alto tasso di verde, quindi non circoscritte ma disseminate per tutto il centro. L’idea del giardino è antica quasi quanto l’uomo. Esiste praticamente da sempre, già nell’antico Egitto veniva isolato dal resto per assumere la connotazione di un “dentro” rassicurante, regolare, ordinato, rigoglioso, caratterizzato dall’armonia dei colori, dalla disposizione matemati-ca e dalla combinazione delle forme. Le mura perimetrali, allora come oggi, impe-divano indiscrezioni esterne e definivano un ambiente intimo privato, riparato e separato dal resto del mondo. La cura del giardino come ideale prose-cuzione dell’abitazione ha prodotto in ogni epoca e cultura una sua particolare concezione, tanto da poter affermare che accanto alla Storia dell’Arte ufficiale si è creata una vera e propria Storia dell’Arte del Giardino. Così fino ai giorni nostri tro-viamo il giardino greco, islamico, giappo-nese, polacco, inglese nonché

Nella prima pagina e in questa giardini in via Castiglione. Accanto particolare di Cocos Nuci-fera.

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tipologie di giardino come riflesso di correnti filosofiche come quello roman-tico, illuminista, pittoresco fino al vivace dibattito dell’800 tra giardino formale ed informale.Periodo buio fu il Medioevo.Navigando su internet scopro l’esistenza della figura professionale del landscape designer e di numerosi siti che si oc-cupano della sua attività. Il suo lavoro consiste nella progettazione di giardini attraverso l’utilizzo di elementi sia natu-rali che artificiali. Provo a leggere alcune descrizioni, mi sembrano molto detta-gliate, forse troppo, alla fine mi chiedo che fine faccia la meravigliosa casualità della natura.Così chi vuole un proprio angolo di Para-

diso Terrestre potrà ottenerlo ad esempio inserendo nell’ingresso sul lato sinistro Hedera Helix e rosai arbustivi tappezzan-ti, con aggiunta di ghiaietto. Nel giardino Buxus Sempervirens forgiato a sfera, Aga-panthus Umbellatus, Lavandula Officina-lis, nel lato ingresso interno Acer Japoni-ca in varietà, con una pavimentazione di passaggio fra prato e ghiaietto. E magari un cancello centrale con arco e rosai con quinta di Hedera Helix ad altezza non simmetrica sui lati del cancello, con al-beratura in affaccio al retro abitazione a portamento colonnare. Come rinunciare poi ad alberature a filare in Olea Europea alterante a Acer Campestre con file in lavanda e macchie arboree con Populus Nigra Piramidalis?

C’è davvero da sbizzarrirsi.A chi come me non ha la fortuna di avere un giardino non rimane che scorgere fur-tivamente attraverso spiragli di portoni aperti o tristi sbarre pennellate di verde proprietà privata e poi magari fare un sal-to ai Giardini Margherita o alla meglio sui colli bolognesi per godersi una piccola porzione di Madre Natura.

Sopra vista dall interno di un cortile in via Battisti. Sotto giardino in Strada Maggiore. Nella pagina accanto in ordine dall’alto a si-nistra giardino in via Santo Stefano, Hedera Helix su via Santo Stefano e due particolari di un giardino in via San Vitale.

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L’altra immagine della città

Bologna: quali e quante sono le immagini della città che non conosciamo?Perchè è alcuni posti sono difficili da scoprire?

L’organicità del tessuto urbano si interrompe, la continuità dei percorsi viene disturbata, la fruibilità degli spazi diventa difficile e la lettura del paesaggio inquietante. Ci troviamo così di fronte a nuove immagini della città, degli scorci e dettagli mai notati prima che sfiorano, senza intersecare, i nostri percorsi abituali. La città ha così perso la sua riconoscibilità, la sua immagine è deformata, dilatata e spesso incomprensibile. L’equilibrio complesso dello spazio urbano è venuto a mancare creando dei luoghi non classificabili, degli errori o forse dei semi per nuove interpretazioni dello spazio dentro la città. Possiamo utilizzare molti strumenti di analisi per formulare ipotesi e teorie che spieghino il crearsi di queste problematicità o mutazioni. Ciononostante, in questa sede ci limiteremo ad un’analisi visivo-percettiva più che socio-antropologica o storica.

L’identità visiva di ogni città, paese o luogo con la sua peculiare complessità può essere considerato come la somma di tutte le immagini percepite da ogni singolo fruitore. Quest’immagine che ci viene restituita, nonostante la sua ricchezza e complessità, è generata da una semplice combinazione di elementi in equilibrio e dialogo reciproco. La città non è soltanto oggetto di percezione per migliaia di persone profondamente diverse per carattere e categoria sociale, ma anche il prodotto di innumerevoli operatori che per motivi specifici ne mutano costantemente la struttura. Se analizziamo il tessuto urbano dal punto di vista visivo-percettivo possiamo riassumerlo in pochi elementi quali: percorsi, barriere, riferimenti, aree e nodi. Attraverso questi elementi il visitatore percepisce la città e si muove al suo interno.

testo e fotografia di Anna Breda

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La città è un insieme di layer che si possono distinguere tra loro per importanza, destinazione d’uso e velocità di percorribilità. All’interno della città si attivano dei flussi che mettono in realazione i diversi livelli ed elementi tra loro, creando una gerarchia d’importanza e una caratterizzazione dei luoghi.Se l’equilibrio tra gli elementi e negli el-ementi stessi viene e mancare si creano delle disfunzioni nei flussi, degli errori, dei luoghi non identificabili che rompono la continuità percettiva e funzionale della città. In questo modo la città perde riconoscibilità e gli elementi si interseca-no tra loro senza alcuna logica resituendo così immagini insolite e curiose che po-trebbero essere frutto di fotomontaggi. Possiamo definire queste nuove imma-gini delle “anti-cartoline” non per la

Il tessuto urbano non è che una combinazione di elementi: percorsi, barriere, riferimenti, aree, margini e nodi.

“Posso stare qui?”

“I layer si sovrappongono senza alcuna logica”

“Come posso arrivare dall’altro lato”

loro bruttezza o perchè non ritraggano anch’esse la città ma perchè non sono immagini attraverso le quali siamo abi-tuati ad identificare e riconoscere la città stessa. Chiunque potrebbe riconoscere Bologna attraverso l’immagine delle “Due Torri” o del portico di via Saragozza, sono infatti i punti di riferimento della città.Quando l’equilibrio viene meno la perce-zione di stranezza e la mancanza di iden-tità è immediata. Gli interrogativi che ci poniamo sono sempre gli stessi “Posso stare qui?” o “Come posso arrivare dall’al-tro lato” o ancora “Mi devo essere perso da qui non si va da nessuna parte”. Rima-niamo quindi disorientati o addirittura impauriti, non riconosciamo più nello spazio ne una funzione ne un’identità, il luogo diventa quindi un “non luogo”. Lo spazio urbano è caratterizzato dal movimento, da flussi e cambi di veloci-tà; laddove questo movimento s’arresta senza motivo alcuno oppure quando non è possibile individuare un riferimen-to nasce un “punto d’errore”, il sistema si inceppa. Proprio come se sullo schermo del nostro computer apparisse la scritta “FATAL ERROR”.

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vuoti urbani :

Queste disfunzioni spesso generate da un errata interazione tra gli elementi, ad esempio tra un percorso come potrebbe essere la tangenziale ed un area-quartiere.

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l’immagine della città è deformata

Non riconosciamo più nello spazio ne una funzione ne un’identità, il luogo diventa quindi “UN NON LUOGO”.

In tutte le città si creano bene o male questi spazi spesso generati da un errata interazione tra gli elementi; ad esempio tra un percorso come potrebbe essere la tangenziale ed un area-quartiere o tra un limite come la ferrovia ed un percorso pedonale.I flussi vengono naturalmente deviati per schivare gli errori, i quali spesso, in questo modo crescendo inglobano l’area circostante sempre più isolata dai flussi. Si creano così dei vuoti, degli spazi di dilatazione nel tessuto urbano che alterano gli equilibri delle aree cicostanti.

L’errore diventa un’entità isolata che vive spesso di micro-flussi estranei alla città, così con il tempo gli “spazi errore” possono acquisire un’identità indipendente avviando un processo naturale di riappropriazione del suolo urbano. A questo punto se la nuova funzione è utile alle aree confinanti riattiva il flusso e rivitalizza l’area eliminando in parte l’errore, se invece è nociva accuisce la problematicità e rallenta e disperde i flussi circostanti.Possiamo così concludere che per risanare e ricucire il tessuto urbano laddove ci sono degli errori di flusso parziali o totali bisognerebbe ridefinire un’identità funzionale o meglio indurla in modo da non snaturare gli equilibri delle identità circostanti. Non ci rimane che suggerire delle soluzioni o appoggiare e rafforzare i processi positivi spontanei ed intervenire radicalmente quanto il processo innescato è ulteriormente distruttivo.

Bibliografia:Kevin lynch, L’immagine della città,marsilio editorel.altavelli e r.ottaviani, Il sublime urbano - Architettura e New Media, gruppo mancosu editore

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Bologna & Public Art: sperimentazioni per ricostruire attraverso l’arte

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[...] “Suggerire delle soluzioni o appoggiare e rafforzare i processi positivi spontanei.”

L’arte urbana rappresenta tentativi non definiti di usare e vedere lo spazio della città, in costante ridefinizione. Cerca di produrre nuovi valori in spazi “sofferenti” dove manca qualunque legame con un disegno urbano riconosciuto ed accettato. Le trasformazioni urbane in questi luoghi avvengono spesso “dal basso” attraverso una sorta di ricostruzione di un patrimonio culturale collettivo. La public art non si limita ad interpretare uno spazio dato, più o meno modificabile, ma anche uno spazio in continua evoluzione, sperimenta una formula con cui costruire attraverso l’arte l’identità dei luoghi senza memoria e proiettarli verso il futuro.

Tra arte urbana e architettura alla ricerca di un’identità

l’identità dei luoghi

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“Un articolo sugli “emo”? ma chi sono?” Ecco la domanda più frequente che mi veniva posta quando dicevo di voler scri-vere un articolo su questo nuovo trend adolescenziale.

Non ho intenzione di appesantire il tut-to con una ricostruzione storica del movi-mento. Spendo quindi solo qualche riga per chiarire le idee a tutte quelle persone che di emo non hanno mai sentito par-lare.

L’evoluzione dell’ Emo Way of Life

Il termine emo nasce negli anni ottan-ta a Washington DC per distinguere un genere musicale che pone le sue radici nel punk e nell’hardcore, rivendicando, però, l’aspetto melodico e compositivo delle canzoni. Il testo acquista rilevanza e spesso parla di sofferenze sentimentali (da qui appunto emotional).

Negli anni novanta l’ emocore (che fa riferimento alla commistione di sonorità hardcore, punk ed emo) attirò l’attenzio-ne delle major, che non si fecero scappare i gruppi più talentuosi. Alcune di queste band, malgrado le ingenti somme di de-naro offerte, rimasero fedeli alle etichette indipendenti ed iniziarono ad usare l’ap-pellativo “emo” come dispregiativo per additare l’inflessione commerciale di altri musicisti. Il successo di questo genere sfuma alla fine del decennio scorso.

Da cinque anni a questa parte si è tor-nati a parlare di emo, ma questa volta la musica conta poco o niente. La moda esplosa tra i teenager di tutto il mondo, che ha viaggiato velocissima anche gra-zie al web, si baserebbe solo su un eccen-trità e una esasperata voglia d’apparire. Almeno questo è quello che dicono le fonti d’informazione.

Il quotidiano la repubblica dedica due pagine di descrizione minuziosa al fenomeno riemerso negli ultimi anni. Il “fenomeno”, “l’ondata”, questi i termini usati dalle varie testate. Il times è uno dei primi ad occuparsi del “caso” nel 2005,

We are not emo… anymore!

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pubblicando una lunga inchiesta della giornalista Michele Kirsch. I telegiornali allarmano le famiglie con servizi su quel-la che definiscono una setta portatrice di cattive ideologie. Daria Bignardi spende un’intera puntata del suo programma tra-smesso su la7, le invasioni barbariche , a cercare di descrivere la comunità emo.

Su Youtube impazzano video, creati da altri giovanissimi, che fanno il verso agli emo. I coetanei loro imitatori riconosco-no questi “paranoici” ragazzi in un coro la-mentoso: “Io sono emo, mi taglio le vene e sono depresso”. Negli Stati Uniti è nato un telefilm animato che ha come prota-gonisti dei supereroi che nella vita di tutti i giorni sono ragazzi emo.

Come riconoscerere un emo

Il profilo comportamentale di qualsiasi emo, secondo i media, può essere con-traddistinto da un pessimo stato d’ani-mo (depressione e misoginia) e da una spiccata sensibilità. Riconoscere un emo d.o.c. dall’abbigliamento è senza dubbio più facile: jeans neri a sigaretta, cinture borchiate e maglie scure con stampe che nella maggior parte dei casi raffigurano teschi o cuori.

Avrei potuto scrivere pagine e pagi-ne sugli emo dopo aver letto, ascoltato, guardato tutto il materiale informativo che circola in rete, ma prima di affidarmi alle notizie “confezionate” ho voluto par-lare con dei ragazzi, qui nel capoluogo emiliano.

Bologna infatti vanta una massiccia pre-senza di “giovani alternativi”, rintracciabili soprattutto nei week-end lungo i viali al-berati del parco della Mantagnola.

Confessioni di un ex-emo

Incontro per strada un gruppo di adole-scenti, li squadro. Pantaloni stretti, ciuffo da un lato, trucco pesante. Eccoli, sono gli emo. Mi fermo impacciata e gli chiedo di posare per una foto, sono molto disponi-bili, mi danno anche i numeri di telefono e dicono che per l’intervista non ci sono problemi.

Mi sono documentata a fondo, ho

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tato per giorni la loro musica, ma non è stato sufficiente. Quando mi son trovata davanti questi adolescenti frizzanti quasi non potevo credere che ne sapessero più di me.

L’intervista parte con ordine, i ragazzi in semicerchio di fronte a me mi dicono i loro soprannomi, l’età (tra i 14 e i 15 anni) e rispondono intimiditi alle prime domande.

La musica ascoltata da questi sei ado-lescenti non corrisponde al fenomeno delle teenage-band che imperversa sui canali musicali. “La musica di Mtv non la seguo tanto, mi sembra ripetitiva” Heyd, 14 anni, di bologna. Di band come i dari e i Finley dicono disgustati che sono fatte a tavolino, “sono quelle canzoni che dopo un po’ ti stancano!”. Alla mia domanda sui tokio Hotel rispondono: “Prima li ascolta-vo, adesso preferisco altra musica”.

I gruppi che riscuotono consensi unani-mi sono i Bring Me the Horizon (americani, genere death-core), i Suicide Silence (me-tal-core) e gli Escape the Fate che fanno emo-core. Questi ultimi “Non sono molto conosciuti perché non suonano musica commerciale, sono della Epitaph, un’eti-chetta indipendente”, precisa Heyd.

Mery ascolta i Bullet for My Valentine e i My Chemical romance. Questi li conosco, sono presenti in molti articoli che ho let-to per documentarmi e vengono classifi-cati dai giornalisti musicali come gruppi emo.

Più vado avanti con le domande e più mi convinco che questi ragazzi a prima vista potrebbero appartenere alla cosiddetta “categoria emo”, ma poi approfonden-do alcuni aspetti si capisce che ognuno di loro sta intraprendendo un percorso diverso, per conoscersi, per accettarsi e farsi accettare, come qualunque quattor-dicenne.

La situazione di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro è la mo-tivazione principale che spinge i ragazzi ad assomigliare l’uno a l’altro. Le diver-se “bande metropolitane” si dichiarano guerra per strada, a scuola, al cinema.

Cammy:“Io sono stata al cinema sabato ed è stata una cosa atroce perché era pie-no di truzzi!...Non so perché ci sia tanto odio tra noi, forse perché siamo troppo diversi.”

Heyd: “Perché loro ci ritengono sfigati e noi riteniamo sfigati loro”.

Cammy: “Un nostro amico è stato pic-chiato da alcuni truzzi solo perché non gli ha dato una sigaretta”.

Ma non ci sono solo i truzzi, esistono vere e proprie micro-società differenziate

Cammy: “in realtà le persone più grandi non capiscono quello che pensiamo. Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno passati, no?”

“L’anno scorso mi definivo emo, poi ho detto basta!”

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soprattutto da ideologie musicali. Cammy: “Ci sono gli alternative (quelli

un po’ figli dei fiori), i fighetti, i maragli, i metallari, i punk…”

Tutti difendono il loro modo di essere proiettando un immagine ben identifica-bile del gruppo, consegnando una visio-ne più larga per avere maggior rispetta-bilità e credibilità. Ma poi alla fine questo non impone di socializzare solo con “indi-vidui simili”.

Will: “I fighetti io li rispetto, si vestono bene e basta, possono ascoltare benissi-mo anche il rock”.

Helli: “Io non ho problemi con i truzzi, ho molti amici che lo sono…però alcuni sono indecenti!”

Quando chiedo loro se si definiscono emo rispondono con fastidio. Forse una domanda posta troppo spesso.

Dice Cammy: “Non mi piace definirmi, perché appena ti definisci c’è qualcuno che ti dice che sei poser”.

I ragazzi mi spiegano che il “poser” è “come uno che posa per delle fotogra-fie, in quel momento non è se stesso”. A quanto ho capito poser si diventa nella fase di passaggio dall’infanzia all’adole-scenza. Si inizia ad uscire, a farsi notare dagli altri attirando l’attenzione. È una recita, un atteggiamento eccessivo, co-lorato, carnevalesco. “Perché si vuole ap-partenere ad un gruppo, ad una massa” aggiunge Cammy. Hope dice: “Alla fine tutti siamo stati poser prima di diventare così”.

Tutti e sei i miei intervistati concordano sul fatto che l’anno scorso erano “fissati con l’emo”.

Heyd: “io l’anno scorso volevo essere emo e basta e mi tagliavo”. Mi dicono quasi tutti la stessa cosa: “ero emo”, per fortuna ora non più, penso io.

E c’è chi ancora prima di diventare emo voleva essere truzzo.

Heyd: “Ho iniziato ad ascoltare musica house perché volevo essere figo, poi ho capito che non faceva per me e son ritor-nato così”.

Una continua ricerca per trovare la pro-pria identità, per crescere ed accettarsi. Ora questi ragazzi dicono di non voler es-sere più etichettati, anche perché forse gli emo non esistono più. Come ogni altra

Cammy, non solo gli emo soffrono e han-no dei problemi, concludo io.

L’adolescenza è un periodo complicato, bisogna cercare di capire senza cadere in pesanti cliché.

Helli: “io sono abbastanza felice. Non è che adori la mia vita, perché poi sono un adolescente, ma sono felice”

Heyd: “anche se penso che la mia vita non è un granché cerco di cogliere quello che c’è di bello”

Cammy: “in realtà le persone più gran-di non capiscono quello che pensiamo. Siamo adolescenti! Anche loro ci saranno passati, no?”

Foto e testo Daniela Guccini

Musica Emo : dal 1985 al 1994 Rites of SpringEmbraceFugazi dal 1994 al 2000

Get Up KidsSunny Day Real EstateWeezer

dal 2000 ad oggi

A Static LullabyMy Chemical Romance

Cinema

Closed Space , Igor Vorskla, 2008.

Emo Pill, Anthony Spadaccini, 2006.

ashes and Sand, Bob Blagden, 2003.

Letteratura

Leslie Simon, Trevor Kelley, Everybody Hurts, an Essential Guide to Emo Culture.

Steve Emond, Emo Boy Volume 1, Nobody Cares about anything anyway, So Why don’t We all Just die?

Andy Greenwald, Nothing Feels Good, Punk rock, teenagers, and Emo.

moda anche questa è sfumata, lasciando qualche traccia di trucco pesante, piccole cicatrici e ciuffi sui freschi volti di questi ragazzini.

La bisessualità che la Bignardi esamina-va come nuova e preoccupante tendenza è solo una trovata “chi dice di essere bi-sessuale o lo fa per fare il figo o è omoses-suale e non vuole ammetterlo” risponde Heyd sulla questione.

Michele Kirsch sul Times si preoccupa-va per l’umore dei giovani emo. La forte sovraesposizione mediatica di questo angoscioso modo di comportarsi avreb-be indotto al suicidio due ragazzine nel nord Europa, ma attribuire la morte delle due ai testi delle canzoni piuttosto che ai pensieri romantico-decadenti che appa-iono sui blog non mi sembra plausibile. “Non solo gli emo si tagliano” precisa

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Bologna.In seguito alle ordinanze comunali definite antidegrado, i principali luoghi di aggregazione sono stati riempiti dalle forze dell’ordine. Gli studenti di Bologna sono costretti a giocare a guardie e ladri.Un ordine che vuole il vuoto, desidera il deserto e lo chiama sicurezza.Piazza Verdi, situata nel cuore del quartiere universitario, è diventata scenario di scontri continui tra la polizia ed i ragazzi. Il 20 maggio, i tafferugli si sono trasformati in una vera rivolta contro le forze dell’ordine. La polizia in assetto antisommossa tentava di sgomberare gli studenti accusati di bivacco. Una piazza piena di universitari che chiacchieravano seduti all’ombra dei primi soli estivi. Come spesso accade qualcuno si è alzato lamentando l’ingiustizia dello sgombero. A tali rimostranze la polizia ha risposto portando in commissariato il giovane. Altri studenti si sono avvicinati chiedendo spiegazioni. Così sono partite

le prime manganellate ricambiate dal lancio di bottiglie della folla ormai in sommossa.A Bologna viene sottratto il suolo pubblico, negato l’attraversamento urbano con allarmismi sulla sicurezza dei quartieri, false soluzioni che servono solo a spendere i soldi dei contribuenti; telecamere a circuito chiuso per le strade e sugli autobus, immobili e silenziosi testimoni del nulla, e l’ ultima delirante decisione di avallare le ronde di privati cittadini, quali expoliziotti ed esponenti di fazioni razziste e violente dell’estrema destra. Perché la paura è la migliore arma con la quale instupidire il “civis”, la paura rende dipendenti dagli organi di potere.E non basta la debole risposta della sinistra con le ronde del sorriso.Apparati arcaici pre-democratici, quali sono le ronde, non devono e non possono essere re-investiti di tale considerata legittimità, mettere toppe pericolose a problemi del tessuto sociale urbano serve solo a rincoglionire, e fare quindi così la vera violenza. Perché la violenza è

segno di sé stessa, vuole mostrare solo il suo segno e basta. Non risolve, non si pone il problema di cosa viene dopo, si preoccupa solo dell’orma che il pugno lascia nell’istante che si schianta.

Libera spazi, condividi saperi.E’ con questo motto che da una piega dell’Onda bolognese è nato Bartleby.Occupare per liberare. In via Capo di Lucca 30, a pochi passi da Piazza Verdi, era da tempo abbandonata una sede dell’Alma Mater Studiorum, un antico mulino completamente ristrutturato, un labirinto di stanze che i ragazzi hanno occupato per riaprirlo al sapere condiviso.Autoformazione universitaria che passa anche attraverso l’arte, la musica, ogni campo del sapere espanso. E se le strade sono murate dalla polizia, le mura accoglienti di Bartleby liberano attraversamenti metropolitani, intrecci tra breaker, professori, writers, dottorandi, fotografi, scrittori... Una forza liquida, che non si abbarbica

Tana libera tutti . . .

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La Vedetta, Bartleby, via capo di lucca 30.

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in luogo fisico. E’ nel periodo successivo allo sgombero di via Capo di Lucca che la potenza esplosiva di Bartleby è deflagrata per Bologna, inondando persino la barricata via Zamboni. Reclame The Street, una notte di folla e musica, in cui la piazza crocevia è rimasta popolata solo da qualche desolata camionetta. Mentre tutti e tutte occupavano in festa pochi metri più avanti l’intera via. Folla come un insieme a pieno volume, non massa informe, ma forma d’Onda.

A Bologna la strada si contrae ed espande, si riafferma, si riappropria dei propri contenuti, si sporca ed ibrida con attraversamenti cui era stata privata. Le porte del comunale riaperte, quelle voci diffuse da un megafono sulla piazza, vomitate senza volti, si sono riprese la loro identità moltiplicandola. E’ dalla collaborazione dell’orchestra del comunale con l’Onda e poi con Bartleby, che le porte del teatro sono state spalancate in una serie di iniziative che non solo hanno portato i ragazzi in teatro con “Colazione a Concerto”, ma anche i tanti concerti tra comunale e conservatorio, in luoghi altri, nuovi sia per gli interpreti che per il pubblico. Come ad esempio le aule occupate del “38”, la mansarda di Capo di Lucca, via Zamboni occupata.

La strada si rivendica, come nel caso delle manifestazioni “Io non ho paura”,

organizzate dal TPO e da Bartleby. Evento giunto alla seconda prova il 2 giugno in piazza S.Francesco.E’ la pratica quotidiana dei luoghi che crea sicurezza, la presenza in piazza della manifestazione ha bloccato il giro delle ronde per le strade del Pratello.Il laboratorio di Hip Hop Arena 051 ha dato il via alla prima edizione dell’evento. Una pratica nata dalla strada, dal ritmo delle bombolette dei writers, torna alla strada, anzi alla piazza. E’ disciplina per i giovani ballerini di break ed i gruppi che si sono susseguiti in freemike per parte della serata.L’Arena 051 è composta da gruppi precedentemente già esistenti che si ibridano e collaborano per progetti comuni. Già da 2 anni al TPO la strada ha trovato luogo di dimora, al comune

accordo di “No Mama”, i ragazzi si esibiscono senza insulti, conservando nei testi un forte impatto verbale, “non ci piacciono i tipi ingioiellati di mtv”. Sono ragazzi, come Angio, che frequentano medicina, o che già lavorano come Bazzo. Si esibiscono insieme nei contest, nelle strade alle quali hanno piegato un tetto, scenario coperto. Punto di partenza e di apertura.L’innaturale silenziatore attuato dall’ormai vecchia amministrazione comunale, è stato sottoposto a sgombero.E’ un nascondino che abbiamo deciso di rompere, a viso scoperto, senza paura di guardie e ladri.

Testo e foto di Chiara Segreto

Reclame the street, Bartleby occupa via Zamboni,Bologna.

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35L’ asta di biciclette

Foto e testo di Erica Gómez Rodríguez

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A Bologna le biciclette che si vedono avranno più di 30 anni ma continuano a passare di mano in mano. Le domande che mi pongo sono: che storia avranno queste bici? Quanti proprietari diversi le avranno guidate per le strade di Bologna? Esse hanno storie e identità precise e noi studenti fuori sede siamo parte integrante e protagonisti di queste...anche se in fondo credo sia solo la città la vera padrona.

Con lo slogan “per lo stesso prezzo, meglio usata che rubata!”, si è tenuta la XVI edizione dell’asta di biciclette che si è svolta giovedì 16 Aprile in Piazza Puntoni. Quattro messaggi accompagnano la campagna: “rifiuta qualunque offerta di biciclette rubate”, ”segnala alle autorità chi vende bici rubate”. Questa proposta di sensibilizzazione sociale è il risultato ottenuto dopo un concorso pubblico nel quale si richiedeva di suggerire delle idee per la vendita legale delle

biciclette. L’obbiettivo dell’iniziativa è quello di combattere il mercato nero creatosi a causa della ricettazione e furto delle bici. Sostenuto e patrocinato dalle Associazioni Studentesche, l’Altra Babele e Terzo Millennio assieme al Comune di Bologna, al quartiere San Vitale, Università di Bologna e con la concessione speciale delle Ferrovie dello Stato che renderanno disponibili le bici abbandonate nelle zone della stazione. Gli organizzatori invitano tutti i partecipanti all’asta a presentarsi

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con cartelli dagli slogan spiritosi, vestiti ed oggetti eccentrici e spiritosi per attirare l’attenzione del battitore d’asta e rendere la piazza un teatro di colori e situazione per un pomeriggio speciale.Quello che ha attirato la mia attenzione ispirandomi a scrivere questo articolo, è stato vedere quella moltitudine di persone di diverse età, tentare qualsiasi mezzo e travestimento per accaparrarsi una bici in modo da poter correre liberamente per le vie della città.

“PER LO STESSO PREZZO, mEGLIO uSATA CHE RuBATA!”

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PA kUA“Quel giorno anche il ma-estro mi aveva confessato che era sul punto di collas-sare dal caldo. Eppure non ha mollato nessuno.”

di Simone Cucuzza e Giulia Serri

La nostra giornata comincia, così: 40 gradi o giù di li, da tempo ci domandavamo come fosse lavorare con dei ragazzi diversamente abili...con tanta curiosità e qualche diffidenza arriviamo al centro. Ci accoglie una atmosfera tranquilla e rilassata, tra chiacchiere, sorrisi e un altro caffè. Roberto è già pronto. Impaziente si allaccia la cintura della divisa con la serietà di un maestro di arti marziali. Finalmente ha inizio l’allenamento...

“Sono tutti proiettati verso l’idea di diventare degli sportivi. alcuni di loro non hanno mai praticato sport, e non lo avrebbero probabilmente apprezzato se non ci fosse stata la spinta del gioco. Come disse un maestro itinerante che ci è venuto a trovare da Madrid, lairton telles: “nel nostro caso non si tratta di lotte, ma come di cuccioli che giocano”. Mi ha molto colpito perché è proprio quello

che andavamo cercando: un percorso che porti a una maggior conoscenza e consapevolezza del proprio corpo e degli altri attraverso un allenamento in comune. Non è la marzialità che ci interessa, ma che accrescano la propria disinvoltura nei confronti dei “compagni d’arme”.”

Vincenzo Baldari, educatore sociale, ci parla della sua esperienza di lavoro con i ragazzi diversamente abili, che dura

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ormai da diversi anni.

“Su ogni ragazzo c’è un progetto differente. Per alcuni, ad esempio, il problema era solo di socializzazione, nel senso che avevano un approccio remissivo col mondo: erano piuttosto permalosi, freddi, timidi o pigri. Sono tutti migliorati da molti punti di vista. alcuni ragazzi hanno messo a profitto l’idea di fare sport e di entrare in confidenza con i propri limiti e le proprie caratteristiche. Una ragazza, Federica, che fino a quest’estate aveva bisogno di ausili, come la sedia a rotelle, ora cammina, si allena con noi. Su altri ragazzi invece i risultati sono di tipo mentale, ma altrettanto vicini al miracolo. alcuni avevano forme di permalosità che impedivano loro di socializzare: come difesa si allontanavano dal prossimo. attraverso la vicinanza dell’altro, durante l’allenamento, queste paure sono state superate.”

Effettivamente l’atmosfera è tranquilla e divertente, tutti si impegnano nonostante l’afa. La cosa più bella è vedere i ragazzi mentre si allenano: si impegnano a fondo, a volte sono restii a tentare, ma alla fine ci riescono. Quando si tratta di provare a cadere, sembra di vederli giocare.

“E’ comunque previsto che si cada, abbiamo un materassone alto 10 centimetri per muoversi in sicurezza. Si cade si ride e ci si rialza. Cadere non è un motivo per drammatizzare. Questa è la prima forma di attività sportiva che fanno. la parte iniziale della lezione prevede un riscaldamento, la possibilità di sciogliere i muscoli come una normale lezione di stretching, poi si fanno le tecniche. anche quei primi esercizi sono una novità per loro. in una vita che passa tra la casa e le istituzioni è ben raro che si possa fare dell’attività fisica: lì ci si sfoga. Si cade, si ride, ci si rincorre, e poi alla fine si fanno le ammucchiate tutti insieme sul tatami!

E’ un modo per giocare ed è una cosa che serve a lavorare tutti insieme in allegria. le nostre lezioni non sono improntate alla marzialità, sono improntate più che altro al divertimento. la marzialità diventa un pretesto. Così funziona: è interessante, stimolante e diventa una scusa per fare dell’attività fisica.”

Vincenzo risponde alle nostre domande:Come si pongono i ragazzi in confronto a te?

“Sono infinitamente più sciolti e molto più consci delle proprie possibilità. Prima quando ti dicevano “No, io questa cosa non la posso fare, non la voglio fare” finiva lì, era inutile insistere. ora hanno molta più fiducia, credono di più in me. Hanno sempre dei limiti, ma puoi provare a convincerli, a stimolarli, non si bloccano al “non posso”. “Non posso” non è più l’ultima parola. l’incremento della fiducia non è solo nei miei confronti, ma anche tra loro: è bello vedere che fanno molto squadra, si aiutano.”

Da quando avete iniziato ad allenarvi? “abbiamo cominciato nel settembre del 2007, ora stiamo per concludere il secondo anno. anche quest’anno chiuderemo con una forma di manifestazione pubblica all’aperto in occasione della festa di arboreto “arboreto in Fiore” che si svolgerà il 19 Giugno…fra i tavoli con le piadine correremo anche noi in kimono!”

Parlaci del Pa Kua, perché avete scelto di praticare proprio questa disciplina tra le arti marziali?

“Pa Kua è una disciplina che lavora sull’individuo e, se ammette l’esistenza di un nemico, questo nemico è soltanto il proprio limite. Non c’è la velleità di andar

"Lungo il percorso che si proietta verso l’apprendimento delle arti marziali, stiamo conseguendo delle tappe intermedie che sono le cose più interessanti. In realtà non ci interessa arrivare al punto zeta della preparazione perché tutti i punti intermedi sono degli obbiettivi."

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fuori e mostrarsi superiori nel campo della lotta, ciò che importa è superare le proprie barriere. in un paio d’anni di allenamento i ragazzi hanno effettivamente superato i propri limiti sia mentali, sia fisici. Pa Kua non va commisurando le cinture o i gradi in relazione a quanto si è imparato delle tecniche insegnate o come ci si comporta in relazione agli altri, piuttosto a quali sono i progressi rispetto al tuo punto di partenza. Per passare di grado in Pa Kua ci sono maestri che vengono da altre palestre, spesso molto lontane, per fare le valutazioni. anche i nostri ragazzi sono passati di grado. Hanno anche conseguito degli elementi di merito supplementari simboleggiati da strisce nella cintura del colore successivo: hanno tutti una cintura gialla con strisce arancioni, ora possono allenarsi su tecniche più avanzate. a noi non interessa conseguire cinture. Ma il conseguirla è un po’ un premio al lavoro dei ragazzi.”

E’ la prima volta che viene svolta questa attività con i ragazzi?

“Ci voleva un gran coraggio per tentare un esperimento del genere. Esistono già delle prove con il tai Chi, una disciplina molto più morbida che non prevede contatti, e si pratica anche in età avanzata. Nel Pa Kua si lavora anche sul corpo degli altri e questo porta i ragazzi a sciogliersi molto. in italia è la prima volta che si prova a fare arti marziali con i ragazzi diversamente abili. l’associazione Pa Kua ci ha molto seguito. dalla sede di Firenze sono spesso venuti a trovarci, sia i maestri che gli studenti. abbiamo fatto anche delle gite portando i ragazzi nella grande palestra di Firenze e sono stati accolti con molto affetto. tutti i maestri itineranti coinvolti a Firenze di solito passano a Bologna a trovarci.”

Come riuscite a portare avanti questo progetto?

“il progetto è stato per il primo anno sperimentale, i risultati sono stati positivi e quindi molto apprezzato. il secondo anno abbiamo tentato di avere dei finanziamenti dalla provincia e dalla regione. E’ stato valutato come programma innovativo, siamo arrivati decimi su sette progetti finanziati. abbiamo concorso con Emergency, Save the Children, delle associazioni molto più grandi della nostra, è quindi quasi una soddisfazione già il fatto di essersi piazzati. Ci riproveremo l’anno prossimo. Siamo finanziati dalla nostra stessa cooperativa, Cadiai, che seppur in economia ci permette di andare avanti per la gioia dei ragazzi.”Siamo arrivati alla fine della lezione. Il Pa Kua inizia e finisce con un saluto. Il saluto

è un concetto fondamentale per tutte le arti marziali in quanto espressione della cortesia e del rispetto, attraverso il quale ci si predispone correttamente all’allenamento. Questo è lo spirito delle arti marziali, l’umiltà: la prima lotta che bisogna vincere è quella contro la propria presunzione.

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DUELLANTI

Roberto ha 47 anni e una forma di dow-nismo piuttosto lieve. Era impensabile che alla sua età una persona iniziasse un percorso di arti marziali, ma il no-stro obbiettivo non è quello di formare guerrieri quanto di far socializzare. Ro-berto ha preso molto seriamente questa attività: per esempio, Se noi perdiamo troppo tempo a prendere il caffè quan-do arriviamo, lui va subito in palestra a cambiarsi.

Federica (32 anni) ha una diagnosi par-ticolare: oltre a un ritardo mentale non molto accentuato, ha forti problemi di equilibrio nel muoversi sulle gambe. Ora cammina, sta cominciando a corre-re e fa l’allenamento dei calci. Abbiamo cominciato a lavorare a terra con lei, in modo tale che non potesse cadere. Adesso è molto più sciolta e lavora in piedi come tutti gli altri. Pare che anni di fisioterapia non abbiano raggiunto questi risultati. Quindi è una cosa di cui siamo particolarmente fieri.

Manuela (30 anni circa) ha una forma di downismo medio-grave che le com-porta una serie di problemi sia a cam-minare che a comunicare. Fabrizio dice spesso che, in rapporto al miglioramen-to individuale, Manuela già per come è meriterebbe la cintura nera. Ha fatto grandi progressi. E’ interessante nota-re che persone normodotate spesso non riescono a flettersi fino a toccare la punta dei piedi, lei invece ci riesce tran-quillamente. Manuela aveva bisogno di appoggio per salire sul pulmino, men-tre ora non le serve nulla: si arrampica come un gatto!

Vincenzo Baldari, educatore sociale.

Fabrizio Rossini, istruttore di Pa Kua.

Federica (32 anni) ha una diagnosi par-ticolare: oltre a un ritardo mentale non molto accentuato, ha forti problemi di equilibrio nel muoversi sulle gambe. Ora cammina, sta cominciando a correre e fa l’allenamento dei calci. Abbiamo comin-ciato a lavorare a terra con lei, in modo tale che non potesse cadere. Adesso è molto più sciolta e lavora in piedi come tutti gli altri. Pare che anni di fisioterapia non abbiano raggiunto questi risultati. Quindi è una cosa di cui siamo partico-larmente fieri.

Manuela (30 anni circa) ha una forma di downismo medio-grave che le compor-ta una serie di problemi sia a camminare che a comunicare. Fabrizio dice spesso che, in rapporto al miglioramento indi-viduale, Manuela già per come è meri-terebbe la cintura nera. Ha fatto grandi progressi. E’ interessante notare che per-sone normodotate spesso non riescono a flettersi fino a toccare la punta dei pie-di, lei invece ci riesce tranquillamente. Manuela aveva bisogno di appoggio per salire sul pulmino, mentre ora non le serve nulla: si arrampica come un gatto!

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la tradizione liutaia bolo-gnese è ricca di esponenti di rilievo come il Maestro raf-faele Fiorini, fondatore della Scuola di liuteria artistica nel 1860 e il Maestro otello Bignami

Da sempre gli strumenti ad arco hanno la caratteristica di suscitare profonde emo-zioni.Il loro suono fa vibrare l’aria come nessun’altro strumento, trasmettendo sensazioni intense e coinvolgenti.Quando si ha la fortuna di entrare per la prima volta in una liuteria ci si ritrova rapiti e immersi in una dimensione irrea-le intrisa di odori, suoni e colori dai toni caldi, risulta impossibile non rimanerne affascinati.Sagome di violini, ponticelli da rifilare, violoncelli da riverniciare.. un mondo ric-co di suggestioni e sensazioni fermo in un tempo altro.Bologna ha una storia molto particolare per quanto riguarda l’arte della liuteria, ricca di esponenti di rilievo, come i maestri Raffaele Fiorini (15/7/1828 - 18/10/1898) e Otello Bignami (6/8/1914 - 1/12/1989).Bignami iniziò la sua attività di liutaio verso la metà degli anni 40, studiando

e praticando per anni l’arte del restauro del legno, e grazie ai suoi studi e alle sue ricerche raffinate riuscì ad elaborare uno stile molto personale e particolare, come le vernici e un modello di violino a suo nome, che lo fecero entrare a pieno titolo nella liuteria di prestigio.I principali riconoscimenti alla sua arte vennero subito dalla Mostra Internazio-nale di Cremona del 1949, dal primo pre-mio al 3º Concorso Nazionale di Liuteria della Accademia di Santa Cecilia a Roma nel 1956 e dal Concorso Wieniawski di Poznań del 1957 con medaglia d’oro e premio speciale quale “miglior liutaio d’Italia”La bottega dove svolgeva la sua attività si trovava in origine in via Guerrazzi n.10, ma attualmente è stata ricostruita minu-ziosamente all’interno del Palazzo Aldini Sanguinetti, dove ha sede il Museo della Musica, ed è aperta al pubblico.

Un’arte antica

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Verso la fine degli anni ‘70, per assicurare la continuità della tradizione, gli venne chiesto di insegnare presso La Scuola di Liuteria Artistica Bolognese, fondata in-torno al 1860 proprio da Raffaele Fiorini .Bignami trasmise grande esperienza ai suoi allievi nel corso della sua carriera, diventando un esponente di prestigio all’interno della scuola, e preparando questi giovani a introdursi nell’ambito ar-tigianale.Adesso, dopo tanti anni, sono proprio loro a continuare la tradizione del grande maestro. Alcuni dei più noti sono Roberto Regazzi, Bruno Stefanini, Alessandro Urso ed Ezia di Labio.Col tempo ognuno ha sviluppato stili di-

versi affermandosi nel campo della liute-ria con successo, aprendo una bottega e ricevendo riconoscimenti sia in Italia che all’estero.Roberto Regazzi è stato presidente della “Associazione Europea Maestri Liutai e Archettai”, membro della “Violin Society of America”, socio fondatore e presiden-te del “Gruppo Liuteria Bolognese” e membro del direttivo della “Associazione Liutaria Italiana” nel Gruppo “Liutai e Ar-chettai professionisti”, di cui è stato anche vicepresidente.Bruno Stefanini fu assistente del Maestro Otello Bignami, ha uno stile decisamente ricercato ed è attualmente molto richie-sto, soprattutto in America.Alessandro Urso porta avanti un progetto chiamato “Leuterius” realizzato in collabo-razione con il musicista ed etnomusicolo-go Fabio Tricomi.Ha aperto una bottega dov’è si possibile trovare antichi strumenti ad arco e a cor-de provenienti da tutta Europa. Musicisti loro stessi, si esibiscono con un repertorio che spazia dalla musica classica a quella popolare.Ezia Di Labio ha invece creato, insieme

all’architetto Mauro Bellei, una collezione di “Violini d’autore”: 16 violini, una viola e un violoncello lasciati alla libera inter-pretazione di artisti di varia estrazione Alcuni di questi sono i poeti Tonino Guer-ra e Roberto Roversi, il cantautore Gio-vanni Lindo Ferretti e il fotografo Gianni Berengo Gardin.Personalità diverse che contribuiscono a

La Bottega di Bruno Stefani-ni in via delle Belle Arti Luogo dove riscoprire un’ar-te antica che vive ancora oggi grazie all’abilità dei liutai professionisti

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creare uno stile ricco di sfumature per la liuteria bolognese.Attualmente, però, il settore artigianato sta subendo un declino sia per quanto riguarda la richiesta e la realizzazione di strumenti ad arco sia per la continuità del mestiere che si prospetta per il futuro. Il concetto di “bottega”, infatti, non corri-sponde più ai vecchi canoni, gli artigia-ni difficilmente scelgono di prendere uno o più ragazzi come apprendisti personali.Questo perchè da qualche tempo, con l’entrata in vigore della nuova normativa per la formazione degli apprendisti, l’iter da seguire per l’assunzione è complicato, implica dei costi, ed è obbligatorio fare di-versi passaggi burocratici come ad esem-pio la copertura assicurativa e la trafila

delle visite mediche. Ciò rappresenta un grosso ostacolo per una tradizione così antica come la liute-ria. Se l’arte di chi adesso è attivo nel cam-po non verrà trasmessa a qualcuno che intenda lavorare con la stessa passione, questa tradizione sarà destinata ad inter-rompersi.E con essa, anche l’arte del maestro Otel-lo Bignami e la Scuola di Liuteria Artistica Bolognese.

la bottega del Maestro otello Bignami, ricostruita fedelmente all’interno del Palazzo Sanguinetti per il Museo della Musica in Stra-da Maggiore 34

alcuni dettagli della botte-ga del Maestro Bignami:le sagome dei violini da lui costruiti, il banchetto dove avveniva la lavorazione e i materiali da lui utilizzati

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l’arte della liuteria è da sempre una passione che si tramanda da generazioni.Bologna ha la fortuna di possedere persone che portano avanti con grande impegno questa tradizione.alessandro Urso è uno di questi. Maestro liutaio e professore di violino, esperto nella costruzio-ne e nel restauro di strumenti ad arco. in queste foto possiamo vedere la sua bottega “leuterius” in via rialto 19/C ricca di strumenti antichi e provenienti da diverse parti del mondo.

Foto e articolo di Virginia Caldarella

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Alcune tipologie di piercingLabret: Foro al labbro, sia al centro che al lato del labbroMonroe: Foro al lato del labbro superioreNavel: OmbelicoEyebrow: SopracciglioBridge: Foro alla parte alta della pina nasaleTounge: LinguaNape(surface-piercing): Piercing che vengono eseguiti su svariate parti del corpo, esempio Nape-collo

I never want to be different, I just want to be me!Bodymodification;

moda o altro?!

Da quando sono arrivata a Bologna, una delle prime cose che ho notato sono stati i tanti ragazzi con delle modificazioni cor-porali, perlopiú tatuaggi e piercing. Avendo inte-resse per queste pratiche non potevo non notarle, e parlarne.

Negli ultimi anni sia il piercing che il ta-tuaggio sono diventati quasi una moda, ma cosa c’é dietro alla decisione di farsi fare un segno permanente sulla pelle? Mi incuriosiva il fatto di sapere da altre perso-ne le motivazioni dei tattoo, del piercing o di altre modificazioni. purtroppo non ho ricevuto molte risposte dai giovani con cui ho parlato. Girando per Bologna, sono andata a far visita ai due principali piercing studio, il BodyBag e ZacBodyart. Al BodyBag, mi hanno confermato, come già immaginavo, che la maggior parte dei loro clienti sono ragazzi che vogliono farsi fare un piercing; ovviamente sono rigorosamente acompagnati dai genito-ri essendo minorenni (la legge vieta di eseguire piercing e/o tatuaggi su perso-ne mi¬norenni). I piercing piú “ricercati” dai giovani sono il “labret”, specialmente quello al lato del labbro inferione, i “mon-roe”, “eyebrow” e “navel”, con l’arrivo della bella sta gione. Ci sono però anche tante persone che cercano anche interventi un po’ piú estremi, come ad esempio il pier-cing ai genitali. Da ZacBodyart invece mi sono fermata un pó di piú. Mi sono fatta una bella chiac-chierata con il piercer che lavora nello studio. Questa volta la conversazione era basata piú sul cambiamento di clientela col passare degli anni, di come la gente adesso “osi” molto meno che negli anni

passati, i movimenti degli’anni ‘80 e ‘90 da cui sono “rinati” i piercing moderni e naturalmente tutti quelli degli inizi. Tornando al fatto che non ho avuto troppo successo con i ragazzi, ho deciso di segui-re il consiglio che mi aveva dato una mia compagna di corso, e cioé di fare un’in-tervista a me stessa! A questo proposito ringrazio una futura antropologa, non-ché carissima amica, Cristiana Amadei, che sta scrivendo la tesi in antropologia e mi ha datto il suo questionario da com-pilare. In questo modo è diventato molto piú facile esprimermi , e quindi spero che questa lettura si riveli interessante anche per gli altri. Il questionario si trova su in-ternet ed é assolutamente anonimo, ed è proprio per questo motivo che la gente risponde molto piú volentieri cosí.

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La scarificazione, o scarification in inglese é una pratica di modificazione corporale tornata in voga nel XX secolo. Si divide in 2 pratiche: il “cutting” e il “branding”.

Il cutting coniste nell’incidere o tagliare la pelle, secondo un disegno preciso precedentemente stampato.

Il branding consiste nel marchiare a fuoco la pelle usando delle barrette di metello incandescenti (oggi viene usato anche il cauterizatore).

Che la „confessione“ abbia inizio.

Nome: Lara Zibret (il nome l’ho messo io di proposito).

Etá: 25 anni

Cittá: tra Bologna e la Croazia

Quali sono le tue modificazioni?Piercing: vertical labret, bridge, tongue, nape, microdermal; Scarificazioni (cut-ting/branding): cutting, tre fiori di ciliegio sulla schiena e due tatuaggi.

a che etá hai fatto la tua prima modifica-zione? Qual’é stata? Come hai maturato quasta scelta?Il primo vero piercing l’ho fatto a sedici anni. Lo chiamo vero, perché i fori con la pistola spara-orecchini non li considero nemmeno. Fin da bambina mi mettevo il filo di ferro a forma di orecchini al naso e sul labbro, quindi credo che il primo foro sia stata un scelta abbastanza cosciente.

Quando modifichi il tuo corpo, quali sono le motivazioni?Mi piace la sensazione che da. L’istante del foro, l’adrenalina che si prova mentre si fa, non escludo il lato estetico, mi piace averli addosso. Ogni singola modificazio-ne sul mio corpo mi ricorda un’esperienza vissuta, é quasi come un diario aperto a tutti peró scritto in una lingua assolu-tamente incomprensibile, di cui solo io conosco il significato. Alla fine, quando li faccio mi sento bene con me stessa, e cre-do sia questa la cosa piú importante.

Hai mai fatto una sospensione? Come de-scriveresti l’esperienza?Si, ne ho fatte due fino a adesso. Vedere il proprio corpo superare dei limiti che pensiamo di avere, sensazioni che si me-scolano ogni 5 secondi dalla paura piú totale all’adrenalina e all’euforia, il dolore che diventa piacere, tranquillitá... sensa-zioni che non saprei descrivere.

Hai mai avuto giudizi negativi per le tue modificazioni? da chi?Si, certo. Dalla maggior parte delle perso-ne che non sanno niente in materia.

Come giudichi chi reagisce negativamen-te?Non li giudico, a dire il vero non ci faccio piú neanche tanto caso ai giudizi degli al-tri... non mi interessano, tutto qua!

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Breve storia della mo-dificazione corporale attraverso i secoliCirca 60.000 a.C. - Gli aborigeni australiani,

probabilmente il popolo piú antico sopravvis-

suto sino ai giorni nostri, si dipingono il corpo,

provocano cicatrici, incidono la parte inferiore

del pene e allungano le labbra vaginali.

7.000 a.C. - L’allungamento del cranio è giá

praticato nella Gerico neolitica, uno dei primi

insediamenti urbani della storia.

4.200 a.C. - Le mummie di due donne nubiane

mostrano una serie di linee e tatuaggi sull’ad-

dome, perforazioni delle narici, delle labbra,

dei genitali e dei lobi e l’allungamento di que-

sti. Potrebbero risalire piú o meno a cinque-

mila anni fa.

2.000 a.C. - Sulla mummia di una sacerdotessa

egiziana della dea Hator, risalente al periodo

dell’Undicesima Dinastia, sono visibili dei tau-

aggi.

1.900 a.C. - Le divinitá antropomorfe dell’area

culturale del Mediteraneo orientale, dell’Euro-

pa dell’est e del vicino Oriente, mostrano se-

gni che potrebbero essere tatuaggi e pitture

corporee.

450 a.C. - Sui visi di alcune statuette di terra-

cotta giapponesi sono presenti dei tatuaggi.

Erodoto riporta che gli esponenti della classe

aristocratica della Tracia erano tatuati, cosí

come le personalitá piú eminenti dell’antica

Grecia, in relazione alla professione e alla loro

posizione sociale.

400 a.C. - I Maya, come diverse popolazioni

africane, si limavano i denti anteriori renden-

doli simili a quelli degli animali.

200 a.C. - In India si conosce la chirurgia plasti-

ca: un naso distrutto puó essere ricostruito so-

vrapponendo diversi stratti di pelle. In Grecia

gli schiavi vengono marchiati a fuoco.

IV secolo d.C. - Soldati romani chiamano Picti

(dipinti) i guerrierri gallici, che combattono

nudi e ricoperti di tatuaggi “oripilanti”. I centu-

rioni, dimostrano la loro virilitá perforandosi i

capezzoli e inserendovi dei gioielli.

550 d.C. - In Giappone gli appartenenti alle

classi inferiori (macellai, boia, persone del cir-

co ed altri) si distinguono per i tatuaggi sulle

braccia.

720 d.C. - In Giappone si ricorre ai tatuaggi sul

viso (per esempio scrivendo la parola “tradi-

tore”), per marchiare i delinquenti. Gli aristo-

cratici, invece, si fanno praticare piccolissimi

tatuaggi intorno agli occhi.

XIII secolo - In Giappone il tatuaggio non vie-

ne piú considerato una pratica riservata alle

classi inferiori, ma assume il ruolo di arte raf-

finata. Il “Black code” prescrive che gli schiavi

neri vengano marchiati a fuoco sul petto. Fino

a quest’epoca gli artigiani di tutta Europa era-

no riconoscibili, in assenza di diplomi scritti,

grazie ai tatuaggi che ne certificavano la pro-

fessione.

XIX secolo - Dopo essere stati importati dal-

la Cina verso la metá del secolo precedente

tramite una sorta di albo a fumetti, i tatuaggi

artistici su tutto il corpo tipici del Giappone

raggiungono l’apice della loro qualitá.

1852 - In Francia l’introduzione delle registra-

zioni scritte in ambito investigativo, sostitu-

isce l’usanza della polizia di marchiare i ladri

con un giglio tatuato sulla spalla destra.

1870 - In Giappone i tatuaggi vengono messi

al bando dall’imperatore Meiji: questo divieto

é rimasto in vigore fino al 1945.

1882 - L’arte giapponese del tatuaggio rag-

giunge l’Inghilterra vittoriana attraverso

l’opera di maestri come Sutherland Mac Do-

nald, che annovera tra i suoi clienti anche di-

versi monarchi. Sulla scia di questo consenso,

molti esperti di tatuaggi cinesi e giapponesi

si trasferiscono in Europa e negli Stati Uniti,

dove trovano anche aprendisti locali. La po-

polaritá delle decorazioni è incrementata dal

successo delle esibizioni di persone tatuate

nei luna park.

1891 - Invenzione della macchinetta elettrica

per tatuaggi

1939-1945 - In Germania i nazisti tatuano i

prigionieri dei campi di sterminio con un nu-

mero sul braccio. I membri delle SS, invece, si

facevano tatuare il gruppo sanguigno all’in-

terno dell’avambraccio sinistro, per facilitare il

lavoro dei medici in caso di necessitá. Sull’on-

da dei proclami hitleriani per una razza pura,

alcuni genitori riscoprono le pratiche di rimo-

dellamento del cranio, per ottenere nei bam-

bini una testa dalla forma alta e allungata.

1945 - In Giappone il tatuaggio torna ad esse-

re di nouvo legale.

1950 - Nelle subculture giovanilli, come quel-

le dei rockers e dei teddy boys, i tatuaggi ri-

scontrano un grande successo. Tra i membri

delle bande di strada newyorkesi fanno la loro

comparsa le capigliature in stile mohicano,

inspirate a quelle tradizionali dell’omonima

tribú di nativi americani.

1960 - 1980 - Gli hippies, gli Hell’s Angels e i

punk, si fanno praticare tatuaggi piú o meno

estesi, spesso per esprimere la loro ribellio-

ne nei confronti delle norme sociali correnti.

Contemporanemente, nelle comunity gay si

afferma il piercing, specialmente tra i leather-

men (dall’inglese “uomini che vestono in pel-

le” negli ambienti sado-maso) o i tribe di San

Francisco.

1970 - I punk, oltre a fare abbondante uso

di tatuaggi, adottano pratiche tribali quali i

piercing e la colorazione dei capelli, ispirata a

quella dei guerrieri papua; anche anche l’uso

dei capelli alla moicana fa parte del loro stile.

1977 - Fakir Musafar conia il termine “Modern

Primitives” e introduce l’uso dei concetti, e dal

linguaggio spiritual-tribe tra le fila di coloro

che praticano piercing e altre forme di modifi-

cazioni corporali

1989 - Viene publicato il volume “Tatuaggi

Corpo Spirito” di V. Vale e A. Juno, cui si deve

la divulgazione su larga scala del tatuaggio

neo tribale, cosi come la nuova popolaritá di

pratiche quali il piercing, il branding, la scarifi-

cazione (intesa come cutting), presente in piú

delle volte in un contesto piú o meno pubbli-

co o/e rituale.

In Inghilterra l’immediato tentativo di mettere

al bando il libro per oscenitá lo rende ancora

piú famoso.

1990 - Fakir Musafar scarificato e ornato di

innumerevoli piercing fa uno spettacolo che

consiste in una specie di convegno tribale sel-

vaggio, dove il divertimento si combina con

temi come la politica, il sesso e i diritti umani.

Con il “Lollapalooza Tour” , il cosí detto “rina-

scimento tribale” ha ottenuto la sua definitiva

consacrazione.

Foto e testi di Lara Zibret

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IL CASSERO: L’ IMPORTANTE E’ PARTECIPARE

Per chi pur vivendo a Bologna ancora non lo sapesse, il Cassero è molto di più del circolo di ritrovo omosessuale della città. Il motivo per cui tutti dovrebbe-ro averne coscienza è che si tratta dello stesso che spinge ogni anno migliaia di studenti e lavoratori a sostare in questa città: Bologna è libertina per antonoma-sia (o forse ormai solo per tradizione) e qui niente è chiuso in se stesso.Con questo voglio dire che un tempo, magari, fino all’ultima generazione di gay che potevano immaginarsi solo na-scosti o iperesibizionisti nelle nottate al Kynky di via Zamboni o al Joy di Piazza Minghetti (era il ’77), tutto quello che si sognava per il futuro era l’istituzione di un luogo dove ritrovarsi. Poi, negli anni immediatamente successivi, quelli delle rivendicazioni, con in testa Mario Mieli e il suo libero dire che l’omoerotismo era una scelta possibile per tutti, anche le

In alto: un gruppo di ragazzi durante una delle serate, di fronte all’insegna del Cassero.In basso: a destra Franco Grillini, membro onorario del Cassero e di Arcigay, intento a foto-grafare altri soci del circolo.

fotografie e testi di Giorgia Dolfini

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speranze si amplificano enormemente. Il tutto culmina nel 1982 con l’assegnazio-ne del “cassero” (cioè la parte sopraele-vata della fortificazione) di via Saragozza al circolo di cultura omosessuale da parte dell’allora sindaco Zangheri, nonostante le inutili istanze dei cattolici che avevano pittorescamente usato il ritrovamento di un’antica lapide al cassero per dire che si trattava di un luogo di culto mariano (e la Madonna in questione era quella di San Luca!) che non poteva per questo essere profanato.

Fortuna ha voluto che il movimento gay avesse alla guida rappresentanti con un ben più radicato senso della comunità: attivi cioè nella realizzazione di effettivi spazi di ritrovo, di relazione, di quotidiani-tà per persone che slegate dal movimen-to erano sottoposte ad un’oppressione imperante e capillare. Tra questi non può essere dimenticato Samuel Pinto (meglio noto come la Lola Puñales) che durante un viaggio a Stoccolma registra mental-mente la struttura delle organizzazioni gay locali; ci sono sedi in cui, ac

Alcune coppie al Cassero.

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canto all’attività politica, ci si incontra per bere, discutere, guardare film: insomma, per vivere insieme. Di anni ne sono passa-ti, da allora. Il Cassero dal 2003 ha anche cambiato sede, trasferendosi nell’attuale “Salara” di via Don Minzoni, nell’ottica di aprirsi e svilupparsi in uno spazio più ampio e fornire servizi più diversificati. E sono tanti. Il Cassero dispone di un cen-tro di documentazione che è il maggiore archivio a tematica gay e lesbica presente in Italia, con oltre 7000 unità tra libri e ri-viste, una sezione video e una fotografi-ca, consultabili dal pubblico (tutto!) tutti

i giorni della settimana eccetto la dome-nica. Una rivista bimestrale e un sito in-ternet aggiornato in tempo reale in cui ci si può informare sulle attività giornaliere e gli incontri programmati. Ogni due set-timane, la domenica, c’è LiberaMente, un progetto per discutere di tematiche LGBT in cui si parla della sfera personale e di quella pubblica affrontando i diritti negati e possibili e l’omosessualità nella storia passata e recente. Più votato alla condivisione “estetica” è il gruppo di let-tura di Arcilesbica che organizza letture collettive di poesie e romanzi, talvolta

in occasione di cene con l’accompagna-mento musicale. Memori del passato e attivi nel presente, si collocano invece uno sportello legale gratuito e un servi-zio di ascolto e comunicazione che pren-de il nome di “Telefono amico gay” e vie-ne gestito da volontari per dare supporto psicologico e informazioni sulla vita gay locale. Il Cassero vuole parlare alla città: esiste un progetto scuola, dal momento che il periodo adolescenziale è quello in cui il pregiudizio può creare più danni al corretto sviluppo personale. E se il Casse-ro si propone bene, la città risponde, ver-rebbe da dire a proposito dell’ arcinoto “Gender Bender”, festival internazionale che presenta al pubblico gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orien-tamento sessuale. Promosso dal Cassero in collaborazione con la pregiatissima cineteca Lumière, il Gender Bender (che quest’anno si terrà dal 3 all’8 novembre p.v. ) è perfettamente in linea con le al-tre realtà europee e quando si vive in un Paese costituzionalmente arretrato e non solo dal punto di vista economico come il nostro, simili realtà elevano la mente e ci fanno sentire un po’ meno alieni…Ma torniamo leggeri, per un po’; il Cassero è anche esplosivo, disinibito, sfrenato e colorato come l’immaginario colletti-vo lo vuole. Basta capitare, in un primo venerdì del mese qualunque, alla serata “Feed the Bears”. Loro, i “Wonderbears”, si presentano così: “Grossi! Pelosi! Extra-ordinari!”. Nelle pagine di questo articolo vedrete Hard Ton, degno rappresentante e animatore di queste e altre nottate. Op-pure presentatevi ad una serata “burle-sque” dedicata agli spettacoli delle “drag queen”. In ogni caso, almeno per la metà della settimana, il groundfloor del Cas-sero è discoteca che propone di volta in volta musica commercial, house, electro-house, indie-rock, brit-pop e tutto il resto. Ma ciò che conta di più, ed è quello che intendevo dire all’inizio, sta tutto in un esempio piccolo piccolo: se si consulta lo “Zero” nell’edizione bolognese, quel li-bretto mensile che indica gli avvenimenti più significativi da trovare in città giorno per giorno e divisi per categorie in cultu-

Hard Ton si esibisce sul palco esterno del Cassero in occasione della “festa elettorale “ per la candidatura di Bruno Pompa, il 2 giugno scorso.

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ra, musica e notte, ci si accorge che le se-rate del Cassero sono segnalate sempre almeno due volte ogni settimana. Se è vero che lo Zero è un catalizzatore di for-ze e le “forze” da incanalare vuole che ci siano tutte, omosessuali compresi, è vero anche che il Cassero è aperto a tutti, e il flusso costante di frequentatori lo dimo-stra.

Parlare del Cassero, nonostante tutto, dovrebbe voler dire parlare delle per-sone; ma lo stesso Beppe Ramina, tra i fondatori del Cassero, scrive che proprio perché è fatta dalle persone la storia del Cassero è scritta sull’acqua ed è difficile da registrare, fotografare e finire chiusa in un libro o in qualcos’altro (soprattutto per chi quella storia l’ha vissuta dall’inter-

no). Allora è divertente ricordare che un giovane Grillini, a Cassero appena nato, era solito fare la macchietta del vecchio bigotto bolognese e ritrovarlo poi oggi, pressoché onnipresente ad ogni evento organizzato dal Cassero con lo stesso spi-rito divertito di allora. In realtà la vita del movimento è un po’ quella di tutti coloro che ci lavorano o lo frequentano; il consi-glio per tutti è quello di partecipare per perdere un po’ lo spirito nostalgico che eleva sempre il meglio ai tempi che furo-no, (per chi è affetto da questa sindrome), o per guardare da vicino una realtà inte-ressante e con l’occasione, specialmente di questi tempi, di formarsi una coscienza civile più ampia.

In alto: parte dello staff del Cassero in posa di fronte al banchetto da loro organizzato per la “festa elettorale”.A sinistra: Bruno Pompa, direttore artistico e candidato del Cassero alle elezioni del 6/7 giugno, con Hard Ton sullo sfondo; a destra Bruno Pompa in giacca bianca per il discor-so elettorale.

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Bologna è un capoluogo pieno di energia, c’è tanta vita per le strade, la gente passeggia, fa festa e si riunisce per le vie della città. Ma c’è anche tanta gente che proprio vive per strada, che ci dorme sotto i portici, in piazza, nei parchi, nei giardini, in biblioteca etc.. Molte perso-ne sono senza fissa dimora, non trovano un posto in dormitorio, o proprio non lo cercano, facendo così della metropoli la propria casa. È una realtà che si vede ogni giorno, a cui di solito non si presta attenzione o non si fa uno sforzo per capire. Uno dei punti caldi in cui ci sono tanti indigenti è la sta-zione centrale. Proprio in questa zona si trova il centro diurno dell’ASP di via del Porto, una cooperativa che per conto del Comune cerca di aiutare queste persone, andando contro l’incomprensione e la marginalità.Arrivo al centro alle 10:30 quando è anco-ra chiuso, mi ricevono gli assistenti

Massimo e Massimiliano. Nel centro gli assistenti sono anche educatori, tratta-no l’utenza con metodologia, cercano di analizzare i problemi e di agire su di essi. C’è un’implicazione umana ed emotiva nel loro lavoro, però è necessario ave-re un distacco per trattare i problemi in modo razionale, cercando comunque di trasmettere passione in ogni occasione. L’idea è dell’operatore pari che coindivide l’esperienza con l’utente. Massimiliano mi parla del fascino e della soddisfazione dell’aiutare chi ha bisogno, anche se pur-troppo i risultati sono rari, piccoli e brevi. Si tratta di proporre agli utenti un modo diverso di vivere la città, di offrire loro un momento di normalità. Si cercano piccoli successi, pratici. Tra l’utenza la costante è maschile, circa il 90%, e l’età varia dai venti ai sessant’anni, con una media che va dai quaranta ai cin-quanta. Persone senza fissa dimora, con un basso livello culturale che di solito

UN PORTO SULLA VIA

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soffrono di danni fisici, psicologici, emo-tivi e sociali. Problematiche croniche che vanno dalla tossicodipendenza all’alcoli-smo. Non molti esponenti delle denomi-nate “nuove povertà”. Ogni tanto ci sono problemi. In passato si sono vissuti mo-menti di tensione, risse ed incontri con i vicini del quartiere che si lamentano per il degrado della zona. In questi casi gli as-sistenti cercano di fare mediazione, però fuori la porta della mensa la responsabili-tà è delle forze dell’ordine.Nel centro sono attivi vari laboratori, gli utenti che partecipano alle attività rice-vono in cambio una borsa di lavoro di centocinquanta euro al mese per due ore al giorno. Il periodo concesso è di 6 mesi e tutti devono essere già tesserati nella mensa del centro. Al mattino dalle 11 alle 13 si fa laboratorio artistico. Si creano maschere per la com-media dell’arte in collaborazione con una compagnia teatrale, realizate con cuoio e carta pesta. A volte gli utenti vengono anche invitati a teatro per vedere il pro-prio lavoro in scena. È gratificante creare qualcosa di utile e ottenere un riconosci-mento per questo.“Non si finisce mai di imparare” mi dice Aurelio, responsabile del laboratoro da cinque anni. Lavora tranquillo come un

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artigiano che conosce il proprio mestie-re, anche se ha un braccio ammalato da qualche giorno. Racconta che al pome-riggio ripara le bici, mentre da istruzioni per le maschere ai suoi compagni Cosimo e Giuseppe. Loro non sono originari di Bologna e risiedono nello stesso dormi-torio.Alle 12 apre la mensa. L’accesso è riser-vato alle le persone tesserate, devono essere in trattamento e residenti a Bolo-gna. Ogni giorno vengono serviti in me-dia cinquantacinque pasti, non cucinati direttamente nel luogo ma riscaldati, gli utenti possono restare a mangiare nei ta-

voli della mensa o portare via. Dalle ore 13 alle 17:30 l’accesso è aperto a tutti, anche per i non tesserati che non po-trebbero accedere al pranzo. Parliamo di un totale di quasi cento utenti al giorno che trovano almeno un pasto, un caffe, o semplicemente un momento ed un luo-go tranquillo per vedere la TV, giocare a carte, o dormire un pò. Al pomeriggio inizia il laboratorio di infor-matica. Internet è un mezzo di comunica-zione che serve a inviare un messaggio al resto delle società.Tutti collaborano per creare il sito “Asfalto”, il blog delle perso-ne senza fissa dimora. Gli utenti imparano ad usare internet,

come Sandro, che comunica con sua fi-glia di otto anni attraverso la posta elet-tronica. La rete gli serve per restarle vici-no perchè lei vive a Milano con la madre. Lui ha trentacinque anni, è siciliano e vive a Bologna da quattro. Ha girato l’Europa per dieci anni prima di stabilirsi in Emi-lia. Adesso stà per compiere il suo sesto mese di borsa di lavoro. Dopo il labora-torio va in centro a chiedere l’elemosina. È ospitato a casa di amici e collabora con le spese.Intanto Simone cerca immagini della Re-sistenza Antifascista per il blog. Ha un tatuaggio sul pugno destro con la scritta “ACAB” (all cops are bastards) e mi raccon-

Parliamo di un totale di quasi cento utenti al giorno che trovano almeno un pasto, un caffe, o semplicemente un attimo ed un luogo tranquillo per vedere la TV, giocare a carte, o dormire un pò. Si tratta di proporgli un modo diverso di vivere la città, di offrirgli un momento di normalità, cercano piccoli successi a livello pratico.

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ta che è il titolo di un brano di una band skinhead degli anni ‘80.Insieme stanno preparando un video in commemorazione dei partigiani. Hanno filmato una gita in museo e ora leggono poesie davanti alla telecamera. France-sco si occupa del montaggio del video, è un ragazzo di Forlì, ed è a Bologna da due anni e mezzo. Ha ventun anni ed è nella droga da quattro. È un punkabestia, sempre in giro con il suo cane, senza do-micilio fisso anche se ora spesso dorme e fa la doccia a casa della sua fidanzata che studia nell’università. Mi racconta che sta pensando di cambiare aria, forse va in Spagna.

Mirco piange. Ha perso da poco il suo amico e compagno di asfalto, Max. La sua è una storia di strada, di dipendenza e di degrado totale. Pensa anche lui alla morte, a prendere questa scorciatoia per finire con la sofferenza. La loro è pure una vita nella resistenza.

Grazie agli assistenti e agli utenti del centro diurno per la sua accessibiltà ed ospitalità.Fotografia e testo: Miguel angel d’Errico.

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E’ DAVVERO FACILE SMETTERE DI FUMARE?

Sede del corso antifumo presso il Centro di ricerca dell’ istituto ortopedico rizzoli

Io vi direi che è molto facile, come altri ex fumatori felici. Ma alcuni invece trovano questo percorso difficile perche devono investire tempo, pazienza e impegno per elaborare il distacco definitivo dalla siga-retta.Nella mia esperienza ho cercato di vivere serenamente questo percorso, cercan-do di dare meno valore alla sigaretta, togliendole tutta quella carica emotiva e quel significato che le attribuiamo ma che in realtà non le appartiene.

MA C’OSE’ CHE CI FA TEMERE TANTO IL DISTACCO DALLA SIGARETTA?La nicotina è la “droga perfetta” perché induce dipendenza, ma è socialmente e legalmente accettata e adatta a molti usi: placare l’ansia, combattere lo stress, ci aiuta a tirarci su e a essere più produttivi.Quasi tutti i fumatori sono consapevoli dei danni del fumo, ma non sanno co-munque rinunciare a questo “vizio”. Che piaccia o no, il fumatore ha una doppia dipendenza: fisica legata alla nicotina che

inala tramite la sigaretta e psicologica legata ai rito della sigaretta e ai bisogni psicologici.Per smettere di fumare e liberarsi in modo definitivo dal fumo, la motivazione è essenziale, ma a volte non basta e va aiutata a crescere.E’ importante desiderare smettere di fu-

mare. Nella maggioranza dei casi quan-do pongo la domanda: “Qual è il motivo che ti ha spinto a smettere?” riemerge sempre un fattore comune a tutti i fuma-tori: prevenire malattie future e alleviare i danni che il fumo ha già causato (tosse persistente, fatica a respirare, bronchite cronica ecc…).

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Nelle due foto in alto alcuni dei componenti del gruppo antifumo del Centro di Educazione alla Salute degli istituti rizzoli di Bologna durante lo svolgimento del corso tenuto dalla dott.ssa Manuela Monti

Nel suo percorso di disintossicazione dal-la nicotina, il fumatore può trovare utile confrontarsi con altri, come ad esempio uno psicoterapeuta o un gruppo di soste-gno psicologico.A questo proposito mi sono recata pres-so il Centro di Educazione alla Salute dell’ Istituto Rizzoli di Bologna, qui mi ha rice-vuto la dottoressa Manuela Monti che mi ha spiegato le fasi dei corsi e come funzionano i trattamenti per la disin-tossicazione del fumo di tabacco. I corsi sono basati su approccio integrato, in cui vengono combinati tecniche cognitivo-comportamentali, applicate in un sitting di gruppo di sostegno (di tipo aperto), al supporto farmacologico per ridurre l’in-tensità dei sintomi astinenziali (può trat-tarsi di sostitutivi nicotinici come cerotti oppure di veri e propri farmaci, nel qual caso la prescrizione viene definita insie-me al proprio medico di famiglia oppure allo specialista da cui si è eventualmente seguiti).E’ previsto un colloquio iniziale e una frequenza di gruppo, articolata in una fase intensiva di due mesi e in una fase post-intensiva, in cui vari incontri di man-tenimento sono distribuiti nei successivi 10 mesi. Nella fase intensiva, gli incontri di gruppo hanno cadenza settimanale. Complessivamente il corso dura un anno.Il gruppo ha un funzionamento aperto, prevedendo l’inserimento ogni quattro settimane dei nuovi partecipanti: 8-10 per ogni gruppo, questo ha il vantaggio di offrire ai partecipanti disponibilità e supporto costante, in qualsiasi momento del percorso di disassuefazione. Nei pri-mi incontri, si applica la tecnica del fumo programmato, finalizzato alla riduzione graduale del numero di sigarette fuma-te, per mezzo di “compiti a casa” di au-tomonitoraggio attraverso il diario delle sigarette fumate. Al quarto incontro, i fu-matori che risultano astinenti da almeno 24 ore possono procedere con l’utilizzo di sostitutivi nicotinici (i cerotti, le gom-me da masticare ...). Dal quinto all’ otta-vo incontro si lavora sul mantenimento dell’astensione con l’obbiettivo primario di prevenire la ricaduta. Al nono incontro vengono inseriti i pazienti di un nuovo-gruppo e il programma viene ripreso, va-

lorizzando l’esperienza dei partecipanti che hanno già smesso e sono in fase di mantenimento (Monti, 2008).

LA PSICOLOGIA DEL FUMATORECosa ci fa cascare nella trappola del fumo? Le migliaia di persone che già lo fanno.Tutti noi pensiamo di essere padroni del nostro percorso esistenziale, ma in realtà il 99% di quello che siamo è un prodotto della società nella quale siamo cresciuti, perfino il nostro essere diversi tende ad essere preordinato.Fumare è la trappola più diabolica che l’uomo con l’aiuto della natura, sia riusci-to a congegniare. Il lavaggio del cervello è il maggior ostacolo che spesso il fu-matore si trova ad affrontare. La società, i famigliari, gli amici rafforzano la nostra dipendenza ancor più della nicotina stes-sa (Carr’s 2005).Si diventa fumatori nella maggior parte dei casi prima dei 18 anni, quasi sempre per rispondere ad un bisogno di sicurez-za e per emulare gli adulti, con la con-

vinzione che grazie al fumo sarà più facile gestire le situazioni di difficoltà, insormontabili per gli adolescenti, che devono ancora sviluppare un senso di identità, imparare ad accettare se stessi e gli altri.Oggi a distanza di anni dall’avvento del consumo di massa di sigarette, la socie-tà incomincia a vedere il fumo in modo diverso, non più come un qualcosa di intrigante anche nel cinema e nella te-levisione, si cerca sempre più spesso di

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evitare la sponsorizzazione delle sigaret-te. Non potendo più sponsorizzare aperta-mente le sigarette, i pubblicitari trovano comunque modi alternativi per farci rece-pire il messaggio.Speriamo che funzioni anche l’altra pub-blicità, quella che ci può aiutare a smet-tere, quella che vediamo tutti i giorni è che abbiamo sempre sotto gli occhi: nei pacchetti di sigarette, negli sponsor, nei libri, in internet e in tutte le persone che ci raccontano la loro esperienza con la di-sintossicazione dal fumo.Basta cercare le scuse più banali per continuare a fumare!

“E POI UNA SIGARETTA MI HA FREGATO”Questa frase l’ho sentita durante il corso per smettere di fumare al Rizzoli, la signo-ra G racconta di una sua precedente espe-rienza, nella quale a causa di un’unica sigaretta ricade nella trappola del fumo. Molti hanno la convinzione di controlla-re un’unica sigaretta, uno dei maggiori inganni a cui può andare incontro un ex fumatore che crede o vuole credere di poter controllare un’unica sigaretta. Nei racconti degli ex fumatori emerge spesso questo elemento: un’ occasione sociale, divertente o difficile può mettere in peri-colo il nostro tentativo di smettere.Spesso sono proprio i fumatori a farci ri-cadere nella trappola, infatti l’ex fumato-re in alcuni casi, tende a invidiare il fuma-tore nonostante gli svantaggi del fumo siano ovvi e numerosi.“Ma il lavaggio del cervello che ci ha in-dotto a fumare la prima sigaretta è in ag-guato e può farci ricadere nella trappola” (Carr’s 2005).Ringrazio i partecipanti del gruppo di sostegno e la dottoressa Monti che mi hanno aiutato a scrivere quest’articolo parlandomi della loro esperienza.

Manuela Assilli

Bibliografia:Monti, M. (2008) in aa. VV.: “Psicoterapia Cogniti-va e Comportamentale” trento: edizioni Erickson.

Carr’s, a. (2005) “E’ facile smettere di fumare se sai come farlo” Milano edizioni Ewi.

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Oggi si parla molto di handicap e di ma-lattia e tutti sembrano sentirsi parte di un grande talk show dove è in obbli-go esprimere una opinione su cosa è bene o male per chi soffre queste espe-rienze. Personalmente credo che ascol-tare la loro voce sia la cosa migliore. Fabrizio è un uomo di 50 anni, alto e robusto, ha un passato sportivo e ne va fiero, un giorno vent’anni fa, inspie-gabilmente durante un allenamento, un movimento particolare gli pro-voca la distorsione del rachide cer-vicale, gli parte così l’arteria basilare e Fabrizio cade a terra privo di sensi. Ricoverato d’urgenza al Pronto Soccorso la sua forte fibra reagisce e la sua imme-diata ripresa nasconde la reale gravità del male a medici incauti e superficiali che, tranquillizzandolo, lo rimandano a casa.Il giorno dopo Fabrizio è in coma. Questa volta il suo stato è evidente. Al capezzale accorre la giovane moglie disperata. Sono giorni di angoscia, durante i quali speran-za e terrore si susseguono con lo stesso ritmo con cui lo assalgono le febbri neu-rologiche. Poi il verdetto inesorabile “Si-gnora ci dispiace, non c’è più nulla da fare”.

Fabrizio è dato per morto e solo la sua fisioterapista si rende conto che non è così. Lui ora ha presente quel momento, ricorda che avevano già mandato a prendere i suoi vestiti.Paralisi totale. Può muovere solo gli oc-chi e, proprio con gli occhi la logopedista gli insegnerà a parlare, ma il cammino verso una nuova vita deve fare i conti con l’atteggiamento interiore, Fabrizio non è più padrone del proprio corpo, ma la mente è vivissima e lucida, come vivere ora? Come tornare dalla moglie? No, Fabrizio non vuole più vederla la propria moglie, inconsciamente difende la propria dignità, accetta solo le cure di una sorella. Ci vorrà tempo e pazienza perché Vita, la compagna della sua esi-stenza, possa tornare a stargli accanto. Oggi Fabrizio e Vita, mi accolgono nel-la loro bella casa studiata per le esigen-ze speciali del marito. Ho chiesto loro

di raccontare l’esperienza straordinaria che hanno vissuto e stanno vivendo tutt’ora e di poter fare delle foto. E’ una bella giornata, Fabrizio chiede di fare una passeggiata verso il vicino Centro Commerciale, con loro c’è la giovane nuora e la piccola nipote di sei mesi. Mentre andiamo pongo le mie doman-de a Fabrizio e lui dalla sua carrozzella mi risponde con un sistema particolare, indicando le lettere con gli occhi, Vita a volte interviene, a lei bastano solo due lettere per capire immediatamente la pa-rola, c’è una intesa incredibile tra i due.” E’ vero” Sorride Vita mentre accarezza il suo Fabri “Oggi abbiamo una armo-nia e un legame di coppia più profondo di quando ci siamo sposati, è frutto del-la nostra storia, di quello che abbiamo perduto e di quello che abbiamo trova-to. La gente forse fa fatica a capire, ma Fabri ha tante piccole attenzioni per

UN’ AMANTE STRAORDINARIA Un’ esperienza di malattia e di vitaTesto e fotografie di Caterina Faccia

Sopra Fabrizio con la moglie e la nipotina. Sotto Fabrizio all’età di 27 anni.

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me, nella sua situazione potrebbe es-sere molto egoista, tanti lo sono, invece si preoccupa costantemente che io stia bene e possa fare quello che deside-ro, ad esempio accetta senza lagnarsi il Centro Diurno che odia, solo perché io

possa lavorare o fare un po’ di vacanza.” Quando hanno dimesso Fabrizio nessu-no dei familiare pensava che quella gio-vane e spensierata ragazza se lo sarebbe portato a casa, tutti credevano che lo avrebbe messo in un istituto. Invece lei aveva nel frattempo trovato una incre-dibile forza che niente avrebbe potuto spezzare, non la morte della amatissima madre avvenuta proprio in quei giorni, non il trasloco verso una casa adatta, per fare tutto da sola, non il crescere il loro bambino senza l’aiuto attivo del marito.Scopro così che i due si erano sposati giovanissimi, molto innamorati e come tanti giovani, pieni di voglia di vive-re e giocare. Il problema di fondo era come divertirsi, bei momenti ma un po’ superficiali e così anche gli amici che, dopo la disgrazia, si sono tutti rapida-mente dileguati… se non hai una soli-da struttura di fondo il dolore fa paura.Ma il dolore è davvero parte della vita , lo psicologo Viktor Emmanuel Frankl lo

considera uno dei grandi cinque inelu-dibili significati dell’ esistenza assieme alla nascita, la morte, il lavoro, l’amore.Il racconto continua “Durante la malattia qualcuno ci ha avvicinati alla trascen-denza. Noi eravamo lontani le mille e miglia e avevamo fatto battezzare no-stro figlio solo per tradizione, Fabri poi non ne voleva assolutamente sapere, gli sembravano solo gesti e parole finta-mente consolatori, per non dire dei pre-ti, che per lui erano come il fumo negli occhi . Io invece mi ero già lasciata cat-turare dalla bellezza del sentirmi amata e soprattutto sostenuta da un Padre .Un giorno mi sono imposta: io spinge-vo la carrozzella, io decidevo il percorso, così l’ho portato di forza nella cappella dell’ospedale. Fabri si è incantato davan-ti alla statua di Gesù e si è sciolto in un pianto inarrestabile, nessuna psicotera-pia sarebbe stata così potente, quell’in-contro gli ha ridato la voglia di lottare. Mi vengono in mente quelle conversio

Sopra fabrizio con la nipote al supermercato. Sotto Fabrizio nel parco del centro diurno.

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ni improvvise di intellettuali atei come Paul Claudel o di Max Jacob. Certo la fede non cancella il dolore, ma gli dà un significato e soprattutto una speranza”.Fabrizio mi dice che nella fede trova la for-za di andare avanti, scherza dicendomi di avere un’amante bellissima di nome Maria. Gli chiedo se è felice, mi risponde che lo è solo in parte. E’ felice di esistere e la sua esperienza gli ha fatto scoprire nuo-ve realtà . Oggi prova sentimenti e in-teressi che probabilmente non avrebbe mai potuto conoscere diversamente. Mi trafigge con gli occhi quando sil-labando nel suo modo speciale affer-ma di possedere la forza e la gioia di esistere , di avere accanto a sè persone che ama e che lo amano e nuovi ami-ci che non hanno paura della sofferenza Ma c’ è anche tutta una parte di dolo-re che nasce dal non essere libero, dal non poter disporre di sé, non avere la possibilità di progettare spazi lontani come un tempo, lui però non dispe-ra “ Chissà …tutto è possibile…ti dirò la Speranza non mi abbandona mai!”

Sopra Fabrizio con la nipote in un centro commerciale.Sotto Fabrizio con la moglie, il figlio,la nuora e la nopote.

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APPENA SENTIAMO QUESTA PAROLA IN QUALSIASI MOMENTO E IN QUALSIASI

POSTO , RICORDIAMO 22 PERSONE CHE CORRONO PER CATTURARE SOLO

UNA PALLA! ... SI ,SOLO UNA PALLA!CHI

SONO QUESTE 22 PERSONE?SONO RAGAZZI CHE FANNO

SPORT?SONO PERSONE CHE SI CIBANO DI

QUESTO MESTIERE?O SONO 22 SANTI CHE POSSONO POR-

TARE AVANTI IL DESTINO

DI UN PAESE?

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Appena sentiamo questa parola in qual-siasi momento e in qualsiasi luogo , ricor-diamo 22 persone che corrono solo per impadronirsi di una palla! ... si ,solo una palla!Chi sono queste 22 persone?- sono ragazzi che fanno sport?- sono persone che si cibano di questo mestiere?- o sono 22 santi che possono portare avanti il destino di un paese?Quando ero bambina guardavo mia mamma che era incantata... guardava gli uomini piccoli nella scatola magica che correvano per prendere una palla, e io da piccola stupida, di solito le chiedevo “per-che non danno ad ognuno di loro una palla”?Bello vivere nel mondo dei bambini ...pie-no di palle!Da piccola “il fanatismo”di mia madre per il calcio riempiva tutta la casa di un odore di cibo bruciato, e da grande quasi sento odore di sangue crudo che proviene da quella stessa scatola,ormai non è più ma-gica...troppo risse,non si gioca più.“Cos’è questo sentimento che ti fa gridare?”Ancora più ridicolo è il fatto che “la poli-tica” si mischi con le palle! Il calcio è un potente mezzo di distrazione per il po-

polo usata dalla politica, in un quasi tut-ti i paesi, per cui le partite sono seguite molto più assiduamente dei processi per corruzione dei governanti.Che differenza c’è tra le “sedie rosse” e le altre sedie allo stadio? Chi si siede sul quelle “rosse”? Il calcio è un sport del po-polo; il popolo si unisce in un solo colore; allora perche ci sono diversi colori? Per essere un buon tifoso di calcio quali ca-ratteristiche devi possedere più di tutto?- Essere un amante del calcio? - Essere un ammiratore facoltoso?- Oppure essere un uomo che ha il pote-rer di sedersi sulla sedia “rossa”?Quante domande ci sono nei nostri cer-velli che non riescono mai ad avere una risposta?

T I F O S O L’etimologia di “tifoso”, nel significato di chi fa il tifo per una squadra o un atleta, è controversa. La parola è entrata nei nostri dizionari nel 1929. La derivazione più probabile è che la voce sia legata alla nota malattia, che si mani-festa in febbri improvvise e può portare alla morte. Il “tifo” è infatti contagioso, e anche la passione per una squadra lo è: il “tifoso” ha febbri altalenanti e anche quello che sta allo stadio può infiammar-si nel suo ardore. Quando il tifo sportivo diventa una della tante nuove malattie di dipendenza,il caso si fa grave: ed ecco la stupidità e la morte di qualsiasi barlume d’intelligenza.

Quanti soldi si nascondono dietro a una partita? Possiamo cominciare con quelli che tagliano il prato, le pulizie del cam-po, i venditori dei biglietti, i ragazzi che fanno gli striscioni, i commercianti delle magliette, la polizia di guardia, i fotografi, i ragazzi pieni di fumogeni nascosti nelle mutande, i gelatai ambulanti, i giornali-sti, gli scommettitori, quelli che fanno la radiocronaca e la telecronaca e che urla-no sempre. E alla fine la gente...la gente che grida per tutti e 90 i minuti. Che noia guardare il calcio in casa seduti sul diva-no con una confezione di patatine che neanche ti fa compagnia!Invece allo stadio... quante sedie... quante gente... quante parol... cce.

Perche la gente si permette di urlare e ascoltare certi termini che vanno moltro oltre le parolacce?Questo comportamento mi fa ingrandire il punto interrogativo per definire la liber-tà. (riformulare). L’arbitro, questo angelo tra i demoni che con il suo strumento fischia... e parte il delirio. I primi 20 minuti ti senti un pò spaesata, ma dopo parti anche tu.Quanto è bello sfogarsi con tutta la tua forza , urli ... urli ...urli... davanti a mille e mille persone che a loro volta ti rispondo-no, anzi urlano tanto anche loro.Lì non hanno più importanza i colori del-le sedie, le persone si uniscono con un gesto naturale, come l’onda del mare , e sembra che abbiano tutti un potere “im-battibile”Holaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa- Questo è entusiasmo- Questo è colore- Questo è lo stadio Viva lo sport.

Testo e foto di mozhde Nourmohammadi

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Il viaggio continuaLa zona Pilastro del Quartiere San Dona-to, area situata nella periferia della città, è caratterizzata da una forte presenza di edilizia popolare e da un’alta concentra-zione di residenti stranieri.I numerosi indicatori di forte disagio so-ciale (denunce penali a carico di minori, micro criminalità, consumo e spaccio di sostanze stupefacenti) oltre a fenomeni come l’abbandono scolastico, hanno de-terminato la necessità di operare concre-tamente nei confronti degli adolescenti, ai quali il territorio non offriva alcuna risposta educativa, formativa e di socia-lizzazione. Per rispondere ad un preciso bisogno riscontrato nel territorio nell’an-no 2003 è nato un progetto rivolto agli

adolescenti e ai giovani adulti residenti al Pilastro. Il gruppo a cui fu data la deno-minazione di “Katun” (la Giostra) iniziò la propria attività con l’apertura del centro per tre pomeriggi la settimana e la pre-senza di due educatori professionali.Il progetto cerca di rispecchiare la com-plessità del quartiere, dove si trovano a convivere diverse comunità, coinvolgen-do ragazzi provenienti da contesti diffe-renti. I giovani partecipanti sono per lo più rom originari della ex Yugoslavia e dell’Albania, i quali, in seguito alla dismis-sione dei campi-sosta agli inizi del 2000, vivono attualmente nelle case popolari. Ci sono comunque anche italiani ed afri-cani dal Maghreb e dal Congo.

testo e fotografie di Julia Tikhomirova

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I componenti del gruppo sono tutti a forte rischio di esclusione sociale sia per l’appartenenza etnica, sia per le loro con-dizioni economiche. Il progetto “Katun” quindi punta non solo a contrastare questo fenomeno ma a far assumere al gruppo un ruolo di spinta nella creazio-ne di relazioni positive nell’intera area del Pilastro e non solo. Tra le varie metodolo-gie proposte l’arte svolge un ruolo fonda-mentale. Basti pensare al progetto Icaro, realizzato nello Spazio Giovani della Ausl con la produzione di un musical sui temi dell’affettività, rappresentato sia all’ex

Nella pagina accanto e qui sopra: il Pilastro, quartiere residenziale nella periferia nord-est, fu progettato negli 60 per soddisfare la grande richiesta di alloggi popolari per le ondate di immigrati meridionali

“Tirò” che al circolo “La Fattoria”.Sull’onda di quell’esperienza il gruppo, che ha assunto per volere dei ragazzi stessi il nome di “Katun Party”, ha iniziato a provare regolarmente una volta alla set-timana, prima al “Centro Anni Verdi” del Pilastro e poi al “Vag61”. Fra gli obiettivi dell’ associazione vi è quello dell’organiz-zazione di uno spettacolo incentrato sui temi della cittadinanza attiva e partecipa-ta (la cui prima prova ufficiale è stata al teatro del centro giovanile “Barrios” di Mi-lano), e la creazione di varie animazioni e feste. Il percorso di crescita e di au

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tonomia del gruppo verrà documentato in un diario, di prossima pubblicazione, elaborato collettivamente e costituito da testi scritti ed immagini.

Dal diario di “Katun Party”: “Ci siamo, oggi inauguriamo la sede. Forse potevamo aspettare qualche giorno in più, forse po-trebbero venire più persone… Ma è troppo tempo ormai che stiamo aspettando… anni. Un educatore incontra un gruppo di ragazzetti rom di un quartiere di periferia, li perde di vista per anni, li ritrova cresciuti, altri progetti, altra gente a lavorarci, stesso gruppo. Mi avevano fatto un’impressione bella forte quando erano piccoli, scatena-ti, uniti, adrenalinici, fantasiosi, non sono cambiati molto. Quindi il gruppo Katun, quindi i soggiorni estivi, i conflitti, le prove, i primi spettacoli… la bella notizia: “il pro-getto è passato! il viaggio continua...!”

Sotto: Pilastro, 2009. a fianco: “Katun Party”, le prove dello spettacolo, scritto dai ragazzi, che ha come soggetto la vita di un clandestino.

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la cena etnica di

autofinanziamen-

to, organizzata dal

gruppo “Katun”

al centro sociale

“Vag61”, quartiere

San donato

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Accademia di Belle Arti di Bolognarealizzato dagli Studenti del corso di fotografia del Biennio Specialistico di fotografia

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