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SEMINARI E CONVEGNI

22*

Laboratorio di Storia, Archeologia e Topografia del Mondo Antico

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Atti delle seste giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneoErice, 12-16 ottobre 2006

Workshop «G. Nenci» diretto da Carmine Ampolo

Laboratorio di Storia, Archeologia e Topografia del Mondo Antico

Redazione a cura di Chiara Michelini, vol. IMaria Adelaide Vaggioli, vol. II

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EDIZIONI DELLA NORMALE

Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo anticovol. I

a cura diCarmine Ampolo

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© 2009 Scuola Normale Superiore Pisaisbn 978-88-7642-366-6 (opera completa)

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Indice

IntroduzioneCarmine Ampolo IX

Abbreviazioni XI

Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo antico

Isole di storia, storie di isoleCarmine Ampolo 3

Insularità e talassocrazia nello spazio egeoUgo Fantasia 13

Isole e terraferma: la percezione della terra abitata in Grecia arcaica e classicaPaola Ceccarelli 31

Insularità e assetti politiciMauro Moggi 51

Nel Mediterraneo antico. La Sicilia tra insularità e continentalitàAnna Maria Prestianni Giallombardo 67

Identità siciliana in età romano-repubblicanaJonathan R.W. Prag 87

Isole e isolani nella prospettiva di TucidideCinzia Bearzot 101

Insularità, etnografia, utopie. Il caso di DiodoroStefania De Vido 113

Le isole in StraboneGianfranco Maddoli 125

La circumnavigazione come strumento di conoscenzaFederica Cordano 133

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VI Indice

La Sicilia nella cartografia anticaFrancesco Prontera 141

L’isola improbabile. L’«insularità» della Sicilia nella concezione greca di età arcaica e classicaFlavia Frisone 149

La Sicilia delle ‘immagini’ nella cartografia storica (XV-XVIII secolo)Maria Ida P. Gulletta 157

«Questa rovina è indicibilmente bella e pittoresca»: le antichità della Sicilia e il culto della Grecia classica nel XVIII secoloMaurizio Paoletti 195

Bianche rovine scurite dal tempo, templi colorati della Sicilia, tra ’700 e ’800Maria Cecilia Parra 221

Storie di statue di Sicilia: tra realtà e immagineChiara Michelini 231

Arte e insularità. Il caso delle metope del tempio F di SelinunteClemente Marconi 259

Arte ad Agrigento tra età arcaica e classica: problemi di metodoGianfranco Adornato 269

Il Pittore della Scacchiera e la nascita della ceramica figurata siceliotaMonica de Cesare 277

Le isole toscane tra storia e mito: l’arcipelago che non c’èAlessandro Corretti 295

L’insediamento degli Cnidî a Lipari nel quadro della colonizzazione arcaicaLeone Porciani 315

Drepane, Scheria, Corcira: metonomasie e immagini di un’isolaClaudia Antonetti 323

La lega dei Nesioti: le vicende storicheLuigi Gallo 335

L’organizzazione istituzionale dei NesiotiStefania Gallotta 341

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VII Indice

Creta nel Mediterraneo: insularità o isolamento?Francesco Guizzi 347

Gli sviluppi della società cipriota nei secoli XIV e XIII a.C. ed i primi rapporti con il Mediterraneo centraleGiampaolo Graziadio 359

Coesistenza di culture a Cipro in età arcaicaAnna Cannavò 385

Rapporti fra grandi isole e la rete di isole del Mediterraneo

I rapporti fra Sicilia e Sardegna nel II millennio a.C.Fulvia Lo Schiavo 401

Specificità e trasformazioni del ruolo della Sicilia nell’interazione mediterranea fra l’Età del Bronzo e la I Età del FerroAnna Maria Bietti Sestieri 421

La Sicilia e le isole del Tirreno in età arcaicaRosa Maria Albanese Procelli 437

Sicilia e Sardegna nel mondo punico: relazioni, funzioni, distinzioniSandro Filippo Bondì 457

Da Paro al MediterraneoEugenio Lanzillotta 467

Thera arcaica: spazio e scrittura nell’agora degli dèiAlessandra Inglese 475

Presenze minoiche nel Salento. Roca e la saga di MinosseRiccardo Guglielmino 481

Ustica tra il Tirreno e la Sicilia. Storia del popolamento dell’isola dalla Preistoria all’età tardo-romanaFrancesca Spatafora 507

Naxos tra Egeo e Sicilia. Ricerche nel più antico abitato coloniale (scavi 2003-2006)Maria Costanza Lentini 519

Illustrazioni

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Introduzione

È necessario chiarire brevemente scopi e struttura di questo convegno e degli Atti. Queste Seste Giornate di Studi sull’area elima e la Sicilia occidentale sono infatti dedicate al tema Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo antico, che occupa interamente il primo volume degli Atti: è questo il tema generale scelto per saldare lo studio delle realtà della Sicilia antica al quadro mediterraneo. Invece la seconda parte è dedicata, come nella tradizione delle Giornate, a rapporti e comunicazioni relative a scavi e ricerche nella Sicilia occidentale – ricche di novità –, cui fanno seguito studi su vari aspetti epigrafici, numismatici, archeologici, topografici della Sicilia antica; conclude il secondo volume una sezione comprendente la presentazione di alcune ricerche condotte presso la Scuola Normale Superiore.

Come nelle Giornate precedenti, la Sicilia occidentale (comprendente la cd. area elima) costituisce il nostro terreno privilegiato, ma accompagnato dalla scelta consapevole di inserire quest’ultima e la Sicilia in genere nelle vicende del Mediterraneo antico. Come avevo già sottolineato, la Sicilia occidenta-le con la sua forte presenza di genti e culture diverse (Sicani, Elimi, Siculi, Fenici, Greci, Italici e Romani), con un’ampia gamma di relazioni reciproche (dall’integrazione al conflitto più aspro) offre una documentazione particolar-mente preziosa per analizzare e valutare realtà multietniche e multiculturali del Mediterraneo antico e non solo. Il tema monografico generale è stato scelto proprio per riflettere su come tale complessa realtà si collegasse con l’insularità, come si fossero sviluppate col tempo forme di identità collettiva, come autori antichi intendessero l’insularità. Inoltre, molto importante è vedere se e come si siano sviluppati già dal II millennio a.C. stretti rapporti tra le maggiori isole del Mediterraneo, formando in alcuni casi una sorta di rete insulare, che tocca-va anche la penisola italiana (il sito di Roca nel Salento è ormai essenziale per archeologi e storici per comprendere realtà del II millennio e presenze egee); arcipelaghi e legami tra isole minori rivestono ugualmente grande rilievo per comprendere le forme specifiche che ha assunto il contesto mediterraneo. Non sono mancati studi su singole isole, utili a comprendere caratteri specifici o ele-menti comuni o possibili rapporti. Il caso di Cipro è poi particolarmente inte-ressante per il fatto di essere anch’essa una grande isola con apporti culturali ed etnici differenti, una caratteristica che invita ad un confronto con la Sicilia. L’immagine della Sicilia presso i Moderni, a partire da geografi e viaggiatori, e la stessa cartografia, offrono una cospicua documentazione e consentono spesso di unirne l’immagine ‘ideale’ a quella ‘concreta’, alla carta, forse tanto più rivelatrice quanto più si allontana dalla nostra realtà.

Raccogliere documentazione e studi molto diversi su tali temi è un modo di contribuire ad una visione rinnovata di popoli e culture dell’isola. Come

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X Carmine Ampolo

avevo scritto presentando nel 2003 le Quinte Giornate, «negli ultimi decenni gli studi hanno giustamente valorizzato il ruolo delle popolazioni locali, Siculi, Sicani ed Elimi, non più considerati soggetto passivo della storia. D’altro canto si è rinnovato anche lo studio dei Greci e dei Fenici in Occidente dall’età micenea fino ad età romana, anche grazie alla documentazione archeologica ed epigrafica. I colonizzatori non sono più gli stessi degli studi tradizionali e la decolonizzazione è andata avanti… Insomma vorrei che i lavori del nostro convegno servissero anche a valorizzare quella mescolanza culturale ed etnica che mi pare un segno vitale della Sicilia occidentale antica – e non solo di quella». Come e perché si sia giunti da tante componenti, da tali diversità, a forme di identità comune, di singole componenti prima (i Sicelioti in senso stretto o ethne locali come gli Elimi) e degli isolani in generale dopo (i Sicelioti e i Siculi nel senso ormai più allargato di abitanti dell’isola, come rispettiva-mente in Diodoro Siculo e in Cicerone) resta un soggetto affascinante quanto importante da indagare ulteriormente.

Infine i ringraziamenti, doverosi e sentiti. In primo luogo al Presidente della Fondazione Ettore Majorana e centro di cultura scientifica di Erice, prof. Antonino Zichichi, che ha inserito ancora una volta, noi “umanisti”, ma fratelli degli scienziati, nei programmi delle loro attività; un grazie per l’aiuto dato e per l’impegno profuso dai suoi collaboratori di Erice, in particolare alla dr.ssa Fiorella Ruggiu. Un grazie di cuore ai funzionari delle Soprintendenze di Trapani e di Palermo, che consentono alla Scuola Normale Superiore di Pisa di portare avanti tante iniziative e ricerche nella loro Sicilia, con spirito di collaborazione e con sempre rinnovata amicizia. Desidero anche ricordare l’ap-poggio e l’incoraggiamento costante del Direttore della SNS, Salvatore Settis, e degli amici delle Edizioni della Normale. Senza l’aiuto e la dedizione del per-sonale e dei collaboratori del Laboratorio di Storia Archeologia e Topografia del Mondo Antico della SNS, che tanto hanno fatto sia per la buona riuscita di questa come delle precedenti Giornate sia per la preparazione degli Atti, sarebbe stato impossibile realizzare e continuare questa iniziativa culturale. La signora José Rallo e l’azienda Donnafugata anche in questa occasione non ci hanno fatto mancare il loro appoggio; e nelle loro cantine storiche a Marsala è stato consegnato il premio, che essi stessi finanziano, intitolato al prof. Giuseppe Nenci, il cui nome è giustamente ricordato anche nel nostro workshop di Erice.

Carmine Ampolo

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Abbreviazioni

Autori antichi

Sono state adottate, di norma, le abbreviazioni dell’Oxford Classical Dictionary, Oxford-New York 19963 o del dizionario di H.G. Liddell, R. Scott, Oxford 19689, e del Thesaurus Linguae Latinae. Index, ed. Teubner, Lipsiae 1904, ad eccezione dei seguenti casi: Aristoph., Artemon, Demosth., Diod., Hesych., Plato, Ps.-Arist., Ps.-Eratosth., Ps.-Plut., Ps.-Scyl., Ps.-Scymn., Ps.-Xen., Strabo, Tim.

Opere generali

AE = L’Annèe épigraphique, Paris 1888-BÉ = Bulletin Épigraphique, in «Revue des Études Grecques».BMC = Catalogue of the Greek Coins in the British Museum.BTCGI = Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle

Isole Tirreniche (fondata da G. Nenci e G. Vallet, diretta da C. Ampolo), Pisa-Roma 1977-1994, Pisa-Roma-Napoli 1996-

CAH = J. Boardman, I.E.S. Edwards, C.J. Gadd, N.G.L. Hammond, E. Sollberger, F.W. Walbank, A.E. Astin, M.W. Frederiksen, R.M. Olgivie (eds.), The Cambridge ancient history, Cambridge, London, New York 19612-

Chron.Lind. = Chronicle of Lindos, ed. by Chr. Blinkenberg, Die Lindische Tempelchronik, Bonn 1915; ed. by F. Jacoby, FGrHist, ii p. 1005.

CIG = Corpus Inscriptionum Graecarum, Berlin 1828-1877, I-IV.CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin 1863-CIS = Corpus Inscriptionum Semiticarum, Paris 1881-CTh. = Th. Mommsen, P.M. Meyer (eds.), Theodosiani libri XVI cum

Constitutionibus Sirmodianis et Leges novellae ad Theodosianum pertinentes, Berolini 1954.

CVA = Corpus Vasorum Antiquorum.DANIMS = Documentazione Archeologica delle Necropoli dell’Italia Meridionale

e Sicilia, in «ASNP», s. III, XIV, 1984-.DNP = Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, Stuttgart 1996-EAA = Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica ed Orientale, Roma 1958-FGrHist = Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin 1923-FHG = C. Müller, Fragmenta Historicorum Graecorum, Parisiis 1841-1870.GGM = C. Müller, Geographi Graeci Minores, Parisiis 1855-1861, I-III.HCT = A.W. Gomme, A. Andrews, K.J. Dover, A Historical Commentary on

Thucydides, 5 vols. (1945-1981).

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XII Abbreviazioni

I.Chr.UR = Inscriptiones Christianae Urbis Romae, Romae 1922-I.Délos = Inscriptions de Délos, Paris 1926-1972, I-VII.I.Eph(esos) = Die Inschriften von Ephesos, Bonn 1979-.IG = Inscriptiones Graecae consilio et auctoritate Academiae Litterarum Regiae

Borussicae editae, Berolini 1873-IGUR = L. Moretti (a cura di), Inscriptiones Graecae Urbis Romae, Roma

1968-1979.I.Iasos = W. Blümel, Die Inschriften von Iasos, Bonn 1985.ILLRP = A. Degrassi, Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae, Firenze 1957-

1963, I-II; 19652, I-II.ILS = H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, Berlin 1892-1916.I.Mus.Cat. = K. Korhonen, Le iscrizioni del Museo Civico di Catania: storia

delle collezioni, cultura epigrafica, edizione, Helsinki 2004.Inscr.Ital. = Inscriptiones Italiae, Rome 1931-I.Oropos = B.C. Petrakos, OiJ ejpigrafh;~ tou` ∆Oropou `, Athens 1997.KAI = H. Donner, W. Röllig, Kanaanäische und aramäische Inschriften,

Wiesbaden 1962-1964, I-III.LIMC = Lexicon Iconographicum Mythologie Classicae, Zürich-München

1981-LSJ = H.G. Liddell, R. Scott, Greek-English Lexicon, Oxford 19689 [reprint

of the 9th ed. (1925-1940) with a new supplement edited by E.A. Barber and others].

MGH = Monumenta Germaniae Historica, Berlin 1892-MRR = T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, III,

Supplement, Atlanta 1986.OED2 = J. Simpson, E. Weiner (eds.), Oxford English Dictionary, Oxford

19892.OGIS = W. Dittenberger (hrsg.), Orientis Graeci Inscriptiones Selectae,

Leipzig 1903-1905, I-II.POxy = B.P. Grenfell, A.S. Hunt (eds.), The Oxyrhynchus Papyri, London

1898-PSI = Papiri Greci e Latini (Pubblicazioni della Società italiana per la ricerca dei

papiri greci e latini in Egitto), Firenze 1912-RAC == Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart 1941-RE = Paulys Real-Encyclopädie der klassischen Altertums-wissenschaft (neue

bearb.), Stuttgart-München 1893-1972.RPC = Roman Provincial Coinage, London 1992-RRC = M.H. Crawford, Roman Republican Coinage, London 1974.SEG = Supplementum Epigraphicum Graecumupplementum Epigraphicum Graecum, Leiden 1923-SGDI = F. Bechtel et al., Sammlung der Griechischen Dialekt-Inschriften (hsrg.

von H. Collitz), Göttingen, 1884-1915, I-IV.Syll.3 = W. Dittemberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum, Leipzig 1915-

19243, I-IV.

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XIII Abbreviazioni

Periodici

Sono state adottate, di norma, le abbreviazioni dell’Année Philologique, ad eccezione delle seguenti e dei titoli riportati per esteso:

AnnFaina = Annali della Fondazione per il Museo «Claudio Faina».ASSir = Archivio Storico Siracusano.BollArch = Bollettino di Archeologia.JAT = Journal of Ancient Topography. Rivista di Topografia Antica.JbZMusMainz = Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zentralmuseums

Mainz.OpArch = Opuscula archaeologica, ed. Inst. Rom. Regni Suaeciae.QuadAMessina = Quaderni dell’Istituto di Archeologia della Facoltà di

Lettere e Filosofia dell’Università di Messina.QuadCagliari = Quaderni della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle

province di Cagliari e Oristano.QuadMusSalinas = Quaderni del Museo Archeologico Regionale «A.

Salinas».SicA = Sicilia Archeologica.

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«Le donne sono bianche e hanno bellissimi profili greci»: così notava nel 1767, tra Catania e Taormina, Johann Hermann von Riedesel barone di Eisenbach, giovane viaggiatore esile ma già incurvato dai libri oltre che dalla natura. Notazione fiosiognomica, certo, ma che non esito a leggere con valore traslato e fortemente significante, nel collegamento di ‘bianco’ a ‘greco’, un collegamen-to che ha sapore di identità. Perché von Riedesel – giova ripetere quanto ben noto – «... viaggia con Winckelmann dietro le spalle ... intrecciando una conversazione continua ideale ...» (Tropea 1997), non solo su documenti della classicità, che furono peraltro l’asse portante del suo itinerario. Winckelmann destinatario delle lettere di resocon-to del tour, ma soprattutto maestro in prima perso-na a Roma (nel 1762): «... non ho menzionato fino ad ora il nome dell’educatore a cui si rivolge spesso il mio sguardo ed il mio orecchio; è l’ottimo von Riedesel ... Mi sono sempre rispecchiato in questo essere che possedeva ciò che a me manca ...» – e tra le carenze elencate spicca la «... profonda relazione con un istruttore magistrale come Winckelmann». È Goethe a parlare (Viaggio in Italia 2004, 283), una testimonianza forte di chi vedrà la Sicilia vent’anni dopo con attenzione certo ben diver-sa (cfr. Neutsch 1968-1969 e 1987), e che di Winckelmann molto conobbe.

Con tale maestro – un maestro, Winckelmann, che non aveva mai visto la Sicilia, ma che nel 1759 aveva pubblicato le Anmerkungen über die Baukunst der alten Tempel zu Girgenti in Sicilien – il barone di Eisenbach guarda con distacco, nel Duomo di Palermo, le «... urne di porfido ... di re di Sicilia ...» troppo ‘rosse’, forse, e certo troppo lineari nelle forme che «... non riprendono ... lo stile greco ...» (von Riedesel 1997, 31); mentre a Girgenti «... il tempio ben conservato che è chiamato di Giunone Lacinia, quello intatto della Concordia,

Bianche rovine scurite dal tempo, templi colorati della Sicilia, tra ’700 e ’800

i resti di quello dedicato ad Ercole e le rovine del tempio di Giove ...» devono attendere un giorno per ricevere la dovuta attenzione, secondi rispetto a «... quello che è ... uno dei più bei bassorilievi in marmo che ci sia stato tramandato dall’antichità»: marmo ‘bianco’, certamente, quello del sarcofago reimpiegato come fonte battesimale nel Duomo, un marmo non dichiarato ‘greco’, ma certo sentito tale in quanto espressione delle «... più belle forme e idee che l’antichità ci ha tramandato» (von Riedesel 1997, 42-45). L’ammirazione estetica si unisce all’interesse per il tema raffigurato: non la storia di Finzia ultimo tiranno di Agrigento come voleva il Padre Pancrazi, bensì il mito di Fedra e Ippolito come la tragedia greca, insieme a quella contemporanea di Racine, facilmente suggerisco-no al colto viaggiatore; e il ‘dolore di Fedra’ del lato breve destro campeggerà, in controparte, nel frontespizio dell’edizione originaria del suo Reise (1771), come un rilievo sostenuto da grandi eroti intenti ad indicare un piccolo ‘compagno’ parte-cipe diretto del dramma (fig. 108). Né Denon, né Houël sentiranno ‘greca’ l’opera, ritenuta piena di ‘difetti anticlassici’ introdotti da chi la terminò «... parecchi secoli dopo, quando l’arte era ormai caduta nella barbaria ...» (Settecento siciliano 1979, 275-276).

I templi agrigentini, cari al maestro Winckelmann, non possono altro che sollecitare una delle tante minute, quasi pedanti, descrizioni di monumen-ti antichi lasciateci da von Riedesel; ma i toni dell’esaltazione della grecità, costanti fin quasi alla monotonia nelle lettere al maestro, sono in questo caso molto accentuati – forse più che per Siracusa e Catania, certo più che per Selinunte e Taormina, tutti siti peraltro privilegiati per l’elogio della grandezza e della purezza delle forme antiche –; toni ‘sostenuti’ dalla testimonianza di Diodoro, ma espressi in crescendo fino a quasi

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222 Maria Cecilia Parra

deliranti confronti – anche se, sullo sfondo, c’è un paragone già istituito da Winckelmann, ma ben più pacato – davanti « ... alle famose rovine ... di Giove Olimpico ...»: «Non si (può) pensare a niente di più maestoso di questa costruzione»; e ancora: «Immagini, mio caro amico, la dimensione delle colonne, l’elegante forma del tempio che è molto più bella della forma a croce con cui è fatto S. Pietro, la costruzione nel suo insieme ..., lo stile scultoreo così bello, di cui parla anche Diodoro ... . In breve, tutto l’insieme dà l’idea di una costru-zione molto più nobile di quella di San Pietro a Roma» (von Riedesel 1997, 49-52). A giusta ragione Michele Cometa ha sottolineato l’impor-tanza di questo momento per l’avvio da una parte del mito della colossalità del tempio agrigentino e dall’altra dell’idea della ricostruzione ideale dei templi antichi nella letteratura artistica in partico-lare tedesca (Cometa 1993 e 1999).

A Segesta, invece, il tempio che «ad otto miglia da Alcamo, e a due da Calatafimi, si vede, su un poggio ...», è per von Riedesel soltanto «... il tempio meglio conservato della più antica arte dorica ...»; per il resto, la solita minuta descrizione mal cela un inconfessato imbarazzo di fronte ad «... alcune particolarità che, però non si possono evidenziare senza disegno ... (e) non sono, neanche, state annotate nella pianta che io possiedo ...»: partico-larità viste piuttosto come anomalie, che rendono l’edificio segestano diverso da quelli di Paestum, Girgenti e Selinunte, tanto che l’A. sembra quasi costretto a concludere che «... osservando questo stile si dovrebbe dedurre che il tempio di Segesta sia di un periodo successivo» (von Riedesel 1997, 35-36) – dove «periodo successivo» sembra valere come ‘periodo di decadenza’.

‘Bianche’ furono l’erudizione ed i toni dell’at-tenzione del barone di Eisenbach alle antichità siciliane, tanto bianche da non essere corredate neppure da illustrazioni: tanto che la bella edizione delle sue lettere di viaggio stampata a Darmstad nel 1939 – immeritatamente ignorata in letteratu-ra (così in Tropea 1997 e Salmeri 2001) – dovrà ‘recuperare la lacuna’ con i disegni del Voyage pittoresque di Saint-Non (von Riedesel 1939). Di tono simile fu anche l’approccio di altri viaggiatori

eruditi che nella seconda metà del Settecento percorsero un tour analogo in Sicilia: fare i nomi di Münter e di Bartels come esempi è sufficiente (anche se forse banale), mettendo invece da parte quello di von Stolberg, attratto dalla grecità della Sicilia attraverso la voce dei poeti piuttosto che attraverso le testimonianze dei monumenti e delle rovine. Del resto Goethe, è ben noto, trovò nella Sicilia – «... terra sovranamente classica ...» (Sotto Taormina, sulla spiaggia. Lunedì 7 maggio: cfr. Viaggio in Italia 2004, 307) visitata col testo del barone di Eisenbach a portata di mano –, lo strumento vero di conoscenza di Omero piuttosto che dei monu-menti antichi: «... è come se mi fosse caduta una benda dagli occhi ... ora l’Odissea è davvero per me una parola viva ...», scrive da Napoli il 17 maggio 1787 a proposito dell’ «... incomparabile Sicilia ... », che lo ha fatto persino tornare a Paestum ad apprezzare il tempio di Nettuno, in precedenza disdegnato, fino ad «... antepor(lo) a tutto quanto si vede nella stessa Sicilia» (Viaggio in Italia 2004, 329-330). Omero e l’Odissea dunque, piuttosto che un’antichità monumentale fatta di «... Cartaginesi, Greci, Romani ... (che) ... hanno costruito e hanno distrutto», tanto che «... Selinunte è meto-dicamente devastata (e) per rovesciare i templi di Girgenti non sono bastati due millenni ...»; insom-ma, il viaggio attraverso la Sicilia non gli apparve «... dipinto coi colori più seducenti ...», se non gli permise di vedere «... nient’altro che i vani sforzi degli uomini per resistere contro le violenze della natura, contro la perfidia maligna del tempo, con-tro il furore delle loro stesse discordie e ostilità» (Messina, e a bordo, lunedì 14 maggio: cfr. Viaggio in Italia 2004, 321). Tutto sommato, il ‘classicismo sovrano’ della Sicilia dichiarato di Goethe, fu in realtà meno ‘autentico’ e piuttosto in posizione dialettica con altri stimoli, fatti di «... luminosità ... trasparenze ... colori» (Kanceff 1989).

Rispetto ai toni del ‘bianco delle cose antiche’ espressi da von Riedesel – e da Goethe tanto più –, furono invece ben diversi quelli che si colgono nel resoconto di un viaggiatore come Francesco Bielinski, il conte polacco che fu in Italia tra il 1787 ed il 1792; perché ben diverse erano le basi del suo approccio al mondo classico. Altrove ho

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affrontato con dovizia di particolari il tema del suo viaggio in Italia per il tratto calabrese ed in par-ticolare del suo significativo approccio con Locri antica, ‘mediato’ dalla conoscenza napoletana del-l’antiquario cortonese Domenico Venuti (Parra 1994). Mi limito pertanto qua a far qualche cenno, per la Sicilia, alla sua visita ad Agrigento (per tutte le citazioni, vd. Bilinski 1980), fatta – piuttosto che di maestose rovine di templi greci – di ben più modeste tombe scavate e disegnate con perizia tecnica da ‘stratigrafo’ ante litteram, quale la sua formazione e ferma dottrina illuminista poteva suggerirgli. Il riformista illuminato di ascendenza culturale muratoriana e di fede politica strettamen-te legata al pensiero di Beccaria – che esclama «... quale differenza dalla Sicilia moderna alla Sicilia antica ...», e ancora «... le rovine degli edifici, i fasti della storia annunciano le antiche condizioni della Sicilia, la scarsa popolazione prova la sua decadenza» – non esita a lanciare la sua condanna: «Voi, signori Siciliani, fate a voi stessi l’onore di presentare dissertazioni per interpretare iscrizioni antiche ... e nessuno pensa a farsi restauratore della sua patria ...». Non meraviglia dunque che a Girgenti, davanti al «... pezzo di Antichità meglio conservato ...» che è il tempio della Concordia, Bielinski pensi poco al monumento in sé, quanto piuttosto ad esprimere «... da parte degli amatori ... sentimenti di riconoscenza per il Re di Napoli e di Sicilia Ferdinando IV ...» perché «... per ordine suo ed a sue spese si restaurano e si salvano i resti delle rovine sfuggite alla distruzione del tempo ...»; ed è così che il dettaglio descrittivo non contempla colonne, capitelli o fregi dorici ma è tutto mirato a sottolineare l’importanza di atti d’evergetismo che hanno permesso un ‘recupero’ attento del monu-mento: «... questo tempio cominciava a crollare, c’era una piccola cappella dedicata a San Gregorio, si è demolita la cappella, si è restaurato ciò che il tempo cominciava a danneggiare e oggi si vede il tempio, ad eccezione del tetto, integro come era nei tempi d’oro della città di Agrigento».

E forse, in quest’ottica, non meraviglia neppure che il nostro ‘liquidi’ il tempio di Giove Olimpico con un secco «... non mi è piaciuto ...»: eppure «... si parla tanto delle rovine del tempio di Giove

Olimpico, detto tempio dei Giganti ...», cionono-stante «... per quel che mi riguarda non ho visto che un ammasso di pietre e malgrado due pezzetti di capitelli e dei frammenti che si dice che siano dei triglifi ... non mi è piaciuto ...». Il collega-mento di quel tempio con San Pietro, istituito da Winckelmann e ben rafforzato da von Riedesel, rie-cheggiano per contrasto nella memoria: Bielinski – che certamente ebbe nel suo Cahier des lectures di viaggio anche il testo del Barone di Eisenbach – è vicino soltanto alle rovine quali sono, lontano da fantastiche ricostruzioni di elevati; e quasi è infastidito, fino a ridurre la sua visita agrigentina successiva ad una lista di cose non viste: «... ecco l’elenco di ciò che c’è da vedere, io non ho visto tutto, il grande caldo me l’ha impedito. Il Signor Hirt mi ha detto cosa c’è, io segno con una stella quel che non ho visto ...», e segue solo un secco elenco notarile dove templi ed altri edifici antichi sono più delle assenze che delle presenze monu-mentali, se finanche l’ «... Oratorio di Falaride è un quadrato che non significa niente ...», per chiuder-si seccamente con un «... ecco a cosa si riduce tutto quel che c’è da vedere a Girgenti ...».

Ben altri toni sono quelli del resoconto dello scavo in cui Bielinski si cimentò ad Agrigento: «... vedendo che tutti aprivano le tombe antiche, fui contagiato e mi accordai con gli scavatori per cinque once. Ecco il disegno di questo scavo che è stato fatto il 23 luglio nella parte più bassa della città antica di Agrigento a Camico, verso il fiume Akragas ...»; il tutto seguito da una dettagliata descrizione stratigrafica – corredata di informa-zioni sull’orientamento della deposizione e sulla posizione del corredo, e con precisi riferimenti al rilievo archeologico –, di due tombe che conte-nevano soltanto «... un piccolo vaso nero ... (e) ... un vaso rosso comune ...», e non, come altre, «... bei vasi etruschi ...». Quello che è prezioso è tutta l’operazione condotta: «... non sono stato realmente contento, ma me ne consolo, ho visto una tomba antica – è stata aperta sotto i miei occhi, l’ho esaminata, disegnata nei minimi det-tagli, e ciò mi basta, malgrado lo scarso valore che hanno i due vasi che ho trovato li stimo di più dei più bei vasi scavati da altri e non da me ...»,

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sottolinea Bielinski stesso, non certo scavatore dilettante – come è stato definito (Bilinski 1980) – ma illuminato e degno esponente di una pur epi-sodica linea di ‘attenzione stratigrafica’ ai contesti antichi, che aveva fatto la sua prima comparsa alla fine del ’600 (penso al noto episodio dello scavo vesuviano dell’architetto napoletano Picchiati, detto il ‘Picchetti’, scientificamente interpretato dal Bianchini nella sua Istoria Universale del 1697: cfr. Manacorda 1990 e Pucci 1993). Anche von Riedesel aveva voluto tentare uno scavo, in Calabria, prima pensato a Locri, poi realizzato a Sibari; a Locri, prima che ad Agrigento, Bielinski cercò senza successo di conoscere meglio, con lo scavo – forse per inconsapevole ‘suggerimento’ di von Riedesel stesso – un tempio (quello di contra-da Marafioti), di cui vedeva ancora qualche colon-na in piedi: ma a von Riedesel restò soltanto una grande delusione, perché lo scavo di una tomba «... a pianta quadrata e copertura a volta ... ma che non conteneva né vasi, né urne, né nient’ altro ...» non gli servì a far riemergere quella monumen-talità fatta di marmo bianco cercata ovunque nel suo viaggio; Bielinski, invece, riuscì ad affidare alla linearità di un disegno archeologico il candore del suo approccio illuminato ad un modesto monu-mento antico della Sicilia, come già a Locri aveva affidato ad un semplice schizzo topografico la conoscenza di un importante contesto della Magna Grecia (cfr. Parra 1994).

«Ho disegnato questo rudere dal vero, così come lo rappresento qui ...» (siamo nel 1771): anche Houël misurò accuratamente per il disegno un enorme frammento di alzato del colossale tempio agrigentino dei Giganti (fig. 109), forse quel «... piccolo pezzo di colonna dove si è conservato il capitello dorico ...» che Winckelmann, senza cognizione diretta, aveva raccomandato a von Riedesel di cercare «... tra le rovine del tempio di Giove ...» (cfr. Cometa 1999, 22). Ma l’immagine restituita da Houël – tanto efficace da essere eletta a modello per una tavola del Saint-Non – non è certo un rilievo architettonico di antichità, perché è il paesaggio in cui si inseriscono le cose antiche che domina, con i personaggi anonimi che lo popolano: il pittore, specializzatosi in paesaggi a

Parigi, predomina in questo caso sull’architetto, che pure si rivela spesso nelle centinaia di disegni siciliani.

Così ancora, a Segesta, Houël – bilanciato come sempre tra spiccato senso del colore ed esattezza archeologica – popola l’interno di un tempio archi-tettonicamente fedele ma pittoricamente riempito di una dorata luce serotina che filtra in basso tra le colonne (fig. 110. Cfr. Hoüel 1990; Mascoli Vallet 1991; Pinault 1995); come lo popolerà per il Saint-Non, ed in termini più forti, Désprez; il quale, ancor più del pittore di Rouen, popolerà con Châtelet l’esterno del tempio in celeberrime incisioni dominate vuoi da cavalli imbizzarriti (fig. 111) vuoi dal fumo che si alza da un grande falò, quasi a scurire i toni della lineare grecità del monumento, che interessa meno del contorno. Ed ancora, a Siracusa, il teatro invaso dai fiori nati «... sui sedili dei senatori e dei cittadini ...» accende di melanconici toni ‘preromantici’ la descrizione di Houël, quasi al pari di quella di Swinburne, che contemporaneamente ne descriveva «... i gradini, che sono bianchi ... (ma) seminascosti da cespugli di diverse specie ...», anche se con toni da viag-giatore poco entusiasta, in generale, delle rovine greche e romane (cfr. Salmeri 2001).

È forse superfluo, ma non inutile, ricordare che nel Voyage pittoresque dell’Abate Richard non mancarono la pianta, il prospetto, i dettagli architettonici dell’edificio segestano, come di altri – basta pensare alla celebre Table comparative des differentes temples et monuments antiques de la Sicile: disegno documentario da una parte, temi ed effetti pittorici dall’altra convivono, naturalmente, nella poliedrica opera solo coordinata – con spirito da imprenditore di cultura, si è spesso detto (cfr. ex gr. Salmeri 2001; De Seta 1992) – dal Saint-Non, e addirittura ‘da lontano’ per la parte relativa alla Sicilia (non fu mai nell’isola, come ben noto); anche se i toni prediletti sono certamente i primi, quelli definiti pre-romantici, quelli in cui il ‘bian-co’ proprio della fedeltà disegnativa nella rappre-sentazione archeologica del monumento assume ‘sfumature di scuro’ date dal contesto o dai parti-colari, che predominano fino «... a “corrompere” la natura degli edifici ...» (così Salmeri 2001, 71).

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Del resto se, restando a Segesta, leggiamo Goethe alla data del 20 aprile 1787 troveremo da una parte una serie di considerazioni topografiche, architet-toniche, archeologiche – potremmo dire – conclu-se da forti note di colore paesistiche:

Il tempio di Segesta non è mai stato finito e il piazzale che lo circonda non è mai stato livellato; si è appianato soltanto il recinto sopra il quale dovevano sorgere le colonne [...]. Le colonne sono tutte in piedi; due, che erano cadute, sono state rimesse a posto recentemente. Se le colonne abbiano avuto zoccoli è difficile stabilire e far comprendere senza disegno […]. Le sporgenze mediante le quali si sono potute trasportare le pietre, non sono state scalpellate dai gradini del tempio: segno che il tempio non è stato finito. Ma la miglior prova la fornisce il suolo, che ai lati è qua e là coperto di lastre, mentre nel centro la roccia grezza è più alta del livello della parte lastricata, e quindi non può essere stato mai lastricato. [...] nessuna traccia di sala interna. Meno ancora appare che il tempio sia stato rivestito di stucchi, mentre sembra probabile che tale sia stata l’intenzione del costruttore: le basi dei capitelli mostrano infatti le sporgenze alle quali doveva essere forse apposto lo stuc-co. Tutto il complesso è costruito in pietra calcare simile al travertino [...].

Ma subito dopo: «Miriadi di farfalle volteggiano

intorno ai cardi fioriti; i finocchi selvatici ... si tro-vano in così gran copia ... da essere scambiati per aiuole di un istituto pomologico. Il vento fischiava fra le colonne come in una foresta, e certi uccelli grifagni roteavano sopra la carcassa del tempio, empiendo il cielo di strida ...». Ed il viaggiatore si allontana, dopo aver posto grande attenzione al monumento ed ai colori del tempio, poca invece al teatro ed alla città: «La fatica durata a percorrere le insignificanti rovine di un teatro ci fece passar la voglia di visitare quelle della città» (Viaggio in Italia 2004, 275-276).

Mi piace ricordare solo per inciso – avendo appe-na ‘toccato’ per Segesta l’opera di Saint-Non – che è forse a quella che dobbiamo se non l’avvio della tradizione figurativa almeno il consolidarsi della fortuna di un’immagine che non si dimentica: quella del ‘tempio dimezzato’, che si alza a metà da

un rilievo dalla forma sempre accentuata rispetto al naturale (fig. 112), forse con tutte le anomalie viste da von Riedesel, o forse per trasmettere con efficacia le sensazioni date al viaggiatore da quell’ «... ubicazione ... talmente scoperta e così arida che sinanco i serpenti non vi troverebbero asilo...» (la citazione è dal Voyage del de Saint-Non: cfr. Tusa 1991, 68). Non fece mancare quest’immagine neppure Christoph Heinrich Kniep (fig. 114) – il modesto artista che accompagnò Goethe in Sicilia e che solo a questo, forse, deve la sua fama (cfr. Kruft 1992) –, un’immagine che rispecchia bene le parole: «La posizione del tempio è singolare: alla sommità d’una vallata lunga e larga, in cima a una collina isolata, ma circondata da dirupi ...; del mare si scorge solo un breve angolo» (Segesta, 20 aprile 1787: trad. ‘combinata’ da Goethe in Sicilia 1992, scheda Kniep nr. 6 e Viaggio in Italia 2004, 276). Goethe stesso la riecheggia in disegni di sua mano (figg. 115-116), con paesaggi ideali in cui templi di sapore segestano si ergono su aspre col-line o si affacciano su laghi e brevi tratti di mare sullo sfondo (Goethe in Sicilia 1992, schede Goethe nrr. 7 e 60). Nel 1836 Eugène Viollet le Duc dise-gnerà ancora un ‘tempio dimezzato’ (fig. 117), ma in una prospettiva del tutto nuova, quasi fotografi-ca e di spiccata attualità, a suo modo contrastante con quanto scritto in una contemporanea lettera al padre: «Celui de Segeste (scl. il tempio) n’a jamais été terminé, et quoique sa masse soit imposante et grandiose, il y a quelque chose de brutal et de sauvage que l’on chercherait vainement dans les temples d’Agrigente ...» (Voyage Viollet-le-Duc 1980, 108).

A proposito di immagini fuori dei canoni vorrei citare, insieme a questa, quella poco nota lasciataci dal futuro massimo interprete tedesco del neoclas-sicismo (fig. 113) – Karl Friedrich Schinkel – uno Schinkel ancora ‘non architetto’ nei disegni di viaggio in Sicilia del 1804 (cfr. Cometa 1999 e 2000): il tempio di Segesta avvolto dalla vegeta-zione e collocato al fondo di una improbabile valle, con un improbabile orientamento; nello sfondo, a destra, forse le Case Barbaro, quelle Case che Schinkel poté vedere e forse visitò come altri viag-giatori, se già erano destinate all’uso di ‘Casa dei

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Viaggiatori’ che attesterà poi la «Pianta topografica dei terreni posseduti dallo Stato in Segesta, situata nel feudo Varvaro territorio di Trapani Comune di Calatafimi. Proporzione 1:2000» (fig. 118), redatta nel 1884 da Cristoforo Cavallari, il figlio del più noto Francesco Saverio direttore delle Antichità Siciliane (un fresco esemplare inedito della pianta, di proprietà della Biblioteca del Museo di Palermo, è ora esposto nei locali del ‘Museo in Cantiere’ di Calatafimi-Segesta).

Dieci anni prima di Goethe, Richard Payne Knight fu per tre mesi in Sicilia con Philipp Hackert e l’allievo Charles Gore (Knight 1986): di Hackert – pittore prediletto dalla corte borbonica dal 1768, legato negli anni napoletani a Goethe (che, tra l’altro, acquisì parte dei disegni ‘siciliani’, suoi e di Gore) – merita forse qua ricordare, anche se solo per inciso, un disegno a matita acquarellato del tempio di Segesta (fig. 119), esempio della sua Prospectmalerei, che si inserisce nel numero di quel-le vedute realistiche di luoghi classici antitetiche ai paesaggi ideali, che furono numerose nel suo repertorio (cfr. Krönig 1987). Il diario di viaggio di Knight – rimasto incompleto e poi inedito fino alla traduzione di Goethe nel Biographische Skizze di Hackert stesso e reso noto nella versio-ne originale da soli vent’anni – è un ‘canonico’ resoconto pieno di dotte notazioni archeologiche e scientifiche, corredato di illustrazioni cariche di gusto del pittorico, insomma un resoconto comme il faut da viaggiatore erudito del tardo Settecento, pienamente inseribile nel novero di vari esponenti del genere già ricordati sopra. Non interessa dire di più: ricordo Knight piuttosto, accanto alla sua avversione per il Barocco siciliano – che lo accomuna a molti ‘puristi del classico’, Goethe compreso –, per il suo ben noto disprezzo per i marmi Elgin, sculture da lui collocate – sulla scia certo di vecchie definizioni quali quella del Dottor Spon presente ad Atene prima dell’esplosione del 1687, fuori dei canoni della grecità classica, in quanto aggiunte di età adrianea alla decorazione del Partenone –; una vicenda, questa, con forti toni spesso pretestuosi, tutta connotata di livori da collezionista di bronzi antichi, che cominciava a sentirsi ‘minacciato’ da marmi sempre più famosi

ed apprezzati, e che Knight stesso non poté con-dannare nel momento in cui fu coinvolto nella commissione che ne decise l’acquisto (cfr. Stumpf 1986; Giardina 1991).

Le sculture del Partenone: apprezzate certo per-ché tanto classiche quanto ‘bianche’ – da Goethe (anche se solo tramite calchi e disegni), a Visconti, a Canova –; ma anche punto nodale di una querelle – quella sulla policromia dei monumenti antichi – che continua, con approcci e toni certo assai mutati, se ancora si discute sulla cosiddetta «pen-nellata di Fidia», un colpo di pennello visibile sulla base della Demetra (o Persefone) del frontone orientale (Beard 2006, 176), a fronte di recen-tissime analisi che hanno confermato «la sobria policromia delle sculture del Partenone» (così il titolo di Brinkmann 2004).

Se Winckelmann, accanto alla «candidezza (che) accresce la beltà d’un ben formato corpo» (Storia dell’Arte, IV,2,16), non aveva ignorato i colori di alcune sculture antiche, fu proprio uno dei più fervidi continuatori dell’estetica winckel-manniana – Quatremère de Quincy – ad ‘innal-zare a sistema’, col sostegno delle fonti scritte, la presenza del colore nella plastica greca: nel suo Jupiter Olympien, ou de l’Art de la sculpure antique, consideré sous un nouveau point de vue (1815), scul-ture in vario modo policrome scorrono davanti al lettore, siano quelle ricavate da marmi di colori diversi, siano statue con inserti bronzei o siano invece la «scultura a bassorilievo del Partenone ... colorata in diversi modi ...», ovvero i rilievi del Theseion, che il console francese ad Atene Fauvel, già nel 1802, aveva presentato alla Classe d’Histoire dell’Institut Royal come interamente dipinti al pari di quelli partenonici. I marmi del Partenone assu-mono peso progressivo nella querelle, l’attenzione – inizialmente scarsa – cresce, si moltiplicano le opinioni e tra queste la voce di Quatremère si sente più volte, con accenti spesso pacati o anche con eloquenti silenzi: fino ai cauti ed incerti esiti della commissione di artisti, architetti e chimici che nel 1836 esaminò la questione; ovvero fino al 1851 quando l’architetto franco-tedesco Jakob Ignaz Hittorff, che fu membro di quella commis-sione, pubblica la sua Architecture polichrôme chez

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les Grecs, ‘forzando’ gli incerti risultati a sostegno ultimo della sua teoria di una policromia totale dei templi greci, già più volte esplicitata. Non voglio certo ripetere né riassumere quanto scritto anni fa nel tentativo di far emergere protagonisti, argomenti, motivazioni del dibattito sulla policro-mia dell’antico dalle pagine del Journal des Savans del primo Ottocento, fitte di voci a contrasto come quelle di Letronne e di Raoul-Rochette (cfr. Parra 1989): mi limito in questa sede a sottoli-neare ancora una volta quel ‘passaggio’ essenziale – dalla scultura ‘colorata’ all’architettura ‘colorata’ – ovvero da Quatremère a Hittorff.

È noto come il primo avesse consolidato l’idea di ‘candida purezza’ degli elementi architettonici greci proprio davanti ai templi dorici visti durante il viaggio compiuto in Italia tra il 1776 ed il 1784: fu a Napoli, Ercolano, Paestum e poi in Sicilia; ben prima cioè di ‘colorare’ nelle pagine introduttive dello Jupiter Olympien la scultura antica originale, rigettando quel «popolo d’ombre», come egli definì le copie bianche care al maestro Winckelmann; ma in quelle pagine comparivano già brevi cenni alle architetture dipinte. Hittorff, con crescendo di toni, colorò invece fin dall’inizio l’architettura e la ‘colorò in Sicilia’: dalla tappa palermitana del suo viaggio in Italia – siamo nel settembre del 1823 – quando con Samuel Angel vide nella collezione dell’Università le metope ‘colorate’ da poco scoperte a Selinunte (fig. 120); alla ‘lettera-manifesto della policromia’ scritta al barone Gérard da Agrigento – siamo nel dicembre 1823 – fantasticando sulle opere ‘colo-rate’ degli architetti agrigentini «... seduto in una scanalatura gigantesca del tempio di Giove ...»; al vero manifesto della policromia edito negli Annali dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica del 1830 (II, 1830, 263-284), versione preliminare della celebre Restitution du Temple d’Empedocle à Sélinonte ou l’Architecture polychrôme chez les Grecs del 1851 (fig. 121), nel cui titolo (De l’Architecture polychrô-me chez les Grecs, ou restitutition complète du temple d’Empédocles dans l’Acropolis de Sélinunte) ancora l’assunto generale precedeva l’esempio particolare. Senza dimenticare, naturalmente, il termine ulti-mo che fu l’Architecture antique de la Sicile, Recueil des monuments de Ségeste e de Sélinonte pubblicata

postuma a firma unita con Karl Ludwig Wilhelm Zanth nel 1870, dopo il preliminare atlante di incisioni edito nel 1827 (con solo breve testo di prefazione), che tanto colpì Goethe – recensore entusiasta nella rivista Kunst und Alterthum – per la bellezza e la forza del ‘colore nuovo’ che copriva il ‘bianco canonico’ dell’antichità monumentale (cfr. Hittorff 1987; Prater 2002).

Troppo nota e indagata l’opera di Hittorff, in Sicilia e altrove, per andar oltre: concludo ricor-dando soltanto la breve e poco citata relazione con cui presentò all’Académie il 24 luglio 1824 alcuni disegni di templi e monumenti antichi della Sicilia (in Hittorff 1987, 336-340). Grande e crescente l’entusiasmo con cui descrive decine di fram-menti di stucchi colorati trovati tra le rovine dei templi di Selinunte e di Agrigento, prova palese «... insieme alle testimonianze dei monumenti di Atene, di Egina e di Figalia ... (dell’) uso generale adottato dagli antichi di colorare le loro sculture ed i loro edifici». E vorrei ricordare soprattutto in questa sede i colori delle architetture della Sicilia antica visti e restituiti da Hittorff in tutto il loro splendore: «... il rosso più bello, l’azzurro, il verde ed il colore dell’oro ... d’uso quasi esclusivo dei Siciliani ...», come scriveva in quella relazione; gli stessi colori che un’altra entusiastica descrizione ci ha ‘lasciato negli occhi’ poco più di un secolo dopo, quella di Pirro Marconi a proposito di una maschera leonina del grande tempio imerese «... dipinta in modo barbarico e ardente ... (con) ... la giubba azzurra come è azzurro il cielo più fondo ... della Sicilia; rosse le fauci, le orecchie, la lingua pendente, rosse come i fiori selvaggi e ardenti della Sicilia; giallo aureo la maschera, come è la pietra dei templi della Sicilia quando la percuote il sole meridiano ...» (Marconi 1931, 18). Chissà se, da sostenitore del colore partenonico, Hittorff non avesse nella sua mente ‘tradotto in colori’ anche l’Atene di Pericle esaltata da Plutarco (13,5) con i suoi monumenti che «... appena terminati, erano così belli che avevano già i toni dell’antico, e così perfetti da conservare fino ai nostri tempi la freschezza di un’opera recente, tanto che in essi risplende ancora una specie di fiore di giovinez-za che ne ha preservato l’aspetto dai danni del

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tempo». Non dobbiamo forse dimenticare che nel ‘sistema’ della policromia definito da Hittorff il colore è inteso, anche, come strumento essenziale per una migliore conservazione della superficie lapidea.

«Le temple ... non pas blanc ou sali pour le temps, mais peint du haut en bas de couleurs éclatantes ...»: così è il tempio di Hittorff, come scrive nel 1868 Charles-Ernest Beulé – l’autore de L’Acropole d’Athènes, 1853-1854 – nel necrologio dell’architetto di Colonia (Beulé 1987), quasi ricordando il ‘filo rosso’ che in questo contributo – fatto di soli esempi sparsi, quasi casuali e trascelti tra infiniti altri – si snoda tra bianca antichità, rovine scurite dal tempo e colore originario delle architetture antiche. Eppure, a Segesta, Hittorff seppe disegnare anche un tempio reale, tutto di solo calcare colore dell’oro (fig. 122; cfr. Hittorff 1987, scheda nr. 55).

Maria Cecilia Parra

Bibliografia

Oltre alle opere citate nel testo, questa bibliografia comprende titoli utili alla lettura complessiva dell’argomento trattato.

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Tusa 1991 = V. Tusa, Segesta, Palermo 1991.Tuzet 1988 = H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in

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Venturi 1973 = F. Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, Torino 1973, III, 987-1117.

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Westfehling 1987 = U. Westfehling, Les voyages d’études d’Hittorff en Engleterre, Allemagne et Italie, in Hittorff 1987, 41-58.

van Zanten 1994 = D. van Zanten, The Parthenon Imagined Painted, in Parthenon in Modern Times 1994, 258-277.

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108. Johann Hermann von Riedesel, Reise (ed. 1771), fron-tespizio (foto dell’autore).

109. Jean Houël, rovine del tempio di Giove Olimpico ad Agrigento, gouache (1776-1779) (da Hoüel 1990).

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110. Jean Houël, interno del tempio Segesta, gouache (1776-1779) (da Hoüel 1990).

111. J.C. Richard Saint-Non, Voyage Pittoresque (ed. 1781-1786), il tempio di Segesta ‘dimezzato’ (da Tusa 1991).

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112. J.C. Richard Saint-Non, Voyage Pittoresque (ed. 1781-1786), veduta laterale del tempio di Segesta (foto dell’autore).

113. Karl Friedrich Schinkel, disegno del tempio di Segesta (1804) (da Schinkel 2000).

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114. Chr. Heinrich Kniep, disegno del tempio di Segesta (1787) (da Goethe in Sicilia 1992).

115. J. Wolfgang Goethe, disegno di un «tempio su costa rocciosa» (1793-1794?) (da Goethe in Sicilia 1992).

116. J. Wolfgang Goethe, disegno di un «tempio sul lago, paesaggio ideale» (1787?) (da Goethe in Sicilia 1992).

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117. Eugène Viollet-le-Duc, il tempio di Segesta, matita e acquerello (1836) (da Voyage Viollet-le-Duc 1980).

118. Pianta topografica dei terreni posseduti dallo Stato in Segesta, situata nel feudo Varvaro, territorio di Trapani, Comune di Calatafimi. Proporzione 1:2000» redatta da C. Cavallari (1884). Museo di Calatafimi-Segesta (foto dell’autore).

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119. Philipp Hackert, disegno del tempio di Segesta (1777) (da Knight 1986).

120. Jakob Ignaz Hittorff, Architecture anti-que de la Sicile (ed. 1870), metope del tem-pio C di Selinunte (da Hittorff 1987).

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121. Jakob Ignaz Hittorff, il «tempio di Empedocle» (tempio B) a Selinunte, matita e acquerello (s.d.) (da Hittorff 1987).

122. Jakob Ignaz Hittorff, il tempio di Segesta, matita e acquerello (1826) (da Hittorff 1987).

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2009 in Pisa dalle

Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, i-56126 Pisa

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