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,~~ Liceo-Ginnasio "TITO LIVIO"

Studenti del Liceo-Ginnasio «Tito Livio" sotto le leggi razziali

a cura di Mariarosa Davi

PADOVA, 2010

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INDICE

INTRODUZIONE .............................................................. .

Parte Prima LE LEGGI RAZZIALI

I. IL CENSIMENTO .................................................... .. II. LE DISCRIMINAZIONI .......................................... . III. "PARTITI PER IGNOTA ESTINAZIONE" ........ . IV. IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI VÒ

VECCHIO ................................................................... .

Parte Seconda GLI STUDENTI

1. LA SCUOLA MEDIA EBRAICA ........................ . II. LE STORIE

1. INTERVISTA A GRAZIELLA VITERBI QUALCHE NOTA AGGIUNTIVA .......................... .

2. I LEVI MINZI .................................................. .. 3. TESTIMONIANZA DI VITTORIO

SACERDOTI ...................................................... . GIORGIO SACERDOTI ........................................ .

FUGA VERSO SUD .............................................. .

IL PARCO TRIESTE ............................................ ..

4. RODOLFO GOLDBACHER ...................... .. 5. FEDERICO ALMANSI .................................. . 6. ANNA LEVI ...................................................... .. 7. BIANCA CALABRESI .................................. .. 8. MARCO MORPURGO .................................. . 9. EDGARDO MORPURGO ............................ ..

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lO. PIA E GUALTIERO ROSSI .......................... . Pago Il. GIORGIO FOÀ ............................................... .. " 12. ALVISE LEVI ................................................... . " 13. EVA DUCCI ..................................................... .. "

"UNA STORIA TIPICAMENTE EBRAICA":

LA FAMIGLIA DUCCI "

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INTRODUZIONE

'Nel settembre 1938 entrarono in vigore le leggi razziali, ma il Ministero fascista dell'Educazione nazionale si era attivato già prima per individuare ed allontanare gli ebrei dalla scuola pubbli­ca.

La prima circolare ministeriale "urgente" giunge al liceo Tito Livio di Padova il 22 agosto, ad ordinare il divieto di iscrizione per gli stu­denti stranieri ebrei, "compresi quelli dimoranti in Italia".1 Le altre seguono a ritmo incalzante, e sempre all'insegna della massima urgenza. Del 25 agosto è l'arrivo delle schede da compilare per il primo censimento del personale di "razza ebraica" dell'istituto. Successivamente, il 13 settembre, perviene la circolare del Provve­ditore che dispone l'allontanamento immediato di docenti e stu­denti dalle scuole:

Gli insegnanti di razza ebraica dovranno essere considerati nel periodo prece­dente il 16 ottobre p.v. come collocati in congedo. E resta quindi inteso che in tutte le commissioni di esame gli insegnanti predetti dovranno essere subito sostituiti.

Per quanto riguarda gli alunni, le recenti disposizioni hanno stabilito che alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. Affinché tale norma possa avere immediata e regolare applicazione [ ... ] i capi di ogni scuola o istituto richiedano, in attesa di più completi accertamenti, oltre i documenti di rito, una dichiarazione del padre o di chi ne fa le veci, attestante sulla propria responsabilità che entrambi, o almeno uno dei genitori, non siano di razza ebraica. 2

Vengono subito allontanate le professoresse del ginnasio Clara Levi e Piera Carpi Moschetti, mentre potè rimanere Cesare Musatti, insegnante di Filosofia, che aveva 'ariane' la madre e la moglie e da tempo si era allontanato dall'ambiente ebraico.

l Archivio del Liceo Tito Livio, Busta Corrispondenze ufficiali 1936-37-38. Alla stessa busta appartengono gli altri documenti citati. 2 Il resto del personale verrà licenziato con la circolare del 23 dicembre 1938 sull 'Attuazione dei provvedimenti per la difesa della r=a nella scuola italiana: "A datare, pertanto, dal 14 dicembre c.a., data di entrata in vigore del provvedimento, tutto il personale di razza ebrai­ca, organicamente addetto a qualsiasi ufficio e impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, deve cessare dal servizio".

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6 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

La furia discriminatoria del regime si estende subito dopo anche alle iniziative benefiche: si richiede dunque che enti e istituzioni di assistenza scolastica (casse scolastiche, borse di studio, premi ecc.) intitolati ad ebrei, o con ebrei nel consiglio di amministrazione, siano tempestivamente segnalati al provveditore.3

Anche i libri di testo devono essere cancellati dalla scuola, se in tutto o in parte di autori ebrei. Con una lettera del 5 ottobre, il Sindacato provinciale fascista dei commercianti del libro, della carta e affini sollecita le scuole perché inviino, addirittura entro il giorno dopo, l'elenco dei libri eliminati, e quello dei nuovi testi adot­tati in sostituzione, allo scopo di organizzare velocemente la distri­buzione. A tale proposito, nella minuta di una lettera scritta a mati­ta su un foglietto (manca la copia dattiloscritta), il preside del liceo, Attilio Dal Zotto, impegnato nel necessario controllo dei testi, pone al Provveditore un quesito che ha del grottesco: "Fra i vocabolari di latino consigliati avrei quello dei proff. Ramorino-Senigaglia. Es­sendo solo consigliato, il vocabolario può essere anche ammesso, senza sostituzione. Senigaglia è famiglia ebrea, oppure ebrea bat­tezzata; e c'è la famiglia Senigaglia ariana. Di che razza sarà il col­laboratore di Felice Ramorino? Con osservanza".

La stessa assurda acribia il regime richiede nella verifica dei vari gradi di appartenenza alla "razza ebraica" degli alunni e impone, con la circolare ministeriale del 16 novembre 1938, la definizione dei casi lasciati in sospeso, cioè degli alunni provvisoriamente iscritti a inizio anno in quanto "misti". In conseguenza di ciò, due studenti, Giovanni Tolnai e Federico Almansi, figli di madre non ebrea, ma professanti religione ebraica, vengono allontanati dalla scuola.

La "definizione" ebraica di Federico Almansi dipese da una sua scelta consapevole e coraggiosa, non dettata da motivi religiosi. Lo sappiamo dall'importante testimonianza di Umberto Saba, che di questo giovane poeta, poi così sfortunato, fu amico, maestro ed anche biografo. Nella prefazione a un libro di poesie dell'Almansi, del 1948, egli narra (come vedremo) le vicende di quel periodo e il dilemma lacerante che si pose a entrambi, tutti e due essendo di "razza mista", di fronte alla possibilità di 'arianizzarsi', da loro rifiu­tata.

3 Circolare del 7 novembre 1938.

INTRODUZIONE 7

Da quel momento anche Giovanni e Federico vengono dunque esclusi dalle scuole del regno. Di Giovanni Tolnai sappiamo solo che sostenne da privatista gli esami di ammissione al liceo nel 1939. Federico Almansi invece frequentò la scuola ebraica, insieme ai compagni che l'anno scolastico alloro liceo non l'avevano nem­meno iniziato; semplicemente, non avevano potuto iscriversi. Erano un gruppo numeroso, circa una trentina, per lo più ex allievi del Tito Livio, dato che la maggior parte degli studenti ebrei frequenta­va il ginnasio-liceo.

Una scuola venne subito organizzata dalla comunità ebraica, sotto la direzione del professor Augusto Levi, e con la collaborazio­ne di bravissimi docenti, anche universitari, a loro volta allontana­ti dai posti di lavoro. La sede era in una villetta in via Leopardi (attuale vicolo Aganoor), in zona Pontecorvo.

Alla fine dell'anno scolastico gli studenti ebrei sostenevano da privatisti (nei registri del liceo è segnalata la provenienza da "scuo­la paterna" o "scuola ebraica") gli esami di ammissione alla classe successiva, in genere con ottimi risultati. Anche questo passaggio non era tuttavia senza mortificanti discriminazioni: gli studenti ebrei dovevano stare separati dai loro compagni e, almeno agli esami di maturità, non potevano prendere un voto superiore al sette. Questo particolare, di cui non abbiamo finora trovato riscon­tro nei documenti 'ufficiali', è attestato da un aneddoto riferito da Leo Romanin Jacur: "Aveva fatto tutti gli scritti all'esame di matu­rità, a lato, distaccato, nel banco dell'asino; all'orale i professori lo consolavano: - Meriteresti otto, ma ci è proibito darlo agli ebrei"4. Una conferma sembra venire anche dai registri degli esami conclu­sivi, dove, diversamente dagli esiti delle classi intermedie, l'otto non compare, tranne in un caso, quello di Vittorio Sacerdoti che, aven­do avuto sette in tutte le materie, prende anche un otto in Storia dell'Arte.

La frequentazione della scuola ebraica garantì dunque a questi studenti una certa normalità nella vita quotidiana. Possiamo tutta­via immaginare (e in parte anche sappiamo) quanto le leggi razzia­li abbiano sconvolto la loro esistenza. Allontanati dalla scuola e dai compagni, dovettero spesso subire contemporaneamente anche il

4 D. ROMANIN JACUR, Aneddotica, in Il cammino della speranza: Gli ebrei e Padova, a cura di C. De Benedetti, Padova, Papergraf, 2000, vo1.2°, pp.143-148, p.144. Il dato è conferma­to anche dalla stessa De Benedetti in Storie di vita. Dalla rinascita al nuovo millennio, ibi­dem, p.149-159, p. 149.

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8 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

dramma familiare del licenziamento del padre e poi, in un'orribile progressione, le restrizioni sempre più forti, l'aggressività crescen­te, la persecuzione.

L'illusione che con la caduta del fascismo stessero per decadere anche le leggi razziali finì subito, e l'estate del '43, con l'occupazione tedesca, segnò per tutti l'inizio del periodo più drammatico, della ricerca di un rifugio nascosto, della fuga all'estero, o dell'arresto e della deportazione senza ritorno.

Siamo partiti da qui, da queste notizie emerse un po' casual­mente dall'archivio scolastico, e abbiamo raccolto le storie di alcu­ni di questi studenti. È non solo con interesse storico, ma con affet­to e commozione che le abbiamo ricostruite.

MARIAROSA DAVI

INTRODUZIONE 9

AVVERTENZA

Il lavoro che presentiamo nasce una ricerca, condotta su documenti d'archivio, fonti storiografiche e testimonianze dirette, sugli effetti delle leggi razziali negli allievi della nostra scuola, il ginnasio-liceo Tito Livio di Padova. I registri degli anni scolastici dal 1938 al 1943 ci hanno consegnato i nomi degli studenti "di razza ebraica" che, esclusi dalla frequenza alla scuola, avevano sostenuto da privatisti gli esami di idoneità alla classe successiva o di maturità classica. Abbiamo prova­to subito il desiderio di conoscere di loro qualcosa di più dei dati anagrafici e del semplice esito scolastico, di comprendere meglio il dramma delle leggi razziali attraverso la vicenda umana di questi giovani, vicenda che abbiamo immaginato da allora dolorosa e traumatica per tutti, e abbiamo scoperto tragica per alcuni.

Soprattutto di questi, i giovani deportati e scomparsi nei campi di sterminio, desideriamo che nella nostra scuola resti sempre viva la memoria. Ma tutte le testimonianze che abbiamo raccolto sono esempi di sacrificio e di coraggio, e costi­tuiscono importanti e significative lezioni di vita, oltre che di storia.

Per la ricostruzione degli avvenimenti di quegli anni siamo partiti da due testi­moni d'eccezione: la dottoressa Graziella Viterbi, laureata in Giurisprudenza, ora residente a Roma, che con grande disponibilità ha acconsentito a lasciarsi intervi­stare, raccontando la sua storia e regalando preziose informazioni anche su altri suoi compagni di studio e amici di quegli anni padovani; e l'avvocato Vittorio Sacerdoti, personalità di spicco della comunità ebraica e della vita civile e cultu­rale padovana degli ultimi decenni, scomparso poco dopo.

Alla loro preziosa testimonianza abbiamo affiancato la ricostruzione della vicenda umana di altri studenti, ricavandola da fonti archivistiche, ma anche let­terarie, o dal ricordo di chi li conobbe.

Il lavoro, iniziato nel mese di ottobre 2008, è stato condotto, sotto la guida del­l'insegnante, dalla classe II H del liceo, che ha partecipato alla ricognizione sui registri scolastici, all'informazione storica, alla ricerca dei testimoni. In particola­re alcune testimonianze e interviste sono state raccolte da Alice Giacomin, Diamante Mellano, Laura Verdi, Paolo Albertini, Benedetto Randon e da Annalia Sacerdoti della classe III L; Alice Giacomin, Laura Verdi, Eva Cappellari, Marina Rocchi, Lorenza Sartori e Francesco Rampazzo hanno collaborato all'allestimento di una mostra a scuola.

Questa prima fase di attività con gli studenti ha prodotto nel gennaio 2009 la realizzazione di un fascicolo (con interviste e testimonianze), l'incontro il 30 gen­naio 2009 con Graziella Viterbi, che ha generosamente accettato di ritornare per questo nella sua vecchia scuola, l'allestimento di una mostra nell'Aula magna del liceo, la partecipazione, con materiali dell'archivio scolastico e di archivi privati da noi reperiti, alla mostra del Comune di Padova "Padova. Le leggi razziali. Lo ster­minio" (Scuderie di Palazzo Moroni, 27 gennaio - 27 febbraio 2009).

Nei mesi successivi il lavoro è continuato senza l'apporto degli studenti, ma sempre sul doppio binario della ricerca d'archivio, presso il Centro di Documentazione ebraica contemporanea di Milano (ACDEC), la Comunità ebraica di Padova (ACEP) e l'Archivio di Stato di Padova (ASPd), e della raccolta di testi­monianze. Ex studentesse ritrovate (Anna Levi Sonnino di Milano, e per telefono,

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lO ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Bianca Calabresi ora residente a Nizza, e Pia Rossi di Milano), o nuove conversa­zioni con testimoni divenute nel frattempo amiche, hanno consentito di ampliare le storie iniziali e di ricostruire, sul filo del ricordo, altre vicende e relazioni signi­ficative e illuminanti. Nello stesso tempo la ricognizione sui fondi d'archivio ha consentito di precisare meglio o accertare alcuni avvenimenti di allora, e di porta­re alla luce fatti nuovi. Particolarmente fortunato in tal senso è stato il ritrova­mento, nel fondo Questura dell'Archivio di Stato, di un fascicolo sul Campo di con­centramento di VÒ Euganeo, la cui storia è stata resa nota finora solo attraverso la fondamentale ricostruzione, su base prevalentemente testimoniale, di Francesco Selmin.

Alla fine l'orizzonte iniziale in cui ci eravamo mossi si è allargato, le vicende di alcuni studenti, emblematiche ma isolate, che avevamo narrato nella prima ste­sura si sono aperte e collegate in una trama di relazioni naturali, così che intorno a loro (e perciò solo "a campione") abbiamo potuto ricostruire altre vicende della comunità ebraica padovana, che molto aveva dato alla città, e che fu irrimediabil­mente decapitata e dispersa dalla persecuzione.

La ricerca d'archivio ha seguito soprattutto le tracce dei tre studenti morti nella deportazione: si è cercato che il buio che li inghiottì, dal momento del loro arresto, si rischiarasse almeno un po', che tutto quello che avvenne di loro dopo non rima­nesse ignoto, per riapparire solo nelle note lapidarie ed essenziali dei memoriali e dei repertori della Shoah. Le carte qualcosa ci hanno restituito del loro ultimo tempo, particolari che di certo non modificano le loro vicende, ma ci danno l'impressione di poterli accompagnare per un piccolo tratto in più, con la nostra pietà, nel loro drammatico destino, e di poterli conservare più nitidi nella nostra memoria.

PARTE PRIMA

LE LEGGI RAZZIALI

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IL CENSIMENTO 13

IL CENSIMENTO

L'Il agosto del 1938 veniva emanata a tutti i prefetti la circola­re per il censimento degli ebrei, accompagnata da un telegramma riservatissimo dell'allora sottosegretario di stato Buffarini Guidi: "Non ho bisogno di illustrarvi l'importanza eccezionale di tale rile­vazione che deve essere compiuta con celerità e precisione et mas­simo riserbo sotto vostra personale direzione". Buffarini raccoman­dava ogni cura ed ogni mezzo nell'effettuare l'accertamento pre­scritto, e nello stesso tempo ripetutamente sottolineava la massima cautela, dato lo "speciale, delicato carattere della rilevazione, che non deve dare appiglio ad alcun allarme, trattandosi di rilevazioni ad esclusivo fine di studio". 5 Si dovevano segnalare - precisava - "gli ebrei iscritti alla Comunità israeliticà, coloro che risiedono anche temporaneamente e che risultino di razza ebraica anche se profes­santi altra o nessuna religione o che abbiano abiurato in qualsiasi epoca et anche se per matrimonio sono passati a far parte di fami­glia cristiana. [ ... ] 11 lavoro di rilevazione deve essere effettuato con riservatezza assoluta e massima precisione e deve riferirsi alla situazione alla mezzanotte del giorno 22 agosto". Un telegramma successivo, del 20 agosto, disponeva di tralasciare i "temporanea­mente residenti". Le schede dovevano pervenire a mezzo corriere entro il 26 agosto.

I1 prefetto di Padova, Giuseppe Celi6 , convocò tutti i podestà della provincia il mercoledì 17 agosto alle dieci; diede le opportune istru­zioni e fu in grado di consegnare nei termini stabiliti le informazio­ni richieste. Nella provincia di Padova si trovavano allora comples­sivamente 761 ebrei, dei quali 618 "ebrei" e 143 "di razza ebraica". In città erano 706, e di questi 587 "ebrei" e 119 "di razza ebraica".

5 ASPd, Archivio Questura, Busta 47, fase. 2 "Censimento ebrei". 6 Il dotto Giuseppe Celi, siciliano, fu prefetto di Padova (proveniente da Grosseto) dal settem­bre 1934 all'agosto 1939, quando fu nominato senatore. Era padre dell'attore Adolfo Celi, protagonista di tanti film della commedia all'italiana, che in quegli anni fu studente al Tito Livio, nel corso C.

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14 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Le schede, a seconda che fossero state compilate direttamente dai capifamiglia o d'ufficio, (era estate e molti si trovavano fuori città o in vacanza), risultarono così suddivise:

a) 230 schede compilate dagli interessati; b) 52 schede compilate d'ufficio per famiglie interamente ma

temporaneamente assenti; c) lO schede compilate d'ufficio per famiglie interamente assen­

ti e al momento irreperibili; d) 3 schede compilate "a richiesta di altri comuni"; e) l scheda "non potutasi compilare essendo l'interessata rico­

verata in ospedale psichiatrico (reparto agitati)".

La maggioranza degli ebrei era dunque concentrata nel capoluo­go. Dalla provincia pervennero l scheda rispettivamente da Albi­gnasego, Camposampiero, Cervarese S. Croce, Cittadella, Conselve, Massanzago, Montagnana, Rovolon, Teolo, Torreglia, S. Elena; 2 schede da Loreggia e da Piove di Sacco, 4 da Abano (ospiti tempo­ranei per le cure termali) e da Este (i 4 capifamiglia risultano Emma Ascoli vedo Zevi, Margherita Rossi, Alberto Salom, Caterino Scarso).7

Quando, ai primi di settembre, giunsero le leggi razziali, fu chia­ro a tutti che il censimento non era stata fatto "ad esclusivo fine di studio". Espulsi dalla scuola e dai posti di lavoro in modo ancor più radicale di quanto fino ad allora era avvenuto in Germania, gli ebrei italiani reagirono in modo diverso, con incredulità, con indignazio­ne, con rassegnata aspettativa, ma tutti con grande apprensione per il futuro: alcuni cominciarono ad emigrare8 .

Una categoria in particolare risultava subito colpita più pesante­mente, quella degli ebrei residenti in Italia dopo il lO gennaio 1919, ai quali fu revocata la cittadinanza ed imposto di lasciare il territo­rio del Regno e dei suoi possedimenti entro sei mesi. Ma anche molti altri, specie chi aveva parenti in paesi sicuri, cominciarono ad

7 Per le vicende della comunità ebraica estense, in particolare di Emma Zevi e della figlia Anna, cfr. F. SELMIN, Da Este ad Auschwitz. Storia degli ebrei di Este e del campo di concentra­mento di VÒ, Cooperativa Giordano Bruno editrice, 1987, e Alla umanità della Signoria Vostra Illustrissima. Lettere di ebrei dal Campo di Vò, in "Terra d'Este", anno 2, n. 3, pp. 107-117. 8 Sull'applicazione delle leggi razziali a Padova cfr. V. SACERDOTI, La Cominità israelitica di Padova dalle leggi razziali alla liberazione, in Padova nel 1943, a cura di G. Lenci e G. Segato, Padova, Il Poligrafo, 2006, pp. 143-149, e G. DI VEROLI, Gli ebrei di Padova e le leggi raz­ziali, in Le leggi razziali antiebraiche tra le due guerre mondiali, Atti del Convegno, Padova, Accademia Galileiana, 23-24 Ottobre 2008, a cura di Oddone Longo e Mario Jona, Firenze, Giuntina, 2009, pp. 61-68.

IL CENSIMENTO 15

affollare le questure per richiedere permessi d'espatrio. Il prefetto segnalò al Ministero dell'Interno, il 15 novembre 1938,

la situazione e i problemi che si erano venuti a creare:

Da quando furono emanati i primi provvedimenti legislativi per la difesa della razza, nell'elemento ebraico, in Padova, si è manifestata, e perdura e si va sempre più accentuando, una enorme apprensione sia perché si prevedono altri provvedi­menti maggiormente severi, sia perché si temono movimenti di ostilità o di violen­za da parte di irresponsabili.

Conseguenza di questo timore è la tendenza da parte degli ebrei ad emigrare all'estero, e la richiesta di passaporti da parte di parecchi di essi. I casi che si pre­sentano, sono, peraltro, assai diversi, e sarebbe opportuno che codesto ono Mini­stero si compiacesse di comunicare quali criteri dovranno essere tenuti presenti, a seconda delle condizioni in cui i richiedenti si trovano.

Si presentano, principalmente, i seguenti casi: l°) Ebrei che hanno ottenuto la cittadinanza italiana posteriormente al 1 gen­

naio 1919. Essi vorrebbero fin d'ora recarsi all'estero, sia in obbedienza alle norme, sia per non perdere occasioni favorevoli di sistemarsi fuori del Regno. Essendo, peraltro, decaduti dalla cittadinanza italiana, ed avendo essi, a suo tempo, per ottenerla; rinunciato a quella originaria, sono divenuti apolidi. Potrebbero quindi, se codesto ono Ministero vi consente, essere muniti di passa­porto" Nansen".

2°) - Ebrei che pure ottennero la cittadinanza italiana e ne sono decaduti ape legis, ma poiché dimorano nel Regno da prima del 1919, possono essere lasciati abitare nel Regno. Essi tuttavia desiderano recarsi all'estero per affari commerciali e per visite a parenti, ma più che altro per sistemarsi. Anche per essi potrebbe, se il Ministero lo consente, essere rilasciato il passaporto "Nansen".

3°) Ebrei di nazionalità italiana, taluni discriminabili per benemerenze proprie o di congiunti, altri no. Alcuni di essi vorrebbero recarsi all'estero, e qualcuno anche in America dove hanno parenti od appoggi allegando ragioni o di interessi, o di studi o di famiglia, ma, a quanto è a presumersi, soprattutto perché temono ulteriori provvedimenti più severi, ed anche violenze da parte di elementi irre­sponsabili, ostili alla razza. Il rilascio dei passaporti a costoro, oltre che al lato amministrativo, che viene caso per caso vagliato dal Commissariato della Emigrazione, ha anche un aspetto politico, e può anche far sorgere timori di mano­vre o di espedienti per esportare valuta, per cui si riterrebbe necessario conoscere se l'ono Ministero intenda di assecondare tali richieste, in quale misura, ed a quali condizioni9 .

Le risposte che vennero subito dall'Ispettorato dell'emigrazione, e, in rapida successione, poi dal Ministero dell' Interno, col solito ritmo incalzante, segnalavano di agevolare l'espatrio: "Per opportu­na norma, si fa presente che, in linea di massima, non debbono essere frapposti ostacoli all'espatrio dei suddetti elementi" (24

9 ASPd, Archivio Questura, busta 2.

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16 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

novembre); "Da qualche prefettura est stato proposto quesito se su passaporti da rilasciarsi ebrei debba farsi menzione appartenga titolare alla razza ebraica. Per norma comunicasi che questo pro­posito deve intendersi risolto in senso negativo et ciò per non osta­colare uscita regno elementi ebraici" (telegramma del ministro Bocchini del 7 dicembre 1938) ed ancora, il 9 dicembre, per gli ebrei decaduti dalla cittadinanza: "Date le note difficoltà che si oppongo­no all'uscita dal Regno di persone in possesso di certificato Nansen, si potrà anche esaminare, per singoli casi, la opportunità di rila­sciare passaporti italiani alle persone che hanno perduto la nostra cittadinanza e che ne abbiano bisogno per trasferirsi definitiva­mente all'estero". Naturalmente il passaporto avrebbe avuto una durata limitata al "tempo strettamente necessario", (il funzionario della questura annotò a matita: "si ritiene per sei mesi"), perché gli ebrei non si avvalessero a lungo della cittadinanza italiana una volta usciti dai confinpo.

Il numero degli ebrei padovani calò dunque, anche se risulta fluttuante a causa degli spostamenti di sfollati e dell'afflusso di ebrei in fuga dai paesi occupati dai nazisti, che continuavano a venire in Italia sperando di trovarvi una situazione meno persecu­toria, o in transito verso l'America. Un elenco stilato dalla Questura, senza data ma successivo a un nuovo censimento raz­ziale del maggio del 1942, individuava circa 550 "ebrei italiani e stranieri residenti in Padova e Provincia", dei quali 111 "discrimi­nati", 388 "puri", 61 "coniugati con ariani", 58 "stranieri". Tra que­sti vennero inclusi anche coloro che, stabilitisi in Italia dopo il 1919, avevano perso la cittadinanza: i Cesana (greci), i Ducci (apo­lidi), Elia Gesses (ex russo), Bianca Grassini (greca), Alberto Sarfatti (turco), Nella Polacco (ex ungherese) 11.

Ancora 544 sono gli ebrei di Padova (di cui una quindicina resi­denti in provincia) in un elenco del 26 settembre '43, che la Questura trasmette "all'autorità germanica" di Venezia, piazza S. Marco 105. Elencati per nucleo familiare ed indirizzo, erano facil­mente rintracciabili. La persecuzione cominciava: molti di quelli in

lO ASPd, Ibidem. 11 ASPd, Archivio Questura, busta 47. Questi apolidi non erano però stati costretti ad emi-o grare. La revoca della cittadinanza, come ricorda Michele Sarfatti, di fatto fu applicata "solo nei confronti di coloro che l'avevano acquisita dopo il 1918 per concessione (non cioè in base a trattati internazionali, come era accaduto al momento dell'annessione di Trieste, Fiume,ecc." (M. SARFATTI, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, p. 86).

IL CENSIMENTO 17

elenco in realtà erano già emigrati, per tutti gli altri, mentre si chiu­devano le frontiere, cominciava, nella confusione e nell'incertezza, la ricerca di un nascondiglio o di un espatrio clandestino.

La comunità allora si disperse. Un "Elenco degli ebrei iscritti nel registro della popolazione alla data del 5 novembre '43" ne segnala ancora circa 450 12 , ma in realtà pochissimi erano ancora reperibi­li. Nel gennaio del 1944, un mese dopo che era scattato l'ordine di arresto e internamento per tutti, il questore riferì al Ministero dell'Interno che le operazioni contro gli ebrei "hanno dato scarsi risultati, perché sin dal settembre scorso la gran maggioranza di essi si rese irreperibile". Oltre agli internati nel campo di concen­tramento di VÒ, la questura teneva sotto controllo 26 ebrei 'misti', diffidati e sottoposti a sorveglianza, con obbligo di presentarsi a giorni alterni in questura. Non più che qualche decina erano dun­que gli ebrei controllati dalla questura, e accanto ad ogni nome (in liste sempre più striminzite) quasi sempre l'annotazione irreperibi­le, per alcuni arrestato. Una decina soltanto di persone per lo più molto anziane e inferme, con annotato "senza precedenti", rimase­ro fino alla fine sotto sorveglianza della questura, e vennero lascia­te stare dai tedeschi.

12 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni di proprietà ex ebraica, busta 61, fase. B.

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18 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

LE DISCRIMINAZIONI

Ad attenuare almeno in parte il rigore delle leggi razziali un decre­to del 17 novembre 1938, "Provvedimenti per la difesa della razza italiana" , stabiliva agli articoli 14 e 15 che potessero essere in parte esentati dalle restrizioni civili, professionali e patrimoniali alcune categorie di ebrei: i familiari di caduti in guerra o per la causa fasci­sta; i mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore di guerra o "della causa fascista", o iscritti al Partito fascista negli anni 1919-1922 e nel secondo semestre del 1924, o legionari fiu­mani; accanto a questi 'eroi' di guerra o del fascismo, potevano esse­re discriminati anche coloro che avessero acquisito "eccezionali benemerenze", da valutarsi a giudizio insindacabile di una apposita commissione del Ministero dell'Interno, costituita dal Sottosegretario di Stato, da un vice Segretario del PNF e dal capo di Stato maggiore della Milizia Volontaria.

Si creò allora l'assurda condizione per alcuni di essere discrimi­nati rispetto agli altri ebrei: la discriminazione come illusorio ritor­no alla condizione normale. Parve un'opportunità (in realtà spesso si rivelò del tutto inutile), e molti la richiesero anche per allentare i vincoli alla proprietà, ed evitare il sequestro dei beni eccedenti il limite catastale concesso 13 • Per il resto non serviva a molto, non si veniva reintegrati nella scuola o nelle professioni (ma si doveva fare il servizio militare), e comunque i pochi vantaggi che garantiva decaddero con l'occupazione tedesca.

La domanda di 'discriminazione' veniva inviata al prefetto, il quale richiedeva al questore un parere motivato da una relazione sulla "condotta morale e politica" del richiedente e della sua fami­glia; un giudizio politico veniva chiesto anche al federale, quindi la domanda, con i pareri allegati, veniva inoltrata al Ministero dell'In­terno. Nel 1939, quando partirono le prime richieste, il prefetto

13 Per l'amministrazione dei beni requisiti venne istituito nel 1938 l' EGELI (Ente Gestione e Liquidazione Immobili, di cui faceva parte il Commissariato per la gestione dei beni immobi­li e mobili di proprietà ex ebraica), che continuò ad operare anche nei primi anni dopo la guerra, curando la restituzione agli ebrei di quanto sottratto.

LE DISCRIMINAZIONI 19

Giuseppe Celi e il questore Emilio Silvestri, almeno per la docu­mentazione che abbiamo consultato relativa alle famiglie di alcuni dei nostri studenti, si pronunciavano in genere in modo favorevole, con relazioni che tendevano a sottolineare, in mancanza dei requi­siti strettamente prescritti, i meriti civili e culturali, lo spirito di ita­lianità e il sentimento nazionale dei richiedenti. Grande rigidità dimostra invece quasi sempre il federale, Umberto Lovo, che espri­meva parere contrario "in linea politica" spesso anche nei casi in cui il possesso dei requisiti prescritti rendeva incontestabile la con­cessione della discriminazione.

Infatti, se la discriminazione era pressoché scontata in possesso degli specifici requisiti militari o politici, rimaneva un grande mar­gine di discrezionalità nella valutazione, del tutto personale e sog­gettiva, delle cosiddette "eccezionali benemerenze".

All'inizio di febbraio del 1940 le discriminazioni concesse a Padova erano un centinaio 14 , Altre si aggiunsero negli anni succes­sivi, in seguito a ricorsi, fino ad arrivare a 111 nel 1942, 146 nel 1943, quando ormai erano diventate del tutto inutili. Molti non la ottennero, benché i titoli di benemerenza civile e culturale fossero di tutto rispetto ed importante il servizio reso alla patria.

Non la ottenne Alberto Goldbacher (padre di Rodolfo), l'ingegnere della SADE cui si deve l'elettrificazione di buona parte del Veneto centrale e orientale durante l'età giolittiana e nel dopo­guerra, e che negli anni del conflitto aveva prestato un servizio ben più importante di quello strettamente militare, come riconosce il questore nella relazione del 20 febbraio 1939:

Il Goldbacher, laureatosi in ingegneria presso la R. Università di Milano nel 1905, dopo aver compiuto un breve tirocinio presso l'Ufficio tecnico Municipale di Verona, nel 1906 fu assunto dalla Società elettrica Milani di detta città. Fin dalla sua prima assunzione diede la sua capace attività tecnica per la creazione dei primi impianti elettrici nel Veronese, partecipando ai lavori per la costruzione delle Centrali sull'Adige e delle reti di distribuzione che allacciarono tutta la provincia di Verona e parte delle province limitrofe, attuando anche la elettrificazione delle industrie e dei pubblici servizi.

Nel 1915, quale direttore della predetta Società, fu esonerato dal servizio mili­tare' perché in quel periodo la sua opera fu riconosciuta indispensabile dato che in Verona risiedeva il Comando d'Armata e numerosi Enti Militari, e la città era considerata in zona di operazione. Durante quel periodo, essendosi la produzio­ne locale di energia elettrica rilevata insufficiente ai bisogni di guerra, il

14 ASPd, Archivio Prefettura, Gabinetto, busta 523.

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Goldbacher, unitamente agli altri dirigenti della predetta azienda si adoperò con ogni zelo per integrare detta energia con quella proveniente dal veneto Orientale e tale sua attività dovette essere fortemente aumentata dopo la ritirata del Piave, perché, non essendo più possibile la predetta integrazione, si doveva non solo, con gli scarsi mezzi, provvedere alle necessità, specialmente militari della zona di Verona, ma era necessario altresì convogliare parte della produzione stessa verso quelle zone che, per effetto della ritirata, ne erano rimaste sprovviste, e tutto ciò con scarsissimi mezzi.

Nel 1919, costituitasi la Società Elettrica del Veneto Centrale, con sede in Padova, il Goldbacher si trasferì in questa città e fu nominato direttore della Società stessa, carica che ha ricoperto fino alla pubblicazione dei provvedimenti razziali.

Anche durante tale gestione il Goldbacher fu attivissimo e si deve a lui se nelle zone di Padova e Vicenza l'impiego dell'energia elettrica fu molto aumentato specie nell'applicazione industriale e con sensibile beneficio dell'economia del Paese.

Inoltre, dal 1914 al 1919, durante il periodo che il Goldbacher risiedeva a Verona, fu Presidente di quella Sezione della Croce Verde ed anche qui, compati­bilmente con le esigenze delle sue occupazioni, si prestò attivamente per l'assistenza civile, organizzando oltre agli ordinari servizi di assistenza, dei corsi di preparazione per infermiere e per prestazioni presso l'Ospedale destinato ai muti­lati. Per tale sua opera gli fu conferita l'onorificenza di Cavaliere della Corona d'Italia e fu nominato Socio benemerito della Croce verde. [ ... ] Nel 1928, invitato da alcuni colleghi, tenne un corso di impianti elettrici per laureandi della Scuola di Ingegneria della locale R. Università e per tale sua opera riscosse il plauso del­l'allora Ministero per la Pubblica Istruzione.

Successivamente la Direzione della Scuola d'Ingegneria ed il Rettore della R. Università di Padova gli conferirono l'incarico dell'insegnamento di materie ine­renti agli impianti elettrici ed egli svolse tale incarico con zelo fino alla chiusura dell'ultimo anno accademico. 15

N é la ottenne il ragionier Guido Calabresi, padre di Bianca, anch'egli impegnato in un ruolo fondamentale durante la guerra:

Nel 1916, militare di III categoria, fu chiamato alle armi, ma fu esonerato dal servizio militare a tempo indeterminato, perché direttore della Società Cooperativa di Padova per la produzione di proiettili. Per il modo encomiabile con cui assolse tale mandato fu oggetto di vivi elogi da parte delle Autorità Militari preposte alla mobilitazione industriale ed al controllo della produzione bellica e la sua opera fu apprezzata particolarmente per la capacità e lo zelo spiegati durante la ritirata di Caporetto, allorché l'amministrazione, che dirigeva oltre 40 officine situate nella regione Veneta, fu trasportata da Padova a Grosseto. Terminata la guerra, doven­dosi sciogliere la Cooperativa, il Calabresi ne fu nominato liquidatore ed in tale occasione ebbe a distribuire a favore dei danneggiati di guerra tutti gli utili conse­guiti dalla cooperativa in;L. 124.000 e la quasi totalità del capitale sociale, per sua proposta rinunciato dagli azionisti.

15 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni di proprietà ex ebraica, busta 12, fase. 112. La domanda di discriminazione di Goldbacher (per sé e la famiglia) fu accompagnata dal parere favorevole del questore e del prefetto, e dal nulla osta del federale Lavo.

LE DISCRIMINAZIONI 21

Non valsero l'impegno civile (il questore elogia tra l'altro il ruolo di Calabresi come presidente dell'Istituto autonomo case economi­che e popolari, come consigliere comunale e revisore dei conti del Comune e delle Aziende municipalizzate) e il forte sentimento nazionale della sua famiglia: "I suoi nonni materno e paterno svol­sero attiva propaganda patriottica per l'Unità e per l'indipendenza d'Italia"16.

Non venne data nemmeno al professor Emilio Viterbi, padre di Graziella, "scienziato di grande valore"17, libero docente di Chimica generale, pioniere degli studi di chimica fotografica.

Per lui il questore, nella formula di rito "di buona condotta mora­le e politica", corregge il buona con ottima, e sottolinea l'importanza del suo servizio in guerra, anche se civile e non militare:

A Firenze, ove prese servizio come farmacista, diresse il saponificio presidiario e studiò e portò a compimento la preparazione del sapone utilizzando a scopo eco­nomico la schiumatura del brodo della caserma, meritandosi un lusinghiero elo­gio del Ministero della Guerra. Per alcuni anni [ ... ] fu assistente all'Istituto di Chimica generale della locale R. Università e fu il primo a studiare e perfezionare i metodi di fotografia dei raggi infrarossi attraverso la nebbia che presentano note­voli utilità anche per scopi bellici e i cui risultati furono da lui comunicati al Consiglio nazionale delle Ricerche e di essi si interessarono vivamente personalità del R. Esercito, della R. Marina e della R. Aeronautica. A tal uopo acquistò con mezzi propri apparecchi di valore, provvedendo, inoltre, per un impianto di ter­mosifone per le stanze riservate alla Chimica fotografica, sostenendo in tutto spese a suo carico di oltre 80.000 lire. Sia gli apparecchi che l'impianto sono stati dona­ti dal Viterbi al su indicato Istituto di Chimica. [ ... ] Per la sua profonda cultura fu ammesso come socio corrispondente di Scienze, Lettere e Arti della R. Accademia di Padova. Si interessò attivamente per la campagna antitubercolare e fu decora­to di medaglia vermeille e relativo diploma di benemerenza. È stato inoltre diret­tore provinciale dell'O.N.D. per la fotografia, cinematografia e radiofonia, impar­tendo lezioni e bandendo concorsi. 18

16 ASPd, Ibidem, fase. 89. La discriminazione fu però concessa alla moglie e ai figli di Guido Calabresi, per benemerenze del suocero. Nonno materno di Bianca era infatti Zaccaria De Benedetti, volontario dei Mille, reduce del 1860 e del 1866, il cui figlio primogenito, decora­to, era caduto nella Prima guerra mondiale. Ultimo garibaldino padovano, morì, a 97 anni, nel febbraio 1942, e il figlio, l'avvocato Alberto, chiese al prefetto l'autorizzazione (vietata agli ebrei) a pubblicare un necrologio sul "Corriere della Sera" e sul "Gazzettino". Una nota a mano in margine alla richiesta precisa "autorizzato verbalmente" (ASPd, Archivio Prefettura, busta 523). 17 Cfr. A. VENTURA, L'Università dalle leggi razziali alla Resistenza, Padova, CLEUP, 1995, p.152-154. 18 ASPd, Archivio Questura, busta 49.

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22 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Anche la moglie Margherita Levi Minzi durante la guerra, "seb­bene ancora giovanetta" (era nata nel 1898) si era impegnata nell'Ufficio Notizie per militari e come componente del Comitato per l'incoraggiamento e la preparazione civile, meritando si la medaglia di bronzo (sia dell' ufficio che del comitato era stata presidente la madre di Viterbi, la scrittrice Bona Benvenisti, anche lei insignita di medaglia di bronzo). E pure il padre aveva ricoperto importanti cariche pubbliche, come ricordano il questore e il prefetto, espri­mendo, inutilmente, parere favorevole alla discriminazione.

E menzioniamo ancora, fra coloro che non ottennero la discrimi­nazione, Giulio Reichenbach, padre di Ida e professore di Lettere per 12 anni al Tito Livio, che era stato allievo di Pascoli (con il quale si era laureato a Bologna nel 1909) ed era, al momento delle leggi razziali, libero docente di Letteratura italiana all'Università di Padova. Aveva chiesto la discriminazione in ragione delle beneme­renze famigliari (tre suoi fratelli avevano combattuto nella guerra mondiale e due di loro, decorati, avevano ottenuto la discriminazio­ne, come due fratelli della moglie, sempre per benemerenze milita­ri), e dei propri meriti culturali. Tra l'altro, era stato lettore di ita­liano ad OsIo dal 1932 al 1934, e per questo in Svezia era stato nominato dal re "cavaliere di prima classe dell'Ordine di S. Olaf', e in Italia aveva ottenuto la Croce di cavaliere della Corona. Durante la guerra era stato esentato dal servizio militare per motivi di salu­te, ma sia lui che la moglie si erano impegnati nel servizio civile e di assistenza ai soldati. Per questo essi chiedevano congiuntamen­te la discriminazione in nome anche del loro sentimento patriotti­co: "Esposta così la loro situazione, i sottoscritti, sentendosi profon­damente e inguaribilmente italiani, chiedono per sé e per i loro figli il privilegio di poter servire la Patria, in pace e in guerra" 19. Ma nonostante il parere favorevole del questore e del prefetto, e il nulla osta del federale, la domanda fu respinta. E quando, nel marzo del 1941, Reichenbach presentò ricorso, il nuovo prefetto Cimoroni annotò per il Ministero dell' Interno il suo parere negativo: "Si resti­tuisce l'unito ricorso, presentato dall'ebreo Reichenbach Giulio ... ed informasi che il Reichenbach nell'ambito scolastico lasciò catti-

19 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni di proprietà ex ebraica, busta 12, fase. 55. La domanda di discriminazione è datata 19 dicembre 1938. Su G. Reichenbach, che dopo la guerra tornò all'insegnamento universitario a Padova cfr. A. VENTURA, L'università dalle leggi r=iali alla Resistenza, cit., p.155-6, D. VALERI, Giulio Reichenbach, in "Atti e memo­rie dell'Accademia Patavina", val. LXXXIII (parte I), 1971, pp. 51-52.

LE DISCRIMINAZIONI 23

vo ricordo di sé, essendo generalmente noto come egli menasse quasi vanto della propria appartenenza alla razza ebraica, tanto che risulta tuttora iscritto alla Comunità israelitica, dove ha altresì iscritto il minore dei suoi figli. Non curò mai, invece, la loro iscri­zione alle organizzazioni giovanili del Regime, prima dei noti prov­vedimenti razziali. Esprimesi, pertanto, parere contrario all'accogli­mento del ricorso". 20

20 ASPd, Commissariato per la gestioni dei beni di proprietà ex ebraica, busta 12, fasc. 55. Parere contrario fu dato dal questore anche alla richiesta, nel '42, del Reichenbach di riave­re la radio che gli era stata sequestrata, come a tutti gli ebrei. Egli la richiese, oltre che per ascoltare musica, " per seguire le solenni e grandiose vicende dell'epoca presente a mezzo delle diffusioni dell'EIAR". Allegò anche ragioni mediche (la radio come strumento terapeuti­co per una forma di sordità), "in quanto affetto da cofosi bilaterale da otosc1erosi e bisogne­vole quindi di massaggio vibratorio a mezzo di ascoltazione prolungata della radio". Ma il questore, piuttosto scettico sulla natura degli argomenti addotti, respinse la richiesta, rite­nendo anzi un'aggravante le benemerenze culturali segnalate: "A parte la certificazione medi­ca, tenuto anche conto che il massaggio vibratorio potrebbe essere effettuato con altro mezzo diverso dall'ascoltazione radiofonica, si fa presente che il Reichenbach non è neppure discri­minato e che, di elevata cultura e conoscitore di lingue estere, è fuor di dubbio che usereb­be l'apparecchio radio per captare stazioni nemiche ed ascoltarne la propaganda." (ASPd, Archivio Questura, busta 47).

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"PARTITI PER IGNOTA DESTINAZIONE"

Dal 30 novembre del 1943 la discriminazione non valse più nulla (se mai era servita a qualcosa): un'ordinanza del ministro degli Interni Buffarini Guidi prescrisse che tutti gli ebrei, anche se discriminati, dovessero essere inviati in appositi campi di concen­tramento, che tutti i loro beni mobili e immobili venissero seque­strati e confiscati a beneficio dei sinistrati dalle incursioni aeree e , che i nati da matrimonio misto, e fino allora classificati come aria­ni, fossero sottoposti a speciale sorveglianza. Era iniziata la caccia all'uomo.

Anche prima gli ebrei erano sorvegliati. I fascicoli della questura che li registrano, famiglia per famiglia, venivano periodicamente aggiornati con brevi annotazioni di guardie di P.S. che segnalavano cambiamenti, spostamenti per motivi di studio, condizioni di salu­te e di lavoro. Contengono anche copie di lettere, perché la corri­spondenza era intercettata e controllata.

La legislazione antiebraica del resto era sempre stata in movi­mento e numerosissime leggi si erano susseguite a delimitare sem­pre più gli spazi professionali e a precludere le relazioni sociali. Da quel momento iniziò la vera e propria persecuzione e tutte le que­sture diramarono avvisi di ricerca, o veri e propri mandati di arre­sto degli ebrei a loro noti.

Molte testimonianze attestano che a Padova in alcuni casi il per­sonale della questura cercò di avvisare, in modo più o meno espli­cito, gli ebrei dell'arresto imminente, ad esempio telefonando agli interessati per comunicare il giorno e l'ora in cui sarebbero passa­ti a prelevarli. Ma alcuni, per ingenuità, malriposta lealtà verso le istituzioni, incredulità verso quanto stava accadendo, si fecero sor­prendere, altri addirittura, come il rabbino Eugenio Coen e la moglie, si consegnarono spontaneamente. I più fuggirono o si nascosero, le convocazioni e le ricerche andarono a vuoto e i tele­grammi tra questure segnalarono inizialmente che gli ebrei ricerca­ti erano "partiti per ignota destinazione". Ma tutti, anche i bambi­ni, ebbero la loro "circolare di ricerca".

Intanto la situazione peggiorava per tutti, e oltre alla persecuzio­ne loro riservata gli ebrei si trovarono ad affrontare anche le nuove

"PARTITI PER IGNOTA DESTINAZIONE" 25

drammatiche emergenze dell'ultima fase della guerra, le privazioni, i razionamenti ed infine i bombardamenti.

Padova fu colpita per la prima volta il 16 dicembre 1943. Quel giorno, di cielo insolitamente terso e luminoso, l'allarme

suonò a mezzogiorno. Gli studenti lasciarono le scuole e una ragazzina, uscita allora dal Tito Livio dove frequentava la IV gin­nasio, si avviò verso casa, all'Arcella, il quartiere dietro la stazio­ne. Passò a prendere il papà, all'Istituto di Farmacologia, ma egli doveva rimanere, e la piccola Carolina (Lina) alla fine rincasò da sola.

Per un'ora si sentì in lontananza il rombo dei bombardieri, ma la popolazione non si allarmò più di tanto, altre volte era successo e non ne era mai seguito nulla. Pochi andarono nei rifugi, i più sce­sero semplicemente in strada, magari guardando in su l'avvicinarsi degli aerei, o non fecero nulla, aspettando che passassero, come le altre volte. Nemmeno Lina e la sua mamma corsero al rifugio, ma si limitarono a scendere in giardino. Alle 13.05 cominciò il bom­bardamento: in sei minuti vennero sganciate oltre duecento ton­nellate di esplosivo, quasi tutte sulla stazione ferroviaria e il quar­tiere dell'Arcella.

Lina e la mamma, strettamente abbracciate, furono trovate morte sotto un cumulo di terra dal padre, Egidio Meneghetti, quan­do accorse dall'Istituto di Farmacologia di cui era direttore e che era diventato, da settembre, la sede organizzativa e militare della Resistenza21 .

Intanto, poco lontano, all'arrivo degli aerei un uomo esasperato usciva in strada, per gridare la sua rabbia contro i fascisti. Aveva perduto, per le leggi razziali, il suo lavoro di funzionario (ispettore di zona) della Confederazione Fascista Lavoratori Agricoli, aveva dovuto nascondersi e per vivere gestiva, per conto di una donna ariana, Linda Giacon, uno spaccio di gelati. Fu notato dalla polizia politica e arrestato, come precisa il verbale del 24 dicembre suc­cessivo:

Durante l'incursione del 16 u.s. in via Tiziano Aspetti un signore gridava: "Buttate giù, addosso ai fascisti!" Pronte indagini di questo Ufficio Politico portava all'identificazione nella persona di Sabbadini Elio, ebreo che da due mesi aveva

21 Cfr. C. SAONARA, Egidio Meneghetti, scienziato e patriota, Istituto Veneto per la storia della Resistenza, Padova, Cleup, 2003, p. 67-68, e S. NAVE, Le incursioni aeree anglo-ame­ricane su Padova nel 1943-1945, in Padova nel 1943, cit., p.73.

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lasciato la sua abitazione in via Tiziano Aspetti 93 [ ... ] Avuto il nuovo indirizzo e cioè frazione Salgaro (Comune di Camposampiero) presso la famiglia di Bano Giuseppe, il sottoscritto procedeva al fermo di Sabbadini Elio, Hammer Ester, Sabbadini Silva, Hammer Lazzaro. [ ... ] I suddetti fermati sono stati dal sottoscrit­to consegnati al funzionario di servizio per i provvedimenti del caso.

Per il Sabbadini Elio si riserva di fare regolare denuncia per propaganda anti­fascista.

Il commissario federale L.D. Sorgi

Quel giorno stesso, vigilia di Natale, vennero internati nel Campo di concentramento di VÒ Vecchio, assieme alla quinta componente della famiglia, Caterina Rudoi, la madre di Ester e Lazzaro, che il federale aveva inizialmente ritenuto di non fermare perché anziana e malata. Nel luglio successivo furono portati ad Auschwitz. Caterina Rudoi venne uccisa all'arrivo22 . Sylva Sabbadini, la figlia quattordicenne di Elio, e la moglie Ester Hammer furono (con Bruna Namias) le uniche a sopravvivere dei 47 ebrei padovani deportati da vò.

Lazzaro Hammer, fratello di Ester, fu poi trasferito da Auschwitz a Dachau (matricola n. 119625), dove morì il 15 dicembre 1944. Elio Sabbadini condivise la sorte del cognato, insieme a lui fu trasferito a Dachau, dove venne registrato con il numero di matricola imme­diatamente precedente, 119624, e gli sopravvisse di poco. Morì, sempre a Dachau, il 17 maggio 1945, poco dopo la liberazione.

22 Cfr. L. PICCIOTIO, Il libro della memoria, Milano, Mursia, 2002, p. 546 e F. SELMIN, Da Este ad Auschwitz, cit., p.43 (testimonianza di Ester Hammer).

IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI VÒ 27

IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI VÒ

Il lO dicembre 1944 il giorno stesso in cui venne pubblicata sui giornali l'ordinanza del ministro Buffarini Guidi, furono spediti dalla questura telegrammi a tutte le stazioni di carabinieri della provincia perché segnalassero la presenza di locali idonei per l'insediamento di un campo di concentramento. Vennero proposti, in città, anche gli spazi della fiera, in via Tommaseo, ma alla fine la scelta cadde su un luogo molto più appartato, la Villa Venier di VÒ Vecchio, allora proprietà di Sirio Landini, al quale venne requisita.

Già il 3 dicembre vi entrarono i primi 15 deportati, e il giorno successivo il questore scriveva al prefetto:

Con riferimento alle disposizioni contenute nella circolare telegrafica del IO andante n. 5 del Ministero dell'Interno relativa all'invio in campi di concentra­mento degli ebrei, informo che è stata prescelta allo scopo la villa esistente a VÒ Vecchio di proprietà del rag. Sirio Landini, qui abitante in via N. Sauro n.6, al quale è stata notificata tale decisione. Colà è stato istituito fin da ieri un posto di polizia composto:

n.l sottufficiale dei Carabinieri n.6 carabinieri n.2 agenti di P.S. alle dipendenze del Commissario Capo di P.S. De Mita dotto Nicola e vi sono

stati ristretti a tuttoggi n. 25 ebrei di ambo i sessi. Prego pertanto che sia emesso il decreto di requisizione della suaccennata villa

e stabilito il canone di affitto, invitata la sezione dell'alimentazione a provvedere per il rilascio dei buoni di prelevamento dei generi razionati per tutti i sopra indi­cati conviventi, tenendo presente che questi saranno per qualche tempo in conti­nuo aumento ed infine voler impartire disposizioni a quel Podestà perché provve­da alla fornitura degli utensili da cucina, stoviglie, paglia, legna, che gli venissero richieste dal funzionario dirigente del campo di concentramento.

~arà poi necessario provvedere la Direzione del campo di un fondo adeguato per 11 pagamento dei generi acquistati direttamente con le modalità che saranno prescritte. 23

Nei primi due mesi l'afflusso degli internati fu quasi quotidia­no. Il giorno di insediamento erano stati portati, come abbiamo visto, i primi 15 ebrei (tra questi l'ingegner Goldbacher), fermati

23 ASPd, Archivio Questura, busta 41-42, fascicolo "Ebrei - Campi di concentramento". Salvo diversa indicazione, si rimanda a questo fondo anche per gli altri dati sul Campo di VÒ .

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28 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

in precedenza, il 4 ne giunsero altri dieci, sette il 5, uno il 6, quat­tro il lO, tre (la famiglia Gesses, il padre Elia, la madre Ada Ancona, la figlia Sara) il 20, due il 22, quattro (i Sabbadini­Hammer) il 24. Il nuovo anno vide l'arrivo di un internato il 4 gen­naio, di un altro il 5, il 14 gennaio vennero portati ben Il ebrei (tra i quali la prof. Gemma Bassani, che era stata arrestata a Roma), infine, il 28 gennaio, arrivarono il prof. Augusto Levi, con la moglie Giovannina e il figlio Alvise. Al 62° posto, nell' "Elenco degli ebrei accompagnati nel campo di concentramento di VÒ Euganeo", dopo i Levi e sotto la stessa data, viene registrato Marcello Levi Minzi, che sappiamo essere stato internato invece il 19 febbraio. Gli internamenti successivi avvennero uno il 6 apri­le, quattro il 15, uno il 22; il lO maggio giunse il rabbino Coen Sacerdoti con la moglie, ed infine, 71 a ed ultima internata, il 18 maggio, Bruna Namias. In realtà è la settantaduesima, perché era entrata, come abbiamo visto, anche Caterina Rudoi Hammer, pro­babilmente il 24 dicembre con i suoi familiari, anche se non risul­ta riportata nell'elenco.

Non tutti erano rimasti. L'Il dicembre era arrivato l'ordine di rilasciare i coniugati con ariani e gli ultrasettantenni (anche i mala­ti gravi verranno liberati), e in 21 lasciarono il campo.

Le condizioni di vita degli internati furono sempre estremamente precarie. Fin dall'inizio mancò la collaborazione del podestà e già 1'8 dicembre il direttore lamentava la "scarsa buona volontà del Munici­pio": mancava il riscaldamento per i trentadue internati, quasi tutti anziani e in cattive condizioni. Più avanti mancheranno addirittura i viveri, e il direttore Salvatore Lepore (subentrato a De Mita il 14 gennaio) protestò più volte perché non arrivavano i sussidi prescrit­ti e i buoni dei generi razionati. Capitava che gli internati restasse­ro "privi di pasti, non essendo state corrisposte le razioni di spet­tanza allocale negozio di generi alimentari". Aiutavano, per quanto possibile, le suore elisabettine cui era affidata la cucina, la gente del posto, il parroco Giuseppe Rasia. Un atteggiamento benevolo, ricor­dano i testimoni, aveva anche il secondo direttore del campo, il com­missario Lepore, che concedeva anche agli internati una certa libertà di movimento, e perfino, in certi casi, la possibilità di andare a Padova in corriera, per visite mediche. Nel corso della primavera venne drasticamente ridotto anche il personale di polizia, nonostan­te le proteste del commissario.

Così, quando il 17 luglio, nel primo pomeriggio di una giornata afosa, due camion di tedeschi vennero a prelevare gli internati, lo

IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI VÒ 29

SturmbannfUhrer potè comunicare alla questura: "Ho fatto arre­stare per ragioni di polizia di sicurezza i 43 internati a Lozzo. La sorveglianza era insufficiente, fatta negligentemente, cosicché non esisteva alcuna garanzia di assoluta sicurezza".

A salire quel pomeriggio sui camion furono in realtà in quaran­ta. Due infatti, Elia Gesses e Enzo Franco, si trovavano a Padova, dove si erano recati, accompagnati da un agente, per una visita medica. Furono freneticamente cercati per tutto il pomeriggio dal personale della questura, dato che il comandante tedesco aveva "fatto responsabile il commissario Lepore in caso di non rientro di detti ebrei". Rintracciati, furono accompagnati dal commissario in persona al comando delle SS il mattino successivo. Non c'era nean­che la piccola Sara Gesses, di 7 anni, che al momento della retata si era nascosta e che fu accompagnata in questura il giorno dopo dal commissario.

Altri quattro mancarono quel giorno all'appello: Gisella Sullam, Marcello Levi Minzi, Oscar Coen, Bruno Franco. Dal campo erano stati portati da tempo nell'ospedale di Padova, dove si trovavano ancora ricoverati, piantonati da un agente. Appena furono in grado di muoversi, vennero arrestati e deportati ad Auschwitz insieme al resto del gruppo o,pochi giorni dopo.

Due ebrei misti erano stati da poco dimessi: Ferruccio Colombo e Davide Pollack, internati rispettivamente ilIO dicembre e il 5gen­naio (le loro schede verranno acquisite dai tedeschi).

Rimane un ultimo internato, nel numero di quelli registrati in ingresso nel campo dalla sua apertura: Guido Trieste, di 58 anni. Non c'era al momento della retata, ma nessuno lo cercò, e sfuggì alla deportazione. Era stato arrestato il 29 marzo, durante un rastrellamento della Guardia nazionale repubblicana, nel conven­to di frati sul monte Rua dove era nascosto. Dopo qualche giorno di prigione (indagato in quanto in possesso di una carta d'identità falsa), venne trasferito nel campo di concentramento, dove giunse, in corriera, il 6 aprile. Il 29 maggio, colto da una colica "per calco­losi biliare", era stato ricoverato d'urgenza nel vicino ospedale di Noventa Vicentina. Lì le analisi avevano poi evidenziato patologie gravi per cui era rimasto in cura. Lo era ancora il 17 luglio, ma nessuno andò a prenderlo, essendo l'ospedale in altra provincia. Fu lui a fuggire, 1'11 ottobre successivo, come segnalò la questura repubblicana di Vicenza a quella di Padova: "Si comunica che la mattina dell'Il corrente l'ebreo indicato in oggetto [Trieste Guido] si è allontanato dall'ospedale predetto ove era ricoverato. Sono

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30 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

state diramate le ricerche per il suo rintraccio e fermo". 24

Elenco ufficiale dei 47 deportati di Vò rimase probabilmente l"'Elenco dei prelevati dai tedeschi", compilato dalla questura il 1 o

agosto 1944, che corrisponde a quello riportato nella lapide com­memorativa a Villa Venier. Non vi compare Marcello Levi Minzi bensì Augusto Levi Minzi. Si tratta probabilmente di un errore, che ha poi consentito l'identificazione possibile di questo internato, complice l'omonimia del cognome e della paternità (per entrambi "di Giuseppe"), con un Augusto Levi Minzi, nato a Padova nel 1869, arrestato a Venezia il 17 agosto1944, detenuto a S. Sabba, depor­tato da Trieste il 2 settembre 1944 ad Auschwitz e ucciso all'arri­V025 . Ma mentre non vi sono dubbi sull'internamento e il successi­vo ricovero in ospedale di Marcello Levi Minzi, non vi è traccia di Augusto nei documenti del campo, né fra gli internati in arrivo, né fra i dimessi. Non risulta nemmeno nelle liste degli ebrei residenti a Padova in quegli anni, per cui difficilmente, dopo l'arresto, sareb­be stato tradotto nel campo provinciale padovano. La data stessa del suo arresto a Venezia, un mese dopo la chiusura del campo, rende improbabile il suo internamento a Vò.

Questo "elenco dei prelevati dai tedeschi" fu probabilmente anche quello dato alla Comunità ebraica padovana, che lo richiese 1'8 luglio 1947 "per tributare degne onoranze a tutti coloro che, colpiti dalla bieca ferocia nazista, furono uccisi o deportati nei campi di concen­tramento senza fare più ritorno". Ma non fu comunicato subito: ini­zialmente il questore fece rispondere che era spiacente, ma non poteva soddisfare la richiesta, poiché non proveniva "da alcuno degli Enti o Uffici compresi nel tassativo elenco Ministeriale".

24 ASPd, Archivio Questura, busta 49. 25 Cfr. L.PICCIOTTO, Il libro della memoria, cit., p. 407-8. In questo repertorio, la data di arresto di Marcello Levi Minzi corrisponde a quella del suo prelevamento dall'ospedale.

PARTE SECONDA

GLI STUDENTI

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I

LA SCUOLA MEDIA EBRAICA

La scuola media e superiore ebraica fu istituita nell'ottobre del 1938 ed andò ad affiancare la piccola scuola materna ed elementa­re "Castelfranco" che già esisteva. 26 Inizialmente ospitata nei locali della Comunità, in via S. Martino e Solferino, trovò poi una sede più confortevole in una villetta di via Leopardi (ora vicolo Aganoor). Gli organizzatori furono il professor Augusto Levi (già docente al Tito Livio, libero docente di Fisica all'Università di Padova e, nel 1938, preside all'Istituto Magistrale di Venezia), che attivò e resse con­temporaneamente anche la scuola ebraica di Venezia, e il vicepre­sidente della Comunità, ing. Alberto Goldbacher, ma poté funzio­nare grazie al sostegno di tutta la comunità ebraica. L'onere infatti non era solo organizzativo, ma anche economico: la scuola costava circa 80.000 lire all'anno, tutte provenienti da donazioni di membri della comunità, pur in un momento particolarmente difficile, dato che molti avevano perso il lavoro, e le proprietà venivano limitate.

Funzionava, per quanto possibile, come la scuola pubblica, con le stesse materie e gli stessi libri di testo, "salvo opportuni adatta­menti". Si potè anche attrezzarla, sempre grazie a donazioni, di un laboratorio di Scienze naturali, e successivamente, quando il Provveditore lo pretese, si trovò una soluzione anche per il1abora-

26 Questa scuoletta è così ricordata in una testimonianza scritta di Anna Levi: "Era una pic­cola scuola ebraica, mi mandarono lì piccina, per fare numero all'asilo, poi arrivò l'età della I, II, III elementare: pochissimi scolari, unica indimenticabile giovane maestra Allegra Jacchia (lei soleva dire che ero stata la sua prima alunna). La IV elementare non esisteva, quindi dovevamo passare alla scuola pubblica, era il 1937. Venni iscritta alla scuola ele­mentare Roberto Ardigò, frequentai la IV classe femminile, insegnante la signora Minto Bettanini che con la signora Scanferla erano considerate valide e comprensive maestre. Il passaggio da una scuola famigliare ad una scuola pubblica fu notevole: classe di 20 o 30 bambine che osservavano questa nuova alunna, che durante le preghiere quotidiane si alza­va in piedi, ma non pregava, non si faceva il segno della croce, non scriveva di sabato, per quei tempi era una situazione insolita. Superai gli ostacoli, l'anno scolastico si concluse bene. Non potei continuare a frequentare la V classe causa le leggi razziali, che lo proibiva­no. Tornai alla mia cara "Castelfranco" che si organizzò per accoglierci con un grande abbraccio" .

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34 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

torio di Chimica e Fisica, grazie alla generosità di "un correligiona­rio, già docente universitario" [il prof. Emilio Viterbi] che aveva a casa sua, ed aveva messo a disposizione della scuola, un attrezza­to gabinetto di Chimica e di Fisica. Ma era già il 1943, e la scuola quell'anno non riaprì.

I risultati erano in genere eccellenti, per la qualità degli studen­ti (salvo rarissime eccezioni, sempre promossi a pieni voti agli esami di idoneità nelle scuole pubbliche) e dei professori, alcuni dei quali erano ex docenti universitari, cacciati o costretti al pensionamento dalle leggi razziali, come il prof. Adolfo Ravà, insigne giurista e docente di Filosofia del Diritto, e il prof. Giulio Reichenbach, docen­te di Letteratura italiana. In una relazione del marzo 1939, il prof. Augusto Levi presenta il primo corpo insegnante della scuola: Laura Lattes Tonolli, già insegnante alle Magistrali di Vicenza (Italiano e Storia dell'Arte), Gemma Bassani (Latino, Greco, Storia e inoltre Materie letterarie nelle Medie inferiori di lO grado), Adolfo Ravà (Filosofia), Lina Servi (Matematica e Fisica), Maria Romano (Scienze naturali), Bianca Carpi (Ragioneria, ma anche con man­sioni di segretaria e vicepreside), Anita Limentani (Tedesco e inoltre Materie letterarie nelle medie inferiori di 2 0 grado), Ada Levi (Francese) e la prof. Bonometto Piperno (Inglese). Per l'educazione fisica, in mancanza di insegnanti e di palestra, si provvide inizial­mente così: le femmine avrebbero fatto ginnastica con l'insegnante Alessandra Montefiore (maestra elementare e diplomata in econo­mia domestica) in casa del professor Viterbi; per i maschi invece "si accettò l'ospitalità dei signori Trieste (ing. Eugenio) per una riunio­ne domenicale all'aperto sotto la sorveglianza dell'alunno di I liceo Vittorio Sacerdoti". Allo scopo venne anche acquistato un pallone da calcio. Da marzo però furono assegnati alla scuola due inse­gnanti della GIL e concesso l'utilizzo, per due ore settimanali, della palestra di via Galileo Galilei. 27

L'orario scolastico era di 4 ore alla mattina, con qualche rientro pomeridiano, e la domenica si insegnavano religione ed economia domestica. Per iniziativa del preside la scuola rimaneva aperta anche d'estate, come 'doposcuola', o anche solo" a disposizione degli alunni", come luogo di ritrovo accogliente in un mondo che diveniva sempre più ostile. Attorno a questi giovani si strinse con

27 Cfr. ACEP, Busta scuole 1933-1943.

LA SCUOLA MEDIA EBRAICA 35

dedizione e grande affetto tutta la comunità, perché le giornate, svuotate degli impegni con gli amici di un tempo, si riempissero almeno di attività il più possibile simili a quelle di prima. Così, una volta normalizzata l'organizzazione della scuola, vennero avviate "manifestazioni di contorno e di completamento": corsi di inglese (anche per adulti), lezioni di scherma, e "quelle istruzioni artigiane che continuano a svolgersi grazie alla illuminata ospitalità e alla valida guida della dotto Celina Trieste". Si trattava di corsi pomeri­diani di attività manuali che Celina Trieste, zia dello studente Vittorio Sacerdoti, organizzava nella sua grande casa con parco: cucito per le ragazze, falegnameria e modellatura a sussidio dell'in­segnamento del disegno, con l'ausilio di un maestro d'eccezione, il pittore Tono Zancanaro. Vennero avviate anche lezioni di pianofor­te con il famoso musicologo Cesare Valabrega, con concerto finale di musiche ebraiche cui parteciparono, con il maestro Valabrega, anche i musicisti della comunità, il rabbino Coen Sacerdoti e il vio­loncellista prof. Viterbi.

Gli studenti che nell'a.s. 1937-38, l'ultimo prima delle leggi raz­ziali, avevano frequentato le scuole medie e superiori pubbliche erano 35, secondo lina nota del preside Levi: 26 al Tito Livio (22 al ginnasio, 4 al liceo), 4 all'Istituto tecnico, 1 alle Magistrali, 3 alle Scuole serali e 1 all'Avviamento al lavoro. Il Tito Livio era stata dun­que la scuola più frequentata dai giovani ebrei, come hanno con­fermato anche i testimoni. Alla fine del primo anno di scuola ebrai­ca la maggior parte degli allievi tornò ancora per gli esami al Tito Livio, ben 16 su 20 (gli altri 4 si presentarono all'Istituto tecnico commerciale). Ma successivamente si manifestò una netta inver­sione di tendenza, e il numero degli aspiranti ad una idoneità al Tito Livio si assottigliò vistosamente.

Il secondo anno furono ancora la maggioranza. Al Tito Livio si presentarono infatti 18 studenti (17 provenienti dalla scuola ebrai­ca più Marco Morpurgo, che si era preparato privatamente), 3 andarono allo scientifico, altri 3 all'Istituto tecnico Commerciale. L'anno successivo però, nell'estate del 1941, a dare gli esami al classico furono solo 7 studenti della scuola ebraica, Il preferirono lo scientifico, 5 il tecnico commerciale. Agli esami conclusivi del 1942, su 19 candidati ebrei, 2 solamente si presentarono al Tito Livio (Ida Reichenbach e Graziella Viterbi), 13 andarono allo scien­tifico, 4 al tecnico commerciale. E infine l'ultimo anno, nel 1943, furono solo due studentesse della scuola ebraica ad ottenere

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l'idoneità al Tito Livio, alla V ginnasio: ancora Ida Reichenbach, ed Emilia Morpurgo che fu ammessa con un semplice colloquio, senza registrazione di voti. Altri due candidati all'ammissione al liceo si erano presentati a titolo privato.

Diverse ragioni concorsero a questo calo: un po' la riforma Bottai del 1940, che unificando la scuola media eliminò il ginnasio infe­riore (le prime tre classi) e ridusse perciò il numero di iscritti al Tito Livio. L'abbandono del liceo classico tuttavia va ricondotto soprat­tutto al divieto, per gli ebrei, di iscrizione all'università (potevano continuarla solo coloro che al momento delle leggi razziali erano già frequentanti, ma nessuno dopo poté più iscriversi): fatto questo che distolse i giovani da una scuola finalizzata esclusivamente all'uni­versità. 28 La previsione quindi di uno sbocco professionale fece pas­sare alcuni al tecnico commerciale (come Bianca Calabresi e Teresina Morpurgo) o consigliò altri di aggiungere ad ogni buon conto al diploma di maturità classica anche quello di ragioniere (come fecero Marco Morpurgo, Giuseppe Yaes e Leo Romanin Jacur, che comunque fu tra i primi a trasferirsi a Losanna per continuare gli studi all'università). Altri preferirono il liceo scientifico Nievo in vista di una iscrizione all'università in Svizzera (a facoltà scientifi­che o economiche), o anche, secondo alcuni testimoni, perché vi erano accolti in modo meno marcatamente discriminatori029 . Dopo il ginnasio o il primo anno di liceo molti passarono quindi per gli esami di idoneità al Nievo: tra questi Giorgio Sacerdoti, Rodolfo Goldbacher, Arturo Camerini, Alberto Coen, Alvise Levi, Giorgio Foà, i fratelli Pia e Gualtiero Rossi.

Il clima del Tito Livio in quegli anni tuttavia non può essere con-

28 Lo stesso preside Levi ravvisò l'opportunità di orientare diversamente la scelta degli allie­vi, anche in considerazione dei problemi organizzativi della scuola, come precisa nella rela­zione conclusiva del terzo anno di attività: "L'anno scolastico 40-41 si svolse regolarmente con risultati che si possono ritenere molto soddisfacenti se si pensi che vennero affrontati dei gravi problemi didattici come quello di avviare i più giovani alla nuova scuola media unica e di orientare i più grandi verso studi più omogenei di quanto fosse stato fatto in passato, avviando cioè preferibilmente i giovani agli studi scientifici e commerciali e riducendo con ciò il disperdimento di energie derivante dalla volontà di seguire tutte le scelte individuali" (ACEP, Busta scuole 1933-1943). Cfr. anche C.CALLEGARI, Identità, cultura e formazione nella scuola ebraica di Venezia e di Padova negli anni delle leggi r=iali, Padova, Cleup, 2002, p.273. 29 Va detto che anche all'Istituto tecnico commerciale Calvi erano attenuate alcune forme discriminatorie. Nei registri degli esami che abbiamo consultato gli studenti ebrei risultano inseriti normalmente tra gli altri secondo l'ordine alfabetico, senza essere collocati alla fine dell'elenco o contrassegnati dalla scritta "di razza ebraica".

LA SCUOLA MEDIA EBRAICA 37

notato come fascista. Le direttive che arrivavano dall'alto venivano accolte e applicate con spirito di servizio, ma senza entusiasmo: nella corrispondenza in arrivo al preside nel '38-'39 vi sono fre­quenti solleciti delle autorità fasciste al corpo insegnante del liceo, perché aderisse più prontamente alle iniziative del partito (abbona­menti a riviste di regime, partecipazione a corsi di formazione o anche di ginnastica per docenti). Vi erano, tra i professori, opposi­tori del fascismo e vi erano anche i simpatizzanti, ma di questi nes­suno fu così compromesso da venire epurato o sanzionato alla fine della guerra. E, nel momento decisivo, la scuola diede un notevole contributo di sangue alla lotta per la libertà, con il sacrificio, nella Resistenza, del professor Mario Todesco e di quattro studenti: Guido Puchetti, Sandro Godina, Giovanni Berto, Giuseppe Smania.

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II

LE STORIE

INTERVISTA A GRAZIELLA VITERBI

In mezzo al giardino c'era una vecchia statua -una ragazzina che suonava i piatti. Il muschio l'aveva in parte ricoperta rendendola simile a una divinità naturale. Intorno erano state messe alcu­ne piantine di lamponi, che in breve tempo erano diventate una specie di piccolo bosco. Graffiarsi per arrivare fino ai più nascosti frutti era una gioia e risalire le scale col cestino pieno era una specie di trionfo. La ragazzina di pietra continuò a suonare i suoi piatti e i lamponi continuarono a moltiplicarsi ancora per molto tempo dopo che il giardino e la casa furono abbandonati per sem­pre.

(G. VITERBI, Lamponi, in Sapori d'infanzia, Roma, Carucci, 1991, p.51)

Cominciamo con una domanda riguardante la sua infanzia nel periodo precedente alle leggi razziali: come viveva la sua quotidia­nità e il fatto di essere ebrea? C'erano differenze tra lei e i suoi coe­tanei non ebrei?

Direi che la mia infanzia e la mia adolescenza fino alle leggi raz­ziali sono state un'infanzia e un'adolescenza privilegiate. Avevo i miei genitori, quando avevo sette anni è nata mia sorella e in più vivevamo nel bellissimo palazzo degli Obizzi in Via San Martino e Solferino. Studiavo privatamente perché allora si usava che le ragazze di buona famiglia (era un'epoca diversa da quella di ades­so) studiassero a casa, generalmente con una maestra privata: infatti ho fatto le elementari tutte a casa. Prendevo anche lezioni di ginnastica ritmica e di lingue, ho fatto le villeggiature che facevano le ragazzine di allora, e, insomma, penso di essere stata una bam­bina e un'adolescente privilegiata, questo senz'altro. Avevo molti amici, in genere figli di professori dell'università colleghi di mio padre, e quindi ci si trovava spesso nel giardino dell'uno o dell'al­tro. Sono cresciuta molto più come un maschio che come una fem-

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mina, giocavo quasi sempre con i soldatini invece che con le bam­bole. Il mio più grande amico era il figlio del direttore dell'Orto Botanico, per cui tutti i pomeriggi li passavamo assieme; un pome­riggio veniva lui da me e giocavamo nel nostro salone o in giardino, con gli eserciti che compravamo con le nostre paghette, e il giorno dopo andavo io nel giardino dell'Orto Botanico; mi ricordo che avevo l'autista che mi portava la valigetta con tutti i miei soldatini.

Oggi che vivo in due camere, mi rendo conto di come sia tutta un'altra vita, e anche se certo mi sarebbe piaciuto continuare a vivere bene, non ho rimpianti eccessivi. Provo piuttosto affetto per la vita passata, ma grande rimpianto no; la mia storia è stata quel­la che è stata.

Allora non c'era differenza tra ebrei e non ebrei, posso assoluta­mente dirlo perché io avevo certamente amici ebrei, figli di amici dei miei genitori, ma in prevalenza avevo amici cattolici o protestanti, e non abbiamo mai avuto nessun problema. Mi ricordo che quand'e­ra Natale le mie amiche facevano l'albero e mi chiamavano perché le aiutassi, e io mi divertivo un mondo; non c'era alcun senso di dif­ferenza, né da parte mia né da parte loro.

Tutto è iniziato dopo la legge razziale. Quando la legge razziale ci ha mandato via da scuola mi ricordo che ci fu una netta separazio­ne tra le ragazze della mia classe, separazione che sicuramente dipendeva dalle idee dei genitori, perché a undici anni nessuno fa certe differenze: una parte mi telefonava tutti i giorni per darmi i compiti, perché volevano che rimanessi al passo con loro almeno con i compiti; altre quando mi incontravano per la strada si volta­vano dall'altra parte per non salutarmi.

Com'è avvenuta l'espulsione dalle scuole? La notizia era sul giornale. Noi eravamo allora in villeggiatura al

Lido di Venezia, era estate, le leggi razziali sono state promulgate in settembre. C'era scritto che tutti gli alunni di razza ebraica erano espulsi da qualsiasi ordine di scuola, e così i professori, infatti anche mio padre dovette abbandonare l'università. Quindi è avve­nuto così, non ci siamo più iscritti e non siamo più entrati a scuo­la. Non ricordo se ci sia stata una comunicazione delle scuole alle famiglie, perché allora, a undici anni, eravamo bambini, anche se abbiamo capito cos'era successo. Da quel giorno non abbiamo più messo piede al Tito Livio.

LE STORIE 41

Dopo aver dovuto abbandonare la scuola come vi siete organiz­zati?

La scuola ebraica è nata grazie alle due sorelle Levi, Lucia, che era zoppa, e Clara; loro hanno riunito nella propria casa tutti i ragazzi che erano stati mandati via dalle scuole. Eravamo tutti insieme, dalla prima ginnasio alla terza liceo, e si faceva non pro­prio lezione, diciamo che c'intrattenevano nel corso della mattinata con argomenti un po' di tutte le classi. È servito per tenerci occu­pati e abbastanza al corrente di ciò che accadeva. In seguito il pro­fessor Augusto Levi ha deciso di fare la scuola ebraica, che all'ini­zio è stata ospitata dai locali della comunità ebraica in via San Martino e Solferino, e in totale avevamo un paio di stanze a nostra disposizione. Hanno unito seconda, terza, quarta e quinta ginnasio in una classe, i tre anni del liceo in un'altra, e poi ognuno aveva le sue materie e i suoi professori, però eravamo più classi in una stes­sa stanza.

L'anno dopo i Levi hanno preso una villetta a Pontecorvo, in Via Leopardi, e lì hanno organizzato l'asilo, le elementari, il ginnasio e il liceo, ognuno con la sua classe e i professori, come in una scuo­la pubblica, solamente che eravamo tutti nello stesso edificio. Era come una vera scuola pubblica, e in più avevamo la religione ebrai­ca. Eravamo una cinquantina fra tutti quanti, in un totale di circa seicento ebrei a Padova, quando la comunità era nel suo completo; adesso sono pochissimi, molti sono morti in campo, molti per l'età, molti sono emigrati.

Al termine dell'anno scolastico avevamo l'obbligo di dare l'esame in una scuola pubblica, da privatisti.

Com 'era l'atteggiamento dei professori del Tito Livio? Non posso assolutamente dire che ci fosse un atteggiamento

aggressivo o sgarbato. Era normale, né di pietà né di aggressione, e anche i voti lo hanno dimostrato.

Com 'è cambiata la sua vita quando sono arrivate le leggi razziali? Credo di avere avuto una reazione completamente diversa da

quella di altri miei coetanei. lo l'ho presa molto bene, stranamente. Ho saputo che non andavo più a scuola e ho detto 'che bellezza!', anche se poi sono andata volentieri alla scuola ebraica: avevo le mie amiche e non c'erano problemi. Avevo appena compiuto dodici anni. Quello che mi ricordo nettamente però è che molti hanno avuto una reazione di grande dolore. Alcune amiche mi hanno rac-

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contato da adulte che per loro essere state mandate via dalla scuo­la pubblica fu un gran dolore. A me è venuta la reazione inversa: non mi vogliono? Benissimo, allora io non faccio più parte di loro e sono contentissima.

Ha mantenuto dei contatti con le sue compagne di classe? Con alcune sì, soprattutto con quelle che erano figli di amici dei

miei genitori, ma non è che ci si vedesse molto di frequente. Si con­tinuava magari ad andare a lezione privata di ginnastica assieme, ma allora certo l'ambiente si era un po' ristretto. Ricordo la figlia del professor Frontali, che allora era il nostro pediatra. Con lei e con le sorelle ci siamo sempre viste, e così le nostre madri e i nostri padri. Con alcuni abbiamo continuato a frequentarci abitualmente, con altri più sporadicamente, ma che alcuni abbiano proprio tagliato i ponti, tranne alcune mie compagne di scuola, no. C'era la mia inse­gnante di ginnastica privata, la signorina Dente, che teneva lezione nel nostro salone, perché era molto grande e quindi ci riunivamo in gruppo con figli di amici. Era della GIL, ma ricordo che fin dai primi giorni delle leggi razziali aveva detto a mia madre: "Andiamo fuori assieme e lei mi dia il braccio, perché voglio far vedere che io non sono d'accordo." Quindi c'è stata gente molto coraggiosa, e c'è stata gente molto pusillanime, ognuno fa quello che crede, poi.

Come avete affrontato la cosa in famiglia? Mia sorella aveva cinque anni, era molto piccola, ma ha comun­

que reagito diversamente, ha sentito molto di più la solitudine, cosa che io non ho sentito affatto. lo avevo già amici, mentre lei in fondo era nell'età in cui avrebbe dovuto cominciare a farseli, e studiando a casa anche lei ha quindi avuto meno amicizie; forse è quella che ne ha risentito di più. Mio padre invece ne ha sofferto perché ha lasciato l'insegnamento all'università, però lui aveva il suo labora­torio scientifico all'ultimo piano e ha continuato a studiare e lavo­rare per conto suo. Si occupava dei suoi studi e di filosofia e aveva i suoi amici. Aveva un temperamento piuttosto nervoso, ma in quel­la circostanza è stato pacato, e mia madre anche.

Ha mai sentito i suoi genitori parlare con altri di quello che stava succedendo?

Ne parlavano anche con noi, ormai avevo dodici anni e le cose le capivo. E poi c'era poco da parlare, purtroppo le leggi erano quelle che erano, non potevamo farci niente. Qualcuno è partito; ad esem-

LE STORIE 43

pio la famiglia di mio padre si è salvata tutta perché nel '39 sono andati tutti in America, dove vivono tuttora. Forse non si poteva già prevedere la persecuzione, ma se fosse continuato quel regime noi saremmo stati tagliati fuori dalla nazione: eravamo considerati stranieri in Italia. Quindi molti hanno pensato di andare in America, o in Israele, o in Argentina, finché hanno potuto partire. La reazione della mia famiglia è stata non isterica, direi, dispiaciu­ta certo, ma tranquilla, senza esagerazioni.

Com 'è iniziata la persecuzione? All'inizio c'è stato chi prendeva le nostre parti e chi si voltava dal­

l'altra parte, ma non ci furono grandi problemi. Man mano che ci avvicinavamo alla persecuzione hanno iniziato a bastonare gli uomini ebrei che uscivano soli la sera, e abbiamo saputo che mio padre era il primo in lista, ma per fortuna non sono mai arrivati a lui.

Poi c'è stato l'intervallo della caduta del fascismo, che fu un momento un po' complicato per noi perché pensavamo di essere tornati liberi come prima: e invece è stato l'inizio della fine. Ricevevamo frequenti telefonate intimidatorie, che ricordo bene. Ora non amo il telefono, forse anche per questo, ma naturalmente all'epoca ero una ragazzina e correvo a rispondere per vedere chi era; dicevano sempre delle cose sgradevoli, ad esempio una volta: "Guardate che avete esposto la bandiera (era festa nazionale, credo) con lo stemma alla rovescia, guai a voi se lo rifate, o la pagherete". Ovviamente non era vero, non era neanche possibile. Una mattina abbiamo trovato il grande portone di casa e i 'pomoli' tutti imbrat­tati di vernice rossa che colava come sangue a terra, e sopra il dise­gno di un uomo impiccato. Era cominciato già prima della perse­cuzione qualcosa di più violento, anche se ancora non si capiva cosa sarebbe successo.

Quando siete scappati? Nell'estate del '43. Con le leggi razziali avevamo l'obbligo di dire

alla polizia dove andavamo in villeggiatura; noi normalmente anda­vamo ai confini con l'Austria, in montagna. L'estate del '43 fu il primo anno in cui non diedero il permesso per i confini: ci hanno dato un elenco di posti dove potevamo andare e così, poiché mia madre a causa di alcuni disturbi al naso aveva bisogno di fare delle inalazioni, abbiamo deciso di andare a Porretta, vicino a Bologna, al di là del Po. C'era la certezza che gli americani avrebbero bom-

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44 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

bardato i ponti strategici sul fiume per interrompere le comunica­zioni fra il centro dell'Italia e il Nord; quindi, per sicurezza, aveva­mo preparato anche un baule con gli abiti invernali, per coprirci nel caso non potessimo tornare a casa; lo spedimmo ai nostri zii di Ferrara perché lo tenessero loro, e in caso di bisogno saremmo andati a prenderlo. La spedizione l'ho fatta io, lo ricordo bene, ma ci fu un disguido per cui anche quel baule fu mandato a Porretta. E fu una fortuna, perché poi purtroppo i miei zii furono tutti presi, la sorella di mia madre, suo marito e i due figli, di cui uno aveva la mia età; eravamo molto legati. Lo zio è stato ammazzato subito, mentre alla zia all'inizio, poiché aveva una madre molto anziana, fu permesso di rimanere per badare a lei. Che controsensi incredibili! I maschi furono deportati tutti: erano nascosti in un paesino isola­tissimo del Modenese, ma l'ostetrica del paese, per cinquemila lire a testa, li ha denunciati. Poi, alla fine della guerra, è stata impic­cata.

Siamo stati lì in villeggiatura serenamente fino al giorno in cui sono arrivati i tedeschi, ovvero 1'8 settembre. Erano già in Italia in realtà, ma in quel momento avanzavano come nemici. lo ho avuto paura in tutto il periodo della persecuzione solo due volte, e una è stata proprio quella mattina. Ero in giardino con mia sorella, papà e mamma stavano ancora in stanza; si sentì urlare, e si vedeva la gente che scappava con i tedeschi che li seguivano con i carri arma­ti. Ho preso per mano mia sorella e l'ho portata su per le scale del­l'albergo di corsa, poi abbiamo incontrato mia mamma che scende­va con l'ascensore a prenderci. La prima cosa che abbiamo fatto quando siamo stati in stanza è stato chiudere le persiane, e questa è una cosa che mi è rimasta anche oggi: quando è buio chiudo sem­pre le persiane, perché mi è rimasta questa sensazione, che in qual­che modo la persiana sia una difesa. Eravamo tanti ebrei nell'al­bergo, stranamente, e il proprietario era un pezzo grosso fascista che stava a Fiume. Evidentemente ha visto che la situazione non era più così favorevole e non si sapeva come si sarebbe evoluta, così prima ha fatto cancellare la parola "ebreo" dai registri coi nostri nomi, e poi, quando le cose sono peggiorate ancora, ci ha trasferiti tutti in un altro suo albergo in montagna, più isolato, per il quale fece fare un'insegna di "Casa di cura". Così era più difficile che i tedeschi entrassero a controllare.

Una sera d'ottobre eravamo nella hall dell'albergo e sentimmo due signori dire che il posto migliore per rifugiarsi .era Assisi, per­ché era fuori dalle vie di comunicazione principali e c'era un pode-

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stà fascista, un avvocato, che però era una persona meravigliosa. Mio padre, che era un fatalista, decise di partire per Assisi. In pre­cedenza, insieme ad altri ebrei che erano nell'albergo, avevamo pen­sato di andare a Roma, con una famiglia romana che aveva deciso di tornare a casa e ci aveva invitato ad andare con loro. Avevamo già preparato le valigie, ed io ero felicissima di questo spostamen­to, se non che mio padre apre la Bibbia e in un punto della pagina, in cui solo lui sapeva guardare quando voleva una risposta, vede sangue e distruzione, così non si parte più; e per fortuna, perché saremmo andati in Via Arenula, che poi è stato proprio il centro della deportazione. Noi abbiamo avuto molti di questi casi, sem­brava quasi che un destino ci accompagnasse, devo dir la verità.

A un dato momento abbiamo deciso di partire per Assisi, ma allora non era facile viaggiare. Per prima cosa siamo andati (mio padre non stava molto bene) con mia madre al comando tedesco a chiedere un'automobile per tornare a casa, facendo finta di abitare al Sud, e loro ce l'hanno data senza nessuna domanda. Quindi siamo partiti, se non che quando siamo stati a Pontassieve, un nodo ferroviario allora di grandi scambi e quindi bombardato in pratica giornalmente (quel giorno per fortuna no), la macchina si è rotta, e quindi abbiamo deciso di prendere un treno e di andare a sud. Ricordo che il treno era così pieno che io sono salita da una parte e i miei genitori con mia sorella dall'altra, abbiamo perso le valigie, poi le abbiamo ritrovate, una confusione insomma!

Siamo poi arrivati ad Arezzo, dove abbiamo trovato due stanze per passare la notte, e lì ci siamo fermati due notti; intanto abbia­mo cercato una macchina che ci portasse ad Assisi, l'abbiamo tro­vata e abbiamo stabilito che ci venisse a prendere la mattina alle otto. Durante la notte i miei si svegliano sentendo rumore di stiva­Ioni che passavano per strada sotto le finestre, guardano e vedono i tedeschi che cercavano dappertutto, perché quella notte qualcuno aveva lanciato una bomba sul comando tedesco, per cui tutta la città era sotto sorveglianza. In quel momento abbiamo pensato che fosse tutto finito, perché certo non avrebbero lasciato partire nes­suno; invece la mattina dopo la macchina è arrivata, siamo saliti, siamo partiti e siamo usciti da Arezzo, senza nessun problema (altro segno del destino) e siamo arrivati in vista di Assisi.

A quel punto la macchina si è incendiata; il fuoco si è spento subito, ma ovviamente il motore non andava più. C'erano lì dei gio­vani fascisti, che però non si chiesero chi eravamo, anzi ci chiesero se avevamo bisogno di aiuto e subito chiamarono una macchina

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per portarci ad Assisi con il nostro bagaglio. Una volta arrivati saliamo in città e cominciamo a domandare

una stanza in tutti gli alberghi, ma non ce ne erano perché erano tutte requisite dai tedeschi. Lì abbiamo avuto due avventure: la prima fu quando, appena scesi dalla macchina, abbiamo incontra­to una delle famiglie che erano nascoste con noi a Porretta, degli ebrei triestini che erano venuti ad Assisi senza dire niente a nes­suno. Poco dopo, da un albergo esce un signore che guarda mio padre e dice: "Ti te sì Emilietto Viterbi!"; era un suo compagno di scuola delle elementari. Non era un momento felice per essere rico­nosciuti, comunque si sono salutati e poi ognuno è andato per la sua strada. Noi siamo arrivati in cima al paese e abbiamo trovato due stanze in un alberghetto chiamato "Sole", e lì ci siamo sistemati dando però le nostre carte d'identità vere, perché non ne avevamo altre, e quelle sono andate alla polizia.

Il giorno dopo, andando in piazza, abbiamo trovato un ebreo padovano nostro amico, che si era rifugiato lì insieme alla fami­glia, invitato da un'impiegata di un loro parente che si era sposa­ta ad Assisi e aveva offerto loro il suo aiuto. Questo amico ci ha detto che c'era ad Assisi un movimento clandestino, capeggiato dal vescovo (un trentino, che era ben felice di poter parlare in dia­letto veneto con noi!), da un prete e da un frate, che, grazie alla tipografia dei fratelli Brizzi, forniva i documenti falsi; e così anche noi siamo diventati i signori Varelli, in un primo tempo. Poi ven­nero arrestati tre ragazzi ebrei (però furono subito rilasciati per­ché non riconosciuti come ebrei), che avevano carte d'identità come le nostre, con un piccolissimo ma riconoscibile difetto nel timbro, per cui il movimento clandestino, per prudenza, decise di rifare tutte le carte d'identità. Trovarono il modo di farle fare direttamente all'interno del comune di Foligno, autentiche quin­di, per noi con il cognome modificato in Vitelli. In genere si cerca­va sempre che il nome falso avesse le prime lettere uguali al nome vero, perché poteva capitare, per l'emozione, di cominciare a fir­mare col proprio cognome, ed era possibile così correggersi in tempo.

Così è cominciata la nostra vita ad Assisi, come normali sfollati. La nostra fortuna è stata anche che la città era piena di sfollati ita­liani che venivano dalle città bombardate, e allora era facile, aven­do i documenti falsi, confondersi con gli altri. Abbiamo fatto anche tante amicizie, si andava in centro, al cinema, facevamo una vita normale insomma, solo non andavamo a scuola.

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C'era il problema del nostro accento veneto, difficile da concilia­re con Lecce da dove i documenti dicevano che venivamo. Una volta ci è successo, cercando casa a Perugia, di trovare una signora ori­ginaria di Lecce, ma io per fortuna mi ero preparata, avevo studia­to attentamente la topografia della città. Avevo scritto anche una storia che ripetevo tutte le sere a mia sorella, che aveva solo dieci anni e non era facile farle ricordare che era diventata un'altra per­sona. Per fortuna quella volta non fu un problema, anche l'accento non venne notato, per fortuna avevano scelto per noi come città di provenienza Lecce, che è la città del Sud con l'accento meno meri­dionale; e così insomma è andato tutto bene, anche se i pericoli c'erano sempre.

C'era ad esempio un vecchietto di Trieste, che non usciva mai; un giorno di primavera ha visto il bel tempo e ha deciso di fare una passeggiata, ma, poiché camminava con i piedi all'infuori (una caratteristica ebraica, si dice, anche se almeno ora camminiamo come tutti gli altri), alcuni giovanissimi soldati tedeschi vedendolo si sono messi a ridere, probabilmente senza intenzioni bellicose, e a urlare "jude, jude"; così il vecchietto è corso a casa e poi credo non sia mai più uscito.

Bisognava stare attenti a tutto, e qualche volta non era facile. Dopo la liberazione tutti dicevano di sapere, ma in realtà prima erano informati della nostra presenza solo quelli del movimento clandestino; e certo l'avevano capito anche i proprietari dell'alber­go, bravissime persone, che, quando siamo stati ricercati dalla poli­zia di Padova che aveva ricevuto i nostri documenti ed era venuta a prenderci, dissero che eravamo partiti, forse per Roma, qualche giorno prima. Noi avevamo effettivamente lasciato l'albergo, ma sta­vamo nella casa di un loro nipote, una casa che poi abbiamo tenu­to per sessant'anni. Quindi c'è stata gente che sicuramente ha capi­to, ma è stata dalla nostra parte. Ad Assisi nessuno ha fatto dela­zioni, anche se avevano dei sospetti, quindi io di Assisi non posso dire che bene.

Il secondo momento in cui ho avuto paura è stato quando un giorno, ero in passeggiata con mia sorella, siamo tornate a casa e abbiamo trovato un'amica, che avevamo conosciuto all'albergo "Sole", ad aspettarci sulla porta. Ci disse di salire a casa sua, lei con mia sorella ed io per un'altra strada, perché ci avevano ricer­cato ed era meglio non rientrare e stare a vedere come si metteva­no le cose. lo, non vedendo i miei genitori, ero sicura che li avesse­ro presi; invece loro erano già in salvo da amici, ma in ogni caso

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questa è stata la seconda paura che ho avuto, quella di non veder­li mai più. Poi tutto si è sistemato.

C'era un podestà meraviglioso, l'avvocato Fortini. lo e mia madre siamo andate a parlargli apertamente, dicendogli chi eravamo e domandandogli consiglio, e lui davanti a noi fece una telefonata per informarsi se si sospettava che ci fossero degli ebrei ad Assisi; gli risposero di no. Promise di tenerci informati, poi prese tutte le nostre cose ebraiche, che avevamo ancora con noi, e le nascose nel suo giardino. Quando, all'arrivo degli alleati, è stato preso e man­dato al confino perché fascista, mio padre ha scritto una lettera dicendo quel che aveva fatto, ed è stato liberato. Siamo rimasti amici, e sua figlia, che aveva la mia età precisa, è stata la mia più grande amica. Ad Assisi siamo amici di tutti, e tuttora molto amati; passo lì tutte le estati, in un alberghetto vicino a casa nostra (così ho la stessa visuale che avevo dalla mia camera) dopo che abbiamo dovuto lasciarla, perché lesionata dal terremoto. Mio padre, mentre eravamo ad Assisi, ha insegnato a Perugia per sette anni, poi ci siamo trasferiti tutti a Roma.

C'è stata solidarietà da parte dei colleghi quando suo padre è stato radiato dallVniversità?

Qualcuno ha continuato a frequentarlo, qualcun altro sì ma spo­radicamente, non c'è stata né una ritirata rapidissima né una dife­sa a spada tratta. Lui amava il suo lavoro; in seguito ha anche lasciato in regalo all'università tutte le sue apparecchiature scien­tifiche. Al tempo era l'unico al mondo ad aver fatto degli studi sui raggi infrarossi e ultravioletti, grazie ai quali si poteva fotografare attraverso la nebbia, ed era stato preso come consulente dall'aero­nautica militare, perché ovviamente la cosa era molto utile in una guerra. Quando è stato radiato dall'università gli hanno scritto dicendo che erano disposti ad assumerlo, ma lui rispose che poiché era stato cacciato dall'università non vedeva ragione di restare all'aeronautica.

Come ha vissuto la persecuzione? lo credo che le persecuzioni siano quasi sempre ingiuste. Oddio,

può esserci qualcuno che ha fatto qualcosa di male e per questo viene punito, ma la persecuzione contro qualcuno, che può essere il nero, o lo zingaro, è quasi sempre senza ragione; viene da un ideologismo che è stato infilato nelle teste e ha preso piede. L'antisemitismo ha un'origine antichissima, perché purtroppo i

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movimenti antisemiti sono sempre esistiti, in Italia meno, perché c'erano sì i ghetti, ma certo non i pogrom dell'Europa orientale, per non parlare della Spagna e del Portogallo, dove sono successe cose davvero terribili. E quando a me domandano perché, è molto diffi­cile dare una risposta. O c'è un destino anche qui, chissà perché ... ma due ragioni certamente ci sono. Una è partita purtroppo dalla Chiesa, non quella attuale, con la questione che Cristo è stato ucci­so dagli ebrei, che non è affatto vero perché lui, poveretto, è nato e morto da ebreo; il suo famoso battesimo era quello della setta degli Esseni, che era una setta ebraica. Lui non ha mai rinnegato, era un ebreo liberale, come ce ne sono anche oggi, ma è stato sempre ebreo come la Madonna, San Giuseppe e tutti gli altri; è stato San Paolo a cambiare tutto.

Un'altra ragione può essere che nei paesi soprattutto dell'Europa orientale, in genere tutti i principi e i signori, in quanto cristiani, avevano il divieto di occuparsi di cose di denaro, e allora hanno pensato di assumere i cosiddetti "ebrei di corte", che si occupavano di andare a riscuotere gli affitti e i debiti dai contadini; e certamen­te anche questo non favorisce la simpatia, perché quando devi dare soldi a qualcuno non lo fai mai con gioia; e quello può essere stato un altro motivo.

Adesso si aggiunge la questione politica, e Israele fa le spese del-1'antisemitismo. D'altra parte le cose accadono, e spesso non si sa perché. In genere c'è bisogno di un capro espiatorio, e difatti l'antisemitismo nasce sempre quando ci sono problemi. Secondo me anche ora in Italia c'è un antisemitismo rinascente terribile; non c'è notte che a Roma non compaiano scritte sui muri e minacce ai capi della comunità. Può essere il nostro destino, ma chissà perché, e chissà fino a quando e come si concluderà; d'altra parte, campa­re bisogna. È talmente difficile trovare una spiegazione a tutto, per­ché c'è irrazionalità in una infinità di cose ... si vorrebbe poter ragio­nare su tutto, ma non è possibile.

La sua famiglia era molto religiosa? No. Nella famiglia di mio padre erano ebrei, ma non religiosi. Mio

nonno, figlio di un rabbino che veniva da Mantova, era un radicale, è stato vicesindaco di Padova e si è sempre occupato di politica, e di religione per niente. Credo andasse al tempio una volta l'anno per il digiuno. Mia nonna era scrittrice, e per l'epoca era una cosa abba­stanza insolita, aveva un salotto letterario e musicale in casa; era una persona in vista a Padova, si chiamava Bona Benvenisti Viterbi.

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Fu una donna molto impegnata durante la guerra con gli uffici noti­zie per i soldati, fu la prima a guidare la macchina a Padova, era una donna emancipata, diciamo. Non era religiosa neanche lei, per nien­te. I nonni materni erano più religiosi, ma non ortodossi o bigotti. I miei genitori erano mediamente religiosi. lo ho cominciato quando avevo sei anni a prendere lezioni di cultura ebraica, da quella che era la moglie del rabbino giovane di Padova, Nissim, e sono diventa­ta molto religiosa, anche se non ortodossa. Allora abbiamo comin­ciato a rispettare il venerdì sera, con l'accensione delle candele, con le benedizioni; e poi c'era il digiuno per Kippur, che abbiamo fatto sempre, e Pasqua con il cibo senza lievito e pane azzimo; il sabato si andava al tempio. Le feste in generale sono sempre state rispettate.

Ad Assisi invece non facevamo assolutamente niente: andavamo in chiesa per mantenere le apparenze, e io sbagliavo sempre da che parte si faceva il segno della croce, ma dovevamo vivere da cattoli­ci là. Era molto difficile a volte, quando la gente chiedeva qualche particolare. Dopo la liberazione, poiché tra noi ebrei nascosti c'era uno che aveva studiato da rabbino, ci hanno dato una sala in un convento per farne una sinagoga, e lì si andava il sabato.

Che ne è stato delle persone che vi hanno aiutato? Non sono mai state prese. Il vescovo è rimasto al suo posto anco­

ra per molti anni, poi per l'età ha abbandonato il suo ministero ed è tornato a Trento. È venuto in visita ad Assisi accompagnato dai suoi nipoti pochi mesi prima di morire. lo sono andata a salutarlo e ricordo che la prima cosa che mi ha detto è stata "Ah, che pecca­to la mia Margherita!", riferendosi a mia madre, con cui aveva stret­to una forte amicizia, sia con lei, sia con mio padre. Era un vesco­vo eccezionale.

I giorni prima che i tedeschi partissero sono stati i più pericolo­si, perché avevano deciso di minare tutta la città; ma il colonnello Mliller, che era il comandante della piazza tedesca ad Assisi, un cattolico e un uomo molto bravo, è rimasto per ultimo dentro la città per impedire che fosse fatta saltare. Siamo tutti convinti che lui sapesse che noi eravamo nascosti, eravamo cento ebrei allora, ed eravamo tanti per un paese in cui non c'erano più ebrei dal Cinque-Seicento. Ma ha chiuso un occhio, e anche tutti e due. Al ritorno in Germania fu processato per non aver fatto saltare la città, ma dopo la guerra è venuto a prendere la cittadinanza ad Assisi, e allora ci siamo presentati. Circa due anni dopo è morto. Era nazista in quanto ufficiale dell'esercito, ma non perché condi-

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videsse le idee. Quando è morto, la città ha inviato una delegazio­ne per portare sulla sua tomba dei rami degli ulivi di Assisi, e siamo andati anche io e mio marito. Lì abbiamo fatto amicizia con la fami­glia, con i suoi due figli, entrambi medici, sposati e con famiglia, che si sono talmente affezionati a noi che in seguito, quando tor­navano ad Assisi, ci siamo sempre trovati di nuovo tutti insieme.

L'anno scorso abbiamo presentato ad Assisi il libro di Paolo Mirti, La società delle mandorle, che narra la storia degli ebrei nascosti ad Assisi, ed è stato invitato anche il figlio del colonnello Mliller. Nel frattempo però era morto anche lui, così è venuta la moglie, con i tre nipoti. Ci eravamo conosciute in Germania ed è stata una grande gioia ritrovarci e quando, al momento dei ringra­ziamenti, ci siamo alzate insieme, questo ha fatto molto effetto,alla gente, che nel complesso non capiva come potevamo essere amiche, con quello che era successo. Invece è possibile, loro si erano com­portati bene e io sono contrarissima a fare di tutto un fascio, quan­do si giudicano i popoli e le persone.

Com 'è stato il reinserimento? Assolutamente tranquillo, non ho avuto problemi particolari.

Certamente ho un giudizio su quello che è successo, perché è inam­missibile, come sarebbe inammissibile verso chiunque. Ma non ho subito traumi particolari, eccetto la paura provata nei due episodi che ho raccontato. Non ho neanche attraversato dolorose crisi di coscienza, come chi ha dovuto abiurare per salvarsi: la mia identità ebraica non è mai venuta meno, anche se ho dovuto vivere da cat­tolica per qualche tempo. E una volta finite le persecuzioni, a nes­suna delle persone che abbiamo incontrato è mai importato che fos­simo ebrei.

Dopo la liberazione, Graziella Viterbi ha terminato il liceo ad Assisi. Si è poi laureata in Giurisprudenza a Roma e successiva­mente si è diplomata al corso di Assistenza sociale presso la facoltà di Psicologia, sempre all'Università di Roma. Ha lavorato come redattrice del giornale di una organizzazione umanitaria israeliana e successivamente come assistente sociale per l'organizzazione americana Joint, occupandosi dell'assistenza ai profughi ebrei dell' Europa orientale.

L'intervista è stata fatta a Roma il21 novembre 2008 da Alice Giacomin, Diamante Mellano e Laura Verdi.

*

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A volte, quando siedo alla tavola del mio vecchio tinello e vedo, oltre la finestra, la vallata umbra stendersi azzurra nel sole, mi sembra quasi impossibile che tanto tempo sia passato da quando bambina sedevo alla stessa tavola e vedevo, oltre la finestra, le cime degli alberi del giardino padovano, le campanule lilla della paulonia e i mazzetti lievi dell'acacia. Anche il vecchio orologio si è fermato in un giorno sconosciuto del 1943 e da allora si è sempre rifiutato di misurare ore e minuti. Ma la tavola porta ancora i segni di molte battaglie. lo ho fatto le elementari privatamente e il mio unico amico di quegli anni è stato Mario, figlio di un collega di mio padre. Anche Mario era condannato a studiare a casa per paura delle malattie infettive. Così i miei giochi sono stati sempre da maschio. Avevo un vero esercito di soldatini e ogni pomeriggio, un giorno da lui e un gior­no da me, Mario ed io ci impegnavamo in lunghissime battaglie. Natural­mente tutti e due eravamo generali! E dato che anche i guerrieri si ripo­sano, all'ora della merenda i due generali si sedevano a tavola e divideva­no pacificamente la cioccolata calda, densa, preparata con la fecola, e i biscotti che erano invariabilmente "wafers". Mario li mangiava in modo curioso - separava una cialda dall'altra seguendo col coltellino la riga della crema o della cioccolata. Si concentrava completamente in questo lavoro e io ne ero così affascinata che mi scordavo di fare merenda.

(G. VITERBI, I "wafers" in Sapori d'infanzia, cit, pp.55-56)

QUALCHE NOTA AGGIUNTIVA

Dei due cugini di cui parla nell'intervista, Graziella Viterbi ci ha raccontato la storia nel corso di una conversazione successiva. Si chiamavano Vittorio e Roberto Ravenna e avevano 20 e 18 anni. Dopo 1'8 settembre avrebbero voluto unirsi ai partigiani, ma erano stati trattenuti dai genitori e convinti a nascondersi con loro. Un giorno, nella primavera del 1944, videro salire al paesino dell'Ap­pennino dov'erano rifugiati un gruppo di giovani che all'aspetto sembravano partigiani, e corsero loro incontro. Erano in realtà fascisti camuffati. Furono arrestati con il padre Rodolfo e deporta­ti ad Auschwitz. Il padre fu ucciso all'arrivo, i due fratelli soprav­vissero fino al gennaio del 1945. All'avvicinarsi dei russi furono eva­cuati con quasi tutti i prigionieri e avviati verso altri campi. Fu durante questa terribile "marcia della morte" che persero la vita: uno cadde sfinito lungo la strada, l'altro si fermò per aiutarlo. Furono entrambi fucilati sul posto.

Graziella parla con particolare affetto di Roberto, che era quasi suo coetaneo ed al quale era molto legata. Era, racconta, tra gli

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allievi prediletti del suo professore di Lettere al liceo di Ferrara, lo scrittore Giorgio Bassani, perché aveva grande passione per la let­teratura e amore per la poesia. Di lui Graziella ha conservato un quaderno di poesie, raccolte dalla madre, unica sopravvissuta della famiglia. Di Roberto e delle sue poesie ha scritto questo ricordo:

Mio cugino Roberto

Sono tornata a Ferrara dopo molti anni. Cammino per la città in un mite pome­riggio quasi estivo. La gente va e viene intorno a me col passo di chi non è ancora travolto dalla fretta.

Il ragazzo in bicicletta corre veloce. Me lo trovo sempre davanti - ~otto l'~r~o di un portico, nella luce grande di una piazza, tra il verde nuovo d:gh al~en dI u~ viale. I calzoni alla zuava, il ciuffo sulla fronte, sulle labbra e negh OCChI un sorn­so vago tra ribellione e dolcezza. Il ragazzo in bicicletta corre veloce, perché ha

poco tempo. .. ,. .' . Il suo tempo si è fermato quando aveva solo dIClOtt anm. Lontano dm portIC1,

dalle piazze, dai viali delle sue libere corse - nello sfinimento di una lenta marcia fra la neve dei boschi polacchi.

Eppure questo ragazzo è per me, in questa passeggiata ferrarese, più vivo dei vivi e mi riporta indietro negli anni, alle tante ore passate assieme, agli entusiasmi comuni della nostra adolescenza.

Chi sarebbe oggi mio cugino Roberto se il suo tempo non si fosse fermato così presto? Forse un poeta, come sognava allora, forse qualcos'altro. Chissà. Ma io credo che le sue poesie, poesie di un adolescente di settant'anni fa meriterebbero l'amore e il rispetto che si ha per i poeti.

Accanto a un profondo desiderio di vita, c'è in esse una profonda tristezza, un senso di morte che, nel rileggerle, mi stupisce. Dov'è il compagno delle ore allegre? Delle volate sulle montagne russe? Delle corse fra il grano? Dov'è il ragazzo in bici-

cletta? Tutto è scomparso, tutto resta vivo solo nel ricordo. E resta l'immagine, in una

sua poesia, del garzoncello d'Estremadura e l'atroce presagio:

Dietro un masso se ne stava un bandito col moschetto, che sparava in mezzo al petto al viandante che arrivava.

Oggi noi sappiamo che un soldato tedesco ha sparato in mezzo al petto al deportato ebreo Roberto Ravenna di diciott'anni che arrivava stremato da una marcia di annientamento.

E così, sono sempre parole di una sua poesia,

Cade ferita l'alata chimera, sono scuri i prati, li cieli, la mente oscure l'acque ed il trepido core.

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La poesia bruciata

Il fuoco lambisce il foglio, lo divora a poco a poco: i neri cipressi, il cielo azzurro i prati verdeggianti. È come che bruci un sogno. Di gloria? Di ambizione? La carta annerita si disperde in polvere oscura, scricchiola lieve: lieve come il pianto della speranza che muore.

Roberto Ravenna

Roberto Ravenna (Archivio privato di Graziella Viterbi)

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I LEVI MINZI

Cugini materni di Graziella Viterbi, e come lei studenti del Tito Livio, sono anche Dora e Giuseppe Levi Minzi. Giuseppe, nato nel 1923, era stato allievo del corso B, e aveva superato gli esami di idoneità alla seconda liceo nel 1939. Dora, di un anno più giova­ne, aveva frequentato il ginnasio nel corso A e successivamente aveva sostenuto gli esami di ammissione al liceo nel 1940. Poco dopo si erano trasferiti con la madre a Milano, dove Giuseppe sostenne la maturità, anticipatamente, presso la locale scuola ebraica parificata. Si iscrisse poi a Ingegneria chimica all'Univer­sità di Ginevra, dove fu raggiunto dalla madre e dalla sorella all'i­nizio della persecuzione. Rimasero in Svizzera fino alla fine della guerra.

In seguito Dora si trasferì in Israele, dove è morta una decina di anni fa. Giuseppe vive a Milano.

*

A Padova era rimasto il padre, Marcello, politicamente impe­gnato nel Partito d'Azione. Per molti anni aveva avuto un negozio di mobili, ed era stato anche Capogruppo della sezione Arreda­mento della Federazione dei commercianti, ma negli ultimi tempi, a causa delle leggi razziali, faceva il rappresentante di un mobilifi­cio di Seveso. Dopo 1'8 settembre e l'arrivo dei tedeschi dovette abbandonare la sua abitazione di via Roma lO, dove aveva conti­nuato a vivere con la madre Clotilde, di 78 anni. Per qualche tempo si trasferì a Milano, poi tornò a Padova. Da allora la fami­glia non seppe più nulla di lui, e solo dalle ricerche del dopoguer­ra conobbe le circostanze della sua fine, come vengono riportate nel Libro della memoria: arrestato a Padova il 28 luglio 1944 [pre­levato dall'ospedale civile dove era stato ricoverato per un attacco di appendicite], detenuto nel campo di S. Sabba e deportato da Trieste il 31 luglio 1944. Fu ucciso all'arrivo ad Auschwitz, il 3 agosto 1944.

L'archivio della Questura30 ci permette di ricostruire più preci­samente la sua vicenda. Marcello Levi Minzi era stato in realtà arre­stato parecchio prima, il 4 febbraio, in via Marsala 12, dove si era

30 ASPd, Archivio Questura, busta 45.

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rifugiato in casa di Maria Lazzari 31, che aveva già ospitato, dopo 1'8 settembre e fino alla fine di novembre, l'anziana madre di Marcello, prima che la figlia Regina venisse a prenderla per portarla con sé a Ferrara. Tornato da Milano, dai primi di dicembre anche Marcello aveva trovato rifugio in casa LazzarP2.

Quando venne arrestato gli fu trovata addosso, oltre a quella autentica, una carta d'identità falsa, intestata a Mario Bevilacqua, che egli dichiarò di essersi procurata fortunosamente, ma che la questura ritenne appartenente ad una serie di documenti forniti da un usciere del municipio, Alberto VeldottP3, già denunciato per

31 Maria Lazzari, nata nel 1903, di famiglia antifascista, partecipò alla lotta di liberazione, aiutando sia i partigiani e i militari sbandati ed ex prigionieri alleati, sia gli ebrei che nascon­deva nella sua casa nel ghetto di Padova. Arrestata nella primavera del 1944 e rilasciata, fu arrestata nuovamente in settembre, con la sorella, e inviata a Ravensbnlck. All'avvicinarsi dei russi, nell'aprile del 1945, il campo venne evacuato e Maria Lazzari fu avviata con le altre prigioniere verso Bergen Belsen, ma morì durante la 'marcia della morte'. Dopo la guerra le fu riconosciuta la militanza alla memoria nella Brigata Garibaldi Franco Sabatucci, con il grado di capitano e dirigente del servizio di assistenza sanitaria (cfr. Istituto nazionale per la Storia del movimento di liberazione in Italia). 32 Così la sorella di Maria Lazzari, Parisina, racconta l'arresto: "Ricordo che tra le famiglie ebree che aiutammo vi furono quelle dei Finzi, Levi, Gesses, ecc.; è passato troppo tempo per ricordare tutti i loro nomi. Marcello Levi era nascosto in casa mia [ ... ]; in seguito Marcello veniva preso dai fascisti, durante un grosso rastrellamento ordinato dai tedeschi, mentre stava per rifugiarsi sul tetto attraverso l'abbaino. Purtroppo non ha più fatto ritorno dai campi di sterminio in Germania" (Donne nella Resistenza. Testimonianze di partigiane pado­vane, a cura dell'ANPI di Padova, Milano, Zanocco, 1981, p. 85). 33 Il Veldotti, usciere 'fuori ruolo' all'ufficio anagrafe del Comune, arrestato nel novembre del '43, fu processato e condannato a tre mesi con la condizionale per furto di carte d'identità, ed immediatamente licenziato. Strana e triste storia di solitudine, quella di Alberto Veldotti, quale emerge dal suo fascicolo nell'Archivio generale del Comune di Padova. Nato a Venezia nel 1913, figlio di ignoti, era cresciuto nell'orfanotrofio di Padova fino ai vent'anni, quando aveva cominciato a lavorare come bidello nelle scuole, prima di essere assunto come preca­rio al comune. Dopo la guerra non ottenne la riassunzione, dato che il suo licenziamento era dovuto a una condanna penale per furto aggravato, anche se in suo favore erano intervenu­ti il parroco di S. Nicolò (che in una lettera lo definì "persona di lodevole onorabilità") e lo stesso vescovo Bordignon. La sua vita, già faticosa al tempo del suo arresto (nel suo fascico­lo di allora si legge: "vive solo e senza persona amica"), sembra svanire nel nulla poi. Ma il suo nome compare clamorosamente nei giornali, quando, nel quarantesimo anniversario della tragedia del Vajont, egli viene riconosciuto come l'ultima vittima di quel disastro. Scrive il "Corriere della Sera" dell'8 ottobre 2003: "Vajont, una croce in più sotto la diga. Il conteg­gio delle vittime sale a 1910. Riscritta la storia di Alberto Veldotti, ufficialmente mai morto" e nell'articolo: "Tra i morti [ ... ] manca, per esempio Alberto Veldotti, classe 1913, nato a Venezia. L'unica vittima che, a tutt'oggi, è avvolta nel mistero. Racconta Olivier [presidente del comitato per il conteggio delle vittime]:- Il suo nome spuntò nell'elenco depositato al tri­bunale dell'Aquila (dove fu celebrato il processo del Vajont) ma non fu mai trovata la prova certa del decesso. Nessun parente, nessun collega o amico si è mai fatto avanti a dare con­ferme o smentite. L'unico documento in nostro possesso proviene dall'ufficio anagrafe di Padova, ultimo comune di residenza del signor Veldotti. In esso sta scritto che il nome è stato cancellato, poiché irreperibile al censimento del 1971, con verbale 235, in quanto il cittadi­no risulterebbe scomparso nella sciagura del Vajont. Il verbo è al condizionale, e comunque

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"altri reati del genere". Marcello era già politicamente sospett034: nel suo fascicolo si trova infatti la copia di una nota, senza data, del Federale D.L. Sogli al Capo della Provincia e alla Questura: "Mi è giunta la seguente segnalazione: nella Chiesa di S. Giustina e nel Convento annesso vi si troverebbero prigionieri inglesi, già evasi dalla caserma 58° Fanteria. Mi si assicura che un po' alla volta ven­gono inviati via Conselve a Chioggia o nei paraggi per l'imbarco. Vengono riforniti di denaro e indumenti". Si trovano anche brevi note che segnalano la presenza a Padova di sospetti con cui evi­dente mente il Levi Minzi si supponeva in contatto, Renato Garbin e l'ing. Antonio Frasson.35 Dai verbali risulta che Marcello (evidente­mente già da prima sorvegliato) venne interrogato in relazione a questi contatti, e non solo: gli venne chiesto conto dei suoi sposta­menti, delle (rare) visite ricevute (che egli ricondusse esclusivamen­te ad esigenze di lavoro) e dei contatti con un frate di S. Giustina; gli contestarono di far parte del Comitato di Liberazione, ed anche di essere coinvolto nella preparazione di ordigni esplosivi usati per gli attentati incendiari che si verificavano allora in città. Marcello sostenne la sua totale estraneità e la Lazzari confermò la sua ver­sione. Alla fine venne incriminato per "falso in atto pubblico" e inviato alla Procura, con preghiera però di tenerlo in carcere a disposizione dell'Ufficio stranieri della Questura. Dopo pochi giorni di prigione, prevalendo come sempre le motivazioni razziali su quel­le penali, la Procura lo riconsegnò alla Questura perché fosse inter­nato nel campo di concentramento di VÒ.

A VÒ Marcello giunse il 19 febbraio, accompagnato da un agente al quale il direttore del campo rilasciò una 'ricevuta'. Uscì due volte.

non esiste alcun certificato di morte-" (archiviostorico.corriere.it). Fu comunque deciso di contarlo tra le vittime, e dunque ora "l'uomo del mistero", come lo definisce il "Corriere", ha almeno una tomba, nel cimitero di Fortogna. 34 Come antifascista del resto era noto da tempo: il suo nome compare infatti già nel "bando" fascista dell'autunno 1926, un manifesto che minacciava: "I qui sotto nominati individui sono invitati a scanso di più gravi provvedimenti a lasciare Padova e Provincia e possibil­mente l'Italia, dando le dimissioni da qualsiasi impiego o carica entro 48 ore dalla affissione del presente [ ... ] Passato tale termine, lo squadrismo padovano, fedele alla rivoluzione fasci­sta, non garantisce l'incolumità dei predetti". Tra i nomi elencati compare "Levi Minzi (mobi­li)" accanto ad altri ebrei e a diversi antifascisti (come il prof. Egidio Meneghettl). (C. SAO­NARA, Egidio Meneghetti ... , cit. p.37). 35 L'ing. Antonio Frasson, del Partito d'Azione, era amico di Mario Todesco, e con lui condi­vise un periodo di carcere ai Paolotti alla fine del '43. (Cfr. G. PISANI, Mario Todesco e gli stu­denti martiri della Resistenza al Tito Livio, in Mario Todesco e gli allievi caduti per la Resistenza, Liceo-Ginnasio Tito Livio, 2006, p.35).

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58 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

La prima in aprile, per essere visitato presso la clinica oculistica dell'Università, a causa di "gravi disturbi visivi". La seconda il lO luglio, quando venne portato d'urgenza all'ospedale civile di Padova per "colica appendicolare" accertata dal medico del campo. Qualche giorno dopo, il 17 luglio, i tedeschi prelevarono dal campo tutti gli internati. Marcello non c'era, e al suo posto nella lista dei 47 depor­tati da Vò compare invece, erroneamente, come abbiamo già ricor­dato, Augusto Levi Minzi. 36

Si ricongiunse agli altri poco dopo, quando, dall'ospedale di Padova dov'era ancora ricoverato sotto sorveglianza della Questura, fu portato a Trieste nella Risiera di S. Sabba, dove il gruppo pado­vano era già stato trasferito. E insieme agli altri ebrei di VÒ, con il convoglio 33T, partì per Auschwitz il 31 luglio.

36 Cfr. Parte prima. Il nome di Marcello compare anche in un "Elenco degli ebrei internati nel Campo di Concentramento Provinciale di Vo' Vecchio e di quelli che per disposizione del Ministero furono dimessi perché appartenenti a famiglia mista o di età superiore agli anni settanta" inviato dalla Questura al Commissariato gestione immobili urbani e mobili di pro­prietà ex ebraica 1'8 marzo 1944. A quella data gli ebrei internati erano 40, e 21 quelli che erano stati dimessi. (ASPd, Commissariato per la gestione dei beni di proprietà ex ebraica, busta 14, fase. lO).

l) R. PROVVEDITORATO AGLI STUDI DI PADOVA

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Per opportuna conoscenza e norma Vi comunico 11 testo della

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va all'oggetto: 1111 .Comunico che il sig, Ludwid Gorn, autore, in cOllabora"io.n8 di. Lo~e:"

\I zo Bianchi di una .Antologia' tedesca, edita' dalla Casa Zanichelh, al)pardt~te: I· t l i on può pertantc essere a o "

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R. PROVVEDITORATO AGLI STUDl DI PADOVA

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Circolari per l'applicazione del divieto di adozione di testi di autori ebrei (Archivio Tito Livio)

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Vittorio Sacerdoti a Roma nel 1944 (Archivio privato della famiglia Sacerdoti)

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Giorgio, Giancarlo e Vittorio Foà nel 1939 (Archivio privato di Rosy Angeli)

Giorgio Foà nel 1943 (Archivio privato di Rosy Angeli)

Giorgio con la madre (con il vestito a righe), i fratelli e due amiche a Porretta Terme nel 1942

(Archivio privato di Rosy Angeli)

11 necrologio sul Gazzettino (Archivio privato di Rosy Angeli)

Notifica dell'arresto della famiglia Levi (ASPd, Archivio Questura, busta 45, doc.128,

autorizzazione n. 1/2010)

La casa dei Foà in via Petrarca, come appare oggi (foto di Franco Silvestri)

PARTno FASCISTA REPU.BBLICANO FEDERAZIONE )?ROVINCIA.LE

PADOVA

Si inviano " oodesta Questura i

sQttonotati ebrei, fermati dall'Uffioio

Politioo di oodesta Federazione I

- prot. L1!VI AUGUSTO, nato " l?adova il

31/711884 già a-bitan~

te in via GiQsué Carduoo1."21 _ DE' ITALIA GIOVAmlIN.!., nata a Modena il

13/2/11il687 _ LEVI ALVISE di .!.1IgI1sto, nato a Vene.ia il

31/7/1927.

Alla QUESTtmA di

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IL crOI!:l!:ISSARIO fJllEllALE

(L.D.Sagli)

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La casa dei Levi in via Carducci 27 come appare oggi (foto di Franco Silvestri)

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Lafamiglia Ducci nel 1929 (ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

Eva bambina con il fratello Teo (ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

Eva Ducci sul terrazzo della sua casa di Padova nel 1932

(ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

Eva Ducci adolescente (ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

La casa di via Damiano Chiesa 4, oggi (i Ducci abitavano l'appartamento sotto il terrazzo) (foto di Franco Silvestri)

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Eva con Bianca Calabresi a Valdagno prima della guerra (ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

Eva e Teo Ducci nei primi anni Quaranta (ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci)

LE STORIE 59

TESTIMONIANZA DI VITTORIO SACERDOTI

Partiti in bicicletta da Padova, per passare le linee e arruolarsi a sud, si fermarono ad una fontana per lavarsi: uno sparuto gruppetto di bambini rubò loro il sapone per mangiarlo. (V. SACERDOTI, Aneddotica, in Il cammino della speranza, cit., p.144)

Nel 1938 avevo 15 anni e il primo ottobre avrei dovuto incomin­ciare la V ginnasio al Liceo Ginnasio Tito Livio a Padova, dove vive­vo con la mia famiglia: mamma, papà avvocato, e due fratelli. Tuttavia in settembre erano state promulgate le leggi razziali per cui, tra gli altri divieti, i ragazzi di "razza" ebraica non potevano più frequentare le scuole pubbliche, né gli insegnanti ebrei insegnare in tali scuole.

Devo dire che la notizia non mi ha stupito, anzi mi aspettavo qualcosa del genere: infatti già da tempo in casa si parlava della situazione: la mamma era convinta che le cose sarebbero peggiora­te, mentre papà era maggiormente fiducioso in quanto aveva com­battuto nella prima guerra mondiale ed era iscritto al fascio. Aveva torto: infatti dopo il 5 settembre non avremmo più potuto avere in casa una radio, né personale di servizio, e mio padre, avvocato, avrebbe potuto lavorare solo per clienti ebrei.

Mi ha colpito molto il non poter più frequentare la Società Canottieri, di cui tra l'altro mio nonno era socio fondatore, dove eravamo soliti andare in barca. Avevamo allora comprato una bar­chetta con la quale vogavamo lo stesso, nei dintorni della Canottieri, insieme a Bepi Yais e alla sua famiglia, creando una pic­cola ... Canottieri ebraica! Non potevamo neanche più frequentare il Casino Pedrocchi e ricordo che il Presidente si era allora dimesso per protesta: infatti molti ebrei erano stati soci.

Insomma, in generale si percepiva un forte antisemitismo, anche tra le persone conosciute. Così, tutto sommato, non mi dispiacque più di tanto non frequentare la scuola dove probabilmente sarei stato oggetto di discriminazione e di scherno. Mi sentivo anzi solle­vato perché mi seccava tornare dai miei compagni di scuola. Anche loro del resto non hanno dato peso particolare alla mia assenza o comunque non l 'hanno dimostrato.

Molti dei miei compagni e amici di allora non li avrei mai più fre-

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60 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

quentati. Molti non mi salutavano più, se li incontravo per strada. L'unico ragazzo di cui ho ricordo e che ho continuato a frequenta­re si chiamava Manfredo Cagni. La sua famiglia, nonostante tutto, mi invitava spesso in campagna, dove io e Manfredo andavamo a cavallo.

Non potendo più frequentare la scuola pubblica venni iscritto alla Scuola Ebraica di Padova, di cui conoscevo quasi tutti gli alun­ni, tra i quali ricordo il mio migliore amico: Beppino Levi Minzi, e anche alcuni professori. Fra gli altri, ebbi la fortuna di avere come professore di filosofia Adolfo Ravà, che, in seguito alle leggi, era stato cacciato dall'Università di Padova, dove insegnava Filosofia del diritto.

Mia zia aveva inoltre organizzato un dopo scuola per gli studen­ti ebrei, nel quale potevamo frequentare corsi di falegnameria e disegno (avendo come insegnante Tono Zancanaro, grande artista e antifascista convinto).

Poiché la scuola ebraica non era considerata paritaria, ogni anno mi recavo al Tito Livio per sottopormi agli esami, durante i quali noi ragazzi ebrei eravamo posizionati in fondo all'aula, separati dagli altri. Nella valutazione però ci trattavano bene, ed erano giusti nei voti. Probabilmente riconoscevano la nostra preparazione: non dimentichiamo che alla scuola ebraica insegnavano ottimi profes­sori, molti provenienti dall'università.

Nel 1941 ho sostenuto l'esame di maturità, che ho superato senza difficoltà. Subito dopo, per poter frequentare l'Università (cosa vie­tata in Italia) mi sono recato in Svizzera, a Losanna, perché allora era ancora possibile per gli ebrei lasciare l'Italia ufficialmente.

Restai in Svizzera fino al luglio del 1943, quando decisi di torna­re in Italia per le vacanze estive, sconsigliato da tutti. Non avevano tutti i torti: 1'8 settembre infatti la Germania dichiarò guerra all'Italia ed io decisi di combattere per contribuire alla liberazione dell'Italia dai fascisti e dai tedeschi e decisi di unirmi all'esercito alleato.

Il 19 settembre partii in bicicletta verso il Sud per raggiungere gli alleati.

Giunto a Ripabottoni (Campobasso), attesi con altri che il fronte, già prossimo, si avvicinasse. In questo paese fui preso dai tedeschi quale ostaggio per una mancata consegna di viveri da parte della popolazione locale. Fui messo al muro sulla piazza del paese, ma miracolosamente riuscii a fuggire.

Dopo alcuni giorni il paese di Ripabottoni fu bombardato dai tedeschi e ci furono alcune vittime fra la popolazione. Riuscii a rag-

LE STORIE 61

giungere le linee inglesi per chiedere soccorsi per i feriti. Il giorno dopo passai definitivamente le linee e mi recai a Bari.

Qualche tempo dopo a Napoli fui assunto dal O.S.S. (Office of Strategic Service) americano dove prestai servizio dal dicembre 1943 al maggio 1944.

Successivamente fui assunto come ufficiale di collegamento e informazioni dal nucleo 1 ° Italian Intelligence Liaison Unit, dipen­dente dal servizio informazioni dello Stato maggiore italiano. Fui quindi inviato, quale ufficiale di collegamento, presso reparti appar­tenenti alla 56° divisione dell'8° armata britannica.

Iniziata l'offensiva della primavera del '45 partecipai, con il bat­taglione di fanteria con cui mi trovavo, allo sbarco sulla riva occi­dentale delle valli di Comacchio. Il mio battaglione restò continua­mente in azione fino alla fine dell'offensiva che si concluse per noi con l'ingresso in Venezia.

La testimonianza è stata raccolta dalla nipote Annalia Sacerdoti

*

GIORGIO SACERDOTI

Fratello minore di Vittorio (era nato nel 1925) frequentò anche lui il ginnasio al Tito Livio nel corso B, fino alla IV. Da privatista superò gli esami di ammissione alla V ginnasio nel 1939, e alla I liceo nel 1940.

Sostenne la maturità scientifica nell'estate del 1943, ma in otto­bre, in bici, accompagnò l'amico Rodolfo Goldbacher che andava a riparare a Firenze le due materie in cui era stato rimandato. La signora Lia Sacerdoti, cognata di Giorgio, racconta che, durante il viaggio, per una caduta dalla bici rimase ferito ad un ginocchio, e che un camion di tedeschi diede a tutti e due un passaggio.

Raggiunse poi i genitori in Umbria e non poté proseguire e pas­sare le linee come il fratello, a causa della ferita al ginocchio per la quale fu poi operato a Roma.

Divenne psicanalista, fu Direttore dei Servizi Psichiatrici della Provincia di Venezia, membro della Società Psicanalitica Italiana, Direttore del Centro Veneto di Psicoanalisi che oggi porta il suo nome.

È morto nell'agosto del 2000.

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62 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

FUGA VERSO SUD

Del viaggio avventuroso compiuto da alcuni giovani ebrei pado­vani per raggiungere a sud le truppe alleate e combattere con loro, resta il resoconto steso da un altro dei partecipanti, Alberto Rietti, sulla base degli appunti presi strada facendo su un taccuino. Il dia­rio è conservato dalla famiglia e una copia mi è stata gentilmente fornita da Anna Levi, cugina dell'autore.

Si tratta di un dattiloscritto di 9 pagine, che si interrompe al ven­tiduesimo giorno di viaggio, quando ormai il gruppo era giunto da nove giorni a Ripabottoni, vicino a Campobasso, ed era rimasto bloccato nel mezzo delle linee difensive che i tedeschi avevano costi­tuito per fermare l'avanzata degli Alleati.

Del gruppo facevano parte sei giovani, dei quali Vittorio Sacerdoti, nato nel 1923, era di gran lunga il più piccolo. Gli altri erano Claudio Segrè, Salva Romano, Paolo Nissim, Alberto Rietti ed Enrico Levi.

Claudio Segrè non apparteneva al gruppo ebraico padovano; veniva da Trieste, dove era nato nel 1915, e a Padova viveva in rivie­ra Tito Livio 21 in casa di Guido Trieste, presso il quale lavorava come autista meccanico37 . Si rivelò molto utile nel corso della spe­dizione per il suo grande senso pratico e le sue notevoli competen­ze tecniche. Salva (Salvatore) Romano, nato nel 1908, commercian­te di mobili, abitava con la madre Ida Levi e la sorella Maria in via Zabarella. Dalla Questura era segnalato come ebreo "sospetto"38. Gli altri componenti del gruppo erano tutti familiari di Anna Levi: il fratello Enrico, nato nel 1918, il cognato Paolo Nissim, del 1912, il cugino Alberto Rietti, del 1915, sposato da poco con una ragazza 'ariana'. Alberto lavorava allora come impiegato alla Domenichelli (come il padre che prima delle leggi razziali era direttore dell'ACI di Padova), ma, racconta Anna, era stato allievo della scuola ufficiali di Pavia, e con il suo grado di sottotenente venne poi inserito nelle forze alleate, con le quali fu tra i primi a tornare a Padova.

Il suo diario consente di seguire giorno per giorno, tappa per tappa, tutte le fasi del viaggio. Ne riportiamo una sintesi, con qual­che precisazione sulla denominazione dei luoghi e un calcolo approssimativo delle distanze, tenendo conto dei diversi mezzi di spostamento (in bici, a piedi, in treno).

37 ASPd, Archivio Questura, busta 17, fasc. 3. 38 Ibidem, busta 47.

LE STORIE 63

Il diario inizia il 18 settembre 1943, con la narrazione dei pre­parativi, ma anche dei timori, degli ultimi dubbi, e soprattutto del­l'angoscia di Alberto a lasciare la moglie e la famiglia nella più completa incertezza del ritorno. Alle 4 del mattino del 19 settem­bre, i sei (Vittorio Sacerdoti è l'ultimo ad aggregarsi al gruppo nella zona di Treponti), a coppie e distanziati, si avviarono in bici verso Ficarolo. Lì si rifocillarono e si riposarono un po' man mano che arrivavano, poi, dopo aver preso tutte le informazioni possibili sulla dislocazione dei reparti tedeschi, ripresero il viaggio. Superarono il Po su un ponte di barche e arrivarono infine a S. Pietro in Casale, a metà strada tra Ferrara e Bologna. Dovevano essere stanchi morti, avevano pedalato per almeno 120 chilometri, tenendo conto che probabilmente evitavano le strade principali, ma non trovarono un posto dove passare la notte. Raggiunsero però nelle vicinanze una villa di conoscenti di Enrico, che li accol­sero cordialmente, dando loro da mangiare, e mettendo a disposi­zione una rimessa dove dormire. Alberto però dormì fuori: "Ricordo che avevo a lato quella notte il Salva, il quale russando in modo esagerato non mi lasciava dormire ed allora decisi di riposarmi un po' in una macchina che era nel cortile della villa, e là difatti mi addormentai" (p.2).

Il giorno seguente, 20 settembre, percorsero in bici un altro cen­tinaio di chilometri per raggiungere la meta successiva, S. Pietro in Trento, frazione di Ravenna. Questa seconda tappa fu ostacolata dal maltempo ("tirava un vento contrario indiavolato") e dagli incon­tri sempre più frequenti e allarmanti con camion tedeschi, mentre si manifestava il primo cedimento di Paolo Nissim, che venne però sostenuto dai compagni e convinto a proseguire. A S. Pietro in Trento furono accolti bene: "Nel paese che è più un piccolo rag­gruppamento di case che un villaggio, ci fecero grandi accoglienz~ perché sapevano che scappavamo in direzione sud. Ricordo che glI abitanti facevano proprio una vera gara per rendersi utili, tanto è vero che io e Vittorio dormimmo in una casa molto pulita, con letti e biancheria nuova ... " (p.2).

Il terzo giorno, martedì 21 settembre, ripartirono "dopo aver ela­borato un vero piano strategico per sfuggire ai tedeschi che si tro­vavano ora molto più di frequente"; arrivarono, alle 16 del pome­riggio, a Coriano, vicino a Riccione, coprendo una distanza che, cal­colata su strade provinciali, risulta di circa 75 chilometri. La situa­zione cominciava a farsi preoccupante e i sei amici si trovarono a discutere sull'itinerario e i mezzi con cui proseguire il viaggio. Per

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64 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

valutare la possibilità di noleggiare un'imbarcazione e cercare di raggiungere via mare il territorio liberato, Enrico e Salva andarono la sera stessa a Riccione, mentre gli altri quattro si adattarono a dormire alla bell'e meglio nell'unica stanza ad un solo letto che erano riusciti a trovare. Nel paese girava anche la voce che i tede­schi avevano occupato San Marino, precludendo quella possibilità di salvezza.

Verso il mezzogiorno del giorno successivo Enrico e Salva torna­rono da Riccione (dove avevano pernottato presso l'albergo Principe), con una nuova proposta: lasciare le biciclette presso la casa del proprietario dell'albergo, "un certo Gennari" (con cui ave­vano fatto conoscenza e che desiderava unirsi al gruppo) e prose­guire il viaggio in treno. Benché nettamente contrario alla proposta, Alberto alla fine si adeguò al parere favorevole della maggioranza, così si trasferirono tutti a Riccione, all'albergo Principe. "Nel paese vi era una quantità enorme di tedeschi che si dirigevano tutti verso Nord, credemmo si trattasse di un ripiegamento in massa verso nuove posizioni". Purtroppo dovettero ben presto ricredersi.

La sera del 23 settembre, partirono dunque in treno da Riccione per Ancona, dopo aver acquistato delle valigie "per darci un po' l'aria di viaggiatori comuni" (pA) ed essersi procurati biglietti per destinazioni diverse. Giunti ad Ancona alle Il di sera, dovettero aspettare quattro ore, e lì, in una stazione piena di tedeschi, ebbe­ro la percezione della gravità della situazione "dalla valanga di gente che quasi inebetita" giungeva da Pescara e scappava verso Roma. "Noi invece andavamo verso l'ignoto". Il loro viaggio verso Pescara si interruppe a Silvi, dove giunsero alle 7.30 del mattino: "Il treno non proseguiva oltre perché gli alleati avevano bombardato Pescara e la linea ferroviaria era distrutta. Durante questa seconda parte vede­vamo sulla litoranea adriatica molte truppe tedesche accampate e vigilanti come aspettassero uno sbarco da un momento all'altro, noi scrutavamo il mare cercando di vedere alle prime luci dell'alba una flotta alleata. Purtroppo inutilmente" (pA).

Da qui in poi i sette (con il Gennari che si era aggregato), senza le biciclette e con i collegamenti ferroviari saltati, dovettero proce­dere per lo più a piedi e con mezzi di fortuna, sotto la minaccia di una presenza sempre più massiccia di tedeschi: "Ricordo che vede­vamo sulla strada traffico di automezzi in entrambe le direzioni e soltanto allora capimmo che i tedeschi non erano in ritirata, ma stavano organizzando, non sapevamo dove, una linea di resisten­za". Abbandonate le valigie e rimessi gli zaini in spalla, ripresero

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comunque la marcia verso sud, fermandosi a pernottare, quella sera del 24 settembre, ad una quindicina di chilometri da Pescara a Villanova (frazione di Cepagatti), presso una accogliente casa di contadini.

Il giorno seguente passarono il fiume Pescara, impresa pericolo­sa dato che i tedeschi presidiavano i ponti e controllavano tutti i borghesi. Provarono con una barca, ma nonostante la perizia di Enrico, esperto marinaio [aveva frequentato il collegio navale a Venezia], dovettero rinunciare perché il fiume era in piena. Riuscirono comunque ad attraversare un ponte, eludendo la sorve­glianza tedesca, e giunsero alla stazione di Chieti. Lì Paolo Nissim decise di rinunciare e tornare a casa "perché stanco fisicamente e demoralizzato", scrive Alberto, ed anche, pensiamo, perché preoc­cupato delle sorti della figlioletta di quattro anni, del1a moglie (che era incinta) e degli altri familiari, ai quale si ricongiungerà, condi­videndo con loro la clandestinità. Egli prese dunque il treno per Roma, mentre gli altri, probabilmente con un trenino locale, giun­sero in serata a Mancini (presso S. Vito Chietino), a 40 chilometri circa da Chieti. È qui che accadde il furto del sapone, ricordato, come abbiamo visto, anche da Vittorio Sacerdoti: "durante illavag­gio solito serotino Enrico e Vittorio da fessi si fanno grattare due bei saponi con nostro grande dispiacere". Il giorno dopo Vittorio ci rica­scò, e fece finire nel pozzo "un bel sapone di Salva. È il solito", com­menta Alberto. Ed il sapone era veramente importante, per l'igiene di questi giovani che dormivano vestiti (si spogliavano solo per lavarsi), spesso in capanne e in condizioni sempre più di disagio ed anche di estrema sporcizia.

Domenica 26 si incamminarono sotto la pioggia, e verso sera giunsero a Filetto, vicino a Orsogna, dove si ripararono per la notte in una capanna. Solo nel pomeriggio avevano trovato da rifocillarsi presso una casa colonica, ma capitava che si dovessero acconten­tare della frutta che trovavano, fichi e uva, "con le relative conse­guenze". Per il gran camminare (da Mancini a Filetto per sentieri sono circa 28 chilometri) Vittorio ha le vesciche ai piedi, "ma si fa forza e prosegue" (p.5). Crescendo la drammaticità, la narrazione si attualizza al presente:

Lunedì 27 alle ore 9.30 s'incontrano due prigionieri inglesi. Fuggono anche loro come noi verso la liberazione. Alle ore 11.30 si parte in trenino per Atessa e si arri­va alle 14. Troviamo una lurida trattoria ove fra risa e bestemmie si mangia molto male. Cerchiamo un carro per andare a Castiglione M.M. [Castiglione Messer Marino, in provincia di Chieti], lo troviamo e alle 18 partiamo su una carretta mili-

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tare trainata da un mulo. Alle 19 arriviamo a Tornareccio ove mangiamo pasta e maiale. Alle 21 proseguiamo con un tempo pessimo, vento e raffiche di pioggia. Di tanto in tanto scendiamo per alleggerire il mulo, Claudio ha molta paura anche perché il percorso è fra montagne e teme da un momento all'altro di vedere appa­rire i tedeschi. Il delinquente del conducente ci lascia a km. 5 dalla meta. Sono le due di notte, freddo e vento, siamo a 1000 metri di altezza. Ci stendiamo sopra un prato presso un ruscello. Dopo un'Qra ci svegliamo fra raffiche di vento e pioggia. Ci dirigiamo scocciatissimi verso Castiglione ove giungiamo alle 5 del mattino. Siamo già a martedì 28 settembre. Troviamo ospitalità per merito di Enrico pres­so lo spazzino capo del loco. Ricordo che la casa sembrava un letamaio ma era pur sempre un riparo dalla pioggia e per questo a noi sembrò di ave; trovato l'araba fenice. Ci asciughiamo e beviamo il tè. Alle 7, dopo aver cercato invano un alloggio, partiamo sotto violenta pioggia per Schiavi d'Abruzzo. Siamo a 1500 metri di altezza e, data la stagione inoltrata, il freddo si fa sentire. Alle lO giungiamo al paese mentre in lontananza sentiamo il tuonare del cannone e scorgiamo molti aeroplani che bombardano le linee tedesche. Siamo vicino alla meta ma i pericoli aumentano di minuto in minuto, riusciremo a raggiungere le linee alleate? (p.6)

Quanta strada avevano percorso? Calcolando approssimativa­mente il tragitto, da dove li aveva lasciati la carretta avevano fatto 5 chilometri per arrivare a Castiglione, altri 8,5 per andare a Schiavi, e ne percorreranno ancora almeno 17 lo stesso giorno per giungere, alle quattro del pomeriggio, a Trivento, dove ricevono "grandi, fraterne, commoventi accoglienze della popolazione che a gara vuole ospitarci". Si recano anche in visita dal vescovo, ove ritornano di nuovo la sera e ancora il giorno e la sera successive, anche per ascoltare Radio Londra e avere informazioni sull'avanza­mento delle linee alleate. Al vescovo portano un'offerta di 100 lire, ma durante una delle visite, scrive Alberto, "abbiamo fatto due gaffe: Bruno [probabilmente il Gennari] tirò due bestemmie e Salva elogia Benedetto Croce" (p.7). Nonostante l'entusiasmo (" Mercoledì 29 settembre dopo una dormita di 12 ore ci alziamo alle 9.30. Siamo pieni di pulci e cimici comunque il morale è altissimo, sen­tiamo l'odore della libertà") sono incerti sul da farsi, dato che arri­vano notizie contraddittorie sulla possibilità di passare le linee tedesche. Il paese è ripetutamente rastrellato dai tedeschi, e si sen­tono in continuazione spari e cannonate. Decidono alla fine di pro­seguire e la mattina di venerdì 1 ottobre, alle 7, si incamminano di nuovo verso sud accompagnati per un lungo tratto da un giovane del posto. Percorrono sentieri di montagna, con diversa fatica: Vittorio si è ristabilito, ma Bruno arranca un po' e "ansa come un mantice", mentre Alberto si sente nel suo elemento e "fila che è un piacere. Tutti sappiamo che la nostra salvezza è esclusivamente basata sulla resistenza delle nostre gambe non disgiunta anche da

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buon senso e da una certa discreta dose di fortuna" (p. 7). La popo­lazione li aiuta, ma i pericoli si intensificano:

Avvistiamo molti aerei. Si odono sempre più vicini i bombardamenti. Passiamo un fiume [il Biferno] a dorso di un asino. Incontriamo tre prigionieri inglesi che seguono presso a poco il nostro tragitto. Dal paese di Morrone i tedeschi coi can­nocchiali ci seguono. Vediamo le loro mitragliatrici seguire la traiettoria del nostro percorso, siamo forse perduti. Corriamo a zig-zag, ci mettiamo dietro un mucchio di paglia ed attendiamo gli eventi. Niente succede, piano piano con molta cautela proseguiamo il cammino. (p.7)

Alle sette di sera giungono in un casolare nei pressi di Ripabottoni e vengono ospitati dai contadini in una specie di picco­la 'isba'. Piove, Vittorio si sente male, non mangia e vomita, sono tutti stanchissimi, anche quel giorno hanno camminato per alme­no trenta chilometri fra mille insidie.

Lì si fermano, senza poter procedere, bloccati dai furiosi bom­bardamenti sempre più vicini e dalla mancanza di notizie, ed espo­sti alla continua minaccia dei tedeschi: "Siamo ancora una volta incerti sul da farsi, alcuni individui che tentavano di forzare le linee sono rimasti uccisi, d'altro canto rimanere lì vuoI dire fare la fine del topo perché i tedeschi battono la campagna rastrellando tutti gli uomini" (p.8). Vivono in condizioni precarie ("per la cronaca segna­lo che mangiamo la pasta asciutta nel catino dove ci laviamo e tutti abbrancano la pasta con i mezzi più svariati") in mezzo al fango "che è un po' dappertutto", e tormentati dalle pulci. Unici sposta­menti sono le "audaci puntate" di Salva e Alberto a Morrone (a meno di 5 chilometri), rispettivamente il 2 e il 3 ottobre, per avere notizie da Radio Londra. Vengono così a sapere che a Morrone "si trovano otto autotreni tedeschi carichi di munizioni. Il paese è in subbuglio, se gli aeroplani alleati bombardassero, tutto il paese sal­terebbe in aria"). Lunedì 4 ottobre si trasferiscono nel centro di Ripabottoni, alloggiando in case diverse. Decidono anche di non proseguire: "Molta incertezza sul da farsi. Dobbiamo forzare le linee o attendere gli inglesi? Tutt'e due le soluzioni portano rischi gravi, dopo molte discussioni provvediamo per la seconda". Costretti all'i­nattività, alleviano la tensione giocando a battaglia navale tra loro e a poker con altri giovani del luogo, in un'alternanza di ottimismo sul prossimo futuro ("La fortuna ci è benigna finora, siamo ancora salvi e gli Alleati sono vicini, le notizie sulla loro avanzata si susse­guono di ora in ora, sono sbarcati a Termoli, hanno occupato Casa­calenda, sono a 20 km. da noi", martedì 5 ottobre, p. 9) e di ango-

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scia per l'immediato presente. Si susseguono infatti i bombarda­menti e le mitragliate degli aerei che percorrono il cielo a bassa quota, ma soprattutto incombono "sempre più villani e prepotenti" i tedeschi, che intensificano le loro incursioni nel paese. Scrive Alberto, alla data di mercoledì 6: "Vogliono mangiare, portano via tutto, la popolazione per non farsi ammazzare racimola viveri e con­segna tutto quello che può, ma le scorte avranno un termine, cosa succederà quando non potranno più consegnare niente? Pensiamo di organizzare delle bande per difenderci da questi barbari, abbia­mo soltanto pochi fucili da caccia e qualche bomba a mano, i cara­binieri sono fuggiti, il podestà si oppone cercando invece di venire a patto con i tedeschi, è veramente un uomo in gamba". Sarà pro­prio il podestà a salvare Alberto nel tardo pomeriggio di quel 6 otto­bre, quando accade al nostro gruppo il fatto forse più drammatico, con il rischio di fucilazione e di linciaggio per alcuni di loro: "Vittorio e Claudio sono messi al muro per essere passati per le armi. Con mosse fulminee le vittime fuggono, Claudio viene sfiora­to da una pallottola e si pone in salvo, Vittorio approfittando della confusione riesce a fuggire. Il presunto ferito viene ricercato. Brindiamo con acqua allo scampato pericolo degli amici. Alberto viene sfiorato per caso in un vicolo da un tedesco ubriaco, la popo­lazione lo crede una spia tedesca e vuole fargli la pelle. Dopo molto discutere il podestà riesce a convincere la folla che la presunta spia è invece scappata dall'Alta Italia per passare le linee".

N elle ultime righe del diario si registra, per i giorni 7 e 8 ottobre la paura costante di essere presi dai tedeschi che setacciano il paese a intervalli brevissimi: "Il pericolo aumenta, si dice che vogliono prendere tutti i giovani, noi cerchiamo d'imboscarci come meglio possiamo: Claudio, Vittorio e Alberto si trasferiscono di alloggio". All'ultimo giorno, sabato 9 ottobre, sono riservate le ulti­me tre righe della pagina, con l'annotazione che Salva, Enrico e Vittorio iniziano alle 18 il kippur e l'attacco di una frase "Buone notizie ... " che rimane interrotta.

Come sappiamo dalla testimonianza di Vittorio Sacerdoti, pochi giorni dopo il paesino fu bombardato, e subito dopo arrivarono le truppe inglesi. Il gruppo poté così finalmente unirsi all'esercito alleato, ed essere arruolato nell'VIII Armata inglese.

Nell'ultima parte del viaggio i giovani padovani si erano trovati ad attraversare la zona dell'Italia centrale dove i tedeschi, dopo 1'8

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settembre, stavano allestendo la linea difensiva Gustav e i suoi avamposti più a sud, le linee Barbara e Viktor, distanziate una quindicina di chilometri l'una dall' altra. Ripabottoni si trova pro­prio a ridosso di quella che era in quel momento la linea del fron­te, la Viktor, o linea del Volturno, la più meridionale, che da Termoli, seguendo il corso del Biferno e passando appena sopra Campobasso, continuava sull'Appennino fino alla foce del Volturno. Questa linea fu sfondata dagli Alleati agli inizi di ottobre del '43, sul versante adriatico con lo sbarco, all'alba del 3, dell' VIII Armata britannica di Montgomery a Termoli, e qualche giorno dopo, sul versante tirrenico, dall'attacco della V Armata america­na del generale Clark. Il 12 ottobre il feldmaresciallo Kesselring ordinò la ritirata: i tedeschi ripiegarono sulla linea Barbara (che correva da Colle al Volturno a San Salvo), dove resistettero fino alla fine di ottobre, quando furono costretti a risalire di altri 15 chilo­metri circa, attestandosi sulla linea Gustav. Lì resteranno fino alla primavera del '44.

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La linea del Volturno Ripabottoni si trova lO km. circa sotto Casacalenda

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IL PARCO TRIESTE

Del "doposcuola" ricordato da Vittorio Sacerdoti, con Tono Zancanaro come maestro d'arte, ci ha parlato anche Anna Levi. Anche lei ricorda i pomeriggi (uno o due la settimana), passati nel giardino della grande casa di corso Vittorio Emanuele che dava su Piazzale S. Croce (ribattezzata piazza Italo Balbo dal 1940 al 1945), dove Celina Trieste, zia materna di Vittorio, convinta che ai ragazzi ebrei, in quel difficile momento, convenisse anche imparare un mestiere, aveva organizzato corsi di falegnameria, di sartoria, e di altre attività manuali. Celina era laureata in Lettere, ma aveva anche talento artistico e una buona manualità: Anna conserva ancora nella sua casa di Milano il cestino da lavoro che Celina aveva decorato e aveva donato a fine anno ad ognuna delle allieve. E quei pomeriggi erano poi allietati dai dolci fatti in casa, che offri­va ai ragazzi, nel grande, bellissimo parco dove, ricorda ancora Anna, i giovani della famiglia andavano a cavallo.

Celina Trieste venne arrestata a Venezia nel marzo del 1944 e internata nella Risiera di S. Sabba, dove, in ottobre, fu uccisa dai tedeschi. Aveva 38 anni.

*

Il parco Trieste, che si estendeva per circa 45.000 mq nella zona tra piazza S. Croce, corso Vittorio Emanuele II e il Bacchiglione, era uno dei luoghi più belli di Padova, un gioiello architettonico, espro­priato e distrutto alla fine della guerra dopo una serie di vicende che sono attestate da alcuni documenti d'archivio e che vale la pena di raccontare brevemente. Un documento che ricostruisce sinteti­camente la storia del parco è il ricorso contro l'esproprio presenta­to nel 1947 dall'avvocato Gilberto Sacerdoti per conto del proprie­tario, Eugenio Trieste (del quale era anche genero). Così egli descri­ve il parco: "Costituiva un magnifico complesso, di alto valore arti­stico, capolavoro dell'architetto Jappelli (1850), la cui geniale con­cezione artistica mirabilmente secondata poi dagli sviluppi natura­li, si rivelava nella sapiente disposizione delle masse e degli spazi alberati (complessivamente oltre ottocento piante ormai quasi seco­lari) e delle zone scoperte, e particolarmente nel rispetto di un ampio prato centrale, completamente libero da alberature. L'insieme era completato dal viale corrente, lungo il margine meri-

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dionale e orientale del parco, sugli antichi bastioni prospicienti il fiume Bacchiglione, con una vasta rotonda panoramica; da un ameno laghetto artificiale, situato in margine al prato, ed alimenta­to in virtù di regolare concessione, da una presa d'acqua del Bacchiglione, con corrispondente apposito scarico all'estremità opposta dell'immobile e da un'ampia costruzione, abitata dalla famiglia"39. Per il suo valore il parco era anche stato sottoposto dalle Belle Arti a vincolo come "cosa di notevole interesse artistico".

Questa proprietà era stata inclusa nel piano regolatore cittadino ideato dall'architetto Gino Peressutti e approvato nel 1922. Il piano prevedeva la risistemazione del centro e il risanamento del quartie­re Vanzo, allora malsano e acquitrinoso, dove sarebbe dovuta sor­gere una nuova zona residenziale, anche per smistarvi gli abitanti allontanati dal centro storico. Il Parco Trieste, limitrofo a questo nuovo quartiere, doveva essere espropriato e destinato a "parco ad uso pubblico senza trasformazione alcuna". L'intento era infatti, come si legge nella Relazione tecnica del piano per la sistemazione dei due quartieri centrali, quello di creare un "quartiere Giardino che nel suo completo futuro sviluppo costituisca un'altra, impor­tante parte della modernissima Padova, a sussidio del centro, per abitazioni di quiete e di riposo, in sistema col resto della vita citta­dina, ma separato dalla vita intensa dei traffici e del commercio caratteristica dei centri moderni",

I Trieste non si opposero all'esproprio. "Il proprietario, apprez­zando la bontà del progetto nei riguardi del pubblico interesse, e desiderando - in un momento in cui il Comune compiva un enor­me sforzo per l'abbellimento e la sistemazione cittadina - di com­piere a sua volta un gesto di alto civismo, si astenne dal fare, come avrebbe potuto, alcuna opposizione"4o.

39 ASPd, Conservatoria dei registri immobiliari anno 1947, atto n. 4892/4385. "Avanti il Consiglio di Stato, Roma. Ricorso dell'ing. Eugenio Trieste, fu Giacobbe, di Padova e per esso del suo procuratore generale ad negotia avv. Gilberto Sacerdoti contro il Prefetto della Provincia e il Comune di Padova per l'annullamento del decreto prefettizio 24 luglio 1947, n. 23945 div. IV, espropriazione Parco Trieste", p. 3-4. Questo documento mi è stato gentil­mente segnalato da Claudio Grandis. 40 Ibidem, p.S. Un riconoscimento del senso civico di Eugenio Trieste era venuto addirittu­ra dal questore di Padova, agli inizi del 1939, nella sua relazione al prefetto in merito alla richiesta di discriminazione. Eugenio Trieste non poteva avere, per ragioni di età (era nato nel 1865), le benemerenze militari prescritte, e non aveva quelle politiche, non essendo nem­meno iscritto al partito fascista, tuttavia il questore espresse parere favorevole all'accogli­mento dell'istanza di discriminazione, proprio in considerazione dei meriti civili del richie­dente e della sua famiglia (la discriminazione non venne però concessa): "Durante la guerra

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Allora però non se ne fece nulla; negli anni che seguirono l'amministrazione comunale preferì infatti dedicarsi solo allo sven­tramento e rifacimento, secondo i nuovi canoni fascisti, del centro storico, operazione tra l'altro ben più redditizia sul piano specula­tivo.

Vennero intanto le leggi razziali e i Trieste persero il pieno con­trollo della loro proprietà, che, come tutte le proprietà ebraiche fu prima requisita, poi confiscata. Ma il vasto parco ai margini del cen­tro storico attirava le mire degli speculatori. Il piano regolatore ori­ginario fu stravolto da una deliberazione podestarile del 7 giugno 1943 che rese edificabile più di metà dell'area del parco, a vantag­gio di uno speculatore privato, che in cambio si impegnava a paga­re l'indennità di esproprio. Fu l'intervento della Sovrintendenza alle Belle Arti e del Genio Civile a bloccare allora, e far rinviare almeno a guerra finita, la realizzazione di questo accordo.

Durante l'occupazione tedesca il parco fu sottoposto a saccheggi sistematici. Un abbattimento arbitrario, e sospetto, degli alberi è denunciato al capo della Provincia dall'ingegner Secondo Polazzo, commissario per la gestione dei beni ex ebraici, il 16 ottobre del 1944:

Vi informo che l'impresa Calore addetta ai lavori per l'apprestamento difensivo della città ha iniziato l'abbattimento di piante nel parco Trieste, dichiarato parco nazionale.

Credo trattarsi di arbitrio perché l'abbattimento non si limita alla necessità delle opere da eseguire, ma si estende a pretese necessità di mascheramenti da

europea, unitamente alla moglie Corinaldi co. Benedetta, qui deceduta nel 1927, cooperò attivamente a favore della Croce Rossa Italiana, elargendo anche somme in denaro per i figli richiamati alle armi. Possiede nei comuni di Campodarsego e Vigodarzere circa 23 ettari di terreno ed i relativi affittuali sono sempre stati beneficiati ed anche recentemente è stata loro abbonata la somma di <B 90.000 per fitti arretrati. Nel 1939 donò ai frati cappuccini di Padova un discreto appezzamento di terra. Ha dato il suo contributo, in misura delle sue disponibi­lità economiche, a favore delle organizzazioni del Regime e durante l'assedio economico offer­se alla locale federazione fascista un discreto quantitativo d'oro e d'argento. Ha inoltre elar­gito somme in denaro a beneficio delle chiese e di pie istituzioni locali e ceduto un titolo di rendita nominale di lire 1000 all'erario dello Stato. Proviene da antica e distinta famiglia di ferventi patrioti ed i suoi nonni paterno e materno svolsero attiva propaganda patriottica per l'indipendenza e l'unità d'Italia. Risulta che per tale motivo i predetti erano perseguitati dalle autorità austriache. Anche suo padre, qui deceduto nel 1880, era animato da alti sentimen­ti di italianità ed acquisì particolari benemerenze civili". Positivo il giudizio sulle tre figlie, Nina (sposata all'avvocato Gilberto Sacerdoti), Emma e Celina, anch'esse "di buona condot­ta morale e politica". Della più giovane, Celina, oltre alla laurea si ricorda anche che aveva conseguito "vari diplomi di premi in concorsi di avicultura e coniglicultura". Nel verbale di "denuncia della razza" del 1942 Eugenio Trieste viene definito infermo e assistito dalla figlia Celina. (ASPd, Archivio Questura, b.49).

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eseguire lontani dal posto: per i quali si potrebbe trovare legname in posti più adatti, rispettando il parco nazionale.

Difficile riesce inoltre controllare se la legna tagliata va effettivamente alla destinazione dei lavori predetti e non serva invece per uso privato.

Vi preghiamo pertanto di fare disposizioni perché dal parco nazionale ex Trieste il taglio si limitasse ai lavori da eseguire nel parco e che nessun asporto di legna sia consentito.41

Poco dopo, nel durissimo inverno successivo la popolazione prese d'assalto il parco per procurarsi legna da ardere. La distru­zione della "magnifica alberatura" è ricordata da11'avv. Sacerdoti nel suo ricorso, ma soprattutto è testimoniata dagli inutili appelli con i quali l'amministratore, Ettore Valdemarca, si era rivolto alle auto­rità perché intervenissero a frenare lo scempio. Le sue denunce hanno alla fine un tono di esasperata impotenza, come risulta da una raccomandata del 4 febbraio 1945, indirizzata proprio al Commissario per la gestione dei beni ex ebraici che poco tempo prima aveva a sua volta lamentato il saccheggio:

Come ebbi in precedenza a notificarvi, dopo una sosta di alcuni giorni viene ora ripresa con un crescendo impressionante la distruzione totale di tutte le piante, nessuna esclusa, esistenti nel parco della villa Trieste di piazza Italo Balbo 12.

Nessun richiamo vale a trattenere le ondate di popolo che, munite di seghe ed ascie, tagliano, sradicano ed abbattono piante intere asportandole con carri trai­nati anche da cavalli, senza contare quelli innumerevoli sospinti a mano. Escono dal lato nord del parco senza passare per l'ingresso principale che dà sul piazzale

L Balbo. Ebbi ad interessare la Milizia Forestale che si dichiarò impotente ad arginare

l'afflusso di tanta gente. Così pure la Brigata nera intervenuta, in seguito a mio richiamo, a nulla

approdò. La Questura intervenne pure, ma non appena gli agenti, dopo breve sosta,

ebbero lasciato il parco, gli spogliatori ritornavano a compiere l'opera di distruzio­ne e di asporto.

La mia presenza di tutti i giorni a nulla serve se non affiancata ed appoggiata da chi può avere l'autorità di far cessare tale abominevole stato di cose che ha compromesso l'integrità di uno dei più artistici e preziosi parchi della nostra città.

Tanto mi sento in dovere di notificarvi nella speranza che il vostro interessa­mento possa giungere in tempo a salvare quel poco che ancora rimane.

42

41 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni immobili e mobili di proprietà ex ebraica, busta 12, fasc.7. 42 Commissariato per la gestione dei beni immobili e mobili di proprietà ex ebraica, busta 13, fascicolo 8. Si conservano anche brevi verbali dai quali risulta che ladri sorpresi a fare legna nel parco furono assolti "trattandosi di povera gente".

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74 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Alla fine della guerra fu restituita alla famiglia una proprietà che nulla più aveva dell'antico splendore. Delle ottocento piante rare e secolari non ne rimanevano che una quarantina: "Il già famoso Parco Trieste aveva cessato di esistere: e al suo posto [ ... ] vi è ora una vasta area nuda di terreno, in mezzo alla quale si conserva tut­tora, con la sua presa e il relativo scarico, il piccolo lago, che il difet­to di manutenzione durante gli ultimi anni di guerra ha lasciato qua e là inerbare. Era diventato così un'area suscettibile di sfrutta­mento edilizio e di speculazione privata"43.

Il proprietario, già molto anziano e infermo e dolorosamente col­pito dalle leggi razziali con la deportazione e la morte della figlia, e i suoi familiari, appena rientrati dopo la fuga e la clandestinità, dovettero anche subire, subito dopo, il primo assalto di un furore edilizio (quale fu quella del dopoguerra a Padova) che si macchiò di gravissimi scempi urbanistici, in nome di una dubbia e malintesa "modernizzazione". Venuto meno il vincolo artistico, non solo il parco ma l'intera proprietà, inclusa la grande casa di tre piani e 33 stanze che era la residenza di famiglia, fu sottoposta ad esproprio in vista di un progetto di edificazione che di verde non prevedeva più che un comune giardinetto pubblico. Invano il Trieste propose la cessione gratuita al Comune di più di metà della proprietà, pur di conservare la disponibilità del terreno rimanente e della casa, offrendosi anche di pagare le spese di ripristino e di sistemazione secondo la nuova destinazione. Il 2 luglio 1947 una tormentata seduta del Consiglio comunale (a capo del quale si era da poco inse­diato il sindaco Crescente) approvò il decreto di espropriazione, senza nemmeno ridefinire, allora, le condizioni dell'esproprio. A beneficiarne fu lo speculatore che già si era accordato con l'ammi­nistrazione fascista quattro anni prima, e che con questo nuovo decreto fu autorizzato a disporre di un'area fabbricabile divenuta molto più vasta. Il decreto sarebbe diventato esecutivo non appena egli avesse depositato per i Trieste l'indennità d'esproprio calcolata più di vent'anni prima, nel 1925.

Fu lì che venne costruita, negli anni Cinquanta, "Città giardino".

43ASPd, Conservatoria dei registri immobiliari anno 1947, atto n. 4892/4385, cit., p. 9.

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RODOLFO GOLDBACHER

Rodolfo Goldbacher nasce a Padova nel luglio del 1925 da Alberto e da Aurora Tali1lo.

Il padre era giunto a Padova nel 1919 da Verona per ricoprire il ruolo di Dirigente della società elettrica SADE e di professore inca­ricato di Elettrotecnica all'Università di Padova.

Rodolfo conduce una vita serena, nella famiglia che era agiata ma che non esibiva sfarzi di alcun genere.

Le leggi razziali del '38 lo colgono tredicenne alla vigilia del liceo.

Non ho mai saputo che fosse iscritto al Liceo Classico Tito Livio, so che ha frequentato la scuola privata ebraica diretta da mio nonno Alberto, dove insegnavano i migliori professori anche uni­versitari, anche essi espulsi dalle scuole. Probabilmente veniva a dare gli esami alla fine di ogni anno scolastico. So solo che Rodolfo, con l'amico Giorgio Sacerdoti, si reca in bicicletta a Firenze a otto­bre del 1943 per rimediare a due materie in cui era risultato insuf­ficiente agli esami di maturità.

Gli esaminatori si complimentarono con i due ragazzi per il coraggio avuto presentandosi e Rodolfo fu promosso.

Tornato a Padova, si trovò immediatamente costretto a fuggire a piedi e in bicicletta verso il sud, nel tentativo di superare le linee, dopo che, impotente, aveva visto deportare verso Auschwitz il padre (da parte di italiani).

Durante la fuga, assieme a mio padre, fu arrestato da militi repubblichini che minacciarono di ammazzarli, perché sicuramen­te erano soldati renitenti alla leva oppure ebrei. Dopo una breve trattativa, in cambio di una busta di tabacco, i soldati permisero loro di proseguire la fuga, salvo intimargli l'alt forse cento metri dopo ... per chiedere se avessero anche le cartine per fare le siga­rette. Rodolfo, che non era un maratoneta, mi disse che attaccaro­no a correre senza mai voltarsi indietro.

Rodolfo trovò riparo presso dei pastori in Abruzzo, fino al momento di potersi recare a Napoli, ormai liberata.

Mio padre trovò un incarico per la distribuzione degli aiuti ame­ricani alla popolazione e Rodolfo faceva da interprete, sfruttando la sua conoscenza della lingua inglese. Ma erano tali i furti che subi­vano che, ben presto, temendo per la loro pelle, rinunciarono carico.

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Ritornato a Padova, Rodolfo, ormai ventenne, trova una famiglia distrutta. Ogni tanto giungevano relitti umani dai campi, qualche frammentaria notizia, ma di suo padre nulla. Si iscrive alla facoltà di medicina ma, dovendo lavorare, presto ci rinuncia. Prova con Economia e commercio, senza migliori risultati. Ormai sta lavoran­do a tempo pieno per aziende ortofrutticole della Romagna che esportano in Inghilterra.

Il figlio della buona borghesia adesso dorme in un sottoscala di Cesena e, con permessi di tre mesi, si reca a Londra sempre più spesso. Non era consentito stare in Inghilterra più di tre mesi senza avere la residenza.

Erano tempi in cui gli italiani a Londra erano guardati con distacco e sospetto, ma Rodolfo sa mantenere, nonostante tutte le prove a cui la vita lo aveva sottoposto e il lavoro nel mercato (luogo non certo altolocato), la sua grande dignità. Sicuramente gli inse­gnamenti familiari e la cultura hanno èontribuito. Proprio ed esclu­sivamente per la sua signorilità, nel 1959 sposa Fiona, una ragaz­za di famiglia borghese di origini neozelandesi.

Ha due figli, Sandra, una affermata regista, e Alberto che conti­nuerà il lavoro del padre.

Residente stabilmente a Londra, riesce ad acquistare una villet­ta a East Finchely, rione residenziale della buona borghesia ebrai­ca, dove lui, italiano, riesce a farsi ben volere.

L'8 dicembre 2001 muore in seguito ad un infarto.

Testimonianza del nipote Franco Sacerdoti

*

Il padre di Rodolfo, l'ingegner Alberto Goldbacher, docente uni­versitario, fu, come abbiamo già visto, direttore della SADE di Padova negli anni in cui fu realizzata l'elettrificazione della città.

Catturato, fu tra i primi quindici ebrei ad essere internati nel campo di VÒ il giorno stesso della sua apertura, il 3 dicembre del 1943. Liberato 1'11 dicembre in quanto "di matrimonio misto" (la moglie Aurora Talli1lo era ariana, anche se, come scrive la relazio­ne del questore per la discriminazione, "considerasi ebraica perché all'atto del matrimonio abbracciò la religione israelitica"), venne nuovamente arrestato a Piove di Sacco, dove era sfollato, il 22 set­tembre del 1944 e rinchiuso in carcere prima a Padova, poi a

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Verona e infine a Bolzano. Da lì fu deportato il 24 ottobre, e ucciso all'arrivo ad Auschwitz il 28 ottobre.

Il Comune di Piove di Sacco, nel gennaio 2007, in occasione del Giorno della Memoria, ha intitolato all'ingegner Goldbacher il corti­le interno della Biblioteca comunale, dedicandogli una lapide.

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FEDERICO ALMANSI

Federico Almansi è uno dei due studenti costretti nel 1938 a lasciare il Tito Livio ad anno scolastico iniziato, quando il Ministero sollecitò le scuole a dare piena attuazione alle nuove norme razzia­li, allontanando tutti gli studenti ebrei, "anche se appartenenti a famiglie aventi speciali benemerenze", e verificando la posizione dei "misti".

In conseguenza di ciò il preside Attilio Dal Zotto convocò gli stu­denti interessati e comunicò al Provveditore (con una lettera del 18 novembre 1938) di "aver invitato gli alunni di razza mista, che in via di massima in principio di anno erano stati iscritti in questo isti­tuto, ad esibire i documenti complementari riguardanti la loro con­dizione rispetto alla razza. In base a tali documenti si è proceduto alla definizione degli alunni Tolnai Giovanni, Almansi Federico [ ... ] Il Tolnai, figlio di padre straniero e di madre protestante, e l'Almansi, figlio di padre ebreo e di madre ariana, ma professanti religione ebrea, vengono invitati a lasciare la scuola".

Una testimonianza straordinaria di quella vicenda e degli anni giovanili di Federico Almansi è costituita dalla Presentazione di un giovane poeta che Umberto Saba scrisse come prefazione al volu­metto Poesie (1938-1946) pubblicato da Federico Almansi nel 1948. n poeta triestino, amico del padre (un libraio antiquario), divenne ben presto amico e maestro anche del giovanissimo Federico, che era dotato di animo sensibile (così lo ricorda anche Graziella Viterbi) e per natura incline alla poesia.

Dalla Presentazione di Saba (ora in U. SABA, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Mondadori, 2001, pp. 941-951) riportiamo il brano seguente.

Conoscevo da molti anni il padre di Federico Almansi; ero legato a lui da rap­porti di amicizia e di affari; più veramente d'amicizia che di affari. Erano rapporti quasi famigliari. Egli abitava allora a Padova; ed era a casa sua che soggiornavo ogni volta che avevo occasione di recarmi in quella (per me) incantevole cittadina. Suo figlio mi appariva allora come un ragazzetto selvatico, che poche volte mi por­geva il destro di conversare con lui. Quando l'autore di questo libro era piccolo bambino, si aggirava veramente per la casa paterna "silenzioso come un gatto". Mi limitavo quindi ad offrirgli, prima di partire, un biglietto per il cinematografo ed un cartoccio di caramelle. Egli faceva, come gli avevano insegnato - un mondo di com­plimenti; ma poi - come naturale alla sua età - accettava con visibile aggradimen­to una cosa e l'altra. Solo una volta (egli avrà avuto allora tredici anni) sua madre

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mi pregò di leggergli qualche mia poesia. "Il mio bambino" mi disse "ama tanto sentir leggere le poesie". Accondiscesi volentieri a quell'onesto desiderio, e lessi a lei e al piccolo Federico due o tre poesie di Parole, che allora erano appena uscite in volume. Eravamo (ricordo) nella cucina; e sua madre (la "Madre contadina" della poesia Aladino e di altre) ascoltava attentamente, pure continuando ad affaccen­darsi intorno alla cena. Le poesie piacquero molto al ragazzo (forse più per il mio modo di dirle che per le poesie in sé); disse anzi che "erano più belle del Pascoli", il poeta che allora studiava a scuola. Un'altra sera ancora lo condussi a fare una passeggiata lungo le amene rive del Bacchiglione. Egli mi confidò che, quando sarebbe stato grande, avrebbe voluto fare il medico.

[ ... ] Venne intanto, col suo corteggio di guai, il 1938. L'anno per sempre infau­sto portò con sé, fra altre assurdità, l'assurdo di una campagna razziale in Italia. Portò al giovane Federico Almansi anche una grave malattia, della quale si teme­va morisse. Suo padre, una volta che venne a Trieste, mi pregò, se passavo da Padova, di fermarmi a casa sua qualche ora o qualche giorno, per far visita a suo figlio. "Egli, - mi disse la ricorda sempre, le vuole molto bene; e sono certo che parlare con lei gli gioverebbe moltissimo". Volentieri promisi che l'avrei fatto.

Trovai, quando giunsi a Padova, un ragazzo coricato in un lettuccio di ferro (quello della poesia Ripenso) e ridotto, apparentemente, a ben poca cosa. Ma in una cuna appoggiata alletto, e nella quale era vissuta ed era morta in tenera età una sua sorellina, erano accatastati alla rinfusa molti libri di poesia, specialmen­te di poesia moderna. C'erano Parole, c'erano (con dedica) Le Occasioni, c'era Allegria di naufragi nell'edizione Vallecchi. Avrei voluto solo parlargli di poesia e di poeti; dimenticare così, e aiutare lui a dimenticare, l'orribile perversità dei tempi. Ma suo padre giustamente preoccupato della piega che prendevano gli avveni­menti mi aveva pregato di influire su suo figlio perché prendesse il battesimo. Federico Almansi era, razzialmente, misto; e, con un attestato di battesimo, più o meno, retrodatato, sarebbe stato facile, specialmente con le relazioni che aveva suo padre, farne un "ariano" puro. Ma -lamentava Almansi padre - il ragazzo (ed egli non ne comprendeva i motivi; sapeva solo che questi non erano di carattere religioso) non voleva nemmeno sentirne parlare. Anche questa volta promisi - ma non, questa volta, volentieri. Le ipocrisie, specialmente in materia spirituale, non mi sono mai piaciute molto; e non ho mai pensato che potessero portare bene. Ne parlai infatti al ragazzo, e gliene parlai anche a lungo, ma senza - ahimè - quel­l'intima convinzione che è necessaria per persuadere i giovani, e specialmente i giovani del temperamento di Federico. Egli mi ascoltò, come mi ascoltava sempre, in silenzio; infine mi domandò perché io, che mi trovavo nelle sue stesse condizio­ni (ero cioè pure io un misto) non l'avessi fatto. "Perché" gli risposi "io sono un vec­chio; l'atto insincero, e compiuto sotto una pressione esterna, potrebbe avvelena­re, nel ricordo, il resto della mia vita. Ma tu, tu sei ancora un fanciullo; e se lo fai, non fai che obbedire a un consiglio (se non a un ordine) dei tuoi genitori. Non impegni per nulla la tua coscienza; e rendi felici tuo padre e tua madre".

Egli mi guardò a lungo; cavò di sotto alle coltri una povera mano scheletrita e umida di febbre; accennò con quella una timida carezza, mi disse: "Resta papà, resti tu Umberto a soffrire, e vuoi che io mi salvi?". Con queste parole, e in quel preciso momento, egli mi conquistò il cuore.

[ ... ] Per due anni però non ricevetti da lui né lettere, né poesie. Suo padre e lui dovettero, quando l'Italia fu invasa dai tedeschi, fuggire in Svizzera; ed io, perché la mia povera madre era ebrea, nascondermi in Italia come un pericoloso nemico

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della patria, e un terribile delinquente, condannato in contumacia alla più igno­miniosa delle morti (È proprio vero che nessun romanzo, nessuna "invenzione" può riuscire più inverosimile, più "romanzesca" della vita). Seppi, a liberazione avvenuta, che il giovane Federico Almansi aveva non solo scritto delle nuove poe­sie (il lettore le troverà fra le ultime del libretto; alcune potrebbero perfino intito­larsi "alla Resistenza"), ma che egli aveva anche combattuto bravamente assieme ad altri partigiani (fra i quali Giansiro Ferrata); e corso da vicino il pericolo di esse­re messo al muro o qualcosa di ben peggio. Ritornato in Italia (che egli ama fino a parlarmene con le lacrime agli occhi) si rivolse a me perché lo aiutassi a pubbli­care il suo primo libro di versi. ..

*

Federico Almansi nacque a Firenze il 2 luglio 1924 ed abitò a Padova prima in via Trieste 23, e successivamente, dal 1936, in via U. Foscolo 3. Conclusa la scuola elementare alla De Amicis, nell'e­state del 1935 aveva superato l'esame di ammissione al ginnasio, frequentando poi regolarmente il corso B del Tito Livio, con lingua straniera inglese. Dopo l'espulsione passò alla scuola ebraica e sostenne da privatista l'esame di idoneità alla V ginnasio il 26 giu­gno 1939.

La sua famiglia doveva possedere le 'speciali benemerenze' che davano diritto alla discriminazione. Ritroviamo infatti, nel primo elenco degli ebrei padovani discriminati del febbraio 1940, i nomi di "Almansi Emanuele fu Aronne, Foà Speranza fu Emanuele - madre, Almansi Federico di Emanuele"44, con la precisazione che la discri­minazione era stata ottenuta con il parere favorevole del Prefetto e quello contrario del Federale. In un' altra lista di ebrei discriminati compaiono solo Federico e il padre, mentre nell' "Elenco degli ebrei iscritti nel registro della popolazione alla data del 5/ 11/1943" non figura più nessuno degli Almansi45. Già nel maggio del 1939 Emanuele aveva ceduto alla moglie ariana, Onorina Berra, con una donazione, la propria "Azienda commerciale fu deposito edizioni casa editrice Felice Le Monnier di Firenze"46, forse anche in previ­sione della fuga in Svizzera.

Nei primi anni del dopoguerra, la famiglia Almansi, allora resi-

44 ASPd, Archivio Prefettura- Gabinetto, Busta 523. 45 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni di proprietà ex ebraica, Busta 61, fase. B e H. 46 Ibidem, fase. B: Intendenza di Finanza di Padova. Ufficio registri Atti civili di Padova. Elenco degli Atti di donazione e di trasferimento di beni di pertinenza ebraica conclusi dal 9 febbraio 1939 al 30 novembre 1943.

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dente a Milano, continuò ad ospitare spesso nella sua casa Umberto Saba. Oltre al poeta triestino, Almansi frequentava in que­gli anni anche Vittorio Sereni. Ma presto, già nel 1950, cominciò a manifestare i segni di una grave malattia mentale che determinerà il suo ripetuto e poi definitivo ricovero in clinica, fino alla morte avvenuta nel 197947.

47 Su Federico Almansi si veda A. MARCOVECCHIO, Saba e il "celeste scolaro", "Il Giornale", lO novembre1985 e G. LAVEZZI, L'ombra azzurra di Federico Almansi, in Saba extravagan­te. Atti del Convegno internazionale di Studi, a cura e con introduzione di G. Baroni, fasci­colo monografico della "Rivista di letteratura italiana", XXVlj2-3, 2008, pp.263-266.

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ANNA LEVI

Anna Levi, nata nel 1928, aveva frequentato la scuola elementa­re, fino alla terza, privatamente presso la scuola ebraica, e si era poi iscritta alla scuola pubblica Ardigò. A causa delle leggi razziali poté frequentare regolarmente solo la quarta elementare. Al Tito Livio sostenne da privatista gli esami di idoneità alla no ginnasio nel 1940. La sorella maggiore, Ada, che aveva anche lei frequentato il nostro liceo, era già laureata e aveva perduto per le leggi razziali l'incarico di insegnante all'Istituto agrario Duca degli Abruzzi. Ada era moglie del rabbino giovane di Padova, Paolo Nissim, e nell'au­tunno del '43 aveva già una bimba di quattro anni, Lea, ed era in attesa del secondo figlio. Con l'inizio della persecuzione, Anna, la madre, e la sorella con la sua famiglia si rifugiarono in campagna, a Piazzola sul Brenta. Il nonno Vittorio Rietti invece rimase nasco­sto a Treponti di Teolo, e per un caso non fu deportato. Infatti, quando venne a conoscenza del campo di concentramento di Vò, chiese insistentemente di esservi portato, ma per fortuna non fu accontentato; sarebbe finito ad Auschwitz. Morì comunque nel 1944, e i familiari riuscirono a seppellirlo nel cimitero ebraico, in gran segreto e sfidando il pericolo.

Nell'imminenza del parto di Ada fu necessario per i Levi-Nissim abbandonare il rifugio precario e disagiato di Piazzola: il bimbo nac­que all'ospedale di Piove di Sacco (quello di Padova era stato evita­to perché si sapeva che gli ebrei che vi si recavano venivano denun­ciati). Pochi giorni dopo la nascita del piccolo Daniele, venne pro­gettata la fuga verso la Svizzera, grazie all'aiuto di una giovane stu­dentessa di Varese, Anna Sala. Anna, che studiava lingue all'Uni­versità di Venezia, aveva stretto amicizia con alcune compagne ebree di Padova, frequentando la loro casa e la comunità ebraica padovana, nonostante i divieti razziali. All'inizio della persecuzione aveva preso a cuore la sorte dei suoi amici ebrei, e si prodigava per salvarli, con l'aiuto del movimento di Resistenza "Giustizia e Libertà", cui apparteneva.

I Levi-Nissim si trasferirono così a Varese, all'albergo "Magenta". Il pomeriggio del giorno previsto per la fuga, fecero i preparativi, riducendo al minimo i bagagli, com'era stabilito, ma cercando di non far mancare le cose necessarie per i bambini. Sul tardi sve­gliarono la piccola Lea per prepararsi a partire. Ma la bambina, disturbata e innervosita, cominciò ad agitarsi, a piangere, a urlare

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che non voleva andare via. Racconta Anna Levi:

Mentre attraversavamo la sala per uscire dall'albergo la bimba si mise a grida­re: - Voi mi portate a morire! -. E il cameriere aveva sentito! Poi arrivammo dove c'era la camionetta che doveva portarci fuori, ma le guide, quando videro una fami­glia di sei persone, e i bambini, rimasero un po' perplessi e chiesero a mia sorel­la: - Ma lei ci garantisce che questi bambini non piangeranno? Come si faceva a sapere? Non avevamo dato loro sonniferi o sedativi. Uno era in braccio e in quel momento era buono, ma poi? L'altra era eccitata e non si riusciva a calmarla. Poi c'erano diverse valigie, e si era anche fatto tardi, perciò le guide, nel timore che l'appuntamento fosse ormai saltato, decisero di lasciar perdere per quel giorno e di rimandare ad un'altra sera. Tornammo all'albergo e il cameriere, quando ci vide, disse alla Lea: - Ah, l'hai vinta tu, eh!

Le camere erano state tutte requisite dai tedeschi, che non sempre però le occupavano. C'era ogni sera il pericolo che arrivassero (in quel caso avremmo dovuto sgomberare in fretta) e perciò il padrone, che collaborava con Anna Sala nell'aiutare gli ebrei, rischiava molto. Ma quella sera non vennero. Suonò però l'allarme (anche se la zona di Varese raramente fu bombardata), ma rimanemmo a letto silenziosi. Noi eravamo al quarto piano, tutti in una camera. Sentimmo nella notte dei passi e un po' di movimento, ma non successe niente. La notte passò bene. Il mattino dopo mia madre uscì per prendere qualcosa, mentre noi aspettavamo Anna che doveva portarci dei documenti. Lei arrivò, mia madre giun­se più tardi tutta trafelata: Siamo circondati dai tedeschi! -. Non lasciavano entrare o uscire nessuno, ma lei, terrorizzata dal timore di non trovarci più, era riuscita a passare. I tedeschi avevano circondato l'albergo: non restava che aspet­tare, con Anna che era con noi. Bisognava però far sparire tutte le carte e i docu­menti (per essere accettati in Svizzera infatti dovevamo avere documenti attestan­ti che eravamo ebrei).

I tedeschi si fermarono al secondo piano, cercavano l'albergatore perché ave­vano saputo che aiutava gli ebrei e quando lo trovarono, al secondo piano appun­to, lo portarono via, liberando il passaggio. Abbiamo poi saputo che era stato inter­rogato e fortunatamente rilasciato. Ce ne andammo però subito, perché il posto era diventato troppo pericoloso. Aspettavamo un altro appuntamento per passare il confine. La sera successiva al nostro tentativo era previsto il passaggio di un altro gruppo, una famiglia torinese, numerosa come noi, con bambini. Sono stati tutti presi. Solo le guide si sono salvate, ma quel passaggio era ormai bruciato e così non abbiamo più potuto fuggire.

Sempre con l'aiuto di questa meravigliosa ragazza di ventidue anni e del suo comitato trovammo rifugio in una stanza a Cunardo, tra Varese e Luino, nella casa colonica di proprietà dell'ing. Giacinto De Grandi, leader del Partito d'Azione, in attesa di una nuova occasione di fuga. Ma diventava sempre più difficile andare in Svizzera, e così, per nostra fortuna, abbiamo rinunciato. Siamo stati 18 mesi nascosti, sempre con grande pericolo, anche se col tempo ci siano sistemati meglio. Ci hanno procurato i documenti falsi, le carte annonarie e anche le carte postali. La zona era piena di ebrei, ma allora non sapevamo niente gli uni degli altri. Il mio nome falso era Anna Torniamenti, che è un cognome lombardo, anche se dai documenti falsi risultavamo tutti nati al sud (il sud era stato liberato, quin­di non era possibile fare controlli all'anagrafe). Non era facile sembrare dei meri­dionali mentre eravamo dei veneti! Ad un certo punto la situazione sembrò così

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tranquilla che mi fu proposto di andare a scuola, a Ganna, ma rifiutai perché temevo di tradir mi trovandomi in mezzo agli altri. Successivamente mi proposero di lavorare nello studio dentistico del dotto Giancarlo Bonazzola, che aveva figli nel Comitato di Liberazione ed era egli stesso vicino alla Resistenza, ed era disposto ad assumermi come assistente, perché non restassi a casa tutto il giorno. Così prendevo tutte le mattine il tram, guadagnavo anche qualcosa, ho imparato un po' di chimica, a fare l'amalgama, a tenere lo schedario. Solo il dottore sapeva, con gli altri dipendenti dell'ambulatorio dovevo fingere di essere sfollata e meridionale. Ma ho un ottimo ricordo di quell'esperienza e di quel periodo, vissuto in un clima di partigiana Resistenza.

Nei giorni in cui eravamo a Varese, avevamo incontrato per caso l'avvocato Emanuele Parenzo di Padova, anche lui lì con la moglie (che era stata maestra alla scuola ebraica di Padova) in attesa di scappare in Svizzera. Loro riuscirono a pas­sare il confine e, non vedendoci arrivare come si aspettavano, temettero il peggio. Qualche tempo dopo venne scritto sul foglio di notizie ebraiche in Svizzera che era­vamo stati deportati. Questa notizia giunse anche a mio fratello Enrico, che si tro­vava al sud con le truppe di liberazione, ma non ci volle mai credere. Fu un 'colpo' scoprire che ci eravamo tutti salvati per l'amico Giorgio Calabresi, che dopo la libe­razione, a Milano, in via Guastalla, punto di riferimento degli ebrei superstiti, tra le macerie della sinagoga vide apparire Ada e Paolo, mentre pensava che non li avrebbe mai più rivisti.

Dopo la guerra Anna Levi Sonnino tornò a Padova con la madre, la sorella e il cognato rabbino, e con loro si prodigò per ricostituire la comunità padovana dispersa. Insegnò alla scuola elementare ebraica fino al 1953, poi si trasferì in Israele, dove si sposò. Dopo dieci anni ritornò in Italia con il marito, di origine milanese, e a Milano aprirono una cartolibreria. Successivamente lavorarono anche presso il Museo di Storia naturale di via Palestro, dove alle­stirono la prima 'libreria del museo', antesignana dei moderni bookshop.

Vive a Milano.

Ada Levi, nel 1970, dopo la morte del marito Paolo Nissim, che era divenuto rabbino capo della Comunità di Trieste, raggiunse i figli Lea e Daniele in Israele. Ha insegnato all'Università Bar-Ilan di Ramat-Gan Lingua e Letteratura italiana per 26 anni. Il 2 giugno del 2008 è stata insignita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di un'onorificenza e del titolo di commendatore per la divulgazione della cultura italiana all'estero.

Vive a Tel Aviv.

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BIANCA CALABRESI

Dopo le scuole elementari alla Ardigò, si iscrisse al Tito Livio nel 1935 e frequentò regolarmente il ginnasio nel corso A fino al 1938. Dopo, da privatista, sostenne gli esami fino all'ammissione al liceo nel 1940.

Per insistenza dei genitori passò poi agli studi tecnici, sempre frequentando la scuola ebraica e nella sessione estiva del 1943 ottenne il diploma di ragioniera, come risulta dai registri degli esami dell'Istituto tecnico commerciale Calvi.

In una conversazione telefonica ci ha raccontato che l'espulsione dalla scuola fu per lei motivo di profonda sofferenza e che con gran­de amarezza vedeva ogni mattina dalla sua finestra i compagni entrare nel liceo dal quale lei era esclusa. La sua casa è proprio di fronte all' ingresso di via Gaspara Stampa, a quel tempo riservato ai maschi, ma dal quale era solita entrare anche lei, per gentile con­cessione del bidello.

Nell'ottobre del 1943 dal treno che da Roma portava gli ebrei ad Auschwitz, durante la sosta a Padova alcuni lasciarono cadere dei biglietti per avvisare i parenti di mettersi in salvo. Si credeva che il pericolo riguardasse soprattutto gli uomini, perciò i due fratelli di Bianca decisero di scappare in bicicletta verso il sud. Giorgio, il maggiore, appena fuori Padova fu colto da un attacco di appendici­te. Renzo, che era già laureato in medicina, lo portò in ospedale a Conselve per farlo operare. Dopo l'intervento Renzo ripartì, d'accordo che Giorgio lo avrebbe seguito appena rimessosi. Ma non fu possibile e Giorgio, con la famiglia, si trasferì a Milano; da lì ten­tarono di passare in Svizzera. Per due volte dovettero rinunciare, la terza volta riuscirono ad entrare dai Grigioni. Per due anni non ebbero notizie di Renzo, che si era unito ai partigiani.

Durante la permanenza a Milano Bianca evitò per un soffio l'arresto: un giorno infatti fu mandata dalla madre alla sede della Comunità ebraica per farsi rilasciare, per il fratello Giorgio, un documento attestante la condizione di ebreo, necessario per poter passare in Svizzera. Davanti all'edificio sostava un soldato tedesco armato: lei però non ci fece caso più di tanto, entrò ugualmente e chiese al portiere informazioni sul piano a cui doveva recarsi. Fu solo mentre saliva le scale che improvvisamente si rese conto del pericolo imminente, si precipitò fuori e riuscì ad allontanarsi appe­na in tempo per evitare la retata.

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Alla fine della guerra tornarono e Renzo ottenne un posto all'o­spedale di Padova, ma preferì trasferirsi poco dopo in Israele, dove rimase. Il fratello Giorgio continuò a vivere a Padova dove esercitò la professione di avvocato. Bianca, sposatasi nel 1953, si trasferì a Nizza, dove vive tuttora.

Giorgio Calabresi, nato nel 1915, e Renzo, nato nel 1919, aveva­no entrambi frequentato il Tito Livio, rispettivamente nel corso C e nel corso B, diplomandosi prima delle leggi razziali, Giorgio nel 1933 e Renzo nel 1937.

LE STORIE 87

MARCO MORPURGO

Ma la sua fede non gli permette di subordinare ...

La famiglia Morpurgo, antica ed illustre anche per meriti cultu­rali, era (nel giudizio di tutti i testimoni) una famiglia unitissima, e la più religiosa ed osservante nella comunità ebraica padovana. Prozio di Marco era stato Emilio Morpurgo, deputato della Destra storica, eminente studioso di Statistica e rettore dell'Università di Padova. Lo zio Edgardo era stato libero docente di Psichiatria e direttore dell'Ospedale psichiatrico di Padova, ma anche cultore di studi storici e membro del Comitato per la Storia dell'Università48 . Il padre, l'avvocato Vita Renzo, volontario nella guerra mondiale, aveva ottenuto la croce al merito di guerra, perciò era stato "discri­minato", anche se non si era mai iscritto al partito fascista e non partecipava alle sue manifestazioni, ma, secondo il questore, "ciò deve attribuirsi soprattutto al suo carattere misantropo".49

48 Cfr. A. VENTURA, L'Università dalle leggi razziali alla Resistenza, cit. p. 160. Nella relazione in occasione della domanda di discriminazione, nel 1938, il questore Silvestri ricorda che Edgardo Morpurgo durante la guerra mondiale, in qualità di ufficiale medico, aveva prestato servizio all'Ospedale territoriale di Padova, anche come istruttore del Battaglione universitario, e aggiunge: "Egli discende da una antica famiglia di razza ebraica di Gradisca sull'Isonzo, la quale si operò molto per la redenzione igienica ed economica delle popolazioni rurali del Veneto. Il Morpurgo Edgardo non appena fu assegnato all'Ospedale militare di Primo accoglimento di Padova, provvide subito, a sue spese, alla organizzazione del Gabinetto di elettroterapia, di tremuloterapia, e di massoterapia per la cura dei soldati feriti. Nel novembre 1930, inoltre, con atto di donazione, donava alla locale Clinica universi­taria delle malattie nervose, della quale era stato aiuto e poi libero docente, la somma di <E 180mila nominali in titoli al portatore al 5% e di altre 20mila lire in contanti, allo scopo di incrementare il patrimonio scientifico della clinica stessa mediante acquisto di istrumenti e libri. Egli è insignito della Croce di cavaliere della Corona d'Italia" (ASPd, Commissariato per la gestione dei beni ex ebraici, busta 12, fase. 4 Ebrei Discriminazioni ancora in trattazio­ne presso il Ministero dell'Interno, fase. 72). Edgardo Morpurgo morì nel 1942 per un inve·· stimento stradale. La moglie Gisella Sullam, nata nel 1879, fu catturata e portata nel Campo di VÒ il 4 dicembre 1943. Nel mese di giugno, gravemente malata di "tumore addominale" e perciò "ab bisognevole con frequenza assoluta di cure mediche", come precisa il direttore del campo, venne accompagnata all'ospedale civile, dove fu subito operata. Rimase ricoverata, sempre in gravissime condizioni, e sempre piantonata da un agente, fino a quando venne prelevata dai tedeschi il 30 luglio (ASPd, Archivio Questura, busta 48). Portata a Verona, fu avviata il 2 agosto ad Auschwitz, e fu uccisa all'arrivo (L.PICCIOTTO, Il libro della memoria, cit. p. 611). Al cognato Vita Renzo, che dopo la guerra aveva cercato informazioni, la Questura rispose, il 7 febbraio 1946: "Da accertamenti eseguiti, sua cognata Sullam Gisella vedo Morpurgo è stata prelevata dalla Polizia Germanica verso agosto del 1944 ed avviata in Germania. Non si hanno altre notizie" (ASPd, Archivio Questura, busta 48). 49 ASPd, Archivio Questura, busta 46.

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88 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Il maggiore dei figli, Marco, nato il 23 dicembre 1920, era sem­pre stato bravissimo a scuola. Iscritto dal 1931 al ginnasio inferio­re, aveva frequentato il Tito Livio nel corso B, e i suoi voti risulta­rono ogni anno altissimi, quasi sempre 9 o 8, con qualche raro 7. Nel giugno del 1938, alla fine della seconda liceo, pensò perciò di sostenere direttamente gli esami di maturità. Il registro degli esami della sessione estiva contiene effettivamente gli esiti, tutti positivi, delle sue prove, eccetto quella di latino, a cui risulta assente.

La ragione ce la spiega il preside del liceo, Attilio Dal Zotto, nella minuta a matita di una lettera al Provveditore:

Padova, 25 - VII - 1938 XVI

Ill.mo Signor Provveditore agli Studi di Padova

Il giovane Morpurgo Marco, che durante questo anno scolastico frequentò la seconda liceale, data la sua intelligenza e la buona preparazione si presentò a sostenere gli esami di maturità, che gli riuscirono felicemente, tutti meno il latino. Ed invero l'esame di latino egli non lo condusse a termine perché, cadendo di sabato una delle due prove di latino, egli di religione ebraica, che fa divieto di scri­vere nel giorno di sabato, non si presentò per la traduzione d'obbligo.

Ora avviene che il diario delle prove scritte della riparazione stabilisce nuova­mente che una delle versioni di latino abbia luogo il sabato lO ottobre; per modo che il giovane, religiosamente scrupoloso, mi fece chiedere al presidente della com­missione per gli esami di Maturità che gli permettesse di avere con sé il primo otto­bre l'aiuto di uno scrivano. Al prof. Scolari io mostrai la lettera dell'alunno, che avevo ricevuto; ma egli non sembrò persuaso. Al giovane, pur lodandolo per la sua aperta e franca professione di fede, feci però presente che il principio della respon­sabilità morale, che esemplificai nel precetto "non ammazzare", pure assoluto nel­l'individuo, è tuttavia relativo e subordinato a quello della collettività e dello stato. Ma la sua fede non gli permette di subordinare, e però trasmetto la lettera di Morpurgo alla S.V. se, dato il singolare atteggiamento, sia il caso di segnalare la richiesta all'ono Ministero. Con osservanza.

Non vi è copia dattiloscritta della lettera, né risposta del Provveditorato.

E certo non poteva esserci riscontro favorevole da parte del Ministero, che proprio nel corso di quell'estate si apprestava a decretare l'espulsione totale degli ebrei da tutte le scuole italiane.

Marco non si presentò dunque alla prova di latino di ottobre (il registro degli esami della sessione autunnale lo segnala assente).

L'anno scolastico successivo, dopo aver frequentato solo inizial­mente la scuola ebraica, si presentò di nuovo agli esami di matu­rità al Tito Livio. Ma si ripetè la stessa situazione in entrambe le sessioni. A quel punto il Preside gli rilasciò ugualmente una dichia-

LE STORIE 89

razione attestante le ragioni del mancato diploma, che gli servisse per ottenere ì1 certificato di emigrazione per Israele nella categoria "studenti". 50

Sostenne brillantemente l'intero esame di maturità solo nella sessione estiva del 1940, insieme ad Eva Ducci, e non sappiamo se in ragione di un calendario più favorevole, o per effetto dello stra­tagemma al quale infine era ricorso (secondo il ricordo di Anna Levi), di essersi fatto fasciare il braccio destro come per un grave infortunio. Poco dopo superò brillantemente anche l'esame per il diploma di ragioniere, e iniziò a lavorare presso lo studio di Guido Calabresi51 .

Intanto, nel giugno 1940, Marco, che l'anno prima non aveva potuto partire per Israele con il fratello minore Edgardo in quanto troppo vecchio per "la salita dei giovani", aveva finalmente ottenu­to il certificato per l'emigrazione. Ma, ennesima beffa e frustrazione dolorosissima, il consolato inglese di Trieste gli negò all'ultimo il visto per la sopravvenuta dichiarazione di guerra dell'Italia.

Nell'estate del 1943 Marco avrebbe voluto seguire Vittorio Sacerdoti e gli altri giovani ebrei che in bicicletta fortunosamente scapparono verso sud per raggiungere le forze alleate e combattere con loro, ma rinunciò per non lasciare la famiglia, che già aveva l'altro figlio 10ntan052 . Restò perciò nascosto, con i genitori e la sorella, nella zona di Firenze per tutto il tempo della persecuzione.

Nel 1945 finalmente ottenne, con la sorella Teresa, il visto per Israele. Si sistemarono nel kibbutz Sedeh Eliahu, nella valle del

50 Questo dato non risulta dai documenti della scuola, ma è riportato nel breve profilo bio­grafico di MAX VARADI, Marco Morpurgo, in "La rassegna mensile di Israel", n. XV, 1949, pp. 23-28, da cui abbiamo ricavato anche altre informazioni qui riferite e il seguente aned­doto, significativo del carattere di Marco: "Durante le leggi razziali un giorno strappò in una via del centro a Padova, in un'ora affollata, un libello appeso, in cui si designavano come tra­ditori della patria i nomi di alcune note famiglie della comunità, fra le quali la sua. Portato in questura, al Commissario rispose semplicemente: Non potevo lasciare insultare il nome di mio padre, e fu rilasciato". 51 Lo si ricava dal rapportino di una guardia di P.S. del 7 settembre 1942: "L'ebreo Morpurgo Marco ... ragioniere, da circa un anno è impiegato presso lo studio del ragionier Calabresi in via G. Stampa n.10b con mansioni di contabile. Poiché le mansioni del Morpurgo sono alquanto normali, egli pertanto può essere sostituito benissimo dallo stesso Calabresi. Le condizioni economiche e la prestanza fisica dello stesso sono buone". (ASPd, Archivio Questura, busta 46). Queste segnalazioni servivano ad individuare gli ebrei da destinare al lavoro, in base alla precettazione civile ordinata dal Ministero dell'Interno della RSI il 6 mag­gio 1942. 52 Un altro figlio, Giuseppe, l'ultimogenito, nato nel settembre del 1929, era morto ad appe­na un anno d'età (cfr. ibidem).

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Giordano. Qui Marco sposò Milca, sua compagna di studi, ed ebbe una bambina, Nurit. E qui morì il lO agosto del 1948, come il fra­tello Edgardo tre mesi prima, colpito in fronte durante un'azione per la quale si era offerto volontario. La seconda figlia, Ora, vide la luce dopo la sua morte.

LE STORIE 91

EDGARDO MORPURGO

L'amore e la libertà per tutti sono l'ideale più bello e per il quale è giusto dedicare la vita. lo spero che il nostro sacrificio sia fruttifero, che nel mondo regneranno la giustizia e la pace, l'amore e la com­prensione, e allora non saremo morti invano.

(da una lettera di Edgardo, settembre 1945)

Nel ricordo di tutti gli ex compagni, Edgardo brilla per la sua intelligenza, la vivacità, il fascino travolgente, e perché, nell'unani­me giudizio, "era bellissimo",

Nato 1'8 aprile 1923, si iscrisse al Tito Livio, alla la ginnasio, nel 1934, e frequentò, come il fratello maggiore, il corso B, ottenendo risultati meno brillanti, ma sempre positivi, fino al 1938.

Allo stesso tempo viveva pienamente la sua vita di giovane fasci­sta, balilla e avanguardista, che gli piaceva (ricorda Anna Levi) pro­prio perché, impegnandolo in molteplici attività fisiche, dava sfogo al suo temperamento esuberante e un po' ribelle. Perciò la delusio­ne delle leggi razziali fu fortissima, e vissuta come un doppio tradi­mento.

Dopo l'espulsione, alla fine del primo anno di scuola ebraica, presentò, con la sorella Teresa, domanda d'esame a Venezia, come riferisce il preside Augusto Levi nella Nota relativa all'a.s. 1938-3953 . Contemporaneamente decise, d'accordo con la famiglia, l'alià, la "salita" verso Israele. Aveva allora 16 anni.

Graziella Viterbi, che gli fu carissima amica, ricorda così l'addio:

Edgardo partiva, saliva verso la Terra Promessa. Nella piccola Presidenza della

53 "Ai primi di maggio il preside rivolse alle famiglie degli alunni il Consiglio di far partecipa­re i figlioli agli esami nelle scuole pubbliche o, in via subordinata, nella scuola m. ebraica di Venezia, se la scuola avesse conseguito a tempo - come di fatto conseguì - il riconoscimen­to legale degli esami. Si astennero dal presentare la domanda prescritta entro il 31/5 sola­mente tre alunne; tutti gli altri alunni presentarono le rispettive domande destinate: 3 al R. Istituto tecnico 'Belzoni' e 15 al R. Ginnasio Liceo 'Tito Livio'; a queste ultime unì la sua domanda per la maturità classica Morpurgo Marco che alla scuola partecipò solo in princi­pio d'anno; l'alunno Romanin Jacur Leo presentò direttamente la sua domanda per la matu­rità classica anticipata d'un anno. Due alunni della scuola, Morpurgo Edgardo e Teresina presentarono domanda d'esame per la scuola media ebraica associata all'ENIM di Venezia; l'alunna Gentilli L. al R. Ginnasio Liceo di Udine" (ACEP, busta Scuole 1933-1943, ora in C. CALLEGARI, Identità, cultura e formazione nelle scuole ebraiche di Venezia e di Padova negli anni delle leggi razziali, cit., pp. 271-2).

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scuola media ebraica, eravamo tutti riuniti per salutarlo. Il nostro regalo era un temperino da pioniere, perché questi erano i regali che si facevano allora anche in occasioni importanti. Ma il mio saluto a Gardo, come tutti lo chiamavamo, fu nel pomeriggio. Venne con Giuseppe a casa nostra per prendere commiato da tutta la famiglia. Ma venne anche per mangiare le patate fritte. Ne era golosissimo e dice­va sempre che patatine come quelle che preparava la Rosetta non si mangiavano da nessuna parte. Quel giorno erano una vera montagna, lieve e dorata, e in un attimo il vassoio fu ripulito.

Gardo morì in combattimento, nel 1948. Fra le cose lasciate dal "nostro" pio­niere, fu trovata una scatoletta da fiammiferi con dentro una patatina fritta mum­mificata. L'aveva portata con sé in Israele e gli era sopravvissuta. 54

Salpato da Trieste in dicembre con altri giovani, Edgardo era diretto alla scuola agricola di Mikvè Israel55 . Nonostante l'entu­siasmo iniziale, l'inserimento in una realtà così diversa e lontana dalla consueta non fu facile. Dopo avere inutilmente tentato di arruolarsi per tornare e combattere il fascismo che l'aveva tradito , Edgardo trovò la sua realizzazione negli studi di botanica e di frut­ticoltura, che gli erano particolarmente congeniali, impegnandosi prima in una Stazione di agricoltura e poi nel museo-scuola di Dagania.

Subito dopo la fine della guerra, nell'autunno del 1945, poté finalmente arruolarsi nel 10 battaglione del reggimento palestinese, e tornare in Europa, in Belgio e in Olanda (durante una licenza riu­scirà anche a tornare a Padova e riabbracciare i genitori), con man­sioni umanitarie e di assistenza alle popolazioni stremate dalla guerra, in particolare agli ebrei sopravvissuti alle persecuzioni e ai campi.

Alla fine dell'incarico, nel maggio 1946, mentre il suo battaglio­ne si preparava a rimpatriare, gli venne proposto di restare e di continuare a collaborare all'azione di soccorso agli ebrei. Accettò, e in quell'occasione compì un atto di singolare generosità: cedette infatti i suoi documenti ad un giovane per consentirgli di emigrare in Israele, aggirando le difficoltà burocratiche che rendevano in

54 G.VITERBI, Le patate fritte di Edgardo, in Sapori d'infanzia, cit., p 43-44. Anche il presi­de Levi ricorda, nella sua relazione annuale sulla scuola ebraica, la partenza di Edgardo: "Gli alunni in questo anno scolastico non rimasero stabili come il nostro affetto avrebbe deside­rato. Per primo ci lasciò Edgardo Morpurgo, realizzando la sua aspirazione per la terra dei padri e, in una riunione di alunni e insegnanti che resterà a lungo nel ricordo di tutti, gli consegnammo a titolo di viatico un dono di circostanza" (ACEP, Busta Scuole 1933-1943). 55 Le vicende di Edgardo dopo la partenza per Israele sono ricavate da FEDERIGO LUZZAT­TO, La vita di un eroe - Edgardo Uri Morpurgo, in "La rassegna mensile di Israel", XVII, gen­nmo 1951, pp.12-31.

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quel momento piuttosto rari i permessi. Così, con il nome di Marco Peranti prima e di Uri Almoni poi (Almoni in ebraico significa 'igno­to') lavorò a Vienna, a Innsbruck e a Merano ad organizzare i campi di raccolta degli ebrei profughi, impegnandosi a ridare speranza e interesse alla vita ad esseri umani distrutti nel fisico e nel morale dalle persecuzioni.

Dopo quasi un anno di questo servizio speciale, passò alla sua ultima sede, un grande campo di transito vicino a Marsiglia, che egli stesso contribuì a organizzare. Da qui, con il nome di Bernard Pener, partì per Israele nell'aprile del 1947, sul piroscafo "Provi­dence," insieme ad altri tremila emigranti.

In settembre riprese gli studi, ma ben presto venne chiamato, come gli altri studenti, ad impegni militari che inizialmente erano solo turni di guardia notturna, ma divennero presto vere e proprie missioni militari, dato il progressivo aggravarsi della tensione con gli arabi, via via che le truppe inglesi si ritiravano dalla Palestina. Edgardo fu nominato Comandante di squadra e si segnalò per com­portamento responsabile e valoroso. Il 21 marzo 1948, nel corso di un'azione che gli valse una menzione onorifica, rimase ferito al braccio sinistro. La ferita stentava a rimarginarsi ma Edgardo, con­tro il parere dei medici, interruppe la convalescenza per riprendere servizio: il 21 aprile infatti l'esercito inglese abbandonò improvvisa­mente la parte centrale e orientale di Haifa, ritirandosi nei sobbor­ghi occidentali e verso il porto, e gli arabi attaccarono per isolare la zona. Nel tentativo di assicurare le comunicazioni, il comando ebraico decise immediatamente l'occupazione della sede del Municipio dei sobborghi arabi, un grande edificio posto a qualche centinaio di metri dalla linea israeliana, in posizione decisiva per il controllo di una strada e di un ponte.

L'azione fu affidata a tre squadre, una trentina di uomini in tutto, una delle quali era comandata da Edgardo (che rifiutò l'esonero propostogli per motivi di salute). Dovevano solo rompere la difesa nemica e occupare la casa: subito dopo sarebbero soprag­giunti i rinforzi coi carri armati. Erano perciò dotati solo di armi leggere e di poche munizioni (50 cartucce e due bombe a mano a testa) e non avevano scorte di viveri o di acqua. Ma l'assalto alla casa si rivelò più arduo del previsto per la difesa degli arabi all' in­terno (l'occupazione dell'edificio costò subito agli israeliani due morti e numerosi feriti) e soprattutto all'esterno. Dalle case vicine l'edificio fu sottoposto per ore e ore ad una sparatoria ininterrotta, e i carri armati israeliani non riuscirono ad avvicinarsi. Intorno alle

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20 Edgardo, mentre si sollevava per gettare dalla finestra una bomba a mano, venne colpito mortalmente al capo.

L'assedio durò tutta la notte e il giorno successivo. Solo alle 16.00 del 22 aprile, mentre tutta Haifa stava per essere liberata, le forze israeliane riuscirono a raggiungere la casa per prendere i morti e i feriti.

Una lapide sul posto ricorda: "Circondata da forze nemiche la compagnia combatté con prodezza sotto il fuoco micidiale durante 21 ore. Sette dei combattenti caddero, 16 furono feriti, i rimasti continuarono a combattere sino alla liberazione della città".

*

La più piccola della famiglia Morpurgo era Teresa, nata nel 1925. Anche lei aveva frequentato, al Tito Livio, la prima e la seconda gin­nasio, nel corso D. Teresa amava la scuola, e i suoi risultati alla fine della seconda, nel giugno del 1938, erano stati notevoli: sette in Italiano, otto in Latino, in Storia e in Matematica, nove in Francese. Poi erano state emanate le leggi razziali.

Secondo il racconto di una compagna di classe, riferito da Anna Levi, il primo giorno del nuovo anno scolastico, nonostante fosse già noto il divieto di iscrizione, Teresa si presentò ugualmente in classe. Poco dopo l'inizio delle lezioni entrò il bidello con l'ordine del preside che "Teresa Morpurgo doveva andare a casa perché di razza ebraica". La compagna ricorda la pena che le fece la bambina Morpurgo che, nel silenzio totale della classe, raccoglieva le sue cose e se ne andava a capo chino.

Nel 1943 Teresa si presentò agli esami di maturità all'Istituto tecnico Calvi. Ottenne voti positivi in tutte le prove, eccetto "Comp., ragioneria e tecnica commerciale", che non sostenne né nella ses­sione estiva, né in quella autunnale, perché cadevano di sabato.

Trasferitasi in Israele nel 1945 assieme al fratello Marco, visse nel kibbutz Sedeh Eliauh, ed ebbe una numerosa famiglia. È morta nel 2008.

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PIA E GUALTIERO ROSSI

I fratelli Rossi che compaiono nella foto della scuola ebraica del 1939 sono tre: Pia (nata nel 1924), Gualtiero (nato nel 1927) e Salomone Maurizio, il maggiore (nato nel 1922). I primi due sosten­nero esami al Tito Livio. Ma nella famiglia con la madre Emilia Camerini c'erano anche Guglielmo (nato nel 1923) e il più piccolo, Franco (nato nel 1930).

Durante la persecuzione si nascosero tutti a Roma: Pia e la madre, con le cugine Myriam e Edgarda Camerini (rimaste orfane dei genitori), in un convento femminile ai Parioli, i fratelli in un con­vento maschile a S. Giovanni in Laterano, assieme ad uno zio, Aulo, di 44 anni. Il giorno della Liberazione, ha raccontato Pia, i fratelli si precipitarono fuori per raggiungere la madre e la sorella, con lo zio felicissimo all'idea di poter finalmente riabbracciare la sua bambi­na che non vedeva da tanto e che era rimasta con la madre, aria­na. Ma mentre scendevano per via S. Giovanni in Laterano, un car­rarmato catturato ai tedeschi e guidato da un soldato alleato, a causa di una frenata maldestra sulla strada in discesa sbandò e piombò sul marciapiede, provocando tre morti e cinque feriti. Morto sul colpo rimase lo zio Aulo, feriti furono Gualtiero e, in maniera più grave, Guglielmo, che ebbe una coscia profondamente lacerata dai cingoli del carrarmato.

Maurizio si trasferì nel dopoguerra in Israele. Guglielmo emigrò in America Latina.

Pia vive a Milano. Gualtiero riuscì ad emigrare in Israele nel 1945, e si stabilì in un

kibbutz di giovani, appena costituito e inizialmente ancora privo di strutture, senza acqua ed elettricità. Il 17 luglio del 1948, quando giunse la notizia che la zona di Hulikat era stata presa dagli arabi, Gualtiero, con altri giovani, si offrì volontario. Fu ucciso in azione nella notte tra il 17 e il 18, colpito per un tragico errore da armi israeliane56 .

56 Marco ed Edgardo Morpurgo e Gualtiero Rossi sono ricordati, con altri caduti padovani in Israele, in una lapide commemorativa nella sinagoga di rito italiano di Padova.

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GIORGIO FOÀ

Giorgio Foà era nato il 13 febbraio 1927 da Mario e Giulia Formiggini. Abitava in via Petrarca 7, nel palazzo che fronteggia la statua del Petrarca in piazza del Carmine, e che aveva allora al piano terra gli uffici del padre (rappresentante di tessuti), al primo piano l'abitazione del nonno, e sopra quella della sua famiglia. Lui e i suoi fratelli minori Giancarlo e Vittorio, erano, nel ricordo degli amici e della cugina Rosy Angeli, un terzetto scatenato e affiata­tissimo. Aveva frequentato il ginnasio Tito Livio, inizialmente senza grande passione per lo studio, ma superando comunque felicemente gli esami di idoneità alla IVa ginnasio nell'estate del 1940. Passò poi, come i suoi coetanei Alberto Coen e Alvise Levi, a dare gli esami per le classi successive al liceo scientifico Nievo.

Quell'ultima estate del 1943 la famiglia decise di trascorrere le vacanze in montagna, prima del consueto soggiorno a Porretta Terme. Come per tutti gli ebrei, anche per loro, negli ultimi anni le possibilità di movimento si erano ristrette. Per ogni spostamento bisognava chiedere l'autorizzazione alla questura, per ogni vacanza i certificati medici dovevano comprovare la necessità di soggiorni in stazioni climatiche o termali, fermo restando che non potevano comunque più accedere ai luoghi di villeggiatura considerati di lusso, primo fra tutti il Lido di Venezia, in precedenza da loro abi­tualmente frequentato. Nel 1942 fu respinta anche la loro richiesta per Jesolo: era consentito andare a Lignano "perché spiaggia di secondaria importanza".

Posto abituale di vacanza era Porretta Terme (sempre concesso in quanto declassato a "luogo di cura di secondaria importanza"), dove i Foà affittavano una casa in via Falcone 20. Ed ogni volta l'adenopatia di Giorgio, i1linfatismo laringotracheale di Giancarlo, l'ipertrofia tonsillare recidivante di Vittorio giustificavano 1'indi­spensabile richiesta di inalazioni salsoiodiche e cure termali. Il 17 maggio del '43 fu la signora Giulia a scrivere alla Questura per l'autorizzazione:

La sottoscritta chiede a codesta regia questura che le sia concesso un periodo di soggiorno in montagna in località situata sui 1000 metri circa (Canove di ~oar::a, o Cesuna, ecc.) per ragioni di salute dei propri figli Giorgio, Giancarlo e Vlttono, come da allegato certificato. Chiede inoltre che le sia concesso anche un ~ongru~ periodo di soggiorno a Porretta Terme per cure inalatorie egualmente ordmate al suoi figli e di cui nel certificato medico si fa espressa menzione. Chiede inoltre che

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le sia concesso di poterli accompagnare. Ringraziamenti. Giulia Foà. 57

L'ultima testimonianza di una quotidianità quasi normale è riportata da Graziella Viterbi, (quell'estate anche lei con i familiari era a Porretta, essendo stato negato il permesso per l'abituale vacanza a Levico), che ricorda la villeggiatura trascorsa insieme a Giorgio e alla sua famiglia, le partite a tennis, di cui Giulia era campionessa, gli ultimi momenti felici prima dell'arresto.

Dopo 1'8 settembre, con l'inizio dell'occupazione tedesca, i Viterbi scapparono subito ad Assisi, salvandosi; i Foà tornarono invece al nord e cercarono di fuggire in Svizzera. Fu la mamma a insistere per la fuga: i contatti che trovarono suggerirono il pas­saggio attraverso le montagne. Catturati dai fascisti al confine con la Svizzera, furono detenuti prima nel carcere di Como e poi in quello di Milano. Da Milano, il 6 dicembre 1943, furono deportati ad Auschwitz.

La madre Giulia (una donna delicata e raffinata, sempre elegan­tissima nelle foto che la ritraggono) non resse e morì nel vagone durante il trasporto; il fratello più piccolo, Vittorio, di soli 9 anni, fu ucciso all'arrivo al campo, 1'11 dicembre. Stessa sorte forse toccò all'altro fratello, Giancarlo, di 13 anni: non si conoscono infatti il luogo e le circostanze della morte, e la sua immatricolazione al campo è dubbia. Il padre (matricola n. 167992) morì dopo il 17 aprile 1944.

Giorgio, numero di matricola 167990, morì dopo il 28 gennaio del 1944.

Intanto che questo accadeva, le autorità repubblichine si muo­vevano anche per loro canali burocratici, paralleli ma drammatica­mente sconnessi dal reale andamento delle cose. E mentre si com­piva la tragedia di questa famiglia, tra le questure di Padova e di Como avveniva uno scambio di informazioni che è insieme esibizio­ne di zelo e di sconcertante noncuranza dei fatti, e dimostra, se mai ve ne fosse bisogno, la completa, drammatica e colpevole incapa­cità, da parte delle gerarchie di Salò, di gestire e controllare le situazioni tragiche che pure collaboravano attivamente a determi­nare.

57 ASPd, Archivio Questura, busta 44. Dallo stesso fondo sono tratte anche le altre informa­zioni qui riferite.

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La notizia dell'arresto fu spedita dalla questura di Como a quel­la di Padova quasi un mese dopo, il 21 dicembre (quando Giulia e i figli Giancarlo e Vittorio erano già morti): "Si comunica che i con­troscritti ebrei li cinque Foà], in data 25-11-u.s. sono stati arresta­ti dalla milizia confinaria mentre tentavano espatriare clandestina­mente in Svizzera". Ad arrestarli, come risulta da un documento successivo, era stata la "Ila Legione confinaria della Milizia fascista, manipolo di Monte Olimpio": italiani dunque, non tedeschi.

Il 31 gennaio 1944 (anche Giorgio a questa data era probabil­mente già morto) la Questura di Padova chiese la consegna dei pri­gionieri: "Si rimane in attesa della traduzione in questa città dei soprascritti ebrei, dovendo essere internati nel campo di concen­tramento provinciale". Il questore di Como rispose i115 febbraio che ne aveva perse le tracce: "Dal 27 novembre U.S. gli ebrei in oggetto sono stati prelevati a cura del comando tedesco delle SS dal carce­re di Como ove trovavansi associati. Ignoto il loro attuale recapito". Ed infine, ilIo aprile del 1944, il questore di Padova, Augugliaro, a chiusura della pratica, revocò 1'ordine di ricerca diramato in dicem­bre, in quanto, appunto, gli ebrei in oggetto risultavano "arrestati a Como".

Per molto tempo la famiglia non ebbe notizie del loro destino. Solo un paio d'anni dopo la fine della guerra, Primo Levi si recò dal nonno, Vittorio, e lo informò che aveva conosciuto ad Auschwitz Mario Foà, il quale, data la sua notevole attitudine manuale, era stato adibito nel campo come meccanico alla manutenzione dei camion. Nel mettere, ogni anno, un'inserzione commemorativa sul "Gazzettino" il nonno sperava in qualche buona notizia dai soprav­vissuti che tornavano. Ma non ne vennero, ed egli (che si era sal­vato nascondendosi presso la famiglia del suo domestico nella cam­pagna padovana) morì, di crepacuore, nel 1951.

Solo con la pubblicazione dei documenti della deportazione (presso lo Yad Vashem di Gerusalemme e nel Libro della memoria di Liliana Picciotto) giunsero ai parenti informazioni precise sulla tragica sorte dei loro congiunti.

*

LE STORIE 99

COME SI FUGGIVA IN SVIZZERA

[Testimonianza di Rosy Angeli, cugina di Giorgio Foà]

Nel novembre del 1943 la cugina veneziana di Giorgio, Rosy Angeli, che aveva allora 8 anni, si salvò con la sua famiglia, riu­scendo, con maggior fortuna, a fuggire in Svizzera. Ecco il suo rac­conto.

Nell'estate del 1943 fuggimmo da Venezia per gli insistenti bombardamenti e ci rifugiammo in una villa fuori Treviso, di proprietà di una nostra zia. Purtroppo l'edificio sorgeva nelle vicinanze di un' importante caserma, che il lO settembre fu occupata dai tedeschi. Comunque nessuno era a conoscenza delle nostra presen­za a parte qualche nostro contadino. Una sera, mentre stavamo ascoltando "Radio Londra", sentimmo scarponi militari calpestare la ghiaia e un vociare in tedesco. I soldati bussarono alla porta e ci chiesero di poter passare la notte nel vicino fie­nile. Nei giorni seguenti decidemmo, vista la pericolosità del luogo, di spostarci in fretta in un altro paesino all'interno del trevigiano. In seguito, dato il crescente rischio e venuti a conoscenza, grazie a Giuliana Camerino, la futura stilista e lon­tana parente di mio padre, di una possibilità di fuga nella vicina Svizzera, deci­demmo di scappare. I miei genitori tornarono a Venezia. Qui mamma si occupò di preparare il bagaglio (rigorosamente una valigia a testa) e papà si recò in banca per liquidare tutto il possibile. Il prezzo del "biglietto" per la salvezza era molto salato: ben 40.000 lire a testa. Finiti i preparativi prendemmo il treno a Treviso, destinazione Milano. Era il lO novembre. Arrivati alla stazione del capoluogo lom­bardo trovammo, come ci avevano indicato a Venezia, un signore in impermeabile con un giornale in tasca che ci accompagnò ad un binario morto da cui la matti­na successiva sarebbe partito un treno per "Ponte Chiasso". Passammo la notte sopra i sedili di legno nelle carrozze del treno. La mattina dopo partimmo. Durante il tragitto soldati tedeschi salirono sul treno e controllarono i documenti dei pas­seggeri, ma incredibilmente ci saltarono e non guardarono" i nostri, sui quali era inequivocabilmente scritto "razza ebraica". Arrivati a Ponte Chiasso, nonostante la presenza di quattro ufficiali tedeschi, trovammo ad aspettarci dei contrabbandie­ri con cui ci eravamo precedentemente accordati. Ci consegnarono delle biciclette e ci accompagnarono vicino al confine svizzero. Andavamo in gruppo, alcuni in bici, le donne a piedi a braccetto, come per una gita di piacere. Giunte le sei di quella sera di Novembre, mentre una bella ragazza distraeva i soldati tedeschi di guardia, ci avvicinammo alla rete metallica che segnava il confine, dove aprimmo un varco con delle tenaglie. Al di là della rete c'era un torrente che dovevamo pas­sare, io ci finii dentro, ma nonostante il freddo nessuno si lagnò. Finalmente ave­vamo raggiunto la Svizzera e l'agognata salvezza.

In quel momento di gioia, mentre gli adulti si scambiavano baci e abbracci, io, che ero soltanto una bambina, mi misi a piangere temendo di non poter più ritor­nare nella mia cara Venezia, così lontana, o di vedere divisa la mia famiglia: Passammo i successivi sei mesi nei cosiddetti "Campi di raccolta", dove le condi­zioni di vita non erano certo le migliori. I nostri letti erano semplice paglia e qual­che coperta. Anche il vitto era molto essenziale: una brodaglia di verdure e pane

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con patate. Bisogna ricordare che allora la Svizzera era sovraffollata di profughi da ogni parte e d'ogni genere. Durante il nostro soggiorno in Svizzera girammo ben tre campi, in cui vigeva un rigido sistema militare, anche se non mancava un'atmosfera di speranza ed ottimismo: si organizzavano feste per i giovani, recite per i bambini. Nonostante tutte le difficoltà noi bambini potemmo continuare ad andare a scuola; io stessa, frequentai la quarta elementare nel Canton Ticino, a Faido. Grazie all'aiuto finanziario di un mio zio materno, medico torinese che era fuggito in Argentina già nel 1938, potemmo lasciare il campo e vivere liberi, anche se mio padre doveva firmare ogni settimana in comune il registro per i ricercati politici. Ritornammo finalmente a Venezia nel 1945, dopo due anni.

La nostra casa era stata requisita ed era occupata da degli sfollati. Molte nostre cose erano state portate via dalla gente che non pensava che saremmo ritornati. Qualcosa abbiamo recuperato, ad esempio il pianoforte a mezza coda. Ma per molto tempo mi è capitato di sentire mia madre esclamare, vedendo passare in campiello qualche donna del vicinato: "Guarda, quello era il mio cappello!".

La testimonianza è stata registrata e trascritta da Paolo Albertini e Benedetto Randon

LE STORIE 101

ALVISE LEVI

Nella foto di gruppo della scuola ebraica del 1939, Alvise Levi appare un ragazzino esile e delicato. Aveva allora 12 anni (essendo nato nel 1927) e, sembra, una grande passione per gli studi. Aveva frequentato regolarmente al Tito Livio solo la prima ginnasio, nel­l'anno scolastico 1937-38 nella sezione C, mista. Da privatista bru­ciò le tappe, saltando la seconda e presentandosi direttamente, nel­l'estate del '39 agli esami di ammissione alla III ginnasio L'anno dopo ottenne ottimi voti anche all'esame di ammissione alla IVa gin­nasio, dopodiché passò, per gli esami delle classi successive, allo scientifico Nievo. Il padre Augusto, che compare accanto a lui nella foto di gruppo, era stato professore di Matematica e Fisica al Tito Livio dal 1933 al 1936. La sua firma però compare ancora sui regi­stri del liceo per tutti gli anni delle leggi razziali: dirigeva infatti, come abbiamo visto, la scuola ebraica e, quando i ragazzi facevano gli esami, era lui a ritirare i diplomi.

I Levi abitavano a Padova in via Carducci 27, nella casa (allora di due piani) che costituisce ancor oggi la punta dell'isolato all'an­golo tra via Carducci e via Malaman. Questa casa, e 1'adiacente civi­co 29, erano state fatte costruire nel 1924-25 da Giovannina D'Italia, madre di Alvise58 . Giovanna, originaria di Modena era lau­reata in Lettere59 , ma non lavorava e si dedicava alla famiglia e all'amatissimo Alvise, che aveva avuto non più tanto giovane ed era rimasto unico figlio. Avevano anche una casa a Venezia (al Lido, in via doge D. Michiel 56), dove il professor Augusto era, al momento delle leggi razziali, preside dell'Istituto magistrale, dopo essere stato, all'Università di Padova, libero docente di Fisica sperimenta­le e incaricato dell'insegnamento di Fisica nella facoltà di medici­na60 . La sua carriera è così riassunta nella relazione che il questo­re di Padova invia al prefetto, 1'8 febbraio 1939, in occasione della presentazione della domanda di discriminazione:

58 Cfr. ASPd, Archivio catasto dei fabbricati, F 45, voI. 2662. 59 Compare (con Margherita Viterbi e Emma e Celina Trieste), nell'elenco dell' "Associazione Donne Artiste e Laureate", in Guida di Padova e provincia, Istituto editoriale guide commer­ciali delle Venezie, 1936-37, p. 117. 60 Cfr. A. VENTURA, L'università dalle leggi razziali alla Resistenza, Padova, CLEUP, 1995, p.151-152.

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102 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Già Libero docente universitario, professore incaricato di un corso obbligatorio ufficiale, disimpegnò tale incarico fino al 1935, esercitando contemporaneamente l'insegnamento medio presso il Liceo Tito Livio di questa città.

Nominato preside di l° categoria il 16/9j1935 cessò dal predetto incarico e fu destinato, quale Preside, prima a Belluno e poi a Vittorio Veneto, Verona, Venezia, e per tale sua attività gli furono conferiti dal Ministero dell'Educazione nazionale due promozioni anticipate per merito distinto con l'iscrizione al Ruolo d'Onore degli insegnanti Medi e nell'aprile 1936, per la sua attività altamente apprezzata, sia come insegnante, sia come Preside, gli venne conferita l'onorificenza di Cavaliere della Corona d'Italia

Varie volte dal Ministero dell'Educazione nazionale fu incaricato di compiere ispezioni [ ... ] Fin dalla sua istituzione fece parte del ruolo degli Assessori di Corte d'Assise. ,

La moglie del Levi, già iscritta al Partito Liberale italiano fin dal 1921, si distin­se sempre per il suo spirito di italianità con la partecipazione in qualità di mem­bro effettivo al comitato di Assistenza Civile di Venezia e Roma e durante la guer­ra europea fu visitatrice degli ospedali territoriali della CRI di Venezia. La stessa è iscritta al PNF dal 1934. Anche il figlio del Levi era iscritto al Comitato dell'O.N.B. 61

Nonostante il parere negativo "in linea politica" del Federale Umberto Lovo (che annotò un "non ritengo opportuno"), il prefetto Celi diede corso, pur con qualche riserva, alla richiesta: "Nulla osta che la domanda sia presa in esame. Non sembra però abbia le benemerenze eccezionali prescritte per la discriminazione". Le sue benemerenze militari non erano straordinarie (aveva fatto la guerra mondiale da sottotenente del Genio come telegrafista), quelle politi­che nemmeno (non era fascista della prima ora, essendosi iscritto al partito solo nel 1932 e senza grande fervore, come attesta il giu­dizio del federale) e quelle culturali si sa che non contavano molto. La discriminazione non venne concessa. Nemmeno il ricorso pre­sentato due anni dopo, il 15 settembre del 1941, ottenne alcun risultato.

Divenuto fin dal 1938 organizzatore e preside delle due scuole medie ebraiche di Venezia e di Padova, portava avanti questo dop-

61 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni immobili e mobili di proprietà ex ebraica, Busta 12, fase. 4/96 (Ebrei - Discriminazioni ancora in trattazione presso il Ministero dell'Interno). Un dettagliato profilo e un curriculum del professor Levi, che include anche le sue pubblicazioni scientifiche si trova in C. CALLEGARI, Identità, cultura e formazione nella scuola ebraica di Venezia e Padova negli anni delle leggi razziali,cit., pp. 207-208 e 223-224. La vocazione di Augusto Levi era soprattutto didattica: fra i suoi scritti, oltre ad articoli scien­tifici ed una traduzione dal tedesco, si segnalano una Storia della Fisica attraverso i suoi cul­tori, ed. Zanichelli, e Lezioni di Fisica per gli studenti di Medicina e Farmacia (due corsi di litografie ed un manuale editi dalla Vallardi).

LE STORIE 103

pio incarico con grande dedizione ed efficienza, ampiamente docu­mentate nel libro di Carla Callegari. Non era certo facilitato dalle leggi razziali che non gli consentivano di avere in elenco il numero telefonico, di tenere la radio (fu respinta la sua richiesta, nel 1942, di riavere il vecchio apparecchio che gli era stato sequestrato) e che rendevano problematico anche ottenere la tessera ferroviaria per spostarsi tra le due città. Difficile era anche soggiornare nella casa veneziana al Lido, ogni volta si doveva fare domanda. Il professore la presentò alla Questura anche il 23 giugno 1942: "Durante l'anno scolastico il nostro figliolo Alvise frequenta la nostra scuola e sta ora sostenendo gli esami presso il R. Liceo scientifico di Padova. Appena finiti gli esami, come tutti gli anni, facevamo conto anche ora dal 1 luglio di trasferirci nella nostra casetta di Venezia lido, ove il ragazzo è nato e dove ci chiamano le mie cure per la scuola media di quella città, oltre all'opportunità di occupare la casetta estiva

. . . .. , "62 almeno nel due o tre meSI m CUI SI puo. Poterono andare, con divieto però di frequentare la spiaggia! Anche l'estate successiva erano al Lido, e il preside il 14 luglio

scriveva una cartolina postale all'ingegner Alberto Goldbacher, sempre per l'organizzazione della sua "scoletta", e gli dava appun­tamento per il venerdì successivo, al suo rientro a Padova. Ma pro­prio in quei giorni la caduta del fascismo riaccese di colpo la spe­ranza, e Levi attese, prima di stendere la sua relazione sulla scuo­la, il 26 agosto, un cambiamento che non venne: "Stavolta con una certa emozione mi accingo a questo esame, perché la trasformazio­ne di regime improvvisamente avvenuta in Italia il 25 luglio u.s. dovrebbe venire seguita da una presa di posizione contro le leggi fasciste sulla protezione della razza, che fu all'origine delle scuole medie ebraiche: ma il tempo passa e non devo tardare 0Itre".63

La scuoletta ebraica, alla fine di quell'estate, non riaprì.

I Levi furono "fermati" dall'Ufficio politico della Federazione di Padova cioè dalla Guardia Repubblicana, il 27 gennaio 1944. Il , . questore, cui furono consegnati, li fece accompagnare il 28 ~ennal~ al Campo di VÒ, dove rimasero fino alla sua chiusura. La VIta deglI ebrei a VÒ è documentata dalla relazione del parroco del paese, don

62 ASPd, Archivio Questura, busta 45. 63 ACEP, Buste scuola 1933-1943 (ora in C. CALLEGARI, Identità, cultura e formazione ... , cit., p.274).

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Giuseppe Rasia. Tra l'altro, vi si legge un riferimento ad uno stu­dente, si tratta verosimilmente di Alvise: "Tra gli internati vi erano persone di varie età e condizioni sociali. Uomini e donne, gioventù maschile e femminile, uno studente di liceo di 18 anni, tre fanciul­li dai 7 ai 10 anni [ ... ] I quattro fanciulli venivano in canonica con frequenza ... Anche lo studente di 18 anni mi fece qualche visita"64.

Alvise aveva bisogno di cure ai denti. Per due volte, durante l'internamento, il dotto Carlo Muraro, ufficiale sanitario e medico del campo, chiese per lui una visita dentistica, una volta ai primi di marzo, per "protesi dentaria", poi ancora i14 aprile, quando il diret­tore del campo chiese, per Alvise e per un'altra internata, Anna Zevi, il permesso di farli accompagnare da un medico: "Hanno biso­gno di cura dentaria che può essere effettuata a Este presso il den­tista dotto Saillà. Il medico di questo campo, interpellato, ha fatto conoscere che la cura potrà essere fatta in tre o quattro sedute. I predetti potrebbero essere accompagnati facilmente assieme a Este dall'agente assegnato a questo campo"65. Ma la risposta con l'autorizzazione del questore tardò fino al 3 luglio, e chissà se ci fu tempo per le cure. Due settimane dopo vennero i tedeschi e porta­rono via tutti.

La partenza dal campo è così descritta dal parroco: "Lunedì 17 luglio 1944 alle due pomeridiane, mentre faceva un gran calore, si sentirono grandi grida dalla villa. Arrivati i militari per deportare in Germania tutti i detenuti, dovettero consegnare oro, orologi, dena­ro e lasciare ogni cosa. Partirono con niente portando solo quello che avevano addosso. Attorno alle cinque su due camion, uno per gli uomini e uno per le donne, alcune sedute e altre in piedi, usci­rono dalla villa."66

Tutti furono portati in carcere a Padova, da dove, due giorni dopo, vennero trasferiti a Trieste, al campo della Risiera di S. Sabba. Da lì, il 31 luglio, partirono per Auschwitz.

Dei 47 deportati da VÒ solo tre donne fecero ritorno. Dalle loro testimonianze sappiamo che solo una dozzina superarono la prima selezione, all'arrivo ad Auschwitz nella notte tra il 3 e il 4 agosto. Gli altri furono subito eliminati.

64F. SELMIN, Da Este ad Auschwitz, cit., p. 35. 65 ASPd, Archivio Questura, busta 50, fase. di Anna Zevio 66 F. SELMIN, Da Este ad Auschwitz, cit., p. 37.

LE STORIE 105

Il padre e la madre di Alvise furono uccisi all' arrivo. Alvise superò la selezione, fu poi trasferito a Dachau (matricola

numero 119815), dove morì il 19 dicembre 1944.

Intanto, dal 4 gennaio del 1944, anche l'abitazione di via Carducci 27 era stata confiscata e violata: la casa data agli sfollati, disperse tra vari "consegnatari" le cose, gli oggetti di una vita, minuziosamente elencati uno ad uno: i mobili, le tende, i quadri, il cavalletto da pittore, l'orologio con campana di vetro, lo specchio di Murano, perfino "5 piattini da caffè senza bicchiere" ... La scrivania e lo studio del professor Levi andarono alla "Brigata mobile Danilo

Mercuri".67

*

Nel novembre di quest'anno un gruppo di allievi della nostra scuola si è recato a Dachau con il Viaggio della Memoria, organizzato per gli studenti dal Comune di Padova e dalla Comunità ebraica, ed ha lasciato nel memoriale del campo una

targa a ricordo di Alvise:

GLI STUDENTI DEL GINNASIO-LICEO TITO LIVIO DI PADOVA

RICORDANO CON COMMOZIONE ALVISE LEVI

NATO A VENEZIA IL 31 LUGLIO 1927 ALLIEVO DELLA LORO SCUOLA

QUI A DACHAU DEPORTATO (MATRICOLA N. 119815) E MORTO IL 19 DICEMBRE 1944

20 NOVEMBRE 2009

67 ASPd, Commissariato per la gestione dei beni immobili e mobili di proprietà ex ebraica,

busta 13.

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EVA DUCCI

Improvvisamente, nella mia mente si apre una finestra: Padova, tempio israelitico, il rabbino Coen ritto davanti all'arca aperta, con la sua bella voce distesa e vibrata, a conclusione dei riti per Rosh Ha-Shanà, impartisce la benedizione alla comunità. Mio padre mi accoglie con la mia sorel­lina sotto il suo tallèt, stringendomi al petto. Sento i~ suo cuore battere. Mi tiene la mano sul capo. Poi, quando la preghiera finisce, ci bacia commosso. Ha le lacrime agli occhi. Forse ha avuto un presentimento ...

(T. DUCCI, Un tallèt ad Auschwitz. 10.2.1944-5.5.1945,

Firenze, Giuntina, 2000, pp. 67-68)

Eva Ducci è la ragazza che sorride al centro del gruppo di stu­denti nella foto della scuola ebraica del 1939, e sembra guardare al futuro con serena fiducia. Così la ricordano i suoi compagni di allo­ra, dolce, premurosa, sorridente.

Era nata ad Abbazia (Fiume) da una famiglia di origine unghere­se, era venuta a Padova bambina, e si sentiva italiana e amava con grande slancio la patria acquisita che pure l'aveva rifiutata. A scuo­la era tra le più brave. Frequentò tutto il ginnasio nel corso A, e dopo le leggi razziali, fece in due anni il liceo, ottenendo la maturità anticipatamente, ancora giovanissima, nel 1940. Dopo, avrebbe voluto tanto, come scrisse nel suo diario, "scegliere una strada e perseguire una meta", e soprattutto essere utile agli altri, nella vita. Ma non le fu concesso. Non poté fare più nulla, né continuare gli studi, né lavorare, nel poco tempo che ancora le rimaneva.

Venne arrestata a Firenze, insieme ai genitori e al fratello mag­giore Teo, 1'11 febbraio 1944 e trasferita al campo di Fossoli; da lì furono tutti deportati ad Auschwitz, il 5 aprile del 1944.

I genitori furono entrambi uccisi all'arrivo al campo, il lO aprile. Teo invece sopravvisse.

Eva morì ad Auschwitz nel luglio del 1944. Quando giunse a Fossoli, vi era ancora internato Primo Levi. Per

una decina di giorni condivisero la vita del campo. Levi partì per Auschwitz il 22 febbraio, con il convoglio n. 8, Eva con il convoglio successivo, il n. 9.

Non sappiamo se si siano conosciuti. Possiamo però pensare che la situazione di Eva sia stata la stessa, uguali lo sgomento e l'orrore

LE STORIE 107

alla vigilia della partenza per un destino ormai noto, quale che fosse la meta del viaggio:

E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani, né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire [ ... ] ..,

L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole SI aSSOCIasse agh uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, d~ religios~ abbando­no, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la nott~ lnso~~e, In una col­lettiva in controllata follia. Il tempo di meditare, il tempo dI stablhre erano con­chiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, doloro­si come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. .

Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non restI memoria. 68

*

La storia dell'arresto e della deportazione della famiglia è narra­ta da Teo, che, sopravvissuto ad Auschwitz, sopravvisse anche alla terribile 'marcia della morte' con cui nel gennaio del 1945 il campo era stato evacuato, e raggiunse Mauthausen, dove fu liberato dagli americani il 5 maggio del 1945. Nel suo libro di ricordi, scritto ormai alla fine della sua lunga vita (è morto, quasi novantenne, nel 2002), egli racconta quelle terribili vicende.

Nell'estate del 1943 i Ducci si trovavano a Crespano del Grappa "un po' in villeggiatura, un po' sfollati"69. L:8 settem"?re ~ l'occupazione tedesca li travolsero. Fallito un pnmo tentatlvo d1 organizzare una banda partigiana, a Te? fu cons~gliato. da ~r~esto Seguso, suo amico e suo contatto veneZ1ano con Il Partlto d AZlOne, di scappare immediatamente. Andarono così a Venezia, do:re pe~ qualche tempo alloggiarono presso una pens~one. I? quel c11~a ~l grande tensione e incertezza, anche per loro Il destmo fu deCISO m modo fortuito e casuale:

Non sapevamo che fare. Voci correvano che la frontie~a con la .Svizzera era chiusa e che gli Alleati stavano sbarcando in Toscana. DeCIdemmo. dI and~re loro incontro. Saputo che un treno diretto al sud stava per essere a~lest1to.' de~l~emmo di prenderlo. E così arrivammo a Firenze in un'enorme confusIOne dI notiZIe con-

68 P. LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi, 2006, pp.13-14. 69 T. DUCCI, Un tallèt ad Auschwitz, cit., p.13.

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traddittorie. Abbiamo trovato alloggio alla pensione Crocini, corso Italia 28. Era una piccola pensione un tempo frequentata da turisti e pensionati inglesi, con­dotta da una straordinaria creatura, Margherita Crocini, cattolica fervente e pra­ticante, che ci tenne finché i controlli della polizia resero il nostro soggiorno peri­coloso anche per lei.

Tentammo di trovare, tramite l'Arcivescovado, un rifugio più sicuro, ma inutil­mente. Venimmo a sapere casualmente che il marchese Nicolò Antinori era il pre­sidente della Croce Rossa. Mia madre, quando ad Abbazia gestiva un'agenzia di forniture alberghiere, era stata rappresentante della sua casa vinicola, e quando il marchese Nicolò, allora alle sue prime esperienze, veniva due volte all'anno a visi­tare la clientela locale era sempre nostro ospite. Andai a trovarlo e gli esposi la nostra situazione. Non volle promettere nulla ma mi chiese di tornare.

Dopo alcuni giorni mi mise in mano le chiavi di un appartamento che apparte­neva a gente che non avevo mai conosciuto e che, conscia di tutte le conseguenze alle quali poteva andar incontro, era comunque ben disposta ad offrirmi ospitalità. Al portiere era già stato detto che eravamo amici di famiglia sfollati dopo un bom­bardamento. Sbalordito, incredulo, non ho mai saputo né potuto esprimere la mia gratitudine.

Ci organizzammo così nel confortevolissimo appartamento, sempre in corso Italia, a pochi portoni dalla Pensione Crocini.

Mio padre frequentava l'ufficio di Renato Mosca e Carlino Mazzoli, dove pur­troppo lo riconobbe Herr Warnecke, un tedesco che già aveva tentato di persuade­re Ernesto Seguso a disfarsi della collaborazione di mio padre perché ebreo.

lo avevo ritrovato amici d'altri tempi sulla cui discrezione potevo contare. Con mia sorella Eva andavamo alla scoperta di Firenze. E quella fu un'enorme legge­rezza dovuta all'imperdonabile ignoranza delle più elementari norme della clande­stinità. Ricordo che una mattina, uscendo di casa con lei, notai un tizio che, fin­gendo di leggere il giornale, lo ripiegò e ci seguì per un tratto.

La sera del lO febbraio Eva aveva appena finito di rigovernare, stavamo andan­do a letto quando il campanello squillò imperiosamente e qualcuno battendo i pugni sulla porta urlò: "Aprite, polizia!".

Eravamo tutti e quattro nel breve corridoio sul quale si apriva la porta d'ingresso. Quando quel campanello trillò mio padre stava accanto alla mamma, dietro di me.

In quell'attimo, mentre lo squillo sinistro e tenace vibrava ancora nell'aria, sen­tii il suo sguardo posarsi sulla mia nuca. Poi mi mossi e la sua pietà, la sua tre­pidazione che sentivo addosso mi impedirono di trovare la forza per sottrarmi al nostro destino. Ancora un passo, ancora un attimo eterno, terribile. Poi entraro­no, infrangendo il silenzio, la nostra pace, la nostra vita.

Fu quello il principio della nostra fine. Non ci parlavamo, evitavamo di incro­ciare i nostri sguardi. Eravamo in trappola. I due energumeni, quasi rassicuran­doci dissero: "Siete ebrei, lo sappiamo. Siete in arresto". Poi ci spiegarono che avremmo dovuto andare a lavorare in Germania dove faceva freddo. Ci munissimo quindi di indumenti caldi e qualche pelliccia; loro avrebbero avuto cura di ciò che non ci serviva fino al nostro ritorno. Nel frattempo potevamo riposare. E si misero a giocare a carte in cucina. Eva con la massima calma chiese se volevano un caffè. Sì grazie, perché no? Preparammo i pochi bagagli, tenendo conto della loro racco­mandazione. Babbo e mamma, su nostra insistenza, si distesero per un pisolino. Ricordo con strazio come li vidi disperatamente abbracciati nel gran letto della loro

LE STORIE 109

All ' lb hl'amato telefonicamente comparve un graduato nazista. Firmò camera. a a, c , . b l . !" all're su una camionetta che attendeva m strada. Nella luce un ver a e e Cl Iece s . l' d'f" bbl"

.. dI' na iniziato notai le bandIere esposte sug 1 e 1 ICI pu ICI per lIVIda e gIOrno appe, Ch', festeggIare anmversano . l" . della firma del concordato fra Stato e lesa: era 111 feb-braio.

Dopo un periodo nel carcere de.ne ~urate, il trasferi~ento al d · F Il' e agli inizi di apnle, Il treno per AuschWItZ. campo l osso , , d" . .

Il 't' e dell'arrI'vo al campo Teo perse l VIsta l SUOI Ne a conCI aZlOn '. .. . f '1' . SUbl'tO l'ntu'I la fine che avevano fatto l gemton. E Il suo amI lan. d" lt .

. . t andò alla sorella come acca ra m a n penSIero angoscia o ". . momenti della vita del campo, nonostante lo sforzo dI sopraVVIven­za imponesse l'annullamento del ricordo:

Sono morti, ecco tutto. Morti e bruciati e mandati in fumo. I miei adorabili geni­

toriEVa? A lei a lei cosa è successo? Qui il mio pensiero si ~erma per~hé n~n oso d re'avanti Ha subito la mia stessa trafila? O è stato peggIO? Perch~ meglIo n~n

~:te:a essere ·stato. Eva, si salverà~ Ce}/i farà? Avrà saputo anche leI? E come o ha saputo? Povera Eva, dolce sorellma.

D~nque, se ieri era Natale, oggi è il.26 dic~mbre, sarebbe il compleanno di mia sorella Eva Ma Pali ha ragione, non SI deve ncordare. !" t d' .

. M' mpre Siorza o 1 eVl-Cerco di cancellare i pensieri che mi vengono. 1 sono s~ t1' tare di pensare a mia sorella ed a quello che può es~erle capItato. Dura u~ a l~~ e nel gran nulla del Lager emerge il ricordo dI quella frase, capt~.a .ne . Quarantena: i tuoi genitori? Vedi quel fumo? Sì, quel fumo lo vedo tuttI 1 glOrm,

ma riesco a pensare ad altro. . '1 D t ? 71 E' solo fumo che esce da un camino. E il fetore? Ti dice mente, l e ore.

Teo non avrà notizie della sorella per tutt~ la ~urata della depor­tazione. Si trovavano anche in campi diverSI: 1m nello Stammlager Auschwitz 1 Eva a Birkenau. .

Avviato alia "marcia della morte", nel gennaio del 19;5, !SlUnse ~ Mauthausen nell'imminenza della liberazione. Dopo 1 ar~IVo deglI americani trascorse un mese di cure e convalescenza nell osp:dale da campo subito allestito, e fu curato da una dottor~ssa amencana

h al momento di salutarlo lo abbracciò dicendoglI: "Bye ?ye Teo. c e . ':D r you (CIao Teo Take it easy because the worst 1S commg o ." 7~ Prenditela comoda, perché il peggio, per te, deve ancora arnvare) .

70 Ibidem, p. 33. 71 Ibidem, p. 101. 72 Ibidem, p.177.

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110 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Al ritorno a Firenze, nella faticosa ripresa di una vita normale la s~eranza riaffiorò prepotente ("Forse Eva. Almeno lei!") e il rico;do dIvenne ossessivo :

Di notte avevo degli incubi. Mi svegliavo di soprassalto, stravolto, madido di sudore, col cuore in tumulto. Sognavo quella terribile notte del lO febbraio 1944 q:uan~o due energumeni, pistole spianate, fecero irruzione nell'appartamento che Cl ospItava: -Ebrei? Venite con noi!-.

La nostra casa di Padova era stata requisita ed era occupata da non so chi. 73

Dunque non ave.vo più una casa. La mia famiglia, i miei genitori, Eva, la mia dolce adorata sorellma, erano svaniti nel nulla di Auschwitz .14

È questo il tema dominante dell'ultima parte del libro di Teo Ducci, che si conclude proprio nel nome di Eva, con la tragica noti­zia della sua fine:

Cominciai ad andare in ufficio ogni mattina, e la sera preferivo trattenermi sempre fino a tardi per essere l'ultimo ad uscire. Ma quando mi trovavo nella mia s~anz~ .crede~o d'i.n::pazz~re nella spasmodica attesa di mia sorella Eva [ ... l. Ma i glOrm mtermmabllI dell attesa non passavano mai. Finché una mattina Renato venne nel mio ufficio. Era pallido. Teneva in mano un foglietto che non si decide­va a mostrarmi. Balbettò qualcosa.

"Eva?" "Sì, di scarlattina, nel luglio scorso": La stanza ha girato intorno a me. Chiesi di essere lasciato solo. The worst is coming. Il peggio era arrivato. 75

*

La prima notizia della morte di Eva giunse alla comunità ebrai­ca di. Padova da q~ella di Trieste, con una lettera del 30 luglio: "Vi rendl~m? noto. af~mché possiate comunicare alla famiglia con i do~t1 nguardI,. dI aver appreso dalla sig.ra Herskovitz Agata di anm 21 da FlUme, reduce dal campo di concentramento di Auschwitz, che la sig.ra EVA DUCC! di Padova è deceduta per scar­lattina nell'estate del 1944".76

73 L'abitazione de~ Duc~i, all'ultimo piano di via Damiano Chiesa 4, era stata confiscata, come tutte le case degh ~bre1. Il verbaled,ei vigili, senza data, precisa: "L'appartamento composto d~ n. 5 vam, 1 cucI~a ed acceSSOrI e stato dato dall'Ufficio Alloggi al sig. Se arante (profugo). L appa~tamento all atto dl conse.gna al sig. Scarante era completamente vuoto" (ASPd, Comm!ssarwto per la gestwne de! beni ex ebraici, busta 53). 74T. DUCCI, Un tallèt ad Auschwitz, cit, pp. 180-18l. 75 Ibidem, p.183. 76 Il doc~mento fa parte del Fondo Teo Ducci, conservato presso l'archivio della Fondazione Cer:tro dI D~c~mentazione Ebraica Contemporanea (ACDEC) di Milano. Salvo diversa indi­cazIOne, tuttI I documenti citati provengono da questo archivio. Si ringrazia la Fondazione

LE STORIE 111

Teo era ritornato a Firenze, dalla Germania, il lO luglio 1945. Ai primi di agosto era già a Padova, in cerca di notizie, convinto della salvezza di Eva. Ma l'informazione appena giunta sulla sorella non gli venne comunicata subito, si voleva essere sicuri, e il 9 agosto vennero perciò richieste conferme a Trieste:

Il Dott. Teo Ducci si trova in questi giorni a Padova di passaggio proveniente da Firenze ove ha fissato dimora, reduce da Mauthausen; fu trasferito in questo campo da Auschwitz ove venne effettivamente deportato con la famiglia costituita dal padre, Rodolfo, dalla madre, Luisa, e dalla sorella Eva (nata il 26 dicembre 1922). I quattro vennero separati alla stazione di Auschwitz. Successivamente Teo Ducci ha avuto notizie che egli afferma in tutto degne di fede, sul conto della sorel­la Eva: una compagna di Blok di questa gli ha assicurato che Eva era partita da Birchenau in ottime condizioni di salute per l'interno della Germania nell'estate

del '44. È forse assai probabile che questa sia stata una pietosa bugia. Tuttavia Teo

Ducci dice di aver avuto ultimamente altre notizie, più vaghe però, ma confortan­ti, circa la presenza di sua sorella in un campo non specificato della Germania centrale, dopo l'arrivo degli americani. Dato che Voi parlate, nella Vostra lettera di una Signora Eva Ducci, mi si affaccia la debole speranza che possa trattarsi della

madre. Per tali ragioni, prima di fare qualsiasi passo per dare la triste comunicazione,

desidererei che interrogaste ulteriormente la signorina Herskovitz. Vi allego una fotografia, che vi prego di mostrare alla signorina per il ricono-

scimento. Eva Ducci è la giovine a sinistra di chi guarda. PregandoVi di rispondermi con la massima sollecitudine vi ringrazio e Vi salu-

to distintamente

Sul foglio, a mano, in calce: "Senza risposta sino ad oggi 29 ago­sto". Era però arrivata nel frattempo un'altra conferma, con una nota diramata dalla Comunità ebraica di Venezia "Alle diverse comunità d'Italia" il 26 agosto:

Informazioni Deportati. La sig.na Navarro Amalia, rientrata dal campo di concentramento ungherese di

Agfalva il 20.8.1945 ci ha fatto la seguente deposizione: Ducci Eva di Padova è morta di morte naturale nell'Ospedale di Auschwitz nel

Luglio del 1944.

Ormai non potevano più sussistere dubbi, e la notizia fu comu­nicata, pur nella maniera più delicata possibile. Giorgio, amico padovano di Teo, incaricò uno zio a Firenze di rintracciare la per­sona più adatta a questo doloroso incarico:

CDEC per aver cortesemente concesso di pubblicare i documenti richiesti.

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112 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

Caro zio,

ti prego di aiutarmi in una triste e delicata bisogna. Il mio amico Teo Ducci di Padova era stato deportato con la famiglia intera. Ritornato da Auschwitz, crede fermamente che sua sorella Eva sia pure salva. Invece abbiamo ricevuto due testi­monianze che smentiscono nettamente tale versione.

Ritengo sia meglio che la notizia venga partecipata da qualcuno che gli possa essere vicino. Ma siccome non conosco il nome dell'amico di Teo Ducci, che con­duce con lui la Ditta sottoindicata, ti prego di far avere questa lettera e copie alle­gate alla Ditta stessa procurando non cadano subito in mano di Teo.

Sono certo che vorrai interessarti di questo caso così tragico, e ti ringrazio mol­tissimo [ ... ]

tuo Giorgio

Era forse questo il biglietto che Renato Mosca teneva tra le mani, quando comunicò a Teo la notizia che gli fece crollare il mondo addosso.

Per molto tempo ancora egli continuò a cercare notizie della sorella, forse con qualche segreta speranza, dato che della morte di Eva nell'ospedale di Birkenau non trovò mai alcuna documentazio­ne ufficiale. Ripetutamente chiese alla Croce Rossa di fare nuove ricerche, e non solo nei primi anni del dopoguerra, ma anche molto dopo, nel 1963, ed ancora nel 1984. Ma sempre gli giunse la stes­sa risposta: "Le Service International de Recerches ne possède pas de documents prouvant le décès des personnes en questiono En conséquence il ne lui est pas possible de faire établir des acts de décès. »

LE STORIE 113

Una storia tipicamente ebraica

LA FAMIGLIA DUCCI

Così, "una storia tipicamente ebraica", Rodolfo Ducci definisce la storia della sua famiglia che si appresta a scrivere, in forma ~i let­tera, nel 1936, al figlio Teo, ("mio caro figliolo"). E aggiunge: "E una storia molto interessante. Basta guardare il cammino e pensare che tuo bisnonno oltre l'ebraico parlava tedesco e un poco ungherese, tuo nonno tedesco e ungherese, la mia madrelingua ungherese, mentre tu sei italiano".

La storia della famiglia Ducci, che originariamente si chia~ava Deutsch, si snoda attraverso un secolo e diversi paesi della Mitte­leuropa. Rodolfo ne narra l'ascesa, in un it~lian~ ap~ena. un po' imperfetto, con scrittura minuta ed elegante, m seI pagme fItte ,che si interrompono alla svolta del secolo77 . Inizia in Ungheria, a P~pa, dal bisnonno di Teo ed Eva, Salamone, nato intorno al 1830, pnmo artefice delle fortune della famiglia: "Suo padre faceva quello che tutti gli ebrei di quei tempi del ghetto e del contrassegno giallo face~ vano andava da mercato a mercato". Il giovane Salamone pero dive~ta sarto, nell'insurrezione del 1848-49,. già emancipato, si arruola nell'esercito di Kossuth, e dopo la guerra rimane a Pest, dove si sposa ed ha sei figli. Di questi, Karl, nato nel 1862, si. riv~: la il più promettente: "Mio padre Carlo - narra Rodolfo - e~a 1.1 pm intelligente, ha fatto le scuole commerciali a ~est, ~ pr.esto e d~ven­tato lui il capo di famiglia, mantenendo oltre l gemton anche l fra­telli. Aveva una bella voce, era un bel ragazzo e giovanotto e canta­va nel coro del tempio. Di questo lui era fiero fino in tarda età e sempre parlava dell'ammirazione dei fedeli quando di sabato can­tava assolo Lecho dauch".

A quindici anni Karl già lavora come contabile, a 19 ~ 20 si impie­ga presso una grande sartoria di Budapest, la K. Neulander&Sohn, con un contratto "curioso", le cui condizioni, peraltro molto van­taggiose, includono una clausola che impegna Karl a sposare, entro tre anni, la figlia del proprietario, "una brutta do.nna, ~a con t~nto di dote". Nel frattempo, brillante e capace come SI era nvelato, VIene mandato a Berlino e a Vienna per conto della sartoria, che aveva

77 Il manoscritto si trova in ACDEC, FP, Fondo Teo Ducci.

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114 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

fama europea. A Vienna, in casa di conoscenti, gli Zuckermann, conosce una ragazza tedesca, Fanny Stein: "Era una domenica e lunedì mattina il giovane Karl D. ha chiesto la mano della ragazza di 19 anni conosciuta il giorno prima. Gran stupore, ma tutte le dif­ficoltà furono vinte". Il giovane deve naturalmente lasciare la sarto­ria Neulander, ma ne fonda una tutta sua, la "gloriosa" Ditta Deutsch F. K. (nell'intestazione, "per buon augurio", vuole inserire anche l'iniziale della moglie Fanny). "In breve questa ditta è diven­tata la prima sartoria da uomo, non solo a Budapest, ma in Europa centrale e dettava la moda da uomo. La clientela era la più eletta che si possa immaginare, non si accettavano clienti che su racco­mandazione.Tutti gli uomini di stato, l'aristocrazia ungherese, l'alta finanza, artisti, sono venuti così a contatto con mio padre". I gua­dagni gli consentono di provvedere anche ai genitori e ai fratelli, oltre ad assicurare alla sua famiglia un'esistenza "agiata, anzi bril­lante".

Nel 1888 il ministro ungherese del commercio delega Karl Deutsch a visitare l'esposizione mondiale di Londra. A seguito di questa visita, scrive Rodolfo, fu aperta in Ungheria la prima filan­da, ma non solo. Attirato dai nuovi sistemi di vendite inglesi, i "grandi magazzini", Karl apre nel 1892, nel centro di Budapest, l'''English Warehouse", "il primo magazzino di abbigliamento, alle­stito con sfarzo sconosciuto a Budapest finora. Era il primo che ha adoperato le lampade elettriche ad arco, occupava oltre al pianter­reno e le cantine, trasformate in locali di vendita, anche il primo piano. Nell' English Warehouse tutto si trovava per l'abbigliamento e lo sport, era il primo che ha introdotto i vestiti fatti di alta qua­lità".

Il salto dalla sartoria di lusso, tradizionale, al grande magazzino pone nuovi problemi: l'aumento della clientela, ma anche inevita­bilmente l'abbassamento della qualità, la necessità di ingenti capi­tali, in parte ottenuti con prestiti onerosi, e di un gran numero di dipendenti. Infine, fatto forse più doloroso, la defezione di alcuni stretti collaboratori, specie tagliatori. Il primo a lasciarlo è la sua "mano destra" Fried, poi Batta, il "piccolo sarto" che era anche dive­nuto suo cognato, poi altri, e tutti si portano via un po' di cliente­la. Contrasti, nel tempo, maturano anche con una sorella ed un fra­tello che aiutano Karl nella gestione.

La fondazione del Warehouse coincise col culmine della fase espansiva che Budapest aveva vissuto passando da cittadina a capitale (dopo l'Ausgleich del 1867). La città aveva raggiunto il

LE STORIE 115

milione di abitanti e conosciuto un enorme sviluppo immobiliare e speculativo. "Erano gli anni delle vacche grasse", ricorda Rodolfo, e anche se la crisi sarebbe venuta di lì a poco, l' "Esposizione del Millennio" nel 1896 portava a Budapest visitatori da tutto il mondo, e buone possibilità di affari.

Il clima era ancora favorevole, "la vita della famiglia corrisponde­va alla posizione sociale ed alla stima generale che mio padre gode­va ove rivestiva dei posti onorifici". Così, nonostante i problemi, il grande magazzino prospera ancora, anche "grazie ad una pubbli­cità del tutto nuova e geniale" e alla "fortuna". "Mio padre si fidava della sua fortuna, che per molti anni non lo abbandonava. Questa fortuna che si manifestava come un "deus ex machina" è diventata sua convinzione appunto perché si manifestava regolarmente. Quando poi le carte cambiavano, il contraccolpo era troppo forte".

La fortuna! Non sarà solo l'eclissarsi di una buona stella perso­nale, ma il deterioramento generale del quadro storico a mutare, come per molti altri, la sorte dei Deutsch, questa famiglia la cui ascesa aveva scandito le conquiste sociali del secolo della borghe­sia, il tempo dell'emancipazione e del riconoscimento dei pieni dirit­ti civili agli ebrei. Ma alla fine dell'Ottocento rimontava in tutta Europa un antisemitismo feroce e diffuso, che si riverserà con straordinario accanimento sulla famiglia del sarto Karl, sui suoi figli e nipoti, fino a distruggerla.

L'ultima immagine descritta da Rodolfo ritrae se stesso in un giorno di festa di quarant'anni prima, bambino di 9 anni, sul ter­razzo al primo piano della casa nel cuore di Budapest, punto stra­tegico di osservazione dei principali avvenimenti cittadini (lì sotto passavano i cortei e le sfilate, da lì aveva visto i funerali di Kossuth, e il passaggio del re e dell'imperatore Guglielmo in visita): guarda­va incantato le grandi celebrazioni per il Millennio, la pompa "che non si può immaginare" con la quale la nazione magiara si presen­tava al suo sovrano, con i 52 rappresentanti dell'aristocrazia nel loro costume "con uno sfarzo incredibile, in velluto e seta pesante, con gioielli di grandissimo valore, i cavalli bardati con preziosi cuoi

e gioielli". . È l'inizio di un aneddoto, ma il seguito è andato perduto, Il

manoscritto si interrompe qui. Per conoscere come andò a finire dobbiamo tornare alle memo­

rie di Teo Ducci, in particolare al suo libro autobiografico Un tallèt

ad Auschwitz. Qui Teo racconta che, nella prigione delle Murate di Firenze,

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dov'erano rinchiusi prima della deportazione, il padre gli parlava "del nonno Carlo di umili origini, diventato il più rinomato sarto di Budapest, fondatore di una innovativa azienda di abbigliamento, e di come questa fosse andata distrutta a causa di un incendio dolo­so per il quale la compagnia di assicurazioni s'era rifiutata di ono­rare la polizza quando scoprì che il beneficiario era ebreo. Disgustato, il nonno si trasferì a Vienna iniziando una nuova atti­vità in tutt'altro campo. Ma tale era la sua fiducia negli Asburgo, che investì tutto il suo patrimonio nel prestito di guerra e lo perse ovviamente fino all'ultimo soldo". 78

E ricorda che il padre gli raccontava anche del fratello minore, "lo zio Ernesto, ingegnere, direttore di un grande cantiere navale in Germania, che aveva sposato la bellissima Ilse, figlia del Governatore della Banca di Stato. La Gestapo costrinse la moglie a divorziare per "difendere" i due figli nati dal precedente matrimonio perché, a detta dei nazisti, non potevano convivere con un patrigno ebreo. Zio Ernesto sparì senza lasciar traccia di sé e di lui non si è più saputo nulla"J9

Nei giorni delle Murate, quando con lucida premonizione intui­sce la fine imminente, Rodolfo si confida come mai prima con il figlio, e gli racconta di sé anche quello che in precedenza aveva solo lasciato trapelare, forse per riserbo, forse per non turbarlo e allar­marlo:

Seppi finalmente come, mobilitato dall'esercito austro-ungarico quando io avevo giusto un anno, egli fosse andato in guerra da sottotenente col cavallo di sua proprietà ed avesse fatto quattro anni nel Genio trasporti sul fronte russo, guada­gnandosi due promozioni e due medaglie al valore.

Al collasso del fronte, assieme ad un amico aveva riportato a Budapest la cassa del Corpo d'Armata. Al Ministero, un imboscato bellimbusto dai molti cognomi ari­stocratici, imbrillantinato e monocolato, si era chiesto di quanto i due ebrei che gli stavano davanti avessero alleggerito quei fondi a proprio vantaggio.

Ne seguì una scazzottata generale conclusa con la minaccia di deferimento alla corte marziale non già di quel mascalzone, ma dei due ufficiali. Fu a questo punto che mio padre decise che in quel paese non avrebbe più messo piede. Mia madre ed io ci trovavamo ad Abbazia per consolidare la mia incerta salute. Ci raggiunse; ed essendo Abbazia nel frattempo diventata italiana, fu ovvia la decisione di rima­nervi e di chiedere la cittadinanza italiana.

Lo scopo primario di quella decisione fu quello di assicurarmi un avvenire che non mettesse mai in pericolo il mio essere ebreo. Babbo e mamma ricostruirono

78 T. DUCCI, Un tallèt ad Auschwitz, cit., p.20. 79 Ibidem, p. 21.

LE STORIE 117

da zero le loro esistenze. Solo quando io avevo ormai quasi dieci anni e la loro posi­zione economica sembrava rassicurante, essi decisero di darmi una sorellina, Eva. E quella fu un'altra motivazione per vivere la nuova vita, liberi e tranquilli.

80

Fu così dunque che i Deutsch giunsero in Italia, affascinati da un paese di cui Rodolfo ammirava la cultura, fermandosi in quella che era stata la più rinomata località balneare dell'impero austroungarico, divenuta italiana dopo la guerra e perciò, credeva­no al riparo dall'antisemitismo che ossessionava Rodolfo: "L'~ntisemitismo era il suo rovello. Lo detestava, cercava di capirlo, lo giudicava fuori del tempo, inspiegabile nelle sue manifes~a~ioni viscerali, dovute all'ignoranza, ai pregiudizi, al fanatismo relIgIOSO. [ ... ] L'incidente di Budapest, certamente, aveva l~sciato nel s~~ animo cicatrici e risentimenti profondi. In Unghena non era pm voluto tornare se non nel 1935, quando, sollecitato a far parte di una delegazione del Governo italiano alla Fiera di Budapest, si lasciò persuadere ad accettare l'incarico".

Ad Abbazia Rodolfo risulta proprietario di un negozio di tessuti già agli inizi del 191981 , mentre la moglie Luisa Hoffmann ottenne, il 28 marzo del 1922, una licenza "all'esercizio dell'industria libera per la vendita all'ingrosso di cioccolata, biscotti, vini, liquori ed altri generi alimentari". Luisa si occuperà in seguito anche di forniture alberghiere82 , rafforzando la posizione economica della fami?lia. Nel 1925 ebbero la cittadinanza italiana, nel 1933 venne Imposta l'italianizzazione del nome in Ducci. 83 A questa data abitavano già a Padova, e proprio quell'estate Eva aveva superato gli esami di ammissione al ginnasio e si era iscritta al Tito Livio. Il verbale d'esame registra la modifica anagrafica, con il cognome Deutsch cancellato e sostituito dal nuovo cognome, e l'annotazione: "In base a decreto del prefetto di Fiume, emesso il lO giugno 1933 XI, ebbe

80 Ibidem, p.19-20. ,. SI Nel Fondo Ducci si conserva un biglietto del 20 febbraio 1919 nel quale Rodolfo, nelllm­minenza di un temporaneo rientro in patria, dichiara che non assumerà impegni co~ le aut,~­rità dei nuovi stati dell'ex impero durante la sua permanenza a Budap:st .. E agglUr:ge:. A titolo di garanzia lascio ad Abbazia la mia famiglia e i miei beni (un negozlO dI tessuto m villa Schauzer)". S2 Vi fa riferimento, come abbiamo visto, Teo Ducci, quando ricorda che durante la clande­stinità, a Firenze, furono aiutati dal marchese Niccolò Antinori, allora presidente d:lla Croce Rossa che era stato cliente di sua madre.: "Mia madre, quando ad Abbazia gestIva un'ag~nzia di forniture alberghiere, era stata rappresentante della sua casa vinicola, e .q~an­do il marchese Niccolò, allora alle sue prime esperienze, veniva due volte all'anno a VISItare la clientela locale, era sempre nostro ospite" (Un tallèt ad Auschwitz, cit., p.14). 83ACDEC,FP, Fondo Ducci, Stato di famiglia del 1964 (Comune di Padova).

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modificato il cognome nella forma italiana di Ducci". A Padova si erano trasferiti almeno dal 1929, anno in cui sono

ritratti insieme dal fotografo Turola. Dai registri del liceo, che trascrivevano la professione del capo­

famiglia, Rodolfo risulta "ispettore centrale S. A. Venchi", probabil­mente l'industria dolciaria. Con questo lavoro doveva assicurare alla famiglia un certo benessere, ma nulla di paragonabile agli splendori di quand'era bambino a Budapest. Divenne poi titolare una piccola ditta, la CAM (Creazioni Artistiche Moderne), collegata poi alla Knoll International: si occupava di import-export di oggetti d'arte, per questo era in rapporti d'affari, e d'amicizia, con la vetre­ria di Ernesto Seguso a Murano.

Rodolfo Ducci era un uomo colto e raffinato. Di lui Teo racconta: "lo sapevo che mio padre, che parlava correntemente sei lingue e leggeva molto, approfittando dei suoi viaggi d'affari, aveva una soli­da conoscenza del mondo. Sapevo della sua amicizia con Marta Abba e Pirandello, del suo entusiasmo per Marinetti, le cui serate futuriste erano occasione di divertimento". 84

Amava il violino e lo sapeva suonare bene, (tra le carte dell'ar­chivio familiare sono conservati programmi di concerto che lo indi­cano tra gli esecutori), ma per qualche oscura ragione che il figlio non sa spiegarsi, non lo toccava quasi più. Religiosamente era un "ebreo laico", ma molto credente, e frequentava il tempio e la comu­nità. Non era mai stato fascista.

Il figlio maggiore Teo aveva un carattere forte ed indipendente, perfino combattivo, come appare anche da molte parti del suo libro su Auschwitz.

Da un curriculum vitae da lui stesso redatto sappiamo che nel 1931 aveva ottenuto il diploma di ragioniere presso l'Istituto tecni­co commerciale di Padova, e poi, fino al 1938 aveva lavorato come "traduttore accreditato presso l'Università di Padova, praticante presso i giornali locali, traduttore per la casa editrice Baldini e Castoldi di Milano". Il 6 novembre 1939 si era laureato all'Università Ca' Foscari di Venezia in Scienze applicate alla car­riera diplomatica. Ma non poté mai nemmeno avvicinarsi a questa professione, ed anzi venne cacciato anche da tutte le altre all'ema­nazione delle leggi razziali. Dovette allora trovarsi un lavoro nel commercio, nella ditta del padre e come rappresentante di materiali

84 T. DUCCI, Un tallèt ad Auschwitz, cit, p.17.

LE STORIE 119

d'imballaggio: a questa professione dovrà la sua salvezza, il qualifi­carsi Pachteckniker (tecnico degli imballaggi) al momento della schedatura al lager, gli permetterà di essere aggregato ad uno dei Kommandos più favorevoli per le condizioni di lavoro.

Teo, nelle conversazioni con il padre alle Murate, scopre con pia­cevole sorpresa che egli aveva apprezzato lo spirito di indipendenza e di autonomia delle sue scelte: "Per la prima volta mio padre mi espresse la sua soddisfazione perché, appena finita la scuola supe­riore, m'ero messo a lavorare, pagandomi gli studi universitari e i miei divertimenti. La stessa soddisfazione che provò quando, appe­na laureato, sotto la pressione dell'incombere della persecuzione antiebraica fascista, entrai a far parte della sua piccola ditta appor­tandovi un contributo sostanziale. Del suo inatteso apprezzamento ero orgoglioso".

In una lettera del 1998 egli traccia una sintesi della sua vita:

Sono nato a Budapest da genitori ebrei ungheresi. Mio padre, dopo aver com­battuto per quattro anni sul fronte orientale guadagnandosi due medaglie al valo­re e tre promozioni, non ha più voluto vivere in Ungheria diventata un paese vio­lentemente antisemita. Ho avuto un'educazione laica ma corroborata da una forte coscienza ebraica. A quindici anni ho preso a pugni, per la prima e l'unica volta nella mia vita, un compagno che mi aveva insultato come ebreo, ma che ha dovu­to chiedermi scusa davanti a tutta la scolaresca riunita nell'aula magna della scuola. Nel 1938 la mia nuova patria mi ha degradato da cittadino a suddito. Nel 1944 sono stato arrestato e deportato con i miei genitori e la mia sorellina ad Auschwitz, da dove essi non sono tornati. Al mio ritorno non ho voluto avere figli...

Sopravvissuto a ben due campi di concentramento, ne portò però sempre gli effetti distruttivi nel fisico (per tutta la vita dovette sot­toporsi a pneumotorace, con conseguenti problemi cardiaci) e nel­l'anima, con il desiderio che nulla di sé sopravvivesse all'annienta­mento della famiglia, espresso dalla decisione di non avere figli, nonostante il matrimonio felice con Elsa Bruschi e una vita realiz­zata sul piano professionale (continuò il lavoro del padre, occupan­dosi di commercio d'oggetti d'arte e di arredamento)85 e dell'impe-

85 Quando rilevò, dopo il ritorno, l'azienda del padre, anche Teo (come capitò ad altri ebrei nel dopoguerra) dovette scontrarsi con un insensato accanimento burocratico. Gli fu infatti notificata l'ingiunzione (dellO agosto 1945) di pagare all'esattoria di Padova una "tassazione su profitti conseguiti per forniture effettuate al tedesco invasore", in relazione alla società paterna di import-export d'artigianato artistico che negli anni delle leggi razziali (cointestata ai due soci ariani con i quali Teo riprese poi la collaborazione) aveva continuato l'attività. Teo

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gno civile: fu a lungo vicepresidente dell'Associazione ex deportati (ANED) e sempre attivo come testimone della Shoah.

I dieci anni che lo separavano da Eva, la "dolce adorata sorelli­na" e la forza del temperamento conferirono sempre un carattere protettivo ai suoi rapporti con lei. Un grandissimo affetto li univa e una profonda comprensione. Di lei Teo ha conservato numerose foto, una lunga lettera e un piccolo diario di sole sei pagine, scritto tra il 1938 e il 1943.

Le foto di Eva da bambina la ritraggono quieta e riflessiva, spe­cialmente due: ancora piccola in una, con il grembiulino di scuola, mentre legge sul terrazzo della casa padovana; appena adolescente e già con gli occhiali nell'altra, nella poltrona di casa e ancora immersa nella lettura, il capo chino sul libro e il viso assorto. L'amore per la lettura l'aveva appreso in famiglia, dal padre appas­sionato di libri, dal fratello traduttore di opere letterarie ungheresi. E furono libri, una raccolta per ragazzi, il dono che i Ducci fecero alla scuola ebraica nel 1940. 86

Da ragazza, nelle foto con il fratello, con 1'amica Bianca Calabresi, o con i genitori è sempre sorridente, l'espressione sere­na. A raccontarci il suo stato d'animo e i suoi turbamenti, quelli normali dell'età e quelli straordinari del drammatico momento sto­rico, sono soprattutto la lettera al fratello e le pagine del suo diario.

A scuola era bravissima. Nell'ultimo anno da studentessa rego­lare, in quinta ginnasio, venne promossa con 8 in italiano, in lati­no e in francese, 9 in greco e in storia/ geografia, 7 in matematica.

Quell'estate (non c'erano ancora le leggi razziali) Eva scrisse le prime righe del suo diario, in un libriccino dove ogni pagina porta come esergo una frase edificante, e vi riversa, con grafia tondeg­giante e ancora un poco infantile, le prime inquietudini della sua adolescenza:

22 luglio XV

Oggi, frugando tra i miei giocattoli, ho trovato questo libretto, che racchiude

rispose che era ben in grado di dimostrare non solo l'infondatezza della richiesta, ma anche "ove ce ne fosse bisogno, quale beneficio egli e la sua famiglia abbiano ricavato dall'ex allea­to tedesco I nazista e dal passato regime". Solo nel 1951 l'Ufficio imposte annullò ogni richie­sta nei suoi confronti.

86 Ne parla, tra i "doni utili alla scuola" il professor Levi, nella relazione annuale del­l'a.s.1940-41 (ACEP, Busta scuole 1933-1943).

LE STORIE 121

tante vere sentenze e tante espressioni, che fanno molto pensare. Mi ricordo, come fosse oggi, il giorno in cui lo ricevetti in regalo. Ero ancora un frugolino dai ricci ribelli, e sopra l'abitino di velluto scuro indossavo un grembiulino di pizzo. Guardai con diffidenza il curioso quaderno, mentre Mamma leggeva, visibilmente commossa, la dedica, che parla così bene di me. Ora, molto, per non dire quasi tutto, è cambiato. Non saprei nemmeno io se in meglio o in peggio. In dicembre compirò 15 anni. E, ai nostri tempi, una ragazza di 15 anni non è più, purtroppo, una bimba. Ha già i suoi pensieri: greco, latino, algebra, ecc. ecc. non sono cose facili e non possono essere presi con spensieratezza o con leggerezza.

Anch'io, come tutte, mi occupo già di queste cose, e, non saprei dire perché, benché mi riescano abbastanza facili, in questi ultimi tempi, mi sembra che io non sia nata per queste cose. Per le faccende di casa, sebbene le faccia, nemmeno. E allora? Penso, con disperazione, quale strada sceglierò nel mondo. Il Signore mi aiuterà.

Questo ho pensato, quando mi è capitato in mano il piccolo album. E mi sono rivista piccina, e mi vedo già grande.

All'apertura dell'anno scolastico non potè tornare al Tito Livio, ma frequentò la prima liceo alla scuola ebraica. E poi, ancor prima di iniziare la seconda, dichiarò la sua intenzione di presentarsi direttamente agli esami di maturità. Il prof. Levi lo annuncia al docente di filosofia, Adolfo Ravà, in una lettera del 9 ottobre 1939: "L'allieva Ducci vorrebbe prepararsi addirittura per la maturità".87 Gli esami diedero buoni risultati, e ancora il preside Levi potè regi­strare, con soddisfazione, nella sua relazione del 1940: "Promossa l'alunna Ducci, che frequentando nella nostra scuola la II liceo poté prepararsi con l'aiuto particolare degli insegnanti all'esame di Maturità, avendo l'età prescritta per l'anticipo di un anno". Ce l'aveva appena, l'età, con i suoi 17 anni e mezzo.

In settembre Eva scrisse la seconda pagina del suo diario, meno commossa, stavolta, dalle parole edificanti che ornano il quaderno, e che parlano di sacrificio per la Patria:

7 settembre 1940 Non tanto le "semplici elevatissime parole" quanto il bisogno di espansione mi

spinge a riprendere stasera questo libretto. Leggo le ingenue espressioni della prima paginetta: strano, non ricordavo che greco e latino mi avessero, un tempo, fatto pesare la vita, quando erano per me l'unica reale preoccupazione. Eppure, già a 15 anni martellava il pensiero del domani. Il pensiero, che ha in sé un qualcosa di fatale, d'inevitabile - come "la goccia" di Chopin - solo che di essa non ha la dol­cezza. E tutto e tutti e sempre s'arrovellano su questo vano quesito: e domani? Perché poi l'uomo non voglia cedere dinanzi al destino e tenti di penetrare quanto

87 Ibidem, ora in C. CALLEGARI, Identità, cultura e formazione nella scuola ebraica ... , cit., p.269.

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non è più in suo potere, mi è riuscito e mi riesce inspiegabile. Preferisco arrestar­mi alla realtà del passato e del presente.

Oggi: giornata festiva (tempio - visite) - serata afosa. Notte gemmata di stelle opache - musica - musica - musica. E qualche bella lirica di una donna, Maria Barbara - non so che parla di notte arcana, di vano mio cuore, di dolore, di misti­cismo. E lo scricchiolio della mia penna nel silenzio. Povera Eva - t'illudi di avere espresso quello che speravi di riuscire ad esprimere? Purché Ambretta venga pre­sto. Se mi potesse portare con sé a Roma. Ma forse il ritorno sarebbe nuovamen­te una grande pena. Good night ... Due squilli di tromba possono dire ed augura­re molta felicità.

Poco tempo dopo, nell'imminenza del suo diciottesimo com­pleanno, Eva scrisse ancora:

21 dicembre 1940

Una serata insignificante - ma fra cinque giorni compirò 18 anni - il sogno dei 18 anni sta per diventare realtà. Forse è l'incubo della guerra, il continuo ricordo di chi combatte, di chi soffre, di chi sopporta lo strazio della carne e dell'anima per una Patria, cui io non posso appartenere, ma cui ancora oggi sacrificherei il sacri­ficabile, forse è l'atmosfera rovente di questo diabolico secolo che mi fa sentire una forte delusione. Pur senza aver mai pensato niente di simile per me, credevo dav­vero che, per una ragazza, 18 anni significassero un vibrare di veli nel volteggio dolce di un valzer - gioia del primo ballo - ebbrezza di una canzone, che canti sem­pre nel giovane cuore la felicità di una giovane vita - non visione di grigioverde insanguinato di gloria, evocata da ogni bollettino - non ossessione di un dovere, che intuisco non adempiuto, non incubo di voler essere, ad ogni costo, di una qualche utilità, di gioia, di conforto nel mondo. Il più bel ricordo di questi miei 18 anni è un'estate splendente di sole e d'azzurro - d'azzurro - d'azzurro un'estate tranquilla e fiorita (e cosa sogno io se non pace, musica e fiori?) - un'estate che mi ha spezzato il cuore per troppa dolcezza un'estate dalla quale sono stata divelta come una pianta dalla propria radice - con lo stupore negli occhi e un dolore nel­l'anima: il dolore di un sogno infranto. Era come un risveglio brusco, al mattino, dopo aver cominciato a sognare e nel sogno risuonava un'armonia soave, mai inte­sa in realtà e - col primo raggio del mattino indiscreto e audace tutto si dis­solve in un'ultima eco, leve, ma non per questo meno profonda e penosa a subire. Quanto sa essere triste un autunno! E quanto violenti i cannoni nella notte!

Era stato un anno importante quello, per Eva: il grande impegno per la maturità, seguito da un'estate intensa seppur turbata da un'oscura amarezza ("il dolore di un sogno infranto"), ed ora l'importante compleanno che segna l'ingresso nell'età adulta. Ancora una volta, la sera della vigilia di un giorno sentito come punto di svolta della vita, Eva riprende in mano il diarietto. Nonostante il disincanto che la rende sempre più insofferente alla retorica delle frasi edificanti convenzionali, sa trovare parole che esprimono ancora fiducia e speranza nel futuro, e assumono infine i toni di una sentita preghiera:

LE STORIE 123

25 dicembre 1940 Mi fa sorridere di commiserazione l'idea di scribacchiare su un diario, i cui

commenti già stampati mi sembrano insipidi quanto mai: pure ci tengo a fissare sulla carta le impressioni di questa mia vigilia. Forse un giorno mi farà piacere il rileggerle. È tanto strano: fra poco mi addormenterò e domattina mi sveglierò - a diciott'anni. Vorrei che queste ore trascorressero lente, per tardare il grande gior­no, per serbare la mia curiosità. Domani vorrò godere ogni attimo fuggente, per imprimerne il ricordo nel profondo dell'anima e per illuminarne il mio incerto avve­nire. La mia preghiera ascende fervida e vibrante al cielo ed invoca una sola cosa: la forza di essere buona e cara, come i miei mi vogliono e come io mi voglio per i miei - la forza di scegliere una strada e di perseguire una meta - la forza di non pensare a me, per pensare gli altri - la forza di risparmiare a tutti quanto mi è pos­sibile risparmiare - la forza d'ispirare affetto e amicizia in chi mi avvicina - la forza di essere veramente donna e di adempiere questa santa missione, come sempre ho sognato così sia. . .

La luce della mia volontà possa irradiare fin dall'alba di questa mIa nuova VIta. Signore d'Israele, proteggi i miei Adorati e nel loro bene saprò trovare la mia

gioia. Amen

Fra queste pagine e le ultime due, del 1943, vi è una lunga let­tera del gennaio del '42 nella quale Eva supera la naturale ritrosia per aprire il suo cuore al fratello Teo, che chiama anche con gli affettuosi nomignoli dell'infanzia, "Bubù mio", "Pacciugotti", ma al quale parla con grande serietà di sé e della sua vita, sullo sfondo del drammatico momento storico: emergono le difficoltà quotidiane della segregazione, la "maleducazione" della gente, le amicizie per­dute e faticosamente rimpiazzate, l'amarezza per il lavoro a portata di mano e precluso dalle leggi razziali, il grande affetto ma anche l'estrema tensione nervosa dei genitori (e possiamo ben immagina­re, data la loro esperienza, quanto temessero per il futuro) causa di un piccolo malinteso che Teo era intervenuto ad appianare. E il rife­rimento ad una amarezza passata, a qualcosa di accaduto nell'e­state della sua maturità (forse "il sogno infranto" di cui aveva par­lato nel diario) riporta Eva all'insoddisfazione di sé, e al desiderio di miglioramento, ancora con speranza per il domani. Non c'è traccia d'odio o di risentimento nelle sue parole: estranea al rancore, Eva sembra quasi rammaricarsi d'aver provato "la prima soddisfazione cattiva" della sua vita, nel poter dimostrare agli ex amici che c'era ancora qualcuno che la cercava e le voleva bene.

Anche l'ultimo pensiero esprime un tratto di delicatezza filiale, con la richiesta al fratello di non risponderle, per non turbare la gerarchia degli affetti della madre:

29 gennaio sera Teo mio. Papà mi ha fatto leggere ora la tua lettera. Non sapevo di niente, ma

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124 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

immagino che sia stato questione di una parola. Non so bene perché ti scrivo. Stavolta io non c'entro davvero, ma voglio dirti che ti sono tanto grata per aver detto tu ai nostri Adorati quello che mille volte al giorno vorrei dire io. Povero Bubù mio - come ti capisco. Tu non ne hai nemmeno idea. lo sono restata per te la sorel­lina ora dolce ora estrosa di sempre, mentre mi sento tanto cambiata, mi sento for­giare una nuova, più matura personalità di mese in mese, di settimana in setti­mana e mi sorprendo così diversa da quella stessa che io conoscevo in me. Un'unica cosa non riesco a cambiare: quest'impossibilità materiale di esprimermi, di ridurre a suoni le troppe sensazioni che mi opprimono. È proprio un odioso senso di ritrosia che mi fa pentire in questo stesso attimo di scriverti. Ma voglio imparare a vincermi, perché so che nessun'altra persona al mondo può avere per me la tua comprensione, fatta di affetto e di esperienza. In fin dei conti, tu hai vis­suto talmente la mia stessa vita e le mie stesse impressioni che la differenza di età e di ... sesso non dovrebbe rappresentare certo un ostacolo. Eppure, quando già mi propongo di parlarti di una mia idea qualunque, quando già comincio a parlarti mi sento tutt'a un tratto serrare la gola e non posso, non posso continuare. Bubù mio bello, com'è triste essere fatti così! Mi fa tanto male pensare che tu debba sem­pre indovinare quello che mi passa per la testa e non sono capace di impedirme­lo. Quante volte mi sono detta, dopo un periodo di riposo - che so - quando torno da Verona, quando siamo rincasati da Recoaro: voglio cominciare una nuova vita, voglio essere anch'io una buona figlia, una vera sorella e ogni volta mi ritrovo al punto di partenza. Evidentemente anche per me è mancanza di volontà, anche i miei deboli nervi si sono logorati, prima ancora di cominciare a funzionare, per tutte le cose, piccole e grandi, che tu sai e non sai per colpa mia. Anch'io ho una piccola mente e un più piccolo cuore, che sono stati entrambi duramente provati e tanto più duramente dell'indispensabile, perché mi sono tenuta sempre tutto per me, anche quando mi pareva di esplodere. Eppure, tutti trovano che so essere un'amica così piena di comprensione e d'intuito ma per me stessa non so esser­lo e non so mai confessarmi completamente a nessuno, perché non ammetto di anteporti anima viva e con te non mi so aprire questa povera anima. E così conti­nuo a portarmi chiuso religiosamente in cuore un peso ogni giorno più greve, per­ché ogni giorno riserva qualche nuova esperienza e ogni giorno mi sveglio un poco più donna. Forse dovrei avere accanto a me un'amica della mia età, che si accom­pagnasse lei pure alla mia ininterrotta metamorfosi, ma tu sai che non l'ho. Bianca è tanto buona e graziosa, ma fra noi c'è stata un'incrinatura una volta e, pur non ricordandone nemmeno più la ragione, non so dimenticarla. Le altre amichette -tipo Lisetta, Gianna, Lucia, - sono tanto simpatiche ed affabili per trascorrere insieme un pomeriggio - ma sono troppo diverse da me. lo penso alle lontane, Ambretta e Gabriella sono troppo occupate di se stesse e materialmente troppo inaccessibili - Bianchina è adorabile, ma che sia a Padova o a Verona una mezz'o­ra di vera tranquillità è quasi assurdo attenderla con lei. L'ho vista tanto cara a Recoaro, dove non era - finalmente - la solita trottola. Restano Elena, Doretta e Carla. Con ognuna di queste tre credo saprei intessere l'amicizia ideale, ma con ognuna delle tre ho avuto modo di trascorrere appena poche ore ed è tanto diffici­le conoscersi bene per lettera. Ecco, Mamma (per quanto non lo dica) non sa capi­re perché io mi sappia trovare così bene con Mario e ora anche con Guido. Ma io penso che se avessi due amiche come loro mi sono amici, mi sentirei subito più sollevata. Sono tanto spontanei, semplici - quello che hanno in cuore dicono - sia bene sia male - parlano sempre volentieri di cose serie e sono sempre disposti a

LE STORIE 125

tener dietro a una risata e a intavolare uno scherzo. E in questo periodo sento pro­prio il bisogno di ridere e di scherzare, anche se non lo desidero. Mi sembra pro­prio una reazione. Da quel maledetto giorno tutti hanno preteso da me in ogni occasione solo serietà. Ma forse che ci sarà qualcosa o qualcuno al mondo in grado di far risuscitare questi miei tanto mal messi diciannove anni? E per questo cerco una compagnia allegra, che non sia però stupida e non arzigogolo tanto. A me basta che mi vogliano bene e siano cortesi, perché ne ho fin sopra i capelli della maleducazione intima della gente e dei miei ex amici. E queste esigenze mi sem­bra di averle soddisfatte. lo vedo che non c'è piacere che mi rifiuterebbero e non passa ora senza che mi ricordino. Vedono che mi sento tanto sperduta e mi ten­gono continuamente compagnia: vengono qua, se non ho da fare, mi telefonano quattro-cinque volte al giorno, se hanno da fare loro, ma non c'è pericolo che mi trascurino per altri amici o per altre amiche. Durerà finché durerà. Siccome il futuro non si può ipotecarIo, godo ora di questo affiatamento e se non resisterà pazienza: io non ci rimetto niente. Sento che mi fa proprio bene. In quest'ambien­te così fraterno riprendo a muover mi a mio agio ed era proprio ora, sai! Del resto, la formazione spero definitiva non mi pare malvagia: Lucia, Giorgia, Bianca B., Maria piccola quando viene - Mario Guido Lino e Vinicio. Per trascorrere una domenica senza annoiarsi a morte, andrà bene. E far vedere agli ex amici che c'è chi apprezza ancora la mia vicinanza e non se ne annoia, anzi. Questa è probabil­mente la prima soddisfazione cattiva della mia vita. Di un "ambiente" non ci si farà poi un' ossessione. È tanto amaro di per sé doverlo frequentare a tutti i costi, per quanto raramente. Leo ha detto ieri: Se - ecc. ecc. ti avrei portata con me all'Ansaldo, ti potevi prendere <L. 950 nette come primo stipendio e t'avrei tirata su come volevo io, ed i passi in avanti non si sarebbero più contati! Quell'accidente di se! Dovrà intralciarci davvero in tutto? Beh, non importa. Iddio provvederà. Purché noi quattro ci si possa sentire fino all'ultimo così uniti. Per questo hai fatto bene, Teo, a scrivere. I nostri Adorati ci capiscono, ma dimenticano troppo facil­mente e così una volta alla settimana io divento la figlia che finirà col rovinare i suoi genitori. Mio Dio, se sapessero quanta amarezza si è accumulata in me per questi rimproveri, che so pronunciati spesso in un accesso di nervosismo a me ben familiare. So perfettamente che non ci dovrei badare, ma purtroppo insensibile non sono e temo di rispondere a tono, una volta o l'altra. Grazie al Cielo, questa è una settimana di calma su tutti i fronti. Si devono essere agitati vedendo che tu eri ancora tanto agitato, ma quella sera ero tanto emozionata che li ho .. , travolti nel vortice del mio entusiasmo e non ci hanno più pensato. Fratellino mio sono stanca. M'è costata una gran fatica questa lettera, che preparo da anni. Da una sera d'estate successiva al mio famigerato esame di maturità. Avevo tanti bei pro­ponimenti e non li ho saputi mantenere. PUÒ essere che anche questo sia solo uno sprazzo ad ogni modo tu sai e questo è già qualcosa. Con l'andar del tempo impa­rerò ad essere più donna e più forte. Abbi pazienza. E comprendimi come io ti ho sempre tacitamente compreso. E lascia ch'io ritrovi per te una parola che ho

dimenticata: scialom. Ti bacio con tutta la mia tenerezza

la tua sorellina

Non rispondere, Pacciugotti. Mamma si farebbe eterno cruccio nel vedere una lettera tua non indirizzata a lei e non mi sento di affrontare anche questa secon-

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da prova. Credo di sapere fin d'ora quello che pensi in proposito. Non pensiamoci più. Ecco fatto.

Nel riprendere in mano il diario nel 1943, Eva sembra questa volta avere esaurito le sue risorse di fiducia e di speranza, e avver­tire solo l'oppressione della guerra infinita che uccide ogni illusio­ne ed ogni entusiasmo, e inaridisce nella desolazione e nella solitu­dine lo slancio della giovinezza:

1 aprile 1943 Gli anni volano. E le più pallide illusioni con essi. Ogni volta che riprendo in

mano questo sciocco libretto non posso se non meravigliarmi della pagina prece­dente, l'ultima. E quello che sopra ogni cosa dolorosamente mi stupisce è ancora la guerra. Si combatte ancora. Si combatterà in eterno? È come se ci si fosse ras­segnati all'idea di un cataclisma senza principio né fine. Ma sono le nostre vite che non durano più a questa tensione, a questo spasimo, a quest'ossessione. Un uomo è una tanto piccola, debole cosa. E questi eventi hanno tutti dimensioni ciclopi­che. Ci logorano, ci avviliscono, ci superano. Oh, poter chiudere gli occhi, sospen­dere il battito del cuore e svegliarsi giovani, non maturati da questa triste espe­rienza in un'era di pace, di normalità! Talvolta mi pare di non reggere, di dover urlare: basta - ci avete tormentati abbastanza, guerra, leggi - tutto. E invece si continua - si aspetta - ci s'inacidisce nei propri crucci - nella propria apatia per le rare cose belle e nella propria ipersensibilità per le troppe evenienze tristi o sec­canti. Mio Dio, potessi almeno evadere col sogno potessi ancora fidare in una gioia che ripagasse di tanta ansia e .,. di tanta solitudine. Ma il sentimento si è inaridito, la fantasia si è arenata nella sabbia del mio piccolo dovere quotidiano e passo di ora in ora nei ranghi di chi della sua giovinezza, del suo brio, del suo fascino serba solamente il ricordo a vent'anni poveri vent'anni sprecati nel mio corpo e nel mio spirito, mentre avrebbero potuto allietare un corpo ed uno spirito meno refrattari del mio.

Eppure il quadernino, portato nel rifugio di Crespano, fa ancora in tempo a raccogliere, il giorno dopo la caduta del fascismo, nel­l'ultima pagina di diario, lo scatto di gioia con cui Eva sembra riap­propriarsi della sua vita, nella nuova inattesa speranza; ma la penna quasi scarica d'inchiostro non tiene dietro all'entusiasmo della scrittura, e le parole sfumano e si interrompono presto, le ulti­me quasi illeggibili:

26 luglio 1943 - a Crespano Non ci sono, oggi, parole. È ricominciata - repentinamente come si era arre­

stata la speranza, la fiducia, l'attesa della vita. Forse tutto non è ancora perdu­to. Iddio ci assiste. Non ci abbandonerà ad un destino che, per quanto perfidi, non meritiamo o - per lo meno - non sopportiamo: è più forte di noi. Ronzano in me tentativi di sogno. Saranno realtà? Non avrei osato sperare una realtà come quel­la di oggi. Eppure la vivo, la respiro, la trasfiguro. La vita potrà essere ancora

LE STORIE 127

bella? Potrò ancora sdraiarmi sui prati in fiore e credere alla dolcezza dell'ora?

Negli stessi giorni anche Teo riceveva, presso la trattoria "Isola di Rodi" di Crespano, una cartolina dell'amico editore Castoldi, dal 5° reggimento alpini a Madonna di Senales: "Caro Ducci, il ?orno è finalmente giunto. Speriamo di poter riprendere tra breve Il nostro lavoro in piena libertà. Sono esultante!".

Sembrava l'inizio di una nuova vita. Era, invece, il principio della

fine.

Eva Ducci (ACDEC, FP, Fondo Ducci)

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La scuola superiore ebraica di Padova, 20 giugno 1939

La foto è tratta da Il cammino della speranza. Gli ebrei e Padova, cit., vo1.2°, p.129. L'identificazione degli studenti si deve a Graziella Viterbi, Anna Levi, Vittorio Sacerdoti.

Da sinistra, nella fila in basso, sedute: Graziella Viterbi, Lia Angeli (stu­diava ragioneria), Dora Levi Minzi, Pia Rossi, Bianca Calabresi, Paola Angeli (studiava ragioneria come la sorella Lia), Ulda Goldbacher (sorella maggiore di Rodolfo, studiò al Tito Livio fino al 1936), Eva Romanin Jacur (sorella gemella di Leo, studiava arte), la prof. Lina Servi.

In seconda fila: Alberto Coen, il prof. Giorgio Bassani, Giulio Montefiore, la prof. Anita Limentani, Teresa Morpurgo, Miriam Camerini, Eva Ducci, Maurizio Rossi (aveva seguito il corso dell'ist. tecnico), Vittorio Sacerdoti, Giuseppe Levi Minzi, la prof. Gemma Bassani.

In terza fila: la prof. Bianca Carpi, il rabbino giovane Paolo Nissim, la prof. Maria Romano, Federico Almansi, Edoardo Montefiore, il prof. Adolfo Ravà.

Ultima fila in alto: Gualtiero Rossi, Giorgio Sacerdoti, Alvise Levi, il prof. Augusto Levi, Edgardo Morpurgo, Arturo Camerini, Rodolfo Goldbacher, Leo Romanin Jacur, un professore di materie tecniche, Marco Morpurgo, la prof. Alessandra Montefiore.

ELENCO DEGLI STUDENTI EBREI PRIVATISTI AL TITO LIVIO

DAL 1938 AL 1943

L'elenco qui elaborato e proposto in ordine alfabetico è ricavato dai registri degli esami di ammissione, di idoneità e di licenza liceale conservati nell'archivio della scuola. Sono segnati con asterisco gli studenti ai quali è dedicata, nel testo, una sezione più approfondita. Per gli altri, ad integrazione dei dati della scuola, in ~ual­che caso si sono aggiunte alcune sintetiche informazioni, pervenute da testimo­nianze o da altre fonti d'archivio.

*A1mansi Federico di Emanuele e Berra Onorina. Nato a Firenze il 2-7-1924. Ab.: Padova, via U. Foscolo, 13 (dal 1935 via Trieste 23). Proveniente dalla scuola elementare De Amicis, superò l'esame di ammissione alla I ginnasio nell'estate del 1935 e frequentò poi rego­larmente il ginnasio nel corso B, di lingua str. inglese (con Giorgio Sacerdoti e Rodolfo Goldbacher) fino alla IV ginnasio; da privatista superò l'esame di idoneità per la V ginnasio il 6 giugno 1939.

Asta Luciana di Ferruccio e Valenzin Carlotta. Nata a Venezia 1'1-8-1923. Ab.: Venezia, S. Samuele - Palazzo Mocenigo. Superò l'esame di maturità da privatista nel 1941.

*Calabresi Bianca di Guido e De Benedetti Vittoria. Nata a Padova il 28-8-1924. Ab.: Padova, via Gaspara Stampa 10b. Proveniente dalla scuola elementare Ardigò superò l'esame di ammissione alla I ginnasio nel 1935 e frequentò regolarmente il corso A (lingua str. francese) fino al 1938. Continuò da privatista fino all'ammissione al liceo nel 1940.

Camerini Arturo, di Giorgio e Russi Tilde. Nato a Padova il 9 -11-1923. Ab.: Padova, via Verdi 2. Superò l'esame di ammissione al Liceo nel 1939. Nei primi anni Quaranta rimase orfano di entrambi i genitori. Dal

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130 ALUNNI DI RAZZA EBRAICA

1 ~41 si trasferì in Svizzera, a Ginevra, per studiare Ingegneria chi­mlc~. D~po la. guerra visse a Milano e a Genova, dove è morto una decma dI anm fa.

Camerini My:riam di Giorgio e Russi Tilde. Nata ad Ancona il 15-4-1927. Ab.: Padova, via Verdi 2.

Sorella di Arturo, superò gli esami di ammissione alla III ginnasio nel 1939 e alla IV nel 1940.

Durante la persecuzione, Myriam e la sorella minore Edgarda (nata nel 193?) SI ~ascosero a Roma, in un convento ai Parioli, assieme alla c:rgma PIa Rossi e alla zia. Dopo la guerra Myriam si trasferì in Amenca, a New York, dove vive tuttora.

Coen Alberto di Alfredo e Consigli Ines. Nato a Padova il 27-7-1928. Ab.: Padova, via Guariento 2.

Superò gli esami di idoneità alla II ginnasio nel 1939, alla III nel 1940, e alla IV nel 1941.

Durante la persecuzione si nascose con la famiglia nella zona di Teol.o. Dopo la guerra terminò gli studi e si laureò in Fisica. È morto a MIlano nel 2008.

*Ducci Eva di Rodolfo e Hoffmann Luigia. Nata a Abbazia (Fiume) il 26-12-1922. Ab.: Padova, via Damiano Chiesa 4.

Iscritta da~ 1932, freq~entò. regolarmente il corso A (lingua str. franc:s~) fmo alla V gmnasIO. Da privatista superò gli esami di ammISSIOne successivi, anticipando gli esami di maturità alla fine della II, nel 1940.

*Foà Giorgio di Mario e Formiggini Giulia. Nato a Padova il 13-2-1927. Ab.: Padova, via Petrarca 7.

Superò gli esami di idoneità alla II ginnasio nel 1939, alla III nel 1940 e di ammissione alla IV nel 1941.

Gentilli Liliana di Mino e Bassani Rita. Nata a Venezia il 4-8-1924. Superò gli esami di ammissione al liceo nel 1940. In q~egli anni abita~a.a Padova presso i Morpurgo. Dopo la guerra sposo Arturo Camenm; ebbero due figlie. Vive a Milano.

ELENCO DEGLI STUDENTI EBREI PRIVATISTI AL TITO LIVIO DAL 1938 AL 1943

*Goldbacher Rodolfo di Alberto e Talli110 Aurora. Nato a Padova il 6-7-1925. Ab.: Padova, via Borromeo Il.

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Iscritto alla I ginnasio nel 1935, frequentò il corso B (lingua str. Inglese). Nel 1939 superò gli esami di ammissione alla V ginnasio, nel 1940 al liceo.

Jona Jolanda di Umberto e fu Scapino Anita. Nata a Bologna il 5-7-1926. Ab.: Milano, via S. Martino 14. Superò gli esami di ammissione al liceo nel 1943.

*Levi Alvise di Augusto e D'Italia Giovannina. Nato a Venezia il 31-7-1927 Ab.: Padova, via Carducci 27. Frequentò la I ginnasio nell'a.s. 1937-38 nel corso C. Da privatista superò gli esami di ammissione alla III ginnasio nel 1939 e alla IV nel 1940.

*Levi Anna di Giuseppe e Rietti Gemma. Nata a Padova il 19-9-1928. Superò gli esami di idoneità alla II ginnasio nel 1940.

*Levi Minzi Dora di Marcello e Levi Elena. Nata a Padova il 22-8-1924. Ab.: Padova, via Roma lO. Proveniente dalla scuola elementare Ardigò fu ammessa alla I gin­nasio nel 1935 e frequentò il corso A (lingua str. francese). Da pri­vatista sostenne gli esami di ammissione al liceo nel 1940.

*Levi Minzi Giuseppe di Marcello e Levi Elena. Nato a Padova il 31-5-1923. Ab.: Padova, via Roma lO. Ammesso alla I ginnasio nel 1933, frequentò il corso B (lingua str. inglese). Da privatista sostenne gli esami di idoneità alla II liceo nel 1939.

Montefiore Edoardo ("Lallo" per gli amici), fu Giuseppe e Lattes Margherita. Nato a Udine 1'8-11-1923. Ab.: Padova, via delle Palme 3 (fino al 1935 via T. Aspetti 47). Ammesso al ginnasio nel 1933, frequentò il corso D (lingua str. fran­cese). Da privatista superò gli esami di idoneità alla II liceo nel 1939.

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Prima della persecuzione si trasferì con la famiglia in Argentina, dove morì in un incidente stradale.

Montefiore Giulio, ("Lullo") fu Giuseppe e Lattes Margherita. Nato a Udine il 16 maggio 1925. Ab.: Padova via delle Palme 3. Ammesso al ginnasio nel 1936, frequentò il corso C (lingua str. inglese) fino al 1938. Vive tuttora in Argentina a Buenos Aires.

Morpurgo Emilia (senza altri dati anagrafici). Sostenne un colloquio di idoneità alla V ginnasio nel 1943, supera­to con il giudizio "Bene in tutte le materie. Idonea". "Millina" era una cugina milanese, figlia di un fratello della signora Morpurgo, rifugiata presso i parenti padovani per sfuggire ai bom­bardamenti di Milano.

*Morpurgo Edgardo, di Vita Renzo e Morpurgo Emilia. Nato a Padova 1'8-4-1923. Ab.: Padova, via del Santo 22. Ammesso alla I ginnasio nel 1934 frequentò il ginnasio nel corso C (lingua str. tedesco) fino alla III (1937).

*Morpurgo Marco di Vita Renzo, e Morpurgo Emilia. Nato a Padova il 23-12-1920. Ab.: Padova, via del Santo, 22. Ammesso alla I ginnasio nel 1931, frequentò il corso B (lingua str. inglese) fino alla II liceo, al termine della quale, nel 1938, chiese di sostenere gli esami di maturità, ma non li superò non potendo sostenere la prova scritta di latino che cadeva di sabato in entram­be le sessioni. Solo nel 1940 riuscì a dare l'esame. Prese anche il diploma dell'Istituto tecnico Commerciale.

*Morpurgo Teresa di Vita Renzo e Morpurgo Emilia. Nata a Padova il 6-9-1925. Ab.: Padova, via del Santo 22. Ammessa alla I ginnasio nel 1936, frequentò i primi due anni nel corso D (lingua str. francese). Nel 1943 si presentò agli esami di maturità all'Istituto tecnico Calvi , ma non ottenne il diploma perché non sostenne una prova che cadeva di sabato.

ELENCO DEGLI STUDENTI EBREI PRIVATISTI AL TITO LIVIO DAL 1938 AL 194:3

Reichenbach Ida di Giulio e Oreffice Adriana. Nata a Padova i121-4-1929.

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Ab.: Padova, via A. Cavalletto 1. Superò gli esami di idoneità alla II ginnasio nel 1940, alla IV nel 1942 alla V nel 1943. Durante la persecuzione si rifugiò con la fami~lia in Svizzera. Dopo la guerra conc!use gli studi liceali al Tito Livio e si laureò poi in giurisprudenza. E morta a Padova qualche

anno fa.

Romanin Jacur Leo di Michelangelo e Treves dei Bonfili Lea.

Nato a Padova il 20-11-1921. Ab.: Padova, Prato della Valle, 50. Frequentò il ginnasio nel corso B e la I liceo nel co:~o A (~~ll'a.s. 1937 -38). Da privatista sostenne gli esami di Matunta, antlClp~ta­mente nel 1939. Si diplomò anche all'Istituto tecnico commercIale. Si tr;sferì per frequentare l'università (ingegneria chimica) in Svizzera, a Losanna, dove rimase fino alla fine della guerra.

*Rossi Gualtiero, di Guido e Camerini Emilia. Nato a Milano il 13-1-1927. Superò gli esami di ammissione alla II ginnasio nel 1939, alla III nel

1940 e alla IV nel 1941.

*Rossi Pia di Guido e Camerini Emilia. Nata a Padova il 26-4-1924. Superò gli esami di ammissione alla V ginnasio nel 1939 e alla I

liceo nel 1940. Vive attualmente a Milano.

*Sacerdoti Giorgio, di Gilberto e Trieste Nina. Nato a Padova il 3-1-1925. Ab.: Padova, Piazza Erbe, 2. Proveniente dalla scuola media Ardigò, fu ammesso al ginnasio nel 1935 e frequentò il corso B (in classe con Federico ~lmans.i ~ Rodolfo Goldbacher) fino alla IV. Da privatista superò glI esami dI ammissione alla V ginnasio nel 1939, e alla I liceo nel 1940.

*Sacerdoti Vittorio, di Gilberto e Trieste Nina. Nato a Padova il 14-5-1923. Ab.: Padova, Piazza Erbe, 2. Ammesso alla I ginnasio nel 1933, frequentò il corso B (di lingua

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str. inglese). Da privatista sostenne gli esami di ammissione alle classi del liceo, fino all'esame di maturità nel 1941. Si trasferì poi in Svizzera, a Losanna, per frequentare l'Università (Scienze economiche e commerciali). Dopo la guerra si laureò in giurisprudenza. È morto il 30 gennaio 2009.

Tolnai Giovanni di Luigi e Jaros Elfriede. Nato a S. Remo (Imperia) il 12-1-192l. Ab.: Padova, via Tiso da Camposampiero. Frequentò il corso C fino alla IV ginnasio. Da privatista sostenne nel 1939 gli esami di idoneità al Liceo.

Tedeschi Bruno di Attilio e Bianchini Matilde. Nato a Verona il 26-5-1927. Superò l'esame di ammissione alla IV ginnasio nel 1940.

Trapani Giuliano (senza altri dati anagrafici). Non superò un colloquio di ammissione al liceo nel 1943.

*Viterbi Graziella di Emilio e Levi Minzi Margherita. Nata a Padova il 19-5-1926. Ab: Padova, via S. Martino e Solferino 3l. Frequentò la I ginnasio nell'a.s. 1937-38 nel corso A. L'anno suc­cessivo, 1939, da privatista, sostenne gli esami di ammissione alla III ginnasio, nel 1940 alla IV, nel 1942 al liceo. Il diploma venne riti­rato il 7 luglio 1945, per il proseguimento degli studi ad Assisi.

Yaes (o Jaeche) Giuseppe di Leone e Sarfatti Sol. Nato a Istanbul il 31-3-1923. Ammesso alla I ginnasio nel 1933 frequentò il corso A (lingua str. francese). Da privatista sostenne gli esami di ammissione alle clas­si del liceo fino alla maturità nel 1941. Nel 1942 conseguì la maturità anche presso l'Istituto tecnico com­merciale Calvi, indirizzo mercantile. Vive a Padova.