Heidegger - Lettera Sull'Umanismo - Sintesi

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LETTERA SULL’UMANISMO La lettera sull'umanismo, originariamente inviata a Jean Beauffret, chiarisce in maniera decisiva che il pensiero di Heidegger non è più riconducibile al soggettivismo ed all'esistenzialismo. Nel 1946, Jean Paul Sartre aveva pubblicato L'esistenzialismo è un'umanismo, testo nel quale veniva enunciata la tesi del necessario sbocco politico della linea elaborata con L'essere e il nulla. Se l'esistenza viene prima dell'essenza, questa era la posizione di Sartre, allora occorre partire dalla soggettività. L'uomo è in ogni circostanza costretto ad inventare l'uomo; su di lui cade la responsabilità totale dell'esistenza. Egli deve cercare uno scopo fuori di sé, solo così si realizzerà come essere umano. Heidegger, con questa lettera, risponde a Sartre, sia pure in maniera indiretta. Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire, se non come qualcosa che produce un effetto. La cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è portare a compimento, dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, portarla a compimento. Dunque può essere portato a compimento solo ciò che già è. Ciò che prima di tutto “è”, è l’essere. Il pensiero dell’uomo porta a compimento l’essere. Nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo, i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisce un effetto. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire del pensiero è il più semplice e il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo. Normalmente ogni operare riposa nell’essere e mira all’ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. La cui storia non è mai passata, ma sta sempre per venire. Se vogliamo imparare a portare a compimento la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dell’interpretazione tecnica del pensiero, i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele. Dove il pensiero è inteso come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Da allora la filosofia si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze”. Essa ha pensato che il modo più sicuro di farlo fosse quello di elevarsi, a sua volta, al rango di scienza. Ma questo sforzo ha comportato l’abbandono dell’essenza del pensiero, l’essere. La logica è stata la sanzione di questa interpretazione della filosofia che prende avvio dalla sofistica e da Platone. Per quanto riguarda la parola umanismo, io mi chiedo se sia necessario mantenerla Tutti gli ismi hanno creato molti mali. Anche nomi come logica, etica, fisica compaiono non appena il pensiero originario volge alla fine. I greci hanno pensato senza simili denominazioni. Il pensiero essi non lo chiamavano neppure filosofia. Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere, in quanto fatto avvenire dall’essere e all’essere appartenente. Il pensiero è perennemente in ascolto dell’essere. L’essere ama il pensiero in quanto gli dona l’essenza, cioè lo fa essere. L’essere, come ciò che vuole bene e che può, è il possibile. Quando il pensiero volta le spalle all’essere, sostituisce questa perdita procurandosi un valore come strumento di formazione, quindi come esercizio scolastico, e poi come attività culturale. La filosofia, in tal modo, diventa una tecnica della spiegazione a partire dalle cause supreme. Non si pensa più, ma ci si occupa di filosofia. Tali occupazioni, in concorrenza fra loro, si offrono poi pubblicamente come “ismi” e tentano di superarsi a vicenda. Il dominio di questa o quella etichetta, di questo o di quell’ismo non è casuale. Ha a che fare con la dimensione pubblica, l’esistenza privata si irrigidisce in essa ed è da essa dipendente. La dimensione pubblica, dominata dalla soggettività, oggettivizza tutto ed è condizionata dalla metafisica. Questa è la ragione per la quale il linguaggio cade al servizio della funzione mediatrice delle vie di comunicazione per le quali l’oggettivazione, come uniforme accessibilità di tutto a tutti, si estende oltre ogni limite. La dimensione pubblica così cattura il linguaggio, e decide ciò che è comprensibile e ciò che deve essere rifiutato come incomprensibile. Sotto il dominio della soggettività, che si presenta come pubblicità, rimane celato il rinvio all’essere. Ma prima di parlare l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere. Certo col pericolo che sotto questo richiamo abbia ben poco da dire. Ma solo così viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sue essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella casa dell’essere. Ma in questo richiamo, si potrebbe obiettare, non c’è una preoccupazione per l’uomo? La risposta è che nell’uomo che diventa umano rimane l’esigenza di un simile pensiero. Bisogna curarsi che l’uomo sia umano e non non-umano, cioè al di fuori della sua essenza. Ma partendo da dove, e come, si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende che l’uomo umano si trova nella società, per lui l’uomo sociale è l’uomo naturale. Il cristiano vede l’umanità dell’uomo nella sua limitazione rispetto alla divinità. Nella Repubblica Romana incontriamo il primo umanismo che, nella sua essenza resta un fenomeno specificamente romano e scaturisce dall’incontro della romanità con la tarda grecità. Il cosiddetto rinascimento del XIV e XV secolo in Italia è una rinascenza della romanità. Così come l’uomo romano, anche l’uomo del rinascimento si contrappone all’uomo barbaro. L’inumano stavolta è la scolastica medievale. All’umanismo, storicamente inteso, appartiene perciò sempre uno studio dell’umanità, che attinge in modo determinato dall’antichità, spingendosi talvolta sino a una ripresa della grecità. Se per umanismo si intende in generale la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità, allora l’umanismo è diverso a seconda della concezione della libertà e della natura dell’uomo. Ugualmente diverse sono le vie che portano alla sua realizzazione. L’umanismo di Marx non ha bisogno di alcun ritorno all’antico, e ancor meno l’umanismo che Sartre concepisce come esistenzialismo. Anche il cristianesimo, nel senso indicato, è un umanismo, in quanto nella sua dottrina tutto si riferisce alla salvezza dell’anima dell’uomo e la storia dell’umanità appare nella cornice della storia della salvezza. Tutte queste forme di umanismo, pur diverse nei fini e nei fondamenti, concordano tutte nel fatto che l’umanità dell’uomo umano è determinata in riferimento a un’interpretazione della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nella sua totalità. Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. E’ metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo,

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La lettera sull'umanismo, originariamente inviata a Jean Beauffret, chiarisce in maniera decisiva che il pensiero di Heidegger non è più riconducibile al soggettivismo ed all'esistenzialismo

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LETTERA SULL’UMANISMO

La lettera sull'umanismo, originariamente inviata a Jean Beauffret, chiarisce in maniera decisiva che il pensiero di Heidegger non è più riconducibile al soggettivismo ed all'esistenzialismo. Nel 1946, Jean Paul Sartre aveva pubblicato L'esistenzialismo è un'umanismo, testo nel quale veniva enunciata la tesi del necessario sbocco politico della linea elaborata con L'essere e il nulla. Se l'esistenza viene prima dell'essenza, questa era la posizione di Sartre, allora occorre partire dalla soggettività. L'uomo è in ogni circostanza costretto ad inventare l'uomo; su di lui cade la responsabilità totale dell'esistenza. Egli deve cercare uno scopo fuori di sé, solo così si realizzerà come essere umano. Heidegger, con questa lettera, risponde a Sartre, sia pure in maniera indiretta.

Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire, se non come qualcosa che produce un effetto. La cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è portare a compimento, dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, portarla a compimento. Dunque può essere portato a compimento solo ciò che già è. Ciò che prima di tutto “è”, è l’essere. Il pensiero dell’uomo porta a compimento l’essere. Nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo, i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisce un effetto. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire del pensiero è il più semplice e il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo. Normalmente ogni operare riposa nell’essere e mira all’ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall’essere per dire la verità dell’essere. La cui storia non è mai passata, ma sta sempre per venire. Se vogliamo imparare a portare a compimento la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dell’interpretazione tecnica del pensiero, i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele. Dove il pensiero è inteso come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Da allora la filosofia si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze”. Essa ha pensato che il modo più sicuro di farlo fosse quello di elevarsi, a sua volta, al rango di scienza. Ma questo sforzo ha comportato l’abbandono dell’essenza del pensiero, l’essere. La logica è stata la sanzione di questa interpretazione della filosofia che prende avvio dalla sofistica e da Platone. Per quanto riguarda la parola umanismo, io mi chiedo se sia necessario mantenerla Tutti gli ismi hanno creato molti mali. Anche nomi come logica, etica, fisica compaiono non appena il pensiero originario volge alla fine. I greci hanno pensato senza simili denominazioni. Il pensiero essi non lo chiamavano neppure filosofia. Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere, in quanto fatto avvenire dall’essere e all’essere appartenente. Il pensiero è perennemente in ascolto dell’essere. L’essere ama il pensiero in quanto gli dona l’essenza, cioè lo fa essere. L’essere, come ciò che vuole bene e che può, è il possibile. Quando il pensiero volta le spalle all’essere, sostituisce questa perdita procurandosi un valore come strumento di formazione, quindi come esercizio scolastico, e poi come attività culturale. La

filosofia, in tal modo, diventa una tecnica della spiegazione a partire dalle cause supreme. Non si pensa più, ma ci si occupa di filosofia. Tali occupazioni, in concorrenza fra loro, si offrono poi pubblicamente come “ismi” e tentano di superarsi a vicenda. Il dominio di questa o quella etichetta, di questo o di quell’ismo non è casuale. Ha a che fare con la dimensione pubblica, l’esistenza privata si irrigidisce in essa ed è da essa dipendente. La dimensione pubblica, dominata dalla soggettività, oggettivizza tutto ed è condizionata dalla metafisica. Questa è la ragione per la quale il linguaggio cade al servizio della funzione mediatrice delle vie di comunicazione per le quali l’oggettivazione, come uniforme accessibilità di tutto a tutti, si estende oltre ogni limite. La dimensione pubblica così cattura il linguaggio, e decide ciò che è comprensibile e ciò che deve essere rifiutato come incomprensibile. Sotto il dominio della soggettività, che si presenta come pubblicità, rimane celato il rinvio all’essere. Ma prima di parlare l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere. Certo col pericolo che sotto questo richiamo abbia ben poco da dire. Ma solo così viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sue essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella casa dell’essere. Ma in questo richiamo, si potrebbe obiettare, non c’è una preoccupazione per l’uomo? La risposta è che nell’uomo che diventa umano rimane l’esigenza di un simile pensiero. Bisogna curarsi che l’uomo sia umano e non non-umano, cioè al di fuori della sua essenza. Ma partendo da dove, e come, si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende che l’uomo umano si trova nella società, per lui l’uomo sociale è l’uomo naturale. Il cristiano vede l’umanità dell’uomo nella sua limitazione rispetto alla divinità. Nella Repubblica Romana incontriamo il primo umanismo che, nella sua essenza resta un fenomeno specificamente romano e scaturisce dall’incontro della romanità con la tarda grecità. Il cosiddetto rinascimento del XIV e XV secolo in Italia è una rinascenza della romanità. Così come l’uomo romano, anche l’uomo del rinascimento si contrappone all’uomo barbaro. L’inumano stavolta è la scolastica medievale. All’umanismo, storicamente inteso, appartiene perciò sempre uno studio dell’umanità, che attinge in modo determinato dall’antichità, spingendosi talvolta sino a una ripresa della grecità. Se per umanismo si intende in generale la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità, allora l’umanismo è diverso a seconda della concezione della libertà e della natura dell’uomo. Ugualmente diverse sono le vie che portano alla sua realizzazione. L’umanismo di Marx non ha bisogno di alcun ritorno all’antico, e ancor meno l’umanismo che Sartre concepisce come esistenzialismo. Anche il cristianesimo, nel senso indicato, è un umanismo, in quanto nella sua dottrina tutto si riferisce alla salvezza dell’anima dell’uomo e la storia dell’umanità appare nella cornice della storia della salvezza. Tutte queste forme di umanismo, pur diverse nei fini e nei fondamenti, concordano tutte nel fatto che l’umanità dell’uomo umano è determinata in riferimento a un’interpretazione della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nella sua totalità. Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. E’ metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo,

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l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere. Pertanto ogni umanismo rimane metafisico. Tutte le forme di umanismo presuppongono come evidente l’essenza universale dell’uomo. L’uomo è considerato un animale razionale. Questa determinazione non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica. E’ vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. La metafisica non si chiede in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha posto sinora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto metafisica. L’essere attende ancora di divenire per l’uomo degno di essere pensato. Ma oltre a ciò, rimane da chiedersi se in generale l’essenza dell’uomo dimori nella dimensione dell’animalità. Si può considerare l’uomo come un ente tra gli altri. Ma così l’essenza dell’uomo, definitivamente collocata nell’ambito dell’animalità, è stimata troppo poveramente. La metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalità e non pensa in direzione della sua umanità. La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega solo nella sua essenza in quanto chiamato dall’essere. Lo stare nella radura dell’essere lo chiamo esistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene in tal modo l’essere. L’esistenza così intesa non è solo il fondamento della ragione, ma è ciò in cui l’essenza dell’uomo conserva la provenienza dalla sua determinazione. Di esistenza si può parlare solo in relazione all’essenza dell’uomo, cioè solo in relazione al modo umano di “essere”. L’esistenza non può mai essere pensata come una specie particolare tra le altre specie di esseri viventi, dato che l’uomo è destinato a pensare l’essenza del suo essere. Così, anche quanto di animalità attribuiamo all’uomo, si fonda a sua volta sull’essenza dell’esistenza. Il corpo dell’uomo è qualcosa di essenzialmente altro da un organismo animale. L’essenza dell’uomo riposa nella sua esistenza. Ma così pensata l’esistenza non si identifica con il concetto tradizionale di existentia, che significa realtà, a differenza di essentia intesa come possibilità. La filosofia medievale rappresenta l’existentia come attualità. Kant la rappresenta come la realtà nel senso dell’oggettività dell’esperienza. Hegel la determina come l’idea della soggettività assoluta che sa se stessa. Nietzsche la considera come l’eterno ritorno dell’uguale. In ogni caso gli esseri viventi, in queste e in atre concezioni, sono come sono, senza che, a partire dal loro essere come tale, stiano nella verità dell’essere e, in questo stare, salvaguardino ciò che dispiega l’essenza del loro essere. Probabilmente per noi, fra tutti gli enti, l’essere è il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, e dall’altro è ad un tempo separato da un abisso dalla nostra essenza esistente. Potrebbe invece sembrare che l’essenza del divino ci sia più vicina. Tale riflessione getta una luce strana sul modo abituale di intende l’uomo come animale razionale. Sartre pensa che l’esistenza precede l’essenza. Egli assume existentia ed essentia nel significato della metafisica, la quale, da Platone in poi, dice che l’essenza precede l’esistenza. Sartre rovescia questa tesi, ma il rovesciamento di una metafisica rimane una metafisica. Quindi anche questa tesi rimane nella dimenticanza della verità dell’essere. La tesi capitale di Sartre circa il

primato dell’esistenza sull’essenza, giustifica il termine esistenzialismo come una determinazione adeguata a quella filosofia. Ciò che ancora oggi, e per la prima volta, resta da dire è la verità dell’essere che governa l’essenza dell’uomo. Ma per giungere nella dimensione della verità dell’essere, in modo da poterla pensare, noi, uomini d’oggi, siamo tenuti a chiarire come l’essere riguarda l’uomo e come lo reclama. Tale esperienza essenziale ci accade nel momento in cui capiamo che l’uomo è in quanto esiste, ossia l’esistenza dell’uomo è la sua sostanza. Con il dire che la sostanza dell’uomo è la sua esistenza, affermiamo che il modo in cui l’uomo, nella sua essenza propria, è presente all’essere è l’estatico stare dentro la verità dell’essere. Con ciò non vengono rifiutate le interpretazioni umanistiche dell’uomo come animale razionale, come persona, come essere composto di spirito, anima e corpo. Piuttosto, l’unico pensiero è che le supreme determinazioni umanistiche dell’essenza dell’uomo non esperiscono ancora l’autentica dignità dell’uomo. In questo senso il mio pensiero è contro l’umanismo. Questa opposizione non significa che tale pensiero si schieri contro l’umano e propugni l’inumano. Ciò che voglio dire è che l’uomo è gettato dall’essere stesso nella verità dell’essere per custodirla, affinché nella luce dell’essere egli appaia per quel che è. Ma cosa è l’essere? Esso è se stesso, non è né dio né un fondamento del mondo. E’ più lontano da ogni ente e nondimeno più vicino all’uomo di qualunque ente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo, un dio. Il problema è che l’uomo sperimenta solo l’ente e mai l’essere come tale. La filosofia, anche là dove diviene critica, come in Cartesio e in Kant, pensa a partire dall’ente in direzione dell’ente, dando solo uno sguardo all’essere. Questa filosofia è metafisica, alla quale la verità dell’essere rimane velata. La metafisica, tuttavia, conosce la radura dell’essere. Ma come si rapporta l’essere all’esistenza? L’essere stesso è il rapporto, è lui che tiene a se l’esistenza nella sua essenza essenziale, cioè estatica, e la raccoglie in sé come il luogo della verità dell’essere nel mezzo dell’ente. L’uomo misconosce dapprima ciò che gli è più vicino, ossia l’essere, per attenersi a ciò che si trova al di là di esso. A questo riguardo, i termini di autenticità e inautenticità non hanno un rilievo né esistenziale, né antropologico, ma si riferiscono alla capacità di pensare ciò che prima di tutto va pensato: cioè il riferimento dell’essenza uomo alla verità dell’essere. Che si presenta all’uomo misteriosa, ma allo stesso tempo è la semplice vicinanza di un dominatore non invadente. Che si mostra attraverso il linguaggio, che è la casa dell’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, l’essenza del linguaggio è la dimora dell’essere umano. Ciò che va detto, allora, è che essenziale non è l’uomo, ma l’essere. Il pensiero deve cercare la parola adatta all’interno del linguaggio. Si può ancora qualificare tale pensiero come umanismo? Certamente no, in quanto l’umanismo pensa metafisicamente. Certamente no, se è quell’esistenzialismo che sostiene la tesi espressa da Sartre. L’essere di Parmenide ancora oggi non è pensato. Da ciò si può valutare che ne è del progresso della filosofia. Il pensiero che pensa nella verità dell’essere è storico. Non c’è nessun pensiero sistematico intorno ad esso e, per illustrarlo, una storia delle opinioni del passato. C’è la storia dell’essere a cui

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appartiene il pensiero come memoria di questa storia, da esso fatto avvenire. Nondimeno, la determinazione hegeliana della storia come sviluppo dello spirito non è errata. E’ vera come è vera la metafisica che con Hegel esprime per la prima volta in sistema la sua essenza pensata in modo assoluto. La metafisica assoluta, con i rovesciamenti che ne hanno fatto Marx e Nietzsche, appartiene alla storia della verità dell’essere. Ciò che da questa verità proviene non si lascia eliminare o colpire da confutazioni, ma si lascia solo assumere riportando in modo più iniziale la sua verità al riparo dell’essere stesso e sottraendola all’ambito delle mere opinioni umane. Nel campo del pensiero essenziale, ogni confutazione è insensata. Posto che l’uomo in futuro possa pensare la verità dell’essere, allora penserà a partire dall’esistenza. Esistendo egli sta nel destino dell’essere. Ciò non significa che l’esserci dell’uomo sia quell’ente mediante il quale soltanto l’essere sarebbe creato. E’ lungi da un pensiero siffatto di volere ricominciare da capo e dichiarare falsa ogni precedente filosofia. La vicinanza dell’essere è percepita in modo più pronunciato nel canto del poeta. Il sacro appare nel momento in cui l’essere è esperito nella sua verità. La spaesatezza dell’uomo, di cui Nietzsche è l’ultimo cantore, è proprio segno dell’abbandono dell’essere da parte dell’ente, che si dà da fare intorno a se stesso. La spaesatezza diviene un destino mondiale. Esiliato dalla verità dell’essere, l’uomo gira attorno a se stesso come animale razionale. Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come ce lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. L’uomo, come coesistente controgetto dell’essere, è più che animale razionale, proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non è il padrone dell’ente, è il pastore dell’essere. Si potrebbe obiettare: non è questo un umanismo nel senso più estremo? Ceto, è proprio così. Ma in questo caso l’esistenza non è l’io penso, essa diviene la guardia, la cura dell’essere. Tutto ciò che importa è che la verità dell’essere giunga al linguaggio e che il pensiero pervenga a questo linguaggio. Forse allora il linguaggio richiederà, più che il precipitoso enunciare, il giusto silenzio. Se decidessimo di conservare la parola umanismo, significherebbe che l’essenza dell’uomo diventerebbe essenziale per la verità dell’essere. Cosi che, di conseguenza, ciò che importa non è l’uomo preso semplicemente come tale. Ma questo umanismo, che va contro ogni umanismo sinora esistito, può ancora chiamarsi umanismo? In genere, quando si parla contro la concezione da tutti accetta dell’umanismo, si teme che si avanzi una difesa dell’inumano e l’esaltazione della barbara brutalità. Cosa c’è, infatti, di più logico del fatto che a chi nega l’umanismo non resta che l’affermazione dell’inumanità? Poiché si parla contro la logica razionale, si crede che venga avanzata la pretesa di rifiutare il rigore del pensiero, di fare dominare l’arbitrio degli istinti e dei sentimenti, e di proclamare come vero l’irrazionalismo. Poiché si parla contro ciò che l’umanità ritiene eccelso, ossia contro i valori, per la morte di dio, per l’uomo come essere nel mondo, si pensa che questa filosofia insegna un nichilismo irresponsabile. Ma l’opposizione che un pensiero solleva contro ciò che abitualmente si crede, non porta necessariamente al negativo. La logica intende il pensare come il rappresentare l’ente nel suo

essere. Ma che ne è della meditazione sull’essere stesso, è cioè del pensiero che pensa la verità dell’essere? Soltanto questo pensiero coglie l’essenza iniziale del logos, che in Platone e in Aristotele, il fondatore della logica, è già occultata e perduta. Sia chiaro che pensare contro la logica non significa spezzare una lancia a favore dell’illogico, ma solo ripensare il logos e la sua essenza apparsa all’alba del pensiero. A che serve la logica se si sottrae di interrogarsi sull’essenza del logos? Si potrebbe dire che l’irrazionalismo domina nella difesa di una logica siffatta. Il pensiero che si pronuncia contro i valori, non sostiene che ciò che viene indicato come valore sia senza valore. Si tratta di capire che ciò che è valutato perde la sua dignità, divenendo solo oggetto della stima umana. Ogni valutazione è una soggettivazione, che non lascia essere l’ente, ma lo fa valere come oggetto del proprio fare. Proclamare dio come il valore più alto, significa, ad esempio degradare dio. Pensare per valori è la più grande bestemmia che si possa pronunciare contro l’essere. Pensare contro i valori non vuol quindi affermare l’assenza di valori e la nientità dell’ente, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto. Il rinvio all’essere nel mondo quale tratto fondamentale dell’umanità dell’uomo umano, non afferma che l’uomo è solo un essere mondano nell’accezione cristiana del termine, cioè lontano da dio e sciolto dalla trascendenza. Nelle determinazione mondo c’è l’apertura dell’essere. L’uomo è, ed è uomo, in quanto è colui che esiste, gettato nel mondo. Quì sta l’apertura all’essere, il mondo è la radura dell’essere. La tesi che l’essenza dell’uomo poggia sull’essere nel mondo non contiene una decisione in merito alla questione se l’uomo sia un essere che appartiene all’al di qua o all’al di là. Perciò è sbagliato affermare che sia ateismo questa interpretazione dell’essenza dell’uomo. Solo successivamente si può porre la questione del rapporto dell’esserci con dio. Non è indifferentismo questo. Perché solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare all’essenza del sacro. La verità è che questo pensiero che pensa l’essere non è né teista né ateo. Ciò non vuol dire che tale pensiero, perché resta nell’indifferenza circa i rapporti con dio, cada nel nichilismo. Ma poi, è proprio vero che in questa posizione ci sia indifferentismo sulla questione religiosa? L’esatto punto di osservazione è che solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro, e solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare alla divinità. Ma come può l’uomo attuale, senza l’apertura all’essere, riuscire anche solo a domandarsi in modo rigoroso se dio si avvicini o si sottragga, quando proprio quest’uomo tralascia di pensare anzitutto in quella dimensione in cui quella domanda può essere posta? Nella misura in cui si attenesse al suo compito, il pensiero, rimanderebbe l’uomo alla dimensione iniziale del suo soggiorno storico. Nella misura in cui dicesse in tal modo la verità dell’essere, il pensiero si affiderebbe a qualcosa di più di tutti i valori e di qualsiasi parzialità. Il pensiero deve ridiscendere a ciò che è più vicino all’uomo. Soprattutto là dove l’uomo si è smarrito nella sua ascesa verso la soggettività, la discesa è più difficile. Il predominio del soggettivismo è il fondamento dell’arbitrio di ciò che si caratterizza come biologismo, ma anche di ciò che è noto con il nome di pragmatismo. Pensare la verità dell’essere significa, contemporaneamente, pensare

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l’umanità dell’uomo, ponendola al servizio della verità dell’essere, ma senza l’umanismo nel senso metafisico. Ma se l’umanità è così essenziale al pensiero dell’essere, non bisognerà allora ricorrere a un’etica? L’etica appare per la prima volta, insieme alla logica e alla fisica, nella scuola di Platone. Queste discipline nascono al tempo in cui il pensiero si fa filosofia, la filosofia si fa scienza, e la scienza diventa una pratica scolastica. Nasce così la scienza e perisce il pensiero. Prima di questo tempo, i pensatori non conoscevano né una logica, né un’etica, né la fisica. Eppure il loro pensiero non è né illogico né immorale. Se con il termine etica si intende il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come elemento iniziale dell’uomo in quanto esistente è già in sé l’etica originaria. Ma questo pensiero non è nemmeno etica, per il solo fatto che è ontologia. L’ontologia, infatti, pensa sempre e solo l’ente nel suo essere. Ma finché non è pensata la verità dell’essere, ogni ontologia resta senza il suo fondamento. A questo punto, occorre chiedersi: se il pensiero, pensando la verità dell’essere, determina l’essenza dell’umanità, resta esso pensiero una rappresentazione teoretica dell’essere e dell’uomo? O si possono, invece, trarre contemporaneamente da tale conoscenza delle indicazioni per la vita attiva da dare a quest’ultima? La risposta è che questo pensiero non è né teorico né pratico, esso avviene prima di questa distinzione. Questo pensiero rammemora solo l’essere e nient’altro, esso pensa l’essere, dunque non approda ad alcun risultato e non ha alcun effetto, esso soddisfa la sua essenza in quanto è, ed è in quanto dice la sua cosa. Il pensiero lavora a costruire la casa dell’essere, questo abitare è l’essenza dell’essere nel mondo. Tuttavia, non è mai il pensiero che crea la casa dell’essere. Il pensiero dirige l’esistenza storica, cioè l’umanità dell’uomo umano nell’ambito dello schiudersi di ciò che è integro. L’essere è più ente di qualsiasi ente, noi non possiamo mai coglierlo come qualcosa che è nell’ente. Resta da chiedersi se, posto che il pensiero appartenga all’esistenza, ogni si e ogni no non siano già esistenti nella verità dell’essere. Se è così, il si e il no sono già in sé al servizio e in ascolto dell’essere. In quanto tali non possono mai essere loro a porre ciò a cui appartengo. Solo in quanto l’uomo, esistendo nella verità dell’essere, all’essere appartiene, dall’essere può giungere l’assegnazione di quelle consegne che devono divenire legge e regola per l’uomo. Altrimenti ogni legge resta solo il prodotto della ragione umana. L’essere è la protezione che, per la sua verità, protegge l’uomo nella sua essenza esistente, in modo da fare dimorare l’esistenza nel linguaggio. Per questo il linguaggio è a un tempo la casa dell’essere e la dimora dell’essere umano. Ma che relazione c’è tra il pensiero dell’essere e il comportamento teoretico e pratico? Il pensiero dell’essere supera ogni contemplazione. Colloca il suo dire dell’essere nel linguaggio come dimora dell’esistenza. Così il pensare è un fare, ma è un fare che supera ogni prassi. Il pensare, infatti, è superiore all’agire, al produrre, si limita a portare al linguaggio la parola inespressa dell’essere. L’essere è sempre in cammino verso il linguaggio, e il linguaggi viene elevato a sua volta verso l’essere. In quanto il linguaggio è storico, l’essere è salvato nel pensiero rammemorante. Ciò che è strano in questo pensiero dell’essere è la semplicità. Proprio questo ce ne tiene lontani. Infatti, noi cerchiamo il

pensiero universalmente noto col nome di filosofia nella forma dell’insolito che è accessibile solo agli iniziati. Nello stesso tempo ci rappresentiamo il pensiero nel modo del conoscere scientifico. Misuriamo il fare in base al successo e all’impressione che producono le realizzazioni della prassi. Ma il fare del pensiero non è né teorico né pratico, e non è nemmeno l’unione di questi due tipi di comportamento. Per la semplicità della sua essenza, il pensiero dell’essere si fa per non inconoscibile. Se tuttavia familiarizziamo col tratto insolito del semplice, allora subito ci opprime un’altra difficoltà. Sorge il sospetto che questo pensiero dell’essere cada nell’arbitrio, per il motivo che esso non può attenersi all’ente. Quale è dunque la legge del suo fare? La risposta è che, in quanto pensiero dell’essere, il pensiero è reclamato nella sua essenza dall’essere. In quanto pensiero è legato all’avvento dell’essere, all’essere come avvento. L’essere si è già destinato al pensiero, l’essere è come destino del pensiero. Ma il destino è in se storico. La sua storia è già venuta al linguaggio nel dire dei pensatori. Portare di volta in volta al linguaggio questo avvento dell’essere, avvento che rimane e nel suo rimanere attende l’uomo, è l’unico compito del pensiero. Per questo i pensatori essenziali dicono sempre la stessa cosa. Questo non vuol dire che dicano cose uguali. Ovviamente essi dicono questo a chi è disposto a seguirli nel pensare. In quanto il pensiero, rammemorando storicamente, presta attenzione al destino dell’essere, si è già legato a ciò che con-viene e che è conforme a quel destino. Rifugiarsi nell’uguale non è pericoloso. Il pericolo è arrischiarsi nella discordia per dire la stessa cosa. C’è infatti la minaccia dell’ambiguità e del mero dissidio. La prima legge del pensiero è la con-venienza del dire dell’essere come destino della verità, e non le regole della logica che possono diventare regole solo a partire dalla legge dell’essere. Prestare attenzione a ciò che con-viene al dire pensante, non implica solo che noi ogni volta meditiamo su che cosa dire dell’essere e su come dirlo. Resta altrettanto essenziale riflettere se si può dire ciò che è da pensare, fino a che punto lo si può dire. Insomma, il rigore della meditazione, la cura del dire, la parsimonia delle parole. E’ tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, meno letteratura e più attenzione nella cura delle parole. Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica. Ma il pensiero a venire non può neppure più, come pretendeva Hegel, abbandonare il nome di amore per la sapienza e divenire la sapienza stessa nella forma del pensiero assoluto. Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo.