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1 KANT HEIDEGGER e il problema della metafisica (di Luigi De Blasi) I. Chi è Kant per Heidegger? A differenza della filosofia neokantiana che privilegiava la scienza o meglio la teoria della conoscenza e il sapere matematico come unico strumento di conoscenza rigoroso e valido, Heidegger risolve il kantismo in problema generale dell’essere. Kant non può essere considerato il filosofo della supremazia morale, tanto meno di una teoria della conoscenza (gnoseologia-epistemologia). Heidegger esplicita una profonda perplessità circa il primato morale, cui Kant si sarebbe orientato nella Critica della ragion pratica, anche se non prende in debita considerazione gli assunti della Metafisica dei costumi, in cui la metafisica informa l’etica, la conoscenza e la teologia. Riguardo alla seconda considerazione secondo cui Kant non può essere considerato un geniale espositore di una teoria della conoscenza, bisogna far riferimento ad alcune pagine iniziali di Essere e Tempo in cui emerge tale aspetto critico, nel senso che la Critica della Ragion Pura non si riduce in una teoria della conoscenza, ma in una indagine intorno a ciò che concerne una natura in generale e la ricerca ontologica originaria, anziché «la ricerca ontica delle scienze positive» 1 . Il pensiero kantiano oscilla tra la metafisica speciale (metaphysica specialis) (metafisica intesa come scienza che si occupa delle tre sfere (Dio, uomo, mondo) e il presupposto della Metafisica generale (metaphysica generalis) che avrebbe lo scopo di istituire lo strumentario trascendentale con l’intento di destrutturare e riformulare un nuovo concetto di metafisica e del fondamento (un problema che rappresenta un vero rompicapo per l'ermeneutica kantiana). Una nuova metafisica, la cui fondazione dovrebbe far pensare ad un uomo non legittimato dalla assolutezza morale, alla crisi della metaphysica specialis e alla radice oscura, cui si lega il problema del fondamento della filosofia trascendentale. 1 HEIDEGGER, Essere e tempo, 1970, p. 27. Heidegger è più esplicito in Kant e il problema della metafisica, in cui precisa quanto segue «l’intento della Critica della ragion pura resta quindi fondamentalmente misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come “teoria dell’esperienza” o addirittura come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una “teoria della conoscenza» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica,1985, p. 24).

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KANT HEIDEGGER

e il problema della metafisica (di Luigi De Blasi)

I. Chi è Kant per Heidegger? A differenza della filosofia neokantiana che privilegiava la scienza o meglio la teoria della conoscenza e il sapere matematico come unico strumento di conoscenza rigoroso e valido, Heidegger risolve il kantismo in problema generale dell’essere. Kant non può essere considerato il filosofo della supremazia morale, tanto meno di una teoria della conoscenza (gnoseologia-epistemologia). Heidegger esplicita una profonda perplessità circa il primato morale, cui Kant si sarebbe orientato nella Critica della ragion pratica, anche se non prende in debita considerazione gli assunti della Metafisica dei costumi, in cui la metafisica informa l’etica, la conoscenza e la teologia. Riguardo alla seconda considerazione secondo cui Kant non può essere considerato un geniale espositore di una teoria della conoscenza, bisogna far riferimento ad alcune pagine iniziali di Essere e Tempo in cui emerge tale aspetto critico, nel senso che la Critica della Ragion Pura non si riduce in una teoria della conoscenza, ma in una indagine intorno a ciò che concerne una natura in generale e la ricerca ontologica originaria, anziché «la ricerca ontica delle scienze positive»1. Il pensiero kantiano oscilla tra la metafisica speciale (metaphysica specialis) (metafisica intesa come scienza che si occupa delle tre sfere (Dio, uomo, mondo) e il presupposto della Metafisica generale (metaphysica generalis) che avrebbe lo scopo di istituire lo strumentario trascendentale con l’intento di destrutturare e riformulare un nuovo concetto di metafisica e del fondamento (un problema che rappresenta un vero rompicapo per l'ermeneutica kantiana). Una nuova metafisica, la cui fondazione dovrebbe far pensare ad un uomo non legittimato dalla assolutezza morale, alla crisi della metaphysica specialis e alla radice oscura, cui si lega il problema del fondamento della filosofia trascendentale.

1 HEIDEGGER, Essere e tempo, 1970, p. 27. Heidegger è più esplicito in Kant e il problema della metafisica, in cui precisa quanto segue «l’intento della Critica della ragion pura resta quindi fondamentalmente misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come “teoria dell’esperienza” o addirittura come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una “teoria della conoscenza» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica,1985, p. 24).

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In Essere e tempo, al contrario di Kant e il problema della metafisica, è ravvisabile un taglio critico secondo cui il pensiero kantiano sarebbe impigliato ancora alla vecchia metafisica; non a caso, Heidegger è dell’avviso che Kant non sarebbe riuscito a svincolarsi dall’idea della metafisica tradizionale, per la ragione che il suo pensiero è strutturato su un presupposto ontologico, in quanto l'io penso risulterebbe un soggetto isolato» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit. p. 386), a causa dell’inadeguata ontologia del sostanziale. Kant non si sarebbe posto oltre la filosofia razionalistica rimasta ancorata alla sostanza cartesiana2. Tale impostazione è riscontrabile anche per l’analisi ermeneutica della filosofia di Nietzsche, anch’egli compreso all’interno di un pensiero che non riesce a varcare la filosofia sostanzialistica, ossia un pensiero che pensa se stesso alla maniera del cogito cartesiano. Viceversa, nell’opera Kant e il problema della metafisica, Heidegger dà l’impressione di rivedere l’interpretazione: Kant si posizionerebbe a metà strada tra la vecchia metafisica e la nuova, basata sull'originarietà del fondamento, ma, (inspiegabilmente) «Kant ha indietreggiato di fronte (alla) radice». L’indietreggiare è testimoniato dalla Seconda edizione della Critica della ragion pura che rappresenta una riduzione al dominio della logica, di cui sembra che Kant ne ignori l’origine. Lo svuotamento, nella edizione del 1787, dell'Immaginazione produttiva che, nella prima versione, si accostava all’intuizione e all'intelletto, porta Heidegger a privilegiare la prima, perché più conforme ad un’analisi fenomenologica, ontologica ed esistenziale. La prima edizione è più rispondente, rispetto alla seconda, all’esigenza di una fondazione della metafisica, in quanto il ruolo dell’immaginazione trascendentale, ponendosi alla base di tutte le altre facoltà, è alla base del pensiero puro, quindi ontologico, permettendo alla metafisica di compiersi e di manifestarsi pienamente nella sua essenzialità3. II. Rivisitazione dei concetti kantiani di: autocoscienza, immaginazione trascendentale, Io penso Nella I edizione del 1781, le sezioni II e III risultano essenziali per comprendere la differenza tra la Prima e Seconda edizione. Per quanto riguarda la sezione II («Deduzione dei concetti puri dell'intelletto»), Kant identifica il fondamento

2 «Kant cerca di fissare l'io come res cogitans (...), intende ancora questo io come soggetto (...) in un senso ontologicamente inadeguato» (HEIDEGGER, Essere e tempo. p. 385). 3«La prima edizione, invece, aderisce meglio al processo intrinseco della problematica di una fondazione della metafisica» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, p. 169).

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trascendentale (appercezione trascendentale), con il concetto di unità coscienziale, giacché «niente può venire a conoscenza se non mediante questa appercezione originaria» (cit. I. Kant, Appendice p. 661). Inoltre, si viene a delineare anche il rapporto esistente tra l'unità trascendentale dell'appercezione e la pura immaginazione; è interessante notare come l'intelletto si viene a qualificare come «l'unità dell'appercezione in relazione alla sintesi dell'immaginazione» (cit. I. Kant, Critica della ragion pura - Appendice - p. 664). Nella stessa sezione emerge il ruolo fondamentale svolto dall'immaginazione quale unità sintetica senza la quale non si può avere «nessun concetto di oggetti». Nella II edizione del 1787, l’immaginazione (sintesi delle intuizioni) si viene a conformare alle categorie (cit. vol. I, p. 145); nella Prima Edizione

«l’Io (è) stabile e permanente (...) costituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni (...) è quest’appercezione, che deve aggiungersi all’immaginazione pura per rendere intellettuale la sua funzione» (KANT, Critica della ragion pura - Appendice - p. 667).

Se confrontiamo tale citazione con tutto ciò che Kant ‘corregge’ nell’edizione del 1787, in cui si può leggere che

«L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; ché altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato» (KANT, Critica della ragion pura, p.132),

ci si può accorgere della sostanziale diversità di intenti, nel senso che l’immaginazione, secondo quest’ultima visione, abbisogna del dato dell’intuizione e della sintesi rappresentativa per poter pensare. Pertanto, l’Io (come l’immaginazione) perde stabilità e permanenza e ciò comporta la rinuncia alla purezza, originarietà e fondamentalità dell’ontologia dell’essere, inteso come appercezione o immaginazione trascendentale. Tutto ciò comporta una certa dipendenza dell'immaginazione dall’intelletto e quindi dai concetti. Nella Prima edizione, il concetto di causa si accosta all'appercezione trascendentale (autocoscienza) che si determina come fondamento originario che regola l'unità delle categorie in base all’universalità e necessità. Nella prima edizione, la sintesi è affidata all'immaginazione pura, viceversa nella Seconda le categorie assumono il valore di funzioni unificatrici dell'intelletto; nella edizione del 1787, la sintesi è stabilita dall'Io penso, attraverso le sue rappresentazioni, e comunque assoggettato alla attività unificatrice a priori dell'intelletto. Per il primo Kant, le radici della conoscenza

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(«la possibilità di una esperienza in generale») sono «senso, immaginazione e appercezione» (cit. I. Kant, Appendice, vol. II, p. 662); l'intelletto si presenta come facoltà di secondo livello in ordine di importanza; nella Seconda edizione, le facoltà principali della conoscenza sono la sensibilità e l'intelletto4. Heidegger, preliminarmente si pone il problema di reinterpretare il Criticismo al fine di rifondare il concetto di esistenza riguardo a tutte le sue possibilità (intellettive, razionali, morali), adoperandosi soprattutto per un fondamento in grado di mediare ragione teoretica e pratica e ridurre l'errore kantiano di preporre una facoltà umana ad un'altra. Kant per Heidegger non avrebbe oltrepassato il malinteso della metafisica tradizionale, perché concepisce l'essere in modo sostanziale. Kant, oltretutto, non avrebbe dimostrato in modo esauriente la genesi degli a priori e delle categorie. L’asserzione kantiana - Ragione pura è quella che contiene i princìpi per conoscere assolutamente a priori un qualcosa - è la prova della malferma natura dell'a priori, in quanto non considera, opportunamente, neanche la possibilità di uno studio per chiarire l'origine dei princìpi trascendentali. Tuttavia, Heidegger ritiene che in Kant siano presenti le premesse (anche se implicitamente) per la fondazione di un pensiero contrassegnato dalla originarietà e purezza. Il limite di Kant è dato dal suo indietreggiare nei confronti del fondamento che risulterebbe oscuro; quando un ulteriore approfondimento gli avrebbe consentito di superare non solo la metafisica specialis, ma anche il suo orizzonte filosofico fino al punto di segnarsi in modo inedito e veramente creativo. Per tale aspetto, lo sforzo di Heidegger consiste nell’esprimere il non-detto, ossia ciò che Kant avrebbe potuto dire, ma non ha detto. La prova di un piano ermeneutico è offerta dal chiarimento dato da Kant stesso che fa presente che le correzioni nella Seconda edizione «importano per il lettore una piccolissima perdita, alla quale ognuno può mettere riparo, quando gli piaccia, con il confronto della prima edizione»5; appunto, il progetto di Heidegger, nell’esporre Kant, consiste nell’apporre riparo. Il problema del fondamento, nell’elaborazione critica compiuta da Heidegger viene ad identificarsi con l'immaginazione trascendentale, che assume il ruolo di funzione necessaria e non può certo essere considerata come una funzione cieca; a meno che con tale espressione non si voglia designare la parte oscura, cioè poco conosciuta. Lo svuotamento dell'immaginazione trascendentale attuato nell'edizione del 1787 determina la decisione di Kant di attribuire una funzione

4 I. KANT, Critica della ragion pura, vol. II, p. 662. 5 I. KANT, Critica della ragion pura, vol. I p. 36.

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fondamentale solo alla sensibilità e all'intelletto fino a considerarli i soli fattori capaci di generare una reale conoscenza. La seconda edizione, quindi, denota il passaggio da un'immaginazione intesa come funzione fondamentale dell'uomo (funzione dell'anima) ad una semplice funzione categoriale dell'intelletto, di conseguenza ad essa sottoposta. Per logica conseguenza, l’uomo così come è caratterizzato da questa nuova impostazione, si viene a trovare in una posizione depauperata del suo privilegio fino al punto di costituirsi passivamente alla norma e al logicismo schematico6. Tra i passi filosofici più indicativi della prima edizione, scartati successivamente dalla seconda, appare importantissimo il capitolo la Deduzione dei concetti puri dell'intelletto e più in particolare la Sezione Terza con il titolo «Del rapporto dell'intelletto con gli oggetti in generale e della possibilità di conoscere questi a priori»7. L'interpretazione di Heidegger dipende dall'assunto kantiano

«Noi dunque abbiamo un'immaginazione pura come facoltà fondamentale dell'anima umana, la quale sta a base di ogni conoscenza a priori (...) senso e intelletto devono, mediante tale funzione trascendentale della immaginazione, necessariamente coerire; ché altrimenti essi darebbero sì fenomeni, ma non oggetti di una conoscenza empirica, né quindi una esperienza» (KANT, Critica della ragion pura, Appendice, p. 668).

L’interpretazione indirizzata al primato dell’immaginazione e non certo all’intelletto, per Heidegger non rappresenta una questione meramente formale ed estrinseca, in quanto con l’immaginazione viene ad attuarsi la stessa possibilità della filosofia trascendentale come modus essendi e implicitamente modus conoscendi di ogni conoscenza empirica e tal riguardo credo sia emblematica la precisazione di Severino, secondo cui

«il rapporto all’ente è condizionato e possibilitato da una preliminare comprensione della struttura dell’essere dell’ente. La possibilizzazione

6 «persino il brano con il quale Kant introduceva per la prima volta nella Critica della ragion pura l’immaginazione trascendentale, definendola come una “indispensabile funzione dell’anima”, subisce in seguito, benché soltanto nella sua copia personale, una variazione assai sintomatica. Anziché “funzione dell’anima”, Kant preferisce scrivere “funzione dell’intelletto”. E così la sintesi pura risulta assegnata all’intelletto puro» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica. p. 141). 7 KANT, Critica della ragion pura, Appendice, vol. II, p. 662.

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della conoscenza ontica (conoscenza dell’ente e degli enti nella loro individuabilità) è data cioè dalla conoscenza ontologica (conoscenza dell’essere dell’ente)» (SEVERINO, Heidegger e la metafisica, 1994, p. 45).

Si tratta a questo punto di seguire il percorso heideggeriano secondo gli snodi più importanti, che possono essere sintetizzati in due assunti fondamentali: (1) Heidegger privilegia l’immaginazione trascendentale perché concepita come formatrice di una veduta (orizzonte) entro cui è possibile collocare l’ente e la sua stessa possibilità di essere conosciuto; per tale motivo

«L’immaginazione trascendentale è dunque il fondamento, sul quale si edificano, insieme, la possibilità intrinseca della conoscenza ontologica e quella della metaphysica generalis» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, p. 114).

Si evince, quindi, la fondamentalità dell’immaginazione, che risulta l’elemento fondante della trascendentalità (conoscenza ontologica) e la base su cui si struttura la stessa metafisica generale, nel senso che l’immaginazione trascendentale, per la sua struttura originaria e inscindibile, permetterebbe la fondazione della metafisica: «La fondazione kantiana della metafisica fa capo all’immaginazione trascendentale»8. Tutto ciò che si svolgerà nella teoresi successiva, riguardante il problema dell’uomo, di Dio e di mondo, evidentemente, sarà compiuto in base alla premessa necessaria che vede nell’immaginazione il caposaldo portante di tutta la filosofia heideggeriana, pertanto è possibile avanzare due tipi di indagine: una prima fa pensare che tutte le facoltà dell’anima debbano essere configurate all’interno dell’immaginazione; una seconda ipotesi, invece, implica l’assoluta identità tra immaginazione, tempo, io penso (appercezione trascendentale). (2) Heidegger concepisce la soggettività o l’io penso come parte essenziale di tutta la filosofia trascendentale e la prova di ciò segue un percorso, il cui punto di partenza indica un’identità tra il tempo e l’io nel senso che tempo e io penso non risultano apposti (l’uno di fronte all’altro come elementi eterogenei e inconciliabili), ma sono «la stessa cosa»9; come se non bastasse l’analisi tende addirittura a considerare lo stesso io, o per usare la terminologia di Heidegger soggettività del soggetto (in Essere e tempo era denominato come esserci o ente

8 HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, pp.169, 173 . 9 Ibidem, p. 165.

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privilegiato) come parte integrante della metafisica. Tuttavia, Kant non si sarebbe spinto oltre a indagare sulla genesi dell’uomo inteso come essere razionale e morale. Heidegger non critica, quindi, né il concetto di razionalità o di moralità, solo che il suo intento è orientato a concepire simili concetti come semplici rappresentazioni di un qualcosa che oltrepassa sia la Ragione, sia la Moralità che non possono assurgere al ruolo di purezza e tanto meno di originarietà. Nel prosieguo del lavoro filosofico, risulta evidente l'intenzione di Heidegger ad impegnare qualsivoglia ricerca sull’io all’interno della metafisica d’ordine generale; solo che bisogna chiedersi: chi è quell’uomo che Kant sottopone alla domanda “Che cos’è l’uomo?”; per Heidegger non basta rispondere alla domanda (Che cos’è …?) senza considerare un campo di indagine non inquadrabile nell’ambito scientifico d’ordine antropologico, teologico ed etico. L’uomo stesso quindi fare parte della metafisica e deve essere rifondato e consegnato alla dimensione temporale. Heidegger per tale aspetto afferma in modo esplicito che la sua filosofia è volta a «comprendere la fondazione kantiana da un punto di vista più originario, il ricorso all’antropologia di Kant non è forse fallito? Senza dubbio»10. Altamente significativo è il passaggio successivo che consiste nell’assegnare l’uomo interamente alla metafisica, ritenuta l’unica in grado di rispondere in modo più genuino e inedito non solo alla domanda Che cos’è l’uomo?, ma anche alla prima (Che cosa posso sapere?); alla seconda (Che cosa devo fare?) e alla terza (Che cosa posso sperare?). Mentre per Kant alla prima domanda deve rispondere la metafisica (di tipo speciale), alla seconda la morale, alla terza la religione e alla quarta (Che cos’è l’uomo?) l'antropologia. Se per Heidegger tutto ha inizio e fine con la metafisica che va comunque reimpostata e rifondata, per Kant tutto deve ascriversi all'antropologia, dal momento che le prime tre domande e le rispettive scienze si riferiscono alla quarta domanda. Il problema circa la possibilità dell’autentica trascendentalità dipende, per una comprensione corretta, dalla Soggettività del soggetto umano11. Il concetto di soggettività del soggetto non deve far pensare all'idea di un'identità soggettiva (coscienziale) come un'unità permanente e stabile, in quanto l’essenza della soggettività deve riferirsi ad un suo uso problematico e possibilitante ed esplicantesi in una metodica quale quella di cercare. Nel prosieguo della speculazione filosofica, l'immaginazione si risolve, comunque, alla domanda capitale: Che cos'è l'uomo? Nel pensiero kantiano,

10 Ibidem, p. 178, 179. 11 Ibidem, p. 178.

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l’immaginazione, spesso, viene riferita non solo all’appercezione trascendentale, ma anche al tempo; anzi Heidegger avanza l’ipotesi che l'immaginazione e tempo siano la stessa cosa. Severino insiste sulla problematica riguardante l’unità-identità tra tempo e immaginazione trascendentale; per questa visione, afferma in modo inequivocabile che l’unità va ad estendersi fino a comprendere la pura intuizione (tempo), la pura immaginazione ed anche il puro intelletto (p. 94). Heidegger è spinto da una duplice motivazione: individuare il fondamento al di là dello rapsodistico e frammentario svolgimento kantiano, semplificare tutta la filosofia di Kant che avrebbe giustapposto diverse facoltà senza intravedere il filo conduttore che legherebbe differenti (solo apparentemente) funzioni dello spirito. Nella Critica della Ragion pura, se da una parte vige la giustapposizione di io penso, immaginazione trascendentale, schematismo trascendentale, senza ravvisare l'identità, dall'altra è possibile individuare l’essenziale convergenza del tempo con l'io penso e con l’immaginazione trascendentale. Nell’analisi successiva, Heidegger cerca di chiarire il rifiuto di Kant di porsi in maniera più originale rispetto alle sue conclusioni ottenute dalla tradizionale impostazione filosofica del passato; il rifiuto ad andare fino in fondo (cit. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 185) denota un indietreggiamento rispetto al fondamento che avrebbe avuto lo scopo di unificare la filosofia kantiana e rifondare la metafisica fin dalla sua struttura. E’ presente nel Kant di Heidegger l’intento ad assegnare il primato filosofico non alla logica, all'estetica e alla morale, ma

«a favore di una impostazione della ricerca, che riprenda il problema centrale dell'unità essenziale della conoscenza ontologica e della sua fondazione su una base originaria» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica. p. 65);

ciò implica l'esigenza di una ricerca basata non su elementi già costituiti o ricavati dal pensiero metafisico tradizionale o da scuole di pensiero, ma su un'essenza in grado di garantire la fonte (la radice) da cui trae spunto la ragion pura, la ragion pratica e tutto ciò che ha a che fare con l’intelletto e la ragione con le sue idee, che si costituiscono in un essere nel mondo, attestato dalla temporalità in quanto principio strutturale delle categorie. Si viene a delineare quella radice oscura che Kant aveva sì pensato, ma da cui, inspiegabilmente, indietreggiato; l’intuizione è senz’altro pura, come è pura la morale autonoma, come è puro l’intelletto, e la loro intima purezza e trascendentalità deve provenire da un’unica radice fondante. Alla base del pensiero kantiano ci sarebbero alcuni indizi che farebbero pensare ad un ‘qualcosa’, come ebbe a dire lo stesso Kant, in grado di

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far richiamare l’idea di una metafisica della metafisica, fondamento del fondamento: un abisso senza fondo; che si mostra esteriormente nel dovere morale, nell'eticità. Riguardo all'edizione del 1781, Kant fa presente all'amico Markus Herz che «un'indagine di questo tipo sarà sempre gravosa. Essa contiene infatti la metafisica della metafisica»; l’eventualità di un'indagine considerata gravosa avrebbe condotto Kant ad un percorso di indagine del tutto inattuale al di là dello stesso limite temporale in cui Kant visse e operò; l’elaborazione della seconda edizione confermerebbe l'idea di una “teoria della conoscenza”, appunto per eludere una ricerca faticosa. Metafisica della metafisica rievoca un qualcosa che è alla base della stessa metafisica, che Kant non avrebbe reso esplicito, cui meditava ininterrottamente e che, forse, per paura di imbattersi nell'errore della vecchia metafisica si guardò bene di renderla evidente. III. Alla ricerca del fondamento come unità essenziale Kant redarguisce Aristotele per la frammentarietà con cui ha fronteggiato il problema delle categorie e per l’assenza del filo conduttore in grado di rendere logicamente efficace e ragionevole la strutturazione categoriale. Tuttavia, solo parzialmente può essere legittimata l'affermazione: «la filosofia trascendentale ha il vantaggio, ma anche l'obbligo, di ricercare i suoi concetti colla guida d'un principio»12, in quanto il richiamo al presupposto secondo cui le categorie si mostrano come concetti primitivi e originari dell'intelletto, di fatto tale affermazione ostacola qualsivoglia analisi e la derivazione dei concetti attraverso un principio fondante. Lo scopo di Essere e tempo, in fondo perseguiva un obiettivo fondativo e Heidegger pensò di puntare sul tempo originario con l’esplicito proposito di rifondare una nuova metafisica tematizzando l’essere, comunque dipendente dalla speculazione sulla temporalità. Bisogna tuttavia tener presente che il problema più volte ricorrente è dato non solo dal primato della logica, dell'intelletto, dell'intuizione o dell'immaginazione, ma soprattutto dal problema sull’Unità essenziale. La ricerca deve oltrepassare la frammentazione che contrassegna la ragione teoretica che per svolgersi abbisogna di ricorrenti mediazioni e sintesi senza che la ragione stessa possa svelare quel principio intrinseco al fine di fondare l'unità essenziale:

«Il problema dell'unità essenziale della conoscenza pura ha condotto la ricerca a superare l'isolamento degli elementi. La sintesi pura non

12 I. KANT, Critica della ragion pura. vol. I, p. 105.

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compete né all'intuizione pura, né al pensiero puro. Il chiarimento dell'origine della sintesi pura (...) non può quindi essere né estetico-trascendentale, né logico- trascendentale» (HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, p. 64).

Prenderebbe forma il principio semplificatore della pura ragione, in grado di collegare i tasselli della ragione teoretica e pratica, rendere fattibile il superamento del carattere rapsodico. Kant avrebbe ricalcato il vecchio errore di proporre un uomo come un essere parcellizzato e frazionato in distinte facoltà. Pur interpretando in forma trascendentale l'immaginazione, il tempo e l'io penso, Kant non avrebbe scorto, circa la pura ragione, una l’identità sostanziale

«Kant, proprio per la sua radicalità con la quale, nella sua fondazione della metafisica, ha per la prima volta interpretato trascendentalmente sia il tempo per sé, sia l'io penso per sé li ha ricondotti entrambi alla loro identità originaria, senza tuttavia riconoscere quest'identità come tale» (Ibidem, p. 165).

Sembra così definirsi l’indagine indirizzata alla ricerca di una radice, la cui puntualizzazione ha il compito di conseguire un’effettiva confluenza e transito per tutti quegli aspetti che in Kant si mostravano eterogenei e a volte irriducibili. Se Heidegger individua nel tempo (dopo un’accurata indagine compiuta in Essere e tempo), il fondamento puro valevole ad informare più abilità, tale individuazione deve essere intesa in via provvisoria, in quanto esso viene, nel prosieguo dell’analisi, ad identificarsi con altre funzioni dello spirito. L’ipotesi più ragionevole porta alla constatazione principale secondo cui immaginazione trascendentale, tempo e io penso non siano che la stessa cosa. Kant pur ponendo le abilità una di fronte all’altra ha pensato ad un qualcosa che le rendesse parti di un insieme, senza tuttavia aver voluto esplicitarlo in modo inequivocabile. La conseguenza è che l’io coincide con il tempo. Questa unità sintetica non deve dipendere dalla immaginazione, dal tempo, dall’intelletto come se ognuno di essi, a seconda dalla visualizzazione gnoseologica si costituisse in una specifica unità, ma da un qualcosa (definiamo con qualcosa una realtà che deve essere ancora scoperta) deputato a sintetizzare il mondo esterno e quello interno, oltre ovviamente le attività dello spirito umano. Pertanto, l’unità sintetica non appartiene esclusivamente né all’Io penso, né all’immaginazione trascendentale, né al tempo. Severino nel terzo - La fondazione dell’ontologia come fondazione della metafisica afferma

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«Tale fondamento è l’immaginazione trascendentale che si pone non soltanto come medietas (Mitte) tra sensibilità e intelletto ma come radice dei medesimi. Tale radice è a sua volta radicata nel tempo originario (...). La rielaborazione ha terminato il suo compito con l’enucleazione dell’unità della sintesi ontologica nell’immaginazione trascendentale. Il tempo è allora il fondamento della conoscenza ontologica. Il problema della possibilità dell’ontologia è così risolto» (SEVERINO, Heidegger e la metafisica. p. 101).

La rielaborazione conclusiva secondo il Severino, avrebbe, citando l’Heidegger del Kant e il problema della metafisica, condotto all’esito per il quale il tempo fornirebbe la struttura trascendentale originaria del ‘soggetto’ [...] finito come tale (E. Severino, Heidegger e la metafisica, p. 101). Si può concludere che il concetto di finitezza derivi, allora, direttamente dalla rielaborazione del tempo, allo stesso modo anche la tematizzazione dell’essere e quindi della metafisica deve porsi sulla stessa direzione della temporalità o meglio del tempo originario. Sebbene il tempo rappresenti l’idea-guida della ricostruzione kantiana, tale fattore può giustificare in pieno il concetto di unità fondamentale? Una considerazione, comunque, va fatta: l’attenzione di Heidegger, ad un certo punto, si incentra su un fondamento (identità originaria) in grado di comprendere tutti gli aspetti della trascendentalità (il tempo, l’immaginazione trascendentale ecc.) ma, nel contempo sembrerebbe dirigersi verso ‘qualcosa’ di diverso, volto ad oltrepassarli. Risulterebbero evidenti due differenti progettazioni: da una parte la speculazione mira a riportare tutti gli elementi trascendentali (appercezione trascendentale, immaginazione trascendentale, lo stesso schematismo trascendentale) alla fonte originaria: il tempo; dall’altra coesiste alla prima ipotesi di cui sopra, un progetto teso ad individuare la loro intrinseca identità, solo che questa unità essenziale ha il compito di esplicitarsi nell’identità, ma anche nella differenza. IV. Il problema del noumeno Anche rispetto alla questione del noumeno, Heidegger preferisce rivalutare la Prima edizione della Critica della ragion pura, in quanto in essa non figura un in sé, ma solo un per sé. Con la Seconda edizione si passa dalla determinazione secondo cui non varrebbe più la funzione logica nei giudizi come condizione della possibilità delle cose stesse alla precisa indicazione per la quale

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«Il concetto di noumeno, cioè di una cosa che deve essere pensata (...) come cosa in sé (...) giacché non si può della sensibilità asserire che sia l’unico modo possibile di intuizione (...). Il concetto di noumeno è dunque solo un concetto limite (Grenzhegriff), per circoscrivere le pretese della sensibilità, e di uso, perciò, puramente negativo» (Ibidem, vol. I, p. 257).

Il noumeno rappresenta il limite all’uso dei concetti puri dell’intelletto che non possono essere mai di uso trascendentale, ma solo sempre di uso empirico (cit. I. Kant, Critica della ragion pura, Vol. I, p. 250); nella prima edizione e più specificamente nel paragrafo 3, titolato Della sintesi della ricognizione nel concetto, appare evidente il ruolo portante della coscienza, in virtù della osservazione secondo la quale

«questo oggetto non deve essere pensato se non come qualcosa in generale = x, perché fuori della nostra conoscenza noi non abbiamo più nulla, che si possa porre a riscontro di questa cognizione come corrispondente (...) noi troviamo che il nostro pensiero del rapporto di ogni cognizione col suo oggetto» (Ibidem, vol. II - Appendice, p. 655).

Per il Kant di Heidegger, il limite, ossia il senso stesso della possibilità e della trascendentalità ha ragion d’essere all’interno della nostra natura (cit. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 188) che è limitante sia riguardo alla nostra conoscenza, che nei suoi stessi elementi (categorie). Non è la cosa in sé a contrassegnare la natura finita della ragione pura e dell’intelletto e quindi della conoscenza, dal momento che un essere infinito non potrebbe anticipare una cosa posta fuori di sé; al contrario è l'esser-ci a fissare i limiti e perciò la stessa possibilità della cosa in sé (noumeno) o per dirla con Kant il concetto stesso di un qualcosa posto fuori di me. Oltretutto, Heidegger non pensa al rapporto uomo-mondo secondo l’ottica di soggetto-oggetto, mediazione questa già superata dal ‘maestro’ Husserl; non c’è un in me e un fuor di me come se si trattassero di realtà già date per se stesse. Kant, quindi, avrebbe presupposto «la distinzione e la connessione dell'in me e del fuori di me»13. Ha accolto da un lato «l'oggetto in un duplice significato, cioè come fenomeno o come cosa in sé», dall'altro, la stessa volontà, l’ha concepita come fenomeno e come appartenente ad una cosa in sé. Riconosce valido il fuor di me che non

13 HEIDEGGER, Essere e tempo. p. 254.

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appartiene all'immaginazione «il senso e non l'immaginazione, che lega inseparabilmente l'esterno al mio senso interno» (cit. I. Kant, Critica della ragion pura, p. 35). Kant, considerando la volontà come noumeno (nella sua accezione pura) e come volontà sintetica, non si sarebbe spinto a determinare la possibilità di una volontà che fa di un qual-cosa un oggetto (fenomeno) da una parte e una cosa noumenica dall’altra; pertanto la cosa viene visualizzata o come noumeno (l'in sé) e come fenomeno (il per sé) della stessa volontà pura. Se qualcosa viene posta come oggetto, ciò dipende dal fissarsi nell’ordine costante del tempo, così come la permanenza nel tempo di un vissuto esistenziale può individuare la stabilità di un io che si definisce come soggetto. Ciò che viene definito come dato di esperienza possibile è sempre riferibile ad una configurazione relazionale di soggetto-oggetto che rende fattibile una certa conoscenza. La rappresentazione sensibile si realizza pre-supponendo la rappresentazione dell'uomo-natura in soggetto-oggetto. La filosofia di Kant si collocherebbe all'interno di una veduta per la quale si presentano (presenza) una soggettività e una oggettualità; in questo senso apparterrebbe alla filosofia tradizionale e classica; tuttavia l'originalità può dipendere dall'aver indicato la possibilità di andare «oltre».

V. L’uomo dal “che cosa posso …” a che cosa non posso Contro Kant, non è l'uomo a sorreggere le tre domande, ma la Ragione pratica, in quanto la quarta domanda Che cos'è l'uomo? sembrerebbe spogliarsi nei confronti dell’assunto: «Che cosa posso fare?»14. Nel momento in cui Kant si decide con il che cosa, di fatto il suo che cosa posso...? approda ad una forma di impotenza, in quanto quell’uomo può concretamente fare ben poco, nel senso che l’uomo kantiano alla fine rischia di non poter fare, di non poter sapere, di non poter sperare. A questo punto, comincia la tragedia! E la tragicità dell’uomo forse sta proprio nell’averlo Kant pre-disposto alla sua legge morale assoluta, all’incondizionatezza; per tutto ciò Heidegger pensa che sia più ragionevole collocare l’esser-ci nel regno del condizionato, ossia nel suo essere-nel-mondo. Il punto di vista del poter... kantiano è un potere che di fatto non può; l'uomo è un essere morale perché è un essere in-finito: finito perché limitato e collocato in un esser-nel-mondo, infinito (e quindi illimitato) per la possibilità di oltrepassarsi 14 «Il comandamento (è quello) di realizzare il Sommo bene (che è) fondato oggettivamente - nella Ragion pratica (...) e dal momento che l'uomo non può tendere, assolutamente verso la santa volontà, (il regno di Dio) (...) senza mai poter raggiungerli, la sua esistenza è tragica». (GOLDMANN, Introduzione a Kant, 1975, p. 180).

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nella direzione dell’essere, solo che questo essere non può essere definito. La limitatezza, che in ambito morale si esplica nella ‘condizionatezza’, permette all’uomo di ricorrere al dovere, all’appello morale. La prospettazione delle quattro domande sottende un’essenza mancante, priva di fondamento; di conseguenza bisogna chiedersi per quale motivo la ragione dell'uomo pone domande circa che cosa …? Per tale aspetto la quarta domanda (Che cos'è l'uomo?) deve essere posta sott’inchiesta. Tale questione non risulta essere posta in modo corretto,

«sia che noi ci domandiamo che cosa è l’uomo, e sia che ci domandiamo chi è, poiché, con questo che cosa e con questo chi, noi già ci siamo posti dal punto di vista di ciò che è personale o oggettuale. Ma ciò ch’è personale, non meno di ciò ch’è oggettivo, trascura e insieme impedisce di vedere quel che si essenzia nell’ex-sistenza storica dell’essere» (HEIDEGGER, Che cos’è la metafisica? 1974, pp. 101, 102).

Questo tipo di analisi tende a criticare l’impostazione kantiana, perché il chi o che cosa, implicitamente rimandano all’antropologia (personale), del tutto inadeguata ad un’indagine autenticamente ontologica; se invece li intendiamo in modo oggettivo ci rimandano nuovamente non al fondamento della metafisica (metafisica generale), ma a quella speciale che si occupa degli enti.. E’ la formulazione della domanda che cosa posso … a produrre la filosofia del limite, giacché un essere perfetto e infinito non avrebbe il bisogno di porsi alcuno questo interrogativo per la sua stessa natura, ma il non-potere da pare dell’uomo «non è però una deficienza, è anzi immunità da qualsiasi deficienza o “negazione»15. La stessa ragione morale che si esprime nel dovere è consapevole di cogliersi nella condizione di chi non ha ancora adempiuto, per cui deve interrogarsi, ma il “non ancora” d’un adempimento indeterminato «è l’indice del fatto che un essere, il quale annette il suo più intimo interesse a un dovere è, nel suo fondo, finito»16. Kant, in effetti, non volle rispondere in modo esplicito e dichiarativo; non risponde per esempio alle domande fondamentali Che cosa …, in quanto alla prima domanda non risponde la metafisica, alla seconda non risponde la morale, alla terza la

15 HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, p. 186. 16 Ibidem, p. 187.

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religione non risponde se non con il suo stesso domandare come per la quarta l’uomo non può rispondere senza interrogare nuovamente se stesso. Sarebbe legittimo domandarsi se la radice della Metafisica non si basi, innanzitutto, su il continuo domandar-si. E’ come se Kant avesse ancora una volta rifiutato (anzi indietreggiato per usare la citazione di Heidegger), di rispondere in modo definitivo, tuttavia - e tutto ciò deve valere anche per l’uomo - Kant non rinuncia ad interrogarsi. E’ come se Kant alla base delle tre domande, avesse compreso l’uomo (Cos’è l’uomo?), ma a fondamento dell’uomo è come se avesse anteposto la stessa domanda. All’origine delle tre domande non c’è la risposta delle tre discipline, ma la condizione dell’uomo, destinato a riproporre la stessa domanda (?). Può risultare ragionevole supporre che il domandarsi (le quattro domande - ? -) della ragione possa sottendere non solo un’inquietudine fondamentale, ma anche il senso di una metafisica che si viene a cogliere in quella che Kant definisce come una disposizione dello spirito? … il fondamento che non si dà né come oggetto, né come soggetto, né nella direttiva dell’ente, ma di un essere, la cui radice può possibilmente rilevarsi nell’interrogante. La domanda (che cos’é…?) può sottendere il significato di una richiesta, da intendere come un dis-porsi, cioè porsi nella direzione di … Forse, tale impostazione potrebbe valere anche per il Postulato. A tal proposito Kant definì «postulati della ragion pratica» le condizioni che permettono alla moralità, alla libertà, all’immortalità e a Dio di poter essere. Il dis-porsi non deve porsi di fronte un qualcosa costituitosi o prefissatosi, viceversa deve autenticamente e originalmente intendere non dove, ma come può tale disposizione indirizzarsi. In contrasto con la metafisica classica che alla domanda essenziale su Dio e la sua esistenza seguiva con uno strumentario logico strutturato su costrutti logico-teologici; la metafisica kantiana, adeguatamente rivisitata, deve far riferimento al pro-porre semplicemente la domanda in base ad un preciso criterio trascendentale (da Kant individuato nell’idea trascendentale, in seguito nella supposizione e in ultimo nel postulato) senza che l’uomo possa in nessun caso ‘promettersi’ in modo esaustivo e definitivo. Nell’incessante postulare, (‘interrogarsi’ si viene a cogliere e a convalidare l’essenza morale, teologica e il destino stesso dell’uomo). La postulazione non deve riferirsi ad una asserzione postulativa matematica o di natura prettamente logica; deve invece richiamare l’idea di una richiesta, di una domanda e tale prospettazione non contraddirebbe, certamente il costrutto criticistico, anzi lo renderebbe più rispondente ad una formulazione autenticamente autonoma e originaria, antitetica a quella tradizione filosofica che per lungo tempo aveva utilizzato e sfruttato le asserzioni dei postulati per convalidare una determinata filosofia politica, etica o del diritto. La metafisica classica concepiva la possibilità della trascendenza nella domanda cui faceva seguito una risposta sull’uomo, su Dio e sul mondo, per la metafisica rinnovata

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(kantiana) la domanda continua potrebbe essere l’autentica legge della coscienza, anche se la teologia trasforma la domanda in speranza che, cristianamente, comporta la disperazione dell’uomo, giacché esiste uno stretto rapporto tra speranza e disperazione che informa la stessa fede. Per Kant l’assunto biblico non mi cercheresti se non mi avessi trovato, andrebbe sostituito con “è bene (devi) cercare anche se non troverai”. La formulazione della domanda che cosa è l’uomo? deve essere rapportata a che cosa posso … il potere è sempre riferibile alla volontà che porta l’uomo a volere a desiderare ad anelare; ma il volere si configura nel potere del volere che rappresenta il limite di un uomo, cui può competere solo la possibilità (in quanto essa sottende la mancanza di verità oggettivamente offerentesi) del Non, per la semplice constatazione che si può sperimentare soltanto il che cosa l’uomo non …? Si passa dalla speculazione della domanda fondante intorno a che cos’è l’uomo? a che cosa non …. VII. La metafisica come possibilità fondativa dell’etica Il tentativo di Kant di eludere una ricerca estremamente faticosa (gravosa), presenta un quesito: cosa potrebbe significare metafisica della metafisica? Metafisica della metafisica potrebbe avere a che fare con l’intento di mettere a punto un fondamento tale da legittimare un primato della metafisica. Un rimando, quindi, ad un qualcosa di originario e fondante; che Kant, disgraziatamente, non avrebbe voluto chiarire, cui egli meditava ininterrottamente e che, forse, per paura di imbattersi in un errore così usuale nel sistema della tradizionale metafisica ben si guardò dall’esporlo manifestamente. Kant non avrebbe spinto la sua indagine per meglio chiarire la questione metafisica come disposizione naturale: tale definizione viene intesa o come disposizione naturale dello spirito o come una disposizione naturale della ragione. A parte questa differenza, è possibile avanzare alcune ipotesi. Una prima congettura concepirebbe la metafisica come scienza dei concetti puri; una seconda e più toccante ipotesi ci condurrebbe ad intendere la disposizione come una possibilità pura, in grado di ribaltare l'uso della ragione non solo rispetto all'esperienza possibile, ma anche in relazione ai concetti puri. Questa seconda prospettazione ci porta a considerare la condizione dell’uomo, in ambito della metafisica, non necessariamente ancorata al concetto e all’impianto delle stesse idee. Nonostante Kant avesse considerato la definizione concettuale «disposizione naturale della ragione», è importante far presente che la ragione è sempre dipendente dalla domanda che cos'è l'uomo?. Per cogliere, in modo originale, il significato di disposizione naturale, bisogna tener conto della natura della metafisica tradizionale dell’Occidente, il cui

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pensiero quando pensava l'essere se lo rappresentava nella maniera di essere-già-costituito nella sua completezza, pienezza e perfezione, a prescindere dalla domanda da parte di chi è chiamato a porre il problema dell'essere. Tuttavia, se Kant prosegue, a proposito della metafisica, la sua speculazione in una direzione che privilegi la disposizione o tendenza naturale dello spirito umano, tutto ciò dipenderebbe dall'aver pensato ad un fondamento da cui sarebbe dovuta scaturire la metafisica. Sta qui il senso della ricerca gravosa di una metafisica della metafisica? La messa a punto di quel filo conduttore, cui spesso si è fatto riferimento, avrebbe avuto come conseguenza la possibilità di oltrepassare quei limiti e quelle incertezze propri della metafisica, il cui svolgimento, a detta dello stesso Kant, è stato contrassegnato finora da un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti. Purtroppo continuare ad andar a tentoni tra semplici concetti ha permesso, ancora una volta, l’affermazione di una metafisica che ha consentito il dispiegamento della Dialettica e quindi, conseguentemente, il diffondersi delle opposizioni concettuali e dei falsi ragionamenti. Seguendo il taglio di Heidegger: esisterebbero spunti tali da indurci a pensare al modo in cui Kant abbia potuto rappresentare e mascherare nelle sue tre Critiche la metafisica? E’ ragionevole considerare la possibilità, nelle opere posteriori all'edizione del 1787, di un’effettiva continuità intenzionale, riguardante una radice, velatamente attiva negli scritti kantiani, anche se, solitamente e comunemente, configurata come legge morale? Per rispondere a tali domande, è bene far esplicito riferimento, tenendo presente soprattutto la seconda edizione della Critica della ragion pura, agli assunti che più e meglio qualificano il concetto di metafisica. Kant quando pensa alla metafisica se la prospetta secondo la seguente classificazione, intesa come: A. Complemento (indispensabile) (...) della ragione umana (Kant, Critica della ragion pura, vol. II, p. 641); B. Analisi della ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme (Kant, Critica della ragion pura, vol. II, p. 641); C. Scudo della religione (Kant, Critica della ragion pura, vol. II, p. 641); D. Metafisica dei costumi (Kant, Critica della ragion pura, vol. II, p. 636); E. Intera conoscenza filosofica; F. Metafisica classificata nell’ordine speculativo e pratico; strutturata su una Metafisica della natura (abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti dai semplici concetti) e su una Metafisica dei costumi (i princìpi che determinano a priori e rendono necessario il fare e il non fare. Se teniamo presente, con un’analisi condotta di primo acchito, i punti di cui sopra, risulta evidente, anche per la seconda edizione della Critica della ragion pura, la fondamentalità e il valore (assoluto) della metafisica.

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E’ veramente fondata la tesi dominante di gran parte dei critici, secondo cui tale Critica della ragion pura evidenzierebbe e convaliderebbe la supremazia della logica trascendentale rispetto alla metafisica? Come se l’intera impostazione kantiana dovesse essere collocata nella sfera della gnoseologia o meglio dell’epistemologia. Per quanto riguarda la separazione tra metafisica della natura e metafisica dei costumi (F.) tale suddivisione viene oltrepassata con la Critica della ragion pratica, in cui si renderebbe visibile la supremazia della pura morale e il venir meno della metafisica (dei costumi) di cui non apparirebbe il minimo residuo. A questo punto viene da chiederci: il fondamento originario si costituirebbe in unità morale? Si tratterebbe di oltrepassamento della metafisica o di un suo celamento? Perché la morale sostituisce la metafisica? In che cosa consiste la specificità della metafisica kantiana? Quali le sue possibili implicazioni anche d'ordine religioso? Il primato della metafisica appare evidente nel titolo di alcune opere, soprattutto quelle anteriori alla seconda edizione della Critica della ragion pura, come Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza (1783), Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Princìpi metafisici della scienza della natura (1786). Non meno importante il punto (C.) che abbisogna di uno studio approfondito. Quando Kant fa riferimento al concetto di scudo intenderebbe far presente una certa fragilità della religione, pertanto il concetto di scudo, assegnato alla metafisica, non deve indicare una sua eventuale sudditanza rispetto all’idea di Dio, anzi la metafisica potrebbe risultare un’autentica difesa riguardo ad eventuali attacchi da parte di correnti filosofiche contrassegnate da forme ideologiche d’ordine agnostico e ateistico. La definizione concettuale di scudo potrebbe rendere possibile uno strumentario strategico e teoretico, volto a preservare e a difendere quell'Essere Supremo. Riguardo a questa problematica, Heidegger non sembrerebbe affatto interessato, nel preciso senso che mancano almeno per la questione religiosa riferimenti espliciti, come se il problema Dio non entrasse a far parte della sua speculazione. La critica heideggeriana sarebbe esclusivamente rivolta alla teologia kantiana, in quanto l’idea di Dio rispecchierebbe, essenzialmente, un essere inteso come Ente Sommo, cioè quell’essere ideale di perfezione, che comunque, secondo Heidegger, sarebbe stato concepito ugualmente o come ente o addirittura come sostanza. A proposito di un primato morale (il riferimento è alla Critica della ragion pratica) che avrebbe definitivamente invalidato ogni riferimento alla metafisica e addirittura inteso la problematica della libertà solo secondo un ordine negativo,

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come «indipendenza da ogni elemento empirico, e quindi dalla natura in genere>>17, e interpretata come indeducibile, alla domanda, poi, donde comincia la nostra conoscenza dell'incondizionato pratico, se dalla libertà, o dalla legge pratica, Kant pensa che

«noi non possiamo né divenir consci di essa immediatamente, perché il suo primo concetto è negativo, né dedurla dall'esperienza, perché l'esperienza ci manifesta soltanto la legge dei fenomeni» (Ibidem, p. 37) .

Basterebbe, a questo punto, chiamare in causa la Fondazione della metafisica dei costumi in cui, contrariamente alla Critica della ragion pratica, Kant fa esplicito riferimento alla metafisica e ad un suo totale primato anche nei confronti della morale, e non a caso fa dipendere la morale dalla fondazione, cioè da un fondamento; tale impianto darebbe ragione all’assunto di Heidegger: «se manca [la] metafisica (…) diventa addirittura impossibile (…) fondare i costumi [la morale] sui loro veri principi»18. Ad un certo punto, con la Critica della ragion pratica l’impostazione così come emerge dalla Fondazione viene messa da parte per convalidare la “supremazia” dell'etica che non risulta deducibile da altri princìpi non assolutamente dipendenti dalla legge morale. Pertanto, basterebbe far assiduo riferimento all’opera più altamente rappresentativa del primato della metafisica - Fondazione della metafisica dei costumi - per rendersi conto della differenza sostanziale tra quest’opera e la Critica della ragion pratica. E’ proprio la Fondazione che, più e meglio di ogni altra opera kantiana, giustifica il proposito di Heidegger, giacché in quest’opera Kant afferma in modo esplicito l’idea secondo la quale la

«legge morale nella sua purezza e genuinità (...) è da cercarsi nella filosofia pura; bisogna dunque che questa [la metafisica] preceda, altrimenti non può darsi alcuna filosofia morale»19.

17 KANT, Critica della Ragion pratica, p. 118. 18 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, 1980, p. 37. 19Ibidem, p. 7. Più avanti, Kant rende più esplicito il concetto non di una metafisica come etica, ma di un'etica come metafisica: «se manca questa metafisica, non solo diventa vano determinare esattamente per il giudizio speculativo l'elemento morale del dovere in tutto ciò che è conforme al dovere, ma diventa addirittura impossibile (...) fondare i costumi sui loro veri princìpi» (KANT, Fondazione della metafisica dei costumi. p. 37).

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Per tutto ciò, non più una metafisica come etica, ma un'etica come metafisica; e ancora non più una metafisica come estetica, ma un'estetica come metafisica. Tuttavia rimane ancora aperto un ragionevole dubbio: è possibile, seguendo queste trasposizioni, dilatare la veduta, e anche se problematicamente, supporre una teologia come metafisica? E non più una teologia come morale? La supposizione può avere un suo fondamento anche se la riduzione della teologia alla metafisica risulta un’impresa non certo semplice. Riguardo al primato della ragion pratica, molti critici affermano l’assolutezza dell’eticità posta a fondamento; tuttavia, all'interno dello sviluppo filosofico kantiano, si tratta di un fondamento sottoposto a continue variazioni già dalla Prima edizione della Critica della ragion pura. Alla base della questione morale, che si svilupperà in teologia morale e in un Dio morale - è possibile scorgere un qualcosa in grado di richiamare la tematizzazione della metafisica o dell'essere in generale? Perché non pensare che unità e assolutezza morale implichino un’unità metafisica, che Kant denomina Morale pura? Nella Critica della ragion pratica il problema dell’essere in generale viene a caratterizzarsi come problema dell’etica, ragion per cui la questione circa l’essere viene a convertirsi alla sola tematizzazione dell’essere come dover essere, e per tale prospettiva l’essere viene a nascondersi nella valenza pratica. La critica al dover essere segue tre direttive principali: a. il dover essere ha un rapporto di appartenenza all’essere; b. il dover essere ha trasformato (se non addirittura celato) il problema

dell’essere in dover essere; c. l’essere in quanto tale si converte in dovere per il dovere. Rispetto al punto (a) tra il dover essere e l’essere ci sarebbe un rapporto di coappartenenza o meglio il dover essere implica l’essere. E’ forse il destino stesso della metafisica occidentale che si delinea proprio nella verità nascosta, ossia una verità dell’essere che è destinata ad essere prepotentemente rappresentata in termini o materialistici (essere=materia) o idealistici (essere=idea) o in termini razionalistici (essere= io penso) e in ultimo, si potrebbe dire, in una accezione etica. E’ facile intuire che il dover essere regga tutto l’impianto etico della ragione pratica e quindi anche l’essenza dell’imperativo categorico e non a caso Kant è dell’avviso che «tutti gli imperativi sono espressi dal "dover essere»20, ma dopo questa constatazione, non viene esplicitato il richiamo all’essere del dovere. La

20 KANT, Fondazione della metafisica dei costumi. p. 39.

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domanda sull’essere del dovere è stata offerta non dalla Critica della ragion pratica, ma dalla Fondazione della Metafisica dei costumi, opera in cui l’essere del dovere è dato dalla volontà libera (libertà), anzi viene prospettata l’identità tra volontà e libertà. Nella Fondazione è comunque presente l’intento, peraltro esplicitamente dichiarato, di una ricerca, orientata al Fondamento (principio supremo). Tutto ciò è testimoniato dal proponimento iniziale e comunque più volte, nel prosieguo del lavoro, espresso con la evidente dichiarazione secondo la quale «la presente "Fondazione" non è che la ricerca e la determinazione del principio supremo della moralità»21, affermazione convalidante l'interesse rivolto ad una ricerca del fondamento originario. Al contrario della Fondazione, la Critica della ragion pratica non ha alcun interesse a mettere a punto un principio Supremo, in quanto la morale pura si fonda su se stessa senza dipendere da alcunché, ma come può la morale pura strutturarsi su se stessa senza una base speculativo-dimostrativa, teoretica, psico-logica o teologica? Per Heidegger tale domanda è improponibile, giacché ragione teoretica e pratica sono la stessa cosa. Oppure, ragione teoretica e pratica sono la stessa cosa, anche se è difficile, se non quasi impossibile, comprovare tale rapporto di coappartenenza. Già Kant, nel prosieguo della Critica della ragion pura, introduce aspetti di natura etica, che saranno successivamente sviluppati nella Critica della ragion pratica, come se quest’ultima in nuce avesse preso, pian piano, forma già nella Critica della ragion pura.

21 Ibidem, p. 9.

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BIBLIOGRAFIA GOLDMANN, L. Introduzione a Kant. Milano: Oscar Mondadori, 1975. HEIDEGGER, M. Che cos’è la metafisica? (trad. di A. Carlini), Firenze: La Nuova Italia, 1974. HEIDEGGER, M. Essere e tempo. (trad. di P. Chiodi) Milano: Longanesi, 1970. HEIDEGGER, M. Kant e il problema della metafisica. (Trad. M. E. Reina), Roma-Bari: Laterza, 1985. KANT, I. Critica della Ragion pratica. (trad. di F. Capra), , Bari: Laterza , 1974. KANT, I. Critica della ragion pura. vol. I e vol. II, (trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice), Bari: Laterza, 1977. KANT, I. Fondazione della metafisica dei costumi. (trad. di P. Chiodi), Bari: Laterza, 1980. SEVERINO, E. Heidegger e la metafisica. Milano: Adelphi, 1994.