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1 Heidegger e la cultura del Novecento Il contesto Nel corso del Novecento la riflessione filosofica, al di là delle dispute tra differenti pro- spettive e tradizioni, ritorna con sempre maggiore insistenza sulla questione del ruolo stesso della filosofia all’interno della cultura contemporanea. La filosofia, infatti, si è vi- sta sottrarre progressivamente interi territori del sapere: dal Settecento sino alla seconda metà dell’Ottocento, ad opera delle scienze naturali; dalla fine dell’Ottocento a oggi, ad opera delle scienze umane. Una risposta a questa situazione è stato lo sviluppo della filo- sofia della scienza e dell’epistemologia, in un rapporto ravvicinato, ma non sempre paci- fico, con le scienze logico-matematiche e con le scienze della natura. Un’altra risposta, più recente, ha alimentato le riflessioni sulla storia e sulla civiltà; in questo caso la rela- zione privilegiata è quella, ancor più conflittuale, con le scienze umane. Vi è stato, tuttavia, anche un terzo atteggiamento, più deciso e orgoglioso, che la filosofia ha assunto di fronte al vacillare del suo privilegiato status bimillenario. Sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, alcune filosofie ripropongono con decisione, in un mondo in cui trionfano le scienze e la tecnica, i grandi temi della metafisica e rivendicano la competen- za sulle “questioni ultime” del senso del mondo e della vita, alle quali la scienza non sem- bra in grado di dare risposte esaustive e soddisfacenti. Ritornano, in prospettive rinnova- te e molto più accorte rispetto al passato, termini impegnativi che sembravano ormai ob- soleti, come quelli di “coscienza”, di “essere”, di “esistenza” e di “verità”. Si parla della ri- levanza “ontologica” del tempo, del potere “rivelativo” dell’arte o del mistero inesauribile del linguaggio. Oggi, alla fine di questa parabola, le grandi e violente opposizioni tra “metafisici” ed “epi- stemologi” sembrano molto attenuate e si assiste allo sviluppo di un dialogo fra tradizio- ni molto diverse che si domandano se la riflessione filosofica possa conservare una fun- zione vitale all’interno della cultura contemporanea. A questo sbocco ha contribuito pri- ma di tutto l’esaurirsi dell’originario progetto neopositivistico di una filosofia della scien- za rigorosa e antimetafisica; questa tradizione è approdata, con le posizioni del “secon- do” Wittgenstein e della filosofia analitica, a una concezione del linguaggio che presenta molte affinità con l’ermeneutica contemporanea. D’altra parte la corrente ermeneutica, che ha raccolto l’eredità del pensiero di Heidegger, lontanissimo dalle prospettive della filosofia della scienza, ha ribadito la centralità della questione del linguaggio, ponendo così le premesse per un’interazione tra orizzonti cul- turali molto differenti. Con gli ultimi esiti dell’ermeneutica e della Scuola di Francoforte, con gli sviluppi della linguistica “strutturale” che si richiama all’opera del ginevrino Fer- dinand de Saussure (1857-1913) e con il vivace dibattito teorico sulle scienze umane, la cultura “continentale” appare oggi impegnata in un dialogo fecondo con la tradizione an- glosassone della filosofia della scienza e del pragmatismo.

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Heidegger e la cultura del Novecento

Il contesto

Nel corso del Novecento la riflessione filosofica, al di là delle dispute tra differenti pro-spettive e tradizioni, ritorna con sempre maggiore insistenza sulla questione del ruolo stesso della filosofia all’interno della cultura contemporanea. La filosofia, infatti, si è vi-sta sottrarre progressivamente interi territori del sapere: dal Settecento sino alla seconda metà dell’Ottocento, ad opera delle scienze naturali; dalla fine dell’Ottocento a oggi, ad opera delle scienze umane. Una risposta a questa situazione è stato lo sviluppo della filo-sofia della scienza e dell’epistemologia, in un rapporto ravvicinato, ma non sempre paci-fico, con le scienze logico-matematiche e con le scienze della natura. Un’altra risposta, più recente, ha alimentato le riflessioni sulla storia e sulla civiltà; in questo caso la rela-zione privilegiata è quella, ancor più conflittuale, con le scienze umane. Vi è stato, tuttavia, anche un terzo atteggiamento, più deciso e orgoglioso, che la filosofia ha assunto di fronte al vacillare del suo privilegiato status bimillenario. Sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, alcune filosofie ripropongono con decisione, in un mondo in cui trionfano le scienze e la tecnica, i grandi temi della metafisica e rivendicano la competen-za sulle “questioni ultime” del senso del mondo e della vita, alle quali la scienza non sem-bra in grado di dare risposte esaustive e soddisfacenti. Ritornano, in prospettive rinnova-te e molto più accorte rispetto al passato, termini impegnativi che sembravano ormai ob-soleti, come quelli di “coscienza”, di “essere”, di “esistenza” e di “verità”. Si parla della ri-levanza “ontologica” del tempo, del potere “rivelativo” dell’arte o del mistero inesauribile del linguaggio. Oggi, alla fine di questa parabola, le grandi e violente opposizioni tra “metafisici” ed “epi-stemologi” sembrano molto attenuate e si assiste allo sviluppo di un dialogo fra tradizio-ni molto diverse che si domandano se la riflessione filosofica possa conservare una fun-zione vitale all’interno della cultura contemporanea. A questo sbocco ha contribuito pri-ma di tutto l’esaurirsi dell’originario progetto neopositivistico di una filosofia della scien-za rigorosa e antimetafisica; questa tradizione è approdata, con le posizioni del “secon-do” Wittgenstein e della filosofia analitica, a una concezione del linguaggio che presenta molte affinità con l’ermeneutica contemporanea. D’altra parte la corrente ermeneutica, che ha raccolto l’eredità del pensiero di Heidegger, lontanissimo dalle prospettive della filosofia della scienza, ha ribadito la centralità della questione del linguaggio, ponendo così le premesse per un’interazione tra orizzonti cul-turali molto differenti. Con gli ultimi esiti dell’ermeneutica e della Scuola di Francoforte, con gli sviluppi della linguistica “strutturale” che si richiama all’opera del ginevrino Fer-dinand de Saussure (1857-1913) e con il vivace dibattito teorico sulle scienze umane, la cultura “continentale” appare oggi impegnata in un dialogo fecondo con la tradizione an-glosassone della filosofia della scienza e del pragmatismo.

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Martin Heidegger (1889-1976)

L’opera fondamentale di Heidegger, Essere e tempo (1927), interpretata contro le inten-zioni dell’autore in senso esistenzialistico, ha esercitato un’influenza decisiva su molti pensatori del Novecento. L’eredità teorica di Heidegger è presente ancora oggi nella ri-flessione estetica, ermeneutica e teologica, nell’ambito della psicoanalisi e dell’antropologia, ma anche in alcuni sviluppi recenti delle scienze cognitive. Allievo di Edmund Husserl (1859-1938), fondatore della fenomenologia, Heidegger svi-luppa l’analisi fenomenologica in una direzione originale, sino al distacco definitivo dal maestro, cui succede nel 1928 alla cattedra di Friburgo. Nel 1933 diviene rettore di que-sta università, aderendo al partito nazista. L’anno successivo si dimette dalla carica e continua il proprio lavoro di ricerca e di insegnamento in un relativo isolamento. Hei-degger non ha mai dato una spiegazione convincente del suo rapporto con il nazismo, a causa del quale dopo la guerra viene sospeso dall’insegnamento sino al 1951. Altre opere importanti: Che cos’è la metafisica? (1929), L’essenza della verità (1930), Nietzsche (1936-1946), Lettera sull’umanismo (1946), Sentieri interrotti (1950).

Il senso dell’essere e l’analitica esistenziale

Heidegger intende ridestare l’attenzione filosofica intorno al problema decisivo del senso dell’essere, distinto da quello dei singoli enti. È la questione con cui è nata la metafisica occidentale che tuttavia, già a partire da Platone, sembra avere progressivamente dimen-ticato e occultato questa interrogazione originaria. Per affrontare il problema del senso dell’essere bisogna in primo luogo partire dall’analisi del Dasein (“esistenza”, “esser-ci”), cioè dell’unico tra gli enti che si interroga intorno all’essere. Heidgger usa il concetto di Dasein e non quello di “uomo” o di “essere umano”, per prescindere da qualsiasi signifi-cato già costituito (filosofico, antropologico o psicologico) dell’essere dell’uomo. L’esserci, infatti, diversamente dalla “semplice-presenza” delle cose, non è una realtà da-ta, oggettiva, ma è “esistenza”: rapportarsi al proprio “poter-essere”, a differenti possibi-lità di essere che, in quanto tali, trascendono continuamente ogni realtà presente. Il primo carattere costitutivo dell’esserci è l’essere-nel-mondo. Noi non esistiamo come soggetti isolati e astratti, che solo in un secondo tempo entrano in relazione con un mon-do “esterno”, bensì siamo già sempre situati in un orizzonte concreto di cose, azioni, per-sone e significati, in un campo di possibilità e di scelte. “Esser-ci” (Da-sein) significa es-sere già sempre “qui” ed “ora”, “aperti” a un mondo che ci è familiare, già “presi” in un si-stema di relazioni che ci costituisce e a partire dal quale comprendiamo le nostre possibilità di esistenza. La tradizione filosofica muove abitualmente da un soggetto e da un oggetto “in sé”, per istituire poi tra essi una relazione, soprattutto di carattere conoscitivo. Heidegger considera invece l’essere-nel-mondo come una costituzione ontologica originaria, già sem-pre data, rispetto alla quale “soggetto”, “oggetto” e “conoscenza” sono concetti derivati e i-solati astrattamente: “il conoscere stesso si fonda preliminarmente in quell’essere-già-presso-il-mondo che costituisce come tale l’essere dell’esserci. Questo essere-già-presso non è originariamente un’inerte contemplazione di semplici-presenze. L’essere-nel-mondo, in quanto prendersi cura, è coinvolto nel mondo di cui si prende cura”. Il mondo non è un oggetto che ci sta di fronte come semplice-presenza e, d’altra parte, noi stessi non siamo innanzi tutto dei puri soggetti teoretici che lo contemplano.

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L’esserci, in quanto si rapporta sempre al proprio poter-essere, esiste come progetto del-le proprie possibilità e solo in quanto tale “incontra” il mondo. Gli enti del mondo hanno il loro senso (il loro essere) soltanto nella luce (nell’”apertura”) del progetto dell’esserci. In questo nostro coinvolgimento originario nel mondo, gli enti “intramondani” ci vengo-no incontro non come semplici-presenze, ma come mezzi, come strumenti utilizzabili per un’azione possibile (“mezzi per scrivere, per cucire, di trasporto, per misurare”). L’utilizzabilità non è quindi una proprietà che si aggiunga in un secondo tempo a carat-terizzare una cosa-oggetto preesistente, ma è il modo originario in cui l’ente “si dà” nell’apertura del nostro essere-nel-mondo. L’essere del mezzo consiste in un continuo rimando ad altri mezzi, all’orizzonte globale di utilizzabilità (alla situazione concreta) che ne dischiude il senso in rapporto ai nostri progetti e scopi. La penna rimanda alla lampada e alla tavola, le quali rimandano alla camera: “queste “cose” non si manifestano innanzi tutto isolatamente, per riempire suc-cessivamente una stanza come somma di reali. Ciò che si incontra per primo, anche se non tematicamente conosciuto, è la camera, e questa, di nuovo, non come “ciò che è rac-chiuso tra quattro pareti” in senso spaziale e geometrico, ma come mezzo di abitazione. E’ a partire da essa che si rivela l’”arredamento” e in questo, a sua volta, il “singolo” mez-zo. Prima del singolo mezzo, è già scoperta una totalità di mezzi”. Il mondo non è quindi la somma delle cose semplicemente-presenti ed “esterne”, bensì l’orizzonte di possibilità, il sistema di rimandi e di relazioni che si apre nel progetto dell’esserci. Essere-nel-mondo vuol dire “abitare” un orizzonte di significati che ci sono già sempre familiari, che hanno senso per il nostro progettare, anche se “questa intimità col mondo non richiede necessa-riamente una trasparenza teoretica”. L’esserci dispone quindi già sempre di una comprensione originaria del mondo; si tratta di una comprensione sostanzialmente irriflessa, coincidente con l’orizzonte di significati, ovvio e familiare, che precede qualsiasi esperienza consapevole o attenzione “tematica” alle cose. Heidegger respinge i termini in cui per secoli la tradizione filosofica ha posto il problema gnoseologico: un soggetto che deve “uscire da se stesso” per conoscere un og-getto “esterno”. Già prima di impegnarsi consapevolmente in un atto di conoscenza, l’esserci, in quanto apertura al mondo, è sorretto da una pre-comprensione del senso globale delle cose, da un sistema di idee, di pre-giudizi, di credenze e di attese. Questa pre-comprensione non va pensata come un ostacolo alla “vera” conoscenza delle cose, immaginate come semplici-presenze che ci attendono “là fuori”; al contrario, soltanto se un certo orizzonte globale di significati è già aperto, noi possiamo incontrare, in questa “luce”, le singole cose. La stessa percezione sensibile può essere spiegata unicamente in base alla struttura esi-stenziale della comprensione originaria e non come l’azione di uno stimolo esterno su un soggetto: “innanzi tutto non sentiamo mai rumori e complessi di suoni, ma il carro che cigola, la motocicletta che assorda. Si sente la colonna in marcia, il vento del nord, il pic-chio che batte, il fuoco che crepita. E’ necessario un procedimento artificioso e complica-to per poter “sentire” un “rumore puro”. Il fatto che udiamo innanzi tutto motociclette e carri attesta fenomenicamente che l’esserci, in quanto essere-nel-mondo, si mantiene già sempre presso l’utilizzabile intramondano e che, innanzi tutto, non riceve “sensazioni” da impiegare come un trampolino per raggiungere, alla fine, il “mondo”. In quanto es-senzialmente comprendente, l’esserci è già, innanzi tutto, presso ciò che comprende”.

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La conoscenza di qualcosa non può essere allora che un’articolazione ulteriore della com-prensione originaria in cui ciò che dobbiamo conoscere ci è già dato come fornito di sen-so. La conoscenza è sempre interpretazione di un senso già compreso e, in quanto tale, ha una struttura necessariamente circolare. Vi è qui un’analogia con il concetto di “circo-lo ermeneutico”, sviluppato in età romantica da Schleiermacher: per conoscere la parte (una singola cosa del mondo), dobbiamo già disporre di una pre-comprensione della to-talità (il mondo) cui essa appartiene e in cui soltanto può avere senso. “L’interpretazione, che promuove nuova comprensione, deve avere già compreso l’interpretando... deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso”. Non si tratta di un circolo “vizioso” da cui si possa o si debba “uscire”, ma di una struttura costitutiva del nostro essere-nel-mondo, dell’essere già sempre immersi in un orizzonte di significati familiari. L’apertura dell’esserci al mondo non consiste soltanto nella comprensione, ma anche nella situazione affettiva (o “tonalità emotiva”). Noi siamo già sempre “situati” emoti-vamente nel mondo: le cose ci vengono incontro dotate di senso, ma anche di un valore affettivo (sono gradite, minacciose, indifferenti) che esprime il nostro essere già sempre coinvolti nel mondo. L’essere aperti al mondo è innanzi tutto un “sentirsi” nel mondo, è gioia o tristezza, serenità o paura. La comprensione e soprattutto la situazione emotiva fanno dell’esserci heideggeriano qualcosa di infinitamente lontano sia dal puro soggetto teoretico di una lunga tradizione filosofica, sia dalla stessa soggettività trascendentale di Husserl. L’esserci, sempre situato in una certa tonalità affettiva e in una certa pre-comprensione del mondo, è segnato da una “finitezza” o contingenza originaria che è la condizione stessa dell’esistenza umana. L’essere-nel-mondo, la pre-comprensione e la situazione emotiva ci sono già sempre “da-ti” come qualcosa che, coincidendo con il nostro stesso esserci, “precede” ogni atto di co-scienza o di volontà. Secondo la struttura che caratterizza l’esistenza, noi ci progettiamo come un poter-essere che trascende le condizioni reali, ma soltanto a partire da queste condizioni stesse. Il senso stesso dei nostri progetti, le emozioni, i significati, le credenze che ci fanno accedere alle cose sono “già lì”, prima di ogni decisione cosciente di accettar-li o di rifiutarli. E’ questa la radicale finitezza dell’esistenza, una “effettività” al di là della quale non possiamo risalire. Non potendo disporre né darci ragione del fondamento ori-ginario della nostra esistenza, questa è per noi assolutamente “infondata”, contingente e puramente “ricevuta”. L’esserci, pur essendo l’apertura del mondo, non può disporre di questa apertura, né fondarla; pur essendo progetto, esso è un progetto “gettato” nel mon-do, gettato in una situazione emotiva e in un determinato orizzonte di senso.

L’esistenza inautentica

Ciò in cui siamo gettati è in realtà un mondo collettivo. L’essere-nel-mondo è sempre un essere-assieme in un mondo (di valori, di significati) condiviso. Nella condizione abituale della vita quotidiana, l’esserci assume in modo acritico e non consapevole le idee, i pre-giudizi e i valori comuni che caratterizzano una certa situazione storico-sociale. Il singolo esserci è continuamente sottoposto, per lo più senza accorgersene, a un insieme anonimo di condizionamenti: si sente in una vaga soggezione agli “altri” e si confronta senza sosta con essi. Nella vita quotidiana vige la “dittatura” anonima del “si” (“man”) impersonale e della “pubblicità”: l’opinione pubblica, i modi abituali del comportamento collettivo, il giudizio dei più. Innanzi tutto e per lo più, l’esserci “non è se stesso, non è qualcuno e

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non è la somma di tutti”, ma si identifica con il si neutro e impersonale. “Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro... Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, ve-diamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scan-daloso”. Il modo dell’esistenza pubblica è dominato dalla “chiacchiera” (“le cose stanno così per-ché così si dice”) e dalla “curiosità” (incapacità di soffermarsi sulle cose e consumazione rapida del “nuovo”). Ostile a tutto quanto è personale e individuale, il si ha il carattere della “medietà”: “nella determinazione di ciò che è possibile o lecito tentare, la medietà sorveglia ogni eccezione. Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è dis-solta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto per-de la sua forza”. La quotidianità media, in quanto identificazione con il si impersonale, è “il modo della fuga dinanzi a se stessi e dell’oblio di sé”. Così, senza nulla di “proprio”, l’esserci si trova come “schiacciato” sul mondo pubblico e completamente consegnato a esso. E’ questa la deiezione (“scadimento”) che caratterizza l’esistenza inautentica. Non si tratta di una con-tingente degradazione dell’esistenza, né di un difetto morale, bensì del modo originario in cui si manifesta il nostro essere-gettati nel mondo. L’esistenza è già sempre inautentica e solo a partire da questa condizione è possibile che l’esserci, riappropriandosi delle sue pos-sibilità, si apra a un’esistenza autentica. In quanto è progetto e poter-essere, l’esistente “può, nel suo esserci, o scegliersi, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi”.

L’essere-per-la-morte e l’esistenza autentica

La possibilità che l’esserci conquisti se stesso, sottraendosi all’identificazione anonima con l’esistenza pubblica, nasce dall’anticipazione della propria morte. A differenza della morte degli altri, la nostra morte non è mai per noi una realtà sperimentabile, ma sempre una pura possibilità, “un’imminenza che sovrasta” e fa vacillare tutto il nostro essere at-tuale. La nostra morte è la possibilità certa e insormontabile dell’annullamento di ogni realtà dell’esistenza e, in quanto tale, ci rivela come questa non sia altro che un insieme di possibilità: il nostro essere-gettati è un “essere-per-la-morte”. Nella vita inautentica, si fugge abitualmente di fronte al proprio essere-per-la-morte, per evitare l’angoscia di fronte alla possibilità estrema. Anticipare la propria morte, nella si-tuazione emotiva fondamentale dell’angoscia di fronte al nulla, dissolve invece l’apparenza di solida realtà delle condizioni date dell’esistenza, strappa l’esserci alla di-spersione nell’esistenza inautentica e lo apre alla “decisione” per le proprie possibilità. Aprendoci all’esistenza “autentica”, ritroviamo noi stessi come puro progetto, come pos-sibilità di trascendere sempre qualsiasi realtà data, e comprendiamo il vero significato di “esistere”: ek-sistere come “star-fuori”.

L’oblio dell’essere e il destino dell’Occidente

L’analitica dell’esistenza di Essere e tempo è la condizione preliminare per affrontare il problema del senso dell’essere. L’opera rimane però incompiuta perché, come dirà Hei-

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degger alcuni anni più tardi, questa interrogazione avrebbe richiesto un superamento del linguaggio della metafisica, dominato dall’oblio dell’essere. Negli scritti successivi, Heidegger ricostruisce la storia di questo occultamento. La meta-fisica, nata come indagine su ciò che sta “al di là” (in greco: metà) degli enti, ha tuttavia sin dalle origini ridotto l’essere al piano degli enti, pensandolo a partire dalla semplice-presenza delle cose. Si è dimenticato il senso greco originario della parola a-létheia (“ve-rità”), che ancora risuona nei frammenti dei presocratici: “non-nascondimento” o “dis-velamento”, venire alla luce degli enti nell’aprirsi di un orizzonte di senso. L’essere non è una semplice-presenza, bensì “accade” (“si dona”) come un’apertura o una luce che lascia vedere le cose. L’idea di Platone, l’atto di Aristotele, o il Dio della teologia medioevale oc-cultano il nesso profondo tra essere e tempo, privilegiando la sola dimensione del pre-sente, della semplice-presenza. Agli inizi dell’era moderna, a Dio come fondamento assoluto si sostituisce il soggetto umano, centro di riferimento dal quale tutti gli altri enti ricevono significato e valore. La metafisica rivela così il suo destino antropologico o umanistico, pienamente evidente nel soggettivismo del cogito cartesiano. L’ente diviene puro oggetto, “posto di contro” (ob-jectus, Gegen-stand) a un soggetto: tutta la sua realtà si riduce all’essere “rappresentato” da un soggetto umano. Occultato l’essere come accadere della verità, il mondo si riduce a rappresentazione del soggetto, disponibile per la conoscenza e per il dominio umani. Il soggettivismo moderno culmina nella “volontà di potenza” di Nietzsche come unico fondamento del senso delle cose. La storia della metafisica, autentico destino dell’Occi-dente, conduce quindi al nichilismo in cui - con le parole di Nietzsche - “dell’essere non è più nulla”. Questa infondata volontà di domino illimitato è l’essenza della tecnica mo-derna, in quanto incessante organizzazione totale del mondo, senza scopo e senza signifi-cato. Il pensiero diviene soltanto calcolo per la produzione e la manipolazione di oggetti, mentre la mobilitazione totale del mondo nella tecnica giunge a minacciare la stessa cen-tralità dell’uomo da cui era nato il soggettivismo moderno: nella società tecnologica di massa, “l’uomo stesso diviene materiale umano, impiegato secondo piani prestabiliti”.

Opera d’arte e linguaggio

La posizione di Heidegger non è una semplice e ingenua condanna della tecnica moder-na. Anche la nostra epoca, come le precedenti, è comunque un modo dell’accadere della verità, cioè l’apertura di un orizzonte storico-culturale di significati. Proprio nel compi-mento della metafisica e nell’oblio totale dell’essere, si prepara forse un superamento della metafisica stessa, la possibilità di un nuovo stile di pensiero. Si tratta di aggirare la riduzione metafisica dell’essere alla semplice realtà delle cose, riscoprendo la natura di “evento” dell’essere in quanto accadere della verità. Questa possibilità ci viene offerta nel caso privilegiato della comprensione autentica dell’opera d’arte. Diversamente dalla semplice-presenza delle cose, che presuppone un orizzonte di senso già dato, non possiamo spiegare un’opera d’arte riconducendola all’insieme di significati del contesto storico-culturale cui appartiene. Un tempio, una poesia o un quadro non sono imitazione della realtà, né il prodotto di un particolare mondo storico (di una struttura economico-sociale o di una cultura), bensì instaurano un nuovo mondo, un inedito orizzonte di senso che ci fa apparire in una luce nuova le cose,

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gli uomini e la nostra stessa esistenza. La grande opera d’arte è un accadere della verità, un “urto” improvviso che scuote i nostri abituali significati e valori. L’essenza dell’opera d’arte si rivela pienamente nel caso della poesia, poiché la verità ac-cade in primo luogo nel linguaggio. A differenza del linguaggio quotidiano, inteso abi-tualmente come segno delle cose e semplice strumento per comunicare significati già da-ti, il linguaggio “essenziale”, quale è quello dei poeti, è apertura di senso che illumina per noi l’essere degli enti: “Soltanto il linguaggio assicura la possibilità di stare in mezzo alla manifesta vita dell’esistente. Solamente dove c’è la parola, c’è il mondo, cioè la sfera sempre mutevole di decisioni e opere, di azioni e responsabilità, ma anche di arbitrio e rumore, di decadenza e confusione”. Lungi dall’essere uno strumento a disposizione di un soggetto, come nella prospettiva del soggettivismo o umanismo metafisico, il linguaggio è il sistema di significati in cui siamo immersi, è “la casa dell’essere” in cui noi abitiamo. Abitualmente, “l’uomo si comporta come se fosse il creatore e il padrone del linguaggio, mentre invece è il linguaggio che ri-mane il signore dell’uomo... Perché, nel senso autentico, è il linguaggio che parla. L’uomo parla soltanto nella misura in cui risponde al linguaggio, in quanto ascolta la parola che questo gli rivolge”. Pensare oltre la metafisica significa allora ascoltare la riserva indefinita di senso che il linguaggio, come l’opera d’arte, disvela e nello stesso tempo nasconde e protegge. L’esercizio di pensiero non metafisico è attività ermeneutica, interpretazione e interro-gazione del non-detto che risuona nelle parole essenziali della tradizione poetica e filo-sofica.

Fenomenologia

Nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, il termine significa “scienza dell’apparire” dello spirito nelle diverse e successive figure della coscienza, dalle più elementari sino a quella del “sapere assoluto”, in cui viene ricomposta la scissione tra coscienza e oggettivi-tà, tra coscienza finita e spirito universale. Abitualmente, tuttavia, si intende con “fenomenologia” l’indirizzo di pensiero inaugu-rato da Edmund Husserl. Sin dai primi anni del Novecento, esso si è sviluppato in una vera e propria scuola fenomenologica, ma ha avuto anche una vasta risonanza nella cultura del secolo. In modo più o meno fedele all’elaborazione teorica di Husserl, il metodo dell’analisi fenomenologica è stato largamente utilizzato sia in filosofia (ad es. da Max Scheler e da Martin Heidegger in Germania, da Jean-Paul Sartre e da Maurice Merleau-Ponty in Francia), sia in psichiatria, psicoanalisi, antropologia, estetica e so-ciologia. Husserl concepisce il progetto fenomenologico come un ritorno “alle cose stesse”, ai vis-suti originari e concreti di esperienza in cui le cose si dànno nel loro puro “essere feno-meno”, prima di ogni sovrastruttura ideologica o teorica che distingua tra soggetto e og-getto, tra coscienza e realtà “in sé”. Questo tentativo di risalire alla fonte dei significati e dei valori abituali, in cui siamo sempre già immersi, richiede un preliminare atto di so-spensione (epoché) di tutti i nostri comuni giudizi e teorie che ci fanno apparire come ovvii l’esistenza e il senso tanto del mondo esterno, quanto del nostro stesso io.

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Esistenzialismo

Il termine “esistenzialismo” designa un insieme di prospettive filosofiche e letterarie del Novecento che hanno in comune il tema centrale dell’esistenza come modo di essere pro-prio dell’uomo. L’esistenza è possibilità e scelta in contrapposizione alla realtà oggettiva delle cose, è sempre singola esistenza segnata dalla finitudine e dalla morte, non riduci-bile a norme e a concetti universali. Questa concezione tragica della condizione umana è in sintonia con molta letteratura europea del primo Novecento e caratterizza la cosiddet-ta “cultura della crisi” del primo dopoguerra che, lontana dagli interessi prevalenti della filosofia accademica, raccoglie varie suggestioni filosofiche e letterarie (Kierkegaard, Nie-tzsche, Dostoevskij). In Germania la riscoperta del pensiero di Kierkegaard si manifesta dapprima in una prospettiva religiosa nella “teologia dialettica” dello svizzero Karl Barth (1886-1968) e nella “filosofia dell’esistenza” dello psichiatra e filosofo Karl Jaspers (1883-1969). Ma l’opera che esercita maggiore influenza sull’esistenzialismo filosofico contemporaneo è Essere e tempo (1927) di Martin Heidegger, benché l’autore abbia sempre respinto come un fraintendimento l’interpretazione esistenzialistica che ne viene data a lungo e da più parti. Heidegger descrive l’esistenza quotidiana “inautentica”, in cui l’individuo è “gettato” nel mondo e si disperde nelle forme anonime, codificate e abituali della vita sociale, identifi-candosi acriticamente con i valori e i pregiudizi comuni. L’esistenza “autentica” può na-scere soltanto quando assumiamo consapevolmente la possibilità estrema della nostra morte, che svela la finitezza e il carattere di pura possibilità di tutto il nostro essere. In questa anticipazione della morte, nell’angoscia come esperienza del nulla, l’apparente re-altà oggettiva della vita quotidiana si rivela come una delle tante possibilità che, in quan-to tali, sono affidate alla scelta e alla responsabilità di una decisione personale. L’esistenza autentica non accetta come un banale dato di fatto la situazione concreta del-la nostra vita, ma è invece “progetto” che assume consapevolmente il nostro essere-gettati nel mondo e il nostro “essere-per-la-morte”. Nella Francia del secondo dopoguerra, a partire da una particolare interpretazione di Essere e tempo, si sviluppa l’esistenzialismo propriamente detto, che diviene anche moda letteraria e filosofica e fenomeno di costume nella giovane generazione che si i-spira soprattutto all’opera di Jean-Paul Sartre (1905-1980), di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) e dello scrittore Albert Camus (1913-1960). A differenza dell’esisten-zialismo religioso di Gabriel Marcel (1889-1973), la prospettiva di Sartre si presenta come un esistenzialismo ateo che proprio nella possibilità del nulla, costitutiva della condizione umana, individua la fonte della libertà, il potere di sospendere e negare ogni realtà fattuale, riconoscendo la responsabilità del nostro progetto di esistenza che tra-scende ogni situazione data. Nel clima di forte tensione politica degli anni Quaranta e Cinquanta, Sartre accoglie alcuni aspetti del marxismo e indirizza il proprio esistenziali-smo verso una filosofia dell’impegno sociale e civile, sottolineando in particolare la re-sponsabilità politica degli intellettuali. In Italia, i contributi più importanti all’esistenzialismo sono quelli di Nicola Abbagnano (1901-1990) e di Enzo Paci (1911-1976) che sviluppa un confronto tra la tradizione feno-menologico-esistenzialistica, il marxismo e il pensiero scientifico contemporaneo.

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Ermeneutica

Per Heidegger l’esistenza stessa è un fatto ermeneutico (di interpretazione), in quanto è apertura di un orizzonte di senso all’interno del quale soltanto noi possiamo incontrare le singole cose e le altre esistenze. Ogni interpretazione è un’ulteriore elaborazione della pre-comprensione del mondo che ci è dato come una rete di significati sempre già costi-tuiti. Questo orizzonte di senso è in primo luogo linguaggio e, quindi, abitare un mondo significa abitare e ascoltare il linguaggio. Riprendendo la prospettiva heideggeriana, Hans Georg Gadamer (1900-2002) critica l’ermeneutica di Friedrich D. E. Schleiermacher (1768-1834) e di Wilhelm Dilthey (1833-1911) secondo la quale dovremmo abbandonare i nostri pregiudizi storico-culturali per rivivere il significato autentico di un testo e l’intenzione originaria dell’autore. In quanto siamo esseri finiti, la nostra collocazione storico-culturale è un orizzonte di significati costitutivo per la nostra esistenza e quindi non eliminabile. Lungi dall’essere un ostacolo alla comprensione, i nostri pre-giudizi sono la pre-comprensione necessaria per sviluppare ogni ulteriore interpretazione. Bisogna da un lato rispettare l’alterità di un testo che ci parla da epoche, mondi e prospettive culturali lontane da noi, ma dobbiamo anche, dall’altro lato, mantenere la consapevolezza che la nostra prospettiva è determinata da una certa tradizione, da un mondo di significati e di valori particolari. Nella comprensione autentica, che comporta sempre una “polarità di familiarità e di estraneità”, avviene una “fusione di orizzonti”, tra l’orizzonte di sen-so del testo e quello dell’interprete.

Linguaggio

Agli inizi dell’età contemporanea, la riflessione sul linguaggio prosegue lungo due dire-zioni fondamentali che si erano già delineate nettamente nella filosofia moderna, anche se spesso si intersecavano persino nell’opera di uno stesso autore. Nella prima tra queste due prospettive, che è anche quella dominante, il linguaggio viene pensato innanzitutto come strumento della conoscenza e della comunicazione; la filoso-fia ha il compito di controllarne il funzionamento e di renderlo rigoroso, al fine di evitare i fraintendimenti che derivano dall’uso quotidiano della lingua. Questo progetto, già pie-namente consapevole in Bacone e in Locke, richiede alla filosofia una “terapia” del lin-guaggio, in funzione gnoseologica, che riesca a confinare nell’ambito del non-senso i tra-dizionali e insolubili problemi metafisici. Agli inizi del Novecento, da Frege al neopositi-vismo e al Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus, lo stesso obiettivo viene per-seguito per una via più propriamente logica che gnoseologica. Lungo tutta questa tradizione, viene privilegiata la funzione denotativa del linguaggio. Nella riflessione novecentesca, ritorna l’idea di chiarificare la forma logica rigorosa degli enunciati, al di là della loro equivoca e imprecisa struttura superficiale; un’idea già pre-sente nella secentesca “grammatica universale o logica” dei cartesiani di Port-Royal. Pro-prio l’insoddisfacente statuto logico-epistemologico delle lingue naturali fa ripetutamen-te risorgere il progetto di un linguaggio ideale e artificiale, costruito come un perfetto

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calcolo logico; un progetto che troviamo nella Ideografia di Frege e che risale almeno al-la characteristica universalis di Leibniz. Le complesse vicende della filosofia della scienza del Novecento portano gradualmente ad abbandonare sia la ricerca di un modello univoco del linguaggio, sia l’assoluto privile-gio della sua funzione denotativa. L’idea dei “giochi linguistici” introdotta da Wittgen-stein e gli innesti pragmatistici sulla tradizione neopositivistica inducono un interesse crescente per l’analisi del linguaggio ordinario e per l’infinita ricchezza di usi e significati degli atti di linguaggio. I comportamenti linguistici vengono ricondotti al contesto globa-le di una forma di vita e considerati nelle molteplici relazioni con le altre forme di attività umana. Soprattutto negli anni più recenti, questa prima tradizione ha ritrovato per questa via delle affinità con l’altra prospettiva di riflessione sul linguaggio, che storicamente si era presentata come a essa alternativa. Si riapre così, dopo secoli, un dialogo che si era inter-rotto sostanzialmente al tramonto dell’epoca umanistico-rinascimentale, quando la nuo-va scienza, per conquistare la propria identità, aveva dovuto combattere l’egemonia della cultura retorico-letteraria, insistendo sull’ideale di un linguaggio sobrio e rigoroso, docile strumento del nuovo sapere. Emblematica in questo senso la limpida scrittura di Galileo e di Cartesio. Già nel Settecento però, mentre si consolidava l’ideale linguistico corri-spondente alle esigenze metodologiche della scienza e della filosofia, pensatori come Vico e Herder erano tornati ad attingere all’immenso patrimonio di riflessioni sulla lingua de-positato nella tradizione retorico-letteraria e in quella teologica. Si configurava in questa direzione un approccio al linguaggio sostanzialmente ermeneutico che nel Novecento viene ripreso nella filosofia di Heidegger e in quella di Gadamer. In questa seconda prospettiva, il linguaggio non viene pensato come uno strumento di comunicazione e di conoscenza neutro e disponibile, ma piuttosto come un orizzonte che costituisce e delimita il nostro modo di essere nel mondo. La lingua, prima di tutto, è e-spressione di una civiltà, conduce i vincoli di una tradizione che dà forma alla nostra i-dentità, offre determinate possibilità, e solo quelle, al nostro pensiero. Una storia a parte, autonoma rispetto all’ambito propriamente disciplinare della filoso-fia, è la nascita della scienza linguistica contemporanea, a partire dal Corso di linguistica generale (1916) dello svizzero Ferdinand de Saussure. Rispetto alla tradizione, si cerca innanzitutto di delimitare in modo rigoroso l’oggetto della linguistica, depurandolo di tutte le implicazioni filosofiche, psicologiche, fisiologiche e sociali, per ridurlo a un si-stema di relazioni formali. L’approccio teorico di de Saussure esercita un’immensa in-fluenza sulle scienze umane del Novecento, soprattutto in ambito francese. Pensare per strutture si rivela una via feconda di risultati in sociologia, in antropologia e in psicoana-lisi, con effetti importanti sulla riflessione propriamente filosofica nel cosiddetto “strut-turalismo” francese. Si può affermare, infine, che proprio la centralità del tema del linguaggio nella filosofia contemporanea ha consentito un dialogo di ampiezza senza precedenti fra tradizioni molto diverse: la filosofia della scienza anglosassone, il pragmatismo, la filosofia analiti-ca di Cambridge e Oxford, l’antropologia filosofica e l’ermeneutica tedesche, le teorie dell’arte e della letteratura, la semiologia e il post-strutturalismo francese.