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H piano quinquennale sovietico nel dibattito corporativo italiano. 1928-1936
di Roberto Romani
“Il piano? Ohibò! Il piano è, per definizione, quinquennale, staliniano, sovietico, bolscevico, russo; quindi, manco a parlarne. E passa oltre, quella certa gente. Noi ci fermiamo; e seguitiamo a battere un chiodo, sul quale, ne siamo profondamente convinti, dovrà, un giorno, imperniarsi la soluzione di molti problemi”1.
Bottai non ha torto: ‘piano’, in Italia, almeno fino a De Man, Roosevelt e Schacht, significò piano quinquennale sovietico, cioè una direzione dall’alto del sistema economico in tutte le sue funzioni secondo un programma di obiettivi produttivi da raggiungere in un tempo determinato. Da qui derivavano le diffidenze di coloro che, come diceva Bottai, “procedono per assonanze”, verso questa parola: che compariva sì nel testo della legge sulle corporazioni approvata dal Gran Consiglio, ma scompariva dal testo definitivo2, e che riceveva piena legittimità fascista solo dopo la teorizzazione mussolinia- na del 1936 di un ‘piano regolatore’ autarchico dell’economia italiana. All’economia corporativa sembrava addirsi di più il termine “disciplina della produzione” , grazie al quale, scriveva il sindacalista Luigi Fontanelli, “poteva sembrare più facile agli orecchianti
restare nel generico”3.Che l’economia corporativa fascista si delineasse, nei fatti e nelle teorie, diversissima da quella sovietica, non è dubbio; ma è altrettanto indiscutibile che del dibattito corporativo — tralasciando qui ogni parallelo non economico operato fra i due regimi (giocato sul governo forte, l’antiliberalismo, la fede universalistica e palinge- netica, ad esempio) — l’esperienza concreta e la ‘figura’ teorica della pianificazione bolscevica costituirono un importante termine di riferimento. E non sempre in negativo: dopo il 1932, quando gli entusiasmi per la ‘terza via’ già si smorzavano, l’abbozzata teorizzazione di una pianificazione corporativa attinse largamente a quell’esempio.
L’interesse per l’esperimento sovietico culminò nel 1935, con la pubblicazione, a cura di G. Dobbert, della silloge L ’economia sovietica. Successivamente, i temi dell’autarchia e le esigenze politiche della guerra restrinsero di molto, nella pubblicistica fascista, lo spazio consentito al respiro internazionale di un sempre più asfittico dibattito corporativo; i clamori attorno al piano russo e al New Deal si sopirono e lasciarono il campo alle suggestioni della programmazione hitleriana.
1 Francesco Maria Pacces, Giuseppe Bottai, Verso un piano economico-corporativo, in “Critica Fascista” (d’ora in poi “CF”), 15 marzo 1933, p. 104.2 Camillo Pellizzi, Una rivoluzione mancata, Milano, Longanesi, 1949, p. 97, riporta quanto afferma Luigi Fontanelli, Logica della corporazione e relative polemiche, Roma, ESI, 19417.3 L. Fontanelli, Logica della corporazione, cit., in C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, cit., p. 97.
Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155
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1. “Economia, rivista di economia corporativa e di scienze sociali” diretta da Fresco, Livi, Casalini e Arias, dedica l’intero numero di settembre 1931 all’economia sovietica, coronando così un’opera quasi decennale di informazione e discussione, e nello stesso tempo rivitalizzando un dibattito che, se pur avviatosi da tempo, troppo spesso, come vedremo, restava sul binario di uno schematico confronto tra fascismo e corporativismo da una parte, e bolscevismo e pianificazione dall’altra, più sorretto da origini ideologiche e da motivi di fede politica che dalle ragioni di una analisi circostanziata. Il volume — oltre a una vasta bibliografia, a informazioni e a dati statistici — offre contributi di studiosi italiani e stranieri, fra i quali spiccano l’ottima corrispondenza da Mosca di Ettore Lo Gatto, imperniata sulla centralità del rapporto fra agricoltura e industria nella realizzazione del piano, ed il saggio di Gerhard Dob- bert sul sistema finanziario4.
Se Maurizio Vaudagna, nel suo saggio New Deal e corporativismo, nelle riviste politiche ed economiche italiane, denuncia la scarsissima quantità e la dubbia qualità delle informazioni e delle cifre che sorreggevano l’interpretazione corporativa dell’e- sperimento rooseveltiano5, va detto preliminarmente che la pianificazione sovietica, al
contrario, trovò fra i corporativisti numerosi osservatori ben informati e scrupolosi. Certo, va considerato che, rispetto al New Deal, la documentazione da esaminare era molto minore, e proveniente tutta dall’unica fonte statale; resta comunque il fatto che i corporativisti non solo discussero e interpretarono una realtà economica che ben conoscevano, per quanto consentito dalle pubblicazioni ufficiali e dalla più aggiornata letteratura straniera; ma che addirittura si dovette esclusivamente a loro la diffusione in Italia delle notizie e il nascere di un dibattito sull’economia sovietica degli anni trenta. Lo spoglio delle riviste di intonazione liberista (o meglio, liberista- corporativa come d’obbligo all’epoca, ma con la prevalenza del primo termine sul secondo), quali il “Giornale degli economisti” o “La Riforma sociale” , rivela facilmente un sostanziale disinteresse per la concreta attuazione del piano in Unione Sovietica: con ogni probabilità veniva considerato un atto di imposizione politica che nulla aveva a che vedere con la scienza economica6.
Oltre a “Economia” , la confindustrial- corporativa “Rivista di Politica Economica”7, “Commercio” diretta da Filippo Carli8, “Politica” di Coppola e Roc-
4 Ettore Lo Gatto, Il piano quinquennale e le nuove direttive di Stalin, pp. 257-281; Gerhard Dobbert, Il sistema f i nanziario bolscevico, pp. 283-297.5 II saggio sta in Aa. Vv., Italia e America dalla grande guerra ad oggi, a cura di Giorgio Spini, Giangiacomo Migo- ne, Massimo Teodori, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 101-140. L’annotazione che ci interessa è a p. 113.6 Mentre “Riforma sociale” di Einaudi non ospita alcun intervento, nel “Giornale degli economisti” , nella cattolica “Rivista internazionale di scienze sociali” e in “Rivista bancaria” troviamo poco di più. L’attenzione di molte fra le principali firme di quest’area era maggiormente attratta dalla querelle Von Mises-Lange sulla possibilità economica del collettivismo (se ne vedano gli esiti in Cesare Dami, Il pensiero degli economisti italiani contemporanei sul collettivismo, in “Società”, 1945, n. 1-2, pp. 216-273).7 D’ora in poi “RPE” . In essa si vedano: Jenny Griziotti Kretschmann, L'organizzazione del lavoro nel piano quinquennale, 1931, pp. 662-665; l’ottimo Giuseppe Rosi, Aspetti dell’economia monetaria sovietica, 1932, pp. 44-57 e 290-298; Antonio Quintavalle, Capitalismo e socialismo nei discorsi di Stalin e Molotov, 1932, pp. 58-61; Andrea Zanchi, Note di economia sovietica, 1932, pp. 698-703.8 “Commercio” ospita numerosissimi articoli, generalmente brevi, su specifici aspetti dell’economia sovietica e, in particolare, su quelli attinenti le esportazioni italiane. Fra i collaboratori più assidui nella prima metà degli anni trenta, A. Quintavalle e A. Giannini. Ma vi troviamo trattate spesso anche questioni di vasto respiro, con gli articoli di Tomaso Napolitano (fra gli altri: Natura dei trusts sovietici, 1936, pp. 389-391; L ’U.R.S.S. e la crisi mondiale, 1935,
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co9 e le bottaiane “Critica fascista” e “Archivio di studi corporativi” ospitarono spesso contributi documentati e originali. In altre riviste del corporativismo, invece, non è certo difficile trovare personali e fantasiose rielaborazioni delle cifre della programmazione a sostegno di tesi sommarie e di previsioni avventate. Anche a proposito del piano quinquennale, insomma, esistono numerosi esempi di quell’“involgarimento della discussione economica” avutosi con il fascismo così ben tratteggiato da Macchioro10. Senza andare agli estremi, come la rivista “Antieuropa” diretta da Asvero Gravelli, paladina di un anticomunismo ossessivo e volgare, “Lo Stato” , “Economia Fascista” , “Politica sociale” o la mussoliniana “Gerarchia” pubblicarono molti articoli che svalutavano l’esperienza russa non a seguito dell’analisi, ma di una acritica assunzione della vulgata propagandistica corporativa, oltre che della più classica retorica sul comuniSmo amorale e sanguinario. Ad ispirarli erano spesso le parole del Duce, da chiosare instancabilmente, secondo cui in Russia si sviluppava un “supercapitalismo di Stato”, invece di instaurarsi il socialismo, e un vecchio lavoro di Alfredo Rocco, del 1914 ma
ripubblicato in “Politica sociale” nel 1930 con il titolo Dall’economia liberale e socialista all’economia fascista della Carta del lavoro, modello per le interpretazioni del socialismo come variante del liberalismo (allo stesso modo individualistico, atomistico e internazionalista), e del corporativismo come negatore e superatore di entrambi. Questa letteratura ebbe una progressiva escalation quantitativa e qualitativa (ne crebbe, cioè, ulteriormente la rozzezza e lo schematismo) nella seconda metà degli anni trenta: dopo la guerra di Spagna, non ci fu più spazio per un’analisi ponderata dell’esperienza economica sovietica.
Le iniziative della bottaiana Scuola di scienze corporative di Pisa ebbero tutt’altro respiro. Si pensi alla pubblicazione di due articoli di Wassili Leontief nell’“Archivio di studi corporativi” , nei quali il futuro premio Nobel coglieva con chiarezza le dinamiche socioeconomiche sottostanti il finanziamento del piano, oltre a tentarne un primo bilancio11; o alla sorprendente pubblicazione, presso Sansoni, della storia del bolscevismo scritta dal comunista tedesco A. Rosem- berg, come dei Rendiconti e dei Rapporti sullo stato dell’economia stilati da Stalin, Mo-
pp. 283-285), di Antonio Fiaccadori (Trasformazioni del comuniSmo russo, 1935, pp. 728-731) e di altri. Com’è noto, dal 1924 esistevano fra l’Italia e l’Unione Sovietica trattati di commercio e navigazione, convenzioni doganali e accordi per la garanzia statale all’esportazione che agevolavano un interscambio quantitativamente rilevante. I buoni rapporti esistenti fra i due paesi vennero suggellati nel settembre 1933 con il Patto di amicizia, non aggressione e neutralità.9 I lavori di Pietro Sessa in “Politica” hanno un respiro teorico che manca totalmente alle ingiurie che il direttore Francesco Coppola riversa sullo stato sovietico (ad esempio in Fascismo e bolscevismo, Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1938). Di Sessa sono particolarmente interessanti La terza fase del bolscevismo, 1930, pp. 43-88; Apparenza e realtà della Nep di Stalin, 1931, pp. 55-87 (dove si afferma che la reintroduzione da parte di Stalin di alcuni principi meritocratici e gerarchici è una “crisi di sviluppo” e non un segnale di fallimento, pp. 78-79); ed altri articoli più marcatamente di analisi politica.10 Aurelio Macchioro, John Maynard Keynes e il keynesimo in Italia, in Idem, Studi di storia del pensiero economico, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 634-640.11 Wassili Leontief, L ’esecuzione del piano quinquennale, in “Archivio di studi corporativi” (d’ora in poi “ASC”),1934, pp. 177-222 (p. 190: “bisogna riconoscere che il piano rappresenta una prestazione meravigliosa del governo e del popolo dell’URSS”); Idem, Il bilancio unitario statale della U.R.S.S. pel 1935 (valuta e livello dei salari), ivi,1935, pp. 301-311. La rivista ospita anche alcuni interventi — di G. Dobbert e G. Perticone — sul sistema politico bolscevico.
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lotov, Kuibyscev e Grin’ko per il XVII Congresso12; o alla già citata raccolta curata da Dobbert o a quelle di sapore e sostanza internazionalista sulla programmazione13. Non è difficile scoprire che alPorigine dell’interesse di Bottai per l’Unione Sovietica c’era la considerazione che, “in Russia come dappertutto”, “si affacciano le stesse esigenze e dappertutto le diverse soluzioni tentate sono indotte a modificarsi in uno stesso senso dalla forza della realtà” : il “senso” è quello della programmazione dell’economia14.
All’“autoritarismo tutto sommato tradizionale” di un Rocco15, che di contro alla “collettività formale” della classe lavoratrice teorizzava le “collettività sostanziali, come la specie, la nazione, la famiglia”16, la scuola pisana (oltre a Bottai, Spirito, Volpicelli, Bruguier ne erano i maggiori esponenti) opponeva un cosmopolitismo originato dalla coscienza della universale diffusione della “crisi dello Stato moderno”, sorta parallela- mente al processo di pubblicizzazione del sistema produttivo: “ecco, dinanzi ai problemi dell’economia, i problemi della politica. Tutti gli stati moderni, dico tutti, sono messi alla prova”17. La crisi apertasi nel 1929 è la “crisi organica della struttura economica moderna” che rivela l’identità di fondo degli
sviluppi capitalistici nazionali, e reclama ovunque “trasformazioni organiche del regime produttivo” 18. In altre parole, a permettere ai pisani di guardare senza prevenzioni a esperienze quali il piano quinquennale o il New Deal, e, anzi, di rapportare ad esse l’esperienza corporativa, era la mancanza di quella retorica nazionalista e di quella mistica dei valori della stirpe che infarciva, invece, moltissime altre prose corporative di economia e politica estera, impedendo anche a nazionalisti fautori di strutture industriali molto simili al sistema dei kombinat sovietici, di trattarne evitando toni da crociata anticomunista.
2. Nell’ambito organizzativo della scuola pisana si colloca l’opera del tedesco Gerhard Dobbert, che dopo aver studiato l’economia sovietica dall’osservatorio berlinese del Stati- stiches Reichsamt, dal 1930 si interessa al progetto corporativo italiano, e, trasferitosi a Milano, diviene un tramite importantissimo per approfondire la conoscenza della pianificazione. Collabora all’ “Archivio di studi corporativi” , a “Economia” e a “La Vita italiana” , edita la traduzione della silloge da lui curata Die rote wirtschaft. Problème und tatsachen, Berlin, 193219 (Aa.Vv., L ’econo-
12 Arthur Rosemberg, Storia del bolscevismo da Marx ai nostri giorni, Firenze, Sansoni, 1933 (l’autore faceva parte del Comitato esecutivo della III Internazionale fino al 1927); Stalin, Molotov, Kuibyscev, Grin’nko, Bolscevismo e capitalismo, con una Avvertenza di Giuseppe Bottai, Firenze, Sansoni, 1934 (scriveva Bottai: “Il grado di maturità cui è giunto il corporativismo italiano non solo consente un’iniziativa di tal genere, ma è garanzia di una visione veramente critica dell’esperienza altrui e perciò di un rafforzamento della propria”).13 Aa.Vv., L ’economia programmatica, Firenze, Sansoni, 1933, e Aa.Vv., Nuove esperienze economiche, Firenze, Sansoni, 1935.14 Giuseppe Bottai, Prefazione, in Aa.Vv., Nuove esperienze economiche, cit., pp. V-VI.15 L’espressione è di Sabino Cassese, Un programmatore degli anni trenta: Giuseppe Bottai, in Idem, La formazione dello stato amministrativo, Milano, Giuffrè, 1974, p. 187.16 Alfredo Rocco, Dall’economia liberale e socialista all’economia fascista della Carta del Lavoro, in “Politica Sociale” (d’ora in poi “PS”), 1930, p. 356.17 Giuseppe Bottai, La politica economica corporativa e la crisi mondiale, in Idem, Esperienza corporativa (1929- 1935), Firenze, Vallecchi, 19352, p. 185.18 G. Bottai, La politica economica, cit. pp. 180 e 185.19 Dobbert morì improvvisamente nel marzo 1935. Le notizie su di lui \n\Gerhard Dobbert, in “ASC” , 1935, pp. 227-230 e in Alberto De’ Stefani, Prefazione in Aa.Vv., L ’economia sovietica, a cura di Gerhard Dobbert, Firenze, Sansoni, 1935, pp. V-XI.
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mia sovietica, Firenze, Sansoni, 1935), e contribuisce alle raccolte pisane L ’economia programmatica e Nuove esperienze economiche20. Grazie alle cifre statistiche e alla vasta letteratura utilizzate da Dobbert21, si delineano chiaramente agli occhi del pubblico italiano gli organi direzionali del piano — dal Go- splan agli uffici periferici, in una struttura molto accentrata — e il suo funzionamento — l’organizzazione per trust, la programmazione per settori industriali e per distretti geografici, il sistema delle cifre di controllo annuali. I lavori di Dobbert pongono anche dei punti pressoché incontrovertibili nella valutazione dei risultati del primo piano quinquennale: esso, nella sostanza, è riuscito, determinando un incremento della produzione industriale ‘addirittura fantastico’22, ma a costo di inconvenienti e disarmonie (come l’assoluto privilegiamento dell’industria pesante) che possono bloccarne gli sviluppi; e a pagarne le spese sono le classi lavoratrici e soprattutto i contadini, spogliati di ogni avere. Si determina una ambivalenza: in Russia si assiste a una “brutale dittatura” , a “uno dei più tragici traviamenti deH’umanità”, ma contemporaneamente a un esperimento eco
nomico tanto più importante “quanto più si fa strada il processo di decomposizione del vecchio tipo di capitalismo privato”23.
A giudizio di Dobbert, la pianificazione russa non si è basata sui principi di una teoria economica, ma è nata e si è sviluppata da orientamenti politici: ne consegue che “ogni trattazione sulla economia programmata, e in particolare sul piano quinquennale, ha un carattere di preferenza politico-statale o politico-sociale”24. Considerazioni di questo genere, unite al fatto che a volte sembra collegare necessariamente l’economia programmata con il socialismo25 e che la sua visione corporativa sconta non criticate origini ortodosse26, collocano idealmente Dobbert in quel gruppo di corporativisti ‘liberisti’ che trovava in Alberto De Stefani la propria guida politica.
3. Le suggestioni ‘sociali’ della pianificazione non toccano gli economisti di quest’ultima tendenza: il capitalismo — nei suoi principi e nelle sue tecniche — è destinato secondo loro a ricomparire in Unione Sovietica, trattandosi infatti, più che di un ordine storico, di un ineludibile ordine naturale27. A
20 Nel primo volume troviamo L ’economia programmatica nella U.R.S.S., pp. 123-167, e nel secondo L ’economia russa, pp. 113-151.21 A dimostrazione, si scorra l’ottima Bibliografia preparata per il numero speciale di “Economia” , cit., pp. 361-389.22 G. Dobbert, L ’economia russa, cit., p. 115.23 G. Dobbert, Introduzione, in Aa.Vv., L ’economia sovietica, cit., pp. 3 e 6.24 G. Dobbert, L ’economia programmatica nella U.R.S.S., cit., p. 125.25 “Dicendo che il fatto del socialismo economico si potrà considerare compiuto soltanto quando gli elementi, ancora oggi esistenti, dell’iniziativa economica privata saranno sostituiti da quelli economici collettivi, non vogliamo dire altro se non che allora sarà compiuta anche l’organizzazione dell’economia programmatica”, scrive ad esempio a p. 14 di L ’economia programmatica, in Aa.Vv., L ’economia sovietica, cit. Accenti alla Von Mises sulla impossibilità tecnica della pianificazione, alle pp. 36-37 dello stesso saggio e altrove.26 Ne espone i principi in La riforma corporativa del 1933-1934 e il suo significato, in Aa.Vv., L ’economia fascista. Problemi e fa tti, Firenze, Sansoni, 1935, pp. 1-23. Dobbert afferma varie volte che “il sistema corporativo fascista è la perfetta antitesi dell’economia programmatica socialista della Russia sovietica” (Prefazione all’edizione tedesca del testo sopra citato, p. Vili).27 Ma c’è chi, fra i liberisti di stretta osservanza, comincia a pensare il contrario: ad esempio Giorgio Mortara, Problemi economici dell’ora presente, in “Giornale degli economisti” , 1932, discutendo a p. 915 dell’esperienza russa, afferma che da essa possono trarsi preziosi insegnamenti: “i tempi sono maturi per una radicale trasformazione dei- regime capitalista” . Di Mortara si veda anche Impressioni sull’economia sovietica, in “Rivista bancaria” , 1930, pp.
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giudizio di Filippo Carli28, per esempio, se Stalin deve reintrodurre le differenziazioni salariali, la Russia è ben lontana dal comuniSmo; e se la crisi mondiale pare toccarla solo marginalmente, lo si deve alla dittatura politica, che mantiene coattivamente un rapporto di equilibrio fra i prezzi dei vari beni, piuttosto che ad una nuova ripartizione del reddito29. Un sistema di capitalismo di Stato tenta di attrezzare industrialmente il paese, pagando il prezzo altissimo dell’annullamento di ogni valore spirituale; il piano sovietico, scrive Carli nel 1938, “nei limiti in cui è stato costruttivo, lo è stato perché ha adottato principi propri del sistema capitalistico e neppure bene”30.
Nel 1932 A. Quintavalle — che firma spesso ottime corrispondenze31 — rileva il fallimento degli obiettivi del piano nel settore agricolo, e, sostenendo che i progressi industriali sono dovuti alla straordinaria ricchezza di materie prime, si chiede se la Russia “non avrebbe raggiunto ben altri risultati se avesse adottato altri metodi, che non i dettami dei principi socialisti, per mettere in valore quelle risorse”32.
Il liberalismo dell’ex sindacalista rivoluzionario Agostino Lanzillo, permeato di motivi soreliani e bergsoniani, trova accenti lirici: “se i millenni trascorsi hanno dimostrato che l’istituto della proprietà e la libertà della privata iniziativa, sono il segreto perenne e sempre fresco della rinnovazione sociale dei popoli e del progresso economico, è possibile che la Russia moderna capovolga i pilastri fondamentali della tradizione umana?”33. Saranno le “leggi di natura” a ricondurla al capitalismo: quella del minimo mezzo, quella del tornaconto, quella delle proporzioni definite e quella della concorrenza. L’esperienza sovietica, erigendo con il piano quinquennale “un vero e perfetto capitalismo con unico capitalista: lo Stato”34 — “il capitale reale si va formando, una grande industria sorgerà, e darà la base ad un vastissimo mercato”35 — adempirà a una “necessità storica” , costituendo “un laboratorio sperimentale della impossibilità di sopprimere il capitalismo”36. Lanzillo capisce l’enorme importanza storica dell’industrializzazione di un territorio così vasto e ricco di risorse (“è il fatto storicamente più importante
885-894. Espressero un giudizio sulla pianificazione sovietica anche altri liberisti illustri: Gustavo Del Vecchio, Sopra alcune forme ed alcuni fenomeni dell’economia russa (note di viaggio luglio-agosto 1937), in “Rivista italiana di scienze economiche” , 1937, pp. 777-792; Giovanni Demaria, La politica economica dei grandi sistemi coercitivi, Padova, Cedam, 19692, pp. 118 sgg.28 Porre Carli fra i corporativism liberisti potrà a qualcuno sembrare improprio (ad Ombretta Mancini, Francesco D. Perdio, Eugenio Zagari, Teoria economica e pensiero corporativo, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1982, per esempio); pur senza voler alzare rigidi steccati, siamo confortati nel nostro giudizio dall’analisi di Giuseppe Bru- guier, Il corporativismo e gli economisti italiani, in “ASC”, 1936,1, pp. 50-56. Su Carli si veda Silvio Lanaro, Carli Filippo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XX, Roma, 1977, pp. 152-161.29 Filippo Carli, Il sistema economico russo e la crisi mondiale, in “Commercio” , 1931, pp. 409-414.30 Filippo Carli, Le basi storiche e dottrinali dell’economia corporativa, Padova, Cedam, 1938, pp. 53-54.31 Si vedano le annate di “Commercio” e di “Economia” a partire dai primi anni venti.32 Antonio Quintavalle, Capitalismo e socialismo nei discorsi di Stalin e Molotov, in “RPE”, 1932, p. 60; lo stesso concetto in Successi e insuccessi dopo 14 anni di regime bolscevico, in “Commercio”, 1932, pp. 126-129.33 Agostino Lanzillo, Il piano quinquennale sovietico, in “RPE”, 1933, p. 31.34 A. Lanzillo, Il piano, cit., p. 25.35 Agostino Lanzillo, Lo stato nel processo economico, Padova, Cedam, 1936, p. 158.34 Agostino Lanzillo, Studi di economia applicata, Padova, Cedam, 1933, p. X. Fra coloro che la pensano allo stesso modo, segnaliamo: in “PS” , Ernesto Brunetta, U.R.S.S. di Stalin, 1935, pp. 353-354; Anseimo Anseimi, L ’evoluzione del salario nell’economia sovietica, 1935, pp. 9-10; Idem, Un sistema sovietico di razionalizzazione del lavoro, 1935, pp. 362-363. In “Civiltà fascista” , Vincenzo Buonassisi, Economia capitalistica ed economia collettivistica, 1939, pp. 234-239.
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dell’epoca contemporanea. Si avvicina, per proporzioni e significato, alla formazione del Nord America ed al suo ingresso sul mercato mondiale nella seconda metà del secolo XIX”), e ne postula l’armonizzazione con una economia mondiale di libero scambio ossequiosa della legge dei costi comparati37. La fede liberista, però, lo conduce a vedere lo sforzo sovietico stesso attuato in vista “di un mercato internazionale, per vendere all’estero”38, mentre già all’epoca erano evidenti le caratteristiche autarchiche e belliche dell’attrezzamento industriale sovietico.
La matrice sindacalista di Lanzillo, come di Panunzio o Rossoni, reagiva negativa- mente non solo di fronte all’oggettiva antitesi al proprio ideale di un’economia “varia e pluralista” rappresentata dal piano russo, “solo ed unico piano ed ente panteistico di produzione”, nella prosa di Panunzio39, ma anche e soprattutto di fronte al ruolo decorativo o puramente poliziesco affidato ai sindacati nel sistema di potere bolscevico40. E non manca chi ne induce la superiorità della “politica sociale” fascista su quella, “soprav- vanzante i suoi tempi”41, dell’Unione Sovietica, pur non potendo misconoscerne completamente i pregi42.
4. Per Carlo Costamagna, direttore con Rosboch di “Lo Stato” , un eventuale successo del piano quinquennale condurrebbe al soffocamento dell’indipendenza economica europea “in una morsa di concorrenza industriale senza salvezza”43. A questa “impresa essenzialmente nazionalista ed an- tieuropea” oppone — su suggestione del francese Delaisi — un “piano quinquennale europeo” che “metta in valore” la zona dei Balcani e degli stati orientali, assicurando nuovi sbocchi alle merci dell’occidente industriale e una abbondante fornitura di prodotti agricoli44. Il pericolo è “tremendamente concreto”45; e di questa preoccupazione del suo direttore “Lo Stato” mostra ampiamente i segni in quasi tutti gli articoli dedicati al piano sovietico. In essi, spesso, ricognizioni economiche anche non peregrine terminano con considerazioni rozze sullo stato della vita familiare, o religiosa, o sessuale, o teorizzazioni del primato razziale latino. I grandi progressi compiuti nell’attrezzamento industriale (“l’attivo di questa impresa può definirsi fin d’ora formidabile” , scrive Michele Schiavone nel giugno 1931)46, ottenuti con altissimi costi sociali, si tradurranno, per Giuseppe Conforto, in “colossali armamenti destinati evidente-
37 A. Lanzillo, Studi di economia, cit., pp. 109-113. Il brano citato è a p. 109.38 A. Lanzillo, Studi di economia, cit., p. 113.39 Sergio Panunzio, L ’economia mista. Dal sindacalismo giuridico al sindacalismo economico, Milano, Hoepli, 1936, p. 24.40 Si vedano Agostino Lanzillo, Antisindacalismo deisovieti, in “La stirpe”, 1933; Sergio Panunzio, La tecnica e i sindacati, in Idem L ’economia mista, cit., pp. 221-228; Edmondo Rossoni, Il lavoro nel fascismo e nel bolscevismo, in “Civiltà fascista” , 1937, pp. 201-216; Renato Trevisani, Il Consiglio Superiore dell’Economia nazionale in Russia, in “PS” , 1930, pp. 541-545; e altri fra i quali, come vedremo, anche Bottai.41 La definizione è di Alexander Nove, Storia economica dell’Unione Sovietica, Torino, UTET, s.d., p. 129.42 Si vedano; Pietro Sessa, Il problema sociale, in Aa.Vv., L ’economia sovietica, cit., pp. 279-300; Tomaso Napolitano, La politica sociale dei sovieti, in “CF”, 15 dicembre 1933, pp. 468-469; Roberto Roberti, Qualche osservazione sulla politica sociale della Unione delle Repubbliche Soviettiche, in “PS”, 1934, pp. 507-511; Giuseppe Conforto, Le assicurazioni sociali nell’Unione Sovietica, in “Lo Stato”, 1940, pp. 11-18.43 Carlo Costamagna, Per un piano quinquennale europeo. (La marca orientale), in “Lo Stato”, 1932, p. 453.44 C. Costamagna, Per un piano, cit., pp. 453-455.43 C. Costamagna, L ’universalismo economico e la crisi, “Lo Stato”, 1933, p. 90.46 Michele Schiavone, Il “Platiletka” nella vita russa, “Lo Stato”, 1931, pp. 424-425.
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mente all’aggressione”47. Per i redattori di “Lo Stato”, i piani quinquennali non sono altro che gli strumenti economici di una politica espansionistica; studiarli a fondo, di conseguenza, è un necessario preliminare alla difesa.
Costamagna conduce una violenta polemica contro “Critica fascista” , i corporativisti pisani e i mistici alla Spampanato, che chiama “romantici del nuovo e dell’esotico” , perché “vogliono considerare nell’esperienza russa il tentativo di una soluzione sociale, in uno sfondo cosmopolitico e universale”48. Nel fascismo, dice, “la posizione universale e astratta” del problema economico propria del liberismo trova linfa nell’attualismo gentiliano49; ma se la teoria degli sbocchi di Say è “una verità di ordine morale” che non vale più, se la crisi economica, lungi dall’essere mondiale, fa sì che “i mezzi della civiltà europea passino al servizio di genii etnici profondamente diversi dal nostro” , allora l’economia corporativa non potrà che essere nazionale, “concretamente etico-storico-politica” . Occorre, per Costamagna, abbandonare “la funesta illusione delle soluzioni universali”: “la produzione come tale è priva di interesse se il prodotto non può far parte utilmente di un sistema di fini, proprio ad una ‘economia determinata’, vale a dire a una data comunità politico-economica”50.
5. L’indeterminatezza delle caratteristiche del nuovo ordine corporativo conduceva fa
cilmente i sostenitori a definirlo piuttosto in negativo rispetto a liberismo e socialismo, che nelle caratteristiche sue proprie, e lo svolgersi ardito delle argomentazioni fra un ‘ismo’ e l’altro era insieme causa ed effetto di schematismi ed astrattezze. L’abbiamo visto in Rocco; lo ritroveremo nel panlogismo di Ugo Spirito; ed è evidentemente constata- bile in tutte le forme di confronto fra fascismo e bolscevismo (o, come si diceva, fra Roma e Mosca) praticate nel sottobosco corporativo dal 1930 in poi.
Il fascismo fin dalle sue origini aveva guardato con attenzione alla teoria e alla pratica bolscevica dell’organizzazione politica51. Il dibattito che si aprì su “Critica fascista” nel settembre 1931, invece, trattò, giusto quanto si diceva sopra, del significato storico e del valore spiriturale dei due, oramai consolidati, regimi ‘rivoluzionari’ europei. Il confronto si concluse con una netta affermazione dell’antitesi esistente fra i due regimi; ma ciò non evitò che nel 1934 il Pnf ritenesse necessaria la pubblicazione di un volume che, riaffermando la radicale opposizione, politica e culturale, del fascismo al bolscevismo (come di nazione e corporazione contra internazionalismo e classe) contrastasse il diffondersi della “moscofilia” emersa in alcuni interventi (di Panunzio, Fiorini e Spampanato)52. Le posizioni eterodosse si nutrivano, ha scritto G.C. Marino, del “riconoscimento di una sorta di solidarietà pratica, al di là di inalte-
47 Giuseppe Conforto, Finanze e bilancio nello Stato sovietico, in “Lo Stato”, 1939, p. 513.48 C. Costamagna, Per un piano, cit., p. 453.49 C. Costamagna, L ’universalismo economico, cit., p. 83.50 C. Costamagna, L ’universalismo economico, cit., pp. 85-86. Anche Pietro Sessa dimostra di temere, nei lavori citati, un’invasione di merci sovietiche, così come Giuseppe Scialoja, Economia russa e piano quinquennale, in “PS”, 1930, pp. 909-915, e Vincenzo Buonassisi, Internazionalismo rosso o imperialismo russo?, in “CF”, 1° marzo 1937, pp. 137-138.51 È quanto riporta C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, cit., p. 36. Un esempio molto noto è lo scritto di Giuseppe Bottai, *Nuovo Corso" di Leone Trotsky, in Idem, Pagine di critica fascista (1915-1926), a cura di Francesco Maria Pacces, Firenze, Le Monnier, 1941, pp. 320-326.52 Ci riferiamo al confuso lavoro di Pietro Sessa, Fascismo e bolscevismo, Milano, Mondadori, 1934, edito “sotto gli auspici del P .N .F.” nella collana “Panorami di vita fascista” . La ‘moscofilia’ era rappresentata da Bruno Spampanato, di cui ricordiamo Equazioni rivoluzionarie: da! bolscevismo al fascismo, 15 aprile 1930, pp. 152-154; Roma
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rati motivi di contrapposizione ideale, tra due metodi di affermazione integrale del politico nel sociale, tra due vocazioni demiurgiche del ‘principe’, tra due pedagogie del potere tendenti a ‘rifare l’uomo’ attraverso l’ideologia, tra due ‘società totali’: due vie di sperimentazione anti-crisi”53. La caratterizzazione astrattamente politico-filosofica del dibattito eludeva una considerazione non frettolosa della pianificazione e, più in generale, del tema economico: ne erano protagonisti alcuni giovani “inquieti e insoddisfatti” , come scrissero all’epoca, suggestionati al più dalla forza della élite dirigente bolscevica o dalla civiltà futuristico-meccanica dei kombinat.
Spentosi a fine anno il dibattito su “Critica fascista”, il confronto fra Roma e Mosca, ora regolarmente viste come antitetiche, diviene una forma diffusa di conformismo politico e di esaltazione del regime. I più solleciti segnalano addirittura un progressivo fascistizzarsi della Russia54. “L’economia corporativa non consiste in una serie di piani, assurdamente livellatori di ogni attività e di ogni iniziativa individuale, predisposti da
una enorme, mastodontica burocrazia”, afferma uno zelante articolista, ma nella programmazione autarchica prefigurata da Mussolini nel discorso all’Assemblea nazionale delle corporazioni il 23 marzo 1936: “controllo” e “disciplina”, allora, e non “statizzazione, o peggio, funzionarizzazio- ne” dell’economia55. In trattazioni come questa di Anseimi — e come nel diffuso Gaetano Ciocca, Giudizio sul bolscevismo (Milano, Bompiani, 1933) — la tematica della pianificazione, pur talvolta chiamata in causa come il comune denominatore delle politiche economiche dei due paesi56, riceve una considerazione sempre e solo superficiale, imbastita di luoghi comuni, nella quale la specificità del concetto — così come ha origine nell’esperienza sovietica — si annacqua in non meglio definite “economie regolate” nelle quali può starci tutto, da suggestioni new- dealistiche al semplice controllo del valore della moneta57. Solo da parte di Bottai e di alcuni suoi compagni di strada l’esperienza di piano sovietica verrà inserita in un quadro di riferimento politico e culturale in grado di vagliarne la portata innovatrice per l’elabo-
e Mosca o la vecchia Europa?, 15 novembre 1931, pp. 434-436; Universalità di Ottobre. Dove arriva lo Stato, 1° gennaio 1932, pp. 16-19 (è la più articolata dimostrazione dell’ammirazione dell’autore per “questo Stato compatto, unitario, duraturo”); e La rivoluzione del popolo, 1° novembre 1932, pp. 403-404. Da Renato Fiorini, A proposito dell’antitesi Roma o Mosca, 15 ottobre 1931, pp. 383-385, e, nel senso di una uguaglianza di strutture economiche alla quale corrisponderebbe però una profonda diversità nel campo dei valori morali e sociali, da Sergio Panunzio, La fine di un regno, 15 settembre 1931, pp. 342-344.53 Giuseppe Carlo Marino, L ’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 82. Sul dibattito si veda anche Francesco Malgeri, Giuseppe Bottai e “Critica fascista", S. Giovanni Vai- damo, Landi, 1980, p. LXXXVIII.54 Sono molto numerosi; il capofila è Renato Bertoni, Russia: trionfo del fascismo, Milano, La Prora, 19372 (1934).55 Anseimo Anseimi, Realizzazioni fasciste e programmi bolscevichi, in “PS”, 1937, pp. 228-230. Mentre si moltiplicano i lavori che coniugano una di rado ben precisata programmazione con le necessità autarchiche, come ad esempio quello di Gaetano Napolitano, Economia autarchica e piani economici corporativi, in “Economia” , 1938, pp. 93-132, è la politica economica nazista ad offrire nuovi spunti ai corporativisti: si pensi ad Alberto De Stefani e alle sue teorie sul potenziale di lavoro (Alberto De Stefani, Per il migliore impiego della potenza di lavoro del popolo italiano, Bologna, Zanichelli, 1939).36 “Piano mussoliniano” e piano sovietico sono comparati da G. Ciocca, Giudizio sul bolscevismo, cit., pp. 73-74 (oltre che, polemicamente, da Agostino Lanzillo, Per una teoria dell'intervento dello Stato, in “CF” , 1° settembre 1932, pp. 332-335).57 L’esempio più smaccato è Olivia Rossetti Agresti, In tema di economia programmata, in “RPE”, 1932, pp. 1230-1236.
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razione di una politica economica postliberale, delineando — piuttosto imprecisamente, per la verità — una versione corporativa della pianificazione.
6. “Lo Stato crea la corporazione, vi chiama i direttamente interessati, vi chiama coloro che lavorano e producono in una determinata branca della produzione, li fa discutere, li organizza, li disciplina e orienta” , scrive Bottai nel 1929; regolamentare i rapporti economici? È possibile, ma in misura “modesta” . E continua: “noi non vogliamo certo fabbricare i prezzi attraverso la corporazione; non vogliamo stabilire quanto una industria debba guadagnare su un determinato prodotto; questo sarebbe veramente socialismo di Stato, sarebbe un uccidere e un soffocare quella iniziativa che rimane il cardine principale e centrale del nostro sistema”58. “Coordinamento”, “di- sciplinamento” e “collegamento” sono per Bottai le funzioni dell’ordinamento corporativo almeno fino alla fine del 1931, quando nell’editoriale di “Critica fascista” , Impegni per l’Anno Decimo troviamo, singolarmente per i nostri scopi, accomunata la consapevolezza del significato epocale della crisi apertasi nel 1929 in tutto il mondo alla denuncia di ogni speculazione politica che avvalori un’immagine del fascismo come forma di “socialismo di Stato o addirittura di bolscevismo russo”59. Da questo momento in poi, la prospettiva interventista di Bottai si precisa e si radicalizza. Dalle pa
gine di “Critica fascista” inizia a diffondersi la nozione di “un mondo economico guasto alle radici”60 che nel bolscevismo e nel fascismo trova “le due sole parole nuove espresse dalla guerra nella crisi universale di tutti i valori politici e morali”61. Queste due forme politiche, scrive F.M. Pac- ces, hanno in comune la volontà di organizzare l’attività economica “in tutte le sue quattro parti fondamentali [...] secondo schemi razionali elaborati in precedenza, nell’ambito nazionale”62. Nell’ottobre 1932 si mette in guardia dall’identificare “l’economia organizzata” con “un pesante congegno economico-burocratico” annullatore dell’iniziativa e della proprietà privata63, nel febbraio successivo si propone la creazione di un organo tecnico centrale “il quale abbia il compito di studiare i dati provenienti dalla periferia e di fornire quel programma di azione concreta al quale debbano ispirarsi tutte le forze produttrici del paese”64, e finalmente, sul fascicolo del 15 marzo, Pacces e Bottai scrivono Verso un piano economico-corporativo. Ma prima di illustrarne il contenuto, una breve (apparente) divagazione.
Nel procedere concettuale di Bottai è facile rintracciare due esigenze, discendenti entrambe dall’assunto che “politica ed economia sono un unico tessuto”65. La prima: ricostruire lo Stato “su basi granitiche” , affermare “la preminenza della volontà etico-politica dello Stato” che “assume nella sfera della propria essenza [...] tutta la vita socia-
58 Giuseppe Bottai, “Socialismo di Stato": no, in Idem, Il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, Milano, Monda- dori, 1933, p. 36; la citazione precedente in L ’organizzazione delle forze produttive, in Idem, Il Consiglio, cit., p. 29.59 Giuseppe Bottai, Impegni per l ’Anno Decimo, in “CF”, 1° novembre 1931, pp. 401-403.60 Francesco Maria Pacces, Risposta a Lanzillo. Costruire non chiacchierare, in “CF”, 1° ottobre 1932, p. 377.61 Avvertenza dell’editore, in A. Rosemberg, Storia del bolscevismo, rit., p. Ili; anche F.M. Pacces, Risposta a Lanzillo, cit., p. 378.62 F.M. Pacces, Risposta a Lanzillo, cit., p. 378.63 F.M. Pacces, Risposta a Lanzillo, cit., p. 378.64 Critica Fascista, Stalinismo corporativo, in “CF” , 1° febbraio 1933, p. 42.63 Giuseppe Bottai, Politica ed economia nella concezione corporativa, in Idem, Esperienza corporativa, cit., p. 107.
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le” ordinandola e regolandola secondo i suoi supremi fini66. La seconda: realizzare quanto sopra non con “l’inerte gravare di una autorità”67, ma penetrando all’interno di queste forze sociali grazie all’“elemento mediatore che ha colmato l’abisso del dualismo: la corporazione”68. Al progressivo “statualizzarsi della società” deve corrispondere una “socializzazione dello Stato” (Volpicelli)69. Per Camillo Pellizzi, “punto essenziale e caratteristico di tutta la dottrina corporativa è che, nel suo sistema, ogni pensiero e volontà deve venire, come si dice, dal basso, sebbene questo moto dal basso debba svolgersi e sublimarsi attraverso gerarchie; anche le gerarchie, però, in definitiva debbono essere spontanee, non imposte dall’alto”70. Bottai terrà sempre fede a questo principio — evidentemente antitetico alla pratica economica sovietica — e non poteva essere altrimenti, proprio perché, come ripeterà varie volte anche dopo la guerra71, era la ragion d’essere stessa dell’ordinamento corporativo.
Se le corporazioni fossero chiamate ad agire, scrive in Verso un piano economico-cor- porativo, “la possibilità di dare un ordine, una direzione, una condotta all’attività economica nazionale, apparirebbe non frutto di artificiosi programmi, ma d’uno svolgimento spontaneo o d’un coordinamento, che è nella natura reale delle cose anche economiche”72. “L’intervento corporativo dello Stato nella organizzazione economica naziona
le” : ecco il piano di Bottai. L’organo tecnico di direzione va creato nell’ambito del Consiglio nazionale delle corporazioni; e “l’ordine” , il “programma” della produzione risulterebbe direttamente dagli “opportuni collegamenti e rapporti” fra le corporazioni73. Di fronte alla politica economica burocraticamente interventista del governo, Bottai chiede spazio per i “fermenti individuali e associativi”, tentando di rivitalizzare gli entusiasmi attorno all’ordinamento corporativo accentuandone il carattere programmatico; e null’altro, nulla che ricordasse obiettivi produttivi aziendali e nazionali imposti dall’alto e da raggiungere in un tempo determinato: ché questo, allora, era per tutti il ‘piano’, e a questa immagine si attenevano rigidamente, come vedremo, soprattutto coloro che in un modo o nell’altro erano contrari a un intervento statale di reform. Va sottolineato, però, che le suggestioni del piano venivano considerate, dopo il grande crollo del 1929, in grado di rinnovare interessi e speranze: già allora, attorno a questa parola aleggiava l’aura di un mito sentito come ‘moderno’, formato dall’irresistibile miscela di razionalità ordinatrice, tecnica aggiornatissima e suggestioni di maggior giustizia sociale.
Il generico richiamo fatto da Pacces al piano quinquennale nell’articolo sul piano corporativo intendeva evocare proprio questa immagine; ma esso si rivelò, come vedremo, un’arma a doppio taglio: c’era una lama an-
66 G. Bottai, Politica ed economia, cit., p. 108.67 G. Bottai, Politica ed economia, cit., p. 108.68 Critica Fascista, Statalismo corporativo, cit., p. 41.69 Arnaldo Volpicelli, Ipresupposti scientifici dell’ordinamento corporativo, in Aa.Vv., A tti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi. Ferrara 5-8 maggio 1932, I, Relazioni, Roma, 1932, p. 150.70 C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, cit., p. 181.71 Si vedano Giuseppe Bottai, Vent’anni e un giorno (24 luglio 1943), Milano, Garzanti, 19772 (1949), pp. 45-54 e 55- 62; e Giuseppe Bottai, Verso il corporativismo democratico o verso una democrazia corporativa?, in “Il diritto del lavoro”, 1952, pp. 131-138. Sulla figura di Bottai si veda Anna Panicali, Introduzione, in Bottai: il fascismo come rivoluzione del capitale, a cura di Anna Panicali, Bologna, Cappelli, 1978, pp. 7-49.72 Francesco Maria Pacces, Giuseppe Bottai, Verso un piano economico-corporativo, in “CF”, 15 marzo 1933, p. 105. L’articolo si compone di due parti distinte, e firmate singolarmente (nella seconda, Bottai si dichiara d’accordo con la proposta che Pacces fa nella prima).73 F.M. Pacces, G. Bottai, Verso un piano, cit., p. 105.
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che dalla sua parte, se, com’è ovvio, all’establishment fascista poteva garbare pochissimo un progetto con simili ascendenze. Anche per Pacces, la questione è di “far intervenire gli organi sindacali corporativi in funzione produttiva, e non più soltanto distributiva”74; ma, cosa precisamente ciò significhi, non si dice. Pacces si limitava ad aggiungere che, per farlo, occorre che l’azione dello Stato corporativo sia “definita e limitata; o, come anche si dice, programmata; e i programmi approvati, dopo aver sentito le rappresentanze nazionali” . La programmazione è l’interazione organica fra Stato e privati75. Che cosa, concretamente, giustifichi un parallelo col piano quinquennale, proprio non si sa.
Tutto ciò non evita a Pacces e Bottai, comunque, di essere gratificati di “sindacalismo russo” e di “socialismo di Stato” da parte di un certo G.P. Callegari, in un articolo su “Vita nova”, la rivista di Arpinati e Saitta76. Bottai gli replica nel numero del 15 giugno di “Critica fascista”; e annotando: “è un vecchio trucco quello di sbandierare il drappo rosso del socialismo ad ogni piè sospinto”, dice di ritenere che “il piano quinquennale russo è fallito, se è fallito, proprio perché non era un piano, chiaro nelle sue premesse, sicuro nel suo svolgimento, definito nei suoi fini [...] mancava, insomma, quel senso della proporzione, della graduazione, della distribuzione e dell’ordine, che è il fondamento di ogni disegno d’organizzazione”77. Il vero piano, invece, è “organizza
zione” che trova il suo criterio distintivo nello “sviluppo armonico di tutti i rami della produzione e nell’uguale soddisfazione dei bisogni”78. C’è senz’altro più Roosevelt, il quale proprio in quei mesi poneva le basi del New Deal, che non Stalin, nella incerta proposta bottaiana79; e rilevare che “lo Stato meno sindacale del mondo è la Russia dei So- vieti” non può che condurre conseguentemente il corporativista a “riferirsi a qualche cosa di diametralmente opposto al piano russo” quando parla “d’un piano economico corporativo”80.
Pacces replica a Callegari negli stessi termini, chiarendo quanto era sottinteso nell’intervento di Bottai — l’essere cioè il piano sovietico un programma di prima industrializzazione, e perciò non comparabile, nei suoi principi informatori e nelle sue funzioni, al progettato piano corporativo. Escludendone ogni vocazione produttivistica, individua piuttosto in quest’ultimo lo strumento per “il raggiungimento e il mantenimento di un equilibrio economico nazionale” . “Il Piano nascerà perché tutta la costruzione corporativa è fatta per giungere al piano”, afferma dopo aver assicurato sulla salvaguardia (anzi sul potenziamento) dell’iniziativa privata81.
In conclusione, l’attivazione del compromesso termine ‘piano’ in un ampio contesto culturale, tentata dai due autori, cadde nel vuoto: nessuno ne riprese le suggestioni82, mentre sollecitò altre critiche, come quella di
74 F.M. Pacces, G. Bottai, Verso un piano, cit., p. 103.75 F.M. Pacces, G. Bottai, Verso un piano, cit., p. 103-104.76 Gianpaolo Callegari, Un piano economico?, in “Vita nova”, 1933, pp. 280-281.77 Giuseppe Bottai, Il ricatto liberale contro il corporativismo, in “CF”, 15 giugno 1933, pp. 224-225.78 Bottai cita qui parole di Giuseppe Bruguier, Intervento statale ed economia programmatica, in “ASC”, 1933, p. 124.79 L’interesse di Bottai per il New Deal è noto; si ricordi Giuseppe Bottai, Corporate State and N .R .A ., in “Foreign Affairs”, 1935, p. 612-624.80 G. Bottai, Il ricatto liberale, cit., p. 225. Fra i molti luoghi dove Bottai difende le prerogative del sindacato, il più interessante mi pare Ugo Spirito, Giuseppe Bottai, Verso la fine del sindacalismo?, in “CF”, 15 ottobre 1933, pp. 383-386, per il confronto con “la corporazione che mangia i sindacati” del filosofo pisano.81 Francesco Maria Pacces, Verso un piano economico-corporativo, in “CF”, 1° luglio 1933, pp. 259-260.82 Forse Giuseppe Bruguier, Azienda, Sindacato e Corporazione, in “CF”, 1° giugno 1934, p. 213.
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Lanzillo83. Si rivelò troppo forte l’ostacolo così descritto da Pacces: “da che l’esperimento russo è iniziato, quando si parla di piani di sviluppo economico, il pensiero corre naturalmente al Piano Quinquennale, numero uno e numero due, e, per naturale generalizzazione, si pensa che la forma e le caratteristiche di questi siano proprie di un qualsiasi Piano economico”84.
Successivamente, Il cammino delle corporazioni, del 1935, ci mostrerà un Bottai fautore di un’economia coerentemente regolata (che — questa franchezza va notata — “finora solo l’economia bolscevica à attuato su scala nazionale” , anche se al prezzo del sacrificio di ogni libertà)85 per mezzo di un piano economico nazionale, “somma” e “integrazione” dei vari piani aziendali, “corretti, via via che si sale, in funzione d’interessi sempre più generali” , come indicava Pacces in Introduzione agli studi di aziendaria (Torino, Istituto Aziendale Italiano Editore, 1935)86. Ma ormai tutta la costruzione pare un po’ la Città del sole, non solo perché lontana da ogni pratica applicazione, ma anche perché si ha l’impressione che sia stata proprio la coscienza della sconfitta nella battaglia per le funzioni delle corporazioni ad allentare le briglie alle belle speranze, e a far immaginare il tipo di economia ideale descritta nel libro. Per quanto riguarda Pacces, la sua parabola nel fascismo terminò con Nostro tempo della
rivoluzione industriale (1939), sintesi ineguagliata nella letteratura economica italiana degli anni trenta delle caratteristiche del capitalismo post 1929; Pacces vi coglierà finalmente la chiave esplicativa di ogni pianificazione, bolscevica come fascista: “L’intervento dello Stato nell’economia, e nella produzione industriale, non è caratterizzato soltanto dalla maggiore o minore estensione dell’intervento stesso e dai suoi modi, ma altresì, e diremmo essenzialmente, dal principio politico che lo determina”87.
7, Ugo Spirito, discutendo di Economia programmatica (1932), ha improvvisamente un fremito protagonistico: “il laissez-faire costringeva il professore a guardare dall’alto della cattedra: il programma lo trascina giù a tracciare le linee direttive dell’azione”88. Bottai, nell’elaborazione del suo piano corporativo, polemizza con questa annotazione di Spirito (“noi vediamo un piano economico sorgere dall’economia vissuta, non dall’economia aprioristicamente programmata; dall’economia dei produttori [...] non dall’economia dei professori, cui altri compiti si addicono”)89, con l’intento di colpire tutt’inte- ra una visione del ‘programma’ nella quale le corporazioni non avevano alcuna funzione e che, proprio per questo, poteva segnare un punto a favore dell’equivalenza di pianificazione e socialismo.
83 Che accusa senza originalità di socialismo la scuola pisana in Lo Stato nel processo economico, Padova, Cedam, 1936, pp. 175-177.84 F.M. Pacces, Verso un piano, cit., p. 259. Esprimono lo stesso concetto Gherardo Casini, Tramonto bolscevico e alba corporativa, in “CF”, 1° ottobre 1933, p. 379; G. Bruguier, Il corporativismo, cit., I, p. 76; A. Lanzillo, Lo Stato nel processo economico, cit., p. 175; ed anche Luigi Einaudi, Piani, in “La riforma sociale”, 1933, p. 291.85 Giuseppe Bottai, It cammino delle corporazioni, Firenze, Cya, 1935, p. 51.86 G. Bottai, Il cammino delle corporazioni, cit., pp. 51 e 79-80.87 Francesco Maria Pacces, Nostro tempo della rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1939, p. 9. Su Pacces si veda Gianni Costa, Sergio Faccipieri, Enzo Rullani, Crisi e corporativismo nel pensiero aziendalistico italiano, in Aa.Vv., Industria e banca nella grande crisi 1929-1934, a cura di Gianni Toniolo, Milano, Etas Kompass, 1978, pp. 382-408.88 Ugo Spirito, Economia programmatica, in Idem, Il corporativismo, Firenze, Sansoni, 1970, p. 419.89 F.M. Pacces, Giuseppe Bottai, Verso un piano, cit., p. 105.
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Per colui che propugnava l’inveramento del bolscevismo nel fascismo90, infatti, il programma era “visione integrale e sistematica di tutte le forze economiche, assegnazioni del compito di ognuna nell’organismo, determinazione del fine economico da raggiungere: programma significa, in una parola, bilancio preventivo” , formulato e posto in opera da un ente centrale di direzione formato da “esperti”, “tecnici abilissimi”, “teorici e pratici” , “studiosi” , “realizzatori” , “tecnici politici” , e, appunto, “professori”91. Le somiglianze formali con il piano quinquennale non mancano di certo, pur nella genericità e nell’astrattezza della prosa di Spirito: colpisce la non menzione dell’apparato corporativo (se non per screditarlo), così come dei benefici dell’iniziativa privata, mentre quel bilancio preventivo dell’ “unica azienda nazionale” ammicca alle tabelle russe degli obiettivi produttivi settoriali, e, ancora, l’ente centrale tecnico-politico è formato da tutti tranne che dai produttori, proprio come in Unione Sovietica. Ma — ed ecco il punto dif- ferenziante — di programmi nazionali di produzione non si parla mai. “Il suo pensiero era troppo conseguentemente fordista perché vi si potessero svellere le premesse aziendalistiche”, scrive Lanaro92; e allora il “bilancio preventivo” nazionale non sarà che la somma delle singole autonome contabilità aziendali, e il “programma” interdipendenza
e subordinazione delle aziende a una direzione e amministrazione unica nella quale “si risolvono” i singoli bilanci. La vita economica della nazione è concepita come “quella di un gigantesco trust” : l’unità economica, per Spirito, è l’azienda e non la corporazione.
L’assunto rigidamente fordista si attenua, fin dal titolo, nel successivo L ’economia programmatica corporativa, mostrando di aver recepito le osservazioni, o meglio le intimazioni politiche, di Bottai: l’ente centrale sarà ora “espressione gerarchica della Nazione” , l’iniziativa individuale “arricchisce” , e il programma “risulterà dagli infiniti contributi che alla gerarchia centrale saranno pervenuti attraverso i gradi gerarchici di tutte le unità produttive”93. Però si noti: “unità produttive” , ancora, e non corporazioni.
Spirito fordista, si è detto con Lanaro. Certo; come è certo che, per tutti negli anni trenta, “Stalin e Ford si equivalgono e si danno la mano” : “in Russia non si va che verso la religione, la idolatria della grande fabbrica”94, “la tecnocrazia, questa nuova dea tiranna, si incontra, completa e perfeziona la burocrazia”95. Nel descrivere l’economia sovietica nell’Enciclopedia Italiana, Spirito la paragona ad un “immenso trust” , proprio come aveva fatto sei anni prima prefigurando la sua economia programmata. E più oltre, ancora più chiaramente per i nostri fini, afferma che i precedenti delle teorie
90 Ugo Spirito, Individuo e Stato nell’economia corporativa, in Idem, Il corporativismo, cit., pp. 359-360; Aa. Vv., A tti del secondo convegno, cit., Ili, Discussioni, pp. 150-151; Ugo Spirito, Risposta alle obiezioni, in “Nuovi studi di diritto, economia e politica”, 1932, pp. 94-99.91 U. Spirito, Economia programmatica, cit., p. 415.92 Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo “di sinistra”. La dottrina corporativa dì Ugo Spirito, in Aa.Vv., Il regime fa scista, a cura di Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 387.93 Ugo Spirito, L ’economia programmatica corporativa, in Aa.Vv., L ’economia programmatica, cit., p. 175.94 S. Panunzio, La fine di un regno, cit., p. 342.95 S. Panunzio, La tecnica, in Idem, L ’economia mista, cit., p. 221. L’“americanismo” dei sovietici è un luogo comune della letteratura che stiamo esaminando: fra gli autori già citati, vi insiste Gaetano Ciocca in Giudizio sul bolscevismo, cit., e in Economia di massa, Milano, Bompiani, 1936; qui aggiungiamo Tagi, Il piano quinquennale e l ’attrezzamento industriale della Russia, in “Gerarchia”, 1932, pp. 133-145; Ugo D’Andrea, Le alternative di Stalin, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932, pp. 152-155; Antonio Palumbo, lipiano quinquennale della Russia sovietica, in “Gerarchia” , 1933, pp. 714-720 (che definisce l’Unione Sovietica “regno degli ingegneri” , p. 716).
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programmatiche “vanno ritrovati per una parte nei postulati del socialismo e per l’altra nelle indagini circa l’organizzazione scientifica del lavoro [...]. In Russia, dove il socialismo tende ad attuarsi attraverso l’industrialismo, la fusione delle due esigenze è naturalmente più evidente ed organica”96. Il mondo economico sovietico affascina Spirito proprio nei termini fordisti dell’esaltazione della razionalità della grande fabbrica, dei “colossi”, come scrive in Ruralizzazione o industrializzazione?, prodotti dall’ “unificazione, organizzazione: tale la parola d’ordine dell’attuale momento storico”97. La tensione unitaria che Spirito teorizzava non poteva non essere mediata dal lavoro, dalla produzione ora organizzata e riassunta nello Stato: ogni cittadino si risolve in quest’ultimo, ne partecipa in quanto produttore98. Intuiva giustamente Nello Quilici dopo il convegno ferrarese, che per Spirito il bolscevismo ave
va veramente identificato individuo e Stato99; si trattava ora di fare altrettanto per il tramite della figura della corporazione proprietaria, e il filosofo pisano ribadirà nel 1934 che il più urgente compito del corporativismo è “gerarchizzare il lavoro [...] far leva, in sostanza, sulla tecnica e concepire la rivoluzione come rivoluzione della tecnica”100. Bottai aveva scritto che in Russia si assisteva a “uno sforzo produttivistico che non è del socialismo”, a suo giudizio irrimediabilmente redistributivo ed antimonopolistico101. Lo scarto fra l’ammirata realtà industriale sovietica e ques’idea del socialismo, “regime dell’economia più antiprogrammatica che si possa concepire”102, affascina Spirito e ne fa davvero, in un senso diversissimo però da quello della opinione comune fascista, il più bolscevico dei corporativisti103.
Roberto Romani
96 Ugo Spirito, voce Economia programmatica, in Enciclopedia italiana, Appendice I, Roma, 1938, pp. 536-538.97 Ugo Spirito, Ruralizzazione o industrializzazione?, in “ASC”, 1930, p. 149.98 Si veda A. Panicali, Introduzione, cit., p. 184.99 Nello Quilici, Il Convegno di Ferrara, in “CF”, 15 maggio 1932, pp. 181-183.100 Ugo Spirito, Capitalismo, socialismo, corporativismo, in Aa.Vv., Nuove esperienze economiche, cit., p. 240.101 G. Bottai, La politica economica, cit., p. 184.102 U. Spirito, L ’economia programmatica corporativa, cit., p. 174.103 Mi pare superficiale l’annotazione di Gianpasquale Santomassimo, Ugo Spirito e il corporativismo, in “Studi storici” , 1973, n. 1, p. 107, che fa del filosofo pisano un sostenitore deH’Unione Sovietica in quanto favorevole all’ “annullamento della personalità, al livellamento dei gusti, allo Stato-formicaio ecc.” . Altri erano i motivi di attrazione, come spero di avere dimostrato; fra l’altro, varie volte Spirito si dichiarò contrario ad ogni forma di egualitarismo (riferendosi alla Russia, in Economia programmatica corporativa, cit., p. 174-175 e in Capitalismo, socialismo, corporativismo, cit., p. 235-236). Si veda anche Regime gerarchico (1934), in Idem, Il corporativismo, cit., pp. 381-390.