GUSTARE L'ITALIA 14 - LUGLIO/AGOSTO 2011
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Estatetricolore
P e r i o d i c o d i c u l t u r a e n o g a s t r o n o m i c a e t u r i s m o A n n o 2 - N u m e r o 1 4 - L u g l i o 2 0 1 1
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C o n i l p a t r o c i n i o d i
La tenuta Cà da Meo di Magda Pedriniè il risultato di un profondo amore peruna terra che, grazie alla sua particolareposizione, da origine a coltivazioni as-solutamente straordinarie nell’ambitodei vitigni che producono eccezionali Gavi docg.Da questa storia così carica di senti-menti umani e di lavoro nascono i vinidella Tenuta che arrivano ad arricchiredi stile e di gusto le nostre tavole.
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Gustare l’Italia3
Estate. L’estate è la stagione che vede trionfare, in ogni regione, le sagre e le feste popolari.
Da quelle più antiche e radicate a quelle improvvisate o rispolverate a fini turistici, magari a ope-
ra di volonterose associazioni locali, praticamente tutte sono accompagnate da degustazioni o
vendita di prodotti alimentari.
Ecco allora che le sagre, da quelle più sentite da parte degli abitanti del posto a quelle meno
riuscite dal punto di vista di pubblico, rivestono un ruolo fondamentale nel percorso delle comu-
nità nel riappropriarsi del proprio territorio e della propria cultura, anche quella gastronomica.
Di tutte queste manifestazioni è praticamente impossibile dare conto e notizia - anche se noi
tentiamo quotidianamente di farlo sulle pagine del nostro sito www.gustarelitalia.it - ma ciò che
conta è il fatto che siano in costante aumento. Il nostro consiglio è quello di diffidare da quegli
eventi che propongono una cucina genericamente italiana, ma di “buttarsi” in quelle sagre che
esaltano piatti e prodotti tipici della propria zona. Dal Trentino al Salento, dalla Riviera Ligure al-
la Sicilia l’estate è la stagione ideale per gustare centinaia di tradizioni alimentari spesso di nic-
chia, talvolta impossibili da ritrovare facilmente durante il resto dell’anno.
Nelle pagine di questo numero, per non fare torto a nessuna delle lodevoli iniziative locali,
abbiamo voluto segnalare soltanto due tradizioni storiche così radicate da non temere la con-
correnza di nessuno, né di porsi in alternativa alle altre: il Palio a Siena e la festa della Perdo-
nanza a L’Aquila.
Estate tempo di sagre, si è detto. Attenzione, però: l’estate è anche tempo di vacanza e di cam-
biamento delle proprie abitudini alimentari. Pur trascurando chi insegue diete last minute o ricer-
ca soltanto cibi “freschi” (o presunti tali) adatti alle temperature che salgono, è indiscutibile che
nei mesi estivi la maggior parte degli italiani muti la propria alimentazione. Non necessariamente
in peggio, anzi. Se da un lato è evidente a chiunque metta piede su una spiaggia italiana il fatto
che molti si concedano spuntini fuori pasto tutt’altro che salutari, è anche vero che sono moltis-
simi i vacanzieri che, in montagna come al mare, aumentano la propria attività fisica. Se anche
l’appetito dovesse aumentare, il consiglio di “Gustare l’Italia” non è quello di trattenersi il più pos-
sibile; è invece quello di “approfittare” delle vacanze per dedicarsi con più calma e attenzione
anche alla cultura del buon mangiare (e buon bere).
Per scoprire (o riscoprire) una tradizione enogastronomia, per assaporare un piatto particolare,
per non dover ricorrere soltanto al supermercato nel fare la spesa, per concedersi una sosta
gourmet in uno dei tanti ottimi ristoranti italiani. In vacanza come in città.
In questo numero noi di “Gustare l’Italia” abbiamo proprio voluto, come sempre, segnalare
quelle realtà, produttive o ricettive, che vanno esattamente in questa direzione, e che, con la lo-
ro qualità assoluta, garantiscono al tempo stesso il gusto, il piacere e la bontà, tutte componen-
ti che in estate non devono assolutamente andare in vacanza.
Alessandro Milani - Direttore Responsabile Edito
riale
4Gustare l’Italia
6 Tradizioni italiane L’altro lato del Palio16 Mangiare in contrada
18 Il produttore Nelle Langhe batte un cuore di pietra
24 Tradizioni italiane Papa Celestino V e la Festa del Perdono
28 Eccellenze italiane Un piacere per la gola, un piacere per il corpo
Som
mar
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glio
- ag
osto
201
1
52 Ospitalità italiana Reggia Domizia, dove si sposano classe e passione
34 La vacanza L’estate di Grado tra spiagge, casoni e buona cucina
46 Il produttore Le tante sfi de del Tonno Colimena
62 Il consorzio agroalimentare Il mosaico (liquido) di Otranto
66 Il cibo di strada I turcinieddhri, scarti d’autore
70 Il consorzio vitivinicolo Una regione, un vino molte anime
652
62
46
34
Gustare l’Italia5
76 Il produttore Brandisio, musica per il palato
80 Quelli che le guide non dicono “La Martinella”, tradizione e modernità
84 Le città di Res Tipica Sulle orme della bufala
86 Gli itinerari di Res Tipica Tra il Volturno e il Garigliano
90 Bufala e pizza Il matrimonio s’ha da fare
92 Il cibo nell’arte Delizie lunari: le fantasie culinarie nell’opera di Antonio Rubino
96 Ricorrenze La profezia di Pellegrino
103 Rubriche
105 L’orto di luglio - agosto I cocomeri Le pesche I pomodori
112 Libri da mangiare
114 Indice ricette
Direttore Responsabile: Alessandro Milani - Caporedattore: Raffaele Montagna - Art Director: Daniele Colzani
Segretaria di Redazione: Mara Guerrieri - Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto
Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio
Concessionaria pubblicità: Soltrade Communication - Via Mirabello, 10 - 00195 Roma
Responsabile Trattamento Dati Personali: Maurizio Villa - L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e
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Redazioni: Milano: Via Milanese, 5/11 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) - Roma: Via Mirabello, 18 - 00195 Roma
- Sicilia: Via Cannezio, 22 - 97100 Ragusa
Hanno collaborato a questo numero: Giulia Battafarano - Paolo Bonagura - Fabrizio Cimino - Marco Locatelli - En-
zo Meli - Francesco Maria Montella - Roberto Mottadelli - Martino Negri - Emiliano Raccagni - Laura Rangoni
Fotografi e Uffici Stampa: Giulia Brogi - Emanuela Cattaneo - Teodoro S. Gruhl - Petr Kratochvil - Lidia Monta-
nari- Raniero Pizzi - Associazione Nazionale Città della Bufala - Casa Artusi - Consorzio per la tutela del Palio di
Siena - Oliopuglia.it - Oliviaemarino.it - Reggia Domizia - Ufficio Turismo e Relazioni Esterne Comune di Grado
Distribuzione: C.M. Press Distribuzione
© Riproduzione (anche parziale) vietata
Periodico di cultura enogastronomica e turismo - Anno 2 - Numero 14Luglio 2011 - Reg. Tribunale di Milano n° 201 del 14/04/2010
www.gustarelitalia.it
80
6Gustare l’Italia
di E
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ne
L’altro lato del Palio
Gustare l’Italia7
Il Palio di Siena. Tra le molte chiavi di lettu-
ra con le quali approcciarsi a una delle più po-
polari feste italiane, se ne possono individuare
due, essenziali e contrapposte.
La prima, certamente maggioritaria, è quella
dello spettatore televisivo o del turista che ma-
gari inconsapevolmente si trova ad assistere a
un evento che lo colpisce per colori, suoni,
passione. Lo spettacolo è indiscutibilmente
affascinante. Viene quindi spontaneo “parteg-
giare” per uno dei fantini che smaniano in quei
Dietro le quinte della celebre festache per due volte l’anno infi amma Siena e la sua gente
momenti interminabili che precedono l’avvio
della corsa, gustarsela col cuore in gola fino
allo scoppio del mortaretto, quando capita di
assistere a scene di esultanza (e di speculare
delusione) da delirio collettivo.
Quando tutto è finito, però, molti non ca-
piscono come si possa letteralmente impaz-
zire per una corsa di cavalli di poco più di un
minuto. La domanda resta senza risposta.
Oppure no, per chi decide di seguire un se-
condo approccio.
8Gustare l’Italia
peranno, dato
che ogni carrie-
ra ne vede in
campo dieci.
Le sette esclu-
se correranno di
diritto in quella
dell’anno suc-
cessivo, insie-
me ad altre tre
sorteggiate.
Un altro giro va chiesto alla fortuna al mo-
mento della tratta, quando quattro giorni pri-
ma del Palio dall’urna esce il nome del cavallo
che da quel momento verrà custodito nella
stalla di contrada, in realtà un appartamento
Oltre la festaIl Palio si disputa in piazza del Campo due
volte l’anno, il 2 luglio e il 16 agosto. Non è una
rievocazione storica, come ne sono fiorite a
centinaia a partire dagli inizi del Novecento in
tutta Italia.
È una festa viva, organizzata e regolamenta-
ta dal Comune di Siena, che dal 1656 ne cura
direttamente lo svolgimento, andando a solen-
nizzare quanto già da quasi due secoli le con-
trade della città svolgevano in vari modi e con
discontinuità.
Da allora, la festa di Siena si è sempre di-
sputata in occasione delle ricorrenze dedi-
cate alla Madonna di Provenzano (a luglio) e
dell’Assunta (ad agosto), tanto che, nei gior-
ni precedenti la
disputa della car-
riera, il drappello-
ne dipinto che an-
drà in premio al
vincitore viene cu-
stodito rispettiva-
mente nella Basili-
ca di Provenzano
e nel Duomo.
È proprio lì che i
contradaioli festanti si recheranno immediata-
mente dopo la corsa per intonare il Te Deum di
ringraziamento, un rito antico e cattolicissimo
e allo stesso tempo moderno e pagano, che in
terra consacrata mischia bandiere e abbracci,
urla e lacrime, sudore e preghiere.
La continua con-
taminazione tra
sacro e profano è
il filo conduttore
che scandisce i
tempi del Palio.
La sorte gioca
un ruolo decisivo
nel decidere quali
contrade parteci-
Gustare l’Italia9
per equini dotato
di tutti i comfort,
con tutte le at-
tenzioni che me-
rita il vero prota-
gonista a cui
affidare le aspet-
tative di vittoria.
Ed è sempre la
dea bendata, al
momento di stabilire l’ordine di ingresso tra i
canapi delle diverse contrade, a giocare un
ruolo primario, dato che la posizione in cui
ogni fantino dovrà muoversi può risultare deci-
siva. Il rito appare con tutta la sua forza con la
benedizione del cavallo, che avviene nell’ora-
torio delle contrade nel pomeriggio che prece-
de la corsa. Nella cerimonia officiata dal sacer-
dote (correttore) che ha in cura le anime della
contrada, e nell’urlo liberatorio dello stesso,
che saluta cavallo e fantino con un “vai e torna
vincitore!”, seguito da una sbandierata sul sa-
grato della chiesa, c’è più forte che mai questa
fusione tra sacro e profano, tra solennità e gio-
co che da quel momento è consacrato a bat-
taglia. Una battaglia simulata, si intende, che
vale però la supremazia cittadina nel momento
più importante dell’anno.
La contrade viveCon una felice intuizione il giornalista Toni-
no Virone scrisse oltre vent’anni fa sulla rivi-
sta Testimonianze
che per capire il Pa-
lio di Siena bisogne-
rebbe sedersi su uno
dei palchi che cir-
condano la piazza
del Campo, qualche
ora dopo la conclu-
sione della corsa.
Quando la tensione
che si era accumulata al massimo si spezza
nell’urlo di chi ha vinto e quando il resto della
città, come ripresasi da un momento di parali-
si, torna lentamente al suo vivere.
Possibile, si chiede, che questa spettacolare
messa in scena finisca lì? E se invece, come il
giovane Holden di Salinger, si provasse a im-
maginare che fine
fanno le anatre nel
laghetto del Central
Park quando d’in-
verno è tutto ghiac-
ciato e nessuno le
vede? Cosa accade,
in altre parole, quan-
do si spengono i ri-
flettori sulla corsa?© E
man
uela
Cat
tane
o
10Gustare l’Italia
Possibile che
tutto questo ec-
cesso di emozioni
si esaurisca in
questo modo? Il
paragone regge,
perché il Palio di
Siena è un fuoco
che brucia mo-
strando le sue
fiamme per otto giorni, due volte l’anno.
Ma non esisterebbe senza le braci che per
tutto il resto del tempo covano profonde in mi-
gliaia di cittadini senesi e vengono custodite in
diciassette luoghi: le contrade.
Le contrade di Siena sono state studiate in
modo approfondito da storici e archivisti, ma
anche da sociologi
e antropologi. Il
perché è presto
detto: gli antichi ri-
oni che da secoli
dividono il territo-
rio della città stori-
ca, quella ancora
totalmente rac-
chiusa nelle mura
medievali, sono entità vive e non semplici
giubbetti colorati con i quali immedesimarsi o
tifare durante il Palio.
Perché ciò che è accaduto a Siena nel corso
di un’evoluzione urbanistica e sociale che af-
fonda le sue radici nel Medioevo e prende for-
ma a partire dal
Cinquecento è
p ro b a b i l m e n t e
unico al mondo.
Le contrade, in-
fatti, non sono i
suggestivi ma vuo-
ti contenitori che
corrispondono ai
rioni più antichi di
qualunque città europea che ne conserva i no-
mi per tradizione e comodità topografica. Co-
me all’opposto non sono minimamente para-
gonabili alle moderne circoscrizioni, vive dal
punto di vista amministrativo ma senza storia
e, soprattutto, senza vissuto.
I diciassette rioni di Siena sono da almeno
cinque secoli il primo punto di riferimento
per il potere
centrale del Co-
mune. Hanno
ciascuna un go-
verno, al cui ca-
po c’è un Priore
(in due casi Ret-
tore o Governa-
tore), eletto in-
sieme a una
giunta (sedia o seggio), con i suoi vicari, e
una serie di ministri che si occupano di fi-
nanze e bilancio, beni immobili, organizza-
zione, solidarietà, giovani.
E, soprattutto, ogni contrada ha un popolo
che si riconosce non solo nei suoi colori e nel-
le sue insegne, ma in quella fetta di città che
gelosamente è
rivendicata co-
me il proprio ter-
ritorio. E a quel
territorio si sen-
te di appartene-
re non solo nel
momento più
eclatante, quello
del Palio, ma
sempre. Ogni contrada ha il suo luogo religio-
so (oratorio) e locali (la società di contrada)
aperti tutti i giorni dell’anno, che fungono da
punto di riferimento per grandi e piccoli. Ci so-
no diciassette gruppi sportivi, diciassette
gruppi di donatori di sangue.
Ogni contrada ha la sua piccola compagnia
teatrale, le iniziative culturali, quelle dedicate
Gustare l’Italia11
ai più piccoli. Organizza corsi, cene, gite, mo-
stre. Edita un suo giornale, ha un suo sito web.
Ha le sue assemblee, le sue elezioni, un suo
museo, che custodisce non solo gli agognati
drappelloni del Palio, ma soprattutto memorie
di secoli di vita quotidiana di una micro comu-
nità e archivi che ne descrivono dettagliata-
mente la storia, i più antichi datati a metà del
XVI secolo.
Da rioni a luoghi dell’animaContinuità è forse il termine più adatto
per descrivere ciò che le contrade di Siena
sono riuscite a garantire col passare dei se-
coli e che è stata la
chiave non solo
della loro sopravvi-
venza, ma della
capacità di vivere il
presente di una
città che è natural-
mente e profonda-
mente cambiata.
Nate prima come
distretti amministrativi di tipo militare per in-
quadrare le milizie cittadine nel Medioevo e
poi aggregatesi attorno alle parrocchie di rife-
rimento ai tempi della perdita dell’indipenden-
za e dell’ingresso di Siena nella sfera di in-
fluenza fiorentina, le contrade hanno percorso
quasi mezzo millennio di storia inserite nel tes-
suto cittadino e non sarebbero riuscite, senza
adattarsi ai cambiamenti, a farsi custodi del
passato e delle tradizioni ed essere soprattut-
to i rioni della vita quotidiana.
L’editto con cui Violante di Baviera, gover-
natrice della città per conto dei Medici, fissò
una volta per tutte nel 1729 gli attuali confini
dei diciassette rioni, non fu un inizio, ma l’uffi-
cializzazione di uno status quo, l’esistenza
delle contrade, già da tempo riconosciuta.
Esempi più vicini a noi ne confermano l’im-
portanza nel tessuto cittadino. Agli albori del-
lo Stato unitario sono infatti le contrade a far-
si promotrici al proprio interno di quelle
Società di Mutuo Soccorso che tanto merito
ebbero nell’aiutare lavoratori e famiglie co-
strette a fare i conti
con la miseria,
quando non c’era
lo stato sociale.
Sempre le contra-
de, con le loro ban-
diere spiegate a fe-
sta, accolsero gli
eserciti alleati dopo
la liberazione della
città nel 1945 e,
quasi a segnare il
ritorno alla norma-
lità dopo gli orrori
della guerra, si
pretese a furor di
popolo di organiz-
zare un Palio stra-
ordinario per il
giorno dopo.
Forse per spiegarne l’importanza nella vita
di tanti senesi basterebbe guardare ancora
oggi come la bandiera della contrada segna-
li la nascita di un bimbo, lo accompagni du-
rante l’esistenza non mancando di essere
presente al suo matrimonio o nell’estremo
saluto di un funerale.
Sono questi i momenti nei quali si percepi-
sce in modo forte un senso di identità e appar-
tenenza che si tramanda da generazioni, non
solo a parole.
12Gustare l’Italia
È su questi presupposti che le contrade,
impegnate a cambiare insieme alla società
per continuare a esserne parte attiva, stanno
affrontando oggi l’ennesima sfida della pro-
pria esistenza.
Di fronte all’inesorabile spopolamento del
centro storico della città, che, come tutte, si
terziarizza e vede negozi, uffici e residenze
universitarie sostituirsi alle abitazioni, le con-
trade stanno imparando a adattarsi.
Venuto a mancare il rapporto diretto tra rio-
ne e abitante, ora
che la maggior
parte dei senesi
vive fuori dalle
mura, in terra di
nessuno, la con-
trada lotta per
continuare a ri-
manere un cen-
tro d’aggregazio-
Gustare l’Italia13
ne naturale, trasformandosi da rione a luogo
dell’anima. Il battesimo contradaiolo, introdot-
to negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo
scorso per sancire una volta l’anno l’ingresso
nella comunità dei nuovi arrivati, è diventato il
simbolo di un’appartenenza che da fisica si fa
sempre più spirituale, mentre le strade dove
un tempo si nasceva e si trascorreva una vita
diventano i luoghi dove continuare a tornare
per respirare la propria appartenenza.
Da qui la capacità delle contrade di saper
offrire la quoti-
dianità attraver-
so lo stare insie-
me tutto l’anno,
aspettando i due
momenti nei
quali, con il Pa-
lio, le braci riani-
mano un fuoco
visibile a tutti.
Il Palio è vitaIl Palio, a questo
punto dovrebbe es-
sere chiarissimo,
non è un gioco e
nemmeno una gara
sportiva. È una gio-
stra dove le rivalità
tra contrade, la poli-
tica, le astuzie e gli
accordi possono valere quanto l’abilità nello
stare a cavallo e concorrere a determinare il ri-
sultato finale.
Ma provare a vincere non è tutto, perché la
soddisfazione di vedere la propria rivale fallire
un successo, magari tanto atteso e alimentato
dalle aspettative è pari a quella di avere il mi-
glior cavallo nella stalla.
Questo è l’humus del quale si nutre la sfre-
nata corsa di tre giri attorno a una delle più
belle piazze del mondo e nel quale il desiderio
14Gustare l’Italia
di arrivare primo si impasta e diventa tutt’uno
con un retroterra di tradizioni, sentimenti e vi-
vere quotidiano che generazioni di senesi si
tramandano di padre in figlio.
I rituali si possono costruire, inventare, per-
fezionare fino a far credere a chi vi prende par-
te che si è sempre fatto così, quando magari
la pro loco locale è soltanto andata a ripesca-
re da libri polverosi una festa o una tradizione
da fare risorgere.
A Siena, invece, le anatre del giovane Holden
non scappano dal lago con i primi freddi. Ci so-
no sempre, rintanate al caldo delle loro contra-
de e sono la dimostrazione concreta di quanto
sia vera la definizione più essenziale, ma forse
più azzeccata, che mai sia stata formulata per
definire la festa della città toscana.
Quando infatti si dice che il Palio è vita si ri-
assume al meglio ciò che custodisce questo
rito, già di per sè affascinante anche al primo
approccio, che ogni anno fa tremare i cuori di
una città intera e - se inteso un po’ più a fondo
- trasforma un turista in un appassionato.
© E
man
uela
Cat
tane
o (2
)
Gastronomia e contrade
16Gustare l’Italia
di E
mili
ano
Rac
cag
ni
Mangiare in contrada è importante. Lo san-
no bene gli appartenenti ai diciassette rioni di
Siena, perché durante tutto l’anno l’appunta-
mento con pranzi e cene, soprattutto nei fine
settimana, è il modo più semplice e diretto per
mantenere viva l’appartenenza e il senso di
socialità quando il Palio è lontano.
Con l’estate, però, l’enogastronomia diventa
uno dei punti di forza della macchina organiz-
zativa di ciascuna contrada. A ridosso delle ri-
spettive “Feste Titolari”, nelle quali viene cele-
brato il Santo patrono di ciascuna, le iniziative
conviviali si moltiplicano. Ma non solo.
Tradi
zion
i ita
liane
Da molti anni il calendario della città nei mesi
estivi è scandito anche da grandi fiere gastro-
nomiche, che alcune contrade ospitano nei
giardini e nelle piazze adiacenti alle proprie se-
di. Sono una vera e propria occasione di aper-
tura nei confronti del resto della città e anche
dei turisti.
Si va da rassegne gastronomiche tout court,
come quelle organizzate dalla Torre, dal Nic-
chio, dal Bruco, ad appuntamenti monotema-
tici: il braciere per la Selva, il gelato per il Leo-
corno, il vino novello per la Civetta, tanto per
fare qualche esempio.
Gustare l’Italia17
Durante i giorni del Palio, poi, un’altra
spettacolare celebrazione dello stare in-
sieme attorno a un tavolo è rappresen-
tata dalla “Cena della Prova Generale”.
Un appuntamento che fino agli anni
Settanta era riservato a poche decine di
persone e che oggi si è trasformato nel
momento della speranza di vittoria, per
il quale le contrade riescono a mettere a
tavola nelle proprie strade centinaia, se
non migliaia di commensali la sera pri-
ma della corsa.
Tra una portata e l’altra, i discorsi
dell’attesa di dirigenti e fantino e i canti
dei contradaioli scandiscono la serata,
anch’essa aperta agli ospiti che abbia-
no acquistato saggiamente un posto
nei giorni precedenti.
L’augurio di tutti è quello di ritrovarsi
dopo pochi mesi, ancora una volta sot-
to il cielo, alla Cena della Vittoria, un ve-
ro e proprio gala celebrativo nel quale il
posto d’onore, tra migliaia di commen-
sali, è tutto per il cavallo arrivato primo
in piazza il 2 luglio o il 16 agosto. © E
man
uela
Cat
tane
o
Nelle Langhe batteun cuore di pietra
Il pro
dutto
re
18Gustare l’Italia
di G
iulia
Bat
tafa
rano
Sugli scaffali dei supermercati si trova una
notevole quantità di farine diverse per tipo e
marca, preparate per usi specifici. Una simile
varietà potrebbe perfino mandare in panico il
consumatore. Ma da dove vengono le farine?
Ed è vero che in fondo sono tutte uguali?
Evidentemente no, se Renzo Sobrino ha de-
ciso, nonostante corra l’anno 2011, di conti-
nuare a macinare il grano secondo metodi
antichi, scegliendo soltanto materie prime
che non abbiano subito alcun tipo di altera-
zione da parte dell’uomo.
Il mulino si trova in una viuzza del comune di
La Morra, nel cuore delle Langhe, patria di altri
e ben più noti prodotti e i suoi muri sembrano
quasi rivestire un ruolo di barriera protettiva
nei confronti di un vero gioiello di architettura
molitoria risalente ai primi del Novecento. Qui,
in una struttura che era una filanda, da quattro
generazioni la famiglia di Renzo macina i grani
e li trasforma nell’oro bianco che permette a
pochi fortunati panificatori, professionisti e
non, di creare prodotti dal sapore “antico”.
Un tempio dell’arte biancaUn campanello suona, un uomo corre, sale
di corsa tre gradini di legno, imbraccia un
enorme sacco e versa del grano in un’antica
macchina. Questa l’immagine che ci accoglie
quando arriviamo al Mulino Sobrino.
Entrando nell’edificio ci si trova davanti a
uno spettacolo di altri tempi: un mulino a pie-
tra dove mani sapienti versano il grano e dal
quale esce una cascata di farina.
Gustare l’Italia19
Il “moderno” metodo per
sapere quando è il mo-
mento di versare nuo-
vamente il grano è
costituito solo da un
vecchio campanello
che, come ci viene
spiegato, non ha i problemi dei moderni mac-
chinari, non si inceppa mai.
Tutto ebbe inizio nel 1960 e oggi il Mulino
Sorbrino è uno dei pochissimi piccoli esem-
plari ancora in attività: in essi si lavoravano
principalmente i cereali prodotti dalle aziende
agricole della zona e per lo più le macinazioni
erano effettuate dal mugnaio come contoterzi-
sta (macinava il grano per i contadini che riti-
ravano poi le farine e pagavano per il lavoro).
Questo è avvenuto anche qui fino a quando
il padre di Renzo, diversamente da suo padre
e dal padre di suo padre, dalla metà degli anni
Cinquanta ha iniziato a sostituire gradualmen-
te la macinazione per conto terzi con la lavo-
razione e la commercializzazione delle farine.
Giusto per avere un’idea di cosa si intenda
per piccolissimi mulini basta sapere che qui,
sommando la produzione delle macine in pie-
tra a quella dei laminatoi, si lavoravano circa
600 kg di cereali all’ora; un mulino industriale
della metà dell’Ottocento (come per esempio
il celebre Molino Stucky di Venezia) poteva la-
vorare 6000 kg all’ora; oggi i mulini industriali
più piccoli arrivano a 3000-4000 kg all’ora,
quelli medi arrivano a 10.000/11.000 e quelli
grandi perfino a 60.000/70.000.
Tornando al Mulino Sobrino, la produzione
delle farine avviene utilizzando macine in pie-
tra naturale a lenta rotazione (2 coppie di ma-
cine facenti parte della dotazione delle quattro
coppie di pietre del mulino costruito alla fine
dell’Ottocento) e un mulino di concezione mo-
derna costruito nell’estate del 1950, ancora in
gran parte in legno (per queste sue caratteri-
stiche esclusive vorrebbe essere definito “mu-
lino storico” dal Politecnico di Torino).
Trasformare significa rispettareChiacchierare con il mastro mugnaio è tal-
mente piacevole che ci si potrebbe fermare
ore e ore ad ascoltarlo raccontare di come ri-
spetti tutto quello che gli permette di creare un
prodotto d’eccellenza.
Il primo ingrediente è la scelta dei produttori
di grano, tutti selezionati con cura, tutti segua-
ci dei principi legati alla biodinamica e soprat-
tutto tutti della zona (a eccezione del produt-
tore di grano duro che proviene dal Centro e
Sud Italia e del Kamut®).
Qui il concetto di filiera corta è applicato da
sempre e a essere rispettati sono anche i con-
tadini stessi che garantiscono qualità a fronte
di un pagamento del 20-30% superiore a
quello che otterrebbero sul libero mercato
(con una punta del 250% in più sul mais da
polenta, giustificato dall’altissima qualità).
20Gustare l’Italia
Il secondo è il rispetto per il grano (qui si
conserva l’antica usanza di lavare il grano pri-
ma di macinarlo) e per il consumatore che ha
la certezza dell’origine della farina che ha tra le
mani, con la sicurezza che essa non contenga
nemmeno un chicco OGM, né enzimi aggiunti,
lattosio, acidificanti, antifungini, addensanti,
stabilizzanti o altri additivi. Solo ed esclusiva-
mente grano coltivato, macinato e conservato
come una volta.
Già, perché qui non si vedono nemmeno
silos: tutto è stivato sopra al negozietto, in
quello che era e ancora è il granaio, esatta-
mente come facevano i contadini e i mugnai
di un tempo.
I cereali vengono stoccati in sacconi da
10/11 quintali, suddivisi e identificabili per pro-
duttore e per qualità, in modo da sapere in
qualsiasi momento, con riferimento al lotto di
macinazione, le varietà e la provenienza del
grano. Insomma, ecco il vero concetto di trac-
ciabilità che oggi va tanto di moda!
Un cuore di pietraAnche la scelta di utilizzare ancora il mulino
a pietra fa parte di questa filosofia del “rispet-
to”. Questo tipo di macinazione, infatti, impe-
disce la separazione (e la conseguente elimi-
nazione) del germe, la parte dei chicchi ricca
di sostanze nutrienti e inoltre non scalda inutil-
mente ed eccessivamente il chicco stesso.
E, se si chiede a Renzo cosa ne pensa di
chi sostiene che nelle farine macinate a pietra
restino inevitabilmente residui di pietra, me-
glio prepararsi a una risposta cordialmente
colorita, secondo il modo di fare tipico dei
piemontesi.
Renzo ci spiega che i rulli in acciaio dei mu-
lini industriali più volte all’anno sono oggetto
di manutenzioni che consistono nell’incidere il
metallo per rigare i rulli (i quali, con l’attrito
provocato dalla macinazione, tendono a di-
ventare lisci).
Dove sarà mai finito l’acciaio che si è consu-
mato? Le macine in pietra naturale, per via
dell’attrito con i cereali, subiscono un’infinite-
sima abrasione, è innegabile, ma per cercare di
Gustare l’Italia21
quantificare quanto sia piccola la perdita di pol-
vere di calcare basta ragionare sul fatto che le
macine che si utilizzano qui hanno oltre 100 an-
ni, hanno sempre macinato cereali senza subire
interruzione nella lavorazione e si stima possa-
no lavorare ancora per decine di anni.
È importante specificare che si parla di “ma-
cine in pietra naturale”, perché quelle moder-
ne sono costituite da scagliette di pietra legate
da un composto sintetico.
Ma non finisce qui: in questo luogo magico
si rispetta anche il passato. Renzo ammette
con orgoglio di potersi vantare di essere stati
(probabilmente) i primi a puntare sulle vec-
chie varietà nella ricerca della massima qua-
lità organolettica delle farine. Quando Slow
Food si chiamava ancora Arci Gola, quindi
più di 25 anni fa, una delle prime eccellenze
alimentari delle quali si occupò fu proprio la
farina di mais da polenta prodotta da questo
mulino utilizzando le vecchie varietà locali.
Non solo granoIl frumento infatti non è l’unico cereale che
viene macinato da Renzo. Al Mulino Sobrino
si producono anche farine di segale, avena,
farro, Kamut®, grano saraceno, monococco
(considerato il padre di tutti i cereali, il primo
a essere coltivato dall’uomo), riso e perfino
quella di castagne.
22Gustare l’Italia
C’è una farina che rende il mugnaio partico-
larmente orgoglioso: quella di mais. E non una
qualunque. Il prodotto che gli ha regalato il ri-
conoscimento da parte di Gambero Rosso co-
me miglior blend per polenta è infatti un mix di
antichi cultivar di granoturco (8File, Marano e
Pignoletto) macinati per ottenere la tradiziona-
le pietanza nella versione delle Langhe sia in-
tegrale, sia fioretto, sia bramata.
Ecco le parole usate nel febbraio 2010 dal
crostaceo gourmand: “L’aspetto è come deve
essere, grezzo ma elegante, di un bel colore
giallo bronzato carico. Ottimo profumo tipico
di mais fresco e pulito. Consistenza granulosa.
Eccellente sapore, pieno, autentico, appagan-
te, con in evidenza la nota vegetale. Quello che
ti aspetti da una grande vera polenta”.
Fior di FarineIl tempo pare essersi fermato non solo nei
locali adibiti alla macinazione dei cereali.
Da qualche anno infatti ci sono altri piccoli
spazi entrando nei quali si respira l’aria di una
volta. Renzo e Margherita hanno deciso di
permettere a tutti di godere di un soggiorno in
questa magica atmosfera: hanno recuperato
l’antica casa di famiglia e l’hanno resa un ac-
cogliente bed&breakfast.
Come è facile aspettarsi da due persone in-
credibili come loro, la ristrutturazione è stata
eseguita in modo conservativo ed è stata fatta
la scelta di mantenere la disposizione originale
delle camere nonché una parte degli arredi.
Qui, al Fior di Farine, per iniziare la giornata
alla grande, Margherita prepara - a mano, uti-
lizzando esclusivamente prodotti di prima
qualità, tra i quali ovviamente le loro farine –
una colazione da leccarsi i baffi.
Un consiglio: regalatevi un fine settimana in
quest’oasi delle Langhe.
Un consiglio nel consiglio: non perdetevi per
nessuna ragione al mondo i croissant.
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Papa Celestino Ve la Festa del Perdono
Tradi
zioni
italia
ne
24Gustare l’Italia
di F
abri
zio
Cim
ino
Pietro Angeleri detto Pietro da Morrone
nacque a Isernia nel 1209; dopo aver preso i
voti a Roma si trasferì in un eremo sul Monte
Morrone, vicino Sulmona, dove fondò la con-
gregazione dei Frati di Pietro da Morrone co-
me ramo dei Benedettini; questa congregazio-
ne fu riconosciuta da Papa Gregorio X.
La sua fama di frate eremita, in odore di san-
tità, aveva raggiunto tutte le genti cristiane e il
suo nome era rispettato e venerato anche dai
regnanti di tutta Europa. In quel periodo, dopo
la morte di Papa Niccolò IV, il 4 aprile 1292,
non si riusciva a eleggere un papa che fosse
gradito a tutti i regnanti.
Il 5 luglio 1294, dopo 27 mesi di sede vacan-
te, gli 11 cardinali che in quel tempo costitui-
vano il Sacro Collegio elessero un pontefice
“di transizione”, un frate eremita che non ave-
va alcuna esperienza di governo, ma era sicu-
ramente uomo di grande carisma e notorietà.
La notizia gli fu comunicata da tre vescovi nel
suo eremo sul Morrone; inizialmente rifiutò,
poi, per senso del dovere, accettò e divenne il
192° papa della Chiesa Cattolica.
Fu quindi accompagnato dal re Carlo D’An-
giò all’Aquila dove, il 29 agosto 1294, nella
splendida basilica di Santa Maria di Collemag-
gio, fu incoronato con il nome di Celestino V.
Uno dei suoi primi atti ufficiali fu l’emissione
della Bolla del Perdono, un editto con il quale
Celestino volle dare un forte segnale a tutto il
mondo cristiano.
Gustare l’Italia25
In un’epoca nella quale l’indulgenza plenaria
era spesso appannaggio esclusivo dei ricchi e
dei potenti che potevano permettersi di paga-
re il proprio perdono, egli consentì a tutti, una
volta l’anno, pentiti e confessati, di essere
mondati da tutti i peccati attraversando la Por-
ta Santa della Basilica di Collemaggio dai ve-
spri del 28 agosto al tramonto del 29 agosto di
ogni anno.
Il “Papa Santo” in questo modo anticipò di
sei anni il primo giubileo, istituito nel 1300 dal
suo successore, Bonifacio VIII. Quest’ultimo fu
colui che fece di tutto per far abdicare Celesti-
no, il quale rinunciò al soglio pontificio il 13 di-
cembre 1294; solo 10 giorni dopo, il 23 dicem-
bre, fu eletto papa, con il nome di Bonifacio
VIII, il cardinale Benedetto Caetani.
Egli cercò in tutti i modi di recuperare la Bol-
la del Perdono affinché non fosse più applica-
ta. Nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì però
a trovarla perché essa era custodita in un luo-
go segreto.
Bonifacio VIII, nel timore che qualcuno lo ri-
volesse come papa, fece internare Celestino
in una fortezza di proprietà della famiglia Cae-
tani, il castello di Fumone, presso Anagni, do-
ve il frate del Morrone morì il 19 maggio 1296.
© R
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izzi
(3)
26Gustare l’Italia
Oggi le sue spoglie riposano nella Basilica di
Santa Maria di Collemaggio all’Aquila.
A partire da quel 29 agosto di oltre 700 anni
fa all’Aquila si celebra questa festa. Oggi la
Bolla è conservata nei forzieri del Comune, e
le celebrazioni si preparano con molta atten-
zione e dedizione.
Un comitato di esperti si riunisce per organiz-
zare gli eventi che precedono le celebrazioni
religiose e, nel rispetto delle tradizioni celesti-
niane, tutte le manifestazioni sono gratuite e
aperte a chiunque voglia parteciparvi.
Si comincia una settimana prima con l’arrivo
del Fuoco del Morrone: una staffetta di giovani
podisti parte da Sulmona e arriva fino all’Aqui-
la con i tedofori che trasportano il fuoco che
accenderà il braciere della Perdonanza nella
torre del Palazzo Comunale.
Dopo il sisma del 2009 le manifestazioni non
si svolgono più nei bellissimi cortili dei palazzi
nobiliari ancora devastati dalla furia del terre-
moto ma nelle piazze e nelle strutture realizza-
te durante l’emergenza post sismica.
Nei giorni della festa L’Aquila ospita le dele-
gazioni di molte città e di tutti i comuni rappre-
sentanti gli antichi contadi che nel 1254, come
raccontano le cronache dell’epoca, contribui-
rono a fondarla.
Si tramanda che fossero 99 le contee che
vollero riunirsi in una nuova città: infatti essa
ha 99 piazze, 99 chiese, 99 fontane.
Gustare l’Italia27
Nel pomeriggio del 28 agosto inizia la sfilata
in costume d’epoca con tutte le delegazioni
delle contee e i gonfaloni delle città ospiti; il
corteo della Perdonanza parte dal palazzo del
comune e arriva fino alla Porta Santa della Ba-
silica di Collemaggio.
La “Dama della Bolla” accompagnata da un
“Giovin Signore”, in coda al corteo, reca con
sé la Bolla del Perdono.
Arrivati davanti alla Porta Santa, un rappre-
sentante del Sacro Collegio bussa tre volte al-
la porta, che viene aperta dall’interno.
Da quel momento, per un giorno intero,
chiunque può attraversare la
porta e ricevere il perdono
da tutti i peccati.
Dopo il tramonto del 29
agosto, chiusa la Porta San-
ta, la Bolla rientra in comune
in corteo, stavolta scortata
solo dagli aquilani, gli sban-
dieratori cittadini e le autorità
locali. La serata trascorre in
festa con orchestre e spetta-
coli all’aperto fino a conclu-
dersi con un’esibizione di
bellissimi fuochi d’artificio.
Questa festa non è molto nota in Italia, nono-
stante l’importanza religiosa dell’evento, ma la
sua popolarità aumenta di anno in anno, tanto
è vero che nel 2010 l’apertura della Porta San-
ta è stata celebrata dal cardinale Walter Ka-
sper, prefetto della Congregazione per l’Unità
dei Cristiani. Quest’anno sarà la volta del car-
dinale Angelo Comastri, Vicario Generale di
Sua Santità per la Città del Vaticano.
Dopo la processione, gli aquilani continua-
no i festeggiamenti a casa con gli amici di
sempre; si preparano le ricette tradizionali
che in una località di montagna sono tutte a ©
Ran
iero
Piz
zi (4
)
28Gustare l’Italia
base di quegli ingredienti che la natura aspra
può offrire. Noi abbiamo la fortuna di essere
invitati da Carla Zoppi, una grande donna, ma-
dre di tre splendidi figli, ma soprattutto una
cuoca sopraffina. Ci offre una cena indimenti-
cabile a base di “olaci”.
Gli olaci sono spinaci selvatici di montagna
che dalle parti dell’Appennino aquilano cre-
scono da fine maggio a luglio inoltrato vicino
agli stazzi degli ovini a quote superiori ai
1700 m.
La passione di Carla per le cose buone non
ha fine, e in questo caso è andata a cercare
gli olaci personalmente, da sola - lo ammet-
tiamo, su nostra richiesta - sui monti del Gran
Sasso.
Iniziamo con una frittata agli olaci come en-
treé, accompagnata da una nuvola dolcissima
di ricotta di capra di montagna. Il piatto forte
sono le mezze maniche con gli olaci.
Il condimento di questo primo piatto tradizio-
nale aquilano è costituito essenzialmente da
questi spinaci selvatici prima scottati e poi “ri-
passati” in padella.
Carla cuoce la pasta in abbondante acqua
bollente e, appena è al dente, inizia a mante-
care la pasta con la verdura. Aggiunge olio ex-
travergine di oliva e, dopo pochi minuti, i piat-
ti sono in tavola.
Un sapore inimitabile, delicato e intenso. Il
tutto è accompagnato da un vino spumante
rosato di Montepulciano Cerasuolo d’Abruzzo
2010 sboccatura 2011 che ben si abbina ai
piatti detergendo i grassi con l’effervescenza
naturale.
Per secondo propone un rolleé di vitello al
forno farcito con salsicce e odori. Poi crostata
di albicocche e frutta a piacere. Per finire chiu-
diamo la serata con un nocino casereccio co-
me è tradizione aquilana.
© F
abriz
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imin
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)
www.restipica.net
L’Associazione Res Tipica è stata creata dall’ANCI nel 2003 per promuovere in Italia e nel mon-do le identità territoriali e ad oggi riunisce 27 Associazioni di Identità, 1.842 Comuni, 4 Unioni di Comuni, 40 Province, 2 Regioni, 51 Comunità Montane, 8 Enti Parco, 8 Strade del Vino, 11 Camere di Commercio, per un totale di quasi 2000 Enti locali.
Il network, rivolto principalmente ai Comuni di piccole e medie dimensioni, intende preserva-re e favorire l’immenso patrimonio che incorpora i saperi delle comunità, le caratteristiche dell’ambiente e le produzioni tipiche, trasformando questo grande capitale culturale e socia-le in qualità della vita e in occasioni di sviluppo sociale ed economico rispettoso dei valori e della cultura locale.
ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI
30
di E
nzo
Mel
i
Turismo ed economia, strumenti di crescita
strettamente correlati, per un territorio, quello
di Ispica, in provincia di Ragusa, che punta a
un ulteriore salto di qualità. Il piccolo comune
siciliano continua a investire nelle ricchezze
che la natura gli ha regalato e che la sua gente
è riuscita a tutelare e sviluppare.
Tardo barocco ma anche antiche vestigia di
culture rupestri, palazzi nobiliari e monumenti
che nel Val di Noto fioriscono e s’impongono
nel panorama locale.
Ecce
llenz
e ita
liane
Un piacere per la gola, un piacere per il corpo
Ma c’è anche la carota novella, ortaggio che
a Ispica rappresenta un’importante fonte di
ricchezza economica, e che da gennaio ha ot-
tenuto in via definitiva il riconoscimento IGP.
La Carota Novella di Ispica ha la sua pecu-
liarità proprio nel periodo di produzione, che è
compreso tra il 20 febbraio e il 15 giugno; è un
prodotto che non viene “frigoconservato”, ha
una colorazione intensa e un profumo deciso.
Croccante, fresca e dietetica. Tra le sue pro-
prietà vanta la ricchezza di betacarotene e di
Gustare l’Italia
31
nuova stagione che porterà
nuovi brillanti risultati in termini
di aumento di produzione e com-
mercializzazione. Segnali importanti
per la crescita economica di
tutto il territorio, ulteriormen-
te qualificato dal riconosci-
mento Igp di uno dei suoi
prodotti d’eccellenza”.
Un Consorzio di tutela
giovane ma determinato,
che intende ampliare i pro-
pri orizzonti. “È fonda-
mentale mettere in moto
la macchina - spiega il
presidente dell’organi-
smo, Carmelo Calabrese
- con 14 aziende produt-
trici per una superficie cer-
tificata di circa 300 ettari.
Siamo riusciti a vendere il
primo prodotto con imbal-
laggi unici, pur con i pro-
blemi fisiologici presenti
in ogni start up aziendale,
ma i risultati cominciano ad
arrivare. Il primo monitorag-
gio verrà effettuato a giugno,
quando l’organismo deputa-
to al controllo delle superfici,
dalla coltivazione al confe-
zionamento alla vendita, in
base al disciplinare Igp, trarrà
le prime conclusioni”.
Ma ci sono ulteriori possibili-
tà, quelle legate alla cosmesi:
Emanuele Egiziano, dottorando
all’Università di Pisa, nella sua re-
lazione dal titolo “Aspetti funzionali
dell’estratto di Carota Novella di Ispi-
ca IGP: applicazioni cosmetiche”, è
entrato nel dettaglio.
altre vitamine dei gruppi B, PP, D ed E, che la
rendono importante per la vista e la pelle; re-
centi ricerche avrebbero messo in evidenza le
sue proprietà antitumorali.
Ma non è tutto. Per la Carota Novella Igp di
Ispica si aprono nuovi scenari. Resta un punto
fermo, naturalmente, il prodotto in sé, apprez-
zato per le sue qualità riconosciute dal mar-
chio di Indicazione Geografica Protetta, ma la
promozione delle peculiarità dell’estratto di
“Carotispica” per uso cosmetico sta spalan-
cando nuovi orizzonti.
Se ne è discusso a Ispica nel corso di un
convegno dal titolo “Sviluppi e scenari futuri
della Carota Novella di Ispica IGP”, organizza-
to nell’ambito della manifestazione Carotispi-
ca 2011, prima uscita ufficiale dopo l’otteni-
mento del marchio.
“Dal 7 gennaio il marchio Igp alla Carota No-
vella di Ispica è definitivo - spiega il sindaco
Piero Rustico - e il ruolo del giovanissimo Con-
sorzio di tutela continua a essere fondamenta-
le. Il 2011 è l’anno che segna l’avvio di una
Gustare l’Italia
32Gustare l’Italia
to più chiaro e per questa ragio-
ne è possibile, per esempio,
inserirne una maggiore quantità
in una crema, potenziandone
l’efficacia senza rischiare di
macchiare la pelle”.
Uno sviluppo da non sottova-
lutare in un quadro generale mol-
to ambizioso: “In Sicilia ci sono
circa 1500 ettari di coltivazione di
carote novelle - dice il vicepresi-
dente del Consorzio, Massimo
Pavan - e nei prossimi tre anni
puntiamo a raggiungere il 30% di
prodotto commercializzato con il marchio Igp
della Carota Novella di Ispica. Il percorso per
fare conoscere il prodotto al consumatore non
è semplice ma ci stiamo impegnando a fondo.
Abbiamo ovviamente avviato i contatti con la
grande distribuzione - italiana ed estera - e
stiamo lavorando anche sul fronte della pro-
mozione attraverso bandi regionali, nazionali e
comunitari per intercettare risorse”.
Torniamo al cibo: cotta o cruda, per le diete
e per la vista, per stare bene, insomma, la ca-
rota novella può avere diversi utilizzi, anche
per accompagnare il gelato.
Per info: www.carotanovellaigp.it
L’Università di Pisa, nei laboratori di Tecnica
Farmaceutica della Facoltà di Farmacia, ha
assunto un ruolo di coordinamento con le
aziende (Extracta snc, Devè srl, Egeria Pharm
sas) e di valutazione dell’efficacia degli estrat-
ti della Carota Novella di Ispica Igp rispetto
agli estratti attualmente in commercio.
Quattro le formulazioni sulle quali il laborato-
rio ha operato: un olio abbronzante, una cre-
ma solare, una crema viso e una crema corpo.
I risultati sono lusinghieri: “Abbiamo verificato
che gli estratti della Carota di Ispica ricavati in
laboratorio presentano un’attività antiossidan-
te superiore a quella degli estratti attualmente
in commercio. I carotenoidi contenuti, invece,
sono leggermente infe-
riori agli altri analizzati,
questo a indicare che
l’attività antiossidante
non è legata direttamen-
te alla concentrazione di
carotenoidi ma all’intero
fitocomplesso presente
nell’estratto.
Anche quest’ultimo
dato può essere letto in
chiave positiva: una
presenza inferiore di ca-
rotenoidi rende l’estrat-
Gustare l’Italia33
Ecco quindi alcuni spunti per esaltare il sapore della Carota Novella di Ispica Igp, suggeriti da
Giuseppe Bono, consulente enogastronomico de “Il Mercato” di Ispica.
Lolli con guanciale, anice stellato e Carota Novella di Ispica
Ingredienti: (dosi per 4 persone): 500 gr. di lolli (pasta tipica iblea) - 400 gr. di Carota Novella di Ispica Igp - guanciale di maialino nero dei Nebro-di - anice stellato - aglio - sale - pepe nero
Preparazione: saltare il padella insieme all’aglio la carota ridotta a mirepoix con l’olio e il guancia-le. Aromatizzare con l’anice stellato.
Cuocere la pasta e farla saltare con la crema ot-tenuta. Servire caldo.
Flan di Carota Novella di IspicaIngredienti: (dosi per 4 persone): 400 gr. di Ca-
rota Novella di Ispica Igp - 300 gr. di ricotta vac-cina - 50 gr. di olive verdi - sedano - cipolla - ba-silico - sale - aceto di vino rosso - olio extravergine d’oliva
Preparazione: far stufare la carote in una pento-la con cipolla, sedano, un filo d’olio e aceto. Ri-durre a crema con un frullatore a immersione, amalgamare la ricotta e aggiungere del basilico.
Prendere degli stampini conici da forno, oliarli e riempirli con il composto ottenuto.
Cuocere in forno a 130° per 10 minuti. Sfornare tiepidi e servire.
Reginette con canocchie e crema di carote al cardamomo nero
Ingredienti: (dosi per 4 persone): 350 gr di pasta formato reginette - 300 gr. di Carota Novella di Ispi-ca Igp - 500 gr. di canocchie - porro - sedano - cardamomo nero - sale - olio extravergine d’oliva
Preparazione: soffriggere il porro e il sedano con l’olio extravergine, aggiungere le canocchie e fare cuocere per pochi minuti.
Aggiungere la crema di carote e aromatizzare con il cardamomo.
Far cuocere la pasta, scolare e fare saltare in pa-della con la crema ottenuta. Servire calda.
Gelato alla carota Ingredienti: 450 ml d’acqua - 300 gr. di Carota
Novella di Ispica Igp - 130 gr. di zucchero - 5 gr. di farina di semi di carrubo
Preparazione: lavare le caro-te e passarle con il passaver-dura. Unire il succo di carota ottenuto all’acqua tiepida.
Mescolare lo zucchero con l’addensante e aggiungere la miscela al composto di carota e acqua.
Mantecare il tutto nella gela-tiera e servire con foglie di ba-silico e timo limonato. Ric
ette
34Gustare l’Italia
di F
ranc
esco
Mar
ia M
ont
ella
L’estate di Gradotra spiagge, casoni
e buona cucinaLa v
acan
za
Gustare l’Italia35
Scoprire davvero Grado significa conosce-
re tutto ciò che rende unica una vacanza in
questa località di mare: qui storia, tradizione,
mare, natura, enogastronomia e un ricco ca-
lendario di eventi fanno dell’isola d’oro, così
chiamata per la sua sabbia finissima baciata
dal sole, una meta turistica capace di regalare
emozioni sempre nuove e una vacanza dalle
molteplici sfaccettature.
Prediligere Grado significa avvalersi di strut-
ture altamente qualificate e di una ricettività
che risponde a qualsiasi esigenza di vacanza:
si può scegliere tra numerosi alberghi, oppure
attrezzatissimi e moderni campeggi, residence
turistici, appartamenti e affittacamere.
Arrivando da Nord, costeggiando il luccican-
te specchio d’acqua della laguna e attraver-
sando il ponte girevole del Belvedere costruito
nel 1936, si giunge finalmente sull’Isola di Gra-
do. Viceversa, arrivando da Est e oltrepassan-
do l’ordinata campagna si arriva alla Pineta, il
polmone verde dell’isola.
36Gustare l’Italia
Il centro storicoGrado conserva intatto il fascino senza tem-
po di un’isola lagunare dalla lunga storia, testi-
moniata dall’intreccio di calli e campielli con
monumenti di straordinaria bellezza, e la sug-
gestione di una laguna quasi incontaminata,
che attraggono turisti e nel corso degli anni
hanno anche ispirato scrittori, artisti e registi.
Considerata fin dall’Ottocento la più ambita
spiaggia dell’Impero Austro-Ungarico, Grado,
antico borgo di pescatori situato tra l’omoni-
ma laguna e il Mare Adriatico, vanta una storia
che risale alla Gradus romana del II sec d.C. e
che continua ad affascinare turisti e artisti di
tutto il mondo.
Basta addentrarsi nell’intreccio di strade rac-
chiuse fra le mura del castrum (V sec. d.C.) per
scoprire opere di rara bellezza, iscrizioni latine,
frammenti scultorei, architetture medioevali e i
caratteristici camini, opera e marchio incon-
fondibile di fantasiosi manovali.
Le mura del castrum raccontano di un pas-
sato lontano che s’intreccia con quello di
Aquileia - della quale Grado fu prima porto
marittimo, poi rifugio e infine rivale, - e con
quello di Venezia, di cui l’Isola del Sole può
considerarsi la “madre” in senso storico e re-
ligioso, avendole trasmesso il prestigioso ti-
tolo patriarcale.
Nel V e VI secolo le ricorrenti minacce barba-
riche trasformarono l’abitato in fortezza, dove
trovarono rifugio i vescovi di Aquileia.
Gustare l’Italia37
È a quest’epoca che risalgono le splendide
chiese che ancora oggi caratterizzano il centro
storico. In Campo dei Patriarchi, proprio nel
cuore della città, si affaccia, infatti, la triade di
mirabili edifici paleocristiani: la Basilica di San-
ta Eufemia, il Battistero e la Basilica di Santa
Maria delle Grazie.
Il Duomo (Basilica di S. Eufemia) custodisce
le testimonianze dei suoi quattordici secoli di
storia, come l’ambone romano, la pala vene-
ziana in argento e, nell’abside, l’affresco goti-
co del “Cristo in gloria”.
L’armoniosa architettura degli interni è scandita
dal ritmo dei colonnati e dal mirabile mosaico
pavimentale, mentre a destra dell’abside centra-
le si apre la cappella-mausoleo del patriarca Elia,
fondatore della chiesa, dove sono custodite le
preziose opere di oreficeria e argenteria dei se-
coli VI e VII del Tesoro del Duomo.
Nel lato sud si erge il campanile medioevale
sulla sommità del quale svetta l’inconfondibile
Angelo segnavento, dono veneziano e simbo-
lo, ormai, di tutta la comunità di Grado.
38Gustare l’Italia
Il turismo nei tipici “casoni”Scenario naturale d’indiscutibile bellez-
za e straordinaria ricchezza naturale, la
laguna di Grado comprende due riserve
che ne custodiscono la biodiversità, e
accompagnano i turisti alla scoperta di
questo ricco patrimonio.
Qui, per far sperimentare in prima perso-
na la vita in laguna, è stato realizzato il pri-
mo albergo diffuso in ambiente lagunare
in Europa, che verrà inaugurato a breve.
Meno di un secolo fa tutta la vita dei gra-
desi si svolgeva nelle oltre 200 isole della
laguna, come testimonia il paesaggio di-
segnato da canali e valli da pesca per l’al-
levamento di cefali e branzini, isole puntinate
di “casoni” e sporadiche costruzioni.
Abitazioni umili interamente costruite con ma-
teriali reperibili in laguna (legno, fango, canna
palustre), i “casoni” fungevano inizialmente da
riparo per i pescatori che facevano la spola tra
Grado e Marano. Essi costituiscono oggi una
straordinaria testimonianza della storia della la-
guna e del rapporto equilibrato e rispettoso
mantenuto tra i graesani e il loro ambiente.
Con l’obiettivo di conservare e valorizzare
al meglio il patrimonio storico-culturale lagu-
nare, la Regione Friuli Venezia Giulia ha co-
finanziato la realizzazione del primo albergo
diffuso in laguna a livello europeo attraverso
la ristrutturazione e lariqualificazione dei
“casoni” in chiave ecocompatibile.
Il progetto “Ospitalità originale in laguna”
rappresenta un modo per promuovere una ti-
pologia di turismo sostenibile con benefici sul
Gustare l’Italia39
recupero degli ambienti, possibilità di integra-
zione del reddito per i privati coinvolti, ma so-
prattutto uno strumento interessante e non in-
vasivo per scoprire e sperimentare in prima
persona la vita in laguna in tutti i suoi aspetti,
dalla natura alla storia, dalle tradizioni all’ec-
cellente gastronomia.
Tra pochi mesi, la nicchia di turisti più esigen-
ti, alla ricerca di un’oasi inconsueta di benes-
sere e relax, avrà così la possibilità di soggior-
nare nei casoni ristrutturati della laguna,
sperimentando le attività che essa offre, dalla
pesca alla canoa, in un ambiente assoluta-
mente unico nel suo genere.
40Gustare l’Italia
Un spiaggia su misuraRecord nazionale con 22 Bandiere Blu, tre
spiagge interamente rivolte a sud e quindi
esposte tutto il giorno ai raggi solari, 120.000
mq di sabbia dorata e ricca di minerali,
strutture qualificate e un ricco e variegato
programma di animazione con iniziative per
tutta la famiglia fanno di Grado una destina-
zione balneare di primo livello.
Un vero paradiso per il turismo balneare:
Grado detiene il record nazionale di asse-
gnazioni grazie alla 22esima Bandiera Blu
ottenuta nel 2010 (la 21ma consecutiva) e
vanta il primato di essere l’unica località
dell’Adriatico a essere interamente rivolta a
sud e quindi esposta ai raggi solari per tut-
ta la giornata.
Circa 120.000 mq di sabbia dorata e ricca
di preziosi minerali suddivisi in tre spiagge
che offrono servizi differenziati ai propri tu-
risti, suggerendo un modo nuovo di vivere
la spiaggia.
• Spiaggia GIT: nel cuore di Grado, ad-
dossata alla zona centrale dell’isola, a due
passi dai principali hotel, negozi e ristoranti,
si apre l’ampia spiaggia GIT: una distesa di
sabbia d’oro, fiore all’occhiello dell’offerta
Gustare l’Italia41
balneare gradese per l’alta qualità delle strut-
ture e dei servizi offerti, che ha ottenuto
l’Oscar per l’ospitalità 2009 dalla rivista
“Spiagge d’Italia” nell’ambito della seconda
edizione del concorso che premia i 12 stabi-
limenti balneari italiani più innovativi.
Una spiaggia curata e controllata, con ac-
cesso a pagamento, per assicurare la massi-
ma sicurezza e mantenere un alto livello di
servizio per tutti i propri ospiti.
• Spiaggia costa azzurra: con-
centrandosi soprattutto sulle esigenze
dei suoi piccoli ospiti e delle famiglie, la
spiaggia Costa Azzurra di Grado, situa-
ta alle spalle del centro storico, sfrutta
l’ampia distesa di sabbia come scena-
rio d’eccezione per rappresentazioni
fiabesche, giochi, racconti e iniziative
speciali, anche sotto le stelle.
• Spiaggia di Grado Pineta: infine, a circa un km dal centro, al quale
è collegata da una comoda pista ciclabile, si
estende la spiaggia di Grado Pineta dove il pro-
fumo del mare si fonde con quello dei pini, il co-
lore dorato della sabbia al verde degli alberi.
A due passi dal verde, con una sezione ri-
servata agli amici a quattro zampe, Grado
Pineta organizza nei mesi di luglio e agosto
molteplici attività d’animazione per grandi e
piccini, distribuite durante l’intero arco del-
la giornata.
42Gustare l’Italia
Grado, una laguna da gustareLa ricchezza e il fascino della laguna, scrigno
di storia e natura, si manifestano anche a ta-
vola, nella qualità e nel gusto dei prodotti tipici
dell’enogastronomia locale.
Dall’asparago bianco di Fossalon, la cui pro-
duzione è iniziata oltre due secoli fa, al pesce
azzurro di cui è particolarmente ricca quest’area
dell’alto Adriatico, fino al santonego, una spe-
ciale qualità di assenzio marino dalle foglie co-
lor verde argentato, molto aromatico e con pro-
prietà digestive.
Nelle sue specialità tradizionali Grado è riu-
scita a trasporre sul piano del gusto l’incontro
tra mare e terra, combinando sapientemente i
sapori in un risultato di qualità che racchiude il
fascino del luogo e delle sue tradizioni. Così il
“boreto a la graisana”, il pesce azzurro e
l’asparago bianco di Fossalon sono diventati
emblemi del gusto dell’Isola d’Oro.
Ogni anno Grado dedica a queste tre specia-
lità, primizie per i palati, alcune rassegne, oc-
casione per locali e turisti di assaporare la
qualità unica dei prodotti della zona e scoprire
ricette tipiche e nuove interpretazioni.
L’asparago bianco di Fossalon, tenero e pre-
libato, si avvia al riconoscimento della Deno-
minazione di Origine Protetta (D.O.P.) da parte
della Comunità Europea.
In Friuli Venezia Giulia lo si coltiva su circa
250 ettari complesivi, certificandone la prove-
nienza con il marchio Igp (Indicazione Geogra-
fica Protetta Regionale).
I suoli d’elezione, comunque, sono quelli
sabbiosi, senza ciottoli, costituiti dalle alluvioni
recenti del Tagliamento, del Torre e dell’Ison-
zo, dalle dune costiere prospicienti la laguna di
Grado, nonché da alcuni terreni ottenuti con la
bonifica di Fossalon.
D’estate, con il fulcro nel mese di luglio, il
protagonista indiscusso delle tavole e delle
rassegne gastronomiche proposte dai risto-
ranti del centro è il pesce azzurro, che in
quest’area dell’alto Adriatico è considerato
dagli intenditori il migliore e il più saporito,
proprio in virtù dell’elevata salinità del mare e
dalla compresenza dei bassi fondali nella la-
guna gradese.
Con il termine “pesce azzurro” si designa-
no tutti i pesci di mare che vivono lontano
Gustare l’Italia43
dalle coste, ma che comunque non hanno
consuetudine col fondo marino. Sono pesci
valutati in base al sapore, adatti a cotture
semplici e immediate.
Per essere apprezzati in tutta la loro bontà
devono essere consumati molto freschi, cosa
che a Grado è assicurata dal lavoro della Co-
operativa dei pescatori che ogni mattina al
mercato ittico scarica in abbondanza di pe-
scato freschissimo, oggetto di un’animata
asta riservata ai commercianti
Il piatto gradese per eccellenza rimane però
il “boreto a la graisana”, la cui ricetta racchiu-
de la storia stessa dell’Isola di Grado.
Emblema di una vita fatta di mare e di pesca,
nell’incantevole scenario della laguna, il boreto
è una pietanza unica per la semplicità degli in-
gredienti e della preparazione, creata in origine
dai pescatori locali e tramandata di generazio-
ne in generazione.
Primario sostentamento dei gradesi che abi-
tavano i “casoni”, le tipiche abitazioni di paglia
e canne palustri degli isolotti lagunari, è entra-
to presto nelle mense delle famiglie abitanti
l’antico borgo del castrum e da lì innalzato fino
alle alte sfere della cucina gradese.
Come accompagnamento un ottimo vino friu-
lano, preferibilmente rosso, come lo “Schiop-
pettino”, visto che in passato il bianco, avendo
la tendenza a trasformarsi presto in aceto, fini-
va nella preparazione stessa del boreto.
Mentre il digestivo principe è il “santonego”,
una speciale qualità di assenzio marino, pian-
ticella perenne dalle foglie verde argentato,
aromatico e digestivo.
44Gustare l’Italia
Tradizioni gradesiFedele alle proprie tradizioni, da secoli l’Isola
di Grado dedica il primo week-end di luglio alle
celebrazioni religiose del “Sabo Grando” e
“Perdon de’ Barbana”, con la caratteristica pro-
cessione in barca verso l’Isola di Barbana per
rendere grazie alla Vergine che nel 1237 salvò
l’isola da una terribile epidemia di peste.
Da secoli il sentimento religioso e l’attacca-
mento alle proprie tradizioni rivivono con la più
bella e sentita festa dell’isola.
I festeggiamenti interessano tutta l’area del
centro storico, dove sono allestiti mercatini di
prodotti tipici, si svolgono concerti e degusta-
zioni enogastronomiche; la zona del porto dal
quale parte la variopinta processione di bar-
che addobbate a festa che, attraversando la
laguna, raggiunge il Santuario della Madonna
di Barbana nell’omonima isola, nel quale viene
officiata la funzione religiosa vera e propria.
Il santuario sorge nel punto esatto nel quale,
secondo la tradizione, nel 582, dopo una vio-
lenta mareggiata, fu ritrovata una statua lignea
della Madonna.
Interpretando il fatto come espressione del-
la volontà divina, il patriarca Elia vi fece co-
struire una chiesa dedicata alla Vergine, che
da quel momento divenne il fulcro del culto
mariano dei gradesi.
La devozione per la Madonna di Barbana fu
rafforzata da un altro episodio cruciale della sto-
ria della città: la fine di una terribile epidemia di
peste che afflisse l’isola nel 1237, il cui merito fu
attribuito a un intervento della Santa Vergine.
Gustare l’Italia45
• Sabo Grando (sabato grande): rappresenta una straordinaria occasione
di ritrovo nella quale riscoprire e assapo-
rare il folclore della vita gradese.
La vigilia della tradizionale processione
lagunare del “Perdon de’ Barbana” è, infat-
ti, una vivace giornata di festa, che anima
calli e i campielli del Castrum con mercati-
ni di prodotti tipici, canti, danze e musiche
gradesi, con l’esibizione della Banda Civi-
ca, e che culminano in un suggestivo spet-
tacolo pirotecnico sul mare.
Perdon de’ BarbanaLa domenica si svolge il tradizionale pel-
legrinaggio in barca verso l’Isola di Barba-
na per sciogliere un voto risalente al 1237.
La mattina il porto di Grado si affolla di pe-
scherecci addobbati a festa con pennoni, or-
tensie, ghirlande, bandiere e gran pavese.
Al grido di “In nome de Dio avanti!”, un vario-
pinto corteo di barche con a bordo le autorità
religiose e civili e i capofamiglia della comunità
gradese lascia il porto e inizia il pellegrinaggio
via mare per ricondurre al Santuario di Barba-
na la statua lignea della Madonna degli Ange-
li (conservata all’interno della chiesa paleocri-
stiana di Santa Maria delle Grazie, situata nel
centro cittadino).
Al termine di una messa solenne nel mona-
stero dell’isola, il corteo riporta la statua a
Grado per il “Te deum” lasciandosi alle spalle
una scia di ortensie, staccate dalle imbarca-
zioni dei fedeli.
46
di A
less
and
ro M
ilani
”Le acciughe fanno il pallone
che sotto c’è l’alalunga
se non butti la rete
non te ne lascia una”
Così cantava Fabrizio De Andrè, grande
amante e conoscitore del mare, citando un
modo di dire popolare genovese.
Le acciughe, nelle acque di fronte a Genova,
si uniscono in branco a forma di palla e fuggo-
Il pro
dutto
re
Le tante sfi dedel Tonno Colimena
no ad alta velocità non solo dalle reti dei pe-
scatori, ma soprattutto da quel grande preda-
tore che è il tonno alalunga.
Anche lui, a sua volta, non se la passa bene,
però, visto che la sua pesca è stata da tempo
regolamentata e fortemente ridotta.
Per evitare che esso scompaia dalle tavole
italiane è stato necessario selezionare al mas-
simo gli operatori del settore ai quali concede-
re il permesso di continuare a inseguirlo, tra le
Gustare l’Italia
47
onde mediterranee, in una lotta che sarà sem-
pre impari, ma il cui risultato non è già sconta-
to e che costa fatica anche al vincitore.
La scelta su chi possa avere l’onore e l’onere
di questa sfida è caduta su pescatori di prova-
ta onestà e metodi antichi: le tonnare di Torre
Colimena e la cooperativa dei pescatori di
Porto Cesareo, nello Jonio.
Sono loro che hanno ancora oggi la possibi-
lità di provare a catturare questi grandi signori
del mare e della tavola italiana. E spetta poi al
“Tonno Colimena” il compito (ma anche la fe-
licità e l’orgoglio di lavorare e commercializza-
re lo straordinario pescato.
“Tonno Colimena” - per tutti in paese sem-
plicemente “la fabbrica del tonno” - ha sede
nella zona industriale di Avetrana (TA), le
Gustare l’Italia
barche tra la baia di Torre Colimena e Porto
Cesareo e il motore nella famiglia Scarciglia/
Lomartire.
Chi pensa che inseguire i propri sogni di
bambino non porti da nessuna parte non avrà
interesse per questa storia, ed è libero di non
leggerla o di non crederci, ma tutto nasce da
un bambino di 5 anni, il piccolo Franco, che
- dopo aver costruito un arco e delle frecce di
legno - invece di fingersi Robin Hood e inse-
guire lepri e conigli, se ne stava ore e ore
sott’acqua ad aspettare i pesci più grandi, come
un novello Achab a sfidare tante Moby Dick.
Quando quel bimbo tanto amante del mare è
cresciuto, emigrato al Nord e tornato, e ha
aperto un ristorante, ha subito voluto che il pri-
mo passo fosse riprendere la caccia a quei
48Gustare l’Italia
Tonno Colimena inizia la sua attività nel 2007,
forte di tutta l’esperienza di anni e anni di pe-
sca tradizionale.
Può sembrare una banalità, ma qui davvero i
ritrovati della tecnologia e la possibilità di lavo-
rare in una struttura industriale sono semplice-
mente messi al servizio di tecniche e procedi-
menti antichi, e molte fasi della lavorazione
avvengono ancora come secoli fa, grazie al
solo lavoro delle mani.
Come poteva accadere di vedere un tempo,
di notte gli uomini salpano con le loro barche,
lanciano le reti ferrettare o il palamito, e torna-
no sulla costa con il pesce: tonno alletterato (o
tonnetto), tonno alalunga e palamita.
Una volta giunti a Torre Colimena trasportano
il pescato in fabbrica, dove - come faceva fino
a qualche tempo fa Franco - il tonno viene la-
vorato in giornata: pulito, cotto (rigorosamente
pesci. Non più soltanto per sé, per il gusto del-
la sfida personale, ma anche per i suoi clienti,
che dovevano poter godere dei frutti dello Jo-
nio, quel mare che si faceva ammirare, vicinis-
simo, dai tavolini del locale.
Più aumentavano i frequentatori del ristoran-
te, più occorreva pescare tonno. Era venuto il
tempo di coinvolgere anche quei gruppi di pe-
scatori che rischiavano di perdere un mestiere
o snaturarlo entrando nel circuito della pesca
intensiva. Era anche venuta l’ora di regola-
mentare un’attività tradizionale con tanto di
certificazioni e garanzie.
Nacque così in Franco, nel fratello Pompeo e
nel cognato Agostino, di riattivare l’antica ton-
nara di Torre Colimena e creare una fabbrica
per lavorare quei tonni che - nonostante la cri-
si e la crescente penuria di pesce - Franco
continuava a pescare per passione.
Gustare l’Italia49
non al vapore ma nel brodo di cottura, accom-
pagnato soltanto da acqua, sale, olio pugliese,
aceto e aromi mediterranei), tagliato e messo
sotto vetro (non dentro latte metalliche).
Alla fabbrica lavorano molte donne, che esal-
tano ulteriormente la bontà del prodotto con la
loro manualità e la passione di chi sta prepa-
rando il pranzo per la propria famiglia.
In locali nei quali - difficile a credersi per chi
abbia visitato impianti industriali dei più svaria-
ti settori dell’alimentare - non si sente nemme-
no “puzza” di pesce, ogni fase è controllata e
rispetta anche le più rigide norme europee,
grazie a un’altro dei figli di Franco, Paolo,
quello che più degli altri ha seguito le orme del
padre pescatore, diventando un punto di rife-
rimento nella “fabbrica del tonno”.
Aldilà del rispetto delle regole, i capisaldi del
Tonno Colimena sono altri, e alla famiglia
Scarciglia piace presen-
tarli come le 4 S: sapo-
rito, sano, sostenibi-
le e salentino.
Già, perché oggi
che si parla tanto di
filiera corta e pro-
dotti a kilometro
zero, sapere che qui
arriva soltanto pesce che
nuotava a poche miglia dalla costa di questa
parte dello Jonio tra Taranto e Gallipoli è una
bella garanzia.
Questa “bottega artigiana ingrandita” può in-
fatti vantarsi di rispettare la stagionalità della
pesca, di non sporcare i mari come i grandi
pescherecci oceanici, di non compiere mat-
tanze di delfini e altri cetacei, di non soccom-
bere alle leggi della pirateria industriale.
50Gustare l’Italia
Parlando con Giusep-
pe Scarciglia, figlio di
Franco, bastano due
semplici frasi per capi-
re come si ragiona da
queste parti.
Se infatti gli si chiede
quale sia la più grande
soddisfazione che gli ha
dato questa sfida, non
ha esitazioni nel rispon-
dere che consiste nel
fatto di non aver ancora
incontrato qualcuno -
esperti del settore com-
presi - che non abbia
detto che il Tonno Colimena non sia buono.
La seconda svela con naturalezza la mission
aziendale: dopo avermi chiesto se avessi visto
il servizio realizzato da Report sulla pesca in-
tensiva del tonno, Giuseppe mi dice che è la
prima cosa che fa vedere ai suoi agenti di ven-
dita, per dire: ecco, da noi non avviene niente
di tutto ciò. Citando Montale: “Ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo”.
Non stupisce quindi che di questo prodotto
se ne sia innamorato Slow Food, sempre alla
ricerca di quei “presidi” che rappresentano e
tutelano prodotti tradizionali di qualità ed ec-
cellenza, e lo abbia voluto presente a Slow
Fish, a Genova.
Forte della propria origine salentina e anche
di un’offerta che spazia ormai dai filetti di ton-
no alla ventresca, dal conditonno per la pasta
ai pomodorini ripieni, al Tiavolik, in salsa pic-
cante, oggi il Tonno Colimena non ha difficoltà
a imporsi per qualità sul mercato nazionale e
anche su quello estero, come dimostrato dai
successi raccolti in fiere internazionali, di set-
tore e non.
E pensare che questa sfida è nata “sempli-
cemente” dalla saggezza dei pescatori dello
Jonio…e dalla passione di un bambino di 5
anni che giocava con l’arco e le frecce
sott’acqua!
Per informazioni: www.tonnocolimena.it
Osp
italità
italia
na
52Gustare l’Italia
di A
less
and
ro M
ilani Reggia Domizia,
dove si sposanoclasse e passione
Gustare l’Italia53
“Roma non è stata costruita in un giorno”,
recita il proverbio.
Ma senza scomodare la Città Eterna, nem-
meno un albergo, un residence, un ristoran-
te possono nascere in una notte, come fun-
ghi, soprattutto se basano la propria filosofia
sul rapporto con il territorio.
Andando a ricercare le molle che spingono
verso un’azione, non sempre ci si trova di
fronte a freddi calcoli, business plan, ragio-
namenti e pianificazioni aziendali.
Spesso ci si imbatte invece in intuizioni,
passioni, talvolta azzardi, di certo molto più
interessanti da raccontare e da conoscere.
È il caso della storia di Reggia Domizia, lo
splendido relais situato sulla strada che da
Manduria porta a Sava, e poi ancora verso
Taranto. Reggia Domizia è infatti il punto
d’arrivo di un percorso iniziato oltre 40 anni
fa, quando Pompeo Scarciglia, partito da
Avetrana per andare a lavorare al Nord, per
l’esattezza a Brugherio, tra Milano e la
54Gustare l’Italia
Brianza, viene raggiunto dal fratello Franco e
dal cognato Agostino Lomartire.
Sono loro, tre uomini, poco più che ragaz-
zi, del Salento tarantino a comporre la squa-
dra che otterrà quei risultati che porteranno
a Reggia Domizia.
Lavorando inizialmente nella gestione di al-
cune mense aziendali della cintura milanese,
in poco tempo acquisiscono esperienza e
soprattutto riconoscimenti tali da poter in-
traprendere attività in proprio nel campo del-
la ristorazione.
Il modo con il quale trattano la clientela e
soprattutto sembrano anticiparne e caval-
carne gusti ed esigenze permette loro di di-
ventare sempre più conosciuti, stimati e
fuggire da quello stato di necessità che li
aveva spinti a emigrare al Nord, abbando-
nando una terra meravigliosa ma arida di
possibilità lavorative stabili. Mentre Agosti-
no decide di continuare l’esperienza in
Lombardia, Franco sente troppo forte il ri-
chiamo della sua terra, anzi, del suo mare, il
suo habitat naturale.
Senza di esso sta male e decide di tornare
in Puglia. E qui cosa può fare? Continuare a
lavorare nel campo della ristorazione, ovvia-
mente. Individuato il luogo giusto, sulla co-
sta, a Torre Colimena, occorre lanciarsi. A
rispondere subito è ancora una volta la fami-
glia: il fratello e il cognato decidono di inve-
stire parte dei ricavi delle mense nella co-
struzione de La Scogliera, un locale sul mare
che possa avere anche un residence per i
turisti e grandi sale per i matrimoni.
Al Nord questi ragazzi salentini hanno co-
Gustare l’Italia55
possibile. Perché è la famiglia a passare
dalla teoria alla pratica e fare gli investimen-
ti, compreso chi è rimasto al Nord.
Se dovessimo utilizzare una metafora cal-
cistica, nella sq uadra della famiglia Scarci-
glia i ruoli sono sempre stati ben definiti:
Pompeo, purtroppo recentemente scompar-
so, era il mediano, che faceva il lavoro di fa-
tica e rubava palla agli avversari, Franco è il
regista, con l’intuizione vincente, che sa già
cosa fare prima ancora di avere il pallone tra
i piedi, Agostino il trequartista, libero di spa-
ziare per il campo con la sua simpatia imme-
diata, il suo sorriso e il suo saper trattare,
con il semplice cliente così come con il
grande politico. I figli di Franco gli attaccan-
ti, i finalizzatori, quelli che devono correre e
buttare la palla in rete.
Questa vera e propria “fabbrica di idee”
non ne vuole sapere di fermarsi: un’altra
nuova intuizione emerge, e tutti sanno che è
quella giusta, ancora una volta.
Organizzando ormai da anni matrimoni a
La Scogliera, intuiscono che la tendenza nel
festeggiare le nozze, soprattutto in una re-
gione come la Puglia dove spesso si trasfor-
mano in un evento epocale, si sta spostando
dalla costa verso l’interno.
nosciuto un nuovo tipo di risto-
razione e un certo senso degli
affari, e capiscono che i gusti
della clientela locale stanno
cambiando: iniziano quindi a of-
frire la cucina del territorio, di
terra e soprattutto di mare, con il
pesce appena pescato.
Il successo de La Scogliera è
immediato, sia per i matrimoni,
sia per chi vuole provare i piatti di
Franco, al quale si devono la
maggior parte delle ricette del lo-
cale. E i clienti sono quasi tutti
del posto, o dei paesi vicini, per-
sone che hanno trovato un angolo di paradi-
so dove festeggiare le nozze dei figli o assa-
porare pesce freschissimo, soprattutto tonno,
godendo dello spettacolo dello Jonio attorno
alla quattrocentesca torre d’avvistamento.
La Scogliera è ancora oggi il locale ideale
per gustare la vera cucina tradizionale di
questa zona del Salento: pesce, come det-
to, e frutti di mare, ma anche tanta verdura
(a metro zero, non a kilometro zero, visto
che la maggior parte di casa proviene
dall’orto di famiglia), legumi, carne, dolci e
liquori fatti in casa. Una cucina basata su
ingredienti semplici che si esaltano recipro-
camente in uno straordinario trionfo di sa-
pori autentici.
Il successo de La Scogliera non ferma la
fantasia e l’intuito di Franco, il quale, vista la
crescita del turismo stagionale sulla costa,
fatto soprattutto di giovani, pensa che oc-
corra un locale apposta per loro: nasce così,
sempre a Torre Colimena, lo Ziu Belo, pizze-
ria e discobar per cena e dopocena di ra-
gazze e ragazzi.
Lo affida ai due figli maggiori, Giuseppe e
Antonella, ma il progetto ottiene ancora una
volta l’ok entusiasta di tutta la squadra. Un
affare di famiglia, nell’accezione migliore
56Gustare l’Italia
Il territorio vanta ville antiche e numerose
masserie che ben si prestano a ricevimenti
sfarzosi, in ambienti spaziosi e protetti, lon-
tani dai paesi, molte volte in contesti sugge-
stivi e carichi di storia.
Pompeo, Franco Agostino questo lo capi-
scono prima del boom delle nozze in masse-
ria, ma per “buttarsi” devono trovare un luo-
go adatto, non una location qualsiasi.
Reggia Domizia nasce così nel 2007, ma-
gari un po’ in ritardo rispetto ai piani, ma fi-
nalmente là dove in grado di trasformarsi da
uno dei tanti posti per novelli sposi in un re-
lais straordinario, dove i fidanzati possano
sognare “quel giorno” di invitare orgogliosi
amici e parenti.
Reggia Domizia, infatti, è questo ma anche
molto di più. Gestita da Giuseppe, che ha la-
sciato lo Ziu Belo alle cure della sorella An-
tonella e di suo marito Filippo, ha sì un oc-
chio di riguardo per le coppie nel giorno del
sì, ma anche per una vacanza all’insegna del
relax e dell’alta gastronomia di qualità.
La struttura originaria del complesso è
Ingredienti per 4 persone: un vasetto di
conditonno Colimena da 180 gr; 400 gr di
cavatelli freschi; 150 gr di pomodorini; olio
extravergine d’oliva; uno spicchio d’aglio; 50
gr di cipolla fresca; 100 gr di prezzemolo.
Ingredienti facoltativi (per gli amanti dei sa-
pori intensi): 50 gr di olive nere; 10 gr di ac-
ciughe sott’olio; peperoncino fresco
Procedimento: Far bollire l’acqua, salarla e
versarvi la pasta. Nel frattempo versare in un
saltiere l’olio e portare a fiamma alta: aggiun-
gere la cipolla tritata e lo spicchio d’aglio
(anche intero, per poi toglierlo dopo la cottu-
ra) e far rosolare. Una volta imbiondita la ci-
polla, unire i pomodorini e far rosolare a
fiamma alta, spolverando con il prezzemolo
tritato fresco. Completata la cottura dei po-
modorini (circa 5/7 minuti), spegnere il fuoco
e versare nel saltiere il contenuto del vasetto
di conditonno. Ultimata la cottura della pa-
sta, unirla al composto preparato e mante-
care bene a fiamma spenta spolverando
con prezzemolo tritato fresco e servire.Gli ingredienti facoltativi per gli amanti dei
sapori forti sono da aggiungere in fase di ro-
solatura.
Cavatelli al conditonno Colimena
Gustare l’Italia57
composta da una villa ottocentesca e
dall’annessa masseria.
La prima cosa che si è voluto fare è stato
il recupero, il più fedele possibile, dell’im-
pianto iniziale, adeguatamente ristrutturato
rispettando vincoli edilizi e architettonici, ma
anzitutto il gusto e il “senso” della villa.
Ai lavori ha sovrinteso anche Franco in
persona, rispolverando studi e passione di
quando, ragazzo, frequentava il liceo artisti-
co di Lecce.
Oggi Reggia Domizia può vantare, in am-
bienti perfettamente riadattati, saloni per ri-
cevimenti e salette per colazioni, cene e
pranzi più intimi, cortili e stanze eleganti. At-
torno al complesso, in un’area di 32 ettari
complessivi, prati, strutture en plein air sem-
pre per i banchetti e una piscina con giochi
d’acqua e di luce che sembra fatta apposta
per le foto di rito del book degli sposi.
Tutto ciò permette realmente una perso-
nalizzazione totale della festa di matrimonio,
che può consistere in un aperitivo all’aperto,
un banchetto a bordo piscina, una lussuosa
cena nei saloni interni, una festa danzante,
un ricevimento di classe e raffinato. Qui chi
convola a nozze può davvero creare da sé la
festa che ha in testa da anni.
Il servizio è il fiore all’occhiello di Reggia
Domizia. Nel solco della tradizione e sfrut-
tando l’esperienza di famiglia, qui tutto sem-
bra possibile agli ospiti. Chi sceglie questo
relais può godere di una dozzina di stanze
veramente accoglienti, la maggior parte del-
le quali senza dubbio definibili come suite,
anche a due piani o con l’idromassaggio.
Piccoli angoli felici dai soffitti altissimi, con
le volte a botte oppure le travi a vista, scale
in ferro battuto e rifiniture di classe, accom-
pagnate da bagni ampi e funzionali, frigobar
e tv satellitare.
La ricezione dell’hotel verrà ulteriormen-
te potenziata a breve, con un progetto di
aumento degli spazi adibiti a camere e con
la piena funzionalità di un centro benesse-
re con sauna, bagno turco, percorsi nella
58Gustare l’Italia
Gustare l’Italia59
60Gustare l’Italia
natura e cromo, aroma e musicoterapia.
In attesa che anche i devoti dello stare be-
ne olistico inseriscano questo indirizzo nella
loro rubrica, Reggia Domizia ha già di che
gratificare gli amanti del benessere conces-
so ai mortali attraverso l’alta gastronomia.
Il ristorante del relais è infatti di livello ele-
vatissimo: qui i piatti della tradizione salenti-
na si sposano con la sperimentazione culi-
naria dei moderni chef senza perdere di
vista i veri protagonisti dei piatti, cioè i pro-
dotti del territorio.
Idealmente complementare a quella de
La Scogliera, la cucina di Reggia Domizia
utilizza i tesori della terra e del mare in mo-
do più sofisticato, reinterpretando le ricette
tradizionali.
Non si punta alla semplicità, ma all’elabo-
razione creativa e
fantasiosa. Il risul-
tato è straordina-
rio, grazie alla ma-
estria dello chef e
del suo staff, ma
anche perché a
fornire la materia
prima è la stessa
azienda agricola di
famiglia che cir-
conda la villa.
L’ultimo assist della famiglia è per France-
sco, l’ultimo dei figli di Franco, che ha rag-
giunto Giuseppe a Reggia Domizia, posizio-
nandosi nelle grandi cucine, con il compito di
mantenere alta la bandiera della cucina che
negli anni ha regalato tante soddisfazioni.
Ma cosa rende davvero unica
Reggia Domizia in un contesto geo-
grafico nel quale sono sorte e anco-
ra stanno sorgendo numerose strut-
ture che offrono più o meno gli
stessi servizi?
Le risposte emergono già tra le ri-
ghe, dall’altissimo livello del servi-
zio alla fantasia in cucina, dalla ge-
nuinità dei prodotti alla possibilità
per gli sposi di personalizzare il
“gran giorno”.
Un ingrediente però soggiace a
tutto: la passione per il proprio lavo-
ro. È soltanto la passione che spin-
ge a curare il dettaglio, ed è solo il
dettaglio a rendere un posto unico,
come Reggia Domizia.
Se nel tempo, nella comunicazio-
ne turistica, il concetto di “condu-
zione” o gestione familiare non fos-
se finito a indicare quel tipo di
accoglienza sì calorosa e invitante,
ma anche semplice, “alla buona”,
Gustare l’Italia61
implicitamente segno di ristrettezza di
mezzi per poter fare di più, si potrebbe uti-
lizzare anche per Reggia Domizia.
La sua è infatti una conduzione familiare
- parlando con chiunque di loro appare
evidente che ciò che ha reso possibile tut-
to è stata ed è la forza del legame familia-
re - ma oggi questa famiglia di ristoratori
salentini vanta ormai nel campo dell’acco-
glienza esperienza e professionalità tali da
essere paragonati a una grande dinastia di
imprenditori.
Del resto, anche la FIAT è sempre stata
un’azienda a conduzione familiare…
Per informazioni:
Reggia Domizia
c/o C. da Pozzucupo – SS. 7 Ter. Mandu-
ria-Sava (TA) Tel. 099.9745111
www.reggiadomizia.it
Ingredienti per 4 persone : 600 g di filetto di tonno - 100
g di pistacchi sgusciati - 60 g di pinoli - 12 gamberi viola
- mezzo finocchio - un cuore di sedano - 6 ravanelli - un
cetriolo - una carota - un limone - un albume d’uovo -
olio extravergine d’oliva - finocchietto selvatico - farina -
pepe bianco - sale
Procedimento: pulire i gamberi viola dal carapace te-
nendo attaccati testa e coda, e condirli con olio, sale, pe-
pe, finocchietto selvatico, succo e buccia di limone.
Pulire le verdure, tagliarle a listarelle e creare un’insala-
tina di ortaggi condita con olio, sale e pepe.
Prendere il filetto di tonno e condirlo con sale e pepe
bianco a mulinello. Passare il tonno in poca farina, poi nell’albume snervato e infine avvol-
gerlo nel trito di pistacchi e pinoli.
Successivamente dorarlo in una padella antiaderente con un filo d’olio caldo e terminare
la cottura in forno a 180° per una quindicina di minuti.
La ricetta di Antonio Gentile, Chef di Reggia Domizia: filetto di tonno in crosta di pistacchi e pinoli su insalatina di ortaggi e gamberi viola di Gal-
lipoli al finocchietto selvatico
62Gustare l’Italia
di R
ob
erto
Mo
ttad
elli
Si fa presto a dire Puglia. Un solo nome per
almeno otto “sub-regioni” differenti, terre e
tradizioni distinte, a volte in reciproca contrad-
dizione, separate da storiche rivalità: in rigoro-
so ordine alfabetico, Arco Ionico, Gargano,
Murge, Salento, Subappennino Dauno, Tavo-
liere, Terra di Bari e Valle d’Itria.
Forse avevano ragione i maestri elementari
di una volta, quelli che, quando recitavano il
rosario delle regioni del nostro Paese, scandi-
vano “le Puglie”, rigorosamente al plurale.
E con la bacchetta discendevano lungo la
carta geografica picchiettando per qualche
istante sul tacco dello Stivale, ché occorreva
concedere il tempo necessario per far me-
morizzare la nozione.
Il mosaico (liquido)di Otranto
Il con
sorz
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groa
limen
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Gustare l’Italia63
© o
liop
uglia
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)
64Gustare l’Italia
Si potrebbe obiettare che ad accomunare
tutte o quasi le anime della Puglia - anzi, delle
Puglie - ci pensa il prodotto tipico locale per
antonomasia: l’olio, oro liquido, ovviamente
d’oliva ed extravergine.
Ma basterebbe approfondire un poco l’inda-
gine per scoprire che quello di “olio pugliese”
è un concetto relativo.
Perché le diverse varietà di olive coltivate
nella regione, e la natura eterogenea dei terre-
ni e dei microclimi, danno vita a prodotti non
certo identici tra loro, per quanto accomunati
dal livello qualitativo eccellente e da alcune
macrocaratteristiche ricorrenti.
Prendiamo l’olio “Terra d’Otranto DOP”. Se
non si conoscesse la geografia della regione,
lo si potrebbe pensare un
prodotto originario del-
la sola città che gli dà
il nome, celebre per
il mare e per gli stra-
ordinari mosaici del-
la cattedrale.
In realtà la sua zona
d’origine è decisamente
più ampia. Include infatti tutta la provincia di
Lecce, l’area orientale della provincia di Ta-
ranto e alcuni comuni meridionali della pro-
vincia di Brindisi.
Una striscia di terre rosse e brune, pog-
gianti su rocce calcaree, che unisce la costa
orientale a quella occidentale: l’ambiente
perfetto per coltivare due tipolo-
gie di olivi, la Cellina di Nardò e
l’Ogliarola salentina.
E proprio queste varietà, se-
condo il rigoroso disciplinare di
produzione, sono alla base
dell’olio “Terra d’Otranto DOP”: la
raccolta dei frutti deve avvenire
direttamente dalla pianta prima
dell’inizio di febbraio, mentre
l’oleificazione (che può avvalersi
solo di processi meccanici o fisi-
ci) deve avere luogo entro due
giorni dalla raccolta.
La cultivar Cellina di Nardò si
distingue da subito per l’altezza
degli alberi, che possono supera-
re i 12 metri: dai loro frutti si rica-
va un olio dall’aroma fruttato con
note di frutta e verdura, dal sapo-
re armonico che rilascia sensa-
zioni di mandorla, pomodoro ed
erba, piccante e persistente, con
retrogusto amaro.
L’Ogliarola dà invece vita a
un’extravergine sapido ma delica-
lo si potrebbe pensare un
prodotto originario del-
la sola città che gli dà
In realtà la sua zona
d’origine è decisamente
Gustare l’Italia65
tato, con media sensazione di amaro e una
sottile nota di piccante: caratteristiche “stan-
dard” che variano leggermente in base al peso
che ogni produttore attribuisce alla Cellina
piuttosto che all’Ogliarola, e che possono ac-
quisire ulteriori sfumature grazie all’aggiunta di
percentuali minori di altre olive, rigorosamente
coltivate in loco.
Si spiega anche così l’incredibile versatilità
dell’olio “Terre d’Otranto DOP”, che può ac-
compagnare tanto i primi piatti di pasta, quan-
to legumi e verdure cotte; si abbina ottima-
mente alla carne, ma dà risultati di assoluto
livello anche con il pesce…
Ed ecco che, quasi senza volerlo, si scopre
che le Puglie e l’olio “Terra d’Otranto DOP”
condividono lo stesso segreto, la stessa ine-
sauribile fonte di fascino: entrambi sono il frut-
to dell’incontro felicissimo tra identità vicine
eppure differenti.
Preziosi mosaici composti con tessere tra
loro perfettamente complementari, note squil-
lanti che si fondono in inattese armonie.
to, con note fruttate mai eccessive, leggermen-
te amaro e piccante, con sentori di carciofo.
Dall’incontro tra queste olive nasce un olio
di colore verde o giallo-verde e di sapore frut-
I turcinieddhri, scarti d’autore
Il cib
o di
stra
da
66Gustare l’Italia
di M
arco
Lo
cate
lli
Quando si parla di carne è facile sentire
l’espressione “tagli nobili”. Ovviamente non
esistono ceti sociali tra le parti di un animale
da macello, piuttosto esistevano in passato
diverse destinazioni delle suddette porzioni.
Ai ceti più abbienti erano riservati tagli pre-
giati quali filetto, fesa, costata e via dicendo,
mentre gli scarti, ovvero ghiandole e interiora,
erano recuperate dalle classi più povere.
Da qui l’aggettivo nobili. Da qui anche la
grandissima capacità di riciclo tipica della
cultura gastronomica italiana.
Molto spesso agli appassionati di cucina ri-
sulta difficile riprodurre tecniche di prepara-
zione e cottura tipiche del passato proprio
perché la situazione sociale è totalmente mu-
tata e i mezzi di allora sono stati soppiantati
da strumenti più moderni.
Un tempo fu proprio la necessità a far
aguzzare l’ingegno: rendere non solo com-
mestibili, ma anche di ottimo livello qualitati-
vo, cibi di scarto è sempre stata la grande ar-
te culinaria del nostro Paese.
Uno degli esempi di questa tradizione è
rappresentato dagli involtini di frattaglie tipici
della Puglia noti come torcinelli nel nord della
regione o turcinieddhri o gnummareddi nel
centro-sud.
Paese che vai, ricetta che troviSono infinite le varianti della ricetta degli
appetitosi involtini di carne: non solo cambia-
no da paese a paese, ma anche da rosticce-
ria a rosticceria e addirittura da famiglia a fa-
miglia. Tutte comunque prevedono l’utilizzo
di parti di scarto quali fegato, polmone, ro-
Gustare l’Italia67
gnone e timo avvolti da pezzetti di
budello di agnello o capretto. Ogni
cuciniere provvede poi alla speziatu-
ra che ritiene più adeguata al risulta-
to desiderato.
Purtroppo oggi è sempre più diffi-
cile procurarsi le parti necessarie
per la preparazione poiché smaltite
subito dal macellatore. E se anche
qualcuno avesse la fortuna di avere
l’amico macellaio disposto a recu-
perare per lui le parti di scarto, sorgerebbe
una nuova difficoltà: la pulizia delle interiora.
Questo processo è particolarmente lungo e
richiede una profonda conoscenza in quanto
le parti in questione sono organi interni con
funzioni sicuramente indispensabili, ma allo
stesso tempo poco nobili.
Lasciare residui in fase di pulitura vorrebbe
dire compromettere irrimediabilmente l’ali-
mento alterandone spiacevolmente il sapore.
Superati tutti gli scogli del caso è il momen-
to di effettuare una scelta su quali frattaglie
utilizzare. Alcuni escludono il fegato in quanto
eccessivamente saporito, altri invece lo rendo-
no protagonista; c’è chi insaporisce con la
ghiandola endocrina, chiamata timo o animel-
la, e chi invece preferisce usare quest’ultima
parte dell’animale “in purezza” poiché consi-
derata oggi prelibatezza gastronomica.
Ma soprattutto è necessario creare tra le
varie parti un equilibrio dal quale nascerà la
ricetta personale del rosticcere. Ora si passa
alla cottura, doverosamente alla brace, ma
questo merita un capitolo a parte.
Chi va piano…cuoce meglio!Come già detto, è la cottura alla brace la
caratteristica distintiva di questo prodotto,
ma il vero segreto sta nel tempo di cottura.
Mentre i torcinelli vengono perlopiù preparati
su apposite griglie alimentate a legna, gli
gnummareddi sono cotti nel tipico fornello
della Murgia.
In entrambi i casi il periodo di esposizione
al calore deve essere prolungato in modo da
permettere agli involtini di cuocere perfetta-
mente, al cuore e alla retina che li avvolge di
sciogliersi e amalgamarsi uniformemente.
L’abilità del grigliatore sta quindi nel dosare
il quantitativo di brace in modo da ottenere la
temperatura ottimale. Ciò accade ancor più
nel fornello, strumento tipico della Valle d’Itria,
dove il processo di cottura avviene con calo-
re indiretto: gli spiedi vengono posti sopra
questa enorme griglia a una distanza dal fuo-
co tale da permettere al calore di giungere
morigeratamente e alla carne di sostenere un
periodo d’esposizione superiore.
68Gustare l’Italia
Non bastano le parole per descrivere la
magia di queste rosticcerie antiche, è neces-
sario visitarne almeno una e assaporarne, ol-
tre agli ottimi prodotti, i profumi e l’atmosfera
così caratteristici e affascinanti.
Scegliere la migliore è praticamente impos-
sibile poiché ognuna è unica e speciale, ma
una può vantare di essere la più antica: da Vi-
to Serio, noto anche per gli abitanti del suo
paese, Martina Franca, come “U Salvasoda”.
Oggetto di vanto per gli abitanti del paese,
ma anche per tutti i tarantini in genere, que-
sto locale spartano, dove il consumo sul po-
sto è effettuabile esclusivamente sui banconi
a muro, trasuda tradizione e storia da tutti i
pori. Detto questo una visita alla terra del ci-
bo di strada più ghiotto, dei salumi più rino-
mati e dei pani più pregiati (per esempio quel-
lo di Altamura o quello di Laterza) pare
d’obbligo!
tanto energetici, era all’ordine del giorno per
i pastori e gli agricoltori che abitavano i trulli
durante le faticose giornate lavorative.
A maggior ragione l’apporto energetico for-
nito dai torcinelli (da torcere, attorcigliare) era
fondamentale per i pastori che praticavano la
transumanza spostando interi greggi dall’Ap-
pennino abruzzese fino ai Monti Dauni.
Attraverso i tipici sentieri montani, detti anche
tratturi, per effettuare la traversata, le soste per
rifocillarsi erano spesso caratterizzate dal con-
sumo dei golosi involtini cotti su qualche
falò improvvisato, magari accompagnati
da pecorini prodotti in altura.
Quella che oggi potremmo definire co-
me “pausa gourmet” era allora una pra-
tica all’ordine del giorno e il termine cibo
di strada aveva un reale significato, mol-
to meno radical chic, se così si può dire,
rispetto ai nostri giorni.
Bisogna inoltre riconoscere che gran
parte del merito per la salvaguardia e il
recupero di queste tradizioni gastrono-
miche popolari va riconosciuto all’as-
sociazione Slow Food che, in stretta
collaborazione con la condotta di Albe-
robello, da anni promuove e sostiene la
scienza di questi artigiani della carne, diffon-
dendo i loro meravigliosi prodotti anche al di
fuori dei confini regionali tramite manifesta-
zioni gastronomiche nelle quali sarebbe da
folli non effettuare almeno una sosta per de-
gustare un’animella, uno gnummareddo o
una bombetta.
Cibo di strada, ma anche di sentieroIndubbiamente gli gnummareddi, il cui no-
me deriva dal termine latino glomu passato
poi in volgare in gnomerru che significa gomi-
tolo, sono stati e sono tuttora un cibo di stra-
da contadino.
Nella valle centrale della Puglia il consumo
di questi involtini altamente calorici e altret-
© o
livia
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it
PATINATA GUSTARE L'ITALIA 210x275 CON 5mm di Taglio.pdf 1 24/01/11 15.35
Una regione, un vino,molte anime
Il con
sorz
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itivin
icol
o
70Gustare l’Italia
di E
mili
ano
Rac
cag
ni
Al vino rosato, fare il fratello povero tra
bianchi e rossi va oggi sempre più stretto:
dalla Daunia al Salento, passando per le Mur-
ge, in Puglia a questo vino si crede da decen-
ni, al di là delle mode.
Nel mondo del vino, abituato a una buona
dose di mode più o meno passeggere, c’è
una categoria che oggi sta conoscendo un
momento di grande visibilità e crescita. È
quella dei rosati. Considerati per moltissimi
anni come i figli molto minori del dio Bacco,
questi vini stanno riguadagnando spazio, per
quel che conta, nelle guide e nei giudizi degli
esperti e, questo è più importante, nei gusti
dei consumatori. La conseguenza? Un fiorire
di produzioni più o meno tipiche in tutto lo
stivale, alle quali non si sottraggono molte
nobili casate del vino italiano che oggi non
mancano di offrire “a catalogo” almeno un ro-
sato. Con buona pace della tipicità, della sto-
ria e dell’utilizzo di uve adatte.
Fare rosato, infatti, non è solo prendere
una parte delle proprie uve da rosso e pigia-
re un po’ meno sull’acceleratore per ottene-
re vini più scarichi di colore e complessità.
Sarebbe troppo facile.
Gustare l’Italia71
Che non lo sia ce lo insegnano quei territo-
ri dove questa tipologia di vino è sì in cresci-
ta, ma ancorata a una forte storicità produtti-
va. Dove, insomma, il rosato non si costruisce
a tavolino, ma lo si fa da decenni.
Si pensi all’Alto Adige, con le denominazio-
ni Santa Maddalena e Lago di Caldaro a base
di uva schiava, al Chiaretto del Garda, al
Montepulciano Cerasuolo dell’Abruzzo e ai
rosati pugliesi.
In Puglia si parla al pluralePer la produzione di quest’ultima regione, è
d’obbligo utilizzare il plurale, tanto diversifi-
cata e complessa è la realtà territoriale nella
quale si produce rosato, che forse – qui più
che altrove – non è mai stato considerato una
via di mezzo tra bianchi e rossi, ma un pro-
dotto perfettamente calato nella storicità
enologica locale.
Prova ne sono le aziende che almeno dalla
metà dell’Ottocento proponevano e commer-
ciavano il proprio rosato, creando un vino che
finalmente avesse una propria identità, sot-
traendo uve e mosti a un sistema che dalla
Puglia parevano servire solo per il taglio atto
a irrobustire più prestigiosi ma cagionevoli vi-
ni del Nord.
Se si dovesse scegliere poi una data sim-
bolica per lo sdoganamento definitivo del ro-
sato pugliese, forse andrebbe fissata nel
1943, quando nella Salice Salentino occupa-
ta dagli Alleati, Salvatore Leone De Castris
ebbe l’intuizione di vendere agli americani il
suo Cinque Rose dentro bottiglie di
birra chiuse con il tappo a corona.
Il “Five Roses”, che secondo leg-
genda mutò così il suo nome, aprì la
strada a numerose altre aziende
che, lavorando le uve specificamen-
te per produrre rosati, dalla Daunia
alle Murge, scendendo fino al Sa-
lento, hanno fatto di questa tipolo-
gia una delle più importanti ban-
diere del vino pugliese.
Almeno tre animeDifficile, se non impossibile,
parlare di Rosato al singolare
in Puglia. Ce lo dimostra an-
che Rosati in terra di Rosati, la
manifestazione che da diciot-
to anni, con una serie di even-
ti, porta per le piazze e nei ri-
storanti della regione la
selezione (che avviene in pri-
mavera a Vinititaly) del meglio
di quanto sa dare la Puglia in
rosa e, nella settimana dal 24
al 31 luglio, anche in tanti
“luoghi del vino” italiani.
Al plurale, dunque. Di fatto
non è facile districarsi e uni-
formare una produzione este-
sa in territori diversi, lontani
suo Cinque Rose dentro bottiglie di
birra chiuse con il tappo a corona.
, che secondo leg-
genda mutò così il suo nome, aprì la
strada a numerose altre aziende
che, lavorando le uve specificamen-
te per produrre rosati, dalla Daunia
alle Murge, scendendo fino al Sa-
lento, hanno fatto di questa tipolo-
gia una delle più importanti ban-
suo Cinque Rose dentro bottiglie di
birra chiuse con il tappo a corona.
, che secondo leg-
genda mutò così il suo nome, aprì la
strada a numerose altre aziende
che, lavorando le uve specificamen-
te per produrre rosati, dalla Daunia
alle Murge, scendendo fino al Sa-
lento, hanno fatto di questa tipolo-
gia una delle più importanti ban-
72Gustare l’Italia
come solo in Puglia possono essere le pro-
vince tra loro, ognuna delle quali fa il suo ro-
sato con uve e denominazioni differenti.
In generale, si può comunque dire che,
pur ammiccando in alcune delle produzioni
più recenti a una moda che chiede vini sca-
richi, facili da degustare e quasi caramellosi
nell’impostazione, i rosati prodotti in Puglia
si sono sempre distinti per essere vini di ner-
bo e carattere, certamente più pieni e com-
plessi di quanto il gusto più comune (e ba-
nale?) di oggi voglia imporre.
Per comodità, ma soprattutto per identità,
possiamo individuare tre grandi macroaree
enologiche “rosate”.
La prima, localizzata in provincia di Foggia
nelle zone di Lucera e San Severo, vede uti-
lizzate soprattutto il Sangiovese e il Monte-
pulciano accanto al Bombino Nero.
Quest’ultima uva diventa protagonista
scendendo nel barese, dove nella zona di
Castel Del Monte, si è riusciti a ottenere da
poco la prima Docg dedicata proprio ai ro-
sati a base di Bombino, uva principe accan-
to al Nero di Troia.
Infine, il Salento, dove il Negroamaro è l’in-
discussa bandiera di celeberrimi rossi e rosa-
ti. Diversità di latitudine, storia, vitigni e tecni-
che di lavorazione: quello dei rosati pugliesi è
un universo complesso che cerchiamo di co-
noscere un po’ meglio parlando di e con tre
Gustare l’Italia73
realtà rappresentative di altrettante zone pro-
duttive che meritano di essere conosciute e
approfondite.
Tradizione, sperimentazioneinnovazione
Un viaggio ideale nelle tre anime del rosato
pugliese parte da Sud, dove incontriamo Ste-
fano Garofano dell’azienda Monaci.La cantina, interamente ristrutturata negli
anni Novanta, segna la con-
tinuità produttiva per una
delle realtà storiche del ro-
sato salentino, legata più
che mai al nome del padre
di Stefano, Severino, uno
degli enologi al cui lavoro si
deve la rinascita qualitativa
di molti vini del Sud.
Nella masseria di Coperti-
no, in provincia di Lecce, il
Negroamaro è protagonista
della tradizione, sia per dare
potenti rossi, sia per pro-
durre rosati. “Quest’uva - ci
dice Stefano - è per noi attaccamento al ter-
ritorio. Continuiamo a lavorarla con la tecnica
del salasso, che consiste nel prelevare una
certa quantità di mosto fiore destinato ai vini
rossi che, vinificato in bianco, dà i più tipici
rosati della zona, come il nostro storico Giro-
fle, l’esempio di come si possa ottenere equi-
librio e delicatezza da un’uva capace di espri-
mere vini molto potenti”.
Per il rosato è un bel periodo, come del re-
sto per il Salento a tutto tondo. Giusto defini-
re questo vino una possibile colonna portante
per la promozione enogastronomica di un
territorio intero?
Dalla Monaci ci confermano l’ottimo stato di
salute per questa produzione tradizionale, già
oggi cresciuta al 20% del totale del vino azien-
dale, con proiezioni ancora in aumento. Sarà
la moda che rifugge più degli anni scorsi vini
troppo carichi e impegnativi, fatto sta che le
aziende della vecchia guardia salentina stanno
dimostrando di gradire questa tendenza posi-
tiva e - perché no - contribuire con il loro lavo-
ro alla crescita enoturistica di un territorio inte-
ro, potendo partire da solide radici.
Radici che hanno saputo valorizzare al
massimo duecento chilometri più a nord, nel-
la Murgia Barese, dove il rosato è espresso
74Gustare l’Italia
principalmente dal Bom-
bino Nero e dove il di-
stretto produttivo di Ca-
stel Del Monte, primo e
finora unico in Puglia per
questa tipologia di vini, è
riuscito a ottenere il rico-
noscimento della Docg.
Inevitabili le polemiche:
perché proprio loro? A
comprensibili questioni di
campanile risponde Giulio
Iannini, direttore commer-
ciale di Torrevento, una delle aziende più
attive della zona, da anni a guida del Con-
sorzio Tutela Vini Castel Del Monte. “Per noi
- ci dice - la Docg non è una bandiera da
sventolare per dimostrare alcunché nei con-
fronti di nessuno. È, semmai, il premio a un
territorio che ha saputo fare sistema come
raramente si è visto finora non solo in Puglia,
ma nel Sud Italia, come prova il Consorzio
cui aderisce praticamente la totalità dei pro-
duttori. Gente che ha saputo credere nelle
proprie radici ma anche aprirsi alla moderni-
tà delle tecniche produttive ed è riuscita a
fare fronte comune per promuovere la pro-
pria identità, che con la Docg potremmo di-
fendere ancora di più e meglio”.
Diversità significa anche versatilità. Ben lo
sanno ancora più a Nord, nel foggiano, i tre
soci della D’Araprì che, compiendo una scel-
ta davvero rivoluzionaria negli anni Settanta,
si misero a spumantizzare con il metodo clas-
sico le uve locali, Bombino Bianco e Monte-
pulciano in testa.
Volevano creare qualcosa di nuovo, guar-
dando allo Champagne quando le uve dei
contadini di San Severo erano pagate poco
o nulla. Visti all’epoca come eretici, sono
oggi rispettati per essere stati i primi a ri-
spettare le proprie origini, scegliendo un an-
tico palazzo di San Severo per far maturare
i propri vini, come per dire: il territorio e la
sua storia lo rispettiamo perché gli apparte-
niamo noi stessi.
Oggi la realtà è solida e
il sogno è quello di fare
proseliti, coinvolgendo
altre cantine locali in un
più ampio progetto spu-
mantistico.
Tre storie diverse, tre
modi di lavorare rispet-
tando le proprie radici ma
allo stesso tempo pun-
tando a crescere. In Pu-
glia, di realtà del genere,
se ne contano a decine.
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ro M
ilani
Chissà se l’ammiraglio Horace Nelson, pri-
ma o dopo una battaglia non importa, guar-
dando la linea dell’orizzonte pensava a casa.
Probabilmente sì, magari alla famiglia, agli
amici, a una donna. Ma quando, pur essendo
inglese, voleva festeggiare un trionfo, doveva
ricorrere al Marsala prodotto in Sicilia.
Più facile invece che un ammiraglio nato
qualche migliaio di chilometri più a sud del
trionfatore di Trafalgar, soprattutto quando era
particolarmente lontano dalle sue amate coste
joniche, pensasse al vino di casa. Si dice che
più ci si allontana dal proprio paese e più
emergono i ricordi positivi. Normale quindi per
Il pro
dutto
re
Brandisio,musica per il palato
un nativo di Taranto ricordare quel Primitivo
bevuto nella vigna dei nonni.
Meno facile immaginare che un alto ufficiale
della Marina Militare decidesse di rientrare in
Puglia e diventare un produttore vitivinicolo. È
invece proprio quello che è successo a Oreste
Tombolini, passato da ammiraglio a “creatore”
del Brandisio.
Creatore, non semplice produttore, e vedre-
mo il perché. Forse per carattere, forse per la
sua formazione militare, peraltro accentuata
dal ricoprire un ruolo di prestigio e responsa-
bilità, Oreste non si è avvicinato al mondo viti-
vinicolo con leggerezza o superficialità.
Gustare l’Italia
77
Si è messo a studiare, non solo la
storia dei vini della provincia di Taran-
to, ma anche quei trattati di agricoltu-
ra che potevano giovargli in questa
nuova avventura.
È così che Oreste ha compiuto una
scoperta straordinaria, e, non conten-
to, l’ha messa in pratica creando un
prodotto davvero unico.
Il sistema che viene utilizzato nelle vi-
gne di Monteparano consiste infatti
nell’applicazione di una sintesi degli
studi di due scienziati giapponesi, Te-
ruo Higa e Masanobu Fukuoka.
Essi, pur partendo da punti differenti
e applicando metodologie diverse, arri-
vano a quella che può sembrare la sco-
perta dell’acqua calda, cioè l’afferma-
zione del primato della coltivazione
naturale delle piante.
Facile a dirsi, meno a farsi, perché
nella loro accezione del termine natura-
le non c’è posto per la chimica e nem-
meno per minerali come zolfo e rame, usatis-
simi in campo vitivinicolo. Quindi come fare?
Visto che la bontà del vino deriva soprattutto
dalla salute della vigna e quest’ultima è dovuta
alla salute delle piante, il primo punto da af-
frontare deve essere la cura e la tutela dell’equi-
librio biochimico del suolo.
Teruo Higa afferma che fornendo al terreno
alcuni microorganismi effettivi, essi saranno
efficaci nel permettere alle piante di crescere
autonomamente sane, e addirittura di più: sa-
ranno in grado di rendersi quasi autoimmuni
Gustare l’Italia
alle malattie, in sostanza di curarsi da sole.
Uno straordinario effetto collaterale consiste
poi nel fatto che il terreno, grazie a questi mi-
croorganismi, combatte ed elimina eventuali
tracce di diossina (ahimè largamente presenti
nei terreni di questa zona del Tarantino).
Il trattamento proposto dagli scienziati nip-
ponici, che Oreste sta applicando da un paio
di anni alla coltura della vite, permette di non
usare anticrittogamici e concimi chimici.
In questo modo si va addirittura oltre quel
concetto - positivo, sia ben chiaro - di biologi-
78Gustare l’Italia
Le viti coltivate senza additivi conferiranno
un’uva sana, dalla quale se ne può ora ricava-
re vino. Pensare che finisca qui l’originalità di
quella che fin dall’inizio abbiamo definito la
“creatura” di Oreste sarebbe però sbagliato: la
raccolta è totalmente manuale e anche duran-
te il processo di trasformazione da uva in vino
viene evitato ogni prodotto chimico (a esclu-
sione di una piccolissima aggiunta di bisolfito
di potassio, che funge da antisettico).
Dopo la raccolta anche l’intervento umano
si limita al solo controllo della temperatura
durante le due settimane di fermentazione,
prima dell’affinamento in barriques di
rovere francese.
E ancora non è finita: durante i 10
mesi nei quali il vino riposa in barrique,
nella barricaia di Oreste risuonano le
note di Mozart, Chopin e dei canti gre-
goriani, che creano un rapporto sine-
stetico tra il vino e la musica.
Sembra infatti che il legame tra il
frutto della vite e la musica classica si
mantenga forte, e che, dopo un as-
saggio di Brandisio accompagnato
dall’ascolto di una sinfonia, si crei un
rimando tra l’uno e l’altra anche quan-
do vengono sperimentati separata-
mente. Un’esagerazione?
Non resta che mettersi alla prova.
Oreste ha infatti voluto che sulla con-
tro-etichetta di ogni bottiglia venga
precisato da quale opera musicale il
vino è stato accompagnato nel suo ri-
poso in barrique. A quel punto ognu-
no sarà in grado di giudicare la verità
dell’affermazione, nella quale noi cre-
diamo ciecamente.
Non dovrebbero ora esserci dubbi
sul perché abbiamo sempre parlato di
“creazione” e di “creatura”.
Vediamo adesso come godere di
questa prelibatezza rara, che prende il
co che tanto si vuole sottolineare oggigiorno,
ma la cui prassi talvolta prevede sostanze di
sintesi qui completamente assenti.
Un aspetto assolutamente evidente del trat-
tamento di Oreste alla sua vigna è dato dalle
erbacce. Tutte quelle piante che crescono li-
beramente attorno alle viti, solitamente sfal-
ciate (quando non eliminate con metodi deci-
samente più dannosi), qui vengono ignorate.
Le viti che Oreste cura sull’unica collina pre-
sente in tutto il territorio del Primitivo convivo-
no infatti in armonia con tutte le piante che la
natura ha deciso di far germogliare tra i filari.
Gustare l’Italia79
nome dal nonno materno di Oreste, Brandisio,
il quale è un simbolo del ritorno all’antico, a
quella terra alla quale l’ammiraglio aveva a
lungo preferito il mare.
La meraviglia che potrebbe nascere da que-
sta storia è infatti nulla rispetto a quella che si
prova, individualmente, se si ha la fortuna di
assaggiare questo Primitivo.
Una volta stappata la bottiglia, meglio alme-
no un paio d’ore prima di servire in tavola, e
aver scaraffato il vino con l’ausilio di un colino
per trattenere i depositi, è tempo di bere.
I depositi sono dovuti al fatto che il Brandisio
non è stato filtrato, per non fargli perdere alcu-
ne importanti caratteristiche organolettiche, e
consigliamo di non buttarli, ma utilizzarli ma-
gari per cucinare un risotto al Primitivo.
Servito in adeguati balloon a calice ampio
a una temperatura di 18/20 gradi, il Brandi-
sio, a contatto con l’aria, inizierà a sprigio-
nare i suoi aromi con il passare dei minuti e
sarà pronto a sposare piatti saporiti, carni
alla brace e formaggi di capra o pecora non
molto stagionati.
Un vino straordinario al gusto e buono, an-
che per la salute: è stato dimostrato che le
tecniche colturali di Oreste consentono un in-
cremento del contenuto di polifenoli tale da
stupire anche gli esperti del Centro enologico
di ricerca di Asti.
Sono infatti i polifenoli, associati all’alcool, a
produrre nell’organismo umano una maggiore
concentrazione di Omega 3.
Il tutto ottenuto semplicemente rispettando
la natura e curando il terreno, senza violentar-
lo con la chimica o con colture intensive. Con
tecniche antiche, come l’aratro di nonno Bran-
disio che Oreste ha fortemente voluto sull’eti-
chetta. Oltre il biologico, naturale.
Meno male che l’ammiraglio è tornato a ter-
ra per crearlo...
Per informazioni: www.brandisioilprimitivo.it
80
di A
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and
ro M
ilani
Se si alzano gli occhi verso il cielo si vedo-
no stagliarsi, vicinissimi, i nuovi grattacieli che
ospitano gli uffici della Regione Lombardia. Lo
stabile però è esattamente di fronte al com-
plesso medievale noto come Cascine delle
Abbadesse, nell’omonima via.
Qui dove un tempo le monache gestivano
un’azienda agricola ante litteram e prospera-
vano campi e i vigneti, oggi vengono prese le
decisioni sull’amministrazione della regione
più ricca d’Italia.
Modernità e tradizione, tradizione e moderni-
tà. Le stesse parole d’ordine che sono alla base
della filosofia del ristorante La Martinella.Que
lli ch
e le
guid
e no
n di
cono
“La Martinella”,tradizione e modernità
Nato negli anni Ottanta con la famiglia Favi-
ni, storici trattori milanesi, gioviali, accoglienti,
pronti alla battuta in dialetto, è oggi gestito da
Antonio Melfi, anche lui ristoratore d’esperien-
za, ma originario di qualche centinaio di chilo-
metri più a sud, in Basilicata.
È stato lui, insieme al cugino Tommaso, che
ha gestito per anni l’Antica Pizzeria da Giulio in
corso San Gottardo, a rilevare, nel 2008, La
Martinella, e a donarle una seconda anima lu-
cana, senza cancellare quella meneghina. Le
due componenti che contraddistinguono il lo-
cale non si limitano allo spazio della cucina, ma
caratterizzano ogni aspetto de La Martinella.
Gustare l’Italia
81
ste ad assaporare piatti e prodotti sconosciu-
ti, o a ritrovare quei sapori magari scoperti al
Sud in vacanza.
Ciò che accomuna le due componenti è la
ricerca della qualità. Su questo Antonio non
transige: sceglie personalmente la frutta e la
verdura, si rifornisce di carne perlopiù bavare-
se della quale ha la certifi-
cazione di tutta la filiera,
serve ai clienti pasta pro-
dotta ad Andria, e il pesce
servito a tavola arriva a La
Martinella, freschissimo,
tutti i giorni.
Qualità che spesso si
sposa con un ritorno alle
radici, con il gusto della
propria terra, come nel ca-
so dei salumi (soppressata,
capicollo, salame piccante)
e dei formaggi (su tutti il ca-
nestrato di Moliterno), che
provengono direttamente
dal Parco del Pollino.
A volte è più evidente l’una, a vol-
te l’altra. A pranzo, quando gli im-
piegati e i dirigenti si concedono
una pausa pranzo “come si rispet-
ti”, emerge l’anima milanese, basa-
ta sulla comodità, la velocità, l’otti-
mo rapporto tra qualità e prezzo
Qui quelli che un tempo veniva-
no chiamati travet possono trova-
re tutto ciò che un self service non
può offrire loro: il servizio al tavolo
(in sala lavorano mediamente 6/7
persone), la tranquillità, e in estate
il fresco dehor.
Alla sera prevale lo spirito luca-
no, con piatti legati alla cultura di
quel territorio, un clima più rilassa-
to, Antonio tra i tavoli che ama co-
noscere e scherzare con gli habitué, così co-
me fa Biagio alla cassa.
Di sera si sentono più forti anche le impron-
te della cucina e della gastronomia della Basi-
licata. Se infatti di giorno il target è rappresen-
tato da chi lavora in zona, a cena la clientela
è composta da persone maggiormente dispo-
Gustare l’Italia
© L
idia
Mon
tana
ri (7
)
82Gustare l’Italia
berto Favini. Figlio dell’ex gestore de La Marti-
nella, dopo aver studiato con Sadler, finita quel-
la gavetta che trasforma un semplice cuoco in
uno chef, ha oggi le redini della cucina.
Aiutato da altri due cuochi e ispirato dalla
musica dei Pink Floyd, è lui il massimo creato-
re dei cavalli di battaglia del locale.
Fautore di una cucina saporita ma al tempo
stesso leggera, nella quale la bontà dei piatti
non dipende certo dal quantitativo di condi-
menti, realizza ormai con nonchalance le ricet-
te di entrambe le tradizio-
ni: la cassöeula e
l’ossobuco con il risotto o
con la polenta, così come
le linguine all’astice o gli
strascinati alla lucana.
Laddove da un lato dosa
sapientemente burro e gra-
na, dall’altro esalta le ricet-
te con olio extravergine e
cacioricotta. Sempre all’in-
segna della tradizione. Un
po’ ancora trattoria mila-
nese, un po’ un angolo di
Basilicata a Milano.
In un momento non faci-
Ingredienti per 4 persone: 2 astici - 1 etto di pomodorini - 400 g di linguine - un ciuffo di prezzemolo - aglio - vino bianco - olio ex-travergine d’oliva.
Procedimento: Dividere a metà gli astici e rosolarli in padella con olio extravergine d’oliva e aglio, sfumandoli con vino bianco. Aggiungere i pomodorini e far cuocere.
A parte cuocere le linguine in abbondante acqua bollente salata. A cottura ultimata aggiungerle all’astice e saltare il tutto.
Guarnite il piatto di portata con un ciuffo di prezzemolo e servite.
Linguine all’astice
Prodotti tipici lucani, come anche i fagioli
di Sarconi IGP e i peperoni di Senise IGP,
che arricchiscono le ricette antiche della re-
gione dei due mari.
Mare che permette di variare, soprattutto in
estate, con piatti freschi e leggeri una cucina
che in inverno ha la sua forza nei classici della
tradizione meneghina e in quelli dell’interno
della Basilicata.
Oltre ad Antonio, chi “orienta” verso Nord o
verso Sud i piatti della settimana è lo chef, Um-
Gustare l’Italia83
Ingredienti per 4 persone: 400 g di riso Carnaroli - 4 ossobuchi di vitello, meglio se di gamba posteriore - una bustina di zafferano - mezza cipolla - 2 carote - 2 gambe di sedano - 2 patate - vino bianco - burro - Parmigiano grattugiato - brodo vegetale q.b. - olio extravergine d’oliva.
Procedimento: Infarinare gli ossibuchi e rosolarli in padella in modo omogeneo su entrambi i lati. Adagiarli in una teglia da forno con base di cipolla e olio extravergine d’oliva.
Ricoprire il tutto con un misto di patate, sedano e carote. Riporre in forno a una temperatura costante di 200°. A metà cottura estrarre le verdure frullandole fino a formare una crema densa e riversarle sopra gli ossibuchi.
Nel frattempo tostare il riso con il vino bianco e la cipolla, allungandolo con brodo vegetale. Durante la preparazione aggiungere lo zafferano e il midollo, mantecan-dolo infine con il burro e il formaggio grattugiato.
Ossobuco con risotto alla milanese
le per la ristorazione, tra la concorrenza stra-
niera e la crisi economica, che toccano pro-
prio quel ceto medio al quale si rivolge La
Martinella, se si chiede ad Antonio la sua più
grande soddisfazione, emergerà il suo orgo-
glio lucano: il suo vanto è infatti quello di aver
Ingredienti per 4 perso-
ne: un filetto di baccalà da 1 kg - 3 cipolle rosse di Tropea IGP - 2 pomodorini ramati - 2 etti di pangratta-to - farina bianca q.b. - olio extravergine d’oliva - prez-zemolo.
Procedimento: infarinare il baccalà e friggerlo in ab-bondante olio extravergine d’oliva bollente. Adagiarlo in una terrina da forno con fondo oleato.
A parte stufare le cipolle e versarle sopra il pesce aggiungendovi il pangrattato e i pomodorini tagliati a cubetti. Mettere in forno a 250° fino a che sia completamente gratinato. Si consiglia di servire su un piatto caldo, con un pizzico di prezzemolo e un filo d’olio extravergine crudo.
Baccalà gratinato con cipolle rosse di Tropea
fatto conoscere e apprezzare anche a Milano i
piatti antichi e i prodotti della sua terra.
Senza aver buttato via la velocità, la como-
dità e il rapporto qualità/prezzo tanto richiesti
dai milanesi.
Sulle orme della bufala
Le c
ittà d
i Res
Tipi
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84Gustare l’Italia
di P
aolo
Bo
nag
ura
Il latte è il primo alimento che conoscia-
mo nella nostra vita. Intriso di significati, ac-
compagna la nostra crescita fino a diventare
la base per delizie del palato che coinvolgo-
no i cinque sensi.
La mozzarella di bufala ne è l’esempio:
bianca e lucente alla vista, morbida al tatto,
di antichi profumi inebria l’olfatto, prelibata
al gusto, e all’udito lascia l’entusiasmo di
chi la degusta.
Amore a prima vista è stato per Claudio Bi-
sio che in “Benvenuti al Sud”, interpretando
un rigido direttore milanese trasferitosi in Ci-
lento, abbandona l’ottimo gorgonzola portato
da casa per farsi trascinare dalla “zizzona”, la
mozzarella di bufala della piana del Sele.
Sarà invece un crogiolo di caglio, country
campano e canzoni neomelodiche a coinvol-
gere i protagonisti di “Mozzarella stories”, film
di prossima uscita.
La mozzarella di bufala è un prodotto che
unisce, risulta fortemente rappresentativo del
nostro Paese all’estero, dove l’export è in
continua crescita (per esempio in Francia,
Stati Uniti, Germania e Regno Unito), nono-
stante il dilagare dell’agropirateria e dell’ita-
lian sounding.
Biglietto da visita della tavola italiana, la
mozzarella di bufala campana si fregia della
DOP, marchio che assicura i consumatori e
specifica il territorio di produzione, racchiuso
in un’area che va dal basso Lazio alle provin-
Gustare l’Italia85
ce di Caserta e Salerno, con
qualche caseificio anche a
Venafro e nel Foggiano; a se-
conda delle zone la bufala
prende il nome di “aversana”
(come quella citata da Totò in
“Miseria e nobiltà”), “ponti-
na”, “piana del Sele”.
La regina della cucina medi-
terranea è uno dei maggiori
punti di forza delle economie
locali, soprattutto in Campa-
nia e nel Lazio. Ciò ha spinto
alcuni comuni di tradizione
bufalina a dar vita, nel 2009,
all’associazione nazionale
“Città della Bufala”.
L’associazione si propone di
predisporre e attuare, nei terri-
tori di origine, progetti di valo-
rizzazione degli allevamenti
della specie bufalina e delle
produzioni casearie derivanti
dal latte di bufala, con particolare riferimento
alla mozzarella, attraverso politiche di tutela e
di sviluppo eco-compatibile della zootecnia e
dell’attività casearia, e di assumere iniziative di
difesa della tipicità, dell’autenticità e della
qualità delle produzioni.
La più importante di queste è sicuramente
l’istituzione del concorso nazionale “Mozza-
rella In Comune”, la cui prima edizione, nel
2009, ha visto partecipare oltre ottanta azien-
de bufaline. “Città della Bufala” mira anche a
diventare un’opportunità per la diffusione del
crescente segmento del turismo enogastro-
nomico, rurale e naturale.
Uno degli esempi è “Sulle orme della bufa-
la”, manifestazione di promozione dell’intera
filiera bufalina (mozzarella, ricotta, carne, ge-
lato, yogurt) che ogni anno a Priverno, in
provincia di Latina, propone degu-
stazioni, convegni e visite guidate a
siti culturali e ai caseifici dove avvie-
ne la “mozza” e dove i bufalari - nar-
rati nel loro rapporto simbiotico con
le bufale dal poeta Scotellaro in Con-
tadini del sud, la sua inchiesta sulla
cultura rurale meridionale - e gli alle-
vatori danno vita all’“oro bianco”,
unico e inimitabile.
Tra il Volturno e il Garigliano
Gli i
tiner
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i Res
Tipi
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86Gustare l’Italia
di R
affa
ele
Mo
ntag
na
“O è così, o non è”: sembra uno strano dik-
tat invece è solo lo slogan del Consorzio di tu-
tela della mozzarella di bufala campana DOP
per affermare che o è mozzarella di bufala
campana, o non è affatto mozzarella.
Chi ha avuto la fortuna di assaggiarla, appe-
na prodotta, sa che il suo sapore è puramente
“inconfondibile” (e rende superflui ulteriori
esami - visivi, olfattivi, gustativi - né obbliga a
riflettere sulle differenti sensa-
zioni che procura, quali consi-
stenza, elasticità, flavour, gusto
e via dicendo).
Questo sapore lo si porta in
uno dei cassettini della memoria,
catalogato come una delle più
piacevoli emozioni alimentari.
Secondo Roberto Saviano la
mozzarella di bufala è al primo
posto nell’elenco delle 10 cose
per le quali vale la pena vivere!
Fu Bartolomeo Scappi, famo-
so cuoco alla corte pontificia, il
primo a citare, in un suo ricetta-
rio nel 1570, la parola mozzarel-
la (ovviamente non nel senso
contemporaneo del termine);
oggi, secondo il decreto che ha
riconosciuto la denominazione
di origine protetta, la mozzarella
è un formaggio a pasta filata,
molle, crudo, con un particolare
e indimenticabile bouquet, pro-
dotto esclusivamente con latte
di “bufala mediterranea”, in al-
cuni territori della Campania, del Lazio, delle
Puglie e del Molise; non si deve confondere
con il “fior di latte”, ottenuto con latte vaccino
(meno particolare e pregiato).
La mozzarella (il cui nome deriva dall’opera-
zione di “mozzatura” compiuta per separare
dall’impasto i singoli pezzi) è apprezzata da
tutti per le pregiate qualità, sia alimentari, sia
gustative, ed è considerata la “regina” della
cucina mediterranea.
Il latte con il quale viene prodotta è quello
intero di bufala mediterranea italiana (Bubalus
bubalis, del genere dei ruminanti, sottofamiglia
bovini), razza proveniente dall’India, importata
in Sicilia dai Saraceni e da qui introdotta dai
Longobardi nelle terre paludose comprese tra
il Garigliano e il Volturno.
Gustare l’Italia87
Se si dovesse giudicare il bufalo, quello della
mozzarella, solo dall’apparenza si dovrebbe
avere paura e darsela a gambe; con la sua mo-
le imponente, le grandi corna appiattite e rivolte
all’indietro, mostra una corporatura massiccia,
con pelo corto di colore scuro, un portamento
che sembrerebbe a prima vista selvaggio e ri-
belle, occhi scaltri e quasi malvagi; ma non si
tarda molto, invece, a scoprire che si tratta di
un animale docile, che si può affidare senza al-
cun timore anche a un bambino.
Ama le zone paludose e si rotola volentieri
nel fango per difendersi dai parassiti della pel-
le e dall’esagerato irradiamento solare estivo.
È molto probabile incontrare mandrie di bu-
fali lungo l’itinerario che proponiamo.
Iniziamo la nostra esplorazione dalla bellissi-
ma Mondragone, centro turistico balneare e
termale d’antica tradizione; dopo l’occupazio-
ne romana del territorio (sottratto agli Aurunci)
sorse la colonia di Sinuessa, frequentatissima
all’epoca, sia per la mitezza del clima, sia per
la facilità dei collegamenti - visto che la Via
Appia, la regina viarum, attraversava proprio
questi luoghi (a essa si aggiunse, successiva-
mente, la Via Domiziana) - e sia per gli impian-
ti termali, che richiamavano la nobiltà romana,
soprattutto le giunoniche matrone (pare che le
acque curassero la sterilità femminile).
Qui si gustava il prelibato Falerno, vino ma-
gnificato dal sommo Virgilio nelle Georgiche
come “nettare degli Dei” e celebrato da Mar-
ziale, Orazio, Catullo e Cicerone.
Tanti sono i luoghi d’interesse di questa cit-
tadina e lunga è la sua storia, testimoniata dai
resti, tuttora visibili, del basolato dell’Appia an-
tica, della Torre del Paladino, mausoleo d’epo-
88Gustare l’Italia
ca romana, della Rocca sul Monte Petrino,
edificata nel X secolo (da cui si domina tutto il
Golfo di Gaeta) e dalla statua della Venere di
Sinuessa (attribuita a Prassitele e conservata
al Museo Nazionale di Napoli). Interessanti ri-
sultano le numerose chiese e i palazzi nobilia-
ri, tra i quali spicca il Palazzo Ducale con la
sua imponente torre.
A Mondragone si possono acquistare fa-
gioli cannellini – freschi (i cosiddetti “spolli-
chini”) nel periodo della raccolta o secchi,
durante tutto l’anno – oltre ai prodotti caseari,
quali scamorze, caciocavalli e ovviamente
mozzarelle di bufala.
Dirigiamoci alla volta di Ca-rinola. Lungo il tragitto - nel
comune di Falciano del Mas-
sico - possiamo ammirare la
riserva naturale del Lago di
Falciano e l’Oasi WWF del
Monte Massico.
Non dimentichiamo di ac-
quistare una buona bottiglia
di Falerno del Massico Doc, il
vino più apprezzato e costo-
so dell’antichità: il poeta Ti-
bullo chiedeva spesso di avere una coppa di
quello vecchio e affumicato: “nunc mihi gumo-
sus veteris proferte falernos”).
A Carinola e nelle sue tante frazioni possia-
mo visitare monumenti considerevoli, testimo-
nianze d’antico splendore: il convento di San
Francesco, i Palazzi Marzani, Novelli e Petruc-
ci, la Cattedrale dell’XI secolo, i resti del Palaz-
zo Baronale e possiamo recarci in una delle
innumerevoli fattorie nelle quali è possibile vi-
sitare gli allevamenti di bufali allo stato brado
e partecipare alla produzione delle gustose
mozzarelle Dop.
Qui si possono acquistare due straordinari
prodotti tipici: le mele annurca - considerate
tra le più gustose e le più antiche, citate già da
Plinio il Vecchio - e il vino Asprinio di Aversa
Doc, il cui vitigno viene coltivato “ad alberata”,
nel senso che si fa arrampicare “maritato” con
i pioppi e produce uva a 15 metri di altezza.
Notevole per importanza storica e graziosa
nella sua attuale struttura architettonica è
Francolise, della quale possiamo ammirare il
La Torre del Paladino a Mondragone
Lago di Falciano
Gustare l’Italia89
severo castello normanno dell’XI,
secolo e la Chiesa di Santa Maria a
Castello (belli il portale e il rosone
romanico e interessante il dipinto
della “Madonna del Cardellino”, di
scuola giottesca).
A Grazzanise, luogo scelto per la
realizzazione del terzo hub aeropor-
tuale italiano, l’economia si basa
sull’agricoltura e sull’allevamento
bufalino, che costituisce senza dubbio la
più sviluppata attività produttiva e fa del
comune uno dei territori d’origine della
mozzarella di bufala; qui si possono visitare
le chiese dedicate a San Giovanni Battista
e alla S.S. Annunziata, nonché l’ambiente
fluviale del Volturno.
A Cancello ed Arnone (il cui abitato è sta-
to quasi completamente distrutto dai mici-
diali bombardamenti dell’ultima guerra) si
producono grandi quantità di foraggi, ottimi
per gli allevamenti di bufali, che nel comune
sono numerosi. Visitabili su richiesta, vi si
può assistere al processo di lavorazione del-
la vera mozzarella.
Concludiamo il nostro breve itinerario a Ca-stel Volturno, popoloso borgo a ridosso
dell’ultima ansa del fiume, immediatamente
prima della foce.
Anche questa cittadina è ricca di storia: era
abitata dagli Opici, molto prima dell’occupa-
zione romana, che ne fecero un porto fortifica-
to. Attualmente è una raffinata località balnea-
re con 25 km di spiagge.
Si possono osservare e
visitare il castello che dà il
nome all’abitato, la Torre
Patria, la chiesa dell’An-
nunziata (che custodisce
una bella pala d’altare
quattrocentesca), la Cap-
pella di San Castrese,
dall’ architettura singola-
re, che conserva un inte-
ressante ciclo di affreschi
sulla vita del santo, e le
Cappelle di San Rocco e
Santa Maria della Civita.
Il castello normanno di Francolise
Castel Volturno
Il matrimonio s’ha da fare
Bufa
la e
piz
za
90Gustare l’Italia
di M
arco
Lo
cate
lli
Eh già! Forse non tutti sanno che la vera
mozzarella è proprio quella fatta con latte di
bufala al 100%. Con questo non si vuole smi-
nuire la pasta filata di latte vaccino, bensì
precisare che il nome mozzarella in origine in-
dicava esclusivamente il prodotto bufalino.
Nei periodi nei quali la costa tirrenica pre-
sentava difficoltà d’allevamento dovute alle
vaste zone paludose, il bufalo costituiva una
buona soluzione al problema, in quanto robu-
sto e capace di adattarsi.
Rimangono incerte le origini della mozzarel-
la, ma, in base a varie testimonianze, si può
risalire più o meno al XII secolo.
Il termine “mozzarella” deriva dalla proce-
dura di lavorazione che consiste appunto
nel mozzare la pasta filata a mano, forman-
do i famosi bocconcini di latte. Le pezzature
possono variare a seconda delle esigenze
ma l’importante è che il consumo, se non
addirittura subitaneo, sia effettuato nel mi-
nor lasso di tempo possibile.
La deperibilità di que-
sto prodotto è sotto-
lineata perfino in
antiche testimo-
nianze dove la
mozzarella veniva
classificata non
edibile addirittu-
ra dopo solo una
trentina di ore.
Dopo l’Unità d’Italia nasce ad Aversa un mer-
cato di mozzarelle e formaggi che mette uffi-
cialmente in commercio la bufala.
A questo punto il passaggio al suo utilizzo su
un noto prodotto del territorio limitrofo è stato
quasi scontato: fu così che la mozzarella di
bufala incontrò la pizza.
Questo “matrimonio” così importante è san-
cito anche dal disciplinare della pizza napole-
tana STG che prevede la denominazione
Margherita Extra nella versione con mozza-
rella di bufala.
La deperibilità di que-
sto prodotto è sotto-
lineata perfino in
mozzarella veniva
La deperibilità di que-
sto prodotto è sotto-
lineata perfino in
Delizie lunari:le fantasie culinarie nell’opera di Antonio Rubino
Il cib
o ne
ll’arte
92Gustare l’Italia
di M
artin
o N
egri
Nei racconti e nei disegni di
Antonio Rubino, storico fon-
datore del “Corriere dei Pic-
coli” e padre del fumetto ita-
liano, sono ricorrenti ed
estremamente vari i riferimenti
a inusitate prelibatezze ga-
stronomiche, così come a
contesti di iperbolica sovrab-
bondanza alimentare che ri-
mandano alla tradizione lette-
raria del Paese di Cuccagna o
di Bengodi.
Appartenente all’alta bor-
ghesia di Sanremo di fine Ot-
tocento, Rubino vantava una
solida cultura letteraria che
spaziava dai classici latini a
quelli italiani, passando per i
contemporanei, anche france-
si, e nel mettere sulla pagina,
a uso dei figli della borghesia
di inizio secolo, il tema - tanto
caro all’immaginazione infan-
tile - del godimento sensoriale
legato al cibo, pesca in un im-
maginario consolidatosi nei secoli; in esso la
memoria dell’età dell’oro evocata da Virgilio
nella quarta egloga delle Bucoliche si mescola
alla meno aulica, ma senz’altro più goderec-
cia, tradizione popolare del rovesciamento
carnevalesco del quale l’immaginario Paese di
Bengodi descritto nel Decamerone di Boccac-
cio è forse l’esempio più celebre.
Un primo riferimento alle delizie del Paese di
Bengodi, dove «si legano le vigne con le sal-
sicce» e scorrono fiumi di «vernaccia» compa-
re in alcune scene del racconto a fumetti inti-
tolato “Il Collegio ‘La Delizia’”, pubblicato a
puntate sulle pagine del “Corriere dei Piccoli”
tra il 1913 e il 1914.
Qui viene narrata la vita d’ozii e bagordi di
un gruppo di collegiali poco propensi al sacri-
ficio e alla disciplina che lo studio dovrebbe
comportare, i quali sembrano aver trovato il
luogo ideale dove condurre la propria vita da
Gustare l’Italia93
fannulloni golosi: guidati dal prof. Pandispa-
gna e dai suoi colleghi, i ragazzini si baloc-
cheranno tra giochi e dolciumi fino a che una
sana nausea non li spingerà a una vera e pro-
pria rivoluzione nei confronti dei professori.
Ma prima che questo avvenga Rubino rie-
sce a mettere in scena una gustosissima va-
riante del Paese di Bengodi nella quale con-
fluiscono anche spunti derivati dalle pagine
collodiane sul Paese dei Balocchi.
È però in un albo illustrato pubblicato intor-
no al 1920 dalla ditta Bonatti, produttrice di
cioccolato, che Rubino pare accogliere pie-
namente l’eredità del Boccaccio, sbizzarren-
dosi nella messa in scena di un paese fonda-
to sull’arte della cucina, il regno di
Leccornìa:
divina terra cinta di misteroappartenente quasi alle leggende,
che sorge alla sinistra un po’ del Veroe a destra della Favola si stende.
Quella descritta nell’albo, intitolato “Fortu-
nello, Cirillino e la Vispa Teresa nel Paese di
Leccornìa”, è una «terra beata»:
dove le case son di cioccolatoe le montagne sono di ricotta,
dove gli alberi fanno i pasticcinie in croccanti si selciano le strade,
dove se piove son cioccolatinise vien la neve è zucchero che cade,
dove gli uccelli cantano arrostiti,dove nuotano i pesci nel Madera
e per farfalle volano i canditie i cani sono fatti a bomboniera!
E tuttavia anche questa «terra beata» sa-
rà teatro d’una guerra, spaventosa per
quanto combattuta con armi assai singo-
lari: «terribili spiedi», «forchettoni, schidio-
ni e pestelli», «bombarde di bricchi di
smalto», «cavalli di Frisia costrutti/con
spaghetti nel brodo ed asciutti»; una guer-
ra in seguito alla quale i tre protagonisti
usciti dalle pagine del “Corriere dei Picco-
li” - Fortunello, Cirillino e la Vispa Teresa,
appunto - verranno fatti prigionieri e con-
dannati a morte, riuscendo infine a sottrar-
si al destino avverso e fuggire solo grazie
a una tavola di cioccolato Bonatti con la
94Gustare l’Italia
quale corrompono la guardia della prigione.
Tra le tante coloratissime tavole che testi-
moniano un piacere squisitamente rubiniano
dell’invenzione visiva, una delle più riuscite è
senz’altro quella della pirotecnica battaglia
vinta dal Re Acquolina con un fitto lancio di
«proiettili alla crema», che costringe alla resa i
tre ignari avventurieri del “Corrierino”.
Diversamente, in “Viperetta”, romanzo illu-
strato del 1919 nel quale
si narrano le peripezie
terrestri e ed extra-terre-
stri di una bimba trasci-
nata dai propri capricci
fin sulla luna, Rubino ha
l’occasione di sbrigliare
la sua fantasia culinaria,
inventando prelibatezze
lunari che non vengono
esibite all’occhio del let-
tore attraverso tavole a
colori o vignette al trat-
to, ma semplicemente
evocate dalla forza del
loro nome: che sapore
avrà l’idromèle sbattuto
o il chiar d’uovo di pesce-luna?
I semi di lunaria cotti al forno e i chifferi di
farina crescente? Nessuno può dirlo con cer-
tezza, perché Rubino non tenta nemmeno di
descrivere tali leccornìe: chi legge è così chia-
mato a risolvere la questione con il proprio
personale contributo immaginativo e il nome
del piatto finisce con l’evocare, almeno poten-
zialmente, sapori infiniti.
Rubino era un profondo conoscitore del
pensiero infantile ed è per questo motivo che,
in un’epoca in cui il mer-
cato dei dolciumi per
bambini non aveva anco-
ra raggiunto l’odierno e
sfrenato parossismo in-
dustriale, sceglie spesso
di incamminarsi lungo i
terreni delle fantasie ali-
mentari, certo di aggan-
ciare i lettori più giovani.
E tuttavia, quando af-
fronta il tema del cibo e,
massimamente, quello
della golosità dei bambi-
ni, Rubino finisce spesso
con lo scivolare nel dida-
scalico, tradendo una na-
turale vocazione pedagogica che, quando
non supportata dalla presenza di invenzioni
Gustare l’Italia95
spiazzanti e liberatorie, risulta ai nostri occhi
un po’ pedante, per quanto sempre, ovvia-
mente, assennata.
“Fata Acquolina”, insieme alla storia de “Il
Collegio ‘La Delizia’”, ne è l’esempio più cal-
zante, portatore com’è di una morale dell’equi-
librio e del buonsenso, che non può certo es-
sere biasimata ma che lascia il lettore
contemporaneo - parlando per figure - un po’
a bocca asciutta.
In “Fata Acquolina”, in-
fatti, il piacere dell’inven-
zione di favolosi universi
gastronomici non è fine a
sé stesso, e dunque gioio-
so e pienamente liberato-
rio, com’era invece in “Vi-
peretta” o nell’albo
pubblicato dalla Bonatti,
ma funzionale a un preciso
scopo educativo e dunque
subordinato, incapace di
mantenere intatto il proprio
fascino a distanza di tanti
decenni. Non sempre tut-
tavia il desiderio di educare il lettore penalizza
la qualità letteraria del racconto: quando l’au-
tore non rinuncia a una certa perfidia di marca
schiettamente rubiniana, gli riesce di regalarci
dei veri e propri gioiellini narrativi.
Esemplare, in questo senso, la deliziosa e
«miseranda» storia del «bimbo che divorava
i dolci con gli occhi», apparsa nel 1919 sul
Corriere dei Piccoli, dove è raccontato il ca-
so di un bambino, Zuccherino, che a causa
della sua golosità, peraltro alimentata solo
attraverso la vista, finisce col trasformarsi in
dolciume lui stesso ed essere esposto in ve-
trina, alla mercé di altre bocche golose, in
una sorta di grottesco e inquietante contrap-
passo dantesco:
Finalmente d’acquolinaZuccherino inzuccheratonel succhiarsi la manina
sente un gusto mandorlato.Commestibile diventa
ed in mezzo alla vetrina,tra due calici di menta,
viene messo alla berlina.
La profezia di Pellegrino
Rico
rrenz
e
96Gustare l’Italia
di R
ob
erto
Mo
ttad
elli
“I promessi sposi”, “Le avventure di Pi-
nocchio”, forse una copia ormai ingiallita de
“Le mie prigioni” di Silvio Pellico. E “La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, o
più semplicemente “l’Artusi”, dal cognome
del suo autore, che di nome faceva Pellegri-
no. Ecco che cosa c’era nelle librerie degli
italiani (almeno di quelli alfabetizzati e che
potevano permettersi l’acquisto di libri) agli
inizi del XX secolo.
Tre opere fondamentali della nostra lettera-
tura, ancora oggi protagoniste dei programmi
scolastici fin dalle elementari, e un autore a
lungo negletto. Trascurato non dalla gente
comune, sia chiaro, ma dalla cultura “alta”,
quella che storce il naso all’idea che la cucina
possa essere considerata alla pari delle altre
arti che hanno reso grande il nostro Paese.
Eppure chiunque abbia un minimo di sen-
so estetico sa bene che la gastronomia non
ha nulla da invidiare alla poesia, alla musica,
alla pittura… è semplicemente un’altra
espressione di quella ricerca del bello (e del
buono) che da sempre costituisce la caratte-
ristica migliore della nostra Penisola.
Ne era convin-
to l’Artusi, nato
a Forlimpopoli il
4 agosto 1820 e
scomparso a Fi-
renze il 30 mar-
zo 1911, critico
letterario, scrit-
tore e, per ne-
cessità di sussi-
stenza, anche
intermediatore
finanziario.
Nel 1891, all’età di 71 anni avvertì l’esigen-
za di dare alle stampe un volume assoluta-
mente originale, che fosse insieme un’esalta-
zione conviviale del piacere di mangiare bene
e una raccolta ragionata delle migliori ricette
italiane, presentate con accuratezza positivi-
stica. Passione e precisione scientifica.
Dovette stampare il libro a sue spese.
L’idea, infatti, non aveva convinto nessun
editore, e anche i primi riscontri di critica e
pubblico furono deludenti.
Lo stesso Artusi ricorda un episodio signifi-
cativo accaduto nella sua Forlimpopoli, alla
quale aveva donato due copie del libro per
arricchire l’elenco dei premi di una lotteria: i
vincitori dei volumi, ritenendoli perfettamente
inutili, si erano subito recati da un tabaccaio
cercando di rivenderli per pochi spiccioli.
Per fortuna la situazione cambiò in tempi
abbastanza rapidi. Grazie al passaparola, alla
Gustare l’Italia97
caparbietà di Artusi e all’appoggio inatteso di
uno dei grandi scienziati dell’epoca, il medico
e antropologo darwinista Paolo Mantegazza,
arrivarono i giorni del successo.
Le mille copie della prima tiratura andarono
esaurite: nei vent’anni successivi sarebbero
state pubblicate altre 15 edizioni curate e am-
pliate personalmente dall’autore, fino a rag-
giungere il considerevole numero di 790 ri-
cette prese in esame. Nel 1896 così scriveva
il poeta Olindo Guerrini:
”Non si vive di solo pane, è vero; ci vuole
anche il companatico, e l’arte di renderlo più
economico, più sapido, più sano, lo dico e lo
sostengo, è vera arte. Riabilitiamo il senso del
gusto e non vergogniamoci di soddisfarlo
onestamente, ma il meglio che si può, come
ella [Artusi] ce ne dà i precetti.”
Un trionfo di popolo che non si interruppe
nemmeno con la morte del grande Pellegrino,
tanto che nel 1958 un intellettuale acuto e
tutt’altro che conformista come Giuseppe
Prezzolini poteva rivolgersi alla sua opera con
quella deferenza che si deve ai grandi classi-
ci: “Dammi l’Artusi”. “Cercalo nell’Artusi”.
“Cosa dice l’Artusi?”. L’opera dell’Artusi è
un’autorità e un classico… È un libro unico,
un capolavoro, apparso inspiegabilmente
nella maturità di una vita dedita ad altri scopi,
illuminato da un’ispirazione
che pare quasi come
grazia divina.
100, 120, 150
Il 2011 è l’anno
della riscoperta
di Pellegrino Ar-
tusi e della sua
consacrazione an-
che da parte delle ac-
cademie (ammesso e
non concesso che si sentisse il bisogno di
tardive investiture ufficiali). Ricorre infatti il
centesimo anniversario della sua scomparsa
e La scienza in cucina e l’arte di mangiar be-
ne festeggia i suoi primi 120 anni, proprio
quando l’Italia celebra con orgoglio il 150°
dell’Unità del Paese. Una coincidenza che ha
spinto gastronomi, storici e studiosi a pren-
dere in esame il ruolo di Artusi nella ricerca (e
perché no, anche nella definizione) delle ca-
ratteristiche peculiari della cucina nazionale.
Perché fu lui a mettere insieme per la prima
volta le ricette di babà e baccalà, krapfen e
cappelletti, risotto alla milanese e triglie alla
livornese, budino alla napoletana, broccoli al-
la romana e nasello alla palermitana…
Finalmente gli si riconosce l’enorme merito
di aver favorito l’unità gastronomica di uno
illuminato da un’ispirazione
che pare quasi come
grazia divina.
tusi e della sua
consacrazione an-
che da parte delle ac-
cademie (ammesso e
98Gustare l’Italia
Stato che trent’anni prima ancora non esiste-
va. Patriota convinto, mazziniano fin nel pro-
fondo dell’animo, profetizzò un’Italia di sa-
pori condivisi, nella quale il Nord potesse
apprezzare i piatti del Sud, l’Adriatico le
specialità del Tirreno, la montagna i profumi
del mare. Se quella che alla fine dell’Otto-
cento era soltanto una speranza oggi è una
splendida realtà, bisogna ringraziare per pri-
mo proprio Pellegrino Artusi. Ecco perché è
doveroso celebrare degnamente questo tri-
plice anniversario.
Lo hanno fatto a Forlimpopoli nel mese di
giugno, con le degustazioni, le mostre e gli
incontri della Festa Artusiana, dedicata alla
cucina nazionale. E con l’Artusi Jazz Festival,
rassegna musicale di profilo internazionale
dedicata alla memoria del gastronomo.
Ma le celebra-
zioni sono anda-
te molto oltre i
confini della cit-
tadina romagno-
la, imboccando
innanzitutto la
cosiddetta “Via
Artusiana”, che
attraversa l’Ap-
pennino e appro-
da a Firenze do-
po aver esplorato
straordinarie ec-
cellenze gastronomico-culinarie di provincia:
itinerari e pacchetti turistici ideati per l’occa-
sione stanno seducendo gli appassionati di
buon mangiare e buon bere.
Gustare l’Italia99
Manifestazioni in onore del padre della
nostra cucina si sono tenute anche all’este-
ro (“La scienza in cucina e l’arte di mangiar
bene” è stata tradotta in ben 6 lingue), in
particolare a Francoforte.
E Artusi è tornato in primo piano anche nel-
le librerie: nel 2010, anticipando i tempi, La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è
stata ripresentata da Alberto Capatti in un’edi-
zione critica; perfino un’altra sua opera, di
genere completamente diverso, è tornata a
disposizione dei lettori: la Vita di Ugo Fosco-
lo, ristampata da Carta Canta. Perché non di
solo pane (e companatico) vive l’uomo.
Artusi è addirittura tornato a parlare, sia pu-
re nei panni del protagonista di un romanzo,
un giallo in stile Agatha Christie ambientato
alla fine dell’Ottocento: “Odore di chiuso” di
100Gustare l’Italia
Marco Malvaldi. Eccolo in tutta la sua umani-
tà, gentiluomo capace di infervorarsi per alti
ideali, mentre a tavola spiega ai commensali
la sua idea di Italia unita facendo ricorso a
una ricetta profetica.
Una metafora che più artusiana non si può:
“Io non discuto che per essere unito un Pa-
ese debba avere leggi comuni, e questo è un
grande traguardo. Mi limito ad osservare que-
sto, che gli alberi non crescono tirandoli
dall’alto. Ci vuole tempo, concime e criterio.
Questo Paese è stato costituito da tempo
immemorabile da due tronconi estranei l’uno
all’altro, e pretendere che essi diventino un
solo Paese con uno schioccar di dita, a furia
di leggi, mi sembra francamente troppo spe-
rare. Permettetemi una breve digressione di
cucina. Il nostro pesce è condito con della
maionese. Essa è una emulsione stabile di
olio in una base acquosa, costituita da succo
di limone e aceto. In pratica è come se fosse
un insieme di minutissime goccioline d’olio
disperse in una matrice acquosa: la stabilità
di tali gocce è data da un componente del
tuorlo d’uovo, detto lecitina. Quest’ultima ha
la funzione di ancorare le gocce all’ambiente
acquoso, evitando che l’emulsione si rompa,
e il tutto si smescoli tornando ad olio che
galleggia in acqua.
Per fare la maionese bisogna procedere
con calma e metodo: sbattere alquanto i
rossi d’uovo, e poi aggiungere olio a filo,
pian pianino, all’inizio quasi goccia a goc-
cia, mescolando col cucchiaio finché non
sia tutto incorporato. Alla fine si aggiunge il
succo di limone, oppure l’aceto o la senape
come fanno i francesi.
Abbiamo ottenuto una maionese, qualcosa
che non è acqua e non è olio, eppure è assai
più pregiato delle componenti di partenza,
con una consistenza tutta sua, tale da risulta-
re soda e cremosa, anche se viene ottenuta
mescolando dei liquidi.
Ci vuole pazienza, non si può fare con la
forza bruta. E ci vuole qualcosa che convinca
acqua e olio a stare insieme, che agisca su
entrambe allo stesso modo”.1
1 - M. Malvaldi, Odore di chiuso, Sellerio, Palermo, 2011.
Agriturismo “Pianca”
Agriturismo “Pianca” - Via per Casasco, 1 - Località Pianca - San Fedele d’Intelvi (Co)
Tel. e Fax: +39 031 841191 - Info Line: +39 346 4960185 - E-mail: [email protected]
Parco • LA LOCATIONL’agriturismo “Pianca” si trova a circa 800 metri d’altezza, immerso in
un’oasi di tranquillità a contatto con la natura incontaminata, all’in-terno di un parco naturale di circa 25.000 metri quadrati interamente recintato, con grandi alberi e prati.Qui è possibile fare piacevoli passeggiate seguendo il corso di un ru-
scello e, se si è fortunati, lungo il percorso è possibile imbattersi in cervi, caprioli, volpi e cinghiali, aquile, falchi e altri animali che ancora vivono nella zona.
Aperto tutto l’anno
• LA STRUTTURALe camere si trovano nella dependance situata all’interno del parco, attualmen-
te composta da quattro camere (tre doppie e una singola), ciascuna delle quali fornita di bagno privato completo di idromassaggio/doccia scozzese, una salet-ta interna per la prima colazione e una cucina indipendente a disposizione degli Ospiti. Un ampio terrazzo solarium e un parcheggio privato per le auto comple-tano la struttura dell’agriturismo.
Sala colazione
Cucina
Camera doppia
Sala da bagno
• I DINTORNIPianca, la località che ospita l’Agriturismo, si trova in una posizione
strategica. Qui il clima mite rende possibile, in tutte le stagioni, tra-scorrere serene e rilassanti giornate con pieno sole e con vista sulle catene montuose che circondano la valle.
Oltre alle splendide passeggiate per le vie di San Fedele d’Intelvi (che dista soltanto 2 km), tra antichi lavatoi e tipiche case del cen-tro storico, gli Ospiti che qui hanno sempre le “O” maiuscola pos-sono usufruire di un centro sportivo dotato di piscina per adulti e bambini, palestra e sauna.Gli amanti del trekking avranno l’opportunità di raggiungere la vici-
na vetta del Monte Generoso, dalla quale godranno della magnifi ca vista della Pianura Padana e della Svizzera, mentre gli appassionati di mountain bike potranno affrontare percorsi idonei a ogni diffi coltà.
Percorso Vita
Gustare l’Italia103
Rubriche
ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTIVia Magenta, 31- 21100 Varese
Tel. e Fax: 0332 [email protected] - www.paesidipinti.it
MURI D’AUTOREVia Magenta, 31- 21100 Varese
Tel. e Fax: 0332 [email protected] - www.muridautore.it
Gustare l’Italia105
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L’orto di luglio - agosto Mesi caldi e assolati, dedicati almeno in parte alle vacanze e al riposo, luglio e agosto ci rega-
lano frutti e verdure perfetti per vincere le alte temperature e ricaricarsi con gusto. Ecco un’ampia selezione delle specialità che si possono trovare fresche sui banchi dei mercati (in alcuni casi solo nelle prime o nelle ultime settimane del bimestre, più spesso per l’intero periodo):FRUTTA: albicocche - amarene - ciliegie - cocomeri - fichi - fragole - limoni - meloni - mirtilli - more - mo-re di gelso - nespole del Giappone - pere - prugne - pesche - pesche noci - lamponi - ribes - susine.
VERDURA: aglio - basilico - bietole - carote - cetrioli - cipollotti - fagioli - fagiolini - indivia - insalata da taglio - lattuga - mais dolce - melanzane - ortiche - patate - peperoncini - peperoni - piselli - pomodo-ri - rape - ravanelli - scalogni - sedano - zucchine.
106Gustare l’Italia
Bianco, rosso e verde. Rinfrescante, dol-
ce e dissetante: il cocomero sembra nato
apposta per celebrare l’estate del 150° anni-
versario dell’Unità d’Italia.
Per i botanici è il citrullus lanatus, definizione
scientifica che, in verità, suona piuttosto buffa.
Più semplice chiamarlo con una di quelle
espressioni dialettali che rendono straordinaria-
mente esuberante la nostra lingua: anguria, po-
pone, melone d’acqua, zipangolo, zoparacu…
In fondo l’Italia è bella anche perché ha sa-
puto conservare questa ricchezza di regionali-
smi, nella quale si conserva traccia sia del
passaggio di dominazioni straniere (“melone
I cocomerid’acqua”, per esempio, è la traduzione del no-
me attribuito al cocomero da molti popoli del
Nord Europa), sia del proverbiale spirito ironi-
co dei contadini.
Vuole la tradizione, per esempio, che il ter-
mine calabrese zoparacu, letteralmente “zio
parroco”, derivi dal fatto che il cocomero, così
gonfio e tondeggiante, ricorderebbe il profilo
di certi pasciuti curati di campagna…
Un nome vale l’alto, perché il cocomero è
straniero in Sicilia come in Lombardia, e per
conoscerne l’appellativo originale bisognereb-
be interrogare un boscimano.
È infatti originario dell’Africa meridionale,
come dimostrò il dottor David Li-
vingstone, leggendario esplora-
tore che si trovò di fronte decine
di questi frutti rubicondi nel bel
mezzo del deserto del Kalahari.
Del resto, che provenisse dal
Continente Nero lo avevano già
intuito gli archeologi, studiando i
geroglifici e ricostruendo le abi-
tudini degli antichi Egizi: figurava
infatti tra le provviste che veniva-
no messe nelle piramidi per ac-
compagnare i faraoni nel viaggio
verso l’aldilà.
Dall’Africa si diffuse in Asia e
poi in Europa, forse al tempo
delle invasioni arabe o forse
grazie ai Crociati.
Grazie al clima caldo e asciut-
to, il cocomero si adattò bene
nelle regioni meridionali del no-
stro Paese e venne progressiva-
mente apprezzato per le sue
qualità idratanti.
Gustare l’Italia107
Ricett
e
Cocomero ai frutti di boscoIngredienti per 4 persone: 1 cocomero di circa
2 kg di forma regolare - 150 g di frutti di bosco misti - 1 limone - 4 cucchiai di zucchero -100 g di vino bianco.
Preparazione piatto: tagliate il cocomero a me-tà e togliete un pezzetto di buccia alla base in mo-do che stia facilmente appoggiato su un piatto.
Con l’apposito attrezzo scavate tante picco-le palline, che disporrete in un’insalatiera insie-me con i frutti di bosco precedentemente la-vati e asciugati.
Condite con il succo di limone, il vino elo zucchero. Lasciate macerare per circa 30 mi-nuti in frigorifero.
Terminate di svuotare il cocomero e ripulitelo all’interno. Al momento di gustare disponete la frutta macerata nella coppa di cocomero.©
Pet
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rato
chvi
l.
Contiene infatti oltre il 90% di
acqua, risorsa preziosissima nei
mesi più caldi, e una buona
quantità di fruttosio e vitamine A
e C, B1 e B6.
Inoltre è un buon serbatoio di
magnesio e potassio, importanti
sali minerali che aiutano a com-
battere la stanchezza dovuta
all’afa, e ha un basso contenuto
in sodio. Ed è poco calorico, un
dato da non trascurare quando
si tiene alla linea…
Per godere appieno di queste
proprietà è importante, però, scegliere bene il
frutto che si acquista: operazione non sempli-
ce, visto che a occhi inesperti i cocomeri sem-
brano assomigliarsi tutti.
Buona norma generale è preferire i prodotti
italiani e a filiera corta, che danno maggiori ga-
ranzie di freschezza. Il consiglio è poi di sce-
gliere i cocomeri con il peso specifico maggio-
re e quelli che, percossi con le nocche,
rispondono con un suono nitido. Inoltre si può
provare a grattarne la buccia con un’unghia:
se lo strato più superficiale si stacca facilmen-
te, significa che il frutto è maturo.
Se pensate di non consumare il cocomero in
tempi brevi (entro una decina di giorni circa),
rimandate l’acquisto e non scegliete un
esemplare acerbo: una volta colto, infatti,
smette di maturare.
108Gustare l’Italia
© P
etr
Kra
toch
vil.
Saturnine e nettarine, bianche e gialle, me-
rendelle e montagnole. Sembra una filastrocca
da cantare in girotondo con i bambini, magari
all’aperto, in un’assolata giornata estiva.
Invece sono solo i nomi di alcune tra le infini-
te varietà di pesche che ren-
dono ancor più bella la bella
stagione, dal suo timido af-
facciarsi dalle brume inverna-
li fino al momento in cui cede
il passo ai colori caldi dell’au-
tunno: perché se le più preco-
ci sono pronte già tra maggio
e giugno, la maggior parte
matura in luglio e agosto… e
le tardive splendono sui rami
ancora a settembre inoltrato.
Difficile resistere. Una pesca
matura, coltivata a regola
d’arte, può far innamorare di
sé ancor prima che se ne as-
sapori il gusto dolce, con
quella pelle vellutata e quel
profumo delicato e insieme
inebriante. Del resto, la pesca
nasce da fiori che simboleg-
giano amore immortale e
compiacenza reciproca.
Forse il segreto del fascino
multiforme di questo frutto,
capace di sposarsi con il vino come con il tè
e gli sciroppi, viene dalla sua origine esotica,
svelata già dal nome scientifico: prunus per-
sica. Dalla Persia, infatti, arrivavano quelle
carovane di mercanti che nel I secolo dopo
Cristo ne portarono in Europa i primi esem-
plari, destinati a mettere radici e a moltiplicar-
si lungo le coste mediterranee.
Le pescheAmate dall’imperatore Dario III, in realtà le
pesche provenivano da ancor più lontano.
Erano nate in Cina, dove le si considerava
simbolo d’immoralità (che i saggi orientali
avessero già capito che mangiare molta frutta
allunga la vita?); e prima di attraversare il Me-
diterraneo erano arrivate in Egitto: qui un altro
popolo di cultura raffinatissima le aveva con-
sacrate ad Arpocrate, dio dell’infanzia, forse
per via della loro rosea delicatezza. I Romani
stavano per raggiungere l’apice della loro glo-
ria e non avevano tempo per inseguire simili
associazioni d’idee.
Gustare l’Italia109
Ricett
e
Pesche ripiene all’emilianaIngredienti per 4 persone: 4 grosse pesche -
100 g di zucchero - 50 g di amaretti - 30 g di mandorle - 50 g di burro - 1 bicchiere di marsala.
Preparazione piatto: Immergete le mandorle per un minuto in acqua bollente, pelatele e trita-tele. Pestate gli amaretti con un pestacarne, ri-ducendoli in polvere.
Lavate le pesche e, senza pelarle, apritele a metà, togliete il nocciolo e, con un cucchiai-no, scavatele leggermente in modo da ren-dere un poco più profonda l’incavatura la-sciata dal nocciolo.
Fate sciogliere il burro in una pirofila che possa andare sul fuoco, larga a sufficienza per farvi sta-re comode le mezze pesche, sistemate nel reci-piente le mezze pesche con la parte aperta rivol-ta verso l’alto, distribuite nell’incavo le mandorle tritate e gli amaretti, poi spolverizzate tutto con lo zucchero, irrorate le pesche con il bicchiere di marsala e lasciate cuocere a fuoco molto dolce, con il coperchio, per un’oretta.
A cottura ultimata il sughetto di cottura delle pesche deve avere la consistenza di uno scirop-po. Servitele subito, distribuendo su ognuna qualche cucchiaiata di sciroppo.
Ma, nel loro pragmatismo, amavano
la buona tavola. Dunque apprezzarono
le pesche per il contributo che poteva-
no dare sotto il profilo gastronomico,
che non è poca cosa.
Oggi sappiamo che, oltre a soddisfare la
gola e a prestarsi a un’infinità di ricette, le
pesche fanno benissimo anche alla salu-
te. Sono infatti un ottimo integratore
naturale di potassio e contengono
importanti vitamine e provitamine, co-
me la A, la C e la PP; inoltre forniscono un ap-
porto calorico moderato.
Per trarne i massimi benefici sarebbe bene
mangiarle lontano dai pasti, in modo da evitare
ogni rischio di fermentazione a contatto con al-
tri cibi, come i latticini. Inoltre è consigliabile
sbucciarle, a meno che non si abbia la certezza
di una loro provenienza biologica, perché la de-
licatezza della pianta, soggetta agli attacchi di
afidi e cocciniglie, fa sì che molti agricoltori uti-
lizzino prodotti anticrittogamici che tendono a
rimanere sullo strato più superficiale dei frutti.
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eod
oro
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ruhl
110Gustare l’Italia
C’è un ortaggio che più di ogni altro si iden-
tifica con la nostra cucina, eppure non è nato in
Italia. Abbiamo imparato a coltivarlo da poco
più di quattrocento anni: sembrano molti, ma
se li si rapporta ai tempi lunghissimi della natu-
ra si comprende come siano davvero poca co-
sa. E lo mangiamo da ancor meno tempo, visto
che ha dovuto fare i conti con infondati sospet-
ti di tossicità e a lungo è stato utilizzato soltan-
to per decorare parchi e giardini.
Insomma, che cosa sarebbe la dieta mediter-
ranea se dal Messico e dal Perù, insieme ai
metalli preziosi e a tante altre specialità all’epo-
ca sconosciute, nel tardo Cinquecento non
fosse sbarcato in Europa anche il pomodoro?
Ringraziamo i Conquistadores e le civiltà pre-
colombiane se non siamo costretti a fare i con-
ti con tavole e ricettari orfani dei più classici de-
gli spaghetti e della più tipica delle pizze.
Gli Aztechi, che ne erano ghiotti, lo chiama-
vano tomatl, parola dalla quale derivano i no-
mi con i quali questo ortaggio fu subito bat-
tezzato in molti Paesi: basti pensare
all’inglese tomato e al transalpino tomate,
termine usato anche in spagnolo e in tede-
sco, sia pure con diversa pronuncia.
I pomodori
Del “vero” nome del pomodoro rimane
traccia pure nei dialetti di diverse regioni ita-
liane che hanno vissuto dominazioni stranie-
re, o hanno intessuto rapporti commerciali e
culturali particolarmente intensi con il resto
del continente: in molte campagne ancora
oggi si sentono risuonare parole come tu-
màtes e tomàtica...
Bisogna però riconoscere che “pomodoro”
è un nome bello e simpatico. Evoca un’idea
di preziosità, lucentezza, pienezza e, secon-
do alcuni, alluderebbe anche alle gioie
dell’amore: a dar fede a un’affascinante teo-
ria, deriverebbe infatti dall’espressione fran-
cese pomme d’amour, motivata dalle sue
(presunte) virtù afrodisiache.
Più probabile è che agli italiani e ai cugini
transalpini, quando videro per la prima il to-
matl, sia venuto spontaneo paragonarlo a
una mela (“pomo”) d’oro. Pare che, in origi-
ne, il colore del pomodoro fosse proprio uno
squillante giallo dorato.
Alcune varietà con sfumature cromatiche
particolarmente luminose esistono ancora.
Gustare l’Italia111
Anche se nell’immaginario collettivo il pomo-
doro è rosso e tondo, è noto a tutti che se ne
coltivano molte tipologie diverse, ciascuna
con le sue caratteristiche morfologiche.
Basta girare per i banchi del mercato, o negli
orti di campagna, per ricordarsi che ne esisto-
no di adatti al consumo fresco o alla produzio-
ne di succhi e concentrati, alla trasformazione
in pelati o in passata, o anche alla conserva-
zione per essiccazione.
Piccoli e grossi, tondi e oblunghi, Pachino e
Cuore di bue, Camone di Sardegna e San
Marzano, solo per citare alcune tra le varietà
più pregiate diffuse nel nostro Paese.
E, per tornare ai pomodori di colori insoliti,
non si possono dimenticare quello giallo di
Castelfiorentino, ottimo da cucinare ripieno, e
quelli di Sorrento e Belmonte Calabro, che as-
sumono invece nuances violacee e rosate.
Già scorrendo questo ridottissimo elenco si
intuisce come i pomodori vengano coltivati
praticamente su tutto il territorio nazionale, e
come in ogni zona si sia radicata la varietà più
adatta al microclima locale. Un inno alla biodi-
versità, risorsa da difendere a ogni costo con-
tro le omologazioni del gusto, del colore, della
forma e perfino delle proprietà nutrizionali.
Ogni tipo di pomodoro, infatti, ha caratteristi-
Ricett
eIngredienti: 2 pomodori grossi tondi - 4 for-
maggini caprini - un ciuffo di erba cipollina - 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva - sale e pepe nero.
Preparazione piatto: Tagliate a metà i pomo-dori, dopo averli ben lavati e togliete i semi con un cucchiaio.
Tritate metà dell’erba cipollina e amalgamate-la con il caprino. Insaporite con sale e pepe, unite un po’ di olio e mescolate bene.
Riempite con il formaggio i pomodori, decora-teli con qualche stelo di erba cipollina e servite.
che proprie anche sotto il profilo chimico e
biologico, e ciò determina diversi apporti di vi-
tamine e sali minerali.
Tutti, però, sono accomunati da un buon
contenuto di potassio e fosforo, vitamina C,
betacarotene e acido malico.
Quest’ultimo, che in genere nel pomodoro si
accompagna ad altri acidi, favorisce la dige-
stione stimolando l’azione dello stomaco: ec-
co perché, oltre che buono da solo, il pomo-
doro è perfetto come accompagnamento di
altri alimenti, a partire da quelli ricchi di fecole
e amidi. Una verità che - lo dimostra la cucina
mediterranea - la saggezza popolare ha com-
preso ben prima degli scienziati…
Pomodori ripieni di caprino
112Gustare l’Italia
Il grande libro dell’orto e della cucina naturale - Laura Rangoni
Come scegliere il posto ideale per un nuovo orto, concimarlo,
preparare il letto di semina; come seminare, irrigare, proteggere
le colture da parassiti e malattie; quali sono le principali verdure,
le varietà, i tempi della raccolta e i metodi di conservazione.
Laura Rangoni risponde a tutte queste domande e a molte al-
tre ancora, e ci regala tante deliziose ricette, per godere a ta-
vola dei frutti genuini del nostro orto. Infine illustra, mese per
mese, i lavori da fare, cosa seminare con luna crescente e con
luna calante, come trapiantare, cosa raccogliere, e ci racconta
tutte le curiosità legate al mito e alla tradizione contadina.
L’ABC della coltivazione per uso familiare in un manuale sem-
plice, pratico e rigoroso, che permetterà a ciascuno di creare
da sé, con passione e senza difficoltà, il proprio orto ideale.
Edizione: Newton Compton - Pagine: 320 - Prezzo: € 14,90
100 bottiglie straordinarie dalla collezione più esclusiva del mondo - Michel - Jack Chasseuil e Jacques Caillaut
Un volume unico nel suo genere, che raccoglie 100 preziosissime bottiglie che tutti gli appassionati di
enologia vorrebbero avere. Una selezione di vini da sogno: una bottiglia di “Romanée-Cont”i del 1945,
anno in cui nel più famoso vigneto di Borgogna ne furono prodotte appena 608; uno “Château d’Yquem”
del 1811, migliore annata in assoluto per questo splendido nettare liquoroso; uno “Champagne Bollin-
ger” del 1928, le cui bollicine sono leggendarie; un “Barbaresco di
Gaja” del 1961, che dona al naso aromi di ciliegia nera, lampone,
liquirizia e tartufo; due splendidi esemplari di “Petrus”, il più costo-
so e rinomato tra i vini di Bordeaux.
Queste “primedonne” costituiscono l’eccezionale patrimonio
di Mr. Chasseuil, collezionista fuori dal comune che ha rincor-
so per tutto il mondo vini antichi e prestigiosi e che ora vanta
una cantina semplicemente straordinaria. Chasseuil racconta
la storia di una passione e delle sue ricerche a livello interna-
zionale, narra di ambienti esclusivi e di bottiglie mitiche, i cui
nomi sono conosciuti in tutto il mondo.
Gli appassionati troveranno innumerevoli informazioni utili per
comprendere appieno tutto quel che riguarda i più grandi vini del
mondo: vitigni, produzione, migliori annate, note di degustazione. Le splendide fotografie di Jacques
Caillaut regalano maestosità alle bottiglie e fanno di questo libro un’autentica galleria d’arte, imperdi-
bile sia per gli esperti conoscitori, sia per i semplici appassionati.
Edizione: Gribaudo - Pagine: 256 - Prezzo: € 49,00
del
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edaz
ione
Libri
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angi
are
Gustare l’Italia113
Che cosa cucinare e come cucinarlo - Jane Hornby
L’innovativo volume di cucina che accompagna i novelli chef
nella realizzazione di ricette di tutto il mondo con un ricco ap-
parato di immagini che illustrano tutti i passaggi della prepa-
razione di ogni singolo piatto.
Cominciando dai suggerimenti su come fare la spesa fino alla
presentazione dei cibi nel piatto, l’autrice Jane Hornby ac-
compagna in tutte le fasi della preparazione di 100 ricette sfi-
ziose con curiose proposte da tutti gli angoli del mondo.
Se non sapete quindi cosa mettere in tavola, “Che cosa cuci-
nare & come cucinarlo” vi toglierà dall’imbarazzo di proporre
le solite cose note. Per facilitare la scelta, il volume è
organizzato in sezioni tematiche con ricette per la colazione,
il brunch, un pranzo leggero, una cena semplice o piatti più elaborati per il week-end, oltre che i con-
torni e gli immancabili dessert. Un’appendice dedicata vi aiuterà poi a creare originali menù tematici
per stupire i vostri commensali.
Il ricco apparato fotografico e l’esaustivo testo illustrano step by step tutti i passaggi per la realizza-
zione di ogni singola ricetta, così da non farvi mai sentire spaesati in cucina. Scoprirete così come non
è mai stato così semplice preparare il chilli con carne e patate arrosto, il tajine di fagioli con chermou-
la e cuscus, il thai curry con manzo, le patatas bravas con chorizo, una golosa apple pie o un più clas-
sico pollo arrosto. “Che cosa cucinare & come cucinarlo” diventerà ben presto un prezioso compagno
in cucina, con idee semplici e golose per tutte le occasioni.
Edizione: Phaidon - Pagine: 416 - Prezzo: € 39,95
Avanzi popolo - L’arte di riciclare tutto quello che avanza in cucina – Storie, ricette e consigli - Letizia Nucciotti
Esiste una cucina che rifugge dal precotto e dell’“usa e getta”, non
riconoscendosi nella semplice esecuzione di qualche ricetta grade-
vole o nell’allestimento di un pasto occasionale.
È quella proposta in questo libro, tra ricette, consigli e racconti. Una
cucina che diventa un modo di essere e di vivere, riassume una scel-
ta di qualità, cura ed economia, prevede la razionalizzazione degli
spazi e un investimento di tempo ed energie non sporadici.
Una cucina in cui l’avanzo non è uno scarto, ma un alimento a
pieno titolo, utile a completare, arricchire o trasformare un pa-
sto, aggiungendo al gusto del palato quello più profondo e per-
sistente del rispetto e del non spreco. Fino al punto di creare
appositamente degli avanzi.
Edizione: Stampa Alternativa - Pagine: 336 - Prezzo: € 16,00
114Gustare l’Italia
Indi
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33 Lolli con guanciale, anice stellato e Carota Novella di Ispica
Flan di Carota Novella di Ispica
Reginette con canocchie e crema di carote al cardamomo nero -
Gelato alla carota
56 Cavatelli al conditonno Colimena
61 Filetto di tonno in crosta di pistacchi e pinoli su insalatina di ortaggi e gamberi viola di Gallipoli al fi nocchietto selvatico
33
83
83
8256 61
107 109 111
82 Linguine all’astice
83 Baccalà gratinato con cipolle rosse di Tropea
Ossobuco con risotto alla milanese
107 Cocomero ai frutti di bosco
109 Pesche ripiene all’emiliana
111 Pomodori ripieni di caprino
Benagiano Pastifi cio srlCorso Italia 138-140/b - 70029 Santeramo in Colle (Ba)Tel. 080-3036036 - E-mail: [email protected] - Website: www.benagiano.it
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