Guido Piovene - Lettere Di Una Novizia

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Lettere di una novizia (italian)

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Letteratura italiana Einaudi

Lettere di una

novizia

di Guido Piovene

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Edizione di riferimento:Lettere di una novizia, in Opere narrative, a cura diClelia Martignoni, Mondadori, Milano 1976

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Lettera I 6Lettera II 28Lettera III 29Lettera IV 31Lettera V 32Lettera VI 35LetteraVII 36Lettera VIII 37Lettera IX 38Lettera X 40Lettera XI 41Lettera XII 44Lettera XIII 45Lettera XIV 46Lettera XV 47Lettera XVI 79Lettera XVII 81Lettera XVIII 88Lettera XIX 100Lettera XX 101Lettera XXI 103Lettera XXII 105Lettera XXIII 113Lettera XXIV 114Lettera XXV 118Lettera XXVI 122Lettera XXVII 125Lettera XXVIII 126Lettera XXIX 129Lettera XXX 130

Sommario

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ivLetteratura italiana Einaudi

Lettera XXXI 131Lettera XXXII 133Lettera XXXIII 134Lettera XXXIV 135Lettera XXXV 136Lettera XXXVI 137Lettera XXXVII 141Lettera XXXVIII 146Lettera XXXIX 148Lettera XL 151Lettera XLI 155Lettera XLII 157

Sommario

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Ai miei genitori

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I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra lo-ro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscer-si a fondo. Ognuno capisce se stesso solo quanto gli occor-re; ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati,pronti a mutare secondo la sua convenienza, senza con-traddizione né bugia né riforma; ognuno sembra pensarela propria anima non come sua essenzialmente, ma comeun altro essere con cui convive, seguendo una regola di di-plomazia, traendone di volta in volta o voluttà, o medici-na, o perdono.

Se noi, piú esatti o meno pietosi di lui, vogliamo dare aquesto comportamento il nome che gli compete, siamo for-se costretti a definirlo malafede. La malafede è un’arte dinon conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noistessi sul metro della convenienza.

Mi si può chiedere se non sia inverosimile che i mieipersonaggi non lascino nemmeno per un istante questa in-tima diplomazia. Dico che un uomo è sempre, o mai, inmalafede; la malafede non è uno stato dell’animo, è unasua qualità.

Resta da spiegare perché io abbia descritto in modo cosíesclusivo gente di quella specie. Perché non avrei potutofare diversamente. Chiunque di noi scriva libri, cerca difornire figure del bene come del male, ma ricava le une ele altre da una medesima informe qualità umana, sua per-sonale e diversa dalle altre, da cui nascono il bene e il ma-le di volta in volta; la qualità umana di questo libro è,piaccia o non piaccia, la mia, s’intende come scrittore; tan-to che, se mai potrò parlare nei prossimi libri di qualchevittoria morale, giungerò ad essa non certo con l’eliminarela qualità umana che qui ho sfiorato, ma col penetrarvipiú a fondo. Non direi il vero se non precisassi però chenon soltanto essa mi è necessaria ma anche talvolta simpa-tica. Rita, la mia protagonista, vive con me come un pae-saggio. Non potrei non amarla, essa che sembra raccoglie-re in un miscuglio di sentimenti evasivi il piú caro e piú

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molle paesaggio della mia vita, il Veneto di terraferma, isuoi colli che spuntano nel mezzo della pianura, e vi ri-mangono sperduti, guardando tutto all’intorno, con prati,selve, vigne, giardini a balcone. Giungono a questi colli,che sono poi quelli di Rita, opposti richiami fantastici, dalmare e dal settentrione, tra i quali l’anima è agitata e per-plessa, e non riesce a prender forma. Una delle bellezze diquesta terra sono certamente le nebbie di vario ed incertocolore, tanto che il paesaggio non giunge a definirsi per in-tero, quasi che voglia essere tutti i paesaggi nell’infinitodella sua ambiguità. La nostra persona e le cose si confon-dono in una sola mollezza umana, e ogni colore, ogni pas-saggio di luce accrescono in noi un piacere che assomigliaall’intelligenza. Potrei non amare Rita, che riassume que-sto paesaggio e lo conduce nel ricordo?

Ma i miei gusti hanno anche qualche altro motivo, piúragionevole di questo, e molto meno voluttuoso. La mag-gior parte dei moralisti moderni ci prescrive l’acume el’intrepidezza mentale, per ottenere mediante il loro eser-cizio la sincerità con noi stessi e la chiarezza interiore.Nell’insegnamento moderno si ordina all’uomo morale dichiarire senza pietà la sua piú intima natura, per ricavarnetutte le conseguenze ed accettarne le passività anche costo-se. Ora io vorrei suggerire: la sincerità e la chiarezza sonodue grandi virtú; pure anche il loro culto non deve esserené passivo né cieco, e perde ogni valore morale se non èregolato e condotto dalla pietà.

La morale fanatica della chiarezza interiore non è utileall’arte in quanto combatte e distrugge il mondo dei senti-menti, che quando essa interviene paiono tutti fittizi, nonperché siano tali, ma perché giudicati secondo una regolaestranea che li fa parere illusioni. Ma quello che scrivo hamotivi anche piú gravi dei motivi dell’arte.

Noi uomini moderni non possiamo aspirare alla stu-penda ignoranza di alcune zone pericolose dell’animo, chegarantiva la vita dei nostri antichi. Noi siamo costretti

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all’acume. Appunto per questo occorre moderarlo conti-nuamente di una pietà guardinga, di una carità volonta-ria, che impedisca all’acume di dominarci del tutto e dive-nire una passione ed un vizio. Bisogna ammettere che lostato dell’uomo è stato di infermità, ed ognuno di noi de-ve certo capirsi, ma soprattutto assistersi e prendersi in cu-ra. Ognuno di noi, come medico, nel suo animo deve sa-per rischiarare o abbuiare, ricordare o, se occorre, lasciarcadere nell’oblio, e regolare la chiarezza interiore con unaspecie di umana diplomazia. Diplomazia, ma quella stessache insegna a nascondere anche nel nostro segreto le cosemeno degne dell’animo nostro, a dissimulare il fastidioche ci dà un sofferente, a tollerare per anni senza mostrar-lo il peso di un matrimonio increscioso; e ad ammettere innoi solo quello che è utile, che può diventare buono.

I personaggi del mio libro possiedono questa intima di-plomazia, ma volta a cattivo scopo e ad esclusivo profittodella loro pigrizia e del loro egoismo. Il contenuto di tuttoquello che fanno è dunque da biasimare; il metodo, direi laforma, è degno di riflessione. Solamente la grazia potrebbemutarli a tal punto, da volgere ad altri fini la pietà e la pru-denza di cui si rivelano ricchi; ma, se venisse, troverebbeun terreno che non mi sembra refrattario. Io non oserò cer-to, dopo le mie affermazioni, nominare il cattolicesimo,che è troppo augusto per potersi confondere con gli imper-fetti tentativi di un’anima di mettere ordine in se stessa ocon questi princípi cosí privati e cosí monchi. Non si po-trebbe, senza irriverenza, chiamare in nostro soccorso unareligione che predica la severità del giudizio ed il coraggiocontro il male. Pure in quello che scrivo forse si sente, nonil pensiero cattolico che sarebbe eresia, ma il riflesso di unaciviltà del sentimento, che nasce dalla pratica del cattolice-simo e dalla sua cauta legislazione dei sentimenti dell’uo-mo. Anche per questo i personaggi del libro sono in granparte religiosi, si muovono in ambienti vagamente ecclesia-stici, senza che nulla sia preso però dal vero e senza aspira-

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re nemmeno alla verosimiglianza. Se in essi è un germe re-ligioso, possa dar frutto in altri libri, in personaggi di simi-le costituzione, ma che si salvino con il decisivo passaggiodalla pietà degli egoisti alla carità dei cristiani.

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LETTERA I

Margherita Passi, novizia del Convento delle** sui collidi**, a don Giuseppe Scarpa, canonico del Duomo di**.

La vostra visita al convento, quando ci avete confessa-to, ha lasciato in noi tutte una cosí forte impressione,che finalmente ho trovato il coraggio di affidarmi a qual-cuno per domandare consiglio. Vi chiedo che questa let-tera e le vicende che vi espongo rimangano segrete cometra penitente e confessore.

Io sono la ragazza che vi si è accostata per ultima qua-si volesse trattenervi piú a lungo, e si è staccata a malin-cuore. Non ero riuscita a dirvi tutto il mio pensiero, perquanto avessi risoluto di farlo. Pure, se non m’inganno,avete mostrato per me una speciale premura, forse sa-pendo che devo prendere il velo e forse perché sentivateche non ero contenta. Alcune vostre domande mi sonoparse un delicato stimolo ad aprirvi il cuore. Mi sarà cer-to piú facile osarlo per iscritto, tanto piú che per farvicapire la mia condizione dovrò narrare come vi sonogiunta e ricordare con ordine alcune minuzie. Vi faròperdere qualche ora di tempo; ma per voi forse non ètempo perduto; anzi è perduto solo quello che non im-piegate ad assistere un’anima che si smarrisce. Nella in-quietudine in cui vivo, nell’imminenza di assumere ungrave impegno, non posso ricorrere ad altri che ad un fi-dato confessore, e non devo farmi distogliere dal timored’infastidirlo. Ecco, padre, il mio dubbio; non mi sentosicura della mia vocazione.

Ho davanti agli occhi, scrivendo, una immagine sacracon la figura di Santa Giustina, che m’accompagna dallaprima infanzia, da quando il nonno la portò in cameramia applicandola all’uscio con due puntine da disegno.Gli occhi rivolti al cielo, la palma del martirio appoggiataalla spalla, il petto squarciato, i piedi sollevati da terra,

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anch’essa ha una piccola parte nella storia della mia vita.E non pensate che io divaghi. Il senso dei miei trascorsi ècosí incerto e sfuggente, che io non so trarne una conclu-sione fondata, né sceglierli in vista di essa. Sono costrettaa dirveli alla rinfusa ed a pregarvi di spiegarmeli voi.

Negli ultimi anni della mia infanzia abitavo coi nonnipoco lontano di qui, nella villa gialla affrescata davantialla quale si passa per giungere a questo convento. Miopadre era morto prima che potessi conoscerlo, mia ma-dre era una giovane donna dell’altro secolo, e vivevapiuttosto con gli amici che coi familiari, tra crisi passio-nali, delicatezze fantastiche e presunzioni signorili, colti-vate in disparte nella sua camera verde all’ultimo piano.Non si curava di me perché non sapeva che cosa dire auna bambina, ma si riprometteva di stringere con mequando fossi una donna un’amicizia sviscerata, ed odia-va per questo di una gelosia preventiva tutti quelli cheamavo o che soltanto mi stavano intorno. Vivevo abba-stanza felice con i nonni paterni e una governante, chemi consideravano una bambina malinconica per l’incu-ria materna e perciò mi trattavano con tenera cautela. Ècerto che mia madre, per quanto poco si occupasse dime, era assorbita dall’odio per quelli che mi accostava-no, e che accusava di staccarmi da lei; tanto che spessointerveniva, allontanando un’amica, licenziando una go-vernante, sconvolgendo la trama della mia quieta e mo-notona vita. Per questo la camera verde e gli eventi chevi maturavano erano sempre una ragione di ansia. Inquanto alle crisi di mia madre, so che l’udivo singhiozza-re, la vedevo talvolta con gli occhi e i capelli aridi, la pel-le opaca su cui trascorreva il rossore, in tutta la bruttez-za della sofferenza amorosa. Talvolta poi, volendoriconquistarmi, mi chiamava in camera sua; alta, pallida,esile, i capelli nero-rossastri, avvolta in una vestaglia vio-letta, mi baciava di scatto, mi faceva sedere su uno sga-bello ai suoi piedi, apriva un libro di fiabe, che le pareva

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un terreno adatto nel quale il mio animo e il suo potes-sero incontrarsi nella simpatia del piacere. Leggeva adalta voce spiandomi nel volto. Vi trovava la mascheragonfia e senza luce dei bambini tardi e distratti. Mi chie-deva il riassunto di quello che aveva letto e non ottenen-do risposta chiudeva il libro con un colpo. Ero per leiuna bambina prosaica, priva di fantasia, e non aveva tor-to. Mi bastava udirla parlare di quelle sue Pelle d’Asinoo Cenerentole, udirla ridere o piangere, perché mi sen-tissi il cervello arido e positivo come quello di un vec-chio. Ma non tocca a me giudicare.

Magro, la pelle rossiccia, le mani grandi, gli occhi ci-lestrini, piccoli e come foranti, il nonno si divertiva a gi-rare per casa con lime, martelli e tenaglie, ora piantan-do un chiodo, ora aggiustando un’imposta. Avevaanche il piacere dell’avarizia, tenuta nei giusti limitiperché rimanesse piacere; non negarsi nulla del tuttoma sempre negarselo a mezzo, ricevere gente mediocre,tenere servi utili e sciatti, mangiare buoni cibi mal pre-sentati. Questa avarizia però si riassumeva in un princi-pio religioso, che governava la nostra famiglia, e che ilnonno esprimeva solitamente con queste parole: unpiccolo sacrificio. Una mattina d’inverno che m’ero sve-gliata in un rosa fervido di paradiso portato dal sole suimuri bianchi della mia camera, entrò d’improvviso epiantò sull’uscio la Santa Giustina, dalla quale ebbiconsiglio in un momento grave.

La nonna aveva il viso pallido e largo, le pupille az-zurre sbiadite, la bocca tumida e sentimentale. Nonosando sgridarmi, ritenendo che fossi troppo precoce esensibile per tollerare un castigo, aveva escogitato per lemie piccole mancanze un mezzo di rimprovero dolce maanche solenne; quello di scrivermi e di leggermi lunghee frequenti lettere firmate da Gesú. Con questo metodootteneva di prolungare tutto l’anno l’aria del Santo Na-tale, di trasformare ogni mio fallo in una nuova occasio-

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ne per scambiare lagrime e baci, e di allontanare da sél’odiosità del pedagogo. Infatti leggendo le lettere finivaper ribattere tutte le loro accuse e per difendermi controil giudizio del cielo.

L’ultima governante, che vide la mia disgrazia, era undonnone grasso, buono e devoto, che non usava cosme-tici per economia e per pietà, ma si permetteva talvoltala civetteria casalinga di tingere le sopracciglia con ilcarbone da cucina. Mentre giocavo in giardino, si facevaavanti vestita d’una sottana nera e lunga, che le sfiorava ipiedi divaricati, e d’una camicietta rosso solferino; enor-me, rubiconda, ma strettissima in vita per rendersi piúsnella; il passo stranamente silenzioso ed elastico, il vol-to stupido e stordito. Mi prendeva la mano, mi sussurra-va in tono grave:

«Vieni, c’è posta per te».Nonna Giulia attendeva su una poltrona accanto al

letto. Mi chiamava a sé, mi faceva sedere sulle ginocchia;quand’era sazia di stringermi e di baciarmi, metteva gliocchiali e prendeva una lettera chiusa, fermata col libroda messa sul tavolino da notte. Apertala con circospe-zione, correva a guardare la firma, mi sussurrava conaria compresa: «Il Signore», e dopo una pausa,quand’era convinta che avessi capito la solennità delmomento, leggeva che quella mattina non m’ero alzataall’ora giusta o che avevo trattato male il giardiniere. Lagovernante si fermava a guardare, ritta, le braccia cion-doloni, gli occhi lustri di pianto.

A quella lettura provavo un sentimento dolcissimo.Per solito m’inginocchiavo sulle gambe della nonna, eabbandonandomi con le braccia sulle sue spalle, mi guar-davo in uno specchietto appeso dietro la poltrona. Le la-grime scendevano sulle mie guance grassocce; gli occhimi si ingrandivano nel volto che rimaneva sereno, distesoe incantato. Ogni tanto, senza scompormi né smetterequel pianto estatico, facevo un piccolo singhiozzo; la

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nonna, che già leggeva con grande difficoltà alzando die-tro la mia schiena il foglietto, si fermava trepidante; maio non piangevo, anzi schiudevo la bocca in atto di fervo-re, per supplicarla di giungere in fondo. Ripresa la lettu-ra scoppiavo a tradimento in un pianto convulso. La go-vernante mi prendeva allora la testa fra le mani tremanti,dicendo che mai s’era vista una bambina piú ricca d’in-gegno; la nonna, stringendomi al seno quasi per riparar-mi da un attacco smodato, mi insinuava nel pugno il fo-glietto in segno della mia vittoria; poi alzavano la testaverso la camera di mia madre, dicendo: questa poverinacapisce; eh, capisce; anche troppo. Finalmente la gover-nante, passatomi il braccio al collo, mi conduceva in cu-cina a calmarmi. Ma il principale compenso era semprela lettera, che avevo ricevuto in dono. Mi deliziavo di ri-leggerla e stringerla; a tavola la tenevo aperta e premutasulla tovaglia, spesso con le due mani. La nonna vedevain questo un’anima troppo sensibile, scrupolosa ed incli-ne al gusto di mortificarsi, che prolungava in quel contat-to ostinato un pericoloso rimorso. Impressionata, cerca-va di separarmene, dicendomi che quelle accuse eranomolto esagerate. Ma io mi rivoltavo con gli occhi lucentidi grosse lagrime che, sprizzate in silenzio, rimanevanocome infilate nelle ciglia «Che cuore ha questa bambina,non si può dirle nulla senza ferirla, anche questo è trop-po per lei», diceva la buona donna; e la lettera andava inun pacchetto con le altre, che tenevo in camera mia, lega-to con un nastro di seta cangiante.

A questo punto non vorrei dilungarmi in spiegazioni,ma v’ho chiesto consiglio e devo pur farmi capire. Nellecose dell’anima mi sembra poi piú opportuno un ecces-so d’indugio che un racconto troppo sommario. Com’èpossibile, chiedete, che una bambina di nove o dieci an-ni credesse che una lettera fosse scritta da Dio? Rispon-do che non vi credevo, anzi possedevo una quieta e sere-na coscienza che le scrivesse la nonna. Questo non mi

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turbava né contraddiceva la loro origine soprannaturale.Come i due fatti potessero andare d’accordo, chiedetelonon a me, ma a quell’infanzia che tranquillamente accet-tava ciò che trovava intorno, non si curava di critiche nédi confronti, rifuggiva da ogni sospetto che la inquietas-se, ed insomma fioriva in tutta la sua purità. Anzi vi diròche il sapere che quelle lettere erano di nonna Giulia,anziché togliermi la fede nel soprannaturale, me lo face-va scendere a pochi metri, e a poco a poco m’avviava avivere in esso dalla mattina alla sera.

Di questa chiara confusione erano anche improntati imiei giochi. Passavo la giornata passeggiando in giardi-no, un giardinetto pensile la cui ringhiera era ornata distatuette in pietra dolce: Nettuno con il delfino, Venereignuda, Diana con la luna ai piedi. La parola: passeggian-do, che sembrerebbe impropria per una bambina, è inve-ce la piú giusta. Giravo infatti come assorta, ammorbi-dendomi al soffi dell’aria veneta, che sembra condurreseco un colore disciolto, tanto sottile che l’occhio non loprecisa. Raccoglievo pietruzze, le lasciavo cadere; tocca-vo una sensitiva per vedere il suo scatterello, passavo ildito nelle pieghe del manto di una divinità; visitavo lagaggia in una specie di scatolone di vetro sulla facciatadella villa; partivo in una corsetta svogliata dietro un pic-cione che beccava per terra, e mi fermavo d’improvviso;soppesavo un garofano senza staccarlo dallo stelo. Insie-me a questi gesti tessevo per tutto il giorno, ma con fre-quenti distrazioni e lacune, un gioco di pietà. Mi diverti-vo a stabilire quali oggetti abitassero nel Cielo e qualinell’Inferno. Tutto ciò che vedevo cresceva naturalmentein uno di questi due regni, che erano quasi confusi unonell’altro, e nei quali passavo come da un’aria tepida aun’aria fredda. Non era forse la gaggia certamente para-disiaca, e la salvia infernale? Non posso che sorridere ri-cordandomi queste aberrazioni della mia ingenua fede, acui mi conduceva la suggestione epistolare; ma certo un

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entomologo o un cacciatore di farfalle non avrebbero fat-to un inventario piú diligente del mio quando classifica-vo in una delle due famiglie le persone, le bestie, le pian-te e gli inanimati. Se poi, com’è giusto, chiedete sedavvero credevo a tante stravaganze, ripeterò la mia ri-sposta di prima: sarebbe falso dire che vi credevo; vivevocon quei pensieri, non mi occupavo di essi.

La sera, nella mia camera, mi abbandonavo però allatristezza. La finestra guardava il giardinetto e nel fondo,tra due quinte di colli, la pianura padana: solitario pae-saggio nel quale il ricordo ritrova solo due palme stentee poi una nebbia piena di un chiaro spento. La luna sor-geva dal piano, prima verdastra, lontana in quel triste in-finito che si dilunga all’orizzonte, poi sempre piú umanae dorata; finché tutti gli oggetti, anche nella mia stanza,erano illuminati di luce cosí viva, che luccicavano iri-dandosi o rivelavano nuovi colori piú intensi. Restavo alungo stupefatta, finché il mio orecchio coglieva il cantodei grilli, e questo mi riscuoteva. Allora talvolta andavoa piedi nudi alla mia scrivania, accendevo la candela e ri-spondevo a Gesú. Pregavo che la governante rimanessecon me quanto piú fosse possibile, dimenticata da miamadre; pregavo per i nonni perché non morissero pre-sto. L’avere trovato il primo mio sostegno ed amore indue deboli vecchi, forse mi ha configurata per sempre.Già allora sentivo l’amore come precario e condannato,piú una invenzione e specialità mia che un sentimentonaturale comune. Certo che questa impressione era an-cora confusa; ma piú avanti negli anni, quando ricorda-vo di avere amato due persone alle quali restava cosí po-co da vivere, provavo una grande sfiducia nellanaturalezza degli attaccamenti, che mi parevano fanta-sie. E maturai la decisione di vivere sempre sola, la voca-zione su cui chiedo il vostro giudizio.

Fra tante piccole controversie di cuore, crescevo do-cile e passiva e ignorante. Vi sarete già accorto che lo

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studio non era una parte importante della mia educazio-ne. Andavo come esterna in questo collegio, nel qualeora dovrei monacarmi. Vi si insegnava qualche cosa,senza ordine, a una ventina di ragazze allevate per matri-moni di provincia, e che sarebbero state deprezzate daun’eccessiva cultura. Io frequentavo la scuola irregolar-mente; quando vi capitavo, fissavo la finestra, il mentoun po’ levato, senza ascoltare mai nulla. Entrando fraqueste mura, comuni a tante persone, nude d’affetti,scarse di fantasia, cadevo in uno stato di freddezza e ditorpore. Qualche volta la maestra scendeva dalla catte-dra, giungeva su me di sorpresa, mi prendeva per ilmento e mi voltava il capo verso se stessa: io la sfuggivocon gli occhi, dura, triste, senza sorriso. Ero slanciata dicorpo, con lunghe gambe, ma rotonda nel viso; la testatroppo grande, una chioma pesante tra il nero e il rossa-stro, da adulta; la stessa di mia madre, ma meno nera,piú voluminosa e greve. Avevo un’espressione tarda.

Il fatto ch’ebbe tanto peso sulla mia sorte avvenne unpomeriggio caldo di primavera. Dopo una mattina pas-sata tra le angustie scolastiche, ritornai a casa con l’ani-mo avido di sentimenti e di sfoghi affettuosi. Avevamoallora una giovane cameriera del luogo, di corpo altissi-mo e angoloso, dagli occhi neri lampeggianti in un visoquadrato, che si chiamava Maria; e a cui la governante,pigra e troppo nutrita, mi affidava talvolta nelle ore piúafose. Nessuno riusciva mai a farmi correre e giocare;ma non si riusciva nemmeno a farmi stare in riposo deltutto; e andavo sempre passeggiando, mossa da una len-ta, monotona, continua eccitazione. Quel giorno giocaiun’oretta, sorvegliata dalla ragazza, ch’era buona e ognitanto m’accarezzava i capelli. Io lasciai fare e quandon’ebbi abbastanza mi alzai, rientrai nella villa e salii dallanonna, che riposava in poltrona, tenendo però gli occhiaperti nella luce verde e tranquilla che permettevano leimposte, simile a quella dei boschi battuti dal sole.

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Quando mi sentí entrare aguzzò gli occhi miopi verso laporta, e avendomi distinto aprí le braccia per accoglier-mi in grembo, ma con le palpebre ancora socchiuse qua-si continuasse a cercarmi:

«Che cos’ha di bello da dirmi» fece «la mia bambina?»«Nulla» le sussurrai.«Proprio nulla?» insisteva l’altra accarezzandomi.

«Nulla da dire alla nonna?»Mi condannereste se ora, proprio sul punto di confes-

sarvi il peccato, che forse vi parrà un’inezia, ma che haperduto la mia vita, cercherò una discolpa? Il mio pec-cato ebbe un solo movente, la gratitudine per quelleamorose carezze che consolavano la mia infanzia cosíabbandonata. Io mostrai ripugnanza, quasi spavento dimostrarmi insensibile e vedere deluso quel volto tenerod’invito; cercai di avere un affanno degno di sfogo, e dirispondere con la confessione all’affetto; e con gli occhipieni di lagrime inventai in un sospiro che Maria mi pic-chiava.

La nonna mi prese pel mento, mi fissò dentro gli oc-chi. Non poté leggervi nulla, perché fin dall’infanzia ilmio istinto piú vivo è stato quello di rifiutarsi all’esame.Vi discese subito il velo che li rendeva inespressivi.

«Perché ti picchia?»«Non lo so».«Quando?»«Sempre».S’alzò di scatto, impallidita; m’accompagnò sulla soglia.«Ora va’ in camera tua» disse nervosamente. «Ti

manderemo a chiamare».Mi chiusi in camera e mi distesi sul letto. Anche qui le

persiane erano tutte calate, ma l’aria restava piú bianca;mentre giú dalla nonna gli alberi del giardino, crescendofino all’altezza della finestra, mantenevano un verde fer-mo e moderato, nella mia camera piú alta e scoperta sialternavano ondate molli di luce e d’ombra, con quegli

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sbalzi improvvisi di luce che fanno sbiancare i volti.Pensavo alla mia bugia, senza però giudicarla, e veden-dola solo nella sua ragione amorosa. Ne avevo un benes-sere fisico, un senso d’orgoglio saziato. Non sentivo ilmio errore, ma un tenero isolamento di fanciulla qualero, che nella dolcezza stessa delle sue sensazioni si illu-de d’essere sempre buona ed amata.

D’improvviso udii sulle scale la voce dura di un uo-mo, poi il pianto di una donna, che mi parve Maria, poiun passo che saliva; infine la porta si aprí ed entrò ilnonno con una tenaglia e un martello.

«È vero» disse «che Maria ti ha picchiata?»Non vedevo ancora la colpa, ma solo la mia bontà.

Feci segno di sí. Fossi stata capita!«Quando è stata l’ultima volta?»«Dopo colazione, in giardino».Mi guardò a lungo negli occhi, senza indulgenza. Da

quello sguardo sentii nascere in me un sentimento di ri-volta, che mi oscurò e mi stravolse.

«Bugiarda» disse infine. «So da parecchio tempo chesei una bugiarda, un’ipocrita. Sí, da parecchio tempo. Ioti tratterei con la frusta. Oggi, quando eri in giardino,stavo sulla torretta ad aggiustare le cassette dei fiori. Viguardavo continuamente, v’ho visto ridere e scherzare».

«Non è vero» risposi. Mi sentii gli occhi ottusi, comedi pietra. «Non è vero. Mi picchia».

«Ti do mezz’ora di tempo. Ora io scendo nella rimes-sa: quando ritorno devi essere pronta a confessare chehai mentito».

Disse questo ed uscí lasciando la porta aperta. Mi av-ventai su di essa, la chiusi, poi cominciai a singhiozzare.Quella violenza, suscitando in me la rivolta, mi aveva tol-to la coscienza del vero. Maria non aveva importanza e ionon volevo farle male. Ma la menzogna rappresentava inquell’attimo la mia intimità piú gelosa, ch’io difendevocontro la durezza degli altri, e contro la loro ingiustizia.

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Le parole del nonno, ipocrita e bugiarda, mi avevano col-pito a fondo. Non ammettevo che fosse negato il mioamore per quelli che mi amavano, e proprio perché avevodato una colpevole ma sincera prova di esso. Mi si potevaaccusare di ogni difetto, ma non di mentire i miei affetti.Mentre piangevo osservai senza volerlo la cara immaginedi Santa Giustina. La visione di quegli occhi rapiti nel cie-lo, di quelle mani incrociate sul petto, di quel ramo di pal-ma stretto tra il seno e il braccio, si mescolò al mio cordo-glio e al mio orrore per ogni violenza morale,confermando in me il desiderio d’essere sola ed intatta.

La villa è dominata da una torretta scoperta che escedal tetto col suo grande orologio fermo. Vi si. accedevacontinuando la scala che andava in camera mia. Sgattaio-lai col cuore che mi batteva, salii, mi trovai all’aria aperta.Sotto di me il paesaggio pareva sollevarsi e contrarsi nellalente d’aria già calda e tremolante di vapori. Quel tremo-lio, misto agli odori acuti delle vaniglie e dei nasturzi cheesalava il giardino, finí per inebriarmi. Chiusi le palpebre,continuai a scorgere il luccichio dell’aria secca; un ventocaldo mi appesantiva i capelli. Senza pensarvi mi sentivotutt’uno con quella che sono costretta a chiamare menzo-gna, colpevole, ma cosí mia, e cosí vera e mescolata aimiei affetti, che avrei difesa contro il mondo. Si udí tuba-re un colombo, uno scricchiolio sulla ghiaia.

«Eccola» gridò una voce di donna dal giardino «si ènascosta sulla torretta».

Ebbi finalmente paura; cominciai a tremar tutta; mirifugiai come insensata in un angolo, quasi per acquat-tarmi dietro le cassette dei fiori; ma per spiegare che co-sa mi avvenne in quell’istante di confusione atterrita,non so trovare che un’immagine stramba. Mi pareva dicorrere a perdifiato, inseguita, verso un luogo moraleche era la mia bugia.

«Sei qui, bugiarda!» udii il nonno, «Ti sei anche na-scosta!»

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Mi sentii prendere pel mento, alzare il capo a forza:«Guardami almeno; apri gli occhi». Ma il capo non sipiegava, quasi che tutta la mia volontà di resistere, pas-satavi in un afflusso e poi staccata da me, l’avesse fattorigido come di pietra. Le pupille passavano morte nellafessura degli occhi socchiusi. Finalmente sentii una per-cossa che non riusciva a dolere sul volto indurito; apriigli occhi, ero sola. Ero riuscita a preservare me stessadalla violenza e dalla paura fisica. La mia anima subitodimise ogni astio ritornando tranquilla. Scesi in cameramia con un sorriso sul volto come una luce. GuardavoSanta Giustina e mi sentivo intemerata e superba. Ognirimorso era stato infatti coperto da un sentimento di vit-toria morale, che ora soltanto, con la mente matura, pos-so giudicare fallace. Non ressi a lungo alla tensione. Vididalla finestra i colori della natura ammorbidirsi nel tra-monto, pensai alla nonna che mi amava, al nonno che micredeva bugiarda e senza cuore; e intenerita chinai il ca-po. Ho detto il mio peccato, il gusto ingenuo che provainel peccare e le mie ingiuste compiacenze. Non voglioabbellirmi ad un medico di cui attendo il giudizio. Madite se ho meritato una condanna cosí grave.

Quando scesi piú tardi, lavata dalle lagrime, io ero giàtutta in pace. Non cosí gli altri. Nonna Giulia sedeva, gliocchi gonfi di pianto. La governante, in piedi accanto alei, piangeva a viso scoperto in silenzio certe sue lagrimegrasse. Vedendomi entrare, la nonna mi spalancò lebraccia senza guardarmi, cominciò a stringermi e infinesussurrò: «Che abbiamo fatto, bambina mia! Ora andia-mo a rischio di perderci».

Le grida e gli improperi avevano infatti avvertito diquel che accadeva mia madre, che per l’appunto in queigiorni pativa di veder vivere gli altri senza di lei e si la-gnava di non avere un sostegno. Proprio mentre io pian-gevo alla finestra della mia cameretta, e la nonna pren-deva la penna per dare l’avvio alla giustizia del Signore,

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mia madre scendeva decisa a un atto d’autorità che ledesse prestigio. Gridò parole assurde e grosse, come fal-sità, morbosità, perversione; la nonna si atterrí e balbet-tava: «Una bambina!»

«Del resto» finí mia madre, allontanandosi col suopasso secco e pesante, tutto sui tacchi, in contrasto con laesilità del suo corpo «del resto, ho stabilito: quella bam-bina ha un carattere troppo difficile per essere educata incasa coi vostri metodi sentimentali; cresce viziata e igno-rante; andrà in collegio, a Milano o a Roma». Risalí in ca-mera lasciando la nonna nello stato in cui la trovai.

«Carattere difficile!» diceva, stringendomi a sé. «Sequattro righe bastavano a farti piangere una giornata, ecredevi che fossero nientemeno che del Signore! Ero io,sai, poverina, che ti scrivevo quelle cose. E poi, non èquesto, è che vuole separarla da me tutto per gelosia!»Passò una notte insonne, sapendo mia madre inflessibilenelle sue decisioni; e la mattina mi tolse dal sonno pertempo, con la intenzione di condurmi da un frate suoconfessore, senza sapere bene che cosa chiedergli, masolo, confusamente, di salvarmi e salvarla.

Il frate apparteneva a un convento poco lontano, in-caricato di gestire un Santuario frequentato dai pellegri-ni. La carrozza percorse la strada che vi conduce se-guendo il crinale dei colli. Tutte e due piangevamo,guardando davanti a noi e tenendoci appena la puntadelle dita. Il paesaggio era triste per un eccesso d’arte,quasi non fosse natura ma quadro. Ci apparvero in lon-tananza, sulle estreme propaggini dei colli sulla pianura,due castelli rossastri; poi una valletta chiusa, morbida,verde, in cui pascolavano gruppi di bovi bianchi. Infinegiungemmo davanti al Santuario barocco, simile ad unfondale dipinto con troppa biacca; ci inginocchiammoper qualche minuto all’interno per chiedere alla Madon-na di levarci dai guai, passammo in sagrestia, salimmouna scaletta e bussammo alla porta del frate confessore.

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Era in piedi in mezzo alla stanza e ripuliva una forbicedi alcuni fili d’erba che si erano insinuati nel foro dellavite. La cella era bianca e nuda; di contro una parete sivedeva un rastrello, testimonianza di un ordine di fratidi nascita contadina e locale, tutti forniti dai poderi vici-ni nei quali ogni festa tornavano a salutare i loro vecchi,e che alternavano poi le loro giornate tra la coltivazionedel podere adiacente e il commercio di immagini coicontadini di passaggio.

Quando ci vide smise la sua operazione e fece sederela nonna. Aveva i capelli bianchissimi, il viso pingue edesangue, una espressione di dolce ignoranza da cieco.Sollevava parlando un braccio molto corto, sproporzio-nato alla grossezza del corpo, lasciando pendere una ma-nina paffuta, le cui dita restavano in grappolo e comemorte. Quando la nonna cominciò a sfogarsi, l’interrup-pe con uno dei suoi lievissimi gesti, mi accarezzò, mi die-de uno dei bastoncelli di zucchero filato che vendono aipellegrini, mi disse d’andare al balcone. Vi andai fingen-do di guardare gli orti del convento in declivio fino allapianura, e i filari dell’uva, su cui nel sole bianco dellamattina si fermava una nebbia gialla ma non luminosa,che non nascondeva gli oggetti, ma li rendeva ricchi, lon-tani e tristi; in realtà concentrando tutte le forze dell’ani-ma ad ascoltare che cosa dicevano alle mie spalle.

Presa una mano della nonna, il padre confessore siera accinto a calmarla. «Capiva come fosse duro perdereuna bambina alla cui educazione si era accinta con tantozelo; capiva il suo dolore; ma d’altra parte era saggio op-porsi alla volontà della madre? Meglio era rassegnarsi».La nonna fece un singulto che fu come il segnale di uncambiamento di tono. «Se la bambina cresceva fin trop-po tenera, solitaria e sensibile (come gli aveva detto) nonera un bene metterla per qualche tempo in una comu-nità, che la iniziasse alla vita meno affettiva alla qualeavrebbe, purtroppo, dovuto assuefarsi crescendo?» Una

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brevissima pausa. «Ma c’era davvero bisogno di man-darla tanto lontano, a Milano o a Roma? Non dubitavache quelle fossero monache eccellenti, ma sempre ingrandi città lontane da casa; e non v’era certo penuria.di buone monache da noi. Se, per esempio, fosse entratada interna nello stesso collegio dove si recava a scuo-la...» Come se nonna Giulia non l’avesse mai visto, de-cantò la superiora, le maestre, il vitto, l’aerazione, i nata-li di questa e di quell’allieva; promise di portare la suaautorità perché le suore mi trattassero in modo adattoalla mia delicatezza di cuore. «Non si potrebbe concilia-re ogni cosa? Si obbedirebbe alla madre, si gioverebbealla bambina e la si terrebbe con noi».

Detto questo mi richiamò, mi accarezzò, mi chiese sesarei andata volentieri ad abitare con le mie maestre ecompagne, fece valere le mie risposte di assenso (mi di-spiaceva contraddirlo), mi diede un altro zucchero e cicongedò entrambe. La nonna era sollevata ed estasiata;dopo le ambasce in cui già le era parso ch’io fossi partitaper una di quelle città lontane, staccata per sempre dalei, tra gente senza riguardi né comprensione, vedevaora non solo la sua disgrazia mitigata, ma ricca di nuovedolcezze; le visite frequenti, i suggerimenti alle madri, acui avrebbe spiegato ogni mio atto e pensiero e la ragio-ne intima d’ogni capriccio. Per una settimana mi tennequasi nascosta, quasi per farmi dimenticare a mia ma-dre; non osava guardarmi; anche la servitú, complice delsuo gioco, fingeva che io non ci fossi. Con l’aiuto delnonno fece la proposta a mia madre ch’era in quel mo-mento distratta, e riuscí nel suo intento.

Furono giorni lagrimosi. La governante partí; i nonnimi regalarono la loro fotografia; mi coricavo la sera co-me inzuppata di un pianto che non mi sfogava. Nonprotestai né mostrai dolore. Finalmente, in un tardo po-meriggio di giugno, la nonna e io risalimmo nella carroz-za. Non dicevo parola, ero sgarbata e chiusa ad ogni

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conforto. Guardavo dietro di me con gli occhi fissi. Sa-lutavo i fiori e le piante che avevano preso una parte co-sí grande della mia vita, e che certo tra poco avrei piut-tosto detestato che amato; la magnolia che luccicava e ilcui profumo mi seguiva; un ciliegio ormai tutto verde,ma che mi aveva rallegrato, se andavo alla finestra dellamia camera, con la sua immensa fioritura; il cortinaggiodi gelsomino e vaniglia, i nasturzi, le salvie, macchiesempre piú piccole, sempre meno distinte. Salutavo unavita di miti affetti, di fantasie, di preghiere, di spontaneabontà; con quei vecchi, quei servi, tra quelle fantasie, re-stava la mia innocenza e mi guardava allontanare. Untramonto di poco piú rosso del naturale, solo quello chebasta per inquietare la mente, cominciava ad accendersisopra il piú dolce paesaggio del mondo; sulle nubi, sulverde, sulle persone che passavano, risplendeva come ilriverbero di una fornace lontana; i campanili e le caseprendevano un bianco di luna nel chiarore del giorno;sulla pianura che si stendeva ai miei piedi raggi improv-visi di sole mutavano un prato o un filare in un miraggioultrabianco. All’orizzonte vi erano nuvole ferme, lucida-te dal vento, con quei colori paonazzi, vermigli, che giàmorivano sul verde, di cosí acuta beatitudine da sembra-re febbrili. 1n questo paesaggio noi due passavamo incarrozza, finché giungemmo all’uscio che conoscete.

Vi risparmio il racconto inutile dei miei commiati edei primi giorni in collegio; converrà che vi accenni in-vece com’è fatto, perché vi siete venuto una volta sola edi passaggio per recarvi in cappella. Era in origine unacasa colonica; alcuni signorotti, a metà dell’Ottocento,la trasformarono in un finto castello, poi la lasciarono al-le suore. Certo vi ricordate i finti merli e le finte finestresulla facciata lunga e bassa. L’interno, sebbene sia ria-dattato a collegio, con i corridoi e i dormitori, le camera-te e il bianco della calcina, conserva parecchi ricordi deivecchi proprietari: ritratti di famiglia, specialmente pic-

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coli arazzi, che le monache apprezzano perché lavoratiin seta, opere casalinghe dell’ultima proprietaria. Da-vanti al collegio vi è un prato diviso da due viali in crocein parti ognuna delle quali contiene una palma sparuta.Un’ala della casa si protrae in una lunga pergola d’uvache conduce al recinto in cui si tengono i polli, i coniglie il maiale. Monache ed educande conducono una vitadivisa fra la pietà, l’avarizia e il lavoro agreste, e piú diuna volta ho visto la madre superiora sospendere una le-zione per andare in parlatorio a contrattare una partitadi fieno o alcune coppie di piccioni di torre. Agli anima-li badano poi le converse, con le scarpe da uomo, i sotta-noni e la voce grossa, e la mattina servono alle educandeil caffè-latte da un annaffiatoio. Crescevo sana, i pomelliarrossati dall’ignoranza e dall’aria dei monti, verso iquali guarda il collegio, a differenza della casa dei nonniche guarda la pianura. È un Veneto dimagrito e rozzo,che mostra la scheletro rustico di questa terra malinco-nica, dissimulato altrove da colori e luci; i palmizi, le ca-se vi sembrano appoggiati al suolo; solo la nebbia colo-rata e la luna hanno una triste opulenza.

Voi forse stupirete perché, dopo avervi narrato tantiparticolari della mia vita infantile, vi narrerò tanto pocodegli anni dell’adolescenza che pure sono per lo piú de-cisivi. Ma dall’istante del mio ingresso in collegio è co-minciata la serie degli anni opachi; nessun episodio si il-lumina, nessuna figura vive; passano vuoti e velociquanto spiacenti. Può darsi che io sia incapace di ap-profondire il loro significato; ma come posso spenderemolte parole per narrare un letargo?

Quella rozzezza, la convivenza con gli altri, l’odiosacompagnia a tavola, a letto, a passeggio, in poco temporiuscirono ad inaridirmi. Divenni docile e fredda; gli orarie i comandi mi trascinavano da una stanza all’altra. La vi-cinanza delle suore e compagne, non perché fossero quel-le suore e compagne, ma perché io sono selvatica di mia

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natura, mi tolse la consuetudine ai sentimenti molli e dol-ci; anzi, ne fui disgustata a tal punto che staccai il miopensiero da ogni ricordo dell’infanzia e mi rintanai con lamente in una specie di cella vuota e disadorna. La sgradi-ta presenza d’esseri disturbatori, la praticità e la durezzadella vita comune, la incomodità dei pensieri, mi diederoorrore del sogno. Perdetti anche l’ingenuità nella fede; ilParadiso e l’Inferno si dileguarono appena dovetti prega-re in chiesa gomito a gomito con una compagna; conti-nuai a credere per inerzia, quasi per un eccesso di inappe-tenza mentale. Smentendo le previsioni di nonna Giuliami mostrai sempre obbediente; ebbi ottimi voti in con-dotta e pessimi negli studi; ero buona scolara solo nelcomponimento, virtú mal gradita tra noi, e quasi imputa-ta a difetto. Nei primi mesi la nonna veniva spesso in car-rozza a portare i suoi lumi sulla mia educazione. Le supe-riore stupivano dei suoi consigli: non ero, come essadiceva, sentimentale, sensibile, tormentata, ma calma edatona di nervi, anzi lievemente grezza; il mio principaledifetto era di non studiare. La nonna si irritava della loroottusità e allontanandosi con gesti di dispetto, i primich’io vidi farle, mi voleva in disparte. «Non patisci?» di-ceva, accostandomi al volto i suoi occhi complici e vellu-tati. «Sfogati ora che siamo sole noi due, come ai bei tem-pi, quando ci intendevamo cosí bene e mi dicevi tutto».«Ma nonna, che dovrei avere?» le rispondevo. «Io non hoproprio nulla». Allora tornava alla carica con la madre su-periora, e talvolta la visita finiva in un litigio. La mia no-mea di bambina buona si consolidò nel collegio, finchéaccadde un episodio, che vi racconto per debito di since-rità. Una sera, prima di pranzo, uscii dalla camerata in-camminandomi sotto il pergolato dell’uva; ma, anzichégiungere al pollaio, mi fermai a metà strada e sedetti sulmargine, di dove una prateria scende a valle. A pochi pas-si da me cresceva un albero molto grande di fico, riparan-do una vasca usata per raccogliere il solfato di rame, e

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perciò colorata di un azzurro di ghiaccio. La superiora mivide nella mia meditazione, e avvicinatasi mi passò la ma-no sul viso dicendomi di rientrare: io le morsicai un dito asangue, con uno di quegli scatti che qualche volta usciva-no dal mio torpore, e mi dibattei in modo tale che per tra-scinarmi in convento dovette chiedere l’aiuto di una con-versa. Stupefatta di quella che chiamava rivelazione, ilgiorno dopo voleva mandarmi via, ma io seppi essereumile, non rifiutando nemmeno di inginocchiarmi perdomandare perdono. La mia mancanza fu presto dimen-ticata, e io ritornai e rimasi una bambina obbediente.

Poi venne l’età piú penosa di cui non vorrei parlarvi,tanto me n’è rimasta viva la ripugnanza. Ma dovrò inve-ce esporvi, senza pietà per me stessa, anche i suoi aspettipiú crudi, giacché sono ricorsa a voi come ad un medi-co, a cui bisogna dire tutto; e proprio in essa, insiemecon quelle crudezze, ebbi la chiamata a Dio di cui oggisono cosí incerta. Mi sviluppai presto e improvvisamen-te, divenendo una ragazza fin troppo formata, un po’molle e cascante, quasi che la floridezza rimanesse estra-nea al mio corpo che la portava come un peso. Special-mente la mattina quando mi alzavo ancora gonfia disonno, io sentivo pesare l’esuberanza della carne, e que-sto mi dava un senso di irritazione e di inerzia, unaespressione quasi infida. Vi scrivo cosi perché vedo co-me dentro uno specchio la mia persona di quel tempo,quasi si trattasse di un’altra. Le mie compagne, che miamavano poco, approfittarono allora di un mio difetto:se una persona mi guardava negli occhi, io mi mettevo aridere di un riso involontario che non riuscivo a ferma-re. Mi si affollavano intorno a tradimento, a me che lesuperavo ormai di tutta la testa, e io cedevo ad un risomorbido e sforzato insieme. Non so perché ricordi coninsistenza i momenti piú ingrati di quell’età decisiva, losguardo incerto e furbo, i movimenti rigidi che contra-stavano con la mia maturità. Provavo spesso un senso di

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soffocazione, e talvolta l’estate lasciavo le mie compagneper uscire sul prato con la bocca socchiusa, mentre pas-savano grandi nubi incolori. In questo tempo mi accorsiche non desideravo piú di tornare a casa e che avevocessato di amare anche la nonna. «Stai bene? Propriobene?» diceva quando veniva a trovarmi, allungandouna mano, timidamente alla maniera dei miopi, per ac-carezzarmi i capelli. Per favorirla lasciavo ciondolare ilcapo, ed essa mi scrutava, come si fa nei sogni quando ciappare una persona cara, che ha però qualche cosa didiverso e di falso. «Tu non mi vuoi piú bene», mi disseun giorno tristemente. Io non risposi e chiusi gli occhi.Potreste rimproverarmi di non essere stata piú sinceraed esplicita, a prezzo di dare alla nonna un dolore anchepiú grande? Perché in quei giorni avevo deliberato dinon amare piú nessuno al mondo dedicandomi a Dio.

A questa decisione mi aveva condotta proprio l’età deipensieri molli e dei reciprochi sfoghi. Vedevo le mie com-pagne comunicarsi i loro pensieri segreti e talvolta cercar-mi come confidente e chiedermi confidenze in cambio; equest’aria molliccia stimolò in me per reazione le ripu-gnanze che ho descritto. I sogni altrui, la lieve gonfiezzastupita che mi pareva di scoprire nei volti, gli occhi lucci-canti mi diedero un senso di schifo, il desiderio di esserebianca e calcinata, secca e positiva nell’anima, come pas-sata in un bagno di cloro; e quello schifo provocò le pri-me chiare affermazioni morali. «Queste fantastiche stupi-de» dicevo dentro di me «che cosa vogliono? Io non sonulla di loro: io non ho fantasie: io per fortuna non sentotante sciocchezze». Mi ripugnavano quando nei corridoipassavano in corsette fiacche, toccandosi le tempie e i ca-pelli a colpetti, quasi a distrarre un soverchio calore; miinfastidivano anche le gallinelle comunicate per la primavolta, quando sedevano a tavola in vestina bianca comepiccole spose, mangiando con aria distratta, il volto rosa-to e annebbiato nel quale lucevano gli occhi e si profilava

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il sorriso. Crebbe in me a poco a poco la tenerezza fisicaper l’astinenza, il desiderio di restare per sempre chiusa esenza contatto, l’inclinazione alla pulizia ed al silenzio, einsieme quasi il senso di aver troppa carne, un affettomortificato per la biancheria ruvida e i caffè-latte annac-quati. Vivevo cosí senza gioia né desiderio di provarne. Etuttavia, quando rimanevo sola, durante le ore di riposo,o di notte, provavo ancora un bisogno di sfogo; correvo altavolo, come facevo da piccola quando rispondevo a Ge-sú; scrivevo pagine impetuose e affannose, con cui narra-vo il passato a me stessa. In quelle pagine, quasi senza av-vedermene, mi riaccostavo alla vita piena d’affetto, percui mi ha fatta la natura; e inconsciamente ridestavo unasoavità ed un incanto, che credevo perduti. Certo che laconsuetudine a cercare sollievo in un diario quotidiano,accompagnandomi da allora per sempre, mi ha sostenutanei momenti di angoscia. Ora mi chiedo se non fosse pec-cato, e perciò ve lo confesso. Pure senza questo diarionon saprei esporvi i miei sentimenti confusi, oggi che neho bisogno. I miei sfoghi, a quel tempo, terminavano tuttiin un’offerta della mia vita al Signore, quasi che tutto ciòche scrivevo di me portasse alla conclusione che ero nataper monacarmi. Dissi questo alle suore, lo notificai alla fa-miglia, giunsi fino ad oggi compiendo tutti i passi fuorchél’estremo, senza il minimo dubbio sulla mia vocazione.Verso quel tempo morirono i nonni.

Il primo dubbio mi venne un mese fa. La madre supe-riora mi ordinò di andare in cucina per aiutare nelle fac-cende domestiche. Voi sapete che le converse provengo-no dalle famiglie dei contadini dei dintorni, come lemadri dai signorotti e fittabili; ciascuna di quelle conver-se ha quasi sempre qualche sorella a servizio nelle fami-glie vicine. La sorella per solito è una mezza monaca an-ch’essa, ha fianchi grossi, sottanoni e scarpe da uomo.Tra il tavolone del convento e il tavolone delle circostan-ti cucine si hanno cosí rapporti costanti e frequenti, tanto

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che facendomi monaca spesso ho l’impressione di essererimasta a casa passando però dal salotto alla cucina e allavita servile. Dunque un mese fa circa trovai seduta con lesuore la donna che avevo accusato un giorno di avermipicchiata. Posta di fronte d’un tratto a quella ch’era statala prima causa di ogni mia traversia, provai tanta avver-sione da farmi dubitare sulla fermezza della mia carità.Quel sentimento era umano ma inadatto al mio stato.

Cosí messa in sospetto, cominciai a meditare sugli av-venimenti trascorsi che mi hanno condotta alla sogliadella monacazione, e i dubbi divennero molti. Non tro-vando risposta, lasciai l’indagine confusa dei miei mo-venti per guardare diritto nei miei sentimenti e pensieri.Ma li ho trovati cosí poco afferrabili, si liquefanno cosírapidamente non appena mi accosto con la mia riflessio-ne, che mi sembra d’essere fatta di una materia cangian-te che non dà presa al giudizio. Il non riuscire a vederchiaro in me stessa, anzi questo cangiare continuo dellamia anima secondo il modo in cui la guardo, mi hannoriempito d’incertezza, di diffidenza per me stessa e diapprensione pel futuro. Ho la impressione del pericolo,ignoro quello che potrà capitarmi. È genuina la mia vo-cazione? Alle molte cause di dubbio se n’è aggiunta oraun’altra, nell’imminenza della mia segregazione; che inme si ridesta una eco delle dolcezze e fantasie che prova-vo una volta, e che la mia disadorna durezza sembra dinuovo illanguidita. Non potendo risolvere nulla perquanto io pensi, ho spalancato stasera la mia finestra, horinunciato umilmente a qualsiasi giudizio, e raccoglien-do tutti gli elementi possibili li ho posti dinanzi a voi e alvostro indulgente acume. lo non sono una santa, ma nonsono cattiva. Non potrei sentirmi cattiva proprio ora chela mia anima risponde con tanta fragranza a questo belchiaro di luna.

Dal Convento di**, il 17 luglio 19**.

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LETTERA II

Don Giuseppe Scarpa a madre Giulietta Noventa, supe-riora del Convento delle** a**.

Una delle vostre novizie, Margherita Passi, che ha lafortuna di essere nell’imminenza di monacarsi sotto lavostra guida, mi ha scritto una lunga lettera di cui acclu-do copia, esponendomi alcuni dubbi piuttosto vaghi sul-la sua vocazione. Ho creduto mio stretto dovere di infor-marvene, perché l’invito rivoltomi dalla ragazza, dioccultare il suo sfogo, non ha nulla di vincolante, e sa-rebbe anzi colpevole da parte mia l’aderirvi senza riguar-do ai doveri che una novizia ha verso i suoi superiori. Sa-rei venuto di persona a parlarvi e, col vostro permesso,parlare alla novizia, se proprio in questi giorni non fossistato nominato rettore del Seminario di questa città; e hopreferito evitare gli incomodi del viaggio, a meno che voistessa non lo giudichiate opportuno.

Leggendo poi la lettera della novizia, mi sono fatta suquei dubbi un’opinione provvisoria, che manterrò seconcorderà con la vostra: che siano di quelle ubbie, diquei riscaldi della mente, speciosi ma inconsistenti, chelo stesso tentato non saprebbe ben definire, e a cui qua-si tutti propendono durante il noviziato, anche se moltisanno resistere meglio al desiderio di parlarne. Cosípenso anche perché, se fossero cosa piú seria, ve ne sare-ste già accorta da un pezzo e vi avreste messo riparo.Perciò vi ho consultato, e attendo una vostra riga, piúper il grande rispetto che nutro per voi, che per una veraincertezza nel giudicare questo caso tanto comune.

Devo aggiungere che, avvicinando le ragazze, non honotato che nessuna di esse avesse l’animo turbato.

Dal Seminario di**, il 22 luglio 19**.

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LETTERA III

Madre Giulietta Noventa a padre Giuseppe Scarpa.

Non posso dirvi quanto dolore e vergogna ho provatoal vedere quale mancanza di riguardo abbia commessauna nostra ragazza inviando una lettera a una personatanto superiore a lei, completamente a mia insaputa!Come ho apprezzato la grande bontà con la quale avetevoluto non solo perdonarle, ma interessarvi del suo ca-so! Purtroppo quella lettera non mi ha stupito... Voiavete giudicato la nostra Rita come se la conosceste; essaè portata, come voi dite, ai riscaldi della mente, alle ub-bie... Noi che la conosciamo e che sappiamo come que-ste imprudenze derivino dal suo carattere, non diamo adesse nessuna importanza. Nonostante alcune mancanzeil fondo della sua anima è buono, la serietà della sua vo-cazione è provata. Interrogatela, come ho fatto io centovolte, ed essa sarà la prima a piangere di quanto ha scrit-to in un momento di sconforto! La vocazione della po-vera Rita, che deve condurla a prendere il velo tra ventigiorni, è stata provvidenziale. Dio ha risolto in quel mo-do una situazione intricata in cui la sua bella animaavrebbe finito col perdersi... La madre di cui essa parla èl’unica parente che le sia rimasta al mondo; se uscissedal convento, sarebbe sola e abbandonata a se stessa. Ri-ta è un’anima buona e ha taciuto scrivendovi i fatti piúscandalosi della sua vita familiare: il raccontarli sarebbestato dannoso alla sua anima e contrario alla carità...Verso la fine del suo sedicesimo anno, tornando dopouna lunga vacanza in cui sono accadute cose che nonposso accennare, mi ha supplicato di tenerla per sem-pre. Uscire dal convento sarebbe forse fatale alla sua sal-vezza! Vi prego di non accennarle, se vorrete risponder-le, a questo scambio d’idee; sapete come quella età siasospettosa, e veda il male anche dove non c’è... Dio sug-

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gerisca alla vostra mente elevata le parole piú adatte peril bene di un’anima molto piú provata da Lui di quantoessa non dica.

Dal Convento delle** a**, il 27 luglio 19**.

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LETTERA IV

Padre Giuseppe Scarpa a madre Giulietta Noventa.

Nella mia gratitudine per la piena fiducia con cui ave-te risposto, vi scrivo per garantirvi che voi avete portatola sicurezza nella mia convinzione che i dubbi della no-vizia siano infondati e passeggeri. Le ho scritto in questosenso non già con tutto il calore e l’affetto che Dio mi haconcesso per lei, che sarebbero immensi, ma con quelpoco che io sono capace di esprimere. Con il vostro per-messo vorrei che le fossero dati due libri di pietà, che leho inviato a parte, modesto dono del suo confessore perle sue prossime nozze.

Dal Seminario di**, il 31 luglio 19**.

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LETTERA V

Padre Giuseppe Scarpa a Margherita Passi.

La lunga, preziosa lettera che mi avete indirizzato, dal-la quale spirava il fervido candore delle anime scelte daDio, mi è giunta quando avevo già abbandonato la vostrae mia città per stabilirmi in quella da cui vi scrivo. Nonfosse stato per la mia lontananza, non mi sarei certo affi-dato alla penna, e sarei venuto a parlarvi di quello chetanto vi preme e che preme non meno al vostro confesso-re. Sarei venuto a congratularmi con voi del grande avve-nimento, la vostra monacazione, che non può tardare dimolto, e con la quale volterete le spalle a ogni debolezza,a ogni dubbio, a una minaccia che forse è piú grave diquanto non abbia ammesso la carità del vostro cuore.

Non solamente un confessore vi parla, ma anche unuomo ormai vecchio e giunto a un felice tramonto dopoavere percorso la medesima strada su cui vi incammina-te. Ho pesato la vostra lettera frase per frase; mi sonogiovato di tutta l’esperienza che mi consentono i moltianni trascorsi ad assistere le anime degli incerti e dei sof-ferenti, per meglio intuire anche quello che la vostrapenna taceva; non ho trovato nulla che possa condurreun sacerdote scrupoloso a dubitare anche per un soloistante della serietà e sicurezza del vostro proponimen-to. Nulla mi si è rivelato che modificasse l’immagine chemi ero fatta di voi, quella di una creatura semplice e fa-cile, e conturbata solo da un’intelligenza eccezionale perl’età. A causa di questa dote, che talvolta non è tale difronte a Dio, tendete a credervi piú complicata del vero,attribuendovi sentimenti fantastici, o anche soltantofuorviandovi con l’esposizione sottile e l’osservazionecostante. Avete cercato negli altri i sentimenti delicati ecopiosi che il vostro cuore richiede; ne siete rimasta de-lusa; disgustata, avvilita, inaridita per la terra, vi siete ri-

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volta al cielo. Quale altra ragione piú vera avreste di mo-nacarvi di questa gloriosa ed eterna, la necessità di unamore che il mondo non potrebbe darvi? Ma forse v’èuna seconda ragione, non meno importante e grave: ilvostro medesimo ardore, l’avidità di ottenere quello cheavete anelato, un’ombra di ostinazione e di tendenza allereazioni inconsulte, sono un pericolo del quale vi rende-te conto e che volete giustamente fuggire.

La vocazione ha dunque nell’animo vostro due spintegravi e potenti. La vostra intelligenza, che poteva esserecausa di tanti mali, dedicata al Signore riprende l’ufficioper cui Egli ve l’ha concessa, diventa uno strumento diedificazione, e può consentirvi di intendere ragioni an-che piú alte. Nessuna vocazione può essere messa indubbio quando è stata sicura come un giorno la vostra.È possibile forse che Dio voglia e disvoglia, chiami enon chiami piú? Chi si è affacciato alla visione dei cieli eha udito la voce divina, non può negare né quella im-pressione dell’animo, né quel comando benigno ma pe-rentorio. Contro la vocazione, ferma e indistruttibile, sisollevano poi tutte le forze demoniche, i dubbi, le fanta-sie, gli stimoli della carne, la sfiducia in se stessi. V’è unmodo sicuro di vincerle, scartare l’incerto pel certo, cheè la chiamata di Dio. Dunque anche voi, forte di questacertezza, frenate i vostri pensieri, spazzate via le tristez-ze. Con tranquillità di coscienza, conscio della gravitàestrema delle mie parole, vi dico: se dubitate della chia-mata di Dio, io me ne rendo garante.

A tante ragioni, gravissime ma per cosí dire comuni, sene aggiunge poi un’altra, meno solenne ma piú personalee affettuosa; che Dio chiamandovi ha mostrato di amarviin modo particolare e di volervi sottrarre a sciagure che ilvostro animo delicato non regge. Quale ingratitudinedunque se rifiutaste un soccorso che Dio largisce a voisola, quasi mostrandosi commosso dei vostri dolori! Nonsolo si è compiaciuto di incamminarvi alla salvezza, ma

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di evitarvi quei triboli che solitamente Egli invia anche aisuoi prediletti. Non sono questi gli indizi di una specialetenerezza di Sposo? E osereste rispondere rifiutandovi aLui? Quale altra alternativa avreste uscendo dal conven-to, se non rimanere in casa inaridendo sola e senza profu-mo, o allontanarvi e abbandonarvi a una vita che vi po-trebbe condurre dovunque, eccetto che a Dio e allapace? Non siate tanto cattiva calcolatrice da rifiutare unasilo che Dio vi ha offerto per trarvi dai guai.

Dopo avervi risposto, con scarsezza di eloquio macon abbondanza di cuore, voglio a mia volta confessar-mi. Nella mia giovinezza anch’io ho provato i medesimidubbi, ma piú violenti e tormentosi. Ora, felice del miostato, penso con raccapriccio a ciò che sarebbe accadutose avessi dato ascolto a cosí misere paure. Per esperienzaposso indicarvi il rimedio, sempre lo stesso, la preghiera.Interrogato, Dio saprà dirvi parole ben piú efficaci dellemie. Ma perché anche dalla penna degli uomini ne ab-biate altre meno scialbe, vi ho inviato due libri, che ac-cetterete come dono per la vostra monacazione: Le Con-fessioni di Sant’Agostino, l’1ntroduzione alla vita devotadi San Francesco di Sales. Nel primo troverete le ansiedi un cuore tumultuoso, nel secondo la gioia fiorentedella grazia; ma vedrete che entrambi si intonanonell’amor di Dio come due strumenti diversi in una mu-sica armoniosa. L’augurio che vi faccio è che questi duelibri vi scendano nel cuore e vi rimangano tutta la vita.

Come segno che in voi ha vinto la parte migliore, viprego di aprire l’animo alla vostra superiora, mostran-dole questa lettera che essa vi commenterà con l’intelli-genza e l’amore di cui sola è capace.

Dal Seminario di**, il 31 luglio 19**.

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LETTERA VI

Al Vescovo di** (anonima).

Una novizia del Convento delle** a** informa VostraEccellenza di una grave ingiustizia che si compie sotto isuoi occhi.

Una sua compagna che deve prendere il velo fra tregiorni, Margherita Passi, dubita fortemente della sua vo-cazione e quindici giorni fa ha esposto i propri dubbi inuna lunga lettera a un sacerdote, Don Giuseppe Scarpa,canonico allora del Duomo e ora rettore del Seminariodi**. Il sacerdote non solo le ha imposto di monacarsimediante una fredda predica che sembrava copiata ebuona per qualunque caso; ma, senza occuparsi di lei,ha approfittato invece di questa occasione per parlare dise stesso. La dolorosa impressione di una risposta cosísconveniente non s’era ancora dileguata dall’animo dellaragazza, che la superiora, chiamatala, le ha parlato in talforma, da far vedere chiaramente come i due si fosserointesi. Sorvegliata da presso perché non possa piú scri-vere né parlare a nessuno, la povera ragazza è caduta daallora in una tale prostrazione, che sembra rassegnata adun destino ripugnante. La sua delicatezza le impediscedi offendere con una rivolta aperta le madri che l’hannoeducata; la sua fierezza di piangere davanti agli altri; eperciò, irrigidita, allontanando chi cerca di consolarla, sidispera ma afferma d’essere lieta di quello che deve av-venire. Io sola, avendo ricevuto da lei uno sfogo sincero,ho pensato che fosse mio dovere informarvene passandosopra il suo divieto.

Dal Convento delle**, il 15 agosto 19**.

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LETTERA VII

Don Paolo Conti, Segretario del Vescovo di**, a madreGiulietta Noventa.

Sua Eccellenza il Vescovo, essendo stato informatoche è stata discussa da alcuni anche per iscritto, la since-rità e serietà con cui Margherita Passi, novizia del vostroconvento, si appresta a entrare negli ordini sacri, ha de-ciso che questa monacazione sia ritardata di un mese emi ha ordinato di salire al convento uno dei prossimigiorni per compiervi una inchiesta. Sua Eccellenza inol-tre vi chiede di inviargli oggi stesso tutti i documenti,che possedete, utili a chiarire il caso, soprattutto la lette-ra con cui Don Giuseppe Scarpa, attuale rettore del Se-minario di**, ha risposto a una lettera della novizia inquestione.

Dal Vescovado di**, il 16 agosto 19**.

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LETTERA VIII

Don Paolo Conti a don Giuseppe Scarpa.

Sua Eccellenza il Vescovo mi incarica di chiedervi ditrasmettergli subito la lettera con cui una novizia delle**a**, Margherita Passi, vi ha esposto i propri dubbi sullasua vocazione. Sua Eccellenza conosce già la vostra ri-sposta e si riserva, esaurita l’inchiesta che è stata apertasul caso, di far conoscere la propria opinione sulle varieresponsabilità.

Dal Vescovado di**, il 17 agosto 19**.

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LETTERA IX

Don Paolo Conti al Vescovo di**.

Condotta a termine l’inchiesta nel Convento delle**a** per appurare se vi fosse niente di vero nelle diceriecorse intorno alla novizia Margherita Passi, stendo unabrevissima relazione scritta, obbedendo all’ordine avu-to. Unisco, a questo proposito, la lettera inviata dallastessa novizia a Don Giuseppe Scarpa, rettore del Semi-nario di**, la risposta di questi, e una lettera anonimache ha provocato l’inchiesta.

I dubbi dei quali si parla nelle tre lettere suddette sonrisultati cosí vuoti, che gli sforzi comuni di Don Giusep-pe Scarpa e della madre superiora, di tener chiusa nelconvento una piccola crisi che non meritava di certo unamaggiore risonanza, mi paiono da elogiare. L’anonimanovizia che rompendo il riserbo ha avvisato Vostra Ec-cellenza, s’è lasciata traviare dalla sua immaginazione oda un’altra causa piú oscura.

Appena salito al convento interrogai la superiora dasola, e ne ricevetti le uniche risposte della giornata checondussero a qualche perplessità. Secondo la superiorala Passi è una monaca nata; ma soffre talvolta di impulsicosí vivi e pericolosi da rendere la monacazione necessa-ria e urgente. La stessa suora garantisce la serietà con cuila novizia si appresta ad entrare negli ordini, fornendocome prova la sua ormai lunga dimestichezza con lei;tuttavia ammette che, leggendo la lettera della Passi aDon Scarpa, vi ha trovato una fantasia ed una tendenzaaffettuosa, che non aveva mai intuito.

L’ombra di perplessità creata da queste risposte è sta-ta dissipata dalla stessa novizia, che feci subito chiama-re. Quando fui costretto a sfiorare con le mie interroga-zioni l’intimità del suo spirito, la ragazza mi oppose unpudore vivissimo, non senza una punta d’orgoglio, mo-

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strando d’essere a disagio e rispondendo in modo chiu-so e sommario: desiderava monacarsi, era sicura di sestessa, non aveva altre inclinazioni. La lettera a DonScarpa era stata scritta in un giorno d’insolita debolezza,a cui non dava peso, che non doveva riprodursi piú. Stu-pito di queste parole e d’averla trovata cosí diversa dallamia aspettativa, pregai la madre superiora di uscire e ri-petei le domande. La novizia non solo mantenne uncontegno un po’ rigido, ma parve addolorata e quasi of-fesa della mia precauzione.

La rimandai e interrogai tutte le suore e le novizie, la-sciando solo le educande che non volevo inutilmente tur-bare. Le suore che passarono ad una ad una nell’ufficiodiedero tutte la stessa risposta: Margherita Passi sembra-va nata per la vita in convento, essendo una ragazza pocoportata a tentazioni. Sapevano da anni che doveva pren-dere il velo, e non l’avevano mai messo in dubbio. Unainsegnante che ebbe confidenza con lei la definí una ra-gazza assennata, ragionatrice e prosaica. Le novizie disse-ro poi le stesse cose delle madri e deposero tutte che, ne-gli ultimi tempi, non l’avevano vista né turbata nétormentata, ma solamente un po’ distante, com’è nel suocarattere che tende a un orgoglio eccessivo.

Essendo questi i risultati dell’inchiesta compiuta, èmio dovere concludere che non è il caso di trattenerepiú a lungo il nulla osta perché Margherita Passi seguala sua vocazione.

Dal Vescovado di**, il 22 agosto 19**.

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LETTERA X

Rita a don Paolo Conti.

Vi scrivo con il batticuore; sono cosí stravolta; e temod’essere sorpresa. Mi hanno annunciato che in seguito alvostro rapporto io sarò monaca tra un mese. Ho avutoun po’ di respiro; non m’ha portato la salvezza. Voi do-vete salvarmi. Non ho piú nessun dubbio: la vita religio-sa è per me come la morte.

Tre giorni fa, quando mi avete chiamata, io non hodetto che bugie. La vostra insistenza era inutile: quandosi comincia a mentire, lo si fa in modo sempre piú sicu-ro e deciso.

Sono ora sorvegliata perché non scriva a nessuno. Perfarvi giungere queste poche righe confuse, Dio mi per-doni, ho dovuto servirmi di un’educanda.

Datemi presto una risposta.

Dal Convento, delle** a**, il 24 agosto 19**.

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LETTERA XI

Don Paolo Conti a Rita.

Mi sarebbe penoso, dopo la relazione che ho presen-tato a Sua Eccellenza il Vescovo fidandomi delle vostreripetute dichiarazioni, dovermi recare da lui con lasmentita della vostra ultima lettera e senza offrirgli unaspiegazione completa del vostro comportamento. La vo-stra lettera con il suo tono esaltato può far nascere inol-tre anche l’assurdo sospetto che siate oggetto di minac-ce, portando scandalo e ingiuste noie al convento e a voiconfusione e vergogna. Vi rinvio dunque, per ecceziona-le riguardo e senza averlo mostrato a nessuno, uno scrit-to cosi impulsivo e intemperante, e vi ordino di portarlosubito con la mia risposta alla madre superiora, a cui fa-rete nel medesimo tempo una confessione sincera delmutamento delle vostre intenzioni. Quando l’esito in-dubbio del vostro colloquio con lei sarà trasmesso alleautorità superiori, interverrò per aiutarvi, benché misembri che non vi sia altro da fare che dichiararvi pro-sciolta da qualsiasi impegno abbiate assunto con laChiesa. Per questo basta la semplice affermazione chenon vi sentite piú adatta a sopportare le asperità dellavia su cui eravate incamminata.

Ma dopo avervi cosi rassicurata, un altro dovere miincombe, il dovere sacerdotale verso una persona a cuioccorre guardare in se stessa in maniera molto piú lim-pida di quella a cui siete avvezza. La lettera che vi rinvio,confrontata col vostro contegno di fronte a me, e quellaspedita a Don Scarpa. che ho voluto rileggere, mi hannofornito un concetto chiaro di voi. Non volete essere suo-ra; mai l’avete voluto; non domandate sinceramenteconsiglio, essendo refrattaria non soltanto a seguire ilconsiglio di un altro, ma a rendervi conto di esso; ciòche voi chiamate incertezza, è solo gusto dell’ambiguo,

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per scegliere il sentimento che a voi giova di piú. La se-conda lettura di quella lettera a Don Scarpa, mi ha fattoinorridire. Nulla v’è di sincero, ma solo il gusto di esibi-re voi stessa, l’ostentazione dei lati piú riprovevoli di uncarattere infido, la vanteria delle azioni peccaminosesotto il pretesto ipocrita di giustificarle. Le vostre azioni,siano buone o cattive, solo perché sono vostre, vi sem-brano tutte eguali ed altrettanto appetitose. Leggendo lavostra lettera mi ero poi meravigliato che fino dai vostriprimi anni, mentre in alcuni giudizi eravate chiarissima etalvolta senza pietà, altrove eravate incapace dei ragio-namenti piú semplici e credevate perfino che Dio vi scri-vesse. Ora so come spiegarlo. Capite solo e chiaramentequello che vi giova capire; non capite mai nulla di quelloche vi dispiace; le vostre confusioni sono tutte utilitarie;il grado della luce, per sfumature lievissime, è sempreregolato dalla vostra convenienza. Il vostro fine è poisempre lo stesso, evitare ogni disturbo. Vi siete tracciataintorno un cerchio di cattiveria per coltivare la colpevo-le dolcezza del vostro cuore. Quella che avete chiamatola vocazione religiosa è uno dei tanti mezzi che aveteescogitato per togliervi l’incomodo di amare i vostri fa-miliari. Vi siete servita di Dio per liberarvi della madre,ora vi servite di me per liberarvi di Dio.

Spero che questa risposta, con la sua estrema chiarez-za, possa rivelarvi a voi stessa e indurvi a riflessione. Miauguro infatti che finora abbiate mentito solo perché lavostra coscienza è nebbiosa, non per una specie piúsemplice e piú volgare d’impostura. Vi sono passi cosifreddi ed ornati, nei quali mostrate tanto il desiderio diesibirvi, che dubito rileggendoli della vostra ingenuità.Dio abbia pietà di voi! Ma oltre ad una finzione che diròlatente e diffusa, credo che la vostra lettera contenga bu-gie piú precise; che un testimonio avrebbe molto da ag-giungere a quel vostro racconto; e soprattutto che quelleesposte da voi siano ragioni insufficienti a spiegare una

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volontà anche fittizia di entrare negli ordini sacri. Se co-sí è, come credo, vi invito a dire quello che avete taciuto,perché possiamo giovare all’anima vostra in modo piúcaritatevole che col rimandarvi a casa.

Dal Vescovado di** il 25 agosto 19**.

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LETTERA XII

Rita a don Paolo Conti.

Io vi chiedo soccorso; voi mi lasciate alla mia sorte!Da quando ho letto la vostra risposta, io vivo come sba-lordita. Mi sono chiusa nella cella e finalmente ho unmomento di pace. È possibile, dico, che mi si possa giu-dicare cosí, dopo che ho tanto sofferto? Io sono statasincera. Prima ho creduto di desiderare il convento; poiho dubitato, ed ho chiesto consiglio; sono stata infine si-cura di voler uscire di qui, ed ho chiesto soccorso. Hoavuto in cambio prediche, minacce e insulti.

Nella mia lettera ho narrato tutto. Ora aiutatemi per-ché ne ho bisogno e perché è vostro dovere.

Dal Convento delle** a**, il 26 agosto 19**.

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LETTERA XIII

Don Giuseppe Scarpa a don Paolo Conti.

Vi sono grato delle cortesi parole che mi avete scrittoa proposito del mio intervento nel caso della noviziaPassi e della comunicazione sull’esito negativo della vo-stra inchiesta al convento. Ma avendo ricevuto una lette-ra anonima di ben diverso tenore, della quale accludouna copia, che farebbe presumere una ripresa scandalo-sa di questa oscura faccenda, credo mio obbligo metterenelle vostre mani tutto quello che so. La madre superio-ra del Convento di**, in uno scambio di lettere avutocon me, mi fece intendere che quella novizia aveva ta-ciuto una parte dei casi della sua vita e delle cause percui si era chiusa in convento. In seguito a tacito accordotra me e la madre superiora non abbiamo guardato inquelle zone meno chiare, per il bene della fanciulla e perragioni di prudenza, né ho creduto d’usare di una noti-zia avuta confidenzialmente, finché mi sembrava proba-bile che tutto finisse nel nulla. Ma ora gli stessi avveni-menti mi affrancano dall’obbligo di segretezza e anzi mispingono a dirvi quello che ho appreso, sia pure congrande riserbo e attribuendovi non molta importanza.

Dal Seminario di**, il 26 agosto 19**.

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LETTERA XIV

Don Paolo Conti a Rita.

Leggo una lettera in cui mi assicurate di essere statacompletamente sincera; nel tempo stesso ho sicura noti-zia che in quella inviata a Don Scarpa vi sono numerosereticenze, lacune, alterazioni e omissioni di fatti.

È poi evidente che non avete mostrato la lettera che viho spedito alla madre superiora, ma l’avete fermata pri-ma che ne avesse sentore, rispondendomi ancora in mo-do clandestino.

Ora sarebbe mio obbligo il denunciarvi e il deplorarel’iniziativa infelice che ho avuto con lo scrivervi e coltentare di farvi del bene. Solo temo oramai che una in-chiesta piú rigorosa rivelerebbe alcuni fatti dai qualiavreste piú danno che io non desideri, e che porterebbe-ro danno anche ad altri e al convento. Inoltre vorrei pre-servare il Vescovo dagli inutili e frivoli turbamenti. Ob-bedisco non alla lettera, bensí allo spirito della miamissione, ordinandovi ancora in via strettamente privatadi espormi come in confessione i fatti utili a chiarirequesta noiosa controversia; in modo che io possa trova-re, insieme con la superiora, il miglior modo per finirla,senza danno per voi né scandalo per nessuno. Se avetecuore e capite quello che faccio per voi, non vi fate piúattendere; per carità di cristiano e perché vi ritengo, co-munque siate, un’infelice, credo bene di darvi quest’ulti-mo avvertimento.

Dal Vescovado di**, il 27 agosto 19**.

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LETTERA XV

Rita a don Paolo.

Il vostro tono non mi lascia piú dubbio: per salvare mestessa e per non essere creduta bugiarda dovrò rivelarviuna parte penosa della mia vita, e mostrarmi vendicativacontro una donna del mio sangue che preferirei perdo-nare. Prima di scrivere a Don Scarpa una lettera che, sefosse caduta in mani piú delicate, poteva essere l’ultima,e invece diventa causa di inutili complicazioni, chiesi allamia coscienza se dovevo narrare alcuni fatti familiari, iquali mi assicuravano, è vero, un giudizio benevolo, maal prezzo di attirare una sicura condanna sulla persona acui ho accennato. Mi parve che quel racconto sarebbestato ingeneroso, a meno che non vi fossi stata costretta.Scrissi allora una lettera in cui la mia semplice vita ed imoventi della mia monacazione erano già narrati in ma-niera bastante perché un sacerdote potesse dirmi ciò cheimportava, senza sforzarmi a stendere contro mia madreuno sgradevole e superfluo atto di accusa. Ma ora sonoio l’accusata; devo difendermi a ogni costo; e lo farò nar-rando oggettivamente tutto quello che accadde, come separlassi di un’altra, anche se non mi fa onore.

L’episodio di cui mi chiedete il racconto avvenne su-bito dopo la morte dei nonni, che morirono quasi con-temporaneamente, l’uno in aprile, l’altra in maggio,quando avevo compiuto da poco i sedici anni. Verso lametà di giugno tornai a casa in vacanza, per rimanervidai tre ai quattro mesi, e con l’animo pieno di un incon-sueto calore. Mia madre infatti nell’ultimo mese era pas-sata dalla freddezza all’affetto, ed io appena gustata que-sta sua tenerezza me n’ero infervorata, trovandovi unpiacere forse meno fantastico, ma piú profondo e natura-le, che nell’affetto per i nonni. La morte dei suoceri poile aveva dato una libertà nel trattarmi, piú di sorella che

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di madre. Lo splendore del volto, una lieve enfasi nelleparole anche normali, mi diceva che essa, sul trentacin-quesimo anno, attraversava una fase d’amore felice; edanche questo mi attraeva. Quest’amore era poi evidente-mente la causa di un mutamento nei suoi desideri, chesul principio mi aveva sorpreso. Mentre negli anni scorsi,vivendo i nonni, mia madre si lamentava d’essere comein prigione in quella casa di provincia, e non parlava chedi Milano e di Roma, ora non soltanto trovava quellacampagna ammirevole (adatta, diceva sempre, alla suaindole delicata e contemplativa), non solo si estasiava da-vanti a quei panorami, ma non intendeva lasciarli nem-meno durante l’estate.

Il suo mutamento mi apparve la prima volta con chia-rezza il giorno in cui nonna Giulia morí e io andai a ve-derne la salma. La nonna giaceva sul letto, nella luce dibosco portata dalle persiane; fuori era già caldo. Miamadre mi prese pel braccio e mi condusse nel giardino,dove sedemmo, un po’ pallide entrambe, a un tavolinodi pietra sotto il ciliegio senza fiori. Dopo avermi tenutola mano per qualche istante mia madre cominciò a par-larmi con una umanità che non le avevo mai scoperto,senza mai offendere i miei ricordi infantili, e accennan-do alla morta con una delicatezza che aveva toni di rim-pianto. Cosí riuscí a consolarmi e mi disse, prendendoun’aria di complice, che entrò da allora in tutti i nostrirapporti: «Ti sei fatta una donna, ed io non sono vec-chia; nessuno ci divide; vedrai che anch’io so voler be-ne». A queste parole si sciolse in me come un nodo allagola che avevo fin dall’infanzia; mi sembrò di rientrarenella mia vera natura; mi alzai e abbracciai mia madre.Essa ricambiò il mio bacio.

La solitudine in cui visse mia madre, almeno agli oc-chi degli estranei, dopo la morte della nonna, indusse lasuperiora a mandarmi da lei tre o quattro volte primadelle vacanze. V’andavo non piú da nemica, ma quasi

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con il batticuore, come temendo che quell’atto affettuo-so fosse stato un capriccio. Invece mia madre mi diedemolte conferme del suo mutamento. Quando parlavo disuore o di compagne, sembrava che fosse sorda; ma sedicevo che il mio piacere piú grande era di starmene so-la: «Tu sei identica a me» mi interrompeva; «come ci as-somigliamo! Quante poche persone sentono come noidue, che andiamo a fondo di tutto!» Mi mostrò un gior-no un romanzo, dicendomi: «Al tuo ritorno, leggeraiquesto libro; è piaciuto a me che non sono di facile con-tentatura; dovrebbe piacere anche a te, che hai gli stessigusti». Un giorno poi, che era triste, proruppe: «Io sonosempre disgraziata; doveva capitarmi che tu fossi in col-legio proprio in questi momenti; ma ora, se Dio vuole,ritorni, e si potrà parlare». Il suono di queste parole miaccompagnava la mattina del mio ritorno e mi rendeva,oltreché felice, curiosa.

Appena giunsi, la cameriera mi disse che mia madredormiva e m’aspettava in camera al suo risveglio. Nonsapendo che fare, uscii in giardino a rivedere i miei amo-ri, e mi compiacqui di ritrovarmi sensibile dopo alcunianni di apparente atonia. La luce bianca e soffice porta-va sulle aiuole e sulla valletta erbosa aperta davanti allavilla lo scintillio quasi marino che nel Veneto giunge aipiedi delle montagne; ma al bianco si mescolava un rosaappena percettibile, che chiudendo gli occhi però si ri-cordava piú intenso. Presi il caffè-latte all’aperto e dopoun paio d’ore trascorse in un soffio fui invitata a salire incamera di mia madre. Mi accolse con gli occhi lucidi, mistrinse quasi febbrilmente, dicendo: «Come ti sei fattagrande! Credevo proprio che tu non venissi piú. Speroche sia finita, con quel maledetto collegio». L’avanzodella mattina fu occupato interamente a dileggiare lemonache ed il convento. Gli anni che io avevo trascorsifurono messi da parte come indegni di avere un postonel nostro ricordo; «ora che dipende da me» disse mia

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madre «ti giuro che non rimetti piú piede in quel buco».Cominciò a progettare conversazioni, letture comuni, esoprattutto scambi d’idee e di consigli, col tono di chi ri-prende una dimestichezza gia assicurata da un’affinità ditendenze e dalle prove del passato. Piú ancora dei suoidiscorsi mi attrasse in mia madre l’aspetto: non piú quelmalcontento misto ad alterigia, quell’ombra di compian-to sulla propria sorte, che mi tenevano lontano da lei,ma un ardore, un orgasmo, che le mettevano sul voltouna nebbia e le rendevano gli occhi come rapiti. Un’oraavanti di scendere a colazione mi congedò per fare il ba-gno; mi chiese però di aspettarla prima di prendere pos-sesso della mia camera perché voleva che vi entrassi conlei; quando già me ne andavo lasciò cadere una frase,che stimolò la curiosità già irrequieta: «Ora che siamosole, possiamo parlare di tutto».

La camera che mia madre mi assegnò dopo colazionenon era piú quella della mia infanzia, ma quella di nonnaGiulia: volle perciò accompagnarmi a godere della miagioia. «Cosí» mi disse «sarai piú vicina ai ricordi; anchetu, come me, vivi delle piccole cose». Mi commossi e michiesi come avessi potuto non amare una donna che micapiva con tanta delicatezza. I miei affetti infantili nonpersero il loro incanto, ma da quel momento sembraronoappartenere tutti a lei. Verso i nonni, che pure ne eranoprotagonisti, provai un lieve rancore. Baciai mia madresinghiozzando; era vestita per andare in città.

Quasi sempre mia madre vi scendeva verso le quat-tro, qualche volta la sera. Io non mi muovevo mai né de-sideravo di muovermi; sia perché la mia indole è alienadalla società, sia perché quella vita mi dava abbastanzadolcezze; né d’altronde mia madre mi aveva mai propo-sto di accompagnarla, come se fosse convenuto tra noiche io preferivo i libri e le fantasie. In casa nostra nonentravano estranei da quando i nonni erano morti. Inonni cercavano infatti, per economia e per principio,

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solo la modesta amicizia delle persone dei dintorni, pro-prietari, fittavoli, semplici contadini, che mia madrenon avvicinava; e s’era perciò legata a gente della città,con cui aveva formato una cerchia ristretta e preoccupa-ta di eleganze. Questi suoi amici non venivano mai nellacasa dei nonni, da cui mia madre li teneva lontani. Allamorte dei vecchi l’abitudine era rimasta; nessuno salivaa turbare la rustica raffinatezza di quella casa di campa-gna, e mia madre usciva ogni giorno in cerca di compa-gnia. Non vedevo nessuno, né avrei potuto vedere, e ri-prendevo le mie occupazioni infantili. Contemplavo lestatue, la gaggia, la magnolia, ma in una luce diversa chenella infanzia, meno fantastica e piú affettiva. La matti-na e le prime ore del pomeriggio erano sempre dedicatea mia madre, talvolta nella sua camera, talvolta nel giar-dino o negli immediati dintorni. Quand’era in camerastava per lo piú coricata e si muoveva soltanto per lavar-si i denti o per rimirarsi allo specchio in modo inquisiti-vo, accarezzandosi la pelle intorno agli occhi. Esamina-va poi la mia bocca e il mio naso, giudicando fino a chepunto potevano dirsi perfetti, e mi invitava a fare lostesso con lei, sentenziando: «Bisogna sempre avere ilcoraggio di dire ciò che si pensa». Ma il principale argo-mento era il pettegolezzo sulle sue conoscenze, ch’ioavevo visto da lontano, e poche volte, e spesso qualcheanno prima, e su cui discorrevo, per cosí dire, astratta-mente. Di questi esseri a me ignoti mia madre canzona-va le caratteristiche fisiche, senza però mai annoiarmi,tanto bene sentivo che il pettegolezzo era un mezzo perassociarmi alla sua intimità. Da tanti discorsi larvali spi-rava cosí reale l’eccitazione che ne era la causa, vi si sen-tiva cosí caldo il gusto di sottilizzare su cose che riguar-dano il corpo, che insieme al riso vi trovavo il languore;la testa piena di volti per me immaginari che insiemeavevamo beffato, aprivo la finestra quasi per cercare re-spiro; guardavo la pianura, con quel mischiarsi di colori

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sfumati, ed in essi trovavo un’immediata simpatia.Qualche volta mia madre mi faceva alcune domande:per esempio (parlando di gente per me sconosciuta) secredevo che due fossero amanti; e per mettermi in gra-do di dare il mio responso, forniva molti particolari mi-nuti sul loro comportamento. Io rispondevo alla meglio;dalle risposte mia madre arguiva che avevo una mentematura, adatta a cogliere le finezze delle passioni, quasiun’autorità nelle faccende che riguardano il cuore. Melo diceva e io ricevevo da lei, oltre all’affetto e alla mol-lezza, anche le prime soddisfazioni di orgoglio. Mi pare-va di avere sempre vissuto cosí; dimenticavo le monachee le compagne, e una volta, a passeggio, simulai d’esseredistratta per non doverle salutare.

La piú forte attrattiva ch’io trovavo in mia madre enei suoi discorsi svagati, era un che di sospeso, come setutti quei giorni preparassero un atto di confessione fi-nale e solenne. Capivo bene che quei languidi giri sullefaccende degli altri non erano fine a se stessi, e riceveva-no calore soltanto da un argomento maggiore che vi re-stava sottinteso. Gli stimoli nascenti del mio caratterefemminile mi rendevano ansiosa di parlare di un fatto lacui natura immaginavo. Accadeva però che, al momentod’entrarvi, mia madre perdeva il coraggio e riprendeva astrascicarsi con me nel languore preparatorio. Due o trevolte al giorno, ad esempio, dopo uno dei soliti elogi sul-la mia intelligenza, cosí lontana dalla grettezza dei piú,taceva per un istante, ed il silenzio finiva in una doman-da, identica in apparenza a quella che mi faceva sugliamori degli altri; se io ritenessi che un tale, che chiameròX, fosse attaccato a sua moglie. Naturalmente perchépotessi risponderle mi forniva infiniti saggi del suo con-tegno; io rispondevo nel modo piú conveniente, che ilsignor X non era, non era stato, né avrebbe potuto maiessere innamorato di una donna tanto sgraziata. Miamadre taceva ancora, contenta, ma insoddisfatta; poi di-

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ceva piú volte un: senti, in tono sospeso. «Cosa mam-ma?» chiedevo, già rossa in volto per uno strano piace-re. «Niente» diceva mia madre «tu sei della mia natura,ti piace l’indagare, il sottilizzare su tutto; ma tu sei ancheun carattere forte, che potrà aiutarmi». Questo era ilfondamento di tutti i nostri discorsi: tanto che, a forza disentirmelo dire, mi convinsi di essere nata non per mestessa, ma per guidare e medicare le anime, e special-mente l’anima di mia madre. Dalla mia convinzione, cheprendeva talvolta un calore esaltato nel chiuso di quellestanze, e lusingava la mia vanità, traevo una conseguen-za, di cui non capivo il pericolo, che ogni mia azione oparola dovesse avere soltanto una qualità, non quellad’essere sincera, ma d’essere benefica e di medicare unapiaga. Ecco l’ingenua illusione, di cui subii le conse-guenze, che l’egoismo di mia madre trasse dalla mia va-nità. Intanto io promettevo tutti gli aiuti possibili e, se ildiscorso avveniva la sera, mi coricavo con una coscienzadi elevazione. «Sí» dicevo a me stessa «questa è la miavera missione: assistere quella donna, che certo è debo-le, ma si sottopone a sua figlia»; scoprivo in me unaprofonda propensione al sacrificio: mi pareva che la miapelle emanasse una luce.

Si trascinarono cosí quindici giorni, senza che nullaaccadesse di positivo. Nella mia contentezza cominciavaad insinuarsi il timore che le vacanze andassero sciupatein un’attesa senza effetto e senza ch’io potessi beneficarenessuno. Fummo allora distratte dal rapido e fastidiosopassaggio dello zio Clemente, un fratello di mio padreche, essendo tornato a vivere in provincia da Roma, cre-dette suo obbligo prendere la direzione delle due poveredonne. Veniva a trovarci ogni giorno, entrava nelle no-stre camere, spalancava le finestre, che mia madre tenevasempre semichiuse, dicendo: «Quante chiacchiere! Eche aria chiusa! Che buio! Tu, Rita, smettila di star lí se-duta, vieni fuori con me». Cinque o sei giorni tolleram-

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mo; poi, smontato dal nostro contegno passivo e ostile,soprattutto da alcune osservazioni di mia madre («È inu-tile, certe cose la gente non le capisce; le sottigliezze, bi-sogna lasciarle a quei pochi»), troncò le proprie visite inmodo non meno improvviso di come le aveva iniziate.

Quando fu scomparso mi accorsi di non provare perquell’uomo un’antipatia tanto viva come avevo mostratoper riguardo a mia madre e per conservarne la stima.Forse capii da allora che nel languore dei nostri colloquie nelle mie preoccupazioni morali cominciava a entrarela noia; e perdevo ormai la speranza che vi riportasse vi-vezza la confessione che attendevo. Il mio desiderio sivolse, contro la mia volontà, a fantasie di svaghi piú natu-rali, e vi trovò piacere e insieme vergogna. Erano svaghiinnocenti e comuni, la compagnia dei giovani della miaetà, i giochi, i vestiti, le feste, tutto ciò che mi era negatoper egoismo e per vanità da mia madre. Senza tregua ilpensiero tornava a fantasticarli, e subito ne rifuggiva,quasi temendo di essere stato sorpreso in una pratica in-feriore. Mia madre mi aveva convinta che non ero unagiovane come tutte le altre, e potevo apprezzare solo lepersone mature e le passioni adulte. Mi parlava talvoltadegli amoretti e dei discorsi dei giovani, cosine a fior dipelle, essa diceva, che si disprezzano quando si provanovere passioni, che impegnano anima e corpo, assorbonotutta la vita ed incominciano verso i trentacinque anni.Spesso, nei nostri discorsi, si interrompeva per dirmi:«Queste cose si vedono solo quando si è donne fatte; omolto intelligenti» e guardava me. La vanità ed il timoredi perdere la stima e la direzione dell’anima della perso-na che amavo, mi impedivano dunque di accettare le in-clinazioni dei miei sedici anni. Ma la natura non cedeva ele mie tentazioni si erano fatte insistenti da quando, in unbreve passeggio, avevo incontrato per caso una ragazzadel collegio, di condizione poco inferiore alla mia, chestava poco lontano e che mi aveva detto di andarla a tro-

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vare. L’incontro fu cagione di molti tormenti. Per quantoio mi rimproverassi, per quanto io mi accusassi d’esserené piú né meno di una ragazza come tutte, non potevolevarmi dall’angolo della mente la figura assillante dellamia amica che rideva e mi invitava a passatempi infantili.Alla vergogna si mescolava il rimorso, perché sospettavodi amare un po’ meno mia madre e di annoiarmi qualchevolta con lei. Tra le resistenze dovute alla mia vanità en-trava poi e prevaleva lo scrupolo di natura morale. «Nonho assunto» pensavo «un compito di protezione? E perproteggere mia madre, non devo a qualunque costo con-servarne l’ammirazione? In questi casi di medicina mora-le, non è indispensabile forse esser creduti impeccabilidalla persona che ha bisogno di noi?» Il suggerimentonon buono che risolse la crisi mi venne, è strano, proprioda questi scrupoli sempre piú insistenti e profondi. «Miamadre» dissi «ha le sue idee; io d’altra parte ho i miei di-ritti; bisogna che io li soddisfi, senza però disgustarla etoglierle il desiderio di chiedermi una assistenza che puòriuscirle preziosa. Andrò dalla mia amica, ma vi andrò dinascosto». Scrivo con sincerità i miei pensieri di queigiorni, per mostrare a che punto di smarrimento già miaveva condotta l’opera di seduzione di una donna concui avevo il diritto di vivere senza sospetto né difesa.

Tenevamo a quel tempo due servitori, un uomo eduna donna. Parlai alla donna, una vecchia intrigante, chesi chiamava Zaira; essa mi diede ragione e mi promise ilsuo aiuto, garantendomi poi anche quello dell’uomo concui viveva, credo, in intimità. A me premeva che, se fossiuscita di casa, fingessero di non vedere; e infatti un gior-no, che mia madre era fuori, andai dalla mia amica, il cuinome è Anna Carli. Andai, purtroppo, aggrondata di or-goglio, come chi si concede a un piacere inferiore, e ha lacoscienza turbata; ma subito Anna mi vinse. Le nostredue ville guardavano, una di fronte all’altra, sulla medesi-ma valletta. Anna mi vide scendere, poi risalire, sugli op-

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posti versanti; non ero ancora sulla porta, che già mi ve-niva incontro e mi abbracciava con slancio. Avevo vistocosi, accanto ai miei, due occhi che il grande piaceredell’accoglienza faceva sembrare piú chiari mutandoli,da castani, in un nocciola soleggiato; avevo gustato quelvolto, regolare, sereno, di una pensosità amica, di una se-rietà naturale, come i colli e i prati. Se scendevo poi alcorpo, quasi a contrasto, era grassoccio e un po’ goffo, evi trovavo una ragione d’affetto diversa da quella del vol-to, ma forse non meno viva. Stringendosi al mio fianco,in quel trabocco di allegra amorevolezza, aveva mosse,sussultanti e maldestre, che componevano tuttavia unapiacevole mimica caricaturale. In un sobbalzo piú forteverso di me, a metà del giardino, inciampò e quasi cadde;io la sostenni; prima che giungessimo a casa l’amiciziaera fatta. Quel primo giorno ci fermammo a prendere iltè in un salotto con le poltrone e i divani coperti d’unastoffa verde pisello e con le tende d’un colore giallino.Tra due grandi finestre, da cui vedevo casa mia, con lestatue ed il ciliegio, si alzava una gabbia enorme, e vi svo-lazzavano dentro una ventina d’uccelli intorno ad unaspecie d’albero scheletrito. Fosse la stanza allegra, fossela simpatia per la carne festosa della mia amica, fosse ilrispetto che mi incuteva il suo volto, mi abbandonai suun divano e mi parve di avere trovato quello che cercavo.Rientrai sfogata e riposata, e la sera fui con mia madre diuna speciale tenerezza.

Nei giorni seguenti tornai spesso dalla mia amicaquando mia madre era assente. Mentre cosí constatavocome in questo piacere non vi fosse niente di basso, ilmio pensiero si chiariva. «Se mia madre» pensavo «puòfar l’amore senza domandarmi il permesso, io possoprendermi uno svago tanto innocente, purché non l’urticon una franchezza inadatta a chi deve curare un’anima ele sue manie». In una delle mie visite, incontrai la contes-sa Verdi, una signora già conosciuta dai nonni, ma che

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mia madre aveva poi allontanata perché non confaceva aisuoi gusti eleganti. Mi chiese che cosa facessi; le dissi chemi annoiavo; mi invitò a casa sua. Mi accorsi che con ilmio assenso entravo in una rete di conoscenze clandesti-ne, e tuttavia mi sembrava impossibile di tenerle ignote amia madre. Come ho già detto essa non aveva voluto par-tecipare alle amicizie dei nonni, che erano appunto lagente di quelle ville, e aveva preferito legarsi a cinque osei famiglie della città, i cui costumi erano già piú galanti.Dopo la morte dei nonni nessuno dei loro amici si erafatto vivo con noi, e nessuno, del resto, era stato rimpian-to. Mia madre diceva talvolta che su quei colli le piaceva-no i fiori, i prati ed i tramonti, ma che doveva attenta-mente impedirsi di pensare ai loro abitanti perché anchela natura non le sembrasse deturpata. Era dunque diffici-le che mi scoprisse nelle mie brevi assenze.

La contessa Verdi abitava tra casa nostra e il santua-rio, in un’altra valletta aperta sulla pianura, piú ombro-sa però della nostra e dedicata specialmente alla caccia.Il versante a metà del quale sorgeva la villa era copertodi prati e di vigne, quello opposto di gelsi, e, al fondo,di cespugli, non però ispidi alla vista, ma soffici e dora-ti. In cima ad esso si vedeva una fila di roccoli dissimu-lati tra ciuffetti di bosco, di là dei quali si scorgevano al-tre due file di colli, una coperta di cipressi, l’altra quasisempre sfumata e infinitamente lontana, che io non po-tevo guardare senza languore. La villa poi non avevagiardino, ma soltanto un frutteto, in cui si entrava perun grande cancello ornato di statue barocche. La pa-drona di casa aveva forse cinquant’anni, ma era rimastafresca, loquace, gioviale; era una bella donna, grassa epastosa nell’insieme, ma con particolari d’una commo-vente minuzia, come i piedini molli e gli orecchi rosati.Questa contessa Verdi mi accolse dunque affabilmente,e mi piacque a tal punto, che tutto intorno mi piaceva.Mi tenne seco finché tornò a casa il figliolo, che le aveva

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lasciato un marito meridionale e che mi condusse alcancello. Saliva dalla pianura il chiarore verdastro dellaluna ancora nascosta, che doveva essere piena. La vitaaffettuosa e semplice che avevo visto in quella casa, ave-va dato mentre v’ero rimasta una delizia irriflessiva. Maora che me ne andavo, provavo d’improvviso un senti-mento d’angoscia, quasi la rivelazione di un’altra mora-lità, ch’io paragonavo alla nostra. Questo sentimentonon solo mi sconvolse in un attimo, ma m’intenerí sume stessa. Come di fronte a un’apparizione imprevista,io giudicavo per la prima volta mia madre ed anche meche l’assistevo.

La sua mania di sequestrarmi a discorrere, le sue fan-tasie ed i suoi amori, le adulazioni e l’artificio, mi appa-rivano ora in una luce esaltata e sinistra. «Ho preso l’im-pegno» pensai quasi con raccapriccio «di sacrificarle lavita!» Stordita, mi sentii morire; non avrei potuto persi-stere nel sacrificio impulsivo della mia vita a quella don-na. Pure amavo ancora mia madre e non potevo risolver-mi né ad abbandonarla a se stessa, né a darle unadelusione. Mentre mi dibattevo tra questi diversi impul-si, udii la voce del giovane, che mi diceva:

«Sono molto dolente di non essere stato con mia madree con voi; mia madre non mi aveva preannunciato la visi-ta; ma ora che sapete la strada, spero di vedervi tornare».

Tutto basta a commuovere quando si ha il cuore già di-sposto; io lo guardai con occhi pieni di lagrime: «Oh, co-me vorrei!» gli risposi. «Ma c’è mia madre, e ha le sueidee; è una donna deliziosa, di un’intelligenza rarissima,piú che una madre una sorella; io, piú che amarla, l’adoro;appunto per questo non voglio recarle il minimo dolore».

«Ma vostra madre» disse il giovane «distinguerà com-pagnia e compagnia; non sarà certo contraria che voi ve-niate tra la gente per bene».

«Eh» dissi scuotendo il capo. «Io temo... ecco, vede-te, non le piace che io esca».

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«Ma non potete vivere da prigioniera!»«Perché insistete?» gli risposi. «Perché volete pun-

zecchiarmi su un punto che mi tormenta giorno e notte?Io non vi posso rispondere la verità. Il nostro caso non èun caso normale. Mia madre ha le sue manie, io sono co-me un’infermiera... oh, non crediate che sia pazza! È so-lo una cara donna che ha bisogno di me; e io mi sonoaddossata il compito, forse eccessivo, di darle un conti-nuo sostegno; perché, credete, non potevo dire di no. Ènecessario che mi stimi; e se, per stimarmi, le occorrech’io stia rinchiusa dalla mattina alla sera, io devo farlo,ve lo giuro. Questo mi permette di darle, povera donna,un po’ di aiuto».

«Ma allora vi sacrificate!»«Non mi sacrifico, perché le voglio bene. Anche voi,

che fareste, se la persona che amate di piú fosse ammala-ta, e in mano vostra, sapendo che una certa azione, inno-cente in se stessa, le farebbe un tale dispetto da aggrava-re il suo stato? Non posso nemmeno pensarci...»

«Rita» mi disse il giovane «voi dite che dovete aiutarevostra madre. Per mio conto vi dico: se posso aiutarevoi, se possiamo vederci...»

A queste parole capii con una tale chiarezza ciò chemia madre mi toglieva, che cominciai a singhiozzare.

«O Rita!» mi disse l’altro.«Non posso farle del male» risposi; «non posso col-

pirla alle spalle; a meno che...»«Che cosa?»«Vado già quasi ogni giorno, quando mia madre e

uscita, dalla mia amica Anna Carli, a cercare un po’ direspiro. Vedete che si tratta di una relazione innocente.Se anche voi volete venire...»

Subito mi promise che sarebbe venuto il pomeriggio delgiorno seguente; e ci lasciammo con una stretta di mano.

Mentre tornavo a casa, lasciai che le mie lagrime mi siasciugassero da sé. Lo sfogo era stato cosí prezioso, che

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subentrò alla mia angoscia il benessere di un riposo as-soluto, una agiatezza di coscienza che rammentava il pri-mo giorno del mio ritorno dal collegio. Lo stesso sensodi euforia mi impedí di avvedermi che era passato moltotempo, e che rientravo piú tardi del consueto. Salii tran-quillamente a togliermi i guanti e il cappello, e avevo ap-pena cominciato, quando mia madre entrò nella miastanza. Io non sapevo che fosse già a casa ad attendermie, per quanto oramai sicura del mio diritto, mi sentiirabbrividire perché mi vedevo scoperta. Mia madre nondisse nulla, sedette sull’orlo del letto, le mani sulle gi-nocchia, le labbra strette e imbronciate.

«Ah, sei tu» dissi io; e facendo finta di nulla, ma conun grande batticuore, mi sedetti allo specchio e comin-ciai a pettinarmi. Dopo un minuto aggiunsi:

«Sono subito pronta; è quasi ora di pranzo».«Ti ringrazio» fece mia madre senza mutare posizio-

ne: «ora so quanto devo fidarmi di te».«Perché mamma?» dissi voltandomi.«Ci si illude di avere trovato una gran cosa, una intel-

ligenza speciale, un sostegno per sempre… lo so dovesei stata; sei ritornata al tuo collegio».

Io capii a volo; avevo parlato una volta di una delle no-stre suore senza beffe né insulti; mia madre se n’era irri-tata. Certo alle sue parole provai il genuino sollievo dichi può dire una cosa gradita che non è una menzogna.

«Ah no, mamma» dissi «ti giuro!»«Se ti piace, prendila pure» continuò per suo conto.

«Tanto i tuoi gusti sono sempre stati cosí: io lotto, io midibatto, ma ora mi accorgo che è inutile; bisogna che mirassegni a non avere un appoggio in nessuno». Cosí di-cendo strinse le labbra piú forte.

«Perché ti dovrei dire una bugia cosí stupida?» rispo-si quando mi riuscí di parlare. «Non so nemmeno se siaviva o morta, la suora». V’era nella mia voce un’anima-zione, uno slancio, vi si sentiva cosí irrompente il piace-

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re dell’animo che dice il vero, che un’ondata di caldogiunse fino a mia madre e la costrinse a guardarmi. Ora,a distanza di anni, non posso compiacermi di quello chedissi poi, però lo spirito non fu del tutto cattivo; perchénelle mie parole alitava ancora, animandole, il soffio disincerità, e quasi il grido d’innocenza, che era uscito dame di fronte a una falsa accusa. Nella mia fantasia si co-lorí inconsciamente un luogo di quei colli, di cui miamadre parlava con tenerezza, certo perché ricordavanoun convegno d’amore.

«Credimi, mamma, è cosí» dissi, e raccontai come,verso il tramonto, con il rinfrescarsi dell’aria, mi avessepreso la voglia di passeggiare per riflettere meglio su al-cuni nostri discorsi. Ero andata per questo sulla via di**,che favoriva (almeno io sentivo cosí) la intimità di queipensieri, perché di tutti i luoghi era il piú languido e rac-colto. Raccontai come, dai colli lontani e sfumati, avessiveduto sorgere un’enorme stella rossastra, ed invece dal-la pianura la luna che dava nel verde, ed altri particolari,non meno molli, nei quali anch’io mi adagiavo.

Mia madre s’era invermigliata. Colsi fisicamente il ca-lore di vita, fervido e quasi dolente, che avevo suscitatocon la mia descrizione; ne fui commossa a tal punto, dasentire un brivido freddo, una stretta alla gola. Qualun-que cosa avrei fatto, prima di raggelare quel fermentoamoroso, per cui sentivo un’immensa pietà. «Quanto ècara!» pensai. «Quanto le voglio bene!» Mi parve diavere assistito nel modo dovuto mia madre, tacendoquello che avrebbe potuto ferirla e assecondando le suedebolezze. Una nebbiolina ovattata ormai mi velava lamente ed ancora una volta avevo la strana impressioneche la mia pelle emanasse una luce.

«Come mai» disse mia madre, tentando forse un’ulti-ma resistenza «sei rimasta via tanto tempo?»

Mi era ormai facile, nella mia grande pietà, l’invenzio-ne di quello che le avrebbe fatto piacere. Dissi che nel ri-

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torno mi aveva colto il tramonto; non ero riuscita a lascia-re uno spettacolo cosí seducente, le variazioni della luce, iriflessi, l’accendersi dei lumi nell’aria che rosseggiava.

«Se tu dicessi queste cose ad un’altra» disse mia ma-dre con gli occhi sempre piú lucidi, restituita ormai allafelicità «non ti crederebbe perché pochi capiscono certecose sottili. Io ti capisco: sono anch’io fatta cosí».

Ci incamminammo verso la sala da pranzo. A tavolamia madre, ancora immersa in quel calore, sorrideva a sestessa, e io la guardavo piena di compiacimento. Nonl’avevo mai tanto amata, avrei fatto qualunque sacrificioper lei. Mangiammo con poche parole, poi, come sem-pre, ci recammo in giardino. C’era una bellissima luna,ancora un po’ pendente sulla pianura, su cui sembravaandare a volo; anche a noi, come affacciate a un balcone,pareva di volare insieme; il mondo appariva immenso.Dopo essere rimaste qualche minuto alla ringhiera, guar-dando i prati in quel chiaro, gustando la molle armoniadei nostri pensieri vicini, ci voltammo verso la casa, che,giallina di giorno, ora sembrava bianca, svuotata dalla lu-ce. Mia madre mi prese il braccio. «Ti stupirebbe» midisse «s’io ti dicessi qualche cosa di me?» Eravamo da-vanti alla gabbia della gaggia. Io le risposi che la sua con-fidenza sarebbe stata la mia piú grande ambizione. «Nonusa, tra madre e figlia» continuò dopo un attimo di rifles-sione «ma con te è un’altra cosa; tu sei una mente supe-riore, senza grettezze; e i nostri gusti sono cosí identici intutto. Stasera, mentre parlavi, ne ho avuto una prova dipiú». Cosí finalmente narrò la storia del signor X, da tan-ti giorni in sospeso, soprattutto per chiedermi se ritenes-si che l’amasse davvero. Al bel chiaro di luna cominciò aespormi le sue osservazioni sul contegno dell’uomo, conmaggior precisione che nei giorni passati, quando era co-stretta a parlarmene in forma velata e indiretta. A ognifrase giuravo che l’uomo aveva per lei l’amore piú stabilee ardente; essa trovava obiezioni, un po’ per la naturale

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ansietà degli amanti, un po’ per udirmi ripetere quelloche le stava a cuore; io subito le confutavo. Alla sua sto-ria d’amore si mescolava quasi il presentimento della miaappena nascente; le mie assicurazioni erano date, piú chea mia madre, a me stessa: sí, mi dicevo, Rita, tu sarai ama-ta. Rientrammo; si coricò; mi tenne in camera fino a metàdella notte, sempre ad espormi gli atti del signor X e ri-petendomene alcuni che aveva già detto ma la cui spiega-zione l’aveva meno convinta; io continuai a garantirlel’amore; la lasciai quasi addormentata e estasiata. Nel se-pararci ci abbracciammo piú volte, e prima di addor-mentarmi, ripensando a un colloquio in cui avevo dettoquel giorno che adoravo mia madre, constatai che era ve-ro. Mi coricai, ripeto, a metà notte, ma la mattina dopo,quando suonai, la Zaira mi disse che erano solo le otto; ebenché d’indole pigra, mi sentivo ben sveglia. Sapendoche mia madre avrebbe dormito a lungo, decisi di restarea letto per una mezz’ora. Il caldo della stagione (eravamogià in luglio) non si faceva sentire troppo a quell’ora.Dalla finestra scorgevo una parete di foglie, di cui nonvedevo la cima: un paesaggio di foglie che dalla mia ca-mera in ombra sembrava una pittura. Il calore del letto,anziché riaddormentarmi, mi condusse a pensieri ilari eun po’ febbrili. Passava nel mio cervello una serie di si-tuazioni, immaginarie ma usuali, che si somigliavano solonell’avere sempre me stessa come protagonista, e il figliodella Verdi come ammirato spettatore. Mi infervoravo inquelle scene, cercando e ottenendo l’applauso, con bat-tute languide, serie, caustiche, superacute, secondo cherichiedevano l’ambizione e la parte; finché eccitandomicominciai a pronunciare alcune frasi ad alta voce ed a ri-dere forte insieme con il mio amico. Questa commediasollevava una nuvola di sentimenti diversi, tutti però in-tonati a simpatia per me stessa. Perdonatemi se descrivocon tanta minuzia, quasi con tenerezza, con sincerità pie-na anche nei lati piú frivoli, questi primi effetti d’amore.

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Ma oggi, nelle mie strettezze, abbandonata da tutti ed ac-cusata di perfidie, mi commuovo pensando a quell’im-magine dei miei momenti migliori, non mi stanco mai dirivivere ogni suo atto o parola, non so impedirmi d’amar-la anche nelle sue pecche. Quella mattina mi trovai fuoridel letto, senza averlo voluto, e proprio davanti allo spec-chio; guardai l’orologio e mi accorsi che in quel vaneg-giamento, che mi era parso brevissimo, avevo trascorsodue ore; mi vestii accuratamente e salii da mia madre chetrovai coricata. Preparava obiezioni al mio responso del-la notte. Le assicurai con trasporto che si tormentava pernulla. «Perché ci pensi, perché insisti, mamma?» gridai.«Fidati in quello che ti dico, io che non c’entro, una vol-ta per sempre». Avesse potuto leggere nel mio volto ar-rossato! Avrebbe saputo capire il perché del mio slancio.

Il pomeriggio si iniziò con alcune ore di incanto e, perentrambe, di attesa; finché mia madre partí per la città,ma in modo diverso dal solito, come se andasse ad unprimo convegno; e partí salutandomi in tutto il suosplendore. Io subito andai da Anna pel piccolo sentieroerboso che attraversa la valle e l’abbracciai con la solitafrase, che ero molto felice. Le mie speranze si avveraro-no presto, perché dopo alcuni minuti giunse il figlio del-la Verdi (si chiamava Giuliano) che riprese il discorsosospeso il giorno precedente quando mi aveva accompa-gnato. Le sue parole mi colsero mentre cominciavo apentirmi di quelle lamentele, con cui temevo di avere of-feso mia madre, che nelle ultime ore si era mostrata piúbuona. Alla mia ribellione era infatti subentrata unagrande dolcezza e un’inclinazione al perdono. «Sapete»mi disse Giuliano dopo avermi guardata «che ieri serami avete turbato? Sembra persino impossibile che vo-stra madre soffra di vedervi uscire!»

«Non ho mai detto questo» risposi un po’ risentita;nel suo accenno a mia madre, avevo colto quasi un tonodi biasimo; «la mamma, ve l’ho detto, è una donna ado-

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rabile; le sarà permesso, anche a lei, di avere le sue fissa-zioni, come le abbiamo tutti! E poi, cambiamo discorso:sapete pure che non devo parlare».

«Non dovete? Perché?»«Mi sembra chiaro: perché voglio bene alla mamma: e

anche se mi sacrifico a certe sue idee meno giuste, lo fac-cio senza rimpianto».

«Ma vostra madre è malata?»«Malata no; sta benissimo; è debole, bisognosa di as-

sistenza e di guida, ed io, di fronte a lei, mi sento un po-chino infermiera».

«Come?» riprese Giuliano. «Voi dite...»Le sue parole, con il loro suono severo e il loro calore

affettuoso, ricominciarono a scendere dentro di me e aridestare l’emozione della sera prima al cancello; e inmodo non meno improvviso si ripeté la stessa rivelazio-ne, che la mia vita era cattiva e mia madre era ingiusta.Ma, dopo gli sfoghi cordiali che avevo avuto con lei,questa coscienza mi sconvolse in un modo anche piú do-loroso, e si esacerbò d’un rimorso tanto maggiore quan-to era piú certa. Vidi nuovamente che gli obblighi, chemi imponeva mia madre, erano stabili e gravi, mentre leconsolazioni erano lievi e passeggere; e ne rinacque unacosí acuta evidenza d’essere sacrificata, che tutto l’ani-mo mi si sollevò mio malgrado, e scoppiai a piangere adirotto, gridando:

«Non parlate, vedete in quale stato mi avete ridotta,oh se sapeste che cosa c’è in casa mia!»

M’ero gettata sul divano, bocconi; non vedevo piúnulla; ero infelice e mi pentivo di esserlo; alla certezzadel mio sacrificio e alla mia rivolta istintiva, si mescolavala mollezza di alcuni ricordi recenti. Ero insomma stra-ziata; finché dopo un lungo silenzio, la mia amica Anna,che aveva assistito al colloquio, disse:

«Eh sí, povera Rita!» Tutti e due mi aiutarono a solle-varmi e ad asciugare le lagrime, poi mi promisero che

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nessuno avrebbe parlato della mia triste condizione.Giuliano espose certe sue idee generali, che si adattavanoai casi della mia vita senza toccarli in modo troppo sco-perto: che tutti i mali delle nostre famiglie erano dovutiall’ozio, perché vivevamo di rendita anziché andare al la-voro. Era alto, di un bruno pallido, con la bocca sottile,gli occhi chiari, il naso affilato. Le sue idee mi erano nuo-ve, ma ne ammirai la serietà. Cosí riavutami alquanto, ri-tornai a casa un po’ prima del solito e sedetti sul marginedi quel giardino a terrazza, proprio davanti alla luna, edentrai in una fantasia tanto piacevole che non provavo al-tri bisogni. Ma avevo appena cominciato che mi sentiichiamare. Era mia madre di ritorno, con un’aria avvilita,in cui già cominciava a brillare l’irritazione.

Era accaduto che mia madre, inebriata delle assicura-zioni strappate alla mia pietà ed ai miei sogni, era scesain città con un amore ben piú ardente di quello abituale;e il signor X, temendo complicazioni, non aveva mostra-to di gradire il suo cambiamento. Mia madre ora venivaa raccontarmi l’accaduto ed a chiedermi come l’avreimesso d’accordo con i miei responsi di ieri. Questo co-minciò a dispiacermi. Quell’argomento per me era giàstato bruciato in una sera e in una notte, e avrei volutonon parlarne mai piú. Inoltre ormai desideravo pensarea me direttamente, non attraverso fantasie mediatrici,com’era appunto il signor X. «Mamma» risposi «t’hodetto con molta chiarezza quello che penso intorno allatua faccenda; le ragioni del mio giudizio non sono cam-biate in tre ore; non posso mettermi a tenere un registrodi tutti i vostri alti e bassi». Ma subito accorgendomi delmio tono un po’ crudo, me ne pentii e abbracciata miamadre l’ascoltai pazientemente. In fine del nostro collo-quio ero riuscita a convincerla che il signor X l’amava.

Purtroppo nei giorni seguenti mancò tra me e mia ma-dre la presenza della natura, che porta sempre un confor-to ed un beneficio sfumato nelle parole e nelle azioni. Il

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caldo della stagione ci vietava di uscire nelle ore di sole: iltardo pomeriggio mia madre era sempre in città; la serapreferiva chiudermi in camera con sé. Le mie vacanze,dalla fase felice, entrarono in una intermedia, che duròfino a metà agosto, e nella quale non accaddero fatti mane maturarono alcuni. Io andavo ormai tutti i giorni daAnna, e anche Giuliano veniva spesso a incontrarmi, noncosí spesso però come avrei voluto. Quando mi vedevapoi mi faceva molti discorsi sopra la sua intransigenzamorale, ma non diceva mai una parola tenera, e solamen-te con frasi sospese me la faceva sperare per un’altra vol-ta. Cosí mi teneva sempre in uno stato di ansietà e in unbisogno d’atti risolutivi. Mia madre, come ho detto,scendeva in città ogni giorno, ed era ormai evidente cheil signor X cominciava a sfuggirla. Ogni sera portava acasa la triste provvista degli sgarbi patiti, che io dovevospiegare come segni d’amore. Cercavo di distrarla e difarla uscire con me, ma essa rifiutava di muoversi, di in-teressarsi al paesaggio e di cambiare argomento. Ora nonriesco a capire come non si accorgesse quanta sofferenzae disagio portasse con il suo egoismo la sua pazza idea diraccontare i propri amori a una figlia. Allora che l’amavomolto, continuavo a risponderle e nel modo piú mite.Costretta a sostenere l’impegno che avevo preso, che ilsignor X l’amava, ed incapace come ero di farla soffrire,cercavo per tutte le azioni del signor X spiegazioni com-plesse, da cui risultava che proprio quando pareva indif-ferente, era piú innamorato. Ma oltre la pietà e l’amorproprio queste risposte avevano un altro motivo, piúamabile, direi piú umano. L’ansietà in cui mi teneva ilmio amico mi disponeva ad un idealismo amoroso, le cuileggi estendevo anche sugli amori degli altri. Io parlavo amia madre delle mie migliori speranze, delle mie delusio-ni, dei ragionamenti coi quali le risolvevo a mio vantag-gio. Nella camera verde fu scritto in quel giorni un ro-manzo sopra un chimerico idealismo maschile, popolato

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di gente che per amore trascura il possesso, del quale ilsignor X era il protagonista apparente, ed il mio amicoquello vero. Mia madre, esperta del mondo, per egoismoe pavidità di soffrire, credeva a me, ragazza di sedici an-ni, che conoscevo soltanto un collegio. Mentre il signorX faticava per farsi abbandonare, faticavo a sospingeremia madre verso di lui, e purtroppo vincevo.

Le notti ch’io passai allora, le tetre notti di quella ca-mera verde, io assonnata e depressa, lei come febbrici-tante, s’io avessi l’arte di darvene un’idea precisa, forsesareste meno aspro nei vostri giudizi, piú incline allapietà. Ogni responso ch’io fornivo a mia madre, era pie-no di falle, ed incaricandosi inoltre quel maledetto si-gnor X di smentirmi, essa mi chiamava in camera nonpiú con aspetto amichevole, ma di creditrice inasprita.Piú che un colloquio era un interrogatorio; il mio im-paccio cresceva con l’evidenza del vero; ero ridotta a di-fendermi ed a ripetere, in modo testardo e monotono;t’ho detto che ti vuol bene; t’ho detto che ti vuol bene.In quei giorni ripresi un’abitudine infantile, di non guar-dare in faccia chi mi parlava, ma di tenermi ostinata-mente voltata, fissa in un punto lontano, e quasi sempreuna finestra. Nella camera verde cominciava a formarsila stessa aria di repellente tristezza di quand’ero bambi-na. Qualche volta cercavo isolamento e conforto leggen-do a caso in un centinaio di libri, che mia madre tenevae aumentava continuamente delle novità che giungeva-no fino alla nostra cittadina. Ma anche quella lettura fi-niva con il disgustarmi; i libri parlavano tutti di amoriimmaginari, come i discorsi di mia madre, con le paroledi madre. E allora, quando potevo chiudermi in camera,preferii, come in collegio, alleviare il mio animo in undiario quotidiano. In esso passava tutta la mia semplicevita, dall’infanzia a quei giorni; e anche ora, guardando-lo, e rileggendolo con lagrime, penso che senza il suoaiuto né avrei potuto capirmi, né sostenere tante prove.

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La mia prima e finora silenziosa rivolta non dipende-va però solamente dalla stanchezza dei miei nervi, maanche da un’altra influenza, che mi pareva piú nobile, ech’io cominciavo a subire. L’intransigenza di Giuliano,la sua astensione da ogni atto e parola audace, la castitàche adesso capisco, allora soltanto intuivo, nell’espres-sione del suo viso, non erano ormai senza effetto. «Cheserietà!» io dicevo a me stessa. «Che nobiltà di caratte-re! Potrò mai somigliargli?» Il mio amore per lui non midisponeva a indulgenza per quello di mia madre, mapiuttosto a giudizi crudi e a condanne morali. Il ritegnocon cui mi trattava Giuliano mi faceva credere infattiche il nostro amore fosse l’opposto di quello a cui assi-stevo ormai con ostilità: un’alleanza di anime tenere egravi e avverse alla passione. Non ammettevo piú di ve-nire turbata da pensieri inferiori e diversi dai miei. Inme si formava cosí, o almeno prendeva chiarezza, la co-scienza morale, specialmente accanto a mia madre e nelsupplizio della camera verde. «A quale supplizio» pen-savo «osa sottoporre sua figlia, senza pensare cheanch’io sono un essere umano! Queste cose» insistevo«osa narrare a sua figlia!» Rinasceva in me, divenuta co-sciente sotto la doppia influenza della stanchezza edell’amore, la tendenza contraria alle fantasie passionali,che già mi aveva resa intransigente in collegio. «Non ca-pisce» dicevo «ch’io aborro con tutta l’anima da questavita di avventure, ch’io sono positiva, quasi arida? Io vo-glio soltanto la quiete!» L’aspetto di mia madre mi pare-va poi tale che il giudizio severo era inasprito da unacontrarietà fisica. I suoi capelli infatti erano secchi, sem-pre un po’ scarmigliati, perché non si piegavano alla pet-tinatura; gli occhi segnati e spenti, quando non scintilla-vano d’ira e di eccitazione; se mi chinavo a baciarla,sentivo il suo fiato caldo. Quanto spregevole la passione,pensavo, se cosí l’aveva mutata, dalla fresca mollezza diquando ci eravamo intese! E mentre mia madre tornava

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quella della mia infanzia, in me tornava la tristezza di al-lora. Se cercavo la solitudine, mia madre mi inseguiva,se volevo fantasticare, mia madre veniva a togliere ogniattrattiva alle mie immaginazioni. Quante volte guardai,ma con sguardi furtivi, quasi trafugati, le statue, la gag-gia, il ciliegio, che mi invitavano a riprendere la conver-sazione interrotta! Una sera provai un desiderio cocentedi nonna Giulia. La camera in cui dormivo si empí dellasua presenza; la sua poltrona si animò; mi chiusi a chiavecome quand’ero bambina e scrivevo al Signore. Davantial suo ritratto mi disperai della sua morte. Allora soltan-to capii che cosa fosse quella donna per me. «Tu sola mihai voluto bene» le dicevo piangendo «e io voglio bene ate sola»; ripensando a quegli anni in cui mi era parso diesserle meno affezionata, e alla sua morte solitaria, miaffannavo per il mio errore, mi tormentavo di rimorso.

Avevamo passato la metà dell’agosto ed il cielo anda-va prendendo la limpidezza dell’autunno. Il sentimentoche mi associava a Giuliano assumeva una gravità sem-pre maggiore perché ero infelice e bramosa di aver lamente ed il cuore puliti. Ai primi freschi, ricordo, talvol-ta andavo in mezzo ai campi, e rimanevo lí come nasco-sta, a liberarmi d’ogni immaginazione, d’ogni discorsodi cui conservassi l’eco. Mi ripugnava anche la mia acri-monia, con cui reagivo a chi mi faceva del male. Qualun-que azione avessi potuto compiere, sarebbe stato diffici-le rimproverarmi, tanto il bisogno di pulizia mi esaltava.Un pomeriggio, come il solito, mia madre scese in città eio andai dalla mia amica, dove attendevo Giuliano, delquale provavo quel giorno uno speciale desiderio. Tro-vai la mia amica sola e m’offrí di farmi vedere una suapiccola libreria clandestina, che conteneva alcuni libri,molti dei quali avevo già visto in casa, Ricordi della mala-vita, Diario di una donna perduta. Io, conoscendo l’asso-luta innocenza di quella mente e di quel corpo, provaiuna forte avversione per le sue curiosità, mi sentii trop-

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po matura per tollerarle; era lo stesso disprezzo che pro-vavo in collegio di fronte a certe confidenze. Desideraiche venisse Giuliano per guardarlo negli occhi, con unosguardo che volesse dire: «Noi due, che siamo gente pu-lita». Invece Giuliano non venne, e io passai un paiod’ore ad ascoltare l’innocente che mi parlava della«realtà della vita» e di «guardare dentro di noi con chia-rezza». Infine dovetti andarmene; addolorata, irritata,attraversai la valletta; era già un tramonto autunnale el’aria già cominciava a farsi vermiglia. In anticamera, so-lamente per caso, mi accorsi di mia madre, seduta albuio in un angolo, che piangeva in silenzio. Le chiesiche cosa avesse, forse un po’ troppo aspramente; ma eroanch’io molto in pensiero. Mi narrò a mezza bocca, qua-si offesa con me, e senza chiedermi perché fossi uscita,che non aveva trovato il signor X, il quale invece le ave-va lasciato un biglietto, dov’era scritto che certi suoi af-fari urgenti lo richiamavano a Milano per un mese e for-se per due. Le pareva un segno evidente che egliintendeva liberarsi di lei, e domandava spiegazione. Ledissi che dovevo salire in camera a pulirmi, e che neavremmo riparlato. Potevo salire piú tardi, mi risposemia madre; cominciassi a occuparmi di quello che piúinteressava.

«Oh basta» feci finalmente, guardandola, ed era unpatimento sentirmi gli occhi duri come due sassi. «Nonposso piú resistere a questa vita. Di me, ti fidi o non ti fi-di; io non voglio ripetere sempre la stessa cosa; è ancheuna offesa che mi fai».

«Come» ribatté «tu sostieni, dopo ciò che è successo...»«Io non sostengo nulla, io non ho voglia di parlare».«Non puoi rispondere cosí» gridò con una voce im-

provvisamente stridente, le corde del collo tese, la frontetutta increspata; sembrava avesse cinquant’anni. «Devirispondere, capisci? È colpa tua se sono a questo punto;sei tu che mi hai sempre illusa».

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Di fronte a questa ingiuria, ch’io fossi causa delle suesofferenze, non i suoi traviamenti; io che da un mese pas-savo le notti a consolare la sua cattiveria; non riuscii atrattenermi. «Bene» risposi «e io ti dico che questa casami ripugna; che solo al pensiero di starvi ancora per qual-che giorno mi sembra di dover morire: che non posso piútollerare i tuoi discorsi e i tuoi amori. Chiunque sapessequello che hai fatto con me, che hai torturato tua figliaper i tuoi amori, saprebbe come giudicarti. Io ti condan-no ed esigo di non sentire piú nulla di quelle meschinefaccende, che non riguardano nessuno e meno di tutti tuafiglia». Piangendo, senza una parola, mia madre mi balzòaddosso; prima cercò di percuotermi, poi si attaccò allemie spalle e mi sembrò piú piccola di statura. Io la staccai,uscii in giardino e m’appoggiai alla ringhiera. Il sole eraappena scomparso, il cielo tra il dorato e il roseo, e il colledi là dalla valle risplendeva placidamente. La natura mivenne incontro come una persona e mi portò, come sem-pre, conforto e un invito alla moderazione. Gli occhi fissisui prati del fondo valle già in ombra, capivo quanto era-no gravi le parole che avevo detto poc’anzi a mia madre,che provava un dolore certo degno di biasimo, ma reale ecocente. Il cielo scolorí, alle mie spalle udii cantare le ranein una vasca di sasso e su un’estrema propaggine dellecolline, spinta nella pianura come un promontorio, unesile campanile cominciò a risaltare divenendo semprepiú bianco. Desiderai di riparare al mio scatto prima chescendesse il buio e di ridare la contentezza a mia madreaddormentando la sua sofferenza. Mi volsi per raggiun-gerla e la vidi avvicinarsi, magra ed aggressiva. «Mamma»dissi andandole incontro «mi dispiace di avere parlato co-sí aspramente; io sono purtroppo impulsiva; ma abbiamotutti momenti di cattivo umore, in cui si dicono le cosepiú false. Dicevi che X è partito? Vediamo questa faccen-da». Dopo essersi fatta pregare, mia madre narrò per di-steso la lunga fuga del signor X.

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«Vedi» mi disse «che ho sbagliato a fidarmi cieca-mente di te».

«Perché» dissi stupita. «Non capisco che cosa sia ac-caduto di nuovo».

«Ma come, non capisci che vuol troncare la relazionecon me!» rispose essa, rimettendosi a piangere.

«Ma no, mamma! Ma no!» ribattei impazientita.«Sempre le solite storie, i soliti sospetti, la solita mania dianalizzare e di distruggere tutto! Torturi te stessa e gli al-tri con questa tua sottigliezza; poi è naturale che unoqualche volta s’inquieti; tu togli l’aria, benedetta donna,con le tue fisime e paure, mentre potresti vivere serena-mente. Pare impossibile come l’amore è cieco! E tu pro-prio non vedi quello che piú salta agli occhi. Se X è parti-to, vuol dire che ti vuol bene, dovresti essere contenta».

«Non capisco» rispose, già però rianimata e piú gra-devole alla vista. «Io quando amo...»

«Tu, mamma, sei una donna! Anch’io sarei cosí: noidonne ci buttiamo avanti, senza dubbi, senza timori. Maun uomo, quando ama davvero, si sottrae, cerca di fug-gire; chi non ama, ci assilla; chi ama davvero, ci sfugge.Oh, mamma, se io fossi in lui, davvero ti lascerei, perchétu non lo capisci. È fin troppo nobile e buono. Ho l’im-pressione che solo in questi ultimi giorni abbia comin-ciato ad amarti proprio con tutto il cuore».

Le mie parole, mosse dalla pietà e dal bisogno di sen-tirmi in un’aria piú decente e tranquilla, presero una im-provvisa eloquenza, suonarono persuasive; mia madre siilluminò quasi come ai bei tempi; finché mi chiese: «Al-lora, mi sembrerebbe che non dovrei lasciarlo solo...Che cosa faresti al mio posto?» Per essere coerente edaccontentarla risposi che doveva raggiungere il signor Xa Milano, dove di certo l’aspettava con ansia. Mia madrefissò di partire la mattina dopo per tempo e mi fu tantograta del mio consiglio che dimenticò le parole dure diun’ora prima. Rientrando mi voltai, e vidi una bella luna

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molto dorata e perduta nell’aria di un cielo immenso.«Addio bella luna» le dissi, e questa fu l’ultima volta peranni. Mi svegliò la mattina mia madre che partiva. Entrònella mia camera, senza accendere il lume, già vestita daviaggio; si chinò nella penombra, mi baciò in fronte, di-cendomi: «Dormi, bambina mia». M’intenerii ancorauna volta e la strinsi, senza pensare che quel trabocco diaffetto non era che un ringraziamento per aver lusingatole speranze meno degne. Rimasi a letto lungamente, in-debolita da una strana pigrizia, senza nessuna voglia diiniziare quella giornata. Non mi aspettavo però unasventura tanto grande.

La mia indole è tale, che quanto piú grave è un even-to, tanto piú mi è difficile farne un racconto drammati-co, specialmente se soffro. Giunta a narrarvi le ore piúintense della mia vita, non posso far altro che metterle inuna serie di notizie inerti; appunto perché mi sconvolgo-no, io non so accalorarle. Il giorno in cui mia madre erapartita, nel pomeriggio, andai a cercare Giuliano. Ametà strada trovai la Zaira, quella mia donna di servizio,che mi annunciò la morte del mio fidanzato. Si era ucci-so per incidente scaricandosi addosso una doppietta dacaccia. Non vi dico di piú e da questo momento il mioracconto, già freddo, non sarà piú che relazione.

Io ritornai a casa come fuggendo; mi chiusi in cameraa chiave, mi rintanai nella poltrona. Avevo davanti unastampa rappresentante una pastora d’Arcadia, che balla-va in mezzo ad un prato, le braccia ed un piede alzati.La guardai per tanto tempo, che restò impressa nellamia mente per sempre. Nelle mie ore di sconforto piútetro, non vedo dentro di me la tragedia, ma quasi ve-nendo a galla, mi si disegna dentro l’immaginazione lalinea di una gonna gonfiata dal vento, una ghirlandaprotesa; e io rabbrividisco come se vedessi la morte.Con gli occhi su quella stampa, con tutti i muscoli fermie come induriti, con un solo pensiero, io rimasi tre ore.

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Quando udii battere alla porta, gridai che se ne andasse-ro e rifiutai di mangiare. Invece, lentamente, quasi scol-lassi a fatica le vesti da un corpo tutto piagato, mi spo-gliai, entrai nel letto e mi ridussi in un piccolo spaziocontro la parete. Mi faceva ribrezzo ogni immaginazionein cui vi fossero persone o voci umane, in cui qualcunomi toccasse o cercasse di consolarmi. A metà della nottequest’atonia diede posto all’affanno. Il mio pensieroandò verso mia madre, e sentii tanta nausea di tutto quelsuo amore, delle sue vicende d’amore, dei suoi occhi fe-lici di quando era contenta, dei suoi capelli penzolantidi adesso, un tale movimento d’odio, che il mio corpogià scosso ne fu interamente sconvolto, la radice deimiei capelli si inumidí di sudor freddo e caddi in un bre-ve deliquio. «È giusto questo?» gridai quando rinvenni.«Per il suo decimo, per il suo ventesimo amore, per l’ul-timo di una serie di amori senza dignità, mi toglie il re-spiro e la vita, senza riguardo per quello che io provo, néalla mia età né ai doveri di mia madre verso una figlia; sigetta in una infelicità indecorosa per un amore che siesaurisce oramai nella vecchia storia dei libri, l’uomoche fugge e la donna che insegue; per queste smanie in-decenti invecchia, piange, perde il sonno, soffoca la pro-pria figlia! E io, che sono sua figlia, io giovane, io nondovevo sentire nulla di mio, perché potessi occuparmisoltanto dei suoi interessi meschini; quello che potevosentire era all’acqua di rose, una cosina a fior di pelle. Ionon ho potuto nemmeno parlare dei miei sentimenti,per colpa sua, tutto per colpa sua!» Riandavo con lamente sui mesi trascorsi a casa; tutto mi inorridiva, mipareva impossibile di vivere ancora un giorno insiemecon quella donna; specialmente il ricordo dei motivi peiquali avevo dovuto nasconderle la mia vita segreta mirendeva dura con lei. La disgrazia, pensavo, era da attri-buire interamente al suo egoismo e non sarebbe accadu-ta se io avessi potuto vivere e amare con semplicità. Infi-

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ne cominciai a piangere, lungamente, senza una sosta,con una specie di rantolo che soffocavo nel cuscino.«No» pensavo sfogandomi «non è possibile che io la ri-veda piú, niente mi ripugnerebbe piú che il parlarle oradei miei sentimenti; quando viene mattina, scappo daquesta casa e mi rifugio nel convento».

La luce cominciava a entrare dalla finestra che avevolasciata aperta, quando fui riscossa da un urto contro laporta chiusa a chiave. «Apri, devo dirti una cosa» fece lavoce di mia madre; e il suo tono era aspro.

«Che cosa vuoi?» le risposi.«Apri» ripeté mia madre.«Non ne ho voglia, ora dormo».Senza aggiungere nulla, esasperata, cominciò a scrolla-

re la porta, quasi volesse forzarla. Allora accesi, saltai dalletto ed aprii. Mia madre entrò scarmigliata, con gli occhipesti, simile nel proprio aspetto a una donna di classe so-ciale inferiore. Il signor X, vedendola anche a Milano,colto da un accesso d’ira, l’aveva cacciata via, dicendoleche considerava la relazione finita. Essa aveva viaggiatola notte per tornare a casa, per incontrarsi con me di cuivoleva vendicarsi. Non seppi subito però queste vicendee solamente le intuii. Ma invece di aggredirmi come misarei aspettata, mia madre sedette in un angolo e comin-ciò a piangere di un pianto secco, il capo storto e il visopieno di pieghe. Io provai ancora pietà: non avesse parla-to, avremmo potuto ancora unire i nostri dolori.

«Ora so quello che vali» cominciò invece a dire, rat-trappita sulla sua sedia, come se vi fosse un gran freddo.«Tu mi hai lusingata sempre, soltanto per stare tranquil-la e per non avere noie, non hai mai detto una sola paro-la che non fosse per egoismo. Io ti ho creduta una grancosa, sono giunta a affidare la mia vita a una bambinache nessun altro avrebbe presa sul serio, ti ho trattatacome una donna, e tu, giovane, fresca di forze, senza unpensiero...»

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A queste parole divenni come forsennata.«Basta!» gridavo. «Basta! Non voglio sentire piú

niente! Io mi sono prestata a confidente di una bassapassione, mi sono sacrificata per essere il tuo sostegno,tu donna vecchia, io che avevo davanti tutta la vita, iosono stata sottoposta a un martirio, io ho diritto di vive-re, io voglio andarmene, io...»

La voce mi si strozzava; mi gettai supina sul letto,quasi asfissiata, facendo stridere i denti.

«Sí, vattene!» gridò mia madre. «Per darti retta sonostata scacciata, ho passato la notte...»

«Non importa» risposi, cominciando a riavermi.«Queste miserie riguardano soltanto te. Io, per tua col-pa, ho perduto l’unica persona al mondo che poteva sal-varmi, perché tu non ti sei accorta che anch’io sonoqualcuno; è morto mentre ti facevi trattare come unaserva. Ma basta, non hai diritto che io parli ora con te,non sono cose che tu devi ascoltare. Io esco da questacasa. Io ritorno in convento».

Mi gettai all’uscio, discesi per la scala buia, e appenauscita stupii che fosse già giorno fatto. Mentre attraver-savo l’atrio udii mia madre che mi arrivava alle spalle.

«Sí» mi gridava «è meglio, anch’io vengo con te, vo-glio dire anch’io che ti tengano e che non devi tornarepiú a casa. Tu mi hai sempre odiata, da quando eri bam-bina. Ora me l’hai dimostrato, sei finalmente riuscita acolpirmi».

Essa continuava cosí e io non rispondevo nulla, per-ché mi aveva già colto una rigidezza del collo, una fissitàdi ogni membro, che mi impediva di parlare. Avrei potu-to soltanto reagire con gli atti. Uscimmo cosí sulla stradae camminammo una di fianco all’altra attente a non toc-carci, io senza avere dormito nemmeno un istante daquando avevo veduto finire la speranza della mia vita.Andavo, protesa in avanti, con gli occhi che mi dolevanoper la luce della mattina. Un vento caldo mi seccava le la-

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grime e solo da questo m’accorsi che, come mia madre,piangevo. La strada era ancora deserta, l’unica personaumana della quale m’accorsi fu una donna meravigliatache ci guardò passare dalla finestra di una piccola villa.Ma il velo delle lagrime mi aveva resa quasi cieca.

Giunte al convento insieme, senza piú parlare tra noi,chiedemmo di vedere entrambe la madre superiora, chepregai di tenermi con sé tutta la vita e di salvarmi da unacontinua vergogna. Mentre io supplicavo, mia madreguardava in terra, lasciando tremare il labbro, gli occhipieni di rughe, non pensando piú a me, ma affondata neisuoi dolori. Appena ebbi finito chiese alla superioraquello che anch’io avevo chiesto, pregando di essere li-berata di me. «Ah, io non desidero altro» allora dissi ri-volgendomi di nuovo a lei con un grido. «E io nemme-no» rispose; e cosí ci lasciammo. La superiora mi inviònel dormitorio, vuoto a quell’ora e abbandonato. Io migettai su un letto e dormii tutto il giorno.

Ho fatto il racconto fedele dell’avvenimento che hoomesso nella mia lettera a Don Scarpa; e l’ho narrato oracosí freddamente, come se parlassi di un’altra. Potetegiudicare se mi sono adulata.

Aggiungerò che mia madre, dopo che mi ha rovinata,non solamente non si reputa in colpa, ma mi accusa diaverla offesa in modo tale che ancora oggi, a distanza dianni, non ha finito di odiarmi e di vendicarsi. Essa re-spinge ogni mio tentativo di liberarmi dei miei impegni,minacciandomi una vita di umiliazione se non mi impri-giono da me.

Questo è il motivo del mio recente contegno. Io sonostata franca: salvatemi per pietà.

Dal Convento delle** a**, il 31 agosto 19**.

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LETTERA XVI

Don Paolo a Elisa Passi.

Mi sono permesso di chiedervi qualche minuto di col-loquio per un affare della piú alta importanza che ri-guarda il futuro di vostra figlia Margherita. Avrei prefe-rito di molto trattare di questo a voce, ma la vostraindisposizione ed il bisogno di far presto mi hanno con-vinto a scrivervi e ad affidare il mio intervento alla vo-stra discrezione.

Vostra figlia, come sapete, doveva pronunciare i votidodici giorni fa, ma la sua monacazione fu rimandata diun mese, in seguito a qualche dubbio provato da lei e daaltri, sulla fermezza della sua vocazione. Per ordine delnostro Vescovo feci una breve inchiesta, interrogando lanovizia, che rispose però in modo tale da rassicurarcidel tutto. Ma poco piú tardi mi scrisse di essere stata in-sincera e mi aprí l’animo suo. La sua vocazione, mi scris-se, era sforzata e falsa. Era chiusa in convento non di sualibera elezione, ma come una prigioniera, in parte per-ché costretta da una volontà estranea, interessata edostile, in parte perché tenutavi da certi suoi risentimentie disgusti, umanamente comprensibili, ma che non sipossono ammettere come moventi della decisione solen-ne di prendere i sacri voti. Penso che voi comprendiatela gravità di quanto scrivo. Il suo desiderio maggiore, di-ceva inoltre vostra figlia, era di lasciare il convento, edavrebbe chiesto di farlo, se non avesse trovato un osta-colo in voi. Ecco poi come esponeva l’origine delle suetraversie. Alcune imprudenze commesse davanti a leinella vostra vita piú intima, alcune confidenze che si ri-servano per solito al confessionale, la vostra mancanzad’amore, e insieme una grave disgrazia che essa collegaalla vostra freddezza, le avrebbero dato un disgusto cosíforte della sua casa, da suggerire alla sua mente eccitata

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di chiudersi in un convento. Voi avreste favorito alloraquesto suo errore per allontanarla da voi; ora le impedi-reste di tornare nel mondo, preannunciandole una vitapeggiore di quella che pur desidera fuggire.

Vi ho prospettato le sue lamentele con una crudezzache forse non avrei usato con altri, perché il raccontoche Margherita mi ha fatto della vostra vita comune miha persuaso che nulla vi sia difficile come ottenere travoi la sincerità e chiarezza senza le quali non v’è accor-do. Ritengo perciò opportuna l’opera di un sacerdote,che agisca da intermediario. Mi auguro che questa lette-ra sia il fondamento di una convivenza migliore. Essen-do ormai evidente che vostra figlia non può essere suo-ra, dovrei farla subito uscire da un luogo che non è perlei. Ma il mio dovere sacerdotale mi impone di non get-tarla allo sbaraglio e di predisporle nel mondo, se questomi riesce possibile, una vita cristiana.

Vostra figlia non nega, in quello che mi scrive, di aver-vi offesa gravemente e ripetutamente. Ma se nelle sue let-tere vi è anche un fondo di vero, vi chiedo con urgenzache diate prova della vostra superiorità e vi mettiate incontatto con lei; le dimostriate che ormai, passati gli an-ni, la sua casa non solo può esserle aperta, ma riuscirlegradevole; in modo che possa riprendere, con piena li-bertà, una vita conforme alle sue vere inclinazioni.

Dal Vescovado di**, il 1° settembre 19**.

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LETTERA XVII

Elisa Passi a don Paolo.

Io non posso rispondervi finché non ho visto la letteradi cui parlate nella vostra, anzi vi avverto che ricorreròad ogni mezzo perché mi sia consegnata. Non tollero diessere diffamata da Rita, e di sapere poi cosí vagamentele sue diffamazioni, che non ho modo di scolparmi. Lalettera di mia figlia, a quanto intendo, è tutta una bugia, edice molto di falso intorno a me, ma tace molto di verointorno a lei. Rita dovrebbe essere fin troppo lieta dichiudersi in un convento e di nascondere al mondo certifatti gravissimi, che solamente per pietà non vi narro.

Benché non sappia tutte le menzogne di Rita e attendaper questo di avere la lettera che vi ha mandato, possoindovinarne una parte. Da troppo tempo Rita diffondeovunque le insinuazioni piú odiose sul conto mio, perchéio non ne abbia sentore. Io non pretendo d’essere la per-fezione, ma so di avere piú ragione che torto, e sono lietadi sottopormi al giudizio di voi che siete un sacerdote. Lemie colpe, che riconosco, sono almeno quelle di un ani-mo troppo appassionato e impulsivo. Forse è vero che,quando Rita aveva pochi anni, ed io ero ancora una gio-vanissima donna, sentivo poco l’istinto materno, pienacom’ero di altre preoccupazioni. Ma ricordo di averesempre avuto per lei, anche a quel tempo, frequenti lancid’affetto fin troppo caldo ed esclusivo. Se Rita avesseavuto abbastanza buon cuore da rispondere ad essi conqualche generosità, la nostra vita sarebbe stata diversa. Siostinò invece a respingerli con durezza, freddezza e seve-rità di giudizio. Attribuivo allora la sua ostilità all’in-fluenza dei nonni, ma purtroppo piú tardi vidi che veni-va da lei e dalla sua cattiveria. Se la sua asprezza fossestata piú giusta, io avrei potuto ammirarla, e anche sotto-mettermi a lei. Ma ho visto poi che non era che un mezzo

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per liberarsi degli altri, di me soprattutto, e coltivare li-bera da ogni fastidio ogni indulgenza con se stessa. Sevolete sapere che cosa ha fruttato a me quella sua falsaintransigenza morale, vi narrerò solo un fatto. Amavo al-lora un uomo in modo estremo, il primo amore dopo lamia vedovanza, ed anche il mio ultimo amore: io lo senti-vo con angoscia. Fui abbandonata d’un tratto, e restaitramortita: quando mi svegliai ero già vecchia. Piú tardiseppi da lui che mia figlia, un giorno o due prima dellanostra rottura, era andata a trovarlo, e gli aveva dettopiangendo che io la torturavo per lui, perché la obbliga-vo a dividere, in tutte le ore, di giorno e di notte, le miesmanie amorose. Gli aveva detto poi che questo conte-gno, ormai conosciuto da tutti, allontanava da lei il suofidanzato, che non si poteva risolvere a prendere una ra-gazza cresciuta con simile esempio. La sua sofferenzaperò, aveva aggiunto mia figlia, era soprattutto dovuta al-la sua ripugnanza per l’atmosfera malsana, in cui la tene-vo rinchiusa, tanto che veniva a pregarlo di abbandonar-mi per salvarla. Con questo sfogo gli diede un pretesto,forse uno stimolo, ad agire senza riguardo. Vedo peròche non potete capire l’ignobilità di quest’azione di Rita,se non conoscete altri fatti. Devo ormai raccontare tuttala storia, o quasi tutta la storia. Almeno Rita fosse semprerimasta dura e ostile con me!

Ho già ammesso i miei torti quando Rita era bambi-na. Ma quando tornò dal collegio, io le andai incontrocon sincerità e con amore, da donna a donna, da amicaad amica. Anche ora, se vi ripenso, ho la sicurezza diavere agito con spontaneità. Io attraversavo un passag-gio pericoloso, pieno di ansietà e di squilibri. Vidi in Ri-ta un’amica, l’associai ai miei turbamenti, cercai in essaun sostegno. Ma ogni mio atto, ogni mio abbandonoprendevano nella mente di Rita il significato piú abietto.Avevo sperato all’inizio che il paesaggio dei colli, che Ri-ta amava dalla sua fanciullezza, contribuisse alla nostra

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amicizia. Ma essa proclamò piú tardi che anche il mioamore pei colli le faceva ribrezzo, perché io li amavosensualmente e vi associavo i ricordi recenti dei mieipeccati amorosi. Mai ebbe un sospetto del vero, cheamavo i colli in seguito ad un amore, ma quello del ma-trimonio, dopo il quale si erano mescolati per semprecon tutte le fantasie piú tenere della mia vita.

Ogni prato, ogni valle si associava per me a mio mari-to, al matrimonio, a quei primi anni di risveglio amoroso;e solo per questo i colli avevano preso in me quasi un ca-lore umano che non mi lasciava guardarli né parlarnesenza commuovermi. Toccava a Rita sporcare i miei sen-timenti, non vedendovi altro che sensualità disgustosa.Scusate se scrivo cose che sembrano poco importanti,ma che dimostrano come Rita rendesse sudici i nostrirapporti coi suoi giudizi maliziosi.

Ma dei sentimenti di Rita, che adesso mi sembranochiari, non ebbi nemmeno il sospetto quando essa tornòdal collegio, ed io le offrii l’affetto piú generoso. Vi hoconfessato che ero impegnata a quei tempi in un amoredecisivo ed estremo. Vidi in mia figlia una donna; miparve che fosse sensibile; cercai sollievo nella sua com-pagnia. Pure non mi confidai subito, per quanto lo desi-derassi, temendo la sua inesperienza. Essa capí questomio timore e lo vinse con una simulazione di maturità edi esperienza cosí abile e cosí tenace, che riuscí ad in-gannarmi. Mi fece credere che lo scopo della sua vitafosse conoscere i miei affanni, per consolarmi, suggerir-mi i rimedi e sostenermi verso il bene. Come avrei potu-to non credere di trovarmi di fronte a una ragazzastraordinaria? Credetti di scorgere in Rita una di quelleanime candide e amanti, che nella loro elevatezza mora-le, per grazia speciale di Dio, conoscono addentro la vitadi cui non hanno l’esperienza. Avreste ragione di dirmiche alla mia età non dovevo cadere in un errore cosígrande. Ma vi ripeto che ero una malata in quei giorni,

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bisognosa prima di sfogo, e piú tardi di aiuto. Ripensoalle sere di allora: che esaltazione! che speranze! Io leg-gevo in giardino presso l’entrata, sotto una lampada ac-cesa, I fratelli Karamazof; il buio era già sceso; ma intor-no ai colli, di là dalla valle, restava una linea di luce,come aperta in un altro mondo. Leggevo, e quando il li-bro parlava di Alioscia, la mia immaginazione gli davauna faccia di donna, quella di Rita, e vedevo mia figlia inatto di salvatrice, splendente di luce morale. Un giorno,ricordo le dissi che Alioscia le assomigliava; Rita sorrisee annuí; quanto ero lontana dal vero!

Con il proprio contegno essa aggravò la mia condizio-ne morale al punto che guarii solo quando fui vecchia.Per viltà, per mollezza, per vivere continuamente in unpiacevole languore, mi disse solo quello che speravo diudire, e ch’io accettavo senza discernimento perché neavevo il piú acuto bisogno. Potete stupire se io, per ac-cettare quei giudizi graditi, dimenticavo la sua età, ve-dendo in lei un’intelligenza speciale, la scienza priva dimalizia dei Santi? Per la stessa illusione io la credetti piúforte di ogni influenza e la lasciai usare liberamente del-la mia libreria, cosa di cui oggi mi pento. Credevo allorache il conoscere meglio i mali del cuore umano dovesseaumentare in lei quella bontà, quell’amore, che le avevoattribuito. Rita passava le giornate e le notti leggendoromanzi da adulti; quando cercavo di occuparla diversa-mente, mi rispondeva che non poteva soccorrermi, se leimpedivo la necessaria istruzione. Dalle letture uscivatutta esaltata, e si sfogava scrivendo un certo diario, chenon volle leggermi mai. Ne trovai qualche foglio moltopiú tardi; vi parlava di me, e non in modo lusinghiero.

Rita cosí mi condusse ad abbandonarmi con lei e a ri-velarle alcuni gelosi segreti. Ne approfittò per illudermiche io fossi amata piú che non lo fossi in realtà. Ma ap-pena scoprí nel mio volto e nei miei sfoghi con lei i pri-mi segni di dolore e di delusione, subito mutò contegno.

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Da amica, divenne ostile; da ascoltatrice indulgente,giudice senza pietà. La passione ripugna troppo aquell’anima fredda. Forse le perdonerei se, nel farmi delmale, io la trovassi appassionata. Conosco troppo lapassione, ne perdono tutti gli eccessi. Ma in essa non nevidi mai, nemmeno in un certo amore che volle contrap-porre al mio e che poi divenne tragedia. Con me nonebbe un attimo di tolleranza da quando cominciai a sof-frire. Tentò soltanto, frettolosa, sgarbata, di continuarea illudermi come in passato, per togliersi o rimandare lanoia della mia sofferenza.

Quanto patii della cattiveria di Rita, che accompagna-va la mia angoscia, soltanto ora posso capirlo del tutto.Mi sedeva davanti, tetra, silenziosa ed inerte conun’espressione spossata, e talvolta quando io parlavocon un broncio di disgusto. Non aveva voglia di nulla,non voleva mai allontanarsi, e rimaneva immobile in ca-mera mia con gli occhi fissi alla finestra. I miei patimen-ti, i segni dell’insonnia sul viso, l’invecchiamento, eranosolo ragioni di disprezzo verso di me, e per lei erano tan-to noiosi e sgraditi che quand’era con me non sapevapiú muoversi, e nemmeno parlare, ma sembrava un au-toma. Interrompeva i suoi silenzi soltanto per gettarmialcune frasi in cui mi ripeteva con irritazione e dispettoche non avevo motivo di addolorarmi, ed anzi avrei do-vuto mostrarmi felice, perché quell’uomo mi amavasempre di piú. Io soffrivo tanto a quei tempi che anchequeste menzogne, dette in quel tono, soltanto per farmitacere, bastavano a rinnovare le mie illusioni e ad aggra-vare il mio stato. Oltre a condurmi cosi a una specie dipazzia, Rita mi offendeva ogni giorno attribuendomi gliistinti piú bassi. La sensualità piú innocente, anche perun cibo o un profumo, la urtava quando era mia. Ma viho già parlato di questo e non mi piace ritornarvi.

Finché il mio amore era curioso e gradevole, Rita miaveva detto di amare la solitudine, il paesaggio ed i libri.

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Anche allora però coltivò a mia insaputa molte amicizie,che io non le avrei proibito, ma nelle quali l’avrei forseguidata per impedire il male che presto accadde. Le sueamicizie le servirono anche per diffamarmi divulgando lesue maligne fantasie sul mio conto. Andava da una casaall’altra dipingendo se stessa come una prigioniera tracose equivoche e malsane. Cosí mi è stato riferito piú vol-te, ma vi posso giurare che non sono ancora riuscita a co-noscere tutto il male che Rita mi ha fatto. Tra le sue mol-te conoscenze segrete, vi era anche un giovane, un certoGiuliano Verdi, figlio di gente che io non frequentavoperché ero di gusti diversi. Questo giovanotto mi parvesempre insignificante, almeno per una donna, aveva mo-di tra annoiati e sprezzanti, mangiava poco, non avevaamicizie, non beveva e non fumava; si atteggiava ad uo-mo perfetto. Chi avrebbe detto che questa persona spia-cevole, inelegante, orgogliosa e ostinata, che vedevamoqualche volta per via con gli occhi freddi ed il naso aqui-lino, fosse l’amante di mia figlia? Ma essa non l’amò mai,e ne fu attratta solamente perché nella sua rigidezza tro-vava un altro pretesto per condannarmi. Ho poi saputoche, trovandosi insieme, parlavano di me molto piú chedi se stessi, quasi che volessero unirsi con un unico sco-po, di biasimare il mio contegno. Vi dico ancora che per-donerei Rita se avesse amato davvero, ma il suo amoreera una vendetta, tutto imbevuto di antipatie e di egoi-smi. Anche quel tale volle però abbandonarla, quando siaccorse che non avrebbe potuto ottenere nulla da lei, evide che gli atteggiamenti presi da Rita erano fatti soltan-to di odio per gli altri e di amore verso se stessa. Poi im-provvisamente morí. Poco prima della sua morte Rita miferí gravemente, come vi ho già raccontato. Ma vi ripetoche conosco solo una parte del male che essa mi ha fatto.È difficile infatti seguire le azioni di Rita, che non fecemai nulla di spontaneo e d’aperto, ma usò sempre unaspecie di diplomazia da demente che si risolse poi a suo

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danno. Ora capirete il perché dei miei sentimenti per lei.Ammetterete che con tali ricordi, e malandata come so-no, non posso adattarmi ad accoglierla ancora nella miacasa e ho diritto di esigere che rimanga dov’è.

Quello che ho detto basta a giustificarmi: che acca-drebbe poi se vi fossero anche altri fatti infinitamentepiú gravi? Tali, se volessi narrarli, da vietare per sempredi ridarle la libertà. Rita è una pazza, vi ripeto, e l’egoi-smo è in lei tanto ossessivo da farle perdere la testa e daportarla alla rovina. L’unico modo per salvare lei e noi, èdi tenerla nel convento. Soltanto il convento può ormai,separarla onorevolmente da un mondo in cui non puòpiú ritornare. Vi prego perciò di desistere da quel vostroproposito di rimandarmela a casa. Le rechereste un irre-parabile danno credendo di farle del bene.

Da casa, il 2 settembre 19**.

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LETTERA XVIII

Rita a don Paolo.

La mia ultima lettera fu una confessione penosa, mivenne strappata da voi; vi indicai anche, e avrei volutoevitarlo, quale persona temessi come nemica. Avreste do-vuto vedere che scrivevo con ripugnanza; avreste dovutoindurne che ero ridotta agli estremi, e agire in modo effi-cace e segreto per la mia liberazione. Invece voi ne avetedato notizia alla persona meno adatta, alla piú interessa-ta, a quella che vi denunciavo. Ora eccone le conseguen-ze, che serviranno tuttavia ad indicarvi se è vera o no lamia denuncia. Ieri mia madre è venuta al convento ed hafatto una scena, mostrando alla superiora una lettera vo-stra e accusandola d’essere incapace di sorvegliarmi.Inoltre accusava me, la superiora e anche voi di averlacostretta a uscire febbricitante dal letto con i nostri ma-neggi. La superiora, avendo appreso cosí che io vi avevoscritto, a mala pena è riuscita a convincerla di non pre-sentarsi al Vescovo per chiedergli la lettera in cui vi par-lavo di lei. Esse credono infatti che, incurante dei vostriobblighi sacerdotali, abbiate trasmesso ad altri le confes-sioni che ho affidate a voi solo. Vedete dunque a che ri-schio ci siamo messi tutti e due. Ho rischiato di perdereanche il mezzo di scrivervi e di fermare le vostre risposteprima che il loro arrivo sia conosciuto nel convento.Questa segretezza ripugna certo piú a me che a voi, maio non avrei mai pensato di usarla se non lottassi per lamia stessa vita. E perché ne patisco sento un’avversionemaggiore verso ciò che mi vieta di vivere con sincerità.

Mia madre, infine convinta a tacere ed a tornare nelsuo letto, non ha voluto vedermi; mi ha fatto avvertireperò che rinunciassi all’idea di uscire dal convento, oessa «avrebbe parlato». Questa minaccia mi è ripetutaogni giorno, e giacché, a quanto ho capito, mia madre

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l’ha scritta anche a voi, io sono costretta a chiarirvela eda mostrarvi che ha ben poca sostanza. Purtroppo vedoche la prepotenza degli altri mi toglie anche l’elementa-re diritto di tacere dei fatti, senza importanza per ilmondo, che però mi fanno arrossire, e appunto perquesto diventano un mezzo per ricattarmi in mani pocodelicate. Ma le mie lamentele oramai non hanno piúsenso, e io devo mettere davanti a voi il mio peccato,perché diciate se merita un tale castigo. Non vorrei rac-contarvi cose tanto comuni, poco interessanti per voi evergognose per me. Pure bisogna e mi getterò a capofitto; voi mi leggerete, da oggi, come se foste in confes-sione. Il mio racconto possa almeno farvi capire quantoio sia poco adatta al velo, quanto mostruoso sia costrin-germi ad esso.

Vi ho già fatto sapere che sentii fortemente l’influenzaaffettuosa di un uomo poco piú vecchio di me. Peròquesta influenza, ben diversa da quella ch’io subivo infamiglia, non mi falsava e mi aiutava piuttosto a ricono-scere me stessa. Ascoltavo all’inizio quasi distrattamentecerti discorsi di sincerità e di ritegno che mi teneva Giu-liano; piú tardi, quando cominciai a disgustarmi dellamia vita male spesa, e mi liberai di un incanto che mi of-fuscava il cervello, capii che quella distrazione era dovu-ta soltanto alla profonda affinità. Le idee che Giulianoesprimeva si uniformavano cosí naturalmente con la miavera indole e con quello che avevo creduto per tutta lavita, tranne gli ultimi mesi, che mi pareva di averle pen-sate io stessa. Cominciai a meditarne la serietà e la bel-lezza; ahimè, che una meditazione siffatta era come unrimpianto dei miei tempi migliori. Sebbene vedessi poiche i suoi pensieri erano simili ai miei nella mia amorosaumiltà preferivo di avere imparato tutto da lui e consi-deravo Giuliano una guida morale. «Che coraggio!» di-cevo spesso. «Che rettitudine! Oh, lui non tollererebbeun’aria cosí viziata, se ne sarebbe liberato da un pezzo».

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Riprendevo con lui il mio vecchio carattere, che aborredal morboso e anche soltanto dallo strano, e nei discor-si, nelle fantasie, negli affetti prova un bisogno estremodi castità. Decisi di fare il possibile per sposare Giulia-no, senza timore di sbagliarmi. L’uomo che pensava in-fatti come avevo sempre pensato, da quando ero bambi-na, non era nato per essere il mio compagno?

La sua influenza era poi molto semplice e posso dirlain poche righe. Non si occupava che poco e mal volen-tieri dei miei rapporti con mia madre, preferendo parla-re di certe sue idee filosofiche che gli erano molto care.La maggiore cultura gli permetteva qualche volta ditrarre, dall’intransigenza morale che aveva in comunecon me, alcune conseguenze a cui non potevo arrivare.Batteva ad esempio molto sui problemi sociali e sul do-vere di tutti noi benestanti, di guadagnarci come gli altrida vivere. L’unica critica che fece a mia madre fu da unpunto di vista generale e elevato, che avrebbe dovutomettersi a lavorare anche lei. Mi parlava ogni giorno dialcuni uomini grandi, il cui disinteresse dovevamo tuttiimitare. Piú ancora di questi pensieri, con cui dava unaprova della sua intelligenza, mi colpivano quelli piúadattabili a me, che avrei scambiato del tutto coi miei,se la mia mente meno esercitata alla logica fosse statacapace della stessa chiarezza. La sostanza di essi era checiascuno di noi deve rispondere alla propria coscienzadi tutte le azioni che compie e non deve dipendere daltribunale del mondo. Per dimostrarmelo mi fornival’esempio di molti uomini, donne e anche ragazze cheavevano sofferto la fame, il freddo, la morte per non rin-negare un’idea che l’animo loro approvava e il mondoinvece combatteva. Questi discorsi, ripetuti ogni giorno,suscitando il ricordo di alcuni casi del passato, solleva-vano anche il sapore morale della mia piú intima vita:era un sapore di fierezza, non di viltà, di resistenza, nondi accomodamento. «Ecco» dicevo «sono cosí, accanto

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a lui; questa è la mia bandiera». Riconfermata nelle mieidee intransigenti, mi trascinai con sempre maggiore fa-stidio nella vita malsana che mi era imposta a casa mia.Un giorno la contessa Verdi mi invitò ad una festa, cheavrebbe tenuto in villa una di quelle sere, e solamentepei ragazzi. Giovane, innamorata, prigioniera da mesi,avrei potuto non desiderare di andarvi? Mi ostacolava,come sempre, mia madre, gelosa di me specialmente orache sospettava ch’io fossi stanca di parlare sempre di lei.Io non osavo dirle il mio desiderio, anche perché questomi avrebbe costretta a rivelarle le mie nuove amicizie e arivedere tutti i nostri rapporti. Vedete a quali estremi sipossa giungere quando si è tiranneggiati. Non pensavoormai piú di avere l’obbligo di curare mia madre, o al-meno lo pensavo poco, e soprattutto miravo alla miasalvezza; era evidente che, se reputavo in coscienza diavere diritto alla festa, andarvi era un dovere; la miastessa paura era una terribile accusa. Pure non sapevorisolvermi e, anziché parlare a mia madre, tremavo da-vanti a lei. La paura però non poteva cambiare una de-cisione già presa fin dal primo momento, cioè quella diandare alla festa. Sapevo che l’avrei fatto senza deflette-re dalla mia intransigenza nel compiere tutto quello chela coscienza mi indicava per giusto. Giuliano poi avevaper me un’attrattiva superiore a ogni angoscia, perchévedevo in lui la decenza morale, e anche perché ritenevoche quella sera si sarebbe spiegato. Rimandai il discor-setto che dovevo fare a mia madre, da un giorno all’al-tro, poi da un’ora all’altra; mancava poco piú di un’oraalla festa; finiva il pranzo; non avevo ancora parlato. Se-duta vicino al letto in cui si era già coricata, rispondevoin modo distratto alle sue solite domande, e intanto ri-muginavo le idee di Giuliano e mie. «Se è giusto» dice-vo a me stessa «che una ragazza cerchi di liberarsi dauna vita poco per bene, se oggi la mia coscienza mi per-mette di andare, anzi me lo comanda, questo deve ba-

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starmi. Mostrerei d’essere ben poco ferma e sicura seprovassi il bisogno di sottoporre al tribunale degli altriun agire tanto innocente. A mia madre meno che mai; lamia paura è sufficiente a mostrare che essa non ha dirit-to alla mia confidenza; il suo contegno mi costringe aprovvedere alla mia pulizia senza dargliene avviso». Co-sí decisi di andare senza dir nulla. Mi alzai e dissi a miamadre che un improvviso mal di capo mi costringeva acoricarmi. Non volle credermi: mi accusò di sottrarmialla sua compagnia, perché quella sera il suo umore eraspecialmente angoscioso. Fui costretta a difendermi eda prometterle che l’indomani mattina avremmo trattatoa fondo certi problemi di parole e di sguardi che mi ave-va proposto. Infine riuscii ad andarmene; ma rifiutò didarmi un bacio. Appena fuori chiamai la Zaira e ottenniil suo consenso. Mi cambiai di vestito e scappai in puntadi piedi. Questa mia fuga indecorosa fu il mio primo in-gresso nel mondo.

Villa Verdi e la nostra sono lontane poco piú di unchilometro, che percorsi quasi correndo. Arrivai a festagià avanzata e il mio ritardo fu attribuito dagli altri al de-siderio di brillare. Appena entrata ebbi questa impres-sione; e ripensando per quale sequela di affanni fossiriuscita a giungere a quella casa, mi agitai nuovamentecontro una condizione che non soltanto mi costringeva asoffrire, ma anche ad essere odiosa. Guardando in giroebbi una nuova stretta e un’altra prova di quanto pococontassero i bisogni della mia vita. Il mio vestito eratroppo da giorno anche per una festa cosí familiare, etuttavia era il piú adatto che avessi. Cosí distratta fin dalprimo momento dalla sofferenza e dall’ansia, piú tardidall’esaltazione, vidi ben poco della festa e non sapreiraccontarvene nulla. Mi rintanai in un salotto appartatonel quale mi seguirono la mia amica Anna e la padronadi casa, forse vedendomi una espressione stravolta e at-tribuendola alla mia timidezza. Quelle due donne di età

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cosí diversa hanno la comune virtú di portare confortocon il loro aspetto cordiale, come se fossero piante oanimali. Dopo avermi calmata con la loro presenza, miaccompagnarono nel piccolo spiazzo tra la casa e il frut-teto, in cui si svolgeva la festa; io cercai un altro confor-to nella notte stellata.

Voi conoscete come me questi colli. Improvvisi inmezzo del piano, ma ancora immersi nei vapori terreni,ci staccano già dalla vita, ma ne conservano tutta la fanta-sia. Il cielo, crudo sulla vera montagna, da noi si colora,si accosta, diviene festoso e vario. Quella notte la luna,ancora al primo quarto, non attenuava le stelle e restavasenza splendore nel fondo del frutteto. Si vedeva allosbocco della valle sul piano una caduta di stelle sull’oriz-zonte, cosí fitta che il cielo sembrava tutto animato. Die-tro di noi si alzava una montagnola, coperta di un boscocupo, il piú misterioso dei colli. La luce bianca delle stel-le toccava la massa scura delle fronde, senza rischiararla;e tuttavia anche dalla sua lontananza mi rimandava unsentimento di gioia. Lo raccolsi nell’anima e mi volsi aGiuliano che si era posto accanto a me. Rientrammoistintivamente e, attraversata la casa, uscimmo su un ter-rapieno erboso dietro di essa, cinto da un muricciolo,senz’altra vista che il cielo stellato. Affaticata di tanteemozioni mi strinsi a Giuliano e gli dissi:

«Sono tanto infelice. Oh se tu potessi salvarmi!»Era la prima volta che uno di noi diceva una frase amo-

rosa. Giuliano non mi rispose e solamente mi baciò. Qua-si stordita gli sfuggii dalle braccia e ritornai tra la gente,ma sentii dentro una esplosione di gioia, che mi rese co-me ubriaca. Ero nello stato in cui l’animo, inebriato dellapropria fragranza, sicuro della simpatia universale, noncura di dissimularsi, anzi desidera di mostrarsi scoperto.Parlavo avvolta in una nebbia, con sincerità ed abbando-no, ero brillante ed audace. Venivano alle mie labbra pa-role e idee della camera verde; che altro conoscevo infatti

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intorno alla gente e alla vita? Parlai d’amore, affermai chenoi donne siamo fatte solo per quello (non era un pensie-ro mio); un poco per la vanità che mi era stata inoculata,un poco per l’abitudine ormai contratta con mia madre,parlai come già pratica e esperta di cose amorose. I mieidiscorsi, ahimè logori quando li facevo in casa, si ravviva-vano al calore e al tumulto del mio recente successo. Par-lai anche, ricordo, della gente della città, canzonandolacome usavo fare da mesi, e palesando la mia ingenua sa-pienza nei loro intrighi di cuore. A un certo punto tuttitacquero intorno; credetti d’essere ammirata e in quel si-lenzio continuai. Cosí il tempo passò e finalmente, stan-chissima, ritornai a casa pensando che mi aspettasse ungran sonno. Invece ero appena distesa che udii quasi unronzio; erano voci, suonavano sempre piú forte; la mentemi si illuminò, simile ad un palcoscenico, sul quale io mipresentavo. I miei discorsi continuavano quelli che avevotenuto alla festa, e raggiungevano una sincerità tale chenessuno avrebbe potuto confessarsi piú apertamente.Tutta la gente conosciuta alla festa, che avevo veduto inconfuso, appariva ora distinta e mi guardava quasi da unaplatea, con Giuliano nel mezzo, ma come uno dei tanti.Era nato in me quella sera uno slancio cosí irrompenteverso la libertà che tra i miei desideri anche Giuliano sco-loriva. Lasciate ancora ch’io mi fermi su questi sfoghi cosícari; lo faccio molto piú per me che per voi. Non sapevoche il mondo non perdona d’essere giovani, né aperti, néfelici. «Sí, lo vedete, sono fatta cosí» dicevo agli ascoltato-ri, che sorridevano e approvavano sempre. «Simpatica!Simpatica!» dicevo poi di me stessa. Queste parole, piúche mie, erano colte sulla bocca degli altri, quasi che tuttiinsieme avessimo un solo cervello. Non mi stancavo dichiedere il grido della simpatia e dell’affetto; l’orologiodella torretta aveva battuto le sei, quando il delirio fusmorzato dal sonno; tre ore piú tardi ero sveglia con l’in-cubo di una mattina da dedicare a mia madre.

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La traversai, come sempre, faticosamente, e alla noiae al disgusto pei discorsi che udivo, si mescolava un di-sagio d’altra natura. Le tre ore di sonno, dissipandol’esaltazione, avevano ora scoperto un sentimento di so-spetto, e quasi un dubbio che il mio successo alla festafosse stato meno assoluto di quello che mi era parso.Me ne inquietavo nella mia ingenuità ed ero ansiosa disentire da Anna che impressione avessi prodotto. Mipareva che il dubbio, sempre piú forte e irritante, fossestato in me sempre, anche la notte, quando non l’avver-tivo. Mi divenne impossibile di pensare a mia madre e,come spesso a quel tempo, subito dopo colazione, scap-pai di casa e mi nascosi. Il mio nascondiglio quel giornoera un’altra terrazza, piú piccola, accanto al giardino,tenuta ad orto ma con una serra nell’angolo presso laquale sedetti. Il sole dorato ma chiaro di quelle primeore pomeridiane illuminava sotto di me la valletta, poila pianura aperta, e alle mie spalle le piante che si vede-vano di là della vetrata come raccolte in una luce tran-quilla. A quella vista cominciai a sentire piú forte la dol-cezza della mia anima, quasi che ascoltassi una musica;alla dolcezza si mescolava quel giorno un sentimentodoloroso, che era portato dai miei dubbi, ma che com-poneva con essa una sola armonia. Nella mia contem-plazione udii anche un suono di campane, che forse du-rava da un pezzo, ma che non avevo avvertito. Cosírimasi un paio d’ore: mentre godevo, ripetevo a mestessa: «È possibile che nemmeno la gente di ieri abbiasaputo capirmi?»

Quando fu l’ora giusta, tornata a casa, seppi che miamadre era uscita. Allora mi recai da Anna, e subito dopoi saluti, per tastare il terreno:

«È davvero simpatica» dissi «la gente che ho trovatadai Verdi» .

«Eh!» fece Anna arrossendo, guardando altrove pernon incontrare i miei occhi; poi cambiò discorso.

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Quello: eh, quel gesto, erano quanto bastava. Ero sta-to l’oggetto di critiche senza pietà. Anch’io divenni ros-sa, e mentre Anna continuava il suo cicaleccio, ascoltavosoltanto i soprassalti della mia umiliazione. Come qual-che volta negli attimi di passione piú viva, osservai piúattentamente le mie ragioni che i miei torti.

«Ecco» pensavo tra me «una volta soltanto nella miavita, ho preso un po’ di respiro, io ragazza inesperta, cheandavo per la prima volta a una festa, io che conoscevosoltanto gli insegnamenti di mia madre, e quella gentegrossolana, insensibile, mi ha già condannata cosí! Ionon dovevo, io non devo concedermi questi piaceri trop-po inferiori a me stessa. Non voglio vedere mai piú gentedi quella rozzezza». Anche Anna, pensavo poi, era nelnumero dei piaceri un po’ andanti, nei quali stavo oramaiper disperdermi, se un incidente forse provvidenzialenon fosse venuto a tempo a far risentire il mio orgoglio.

Mentre continuava a discorrere, pensavo che avrei do-vuto trattare con piú freddezza quella ragazza che solo perestremo bisogno avevo chiamato amica. Questo bisogno,seguitavo a pensare, mi aveva tradito in tutto; senza miamadre, non avrei pensato a cercare la compagnia di perso-ne di scarto, né mi sarei esposta alla loro censura. A questopunto, dai miei stessi pensieri, mi accorsi di essere colpe-vole anch’io. «Hai la fortuna» continuavo fra me «di avereincontrato Giuliano, con la sua serietà, il suo disprezzo pertutto quello che è frivolo, ed hai il coraggio di cercare con-sensi tra gente cosi vile? E di lamentarti piú tardi se trovi iltuo giusto castigo?» Piú dell’indignazione, piú del rancore,il rimorso di aver distolto per un momento il pensiero dal-la serietà di Giuliano e di essermi compromessa con gentedi quella sorta, riportò a galla quanto v’era di meglio nelfondo del mio carattere: l’istinto solingo e sdegnoso,l’amore per la natura, la tendenza meditativa. Ma, se ancheavevo riconosciuto i miei torti, continuavo a soffrire. Desi-derai cosí ardentemente Giuliano che vedendolo entrare

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divenni bianca e quasi mancai sulla sedia. Sedette accantoa me chiedendomi se il giorno prima mi fossi divertita.

«Divertita!» risposi. «Certo, era una bella festa, ma,detto ora tra noi (scusami, tu che eri il padrone di casa),non sono divertimenti dei quali io vada pazza; non sonofatta per la gente; la solitudine, un bel paesaggio ed unlibro, ecco piuttosto il mio ideale».

Quando tacqui mi parve che Anna mi guardasse unpo’ strana. Allora mi prese la smania di essere sola conGiuliano, senza quell’importuna, per dirgli tutto il miopensiero. Continuai irritata:

«Non posso dire in coscienza di essermi trovata benecon quella gente cosí vuota; il poco che l’ho conosciutami è bastato perché mi proponessi di non vederla piú.Non dovrei forse parlarti cosi, ma io sono troppo amicadella franchezza, ed uso essere sempre franca, a ogni co-sto; anche se questo» aggiunsi con intenzione «mi attiraspesso qualche guaio».

«E perché vorresti mentire?» disse Giuliano grave-mente. «Hai ragione dicendo che quella gente è di cer-vello ristretto e sono lieto che tu l’abbia notato. E poi lasincerità deve essere per tutti noi un programma di vita;ieri sera ad esempio sei stata cosi coraggiosa nei tuoi giu-dizi e nel modo di esprimerli, che per conto mio ti am-miravo, anche se altri non l’ha fatto».

I sentimenti mescolati ed instabili che mi agitavanol’animo trovarono sollievo in uno slancio di devozioneper quello che aveva parlato cosí. «Ecco una persona delmio stampo!» pensai. «Ecco uno che mi assomiglia! E ioche perdevo il mio tempo con le persone piú volgari!»Sentivo aumentare l’urgenza di dirgli meglio quello cheavevo pensato ed una impressione confusa di essere in de-bito con lui. Mi pareva impossibile di tollerare anche unistante di piú la presenza di una ragazza tanto diversa danoi. Rossa in viso, poi bianca, il sangue tutto in subbuglio,senza piú riguardo per Anna, mi alzai e dissi a Giuliano:

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«Vado via: mi accompagni?»Vi ho forse detto che un sentiero poco battuto condu-

ce dalla casa di Anna alla nostra, scendendo in fondo allavalle per un pendio cespuglioso con pianerottoli prativi,poi risalendo tra le vigne. Io camminavo irrigidita, gli oc-chi fissi in avanti, e anche Giuliano taceva. Questo silen-zio cominciò a insospettirmi. «Non crede a quello che hadetto» pensavo. «Le sue parole non erano che un com-plimento. Del resto non dovevo illudermi. Come potreb-be, lui cosí retto e severo, avere la minima stima per unaragazza che tollera tante sudicerie? Per colpa di mia ma-dre dunque non potrò nemmeno farmi vedere col miovero carattere dall’uomo a cui voglio bene». Mentre cosípensavo la gola mi si chiudeva e il dolore della giornataribolliva in me tutto insieme, diviso dalle sue cause, biso-gnoso di sfogo. Fosse mia o d’altri la colpa di quello cheavevo sofferto, non mutava l’unico fatto che veramenteimportasse, che io m’ero esposta ingenuamente alla vitae, come sempre, avevo raccolto un affanno. Davanti ame, quasi in cima al pendio, attraverso alcuni alberi di ci-liegio e di fico, vedevo la vecchia muraglia che sostenevail mio giardino, coronata di statue che mi apparivano dischiena. Quella vista distratta si mescolava alla mia com-mozione e l’aumentava a mia insaputa. Eravamo ormaigiunti nel fondo della valletta, chiusi tra i colli ma allostesso livello della pianura di cui si vedeva l’inizio nelvarco tra le due colline. Vi si scorgeva qualche pianta piúalta, e ne venivano rumori infiniti e indistinti, canti digallo e voci umane, che si scioglievano anch’essi come leforme in un immenso sfumato. Sentii una grande vergo-gna della mia vita, un urgente bisogno che Giuliano miperdonasse, una smania di liberarmi. «Salvami» gridai aGiuliano, ponendomi davanti a lui e aggrappandomi allesue spalle; «sono tanto infelice e anche tu mi condanni,ma ti giuro che io voglio una vita pulita e non posso piúvivere con nessuno fuorché con te». Divenne smorto e ri-

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mase come perplesso. Ma gli stessi singhiozzi fecero na-scere in me un senso felice e roseo, e mi trovai la menteconfusa a tal punto, che a un tratto mi rilasciai senza piúintendere nulla. Forse non faccio bene a narrarvi questoepisodio, che soltanto una donna, che non mi odiasse,potrebbe capire. So che, nel mio smarrimento, anche fe-lice, continuai a singhiozzare. Quando rinvenni e consta-tai che Giuliano oramai era padrone di me anima e cor-po, lo supplicai di farmi fuggire con lui ed ebbi subito ilsuo assenso. Mi disse cosí di venire l’indomani da Anna aprendere gli ultimi accordi della nostra prossima fuga.Ed io sono certissima che, se nulla fosse accaduto, nonavrebbe mancato alla sua sacra promessa. Ma potetepensare che cosa provai il giorno dopo quando Giulianonon venne e invece dovetti ascoltare, come vi ho già rac-contato, le confidenze di una mediocre ragazza intornoalle sue letture. E se quel giorno non riuscii a consolarecon pazienza mia madre, i fatti che vi ho narrato, sono,mi sembra, una scusante di piú.

Ma ora mia madre, alla quale gridai nella nostra ulti-ma lite che appartenevo a Giuliano, approfittando an-che di questa disgrazia per il proprio vantaggio, minac-cia di divulgarla e di svergognarmi nel mondo, se io nonrimarrò chiusa per tutta la vita in convento. Non discutoil mio agire; vi chiedo se è giusto il ricatto. Ora che sape-te tutto, anche ciò che una donna non vorrebbe mai rac-contare, potrete capire una supplica che si sforza di es-sere misurata di accento, ma è piena di pianto e diangoscia? Ho fatto il male, ma per desiderio di bene, inun grido della coscienza; colpa soprattutto di quella cheha deviato per sempre la mia giovinezza e che adesso miaccusa. Il tempo è poco; ve ne prego, salvatemi, ristabili-te la giustizia. O nei dieci giorni che mancano sarò co-stretta a fuggire sola da questo convento.

Dal Convento delle** a**, il 5 settembre 19**.

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LETTERA XIX

Don Carlo Rivello a don Paolo.

Ti scrivo per pregarti con tutto il cuore dell’animo,caro figliolo, di rimettere al Vescovo, prima che sia trop-po tardi, le lettere della novizia di cui mi hai parlato ieri.Per quanto grave sia stata la colpa di continuare nasco-stamente un’inchiesta che avevi dichiarato chiusa, sonosicuro che il Vescovo nella sua bontà ti vorrà ancoraperdonare.

Ti supplico, caro figliolo; nemmeno le tue promessesono riuscite a calmare la mia trepidazione; tanto piúche ti ho visto ancora troppo propenso a un tentativo discolparti, che rivelava il turbamento del cuore. Versoquella novizia non ti ha portato la pietà, come credi. Daquello che mi hai narrato non la giudico poi né sincerané buona. Se fosse tale non avrebbe potuto indurre unsacerdote ad entrare ed insistere in un tale scambio dilettere ed a permettere che venisse occultato.

Ripenso ora al Don Paolo che ho conosciuto per ven-ti anni, e confrontandolo con l’uomo piangente che ierimi si è presentato penso che questa prova gli può porta-re un gran male o un gran bene. Approvo quelle lagri-me, se esse, come ritengo, significano pentimento e nondubbio. Ti scongiuro perciò a riparare immediatamenteal tuo errore, prima che nella tua anima possa tornarel’incertezza.

Dalla Parrocchia di** a**, il 6 settembre 19**.

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LETTERA XX

Zaira Righetti, cameriera, a don Paolo.

Vi faccio questa comunicazione per ordine della si-gnora Elisa Passi, che è la mia padrona. Otto anni fa lasignorina Passi era innamorata del figlio della contessaVerdi. Un giorno che la signora Elisa non c’era la signo-rina mi ordinò di consegnargli un biglietto, ma non lotrovai in casa e tornai indietro per una scorciatoia ripor-tando la missiva. A metà strada vidi un uomo e una don-na che si tenevano come se lottassero in piedi, poi vi fuun colpo di fucile e l’uomo cadde sull’erba. Quando ar-rivai mi accorsi che era il figlio della contessa e che eragià morto, la donna invece era la signorina Passi. Quan-do mi vide mi abbracciò per impedirmi di gridare e dimuovermi, e disse che era innocente, ma che se parlavotutti l’avrebbero incolpata. Si gettò poi in ginocchio e sisentí molto male. Le dissi di scappare e tornai a casasenza che nessuno vedesse. A casa parlai al cameriereGiacomo Bazan, che mi consigliò di tacere. La mattinadopo sentii la signorina Passi che litigava con sua madreche era tornata di notte. Poi le vidi dalla finestra cheuscivano in compagnia. La signora Passi tornò da sola emi disse di andare subito al convento perché la superio-ra mi voleva parlare. Andai e la superiora si chiuse conme nello studio domandandomi se avevo detto a nessu-no quello che avevo visto. Risposi che l’avevo detto soloal cameriere. Allora mi ordinò di mandare anche il ca-meriere da lei. Poi mi ordinò di non parlare a nessunodella disgrazia accaduta perché la Margherita doveva re-stare in convento e se Dio la voleva nessuno doveva im-pedirlo. Mi disse di non parlarne mai nemmeno alla si-gnora, la quale mi avrebbe premiato. A casa vidi lasignora nell’angolo del salotto, ma non mi guardava infaccia e aveva un’aria arrabbiata con me. Mi diede una

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borsetta e disse: «Prendi, è un regalo». In camera l’apriie trovai dentro cinquemila lire. Tanto io che Giacomonon abbiamo mai parlato. Ieri la signora Passi mi ha in-vece ordinato di scrivervi quello che era accaduto e miha dettato la lettera. Non volevo accettare, ma la signorami ha detto che in caso di rifiuto la signorina sarebbestata perduta e che il segreto resterà tra me e voi perchéanche voi non direte niente a nessuno. Mi ha detto poiche cosí capirete che non bisogna occuparsi della fac-cenda per il bene della ragazza. Io però ho stracciato lalettera che mi ha dettato la signora con l’ordine di finge-re che vi scrivessi a sua insaputa e ho scritta questa per-ché cosi almeno saprete tutta la verità.

Dalla villa**, il 7 settembre 19**.

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LETTERA XXI

Don Paolo a Rita.

Ho creduto leggendo la vostra ultima lettera che mi di-ceste tutto il vero, o almeno tutto quello che vi era acca-duto, perché il vero dell’anima non l’ho mai aspettato davoi. So ora che v’è di peggio. La cameriera Zaira Righetti,che mi aveva scritto una lettera, esce dalla mia stanza do-ve l’ho fatta chiamare. Vi credevo solo ammalata di un’in-cosciente falsità; vedo che siete disposta a sacrificare qua-lunque vita al vostro capriccio, come tentate di sacrificarela mia. Prima avete cercato l’impunità nel convento, conla promessa di non tentare di uscirne, e a questo patto sie-te stata salvata dal castigo che un tribunale infliggerebbea una persona che ha ucciso; ora cercate che io vi liberidall’impegno insincero a cui dovete la salvezza.

Con le vostre abili e graduali menzogne avete ormaigià saputo condurmi a un rischio grave e immeritato.Respingo con orrore il tentativo della vostra ultima lette-ra, di associare anche me, come tacito complice, alla col-pa commessa col segreto maneggio di questa corrispon-denza. Se fossi stato a conoscenza del vero, avrei assoltoil mio compito in modo molto diverso, né sarei entratoin cosi grave pericolo per uno slancio proveniente piúdallo spirito che dalla lettera del mio ministero. Solo lapietà ed il timore di rovinarvi con una reazione affrettatami hanno indotto, non a permettere, ma a tollerare i vo-stri sfoghi. Per questo lato, la mia coscienza è tranquilla.La mia colpa è stata soltanto di non capire ciò che orami appare evidente. Le vostre lettere erano sempre bu-giarde; non avevate altro scopo scrivendomi che quellodi pormi davanti una dissimulata e ironica vanteria dellepeggiori inclinazioni morali. Non l’ho veduto con suffi-ciente chiarezza; è giusto che me ne resti il rimorso, for-se anche il castigo.

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Adesso, se ho l’animo inquieto, almeno ho la chiarez-za. E tuttavia non so liberarmi in un attimo della pietàche sentivo per voi, né dimenticare di avervi accolta co-me un’anima affidata a me dal Signore. Ieri avevo giàchiesto al Vescovo un colloquio nel quale gli avrei aper-to l’animo e confessato la mia ansia. Oggi, prima di an-darvi, ho ricevuto la denuncia di quella vostra camerie-ra. Non ho voluto, proprio io, provocare l’arresto dellapersona a cui m’ero prefisso di portare salvezza. Ancorauna volta ho taciuto e ho rinviato il colloquio. Capiteora ciò che ho fatto per voi, e non vogliate rendermi ma-le per bene. Restate in convento, o uscitene, ma non ri-correte al mio aiuto.

Non vi posso piú assistere e vi abbandono a voi stessa.Vi prego solo, qualunque cosa facciate, di non parlare diquesta corrispondenza. E soprattutto non scrivetemi piú.Questa è l’ultima lettera: ve la faccio portare dalla mede-sima donna da cui ho saputo il vero sul conto vostro.

Dal Vescovado di**, l’8 settembre 19**.

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LETTERA XXII

Rita a don Paolo.

Dunque è deciso, io sono già condannata. Se cerco disalvarmi, io faccio la vostra rovina: mi arrendo e accettola mia sorte. Ma permettetemi almeno di disobbedire,una volta soltanto, al vostro ordine di non scrivervi piú.Tollero qualsiasi pena fuorché un falso giudizio, special-mente dato da voi, e quello che voi pensate è cosí orribi-le che non è umano proibirmi un tentativo di difesa. Vo-glio che sappiate da me ciò che veramente è avvenuto.Metterò finalmente una confessione totale nelle manidell’unica persona che ha dimostrato di intendermi al-meno in parte.

Riprendo ora il racconto che nella mia ultima lettera (eme ne pento) non ho avuto il coraggio di continuare finoin fondo. Vi ho detto come quel giorno, al mio ritornodalla casa di Anna, agitata com’ero di non aver visto Giu-liano, trovai mia madre in anticamera, sofferente e ina-sprita per sue ragioni personali. Le sue lagrime irose ac-crebbero il mio sospetto, da cui ero stata tormentatavenendo, che Giuliano avesse mancato per disprezzoverso la vita che io conducevo con lei. Questo sospettoesasperò il nostro litigio, dopo il quale, come vi ho scrit-to, andai in giardino e meditai. La riflessione portata inme dal paesaggio e dalla pietà per mia madre calmava an-che le mie sofferenze e mi induceva a vedere i miei casicon un umore meno triste. Cominciai a contemplareGiuliano dentro di me, e ricordando il suo viso leale e lesue parole severe, sentii rimorso di averlo quasi accusatodi un tradimento cosí basso. «Non ha passato tante vol-te» dicevo «anche tre giorni senza venire a vedermi, per-ché era preso da altri impegni? Oggi me ne stupisco, per-ché è avvenuto un fatto al quale noi donne diamo tantaimportanza; ma è forse cosí per gli uomini? Io non cono-

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sco abbastanza la vita. Non è possibile che sia disgustatocon me per il contegno di mia madre; un uomo cosí su-periore, esente dalle grettezze, che sa benissimo in qualestato mi trovo e me ne vuole liberare! E poi, me l’avreb-be ben detto prima di prendere un impegno definitivo.Infine, perché mi lamento? Non è proprio quello che vo-glio? Ho stabilito che il mio amore non è, come gli amoridi mia madre, fatto di ansie, gelosie, piccolezze, ma serio,positivo, un patto stretto tra due persone per bene. Edora anch’io faccio come mia madre! Ieri tra me e Giulia-no è stato concluso un patto, e soltanto questo ha valore.Mia madre è insopportabile, ma tra pochissimo lasceròquesta casa, e negli ultimi giorni è meglio essere buonaanche con lei». Ragionando cosí, non riuscivo però a cal-mare l’ansia del tutto, e sentivo il bisogno di avere tuttauna giornata per cercare Giuliano e precisare il nostroaccordo. «Devo essere buona» pensavo «ma non possopermetterle di distruggere anche l’ultima mia speranza».La grande pietà che sentivo, ora che ero piú calma, per lesue sofferenze, e insieme la necessità di sistemare la miavita mi indussero, come sapete, a inviarla a Milano.

Il giorno dopo, al risveglio, la mia fiducia era caduta.Dal mio umore mi accorsi che non credevo piú a nulladi quanto avevo pensato la sera prima, benché i miei ra-gionamenti non avessero perso la loro validità. Mi con-vincevano tuttavia cosí poco che li abbandonai con di-spetto e preferii dormicchiare, sperando che il miodisagio si disciogliesse nel riposo protratto. Quando mialzai invece mi tormentava una irritazione snervata, incui serpeggiavano strane ed iraconde fantasie. E ora ve-drete che razza di donna sia quella vecchia, la Zaira, cheha obbedito a mia madre, e si è messa tra noi. Allora vi-cina ai sessanta, ne dimostrava molto meno, sembrandopiuttosto una bambola che una persona viva, con la suapelle rugosetta ma bianca, i, suoi occhi chiari e i capellitinti di nero. In altri tempi, non però troppo lontani,

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era stata una specie di Mimí di quei colli, prodigava fa-vori sospirando i teatri, la ricchezza e Parigi che nonaveva mai veduta. Da quei tempi galanti le era rimasto ildiritto di vivere in dimestichezza con l’elemento signo-rile, e si sdebitava coi suoi discorsi buffoneschi o velata-mente lascivi. Mattina e sera, quand’ero in camera mia,veniva a chiacchierare e a vestirmi o a spogliarmi e a cu-riosare in tutti i modi. Un giorno che io le parlai delmio legame con Giuliano, il suo affetto per me divennequasi una passione e si estese anche a lui. Se io le espo-nevo la serietà e castità dei nostri comuni intenti miascoltava assentendo, ma un momento piú tardi miguardava la biancheria e la accarezzava con gesti in cuimi pareva di scorgere un sottinteso irritante. Allora tal-volta scattavo e le gridavo di andar via, perché non ca-piva niente; ma a questi miei scatti prendeva unaespressione cosí oltraggiata e stupida, che io non osavonemmeno giustificarli e la pregavo di restare. Quellamattina salí in camera mia con la scusa di dirmi che eragià quasi mezzogiorno, in realtà per sapere perché miamadre era andata a Milano. Abbattuta com’ero, dispo-sta ormai ad attaccarmi a qualunque essere umano per-ché mi rincuorasse, io le confessai tutto e le domandaiconsiglio. Subito volle abbracciarmi, pianse con me etuttavia mi lodò della mia risolutezza. Poi volle scende-re le scale a braccetto quasi che fossi invalidata e appe-na abbasso divenne di umore allegro come non l’avevomai vista. Accorgendosi infine che ero ormai in manosua, mi persuase a partecipare il segreto al suo compa-gno, quel Giacomo, che chiamò mentre mangiavo.

Era Giuliano che, salendo dal fondo della valletta perla pendice prativa, si dirigeva sul sentiero che io percor-revo e che avrebbe raggiunto alle mie spalle non lonta-no. Certo era andato a caccia, perché aveva in mano unfucile; tornando a casa avrebbe dovuto passare sul pun-to dal quale guardavo. Mi fermai ad aspettarlo e infatti

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mi venne incontro, piuttosto triste, a capo chino, e senzaaccorgersi di me. Mi rivelai col saluto quando fu a pochipassi; si fermò tutto rosso: io, già impaurita della suaconfusione, non volli parlare per prima.

«Addio» mi disse finalmente «sei qui?»«Oh, Giuliano» risposi io dolorosamente «mi chiedi

se sono qui! Io che ti attendo da due giorni; e forse nonti avrei visto nemmeno oggi, se non ti avessi cercato. Do-po quel ch’è successo! Tu cosí retto, cosí giusto!»

Nella mia ansia lo strinsi, gli posi la testa sul seno:«Non sai che vivo solo per il momento in cui ce ne

andremo insieme?»Aspettai una risposta; non osavo guardarlo; Giuliano

non parlava. Allora sentii nascere dentro di me una pau-ra, mista a un istinto di difesa, in cui si chiariva d’untratto tutta la mia sofferenza da quando mi ero svegliata.

«Mi avevi promesso...» ripresi, ma la sua voce mi in-terruppe.

«Ascolta, Rita» diceva con gravità. «Ti fidi di me, nonè vero? Sei convinta che io non parlo con leggerezza?»

Chiunque mi condannerebbe per quello che sto pernarrare. Appunto per questo lo narro senza abbellire lamia parte, sincera in tutto e specialmente a mio danno,sebbene mi sembri impossibile d’essere io la persona lecui parole riferisco. L’infelicità di quel mesi mi avevacondotta ormai ad uno stato di spavento e d’angoscia,che somigliava alla pazzia. Quando Giuliano parlò erogià tutta fredda:

«Che intendi dire?» gli chiesi. «Perché ieri non sei ve-nuto?»

«Volevo riflettere meglio, per il tuo bene e per il mio.Quello che è accaduto è grave, e noi stavamo per fareuna grande sciocchezza. Ti amo, Rita, e l’impegno cheabbiamo preso rimane. Solo, non vedo perché dobbia-mo scappare, se possiamo sposarci, appena sarà possibi-le, in un modo normale...»

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Io so che diceva il vero. La sua voce che odo, se chiu-do gli occhi, con lo stesso tono di allora, era una voceonesta. Ho rimorso per la sfiducia con cui risposi all’uo-mo piú serio, piú retto che io abbia mai conosciuto, chesi preparava a salvarmi e che ancora oggi, se la sua ani-ma vive, non mi condanna, ma perdona. Esasperata, de-lusa, con dentro il dolore e la smania di quei mesi d’in-ferno e perfino dell’ultima umiliazione dai servi, alloranon capii nulla. Volevo fuggire di casa; Giuliano eraprudente; Giuliano mi mancava.

«Due giorni fa, non parlavi cosí» risposi. «Mostravid’intendere in che stato fossi ridotta. Capivi anche la miaurgenza, il mio affanno. Mi promettevi di salvarmi...»

«Ma non si tratta che di aspettare» rispose. «Ed io tisarò vicino, ti aiuterò a sopportare...»

Purtroppo il fisico a questo punto mi vinse, mi sentiiirrigidire, quasi diventassi di legno; i miei movimenti daallora furono scatti involontari.

«Ah bugiardo! Vigliacco!» balbettai piena di un’iraassurda, ma irresistibile, e balzai su Giuliano. Mi parevadi essere una bestia cacciata e di aggredire per venderecara la vita. Tra noi c’era il fucile, che Giuliano tenevaappoggiato a terra col calcio. Senza volerlo lo sollevainella lotta e lo lasciai ricadere. La scarica partí per l’urto;Giuliano non fece un gemito; cadde senza muoversi piú.

«Signore, siete testimonio» gridai «che non ho volutoquesto! Tutto, ma non questo!» Le gambe mi si piega-rono, mi si appannarono gli occhi, e nella nebbia vedevoperò oscillare punti di fuoco veloci, che mi diedero nau-sea. Mentre mi contorcevo fui riscossa da un passo e vi-di la Zaira che ritornava dalla sua commissione. Subito,senza riflettere, portata da un moto istintivo, le corsi in-contro e mi gettai ai suoi piedi.

«Zaira» le gridavo «abbi compassione di me. Se parlisono perduta, senza la minima colpa. Giuliano mi ha se-dotta, mi ha presa, mi ha rovinata, tu lo sai quanto me,

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tu che eri il nostro angelo custode. È stato senza volerlo,ti giuro, il colpo è partito mentre cercavo di aggrappar-mi a lui. Oh, credimi, Zaira, se non mi credi io sono per-duta, e per nulla». Mentre, sconvolta dallo spasimo fisi-co, mi difendevo con accuse a Giuliano che alloracredevo vere, e di cui ora faccio ammenda, continuavo acontorcermi tenendole le gambe strette.

Come avvenne, solo ora forse posso spiegarlo; alloranon riflettei, presa com’ero dal terrore. Quella donnasvenevole, che oramai viveva negli amori degli altri, daquando le avevo detto di essermi data a Giuliano, pro-babilmente mi si era attaccata davvero. Le prime paroleche disse furono quasi rispettose:

«Ma non state qui, signorina, se non volete che si sap-pia. Fate presto a scappare».

Io scappai come matta e giunsi a casa senza incontra-re nessuno. Giacomo, la Zaira cercarono di entrare incamera mia a confortarmi; era piú opportuno riceverli;ma mi riprendeva la nausea solo al pensiero di vedere unessere umano. Dopo avere molto insistito mi lasciaronoin pace, e cominciò la terribile notte che vi ho già rac-contato. Non riflettevo ormai piú, ma contemplavo lamia enorme disgrazia a cui non riuscivo a piegarmi. Erocerto colpevole, ma di una colpa infinitamente minoredi quella per cui temevo di venire accusata. Voi sapeteche al mondo non v’è dolore piú convulso ed assurdo diquello di un innocente che non sa come scolparsi. Cac-ciata dalla mia casa per un capriccio, richiamata per uncapriccio, gettata poi per capriccio tra gli avvenimentipiú strani, ora mi vedevo distrutta per un capriccio dellasorte, che riassumeva tutti quelli della malvagità umana.Pensate dunque se io potevo ascoltare le querimonie dimia madre, quando ritornò a metà notte. Vedendo che,dopo avermi condotta ad una rovina totale, persistevanell’aggredirmi, io le gridai che cos’era avvenuto percolpa soltanto sua. Mi fissò tutta stravolta; non seppe

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dirmi altro che: «Va’ via! Va’ via!» Quando andammo alconvento, quasi rapite nella comune avidità di non ve-derci mai piú, non mi guardò in faccia né volle toccarmi.A me mancarono le forze su questa porta: proseguí sen-za voltarsi, mi accusò alla superiora, spietatamente e fa-cendole intendere che la mia innocenza era dubbia; dis-se che bisognava tenermi rinchiusa per sempre.

«Sí, madre, sí» gridai anch’io singhiozzando «salvate-mi, vi giuro che non sono colpevole. Volevo già farmisuora, ve l’avevo già chiesto. Ho avuto qualche mese dismarrimento. Ora però confermo quel mio desiderio,credo che Dio mi abbia indicata la strada mandandomitante sciagure. Madre, salvatemi, non cacciatemi via,non rovinate una povera ragazza come me! Tenetemisempre con voi».

Dissi cosí, lo confesso, portata dallo spavento; unospavento che durò poi per anni, anche se mascheratocon l’apparenza di una vocazione reale. Ma quei propo-siti dettati dalla passione valevano meno che nulla.Quando anch’io lo capii, lo feci sapere a mia madre. Ri-spose solo che nel patto stretto fra noi io garantivo lamia scomparsa dal mondo in cambio del suo silenzio; seio riapparivo, essa avrebbe parlato; non le importava diessere anch’essa travolta dall’esecrazione di tutti, giac-ché io ero giovane, lei malata e finita. Smaniosa, com-battuta tra la ripugnanza di vivere in un luogo che abor-ro ed il terrore dell’accusa, mi aprii con la superiora e lechiesi soccorso. Essa andò da mia madre; la trovò irridu-cibile; non ebbe pietà di me, ma soltanto paura che ve-nisse scoperto l’impulso di misericordia di quando miaveva accolta. Per impedire che mia madre, incuranteanche della propria vergogna, obbediente soltanto allasmania vendicativa, travolgesse lei con se stessa, sacri-ficò me, le diede ragione, usò con me la minaccia e il ca-stigo. E ha osato chiamarmi ingrata, accusarmi di rovi-narla, di avere scordato che essa mi ha fatto scudo con la

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sua tenerezza! Ma non soltanto la paura la sprona a unagire tanto inumano. Io rappresento il romanzo perquell’anima piccola e innamorata dell’intrigo; io solacon i miei dolori, le agito e scaldo la vita.

Ridotta cosí all’estremo mi affidai a queste lettere,prima a Don Scarpa, poi a voi, sperando solo che ne na-scesse del bene, benché non vedessi in che modo.

È stato l’ultimo tentativo di un’anima, che voleva sal-varsi senza macchiarsi di altre colpe. Anche questo è fi-nito. So che, cercando ancora la mia libertà farei la vo-stra rovina. Smetto di scrivervi per sempre; forse vi èuna via d’uscita, ma ho paura di nominarla.

Dal Convento delle** a**, il 13 settembre 19**.

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LETTERA XXIII

Don Paolo a Rita.

Non è tempo ora di parlare né della lettera che miavete inviato, né di me, né di voi. Il mio giudizio su divoi è molto chiaro e ve l’ho espresso troppe volte perchéio voglia ripetermi in questi argomenti gravi. Comunqueè ingiusto che siate costretta a una vita che vi dà tanta ri-pugnanza; un sacerdote non può tollerarlo; e certamen-te vostra madre è decisa a denunciarvi se tentate di vive-re in modo diverso da quello stabilito da lei. Questopensiero mi ha dato giornate di angoscia, ed ho conclu-so che l’unica via per salvarvi è di farvi sparire almenoper qualche mese. Ho incaricato la Zaira di attendervipresso il convento nelle prime ore del giorno 18. Portan-dovi questo biglietto, che scrivo in fretta e senza nessunpiacere, essa vi dirà il resto. Ho già trovato la personadiscreta che vi terrà in casa sua. Non aggiungo altro: èun’azione rischiosa, ma credo che il compierla sia in ar-monia col precetto, che ci obbliga a riparare i torti subi-ti dalle anime che sono ricorse a noi, anche se non sonobuone, e di non guardare alle forme se la carità lo consi-glia. Ma preferisco non parlarne, perché il solo pensarvimi dà troppo dolore.

Dal Vescovado di**, il 14 settembre 19**.

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LETTERA XXIV

Rita a don Paolo.

Domani l’altro sarò libera! Mi ero proposta di passareuna parte della penultima mia notte in convento a sfoga-re l’orgasmo su questo foglio di carta e soprattutto a di-mostrarvi che la mia riconoscenza non è minore dellagioia. Ma non riesco a fissare la mente sulle parole chescrivo, né a fermarmi su questa sedia. Ogni minuto midistraggo, corro alla finestra, mi sporgo, dico ai miei colliche devo a voi la salvezza , che forse vi devo la vita. Men-tre affido cosí a questi miei cari amici ciò che la carta nonriceve, trovo un altro motivo di riconoscenza piú grande,che riesco quasi ad amare anche me stessa, contro la qua-le infierivo da anni. L’esasperazione, il sospetto che,quand’ero infelice, sentivo contro quelli che mi accosta-vano, mi ripugnava come una malattia. Avevo bisognooramai di ripulirmi dei sentimenti meschini. Ora sonoguarita. Ieri, un istante dopo che la Zaira mi aveva dato ilbiglietto e mi aveva fatto conoscere le vostre disposizioniper la mia fuga dal convento, era scomparsa tutta la miacattiveria. Vedete dunque che non aveva radici! È pro-prio vero che il dolore rende cattivi, ma che un po’ digiustizia basta a ridarci la bontà, perché a questo ci portaspontaneamente la natura. Ho voluto abbracciare perfi-no la Zaira; essa è fanatica di voi.

Qui tutti credono che io, superati i miei dubbi, accetti lamia sorte non solo con rassegnazione, ma addirittura consollievo. Poco fa ho chiesto alla superiora il permesso «diritirarmi a meditare sulla mia prossima fortuna». Natural-mente ha capito a suo modo e, oltre a darmi il permesso, siè compiaciuta con me del mio fervore. Cosí ho potutochiudermi nella mia cella ed attaccarmi a questo foglio.Voglio descrivervi la prima giornata felice che mi sia stataconcessa; voi ne avete diritto; non è che un vostro dono.

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Si doveva oggi festeggiare al convento la prossima mo-nacazione mia e di un’altra ragazza, certa Luigia Bertini.Tra la sveglia e la Messa, mentre mi vestivo, la superioraè venuta a cercarmi e mi ha chiamato in tono grave. Pri-ma di lasciare il convento e di non vederla mai piú devodirvi quale tipo di donna sia questa madre superiora. Vo-levo farlo nell’ultima lettera; poi, temendo di essere con-dotta a parlare di lei da un sentimento non del tutto im-parziale, ho preferito il silenzio. Ma oggi che la libertà hatolto da me ogni rancore, posso lasciare gli scrupoli escrivere senza ritegno. Madre Giulietta era sposata, rima-se vedova ed entrò nel convento per fedeltà a «quello cheè andato in cielo». Io dico «cielo» come lei, che non dicemai Paradiso, perché un cielo le sembra piú comodo esentimentale. La piú forte impressione della sua vita èuna certa scatola d’oro che sua madre teneva su un tavo-lino del salotto, e che ritorna spesso nei suoi discorsi co-me una prova dei suoi natali distinti. Un matrimonio,una vedovanza, una grande crisi di spirito, una monaca-zione, non hanno lasciato abbastanza traccia nella suaanima da toglierne la vanità di quella scatola d’oro, cherimane ancor oggi il piú importante personaggio. Stama-ne mi ha chiesto dunque se come suora io sentivo il do-vere della carità e del perdono. Ho risposto di sí. Mi hadetto allora che anche mia madre desidera perdonarmi evedermi prima che io compia l’azione piú nobile dellamia vita. Questa notizia, che un giorno mi avrebbe sde-gnata, l’ho presa con tanta mitezza, anzi con tanta alle-gria, che la buona donna ha esclamato: «Non puoi crede-re, Rita, quanto io mi senta felice di vedere il tuocambiamento. Evidentemente il tuo Sposo vuole trovareun’accoglienza gradevole ed ha fatto questo miracoloprima di avvicinarsi. Riconosci però ch’è un po’ meritomio, quando non ho voluto credere ai tuoi capricci». Hocosí dato appuntamento a mia madre pel pomeriggio didomani l’altro; ma temo che non ci sarò.

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Prima di andarsene la superiora mi ha poi fatto cono-scere un suo pensiero delicato, quello di invitare connoi, per la nostra piccola festa, proprio Don GiuseppeScarpa, di passaggio in questa città. «Tu sarai felice» miha detto «di mostrare a lui specialmente che ogni tua in-certezza è finita; e Don Scarpa godrà di vedere in teun’anima che ha contribuito a salvare. Devi ammettereche, fin dal primo momento, ha letto in te come in un li-bro. Bada che è abbasso, e si prepara a dir Messa». Io al-lora sono scesa e ho trovato Don Scarpa che conversavacon la Luigia Bertini. Questa è una ragazzona, che perl’imminenza dei voti vive in un’allegria infantile ed esu-berante. La si vedeva correre da qualche giorno nel giar-dino e nell’orto, sola o con le educande, saltando giú daimuriccioli e cadendo sulle sue grosse scarpe con un ru-more di sacco. Appena mi vide Don Scarpa mi venne in-contro, mi strinse le mani e, guardandoci entrambe:

«Una rappresenta la gioia» disse «impetuosa ed inge-nua; l’altra la gioia pensierosa; tutte e due siete grate aDio».

Dopo la Messa ci trovammo in parlatorio e io stessadovetti portargli il caffè su un vassoio. Mi fece altre con-gratulazioni e mi disse: «Vedete che avevo ragione? Nonerano tutte incertezze prive di consistenza, riscaldi dellagioventú? Peccato che, come suora, dobbiate bandire lospecchio, perché se poteste guardarvi, vedreste che pa-ce, che ardore vi si legge negli occhi». Risposi: vorreisoltanto farmi vedere a voi tra qualche giorno. Non diteche sono bugiarda: ero troppo felice.

Ma che giornata faticosa! Le converse hanno invitatola servitú dei dintorni, perfino la nostra Zaira, che due otre volte mi ha ammiccato. Le educande, che avevanofatto la Comunione, sono venute a cercarmi e a recitar-mi le poesie. Suor Camilla ha voluto regalarmi un vaset-to. È la suora piú anziana e ha portato in convento, qua-rant’anni fa, come dote, una raccolta di chicchere, piatti

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ed altri oggetti scompagnati, coi quali si è fatta in came-ra un piccolo museo. Da quarant’anni poi tormenta edassilla tutti i visitatori chiedendo loro, come a gente dimondo, che valore hanno quelle sue cianfrusaglie. Io viassicuro che la povera donna, che uscirà di qui solomorta, vive soltanto per sapere quanto possiede nellesue vecchie stoviglie. Pensate che sacrificio ha fatto re-galandomi il vaso che, pieno di fiori, profuma adesso da-vanti a me sul mio tavolo. Spero che non lo rimpianga;lo ritroverà tra due giorni.

Verso le cinque sono infine riuscita a lasciare la com-pagnia e a fuggire un istante nel prato presso la pergola,di dove si domina una delle nostre vallette. Questa è trale piú rozze, d’un verde eguale un po’ terroso, e ha nelmezzo una vecchia torre ed una fornace tra i ristagnid’acqua piovana. Ma oggi nel tramonto quell’acqua ave-va colori opulenti, un rosso, un verde macerati e profon-di, tali che nel guardarla quasi mi sentii venir meno. Co-me mi sentivo buona e felice d’essere buona! Come èfacile essere buoni se si è capiti! Dolori, paure ed odi,tutto finiva in me, senza uno sbalzo e come sfumando ingioia. Ora smetto di scrivervi perché mi sento venir son-no. Con tutto il fervore dell’animo io vi ringrazio ancoradi avermi salvata.

Dal Convento delle** a**, il 16 settembre 19**.

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LETTERA XXV

Rita a don Paolo.

Sono già passati due giorni che quella carrozza haportato me e la Zaira nella mia nuova dimora, e non viho ancora visto. Non mi riesce possibile tardare ancoraad esprimervi una felicità tanto irriflessiva e impetuosa,che quasi non vedo nemmeno che il futuro sia dubbiosoed il pericolo immediato. Io sono capace solo di gustareil sollievo della mia libertà e soffro solo di non potermisfogare in ringraziamenti con voi. Ma almeno voglionarrarvi io la mia fuga e confidarvi qualche particolaredella mia nuova vita.

La parte piú difficile della fuga fu quella di infilarmi ilvestito prestatomi dalla Zaira, il migliore che aveva, giàappartenente a mia madre, un po’ allargato ma nonquanto basta per andar bene anche a me. Vi giuro chemi soffocava; ora l’ho sostituito con un altro molto piúbrutto, ma adatto alla mia misura, della vostra vedovaZorzi. Con il vestito di mia madre, però mezzo slacciato,uscii dalla mia cella; scendere piano le scale, aprirel’uscio e trovarmi sul prato, fu un’impresa da nulla, per-ché non c’era sorveglianza. Il nostro convento è povero,campagnolo ed aperto, e tutti dormono la notte. Poteteperò immaginare che non ho avuto né il tempo né l’ani-mo di guardarmi d’attorno. L’aria mi parve ancora buia,ma di quel buio inerte e smorto che indica l’alba vicina.Aperto l’uscio sulla strada, che fu ancora piú facile, tro-vai la Zaira a aspettarmi e andammo via quasi senza par-lare. Cosí sparii, vi assicuro senza dolore, da quel con-vento che mi aveva tenuta per tanti anni contro la miavolontà, e non lasciai traccia della mia fuga. Cominciòallora a farsi luce, una luce però che pareva emanare daiveli di nebbia bianca raccolti nelle vallette, che sceseropoi come rivoli a illuminare la pianura. Rischiarata cosí,

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mi avvicinai alla mia casa; scorsi le statue, il ciliegio, lamagnolia, le aiuole; e ricordai specialmente quel giorno,quando partii la prima volta, e vidi allontanarsi quei pre-diletti della mia fanciullezza. Al pensiero che mai piúavrei potuto vederli, e che reputavo una grazia il fuggireda un luogo nel quale pure lasciavo come sepolto il me-glio della mia vita, capii a che punto fossi stata ridotta, ecosí intensamente che cominciai a singhiozzare. «Zaira»dissi stringendomi a lei «mi par di morire pensando cheme ne vado per sempre! E io che mi credevo felice! Tiprego, Zaira, sii buona, lasciami entrare mezz’ora per-ché possa almeno vedere la mia casa l’ultima volta!» LaZaira (che aveva preso licenza da mia madre con la scusadi assistere una sorella ammalata) non resistette all’emo-zione, mi diede la chiave ed entrammo. Per prima cosasalii nella mia camera, che trovai intatta, e sedetti sullapoltrona, quasi senza fiatare per il timore che mia madremi udisse. Era certo un pericolo, ma che aumentavaquella mia tormentosa avidità di ricordare. Poi, aperta lafinestra, tra le fronde degli alberi che si erano un po’sfoltite, guardai per alcuni minuti i colli illuminarsinell’aria ormai rosata; e finalmente, sempre in punta dipiedi, girai per le stanze a una a una. Mi sentivo intornoil respiro di mia madre addormentata, lontana da ognisospetto che io fossi in casa di nascosto; forse sognava ilprossimo appuntamento, in cui avrebbe dovuto riconci-liarsi con me. Finalmente mi allontanai, commossa marasserenata, e ripresa la strada giungemmo presto quag-giú, dove ci separammo.

Sappiate dunque che da ieri io vivo in una cameretta,arredata senza pretese, ma per me deliziosa, che nonguarda verso strada, ma verso un piccolo giardino, chiu-so davanti e a sinistra da un muricciolo, a destra daun’altra casa piú grande e piú signorile, che si congiungecon la nostra ad angolo retto. Crescono nel giardino pa-recchie piante non troppo alte, ma fitte, sovrastate da un

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platano posto nell’angolo del muro. Sotto la mia finestrav’è un piccolo specchio d’acqua, e i suoi riflessi che vi-brano sul soffitto della mia camera mi hanno dato sta-mane il piú piacevole risveglio.

A pianterreno, in una grande cucina che ha un’uscitaverso la strada ed una verso il giardinetto, vive la buonadonna a cui mi avete affidato; essa però sale ogni mo-mento a vedermi. Quando mi appare, alta, il volto gialloterroso, gli occhi neri che bruciano, mi fa quasi paura;capisco infatti che è stata presa per me di una passioneavida e avara, come per un gioiello capitato in un modocosí insperato a casa sua, che non le pare ancora di pos-sederlo, trema che le sia tolto, si affanna a tenerlo lustro.Mi ama non come una persona, ma appunto come ungioiello, una bestiolina o un dolce; se mi guarda in silen-zio con quegli occhi ghiotti ed ardenti, mi sembra chevoglia mangiarmi. Mi vieta cosí di uscire anche nel giar-dinetto e mi tien d’occhio come se volessi scappare. Sa-pendo poi che ho sofferto molti dolori ritiene, non soperché, che io deva avere anche fame, e non riesco a farleintendere che ho sofferto soltanto di dolori morali. Passacosí la giornata a rimestare uova sbattute che mi obbligapoi a mangiare. Se non venite a darle aiuto la poveraMargherita diventerà troppo grassa. Ma è necessario cheveniate perché non vivo piú volentieri in un luogo, se voinon l’avete visto. E voglio anche pregarvi di indurre ladonna ad allentare almeno la parte inutile della sua sor-veglianza. Ieri mi ha fatto una scena perché, dalla cucina,mi sono affacciata un istante a una finestra sulla strada.Pure non so come avrei potuto astenermene: questoquartiere mi parla d’anni tanto lontani che il guardarloriunisce la delizia del ricordare a quella della scoperta. Ioscendevo, ricordo, dalla nostra casa sui colli in certe sera-te d’inverno, per andare a un teatrino di marionette nonlontano di qui: i pendii erano coperti di neve, ma entran-do in questa strada sentivo un calore anche fisico, quasi

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un alito caldo. Il motivo di esso era che le finestre delpianterreno di quasi tutte le case danno sulle cucine. Atutti gli angoli c’erano poi mendicanti che trattavamocon riguardo, perché ci portassero fortuna. Molti di noihanno la superstizione che i mendicanti, pure senza av-vedersene, abbiano in mano la nostra felicità, e cheun’elemosina basti a farne gli inconsci strumenti dellanostra riuscita. Mi sono convinta perciò che un’elemosi-na è sempre un tentativo di patto col diavolo, perchéquegli esseri ci sembrano onnipotenti, ancora caldidell’Inferno. Anche le mie governanti, lasciando cadere ilsoldino, dicevano un desiderio, e spesso mi chiedevanodi unire il mio voto al loro. Pensate ora che soltantonell’attimo trascorso ieri alla finestra ho visto due mendi-canti. Non ridete di me se vi racconto che ho incaricatola donna di dare una lira a ciascuno dei mendicanti delquartiere, sperando di far scattare in uno di essi la mollache rovescerà il mio destino. Ma forse scherzo; mi diver-to alla musica di quei primi ricordi in gran parte distrutti,di quel teatrino nel quale rappresentavano l’Augellin bel-verde, L’amore delle tre melarance e il Re Cervo. Verso lafine, ricordo, di certe fiabe, quando il sortilegio era vinto,si spegneva la luce, e al suo ritorno si vedeva un giardinodove prima era un deserto. Questo è avvenuto anchedentro di me, e per merito vostro. Ora soltanto voi man-cate alla mia contentezza.

Da Porta**, il 20 settembre 19**.

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LETTERA XXVI

Don Paolo a Rita.

La Zaira è venuta a trovarmi questa mattina e mi hainformato di quello che avviene lassú dopo la vostra fu-ga. Vi sono stati momenti pericolosi, perché vostra ma-dre stravolta dall’ira del proprio smacco sembrava deci-sa a uno scandalo anche a costo di esserne vittimainsieme con voi. La superiora, spaventata, è riuscita afermarla ed a persuaderla a tacere finché vi ritroveran-no. Hanno stabilito cosí di celare la fuga e divulgare unaversione dei fatti che vi espongo in poche parole perchévi serva come norma. L’alba del giorno 18 siete andatain permesso a salutare vostra madre; a casa vostra sietestata colpita da un malore improvviso e obbligata a met-tervi a letto, dove attendete di guarire per tornare alconvento e monacarvi secondo il previsto. La superiorapoi nel suo smarrimento ha dato questa versione anchead altri, e le azioni delle due donne sono divenute cosíingarbugliate e colpevoli, che ormai mi sembra di veder-vi quasi al sicuro. Infatti conviene anche ad esse di ac-cordarsi con voi perché vi aiutiate a vicenda a maschera-re tante falsità ed imposture. So che vi cercano conangoscia e in silenzio e vi invito perciò a nascondervi be-ne anche se questo vi è sgradito.

Ora penso perché proprio io vi scrivo queste cose, chevi riguardano in modo cosí diretto e che non sembranotuttavia interessarvi. Le vostre ultime lettere sono tali dafar disperare chiunque si sia prefisso il vostro bene. Dalloro pettegolezzo si diffonde un profumo di cosí tenaceegoismo e di cosí cieco piacere nella propria vita esclusi-va, che mi è parso impossibile distrarvi un momento soloper indurvi a pensare, non dico ad altri, ma anche a voistessa. Non vedo perché mi scriviate di venire a trovarvi,cosa che non voglio fare, perché potrebbe portare una

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luce falsa su tutto quello che ho tentato per voi. E poi, ache scopo? Voi non sospettate nemmeno a quale rischiomi espongo per causa vostra. Ma preferisco che ne siateincosciente, perché se non foste cosí mettereste anche lamia carità a dura prova: forse non potrei perdonarvi diavermi scritto lettere di quella specie.

Pure, non ardirei di chiamarmi piú sacerdote, se il ri-conoscere le vostre cattive tendenze non aumentasse lamia smania di avvicinarmi e di sanarle. Vedervi cieca erenitente ai consigli non è un motivo di abbandonarvi avoi stessa, ma di soccorrervi con maggiore solerzia. Eccoperché sono ad assistervi, nonostante il giudizio severoche ho dato di voi. Questo giudizio non ve l’ho mai na-scosto, né ve l’ho attenuato. Vi ho visto una volta soltan-to, e quasi non vi conosco fuorché per alcune lettere chedicevano il falso. Ad esse ho risposto sempre con l’aspra,veemente franchezza che viene dalla carità, né ho maiscritto una riga se non per scoprire in voi gli eccessidell’amor proprio. Ora poi il mio giudizio è piú nettoche mai. L’imprevidenza di cui date una prova nelle vo-stre ultime lettere, quello strano distacco tra voi e la vo-stra sorte, sono cose non buone, perché segni di un ani-mo cosi occupato ad amarsi, che non si rende conto diciò che accade, e ne rimane disarmato.

Quell’amor proprio, cosí debole, cosí colpevole e vi-zioso, ha destato in me il sacerdote, che ha cura d’animein pericolo; ho sentito tale pietà che per salvarvi ho volu-to ricorrere a mezzi di cui avrebbe orrore chiunque man-casse di coraggio. Spero di avervi fatto piú bene che ma-le; voi mi avete fatto del bene. Questo forse dimostra chein voi non tutto è cattivo, e mi incoraggia a credere giu-sto il mio agire. Dio non può servirsi del diavolo, né puòfar nascere la virtú da un errore. La carità, nata per l’ani-ma vostra, estendendosi agli altri, e divenendo universa-le, mi ha condotto a comprendere e ad amare di piú, e adivenire insomma piú sacerdote. Basta che io vada per le

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vie della città, perché, anche davanti agli ignoti, io siapreso da un impeto di carità ben piú vasto di quello a cuiero avvezzo, quasi da una volontà di soccorso; da un ar-dente bisogno di assecondare e capire tutto ciò che vivenel mondo. Spesso, in quell’impeto, piango, ed un piantosegreto mi accompagna poi tutto il giorno, quasi un odo-re di lagrime e di pietà. Poi torno a voi, e tremo di averemancato di carità nel mio giudizio. Mi assale il dubbio dinon avervi capita, e cerco di capirvi intera. In questosforzo di capirvi e di salvarvi mi sono impegnato tutto,carità e intelligenza. Ecco i motivi pei quali vi ho fattofuggire. Credo di avere agito, non secondo la lettera, masecondo lo spirito della nostra legge d’amore; pure hodovuto rompere alcune regole, che anche voi conoscete;e non l’ho fatto senza ansietà e senza strazio. Questaspiegazione dovevo mettere in una lettera, anche se a voinon interessa, per la mia coscienza e la vostra.

Dal Vescovado di**, il 22 settembre 19**.

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LETTERA XXVII

Rita a don Paolo.

Mi condannate duramente; ma, per quanto guardi alpassato, non ne trovo il motivo. Dite che sono egoista;pure non ne vedo gli effetti, io che mi dolgo di aver sem-pre subìto l’egoismo degli altri. Tuttavia devo ammette-re che è giusta una vostra lagnanza. Nelle mie ultime let-tere ho mostrato di essere troppo, ingiustamente felice.Le ho scritte nel primo sollievo della liberazione, quan-do ogni moto dell’anima era volto solo a godere dellamia nuova vita. Ma voi avete ragione, anche questo re-spiro pieno di imprevidenza in me diventa peccato. Miavete richiamata in tempo ai pensieri piú gravi ai qualiavete diritto. Grazie ai vostri rimproveri ogni ebbrezza èfinita: io sono piú preoccupata di voi; io darei la mia vitaper liberarvi di parte delle immense noie che vi ha por-tato la vostra pietà per me. Ma vi prometto che miasterrò d’ora in poi dall’usare il mio tempo in pensieriinadatti alla mia triste condizione.

Da Porta**, il 23 settembre 19**.

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LETTERA XXVIII

Cesare Colla, chimico imbalsamatore, a Luigi Semin,commerciante.

Sono venuto ieri sera a cercarti per chiederti consiglionel piú grave fastidio che possa capitare a una personascrupolosa. Disgraziatamente ho trovato solo la tua ca-meriera, dalla quale ho saputo che eri partito da due oree che saresti tornato tra dieci giorni. Io non posso aspet-tare, perché vivo già sulle spine; temo di essere criticatose parlo, ma anche il silenzio può diventare una colpa. Ilmese scorso ero stato invitato a imbalsamare con il mionuovo metodo gli scarsi avanzi della Santa sepolta sottol’altare del Convento di**. Avevo promesso alle suore difinire il lavoro per la festa dell’Ordine, che doveva esserecelebrata solennemente, e nella quale una loro noviziadoveva pronunciare i voti. Perché guadagnassi tempo lesuore mi offrirono alloggio nell’alberghetto di campagnaa pochi passi dal convento, dove andai prima da solo.

Mi ero già messo all’opera quando la superiora midiede anche un’altra incombenza, quella di vestire la sal-ma di raso bianco, con un corpetto celeste, greche e ala-mari d’oro, secondo la moda ora invalsa. Era un lavoroper mia moglie, specializzata nel vestire alla medievale iSanti affidati a me, e cosí pratica che non vedo nessunoche potrebbe sostituirla. Insisto nel dirlo perché mi fuosservato con poco riguardo che la presenza di mia mo-glie lassú portava nelle spese un inutile aggravio. La seramia moglie e io restavamo nell’alberghetto, e posso dirti,benché questo non c’entri con l’argomento che mi tur-ba, che ho constatato quale intelligenza abbia il popoloe quanto colpevole sia rifiutarsi di coltivarla. La nostrapresenza bastava a smuovere quei cervelli da un’apatiasecolare. In pochi giorni eravamo riusciti a portare an-che i piú rozzi, che prima parlavano solo di mercati e di

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semine, agli stessi nostri discorsi. Si parlava a quel tem-po se fosse meglio lasciare alle salme dei Santi il loro te-schio scoperto, come io sosterrò sempre, o se sia meglioricoprirlo con un falso viso di cera, come purtroppo hadeciso l’Autorità. Credo che il teschio scoperto, nel suocrudo realismo, susciti piú potenti pensieri di devozio-ne, mentre il viso di cera attenua troppo la maestà dellamorte. Ma forse questo è il modo di giudicare delle per-sone come noi, e il popolo, che è sempre il popolo, vuo-le trovare anche in chiesa un briciolo di messa in scena.Conversando all’albergo udivamo parlare della noviziain procinto di monacarsi, che secondo una voce abba-stanza diffusa aveva manifestato alcuni dubbi sulla suavocazione. Mia moglie e io, quando andavamo al con-vento, ci sforzavamo di parlarle, ma la trovammo sem-pre altezzosa e chiusa. La settimana scorsa finimmo il la-voro e tornammo in città. Tre giorni fa, passando daPorta**, mia moglie vide alla finestra una ragazza che, aquanto mi ha assicurato, era certamente la Passi. Se neaccorse soltanto cinquanta metri piú in là, dopo aver ri-flettuto di chi fosse quel volto che non le sembrava nuo-vo; ma subito tornata indietro annotò il numero dellacasa in questione (146) da cui uscivano grida come didue donne in litigio. Ieri l’altro mattina, per maggioreprudenza, mia moglie salí al convento con la scusa di unpiccolo conto rimasto sospeso, e chiese alla superiora sela novizia fosse già monacata; ma una conversa le avevagià detto di no. La superiora raccontò confusamente chela ragazza si era messa a letto malata la vigilia della ceri-monia, ed era adesso a casa sua, per pochi giorni, finoalla guarigione. Mia moglie però s’informò e seppe chenessuno l’aveva veduta partire. Come puoi crederetornò eccitatissima e con l’assoluta certezza che la Passifosse fuggita. Dopo questa scoperta, incerti se denun-ciarla, e andare a rischio di rivelare uno scandalo che èmeglio tenere coperto, o tenere tutto per noi, e farsi

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complici forse di un rapimento, viviamo ambeduenell’angoscia. Io sono un uomo di studio e perdo i sonnisenza decidere nulla. Perciò ricorriamo a te che hai lamente piú pratica e ti preghiamo di avvertire il conven-to, o di tacere, come credi opportuno. Noi ci affidiamoal tuo buon senso.

Da casa, il 23 settembre 19**.

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LETTERA XXIX

Don Paolo a Rita.

Oggi è tornata la Zaira a portarmi una notizia che miha messo in agitazione, in quanto da essa risulta che vo-stra madre non capitolerà mai e vi colpirà ad ogni costo.

Stanca di attendere il vostro ritrovamento ha incarica-to la Zaira e quel Giacomo di mettere in giro la voce del-la vera ragione per cui siete andata in convento, per con-durre cosí la polizia a ricercarvi senza incorrere nellaodiosità di una denuncia.

Di fronte a tale notizia, e non volendo abbandonarvisola in questa sventura, vi invito a fuggire di nuovo inun’altra città. Oramai sono certo che per assistervi mi at-tende una vita d’affanno. Pure sono cosciente di esserecosí migliore: il cedere alla prepotenza non è né giustoné cristiano. Io vi ripeto che ho molta pietà per voi, e vo-glio condurvi a una vita in cui l’anima vostra trovi lapropria salvezza, ma la salvezza che le è adatta, secondol’indole che vi è stata data da Dio. E la mia pietà vi ricer-ca anche se siete renitente, diviene anzi maggiore, avidaquasi della vostra coscienza, ardente di un alto scopo,quello di farvi vivere secondo Dio ma anche secondo voistessa. Non è questo infatti lo scopo supremo della ca-rità? Verrò da voi domani nel pomeriggio a darvi le ulti-me istruzioni.

Dal Vescovado di**, il 24 settembre 19**.

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LETTERA XXX

Rita a don Paolo (a mano).

La vostra lettera mi lascia tutta stordita. Capisco quel-lo che ci minaccia ambedue. Ma il vostro invito mi hasconvolta, tanto che non posso rispondervi né con pienotrasporto, né con piena chiarezza.

Datemi il tempo di riavermi prima di mettere in ese-cuzione il progetto. Non venite da me oggi, ma domanil’altro. Non credo che mi troveranno in tempo cosí bre-ve. Fate cosí, per la carità che affermate: non ve ne faròpentire.

Da Porta**, il 25 settembre 19**.

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LETTERA XXXI

Rita a Michele Sacco.

Questa mia lettera affrettata vi darà molta meraviglia;non tenterò nemmeno di giustificarla; solo l’aiuto di Diomi può salvare dalla vostra condanna. Che cosa può in-fatti pensare un giovane di una ragazza, che gli scriveuna lettera senza mai avergli parlato, solamente perchés’è illusa che quel giovane la guardasse dalla finestra conl’innocente simpatia che lega i giovani tra loro? Ma ioche mi sento perduta, io che conosco solamente nemici,non posso fermarmi a riflettere; io devo aggrapparmi achiunque possa darmi un aiuto. Mi chiamo MargheritaPassi e sono peggio che sola. Mia madre, unica parenteche mi rimanga, mi cacciò fuori di casa a dodici anni co-me testimonia importuna della sua vita, per chiuderminel Collegio delle** a**. Quattro anni dopo si finsecambiata e mi fece tornare. Io le credetti e la amai tene-ramente: ma subito mi accorsi che voleva associarmi allesue pratiche viziose. Mi ribellai ed essa mi cacciò ancorae mi rimandò nel collegio. Si accordò poi con le suore ele incaricò di convincermi a prendere il velo anch’io, ap-profittando del mio scoraggiamento e facendomi inten-dere che non v’era altra scelta, perché nella mia casaavrei trovato solo umiliazioni e strettezze.

Divisa cosí tra il terrore del chiostro e quello della ca-sa, ormai prossima ai voti definitivi, mi apersi ad un sa-cerdote, Don Paolo Conti, segretario del Vescovo, per-ché mi consigliasse e facesse conoscere alle autoritàsuperiori un caso tanto disgraziato. Don Paolo Conti miconvinse a tacere e, un paio di giorni prima della mona-cazione, mi ordinò di fuggire e mi nascose nella casa ac-canto alla vostra sotto la guardia di una donna. Io l’ubbi-dii perché ritenevo che tutti i suoi consigli fossero direttial bene e perché pensavo a salvarmi dalla minaccia piú

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immediata. Ma appena cominciai a riavermi Don Paolomi fece conoscere per quale scopo si era occupato di mee oggi mi annuncia una sua visita in una lettera piena dilusinghe colpevoli che mi ha riempito di ribrezzo. Que-sta lettera poi finisce con una minaccia. Gli ho rispostopregandolo di aspettare due giorni ed ora vivo nell’ango-scia. Sono tenuta come una prigioniera, senza carta néinchiostro. Udendo uscire la donna che mi sorveglia so-no scesa in cucina, di dove scrivo queste righe, ma hotroppa paura che torni. Perciò non posso continuare.

Non so quale male tra i due mi ripugni di piú se cede-re al mio salvatore, o tornare al convento; trovo soprat-tutto inumana una simile scelta, non avendo commessoniente che meriti un castigo. Non voglio tornare al con-vento perché quelle donne e mia madre possono nuo-cermi anche in cento altri modi che non ho tempo dispiegarvi. L’unica mia speranza è di trovare una personache abbia compassione di me e che mi nasconda a tutti.Non oso chiedervi di essere quella persona; mi sono ri-volta a voi perché ho visto voi solo e perché il vostro vi-so mi è parso quello di un onesto. Fate soltanto quelloche vi suggeriscono Dio e la vostra coscienza. Se non vo-lete occuparvi di me non affacciatevi piú alla finestra; seaccettate, segnatemi un numero con le dita e sarà l’oradella notte in cui verrete alla mia porta. Io cercherò dimuovermi il meno possibile dalla finestra sul giardino.Ma fate presto, per pietà e non parlate.

Da Porta**, il 25 settembre 19**.

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LETTERA XXXII

Luigi Semin a madre Giulietta Noventa superiora delConvento delle** a**.

Il mio amico Cesare Colla, che ha lavorato per voi co-me imbalsamatore, mi fa sapere che sua moglie ha vedu-to, a una finestra della casa n. 146 a Porta**, in città,una ragazza che assomiglia alla vostra novizia Margheri-ta Passi; e molto incerto sul da farsi affida a me questainformazione.

Io la comunico a voi sola, per quanto possa interes-sarvi.

Da Milano, il 25 settembre 19**.

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LETTERA XXXIII

Madre Giulietta Noventa a Elisa Passi.

Stamane, proprio mentre stavo per scendere a buttar-mi ai piedi del Vescovo, sono stata avvertita che forseRita è nascosta a Porta** n. 146! Anche la sola speranzadi averla ritrovata mi ha riportato dalla morte alla vita!Speriamo che non sia una nuova delusione! Bisogneràora andare a cercarla e persuaderla a tornare con noi,prima che dilaghi uno scandalo nel quale anch’io sareitravolta, colpevole soltanto di un’eccessiva bontà.

Dal Convento delle** a**, il 26 settembre 19**.

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LETTERA XXXIV

Elisa Passi a madre Giulietta Noventa.

Ho incaricato Giacomo, il mio cameriere, l’unico ol-tre a noi due e alla Zaira che conosce certi episodi, discendere in città domattina per tempo e di riprendereRita, dovunque essa si trovi, sempre che si tratti di lei.Le farete capire che il restare presso di voi è ancora ciòche può fare di meglio.

Da casa, il 26 settembre 19**.

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LETTERA XXXV

Don Paolo a Rita.

I due giorni di attesa, che mi avete richiesto per sug-gerimento di Dio mosso a pietà di entrambi, mi hannofatto riflettere e ritornare sulle mie decisioni. Non verròpiú da voi domani nel pomeriggio, ma tra qualche minu-to, appena finito di scrivervi andrò dal Vescovo e rimet-terò in mano sua la penosa vicenda in cui la pietà mi hacondotto molto piú in là del giusto.

Non giudicate il mio riserbo superbia, né mancanzadi carità; non pensate che io voglia lasciarvi in pericolosola. Ma credo opportuno rimettere l’incombenza di as-sistervi ad altre persone piú adatte. Troverete tutti gliaiuti se potrete convincervi a confessarvi con schiettez-za, e vi prometto che non subirete nessuno dei danniche avete temuto. Come sacerdote però voglio farvi an-cora un invito. Lasciate il vanto e la compiacenza delmale. Ho riletto a una a una tutte le vostre lettere, anchequella a Don Scarpa, ed ho avuto conferma che eravatesempre cosciente della vostra malizia, che vantavate fin-gendo di giustificarla. Cercate di non farlo piú e di rag-giungere la semplicità vera. Il consigliarvelo è l’ultimoatto che io compio a vostro vantaggio.

Dal Vescovado, il 26 settembre 19**.

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LETTERA XXXVI

Michele Sacco a Guido Trevisani, suo amico.

T’invio un ritaglio di giornale, nel quale troverai lastoria di quella Margherita Passi, del cui delitto mi haichiesto notizia. Purtroppo è vero che il grave fatto è ac-caduto presso una nostra inquilina; dal giornale vedraiche anch’io vi ho avuto una parte.

Il giornale però tace alcuni episodi, non dei meno im-portanti, che ti voglio narrare. La nostra casa, come ri-cordi, fa angolo con una molto piú modesta, pure di no-stra proprietà ed affittata a certa vedova Zorzi. La seradel 24 settembre ero sceso nel guardaroba a far stirareuna camicia di cui avevo urgente bisogno, Nell’attesauscii in giardino, sul quale s’aprono i servizi, per osserva-re nella piccola serra appena fuori dell’uscio alcune pian-te di vaniglia a cui mia madre tiene molto. Alzando il ca-po, scorsi il viso di una ragazza alla finestra, della casavicina. Stupito di quella presenza (la vedova Zorzi passa-va per una donna senza amici) salii in camera mia e an-ch’io mi affacciai alla finestra, per vedere la nuova venutapiú da vicino. Mentre guardavo, la ragazza mi scorse; iosalutai, per atto di educazione; subito essa mi rispose. Ilgiorno dopo la vidi altre due volte, e la seconda, non ri-spondendo al saluto, mi fece segno di andarmene, congesti disperati coi quali pareva accennare a un pericolograve; vedendo che non capivo, mi fece poi un altro se-gno, quasi per dire: aspetta, ti spiegherò. Infatti la matti-na dopo mi arrivò la sua lettera, che il giornale riassume;ignoro come sia riuscita ad impostarla.

Il mio primo impulso fu quello di consegnarla a miamadre perché sapesse a che razza di gente avevamo af-fittato la casa vicino alla nostra. Ma poi riflettei che lalettera poteva, per quanto assurda, contenere una mini-ma parte di verità, e perciò il mio dovere sarebbe stato

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di portarla in questura. Non lo feci purtroppo per la ri-pugnanza agli intrighi, e anche perché temevo di diven-tare ridicolo, se fosse poi risultato che si trattava di unoscherzo. Infine, riflettendo ancora pensai che nulla pote-va accadere di male se avessi dato un minuto d’ascolto auna ragazza che aveva chiesto il mio aiuto, non certo,come puoi credere, per fuggire con lei, ma solamenteper sapere la verità, ed informare la questura se fossestato necessario. La rividi e, sempre coi segni, fissai unconvegno nell’ora voluta da lei, e cioè alle cinque delmattino. Seppi piú tardi che essa aveva creduto che an-dassi da lei per rapirla: ma io ero molto lontano daun’intenzione cosí pazza.

La mattina seguente uscii di casa con pochi minuti dianticipo; decisi di impiegarli in una breve passeggiata. Ilsole era già sorto, le strade erano deserte. Mi allontanaiduecento o trecento metri , poi dovetti tornare. Nonpresi la via principale, ma quella specie di sentiero che,sebbene il quartiere sia ben dentro in città, ricorda itempi ormai lontani in cui non v’erano che orti, che se-guono il rovescio di due file di case. Mentre camminavolentissimo per giungere a tempo giusto, fui sorpassatoda una coppia di preti, che mi parve strana a quell’ora, eche mi indusse inconsciamente a affrettarmi. Uscimmoinsieme dal sentiero, che sbocca quasi davanti alla casadella vedova Zorzi; fui stupito vedendone aperta a mez-zo la porta, presso la quale doveva avvenire il colloquio;e mi parve che i due restassero pure interdetti per il me-desimo motivo. In quel momento nella casa, e nel silen-zio mattutino, suonò un colpo d’arma da fuoco.

Traversata la strada, entrammo tutti, corremmo su perle scale, vedemmo un uscio spalancato, e su quello unadonna anziana che guardava dentro e che conobbi per lavedova Zorzi. La gettammo da parte e ci trovammo inuna stanza: un vecchio era steso a terra. Quello che vidipoi mi è rimasto impresso e non potrò scordarlo fintanto

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che vivo. Appoggiata di schiena al davanzale della fine-stra già aperta, gli occhi duri ed immobili, quasi che nonsi accorgesse nemmeno del nostro arrivo, la ragazzaguardava in alto ed in disparte: credetti che fosse strabi-ca; ma il suo era un male ben peggiore. I capelli neri, unpo’ piatti, con riflessi rossastri, pesavano scarmigliati sulsuo volto paffuto. La contemplammo un attimo con or-rore. Notai il vestito, lungo, accollato, antiquato, che nonsembrava appartenerle. Prima che riuscissimo a muover-ci, gli occhi le si riempirono lentamente di lagrime, manon perdevano perciò la loro durezza, né parevano usci-re da quella loro distrazione caparbia. Credendo che lesue lagrime fossero un primo indizio di intenerimento,uno dei sacerdoti si provò a avvicinarla.

«Rita» le disse «siate buona, venite, noi siamo inviatidal Vescovo...»

Allora si volse, furente: gli occhi le si dilatarono, letraboccarono di luce; sprizzava dalla sua rabbia la vita-lità di un’ossessa.

«La volete finire» gridava «lasciatemi in pace, io vo-glio vivere sola per conto mio...»

In quell’attimo entrò gente del vicinato. Meno ester-refatti di noi, alcuni corsero alla vittima, che però era giàmorta. Come leggerai nel ritaglio, si trattava di un came-riere, un certo Giacomo, che la madre aveva inviato perriportare la ragazza in convento. Altri si occuparono in-vece dell’assassina, che tentò di ribellarsi, ma con nostrostupore fu trovata senz’arma. Si seppe poi che appenacommesso il delitto, l’aveva gettata in giardino dalla fi-nestra aperta. Notai che il suo corpo era affetto di unarigidezza curiosa; si muoveva a fatica; fu distesa sul lettocome un pezzo di legno. Quando le guardie giunsero adarrestarla, era disfatta, piangeva, diceva d’essere rovina-ta per colpa di sua madre e di altri, si definiva una vitti-ma dell’egoismo e dell’odio. Il processo purtroppo nonpotrà svolgersi nella nostra città, perché non vi sono le

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Assise, ma credo che molti andranno a** in quei giorni,senza contare alcuni che, come me, saranno costretti aapparire sul banco dei testimoni.

Da Porta**, il 5 ottobre 19**.

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LETTERA XXXVII

Don Camillo Molin, del Duomo di**, a don Carlo Ri-vello.

Mi onoro di dirvi che, come mi avete chiesto, ho assi-stito al processo della ragazza nelle cui traversie è statocoinvolto il vostro scolaro Don Paolo Conti che è stataportata alle Assise di qui. Solo domani si avrà la sentenzaed in tale occasione vi scriverò un’altra volta. Posso dirviperò che il vostro nome non è stato mai pronunciato du-rante l’esame dei testi, né durante le arringhe. Il processointeressa molto per la sua stranezza e perché tutti diconoche non si è mai veduto un caso piú contraddittorio.Compiango il giudice che emetterà la sentenza; non haun compito facile, tanto gli eventi che dovrà giudicaresembrano frammentari, confusi ed insensati.

L’agire poi della ragazza, che punto per punto dimostraquasi un eccesso di acume, nell’insieme è da pazza. Tuttiprevedono che essa avrà una condanna, non però rilevan-te al paragone del delitto, al massimo cinque o sei anni.

La ragione evidente di questa benignità è che essa de-sta simpatia e compassione, sebbene dalla lettura dellesue lettere non se ne capisca il perché. Rita assiste alprocesso con il volto atteggiato ad una grande serietà,che ognuno direbbe sincera; niente di capriccioso, nien-te di troppo vivace, e quasi un ritegno soverchio. L’uni-ca sua pecca esterna senza la quale otterrebbe anche dipiú nell’animo di chi la giudica, è che rimane come as-sente, non senza un’ombra di alterigia, quasi che l’inter-rogarla sia una violenza e un abuso.

Ieri dopo l’udienza sono andato a parlarle ed ho avutoda lei un’accoglienza civile sebbene i suoi discorsi fosse-ro strani. Non sente nessun rimorso, perché ritiene diaver sempre lottato per sua legittima difesa. Non credeperciò nel castigo, è sicura di essere assolta e d’iniziare,

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appena finito il processo, la vita libera e felice per cui si ètanto dibattuta. Ha poi una fiducia infantile che qualcu-no saprà evitarle ogni male, non si capisce se un uomo ola Provvidenza, e insomma dorme i suoi sonni tranquilli.

Il primo giorno è stato tutto esaurito nelle formalitàd’uso e nella lunga lettura delle lettere scritte da Rita aDon Paolo, a Don Scarpa e a qualche altra persona. Ritaha poi ammesso che anche una lettera anonima, in cui sispiegava il suo caso al Vescovo di**, era stata scritta dalei; questo però non le sembrava una colpa, giacché nonle avevano dato un mezzo piú onesto e efficace per evitarela rovina. Di fronte alla ripetuta asserzione, che ogni sualettera era interamente sincera, il giudice ha fatto leggerele due in cui tentava di tenere lontano il disgraziato DonPaolo e poi di servirsi di un povero giovane per un’altrafuga. Rita ha riconosciuto che in tali lettere aveva infinementito, la prima volta, ma solo perché esasperata. Anchequelle bugie, ha aggiunto erano mosse da un giusto e irre-frenabile bisogno di salvarsi. «Non sarà nemmeno per-messo» ha detto infine con durezza «a una bestia cacciatadi cercare una strada, come può, per fuggire?»

Nell’udienza di oggi si sono uditi i testimoni, le cui de-posizioni, eccetto le due piú notevoli, metto qui alla rinfu-sa, perché mancanti d’interesse. La contessa Verdi, adesempio, ha detto che la parte dell’imputata nella mortedel figlio le era rimasta sconosciuta fino alle ultime vicen-de. Aveva sentito, a quei tempi, molta simpatia per essa,non chiedeva vendetta per un’azione trascorsa oramai datanti anni, durante i quali era stata ignorata, forse per vo-lere di Dio, a cui non intendeva sostituirsi in nessun mo-do. Si è vista una cameriera dei Passi, quella Zaira che haavuto una parte non bella nel corso di questa faccenda.Sono poi comparsi Don Scarpa, il giovane Michele Sacco,la vedova Zorzi ed altri, che hanno detto cose già note.Una testimonia che avrebbe potuto essere importante, mache è apparsa senza interesse per la sua mediocrità, è stata

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la ex-superiora del Convento di**, ora in attesa di una in-chiesta. In sostanza ha deposto che nella lontana mattinain cui aveva visto arrivare la madre e la figlia stravolte,non aveva saputo rifiutarsi alla supplica di salvare quellaragazza dalle conseguenze di un atto che le sembrava in-volontario. Molti anni piú tardi, senza avvertirla di nulla,la Passi aveva iniziato una pratica per andare via dal con-vento. Istruita di questo ed avendo udito la madre minac-ciare lo scandalo, a rischio d’esservi coinvolta, se Rita fos-se ritornata, si era lasciata prendere dalla paura chevenisse scoperta la propria condiscendenza. Non avevaperò mai minacciato Rita, né aveva fatto violenza alla suavolontà, solo cercava di esporle con molto affetto le ragio-ni per cui non le conveniva di perdere la sua piú sicura di-fesa contro il mondo e contro se stessa. La cosa piú stranapoi, ha soggiunto la teste, è che Rita non si era mai spintaa dichiararle apertamente di volersene andare, anzi sem-brava premurosa di cedere alla piú piccola pressione.

Questa deposizione ha perso però di valore, perché siè constatato che la teste era una succube della madre diRita, la cui azione decisa trovava al proprio servizio unapietà troppo debole, una eccessiva ripugnanza allo scan-dalo, uno spavento di fare del male a qualcuno e, piútardi, anche a se stessa, in madre Giulietta Noventa.Tanto che l’attenzione si è ravvivata sulla madre, appenaè apparsa per deporre. Pure senza lasciarmi andare a so-verchia indulgenza, come la maggior parte dei presential processo, devo anch’io dirvi a parziale giustificazionedi Rita, che le parole di sua madre erano piene di veroodio per lei. «Mia figlia» essa ha deposto «si mostròsempre avversa e spietata con me. Quando la sua catti-veria si spinse fino all’assassinio, mi adattai a tacere amio rischio, a patto però che restasse chiusa in conventoper sempre. Poi Rita mancò al nostro patto, senza ragio-ne e nella maniera piú subdola, intrigando in segreto.Tentai allora di oppormi per diverse ragioni. I fatti ave-

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vano dimostrato che Rita era una pazza da tenere rin-chiusa. Inoltre avevo molta paura di lei; la giustizia infi-ne esigeva per un delitto d’assassinio almeno la mite edonorata prigionia del convento. A voi tocca dire se i fattiaccaduti piú tardi, e specialmente quello per cui siamoqui, abbiano o no dimostrato che giudicavo rettamente.Ai tentativi poco onesti di Rita, io m’ero opposta minac-ciando uno scandalo. Non toccava a me precisare se poil’avrei fatto davvero, perché, se Rita voleva lasciare ilconvento, doveva accettare il rischio con lo stesso corag-gio col quale aveva assassinato».

A questo punto, licenziata la madre, il giudice hachiamato Rita, che si è alzata tranquilla, serena e senzapiú traccia dell’eccessivo riserbo in lei consueto. Convoce priva di sbalzi, Rita ha difeso il suo agire, negandodi avere un’indole menzognera e egoista, che sarebbe incontrasto con la sua inclinazione ad una vita naturale etranquilla. La morte di Giuliano Verdi era avvenuta fuo-ri della sua volontà; quella del servitore, per sua giustadifesa contro un tentativo odioso di riportarla a una vitadi sofferenza. Il giorno della sua fuga, essa ha narrato,era entrata un istante, e di nascosto, in casa sua, per ra-dunare nel profondo dell’animo tutti i suoi piú cari ri-cordi prima di lasciarli per sempre. Si era ricordata allo-ra anche di una rivoltella che Giacomo, il cameriere,teneva in un certo cassetto, e aveva pensato di prenderlaseco per ogni evenienza. Nessuno se n’era accorto; e co-si s’era procurata quell’arma che, dopo avere sparato,aveva gettato in giardino dalla finestra alle sue spalle.

«Come mai» ha chiesto il giudice «v’è sorta cosí d’im-provviso la ripugnanza pel convento, se fino allora ave-vate mostrato il desiderio di restarvi?»

«Forse» ha risposto Rita «sentivo anche prima d’allo-ra la stessa ripugnanza, e non mi ero mai veramente im-pegnata a restare. Anzi, ora che vi ripenso, non ho maiimmaginato di trascorrere tutta la mia vita là dentro. Ma

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io per mia indole non vado in fondo alle cose, e spessomi lascio vivere, anche perché sono un po’ pigra».

«E perché» ha chiesto il giudice «quando piú tardiavete veduto piú chiaro, avete cercato d’andarvene me-diante pratiche inefficaci e tortuose? Non vi rendeteconto che vi siete agitata per un pericolo in gran partefittizio? E che con un po’ di franchezza, ricorrendo a chitocca, potevate tornare a casa vostra senza danno?»

«Mia madre» ha risposto Rita «mi aveva fatto minac-ce tra le piú gravi. A quanto mi faceva dire, nessunoavrebbe creduto la mia versione dell’incidente nel qualeera morto Giuliano, che anch’essa stimava bugiarda.Sentivo poi un vero affetto per la madre superiora, e miripugnava l’idea di contraddirla apertamente. Perciòpreferivo molto veder agire gente piú illuminata, la-sciando intatti tutti i miei sentimenti ed un buon ricordoagli amici. Non calcolavo l’effetto delle mie lettere; sup-ponevo soltanto che ne avessero uno; avevo una grandefiducia che ne nascesse qualcosa di buono per me».

L’accusa nella sua arringa ha insistito sopra le lettere,sostenendo che in esse Rita non aveva scopo, tranne unainsensata e frenetica esibizione delle proprie ignominie,propria dei criminali.

La difesa ha cercato di sostenere che Rita è una squili-brata e dovrebbe essere posta in una casa di cura. E cosíè finita l’udienza. Mi avete chiesto quale sia il mio giudi-zio sulla giovane Passi ed io ve lo scrivo sincero. La cre-do buona e docile in superficie; proprio per questo misembra però irriducibile, ribelle ad ogni redenzione, as-solutamente dannata. È una di quelle persone che fannoquello che vogliono, senza averne coscienza. Mutarla ècome persuadere una pianta a crescere diversamente.

Scusate la forma dimessa con cui vi ho dato questeinformazioni, ma l’ora è già tarda e vorrei che la mia let-tera vi giungesse domani.

Da**, il 22 novembre 19**.

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LETTERA XXXVIII

Madre Giulietta Noventa a don Giuseppe Scarpa.

Vi scrivo per chiedervi scusa di un’altra lettera che for-se ha contribuito alle sventure che ci hanno colpito tutti,e probabilmente anche voi! E poi ho bisogno di aprire ilmio animo amareggiato dai giudizi severi, inesorabili, pri-vi di carità, di tutti quelli che mi stanno intorno. Mi ripu-gnerebbe pensare che voi li condividiate... Io sconto lamia debolezza e aspetto con rassegnazione il castigo cheormai sentivo arrivare da anni, ma ho delle attenuanti. Viprego di ascoltarle, benché questo non possa modificarela mia sorte, come ricevereste lo sfogo di una anima inpena... Prima di tutto vi giuro che mai la nostra Rita midisse francamente che voleva andar via... Disse sempre ilcontrario e, ogni volta che l’interrogavo, mi assicuravapiangendo che voleva stare con me. Cosí dopo la primalettera che scrisse a voi, cosí nei giorni dell’inchiesta delVescovo, cosí mentre scriveva le lettere a quel Don Pao-lo... Quando sua madre veniva da me e denunciarmi imaneggi di Rita per uscire di qui, Rita negava o diceva diavere obbedito solo a un impulso passeggero e sbagliato.C’era un tale contrasto fra il suo modo di agire, che cono-scevo solo in piccola parte, e le espressioni con me, chenon è da stupirsi se ero disorientata!

Ma mi dispiace soprattutto che siano state interpreta-te a rovescio le ragioni morali del mio comportamento.Pensate voi che cosa è avvenuto in me, il giorno che lamadre di quella ragazza, che era una mia ragazza, e a cuivolevo tanto bene, si è presentata nel mio studio, perdirmi che Rita aveva peccato, si era macchiata di unacolpa gravissima, e se io rifiutavo di prenderla con meper sempre, l’avrebbe fatta cacciare in prigione. Fui de-bole, l’ammetto, ma solo per salvare Rita, convinta poiche sarebbe stato per poco, e che sua madre, tornando

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ad amarla, l’avrebbe ripresa a casa... E invece, sempre,fino all’ultimo giorno, la madre mi comunicava che eradisposta a rovinare anche se stessa, se Rita tornava nelmondo... Mi ripugnava rovinare Rita, sua madre, me, laComunità, suscitare uno scandalo, provocare uno sface-lo come non si era mai visto da queste parti. Io ho vissu-to anni di angoscia, dopo quella mattina! E per di piúero convinta che Rita, col suo carattere esaltato, sarebbecorsa alla propria disgrazia, quando fosse stata nel mon-do. Trattenerla in convento era averne pietà... Quantealtre cose avrei da dire... So che ho mancato di coraggio,che dovevo affrontare lo scandalo e il castigo, consultar-mi con chi è piú addentro di me in queste cose straordi-narie e soprattutto rimettermi a Dio. Ma quello che hofatto l’ho fatto perché amo la ragazza, e avrei voluto sal-varla, ed evitare che il male apparisse a tutti... Dio non ciordina solo di essere santi, ma anche di assistere chi ci èstato affidato, ed a noi specialmente, che siamo donnebenché donne di Dio... Con questa regola sono semprevissuta, nel nostro piccolo convento, tra gente umile, traavvenimenti comuni; ma quando ho dovuto applicarla acose tanto gravi e inaspettate, ho perduto la testa... Do-vevo ricorrere ad altri, e per esempio a voi... Scusatequesta mia lettera, ma oggi si accaniscono tutti ad accu-sarmi con le invenzioni piú orrende... Volesse Dio che ilnostro proposito di essere veritieri, e quello di esserepietosi e caritatevoli, non fossero mai in contrasto... Maquesto forse avviene soltanto in Lui.

Dal Convento delle**, il 1° dicembre 19**.

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LETTERA XXXIX

Don Paolo a don Carlo Rivello.

Il pensiero di essere partito da** senza un avviso avoi, senza un saluto, senza domandarvi perdono, mi tor-menta e inasprisce quello di avere commesso altri pecca-ti ben piú gravi. Io sono stato vile ancora una volta. Do-po avere respinto il vostro affettuoso intervento, chepoteva salvarmi, non ho avuto il coraggio di farmi vede-re da voi. Non osavo venire a piangere la mia rovina conchi l’aveva non soltanto prevista, ma mi aveva anche of-ferto i mezzi per evitarla. La vergogna ed il panico si so-no aggravati piú tardi, man mano che andavo in fondoalla coscienza del mio stato. Solo per questo non vi hoscritto una riga. Posso farlo ora che ho cominciato a cal-marmi e ho ritrovato, non certamente la pace, ma la for-za di esaminarmi.

Mentre vi scrivo questa lettera fredda, nella mia fanta-sia piango e singhiozzo al vostri piedi e mi confesso constrazio. Ma a che servirebbe mostrarvelo? È forse megliochiedere il vostro aiuto nel mettere ordine tra i miei af-fannosi pensieri. Le nostre meditazioni si svolgono sem-pre davanti a una presenza confusa che è quella stessa diDio. Ma nel calore del dibattito interno essa si veste dellafigura di un uomo che è quasi sempre l’uomo che noi ri-veriamo nella vita per maestro. Cosí da parecchio tempoio vi parlo della mia mente, e voi mi date o mi negate l’as-senso. Non potrei scegliere un testimonio piú degno.

Se ripenso a quei giorni. mi fa soprattutto orrore ilpresuntuoso sentimento di elevazione che provavo nellamia colpa. Vedo ora che lo sfacelo morale si accompa-gna in noi quasi sempre con l’illusione di elevarsi. Mal’illusione in me derivava da un’altra causa di peccatopiú grave, la ripugnanza di veder chiaro in me stesso.Purtroppo v’era tra me e quella novizia un’affinità di ca-

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rattere, che rendeva piú irosa la mia condanna, piú tor-bido il mio sentimento. Confessato il mio vizio, non do-vrei altro che piangere, tanto è il male che ho fatto e ilmale che ho provocato. Pure, ho bisogno di meditarecon voi. Anche questo bisogno forse è intinto d’orgo-glio, e mi occorre una parola chiara, anche dura. Io vo-glio dirvi che rifletto talvolta se quel mio vizio, simile adun ramo putrido di un albero rigoglioso, non venga dalmodo piú giusto di sentire la vita; tanto che ora, avendoguardato piú dentro, possa trarre del bene dalla stessadisposizione che mi ha condotto tanto in basso. È forsevero che la religione cattolica produce talvolta il malenelle anime meno agguerrite proprio per certe qualitàpiú sublimi, che nelle anime forti sono cagione di vitto-ria. Questa religione si sforza di mantenersi nella zonamista ed oscura in cui germogliano sentimenti e passio-ni, cercando di porvi equilibrio, regola, legge, medicina,pietà. Essa non vuole uccidere niente che vive in noi, malo mantiene, risana e lo rende santo. Cosí ci insegna lapiú ardua diplomazia, che solamente lo stolto chiamadoppiezza: la diplomazia solitaria che dobbiamo averein noi stessi, nella pietà del nostro cuore. Per essa odia-mo l’empia chiarezza assoluta ed il costume di viverenudi e sfacciati in compagnia di noi stessi; grazie ad essacuriamo e mutiamo i vizi in virtú: la sensualità è matri-monio, la pigrizia è costanza, la superbia è rinuncia, edogni battito del cuore pretende una vita eterna.

La consuetudine di mantenere sempre commisti lavolontà di essere santi con ogni moto sorto dentro dinoi, forse è la causa del maggiore miracolo che nascedalla nostra fede: che i nostri affetti diventano subitoeterni e non si possono né sciogliere né dimenticare: e apoco a poco, proseguendo la vita, ci chiudiamo in unmondo tenero e insieme assoluto, che non è ancoraquello dell’aldilà ma ne ha già tutte le sembianze. Per-ché siamo avvezzi a condurre in una seconda vita l’ami-

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cizia, l’amore, gli uomini e le cose care, i medesimi affet-ti che proviamo quaggiú fanno anche parte in un mondosacramentale, in cui vivendo cominciamo a morire , e incui la morte giungerà inavvertita nel consueto passaggiodel tempo. Grazie ad esso i piú deboli trovano spessosalvezza, e questo è accaduto anche a me che, avendodeciso la fuga, ho visto levarsi davanti tutti gli affettipresenti, tutti i ricordi del passato, che non potevo ab-bandonare. I vivi e prossimi, i morti, i lontani, gli intimie i quasi sconosciuti, e anche i luoghi e le cose, i mobilidella mia cella, il corridoio, la piazza davanti al Duomo,tutto aveva un diritto immortale su me, solo perché unattimo l’avevo amato, e tutto insieme prendeva un colo-re di affetto, un rilievo d’eterno, che mi ha costretto a ri-manere. Cosí se anche l’intelletto decide e quasi esegui-sce la fuga, il cuore rimane fermo in quel mondoimmortale e ci arresta ogni volta mentre noi stiamo perconsegnarci alla vita. La nostra fede dunque può anchevantarsi di una sublime incoerenza tra il cuore e l’intel-letto, che talvolta dà la salvezza. Questo è l’effetto diuna meditazione, che in me si alterna al rimorso e all’af-fanno, ma che ho voluto esporvi con qualche chiarezza,sperando nel vostro consiglio.

Dal Convento di** in Sicilia, il 15 dicembre 19**.

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LETTERA XL

Rita a sua madre.

Forse ti hanno informata che il tribunale ha respintoil ricorso e ha mantenuta intera la mia condanna. Sonogià passati otto giorni da quando ho avuto questa cattivanotizia; solo oggi adempio una decisione di scriverti cheavevo preso da un pezzo. Ho voluto che questa mia let-tera si maturasse quasi inconsciamente e che si calmassedel tutto nella mia anima il moto di ribellione controuna condanna cosí inesorabile e dura. Ora sono tran-quilla e indifferente al pensiero che sarò costretta a pas-sare in questa prigione qualche anno. Ma un altro pen-siero continua a torturarmi: quello che tu sia contenta disapermi lontana da te, forse per sempre. Ti devo scrive-re soprattutto per dirti che io ricordo senz’odio chi miha fatto del male. Ti supplico, non irritarti se ti scrivoqueste parole che non ti vogliono umiliare. Mi sono ve-nute dall’anima che desidera solo cancellare ogni inimi-cizia tra noi. Anche questo paesaggio, che ho veduto so-lo un istante, ma che si è steso oramai nella mia mente,mi aiuta a pensare cosí. Da quando mi hanno accompa-gnata quaggiú, dopo respinto il ricorso, ho chiesto in-cessantemente di vedere il nuovo paese nel quale avreidovuto passare qualche anno; non conoscendolo prova-vo un senso di vuoto. Il cappellano ieri ha potuto con-durmi un minuto nella sua stanza, di dove mi sono affac-ciata, subito dopo il tramonto, sulla pianura coperta dineve. I filari di pioppi dividevano i campi quasi in unnumero infinito di stanze chiuse da una nebbia azzurri-na; e il paese aveva cosí la intimità di una casa e insiemeuna sconfinata mollezza. Non ero nata per lottare, maper essere simile a uno dei fiocchi di neve, che esconodalla nebbia, cadono e si disfanno in un qualsiasi puntodi questi prati. Io ti chiedo la pace perché cedo a un bi-

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sogno, ma non a un bisogno di oggi. Io so di averti sem-pre amata. In fondo alla mia anima ho sempre avuto unpaesaggio simile a questo, sul quale, fuori dagli egoismie dagli odi, amavo una tua figura, già divenuta immagi-nazione e ricordo. E anche quand’ero costretta a lottarecon te, da quel fondo di quiete si distaccavano ricordisereni, nei quali ti accarezzavo, e che riempivano la miaavversione apparente di rimorso e di dubbio. Accadecosí coi morti. Ora quale ragione ho piú di lottare conte? Quale interesse, quale egoismo mi resta? Oramaiconservo soltanto quel caro affetto, parte della mia vita,che ho portato sempre in me stessa, come se tu fossi giàmorta in una parte del mio cuore. La casa vent’anni faodorava sempre di forno; ma quest’odore, salendo lescale, si mescolava con un altro di fresie che scendevadalla tua stanza. Ecco ancora oggi l’odore del mio passa-to, l’odore di questa cella.

Tu sai che, lasciando il convento, penetrai di nascostonella mia vecchia casa. Ma l’emozione di vedere i luoghiche amavo era contaminata dall’ansietà della fuga. Ades-so rinasce sola, e rivedo la nebbia bianca nella valletta, ilciliegio che appena cominciava a mettere ombra. Ed an-che tu dormivi nella tua stanza. Perché non ci siamo in-tese? Perché ci siamo fatte del male a vicenda? Maledet-ti gli amori che impediscono a due di riposare nellaaffinità degli affetti.

Ti dico che ti ho sempre amata, anche quand’erobambina. Ricordo un fatto che tu certo non sai, e che èaccaduto un pomeriggio d’inverno. Aveva appena finitodi nevicare. Io scesi nel nostro giardino guardando conmeraviglia le mie peste apparire sulla neve pulita. Nonsentivo piú il freddo tanta l’intimità; vedevo la torrettache luccicava con i suoi mattoni bagnati; da una fine-stra, che si aprí per un istante, uscí un suono di voci. Miappoggiai alla ringhiera, e subito me ne ritrassi, urtatadalla sensazione sgradevole del ferro bagnato e freddo;

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ma presto vi ritornai, quasi cercando il gusto del lievefastidio. La pianura ai miei piedi era coperta di neve, e ifilari dei gelsi, leggeri come la piuma, apparivano quasiin una fosforescenza. La neve riprese a cadere in quelbaratro d’aria. Cadeva turbinando, ma in mezzo al tur-bine io riuscivo a distinguere sacche d’aria tranquilla,dove i fiocchi calavano con innaturale lentezza. lo li se-guivo giú giú fino al piano, da cui, mista alla neve, co-minciò a venire una nebbia, che assorbiva anche me. Al-lora ritornai a casa, salii le scale e giunsi fino alla sogliadella tua camera da letto. L’uscio era aperto e tu ti guar-davi allo specchio, indossando un abito rosa del qualeaggiustavi le pieghe e le ampie maniche simili alle ali flo-sce. Forse non eri contenta, perché ti volgevi a metà, osollevavi un braccio con l’ala pendente poi l’abbando-navi pentita e ti guardavi scoraggiata. A me il tuo parveun graziosissimo ballo, sotto la luce del tuo volto gentileraccolto in quel rosa di fiore.

Questo momento è ancora con te nel mio cuore, in-sieme con esso mille altri, che tornano nella mia mente.Perché abbiamo voluto farci male a vicenda se c’era tranoi quel seguito d’atti d’amore segreti? Talvolta pensoche anche l’occasione di amarci sia finita per sempre, eallora provo rimpianto ed esasperazione; talvolta invecemi sembra d’essere in tempo. Ora so il mio difetto, e vo-glio chiederne perdono anche a te. Il piacere che provonella mia vita è cosi intenso e tranquillo, che non vorreiessere turbata, né distaccarmene, per nessuna ragione.Forse per questo la prigione mi piace, e talvolta si illu-mina quasi di un lume solitario d’aurora. Perduta in essala necessità di combattere, posso vivere sempre nel giar-dino fiorito che cresce dentro di me, al quale tendo co-me alla mia vera natura. Io sono fatta per amare soltan-to; la piú profonda speranza della mia anima è semprestata di avere intorno i miei amici, godendo della comu-ne felicità in un’aria di pace. Qualche volta mi chiedo

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perché la mia vita sia giunta a un esito tanto diverso daquello che avevo pensato. Anche se nel futuro la miaaspirazione di pace non sarà mai avverata, e tu non misarai amica, ho voluto dirtela oggi, perché mi pesa chetu mi creda l’opposto di quello che sono in realtà; per-ché infine tu senta che la mia anima non è aspra ma dol-ce, amabile e non odiosa, fiorita e non deserta; tanto cheforse, se l’avessi capita, l’avresti amata anche tu.

Dalla prigione di**, il 2 gennaio 19**.

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LETTERA XLI

Don Carlo Rivello a don Camillo Molin.

Vi interesserà di sapere, dopo le affettuose cure pro-digate da voi per Rita Passi al processo, che sono riusci-to a convincere sua madre ad andare a trovarla nella pri-gione di** e a farle riconciliare. Ho faticato molto adavvicinarmi alla signora Elisa, che non riceveva nessunoe non tollerava da anni il volto di un estraneo; anche idomestici sono rimasti stupiti del successo della mia im-presa, che era fallita a parecchi altri sacerdoti di qui. IlSignore mi ha favorito facendo poi coincidere il mio in-tervento con una lettera di Rita alla madre, che l’ha mes-sa in agitazione e mi ha aiutato a persuaderla. L’ho ac-compagnata nella visita e benché, per discrezione, mi siatenuto in disparte, vi posso dire che Rita ha accolto suamadre con grande ansia, ingenuità e contentezza. L’ab-bracciò a lungo e poi ripeté molte volte, tenendole stret-ta una mano: «Dunque hai capito il mio affetto!»

Quest’incontro, che sembra aver sollevato la figlia, in-vece purtroppo ha aggravato la penitenza della madre.Da quando è tornata a casa si è acuito moltissimo un chedi stravolto e di strano di cui soffriva invecchiando. Giàda tempo, mi dicono, il dispiacere d’invecchiare era inlei tanto angoscioso, che assomigliava ad una malattia fi-sica; e tuttavia, con una contraddizione che mi risulta in-comprensibile, vestiva con trascuratezza, si lasciava in-canutire, non mostrava nessuna forza di resistenza.Dopo la sua visita a Rita si accelerò quel suo invecchia-mento precoce, disperato ed inerte. Si alzava poco dalletto, o solamente per rannicchiarsi in silenzio e infred-dolita su un divano; non seguiva i discorsi, nemmeno imiei se cercavo di rianimarla. Se apriva bocca piangevasopra se stessa, lamentando l’età, il fallimento della pro-pria esistenza, l’ostilità della sorte, la sua disgrazia di

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non avere trovato in tutta la vita un sostegno. Ieri, men-tre ero assente, si alzò d’un tratto e, senza nemmeno co-prirsi corse in giardino, si affacciò alla valletta e alla pia-nura sottostante, gridando: Rita! Rita! come se volessechiamare una persona in fondo valle. La sua camerieraZaira, che usciva di corsa a riprenderla e a portarle uncappotto, prima di poterla raggiungere la vide piegareda un lato e cadere a terra svenuta. Rinvenne subito maentrò in uno stato d’inerzia piú impressionante del soli-to, dal quale non può riaversi. Non parla, rifiuta d’alzar-si, non ascolta nessuno, e guarda soltanto in giro concerti occhi dolorosi e piangenti e la fronte piena di ru-ghe. Sono corso da lei ma non ho potuto far nulla. Il me-dico crede che questo sia l’ultimo e definitivo grado delmale che in lei progrediva da anni.

Sono molto turbato, e non so che pensare. Per unmomento, vedendone le conseguenze ho persino avutolo scrupolo che sia stato un errore condurla a vedere lafiglia; ma la coscienza mi ha subito tranquillizzato. Cer-to che in fondo all’anima mi resta una grande amarezza.Ecco due persone alle quali Dio aveva tolto ogni ostaco-lo perché potessero convivere affettuosamente ed esserefelici insieme. Il cieco e pazzo egoismo le ha invece tra-volte entrambe nella piú inutile e immotivata tragedia.

Dalla Parrocchia di**, il 20 gennaio 19**.

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LETTERA XLII

Padre Sebastiano Zotti, cappellano della prigione di**, adon Camillo Molin.

Ho una triste notizia da inviarvi in risposta alla vostraultima lettera. Rita è morta stamane per una polmonitedovuta al freddo intenso di questo inverno, dopo averescontato quasi un anno di pena. Ancora ieri ha doman-dato di voi. Da quando l’avete assistita nei giorni del suoprocesso, ambiva il vostro consiglio e la vostra stima, edogni giorno mi chiedeva di voi, sollecitandomi a scrivervie ad assicurarvi che la sua anima si era mutata in meglio.La visita della madre era stata infatti principio di un cam-biamento notevole, almeno apparente. Il contegno di Ri-ta sembrava quello di una persona appagata; la sua morteè stata tranquilla. Né la cella, né il male le hanno mutatoaspetto, ma è rimasta rosea e fiorente: e la febbre, se mai,le accentuava sul viso l’apparenza della salute.

So quanto vi stavano a cuore le sue condizioni morali,ma su queste, purtroppo, ho ben poco da dirvi. Il suocomportamento è stato quello di una prigioniera model-lo. Dopo una fase un po’ oscura, trascorsa nella febbredei suoi sentimenti, cadde in uno stato di inerzia, peròsereno, mai maligno. Sedeva dalla mattina alla sera, pen-sando molto e sorridendo. Gradiva anche le mie visite,che accoglieva con un sorriso. Pure, esaminandola me-glio, mi accorsi che era ancora inquieta. Non provavadolore di essere stata cagione di tante disgrazie. La suainquietudine dipendeva dalla paura che voi, io, tutti glialtri la giudicassero insensibile e ingrata e non capissimola sua profonda bontà. L’idea di essere giudicata cattivale dava un continuo rovello e il senso di un’ingiustizia,senza diventare però agitazione definita e tormento. Giàmolto vicina alla morte, gli occhi velati e il corpo intor-pidito, mi sussurrò: «Speriamo che Dio mi capisca».

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Ora posso dirvi che Rita è stata esattamente quello cheio mi aspettavo. Essa ha confermato del tutto l’opinionesu lei che mi avevate trasmessa. La sua scomparsa mi la-scia molto rimpianto, anche perché devo ammettere diessere stato incapace di riformare quello che in lei erapeggiore. Oggi ho riflettuto a lungo e ho constatato cheRita non era buona, sebbene simpatica a tutti. E per que-sto diciamo con speciale cordoglio: Dio ne abbia pietà!

Dalla prigione di**, il 16 dicembre 19**.

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