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«Italia Contemporanea» settembre 1980, n. 140 Guerra fredda e trasformazioni delie società occidentali nella storiografia americana Guerra fredda e sistema politico americano Qualche anno fa, neU’ambito di una riconsiderazione degli studi sulla guerra fred- da, curata da R.S. Kirkendall si delineava un’indicazione di ricerca suggestiva per l’intera «età di Truman». L’arco cronologico 1945-52 veniva caratterizzato dalla ricostruzione postbellica, dalla definizione di un assetto mondiale bipolare e dallo sviluppo della guerra fredda. L’attenzione convergeva sui moventi strutturali della politica estera americana, ma si estendeva ai riflessi provocati dalla guerra fred- da nei vari paesi, USA compresi. Ne scaturiva l’auspicio ad un sostanziale ampliamento dell’orizzonte d’indagine, ad una « seconda fase » degli studi, ri- spetto alla pur fertile stagione del dibattito «revisionista». Questa doveva es- sere fondata sull’analisi delle profonde trasformazioni nazionali ed internazionali del secondo dopoguerra « piuttosto che sulla celebrazione o sulla condanna » della politica estera e interna deH’Amministrazione Truman. H. Sitkoff, in un intervento stimolante proponeva un approccio all’intero periodo, maturo e poliedrico quale quello alfine prevalso negli studi sul New Deal e sugli anni ’30. Ricognizione dei mutamenti strutturali, di lungo periodo e circostanziate verifiche nella storia lo- cale, sul piano interno: nuova centralità dei soggetti sociali rispetto al quadro politico-diplomatico e analisi comparata nel contesto dell’occidente capitalistico, sul piano internazionale. Questi i paragrafi di un «piano di lavoro» su cui impe- gnare una storiografia che potesse realmente qualificarsi come « post revisionista » '. Muovendo dalla considerazione di quanto si è fatto in questa direzione la rassegna intende estrarre i contorni di un nuovo approccio agli anni 1945-1952 con parti- colare riferimento al problema dell’intervento statunitense in Europa. È implicito che da esso possano venire suggerimenti e stimoli per lo studio della stessa rico- struzione italiana. A rigor di cronaca l’importante « reappraisal » di Kirkendall era coevo all’acuirsi del dibattito sulla storiografia della New Left. L’intreccio tra impegno civile e ricerca scientifica sotteso ai più noti contributi « revisionisti » ritornava con segno opposto, ma con toni vieppiù concitati, nelle repliche degli autori « ortodossi » o,1 1 R.s. kirkendall (ed.), The Truman Period as a Research Field: A Reappraisal, 1972, Co- lumbia 1974, che include interventi di A. Hamby, B. Bernstein, L. Gardner e altri ricercatori maturatisi nel contesto della « Missouri School » di Kirkendall. Sulla storiografia del New Deal v. M. vaudagna , New Deal, in II Mondo Contemporaneo, Storia del Nord America, a cura di Pietro Bairati, Firenze 1978.

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« Italia Contem poranea» settembre 1980, n. 140

Guerra fredda e trasformazioni delie società occidentali nella storiografia americana

Guerra fredda e sistema politico americano

Qualche anno fa, neU’ambito di una riconsiderazione degli studi sulla guerra fred­da, curata da R.S. Kirkendall si delineava un’indicazione di ricerca suggestiva per l’intera «età di Truman». L’arco cronologico 1945-52 veniva caratterizzato dalla ricostruzione postbellica, dalla definizione di un assetto mondiale bipolare e dallo sviluppo della guerra fredda. L’attenzione convergeva sui moventi strutturali della politica estera americana, ma si estendeva ai riflessi provocati dalla guerra fred­da nei vari paesi, USA compresi. Ne scaturiva l’auspicio ad un sostanziale ampliamento dell’orizzonte d’indagine, ad una « seconda fase » degli studi, ri­spetto alla pur fertile stagione del dibattito «revisionista». Questa doveva es­sere fondata sull’analisi delle profonde trasformazioni nazionali ed internazionali del secondo dopoguerra « piuttosto che sulla celebrazione o sulla condanna » della politica estera e interna deH’Amministrazione Truman. H. Sitkoff, in un intervento stimolante proponeva un approccio all’intero periodo, maturo e poliedrico quale quello alfine prevalso negli studi sul New Deal e sugli anni ’30. Ricognizione dei mutamenti strutturali, di lungo periodo e circostanziate verifiche nella storia lo­cale, sul piano interno: nuova centralità dei soggetti sociali rispetto al quadro politico-diplomatico e analisi comparata nel contesto dell’occidente capitalistico, sul piano internazionale. Questi i paragrafi di un «piano di lavoro» su cui impe­gnare una storiografia che potesse realmente qualificarsi come « post revisionista » '. Muovendo dalla considerazione di quanto si è fatto in questa direzione la rassegna intende estrarre i contorni di un nuovo approccio agli anni 1945-1952 con parti­colare riferimento al problema dell’intervento statunitense in Europa. È implicito che da esso possano venire suggerimenti e stimoli per lo studio della stessa rico­struzione italiana.A rigor di cronaca l’importante « reappraisal » di Kirkendall era coevo all’acuirsi del dibattito sulla storiografia della New Left. L’intreccio tra impegno civile e ricerca scientifica sotteso ai più noti contributi « revisionisti » ritornava con segno opposto, ma con toni vieppiù concitati, nelle repliche degli autori « ortodossi » o, 1

1 R.s. k i r k e n d a l l (ed.), The Truman Period as a Research Field: A Reappraisal, 1972, Co­lumbia 1974, che include interventi di A. Hamby, B. Bernstein, L. Gardner e altri ricercatori maturatisi nel contesto della « Missouri School » di Kirkendall. Sulla storiografia del New Deal v . M . v a u d a g n a , New Deal, in II Mondo Contemporaneo, Storia del Nord America, a cura di Pietro Bairati, Firenze 1978.

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più spesso, seguaci della scuola « realista » di Kennan e Morgenthau. Esemplari di tale clima, non tanto le meditate critiche di A. Schlesinger jr. quanto, tra gli altri, l’astioso libello di R.J. Maddox, The New Left and The Origins of Colà War, e la raccolta di commenti curata da J.M. Siracusa in New Left Diplomatie Histories and Historians: The American Revisionists2.Accomunando autori di orientamento scientifico e ideale dissimile nell’accusa di «abuso e violenza sulle fonti», Maddox negava due meriti riconosciuti ad autori quali Williams, Kolko ecc. anche da interlocutori non parziali: l’esteso ricorso ad una documentazione edita e inedita e il superamento di una nozione ristretta dei moventi e degli aspetti della politica estera americana nel dopoguerra. Maddox delineava invece una chiusa difesa dell’interpretazione politico-diplomatica tradi­zionale della guerra fredda: da un lato l’espansionismo sovietico, dall’altro Con­tainment e universalismo democratico degli Stati Uniti. A sua volta il « collage » curato da Siracusa sacrificava alla disordinata contestazione di una « storiografia di protesta » la complessità di posizioni altrimenti ricche quali quelle, ad esempio, di Feis e Morgenthau.Con questi interventi, e con le relative repliche, non meno tese, il dibattito storio­grafico negli Stati Uniti raggiungeva accenti paragonabili a quelli riecheggiati nella Germania Federale dopo la pubblicazione del volume di Fritz Fischer sul ruolo dell’imperialismo tedesco nelle origini della prima guerra mondiale. Ciò che tut­tavia preme sottolineare, in un contesto che non intende ricostruire un dibattito ormai largamente noto in Italia, è che, in questa occasione come in quella, di fronte ad una proposta di « revisione » storiografica correlata all’acquisizione di nuove fonti e all’ampliamento del campo di indagine, abbia retto ben poco una conferma della proposta storiografica degli anni cinquanta, tutta inscritta nel perimetro apologetico della « falsa coscienza » della politica estera americana, rimarcato da E. KrippendorfF3. Peraltro l’ottica politico-diplomatica — a cui sono estranei non solo soggetti sociali e collettivi, ma anche moventi di natura struttu­rale — è ben presente nella recente saggistica sul periodo Truman coerente con l’interpretazione «realista». Ma la sua pregnanza scientifica appare notevolmente diluita. The Long Shadow, di L.A. Rose, ad esempio, riprende temi e motivi del precedente, discusso volume — After Yalta: America and The Origins of Cold War — senza offrire sostegno documentario adeguato ad una valutazione della politica estera in cui l’incertezza e la confusione strategica dei protagonisti figu­rano troppo spesso come paradigmi esplicativi4. Se in questo volume un’inter-

2 R.J. maddox, The New Left and The Origins of Cold War, Princeton, 1973; j .m . siracusa, New Left Diplomatic Histories and Historians: The American Revisionists, New York 1973; R.w. tucker , The Radical Left and American Foreign Policy, Baltimore 1971; L. Gardner, a. schlesinger jr., h .j . morgenthau, The Origins of Cold War, Waltham 1970.3 Indicazioni bibliografiche e valutazioni critiche sulla storiografìa revisionista in G. gattei, La storiografìa sulle origini della guerra fredda, in « Studi Storici », n. 4, 1976; E. aga ro ssi, Recenti orientamenti della storiografia americana sulle origini della guerra fredda, in A A .vv ., Italia e Stati Uniti durante l’Amministrazione Truman, Milano 1976; N. gallerano, Il contesto internazionale, in aa.w ., Il dopoguerra italiano 1945-1948, Milano 1975. Poco o nulla di nuovo aggiungono a questi dettagliati panorami, più recenti rassegne: tra gli altri v. m ee c.l., harriman a ., abel e., Who started the Cold War?, American Heritage, n. 28, 1977; m . altherr, Les Origines de la guerre froide: un’essai d’historiographie, in « Relations Internationales » , n. 9, 1977; D.c. watt, Rethinking the Cold War, in « Political Quarterly », ottobre-dicembre 1978. Per il riferi­mento al dibattito nella RFT v. F. Fischer , Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-18, Torino 1965; e . krippendorff, Die Amerikanische Strategie-Entscheindung-prozess und Instrumentarium der Amerikanischen Aussenpolitik, Frankfurt a. M., 1970.4 L.A. rose, The Long Shadow. Reflections on the Second World War Era, Westport, 1978; id., After Yalta: America and the Origins of the Cold War, New York, 1973.

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prefazione del dopoguerra è abbozzata, essa si regge sulle coordinate fissate da altri autori e proposte già nel 1971 da R.W. Tucker. Respingendo le diverse inter­pretazioni di Williams e Kolko sulle radici ideologiche e strutturali della politica estera americana, Tucker delinea come movente principale di questa l’interesse na­zionale e la ricerca di garanzie per la propria sicurezza. Ciò porta ad una prima formulazione del Containment come strategia « naturale » di una potenza globale in conflitto con altre per l’egemonia. « Per contenere l’espansione di altri, o quanto era percepito come tale, divenne necessario espandere se stessi. In questo modo lo sviluppo del containment divenne sviluppo dell’impero » s.Per quanto l’autore sia attento a distinguere fasi diverse della politica estera americana, 1’« espansionismo » nell’età di Truman viene così avulso dalla strut­tura sociale ed economica degli Stati Uniti e reso organico ad un’astratta « logica di potenza». Ritorna la metafora di L. Halle che vede nei due «grandi rivali», il ragno e la tarantola chiusi nella bottiglia, con comportamenti conflittuali pre­determinati dalle circostanze. In polemica con Kolko e Magdoff si nega non solo che « la politica sia soltanto lo strumento per preservare ed espandere la potenza senza precedenti degli Stati Uniti e la posizione di questi nell’economia europea e mondiale » ma anche che « la prosperità e, invero, la stessa integrità del sistema americano, qual è attualmente, siano dipendenti dal preservare la posizione ege­monica della nazione nel mondo » 5 6. Anche l’esigenza di una correlazione tra politica americana e trasformazioni delle società occidentali nel secondo dopo­guerra non può che essere disattesa. Gli effetti dell’azione statunitense sono limi­tati ad un mutamento di dislocazione indotto per questa o quella pedina nello scacchiere delle relazioni internazionali, dominato dal confronto con l’URSS. L’interpretazione di Tucker, al di là della critica anti-revisionista risulta meno limpida; le successive posizioni dell’autore suggeriscono un’accezione-conservatrice assai marcata. Già nel volume citato si respinge ogni presunto limite « universa­listico » nell’azione di Truman, che sarebbe guidata viceversa da un corretto realismo politico. Un apprezzamento, questo, capace di sostenere più che opzioni «liberal», apologie dellTmperial Republic, come testimonia il consenso espresso ad esso da Raymond Aron.Le critiche ai revisionisti espresse da Tucker sono sostanzialmente condivise da S. Hoffmann, uno dei più acuti politologi americani. In un saggio apparso nel 1974, « Revisionism revisited », muovendo da esse egli giungeva alla formulazione di un’ipotesi interpretativa tesa a superare il « chiassoso dibattito sulle origini della guerra fredda». «Il problema chiave — scriveva riprendendo un’ottica comune ad altri suoi contributi — non è dunque la ricerca di una spiegazione globale, ma come M. Weber e R. Aron hanno puntualizzato, tentare di capire i contrasti — i permanenti, ironici contrasti — tra ciò che la gente pensa di fare e quanto sta effettivamente realizzando. In altre parole il problema chiave è da ricercarsi nel regno delle percezioni». Di fronte al vuoto di potere europeo il comportamento delle due grandi potenze è dettato da una serie di percezioni reciproche che, dal­

5 R.w. tucker , The New Left, cit., p. 109. Sulle differenziazioni interne alla corrente « revi­sionista », già rimarcata da questo autore, v. M. leig h , Is there a revisionist thesis on the Origins of Cold War?, in « Political Science Quarterly », marzo 1974; a.m . schlesinger jr., The Cold War revisited, in « New York Review of Books », 25 ottobre 1979.6 r.w . tucker , The New Left, cit., p. 115. Per la posizione di G. Kolko citata v. G. kolko, The Politics of war, London, 1968, p. 252; h . magdoff, L’età dell’imperialismo, Bari, 1968. Il suc­cessivo riferimento è al saggio di R. Aron, La Republique Imperiai, Paris, 1973. A proposito della metafora formulata da L. Haile in The Cold War as History, New York-London, 1967, v. i rilievi critici di L. Gardner, Architects of illusion: Men and Ideas in American Foreign Policy, 1941-1949, Chicago, 1970, p. 317.

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l’iniziale ambiguità, arrivano all’irrigidimento del 1947-48. Viene così delineata una conflittualità non predeterminata, ma condizionabile e riconducibile —- in presenza di una volontà politica protesa in tal senso, ieri come oggi — ad un oriz­zonte coesistenziale. Alle tesi ortodosse e alle interpretazioni conservatrici del « realism Thought », Hoffman contrappone analisi più spregiudicate e più coeren­temente « liberal », sussumendo anche alcune conclusioni revisioniste, ma rifiu­tandone al tempo stesso l’impostazione di fondo.Dalla natura Hobbesiana del sistema delle relazioni internazionali l’attenzione si sposta verso i fattori interni della politica estera americana. Riprendendo una tradizione teorica che fa capo quanto meno ad Almond, autori come Hoffmann sostengono che il « domestic context of foreign policy » non è dominato da una diretta presenza economica o di classe, ma dal conflitto di determinanti burocra­tiche, dall’interazione di orientamenti e pressioni dell’opinione pubblica e dei gruppi di interesse che la compongono. Un primo superamento del dibattito « revisioni­sta * è tentato proprio insistendo su questo modello teorico. « Ciò che in ultima istanza spiega le scelte politiche è un < sistema > emergente dai rapporti di pro­prietà e di potere di una società, al cui interno si ritrovano le cause del mutamento ed entro il quale le istituzioni e le organizzazioni non conducono vite indipendenti, ma dialetticamente correlate ». Per quanto suggestiva, un’ottica siffatta — come ha sottolineato Charles Maier — è esposta alle critiche dei revisionisti non meno delle tradizionali impostazioni ortodosse. Per costoro, infatti, « la spiegazione degli eventi in termini di struttura e conflitti del governo e degli apparati è sem­plicemente formalistica, limitata agli aspetti < procedurali > della formazione della volontà politica, ed evasiva rispetto a questioni di sostanza ». Attribuire decisiva influenza alle pressioni burocratiche sembra tanto più astratto quando si sotto­linei la separatezza fra società civile e protagonisti delle principali scelte di poli­tica estera, quando si consideri che soltanto ristrette elites salgono al vertice di quelle stesse burocrazie. Il problema della formazione della volontà politica non elude ma rimanda ad una ricerca relativa alla natura di quelle decisioni.Se una critica di tale segno pare condivisibile più di quanto ammetta la prudente conclusione di Maier, è pur vero che, partendo da quell’approccio si è pervenuti ad acquisizioni assai rilevanti sia sul piano della critica alle ricostruzioni storiche specifiche dei «revisionisti», sia nell’interpretazione di aspetti centrali della po­litica americana nella vicenda postbellica7. Tutto ciò è evidente nei lavori di J. Gaddis.Il suo volume The United States and thè Origins of Cold War, salutato da più parti nel 1972 come opera inauguratrice della storiografia «postrevisionista», era qualificato da B. Bernstein piuttosto come esemplarmente documentata ma eclet­tica espressione di un’« ortodossia ringiovanita». Gaddis muove dalla contesta­zione delle tesi di Williams e Kolko che giudica coese, fraintendendo aspetti importanti di entrambe. La priorità da questi autori attribuita ai fattori eco­nomici porterebbe infatti a sottovalutare, se non a trascurare del tutto, « l’im­patto profondo del sistema politico interno sulla conduzione della politica estera

7 Le citazioni di Maier sono tratte da Revisionism and the Interpretation of Cold War Origins, originalmente apparso in « Perspectives of American History », VI, 1970 e ristampato in The Origins of Cold War and Contemporary Europe, a cura dello stesso autore, New York, 1978; s. HOFFMANN, Revisionism revisited, in l .h . m iller , r .w . pr eu ssen , Reflections of the Cold War, Philadelphia, 1974; id ., Gulliver’s Troubles: The setting of American Foreign Policy, New York, 1968; e soprattutto Primacy or World Order: American Foreign Policy since the Cold War, New York, 1978, Tr. it. a.c. di c.M. santoro, II dilemma americano, Roma, 1979,

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americana » 8. Il rifiuto di un determinismo « alla Beard » in nome di un « beha- vioral approach to thè historical analisis » porta Gaddis ad insistere sull’intera­zione di percezioni e reazioni alla base di ogni scelta politica. La pluralità di condizionamenti ideologici, politici, istituzionali, il ruolo dell’opinione pubblica, degli apparati e dei gruppi di pressione emergono a più riprese come altrettanti anelli di congiunzione tra formulazione della politica estera e sviluppo delle rela­zioni internazionali da un lato e, dall’altro, storia politica e sociale degli Stati Uniti. Nell’interpretazione del mutamento strategico americano verso l’Unione Sovietica tra il 1945 e il 1946, per esempio, Gaddis introduce elementi quali l’affermazione di una percezione diversa della politica estera di Stalin e di una crescente ostilità dell’opinione pubblica e del congresso nei confronti dell’URSS. Ciò chiama in­dubbiamente in causa problemi ignorati dalle interpretazioni tradizionali, relativi al condizionamento del paese, alla molteplicità dei centri e dei meccanismi deci­sionali, ai percorsi di legittimazione del potere, alla concreta mediazione di ap­parati e istituzioni nel sistema americano. Non sempre tuttavia Gaddis offre al proposito valutazioni soddisfacenti. Egli rimarca il condizionamento dell’opinione pubblica sottovalutando i processi di manipolazione e organizzazione del con­senso dall’alto avviati nell’arco bellico e post-bellico. Ancora, allineando al di fuori di ogni gerarchia di incisività l’apporto di diverse personalità e punti di vista originali, quali emergono dall’ampia documentazione consultata, offre spazio a conclusioni ambivalenti su episodi importanti — il caso della crisi britannica sottolineato da Bernstein — e personalità non secondarie, a cominciare da Roosevelt e Truman.Ciononostante, nel momento in cui collega le esigenze di sicurezza o l’interesse nazionale alle percezioni dei protagonisti, l’autore supera l’astratto modello della « politica di potenza » per una più incisiva storicizzazione dell’azione americana. Gaddis è assai più cauto nel valutare le conseguenze profonde di questa politica nel mondo. L’accettazione di interpretazioni tradizionali per quanto concerne il rapporto con i paesi europei è estesa in The TJ.S. and The Origins of Cold War. Ancora più esplicita essa diviene in un intervento apparso su Foreign Affairs nel 1974. Trattando della dottrina Truman e della politica americana nel vecchio continente Gaddis, come Hoffmann ed altri, ne individua l’obiettivo principale ed esclusivo nella salvaguardia di un’Europa non asservita ad un unico stato ostile. L’inter­vento anticomunista e il sostegno alla stabilizzazione sociale, per non dire della ridefinizione dei rapporti intercapitalistici esulerebbero dalle intenzioni di Truman, o comparirebbero solo dopo il 1950, come supporti di quell’asse strategico anti sovietico. Da ciò anche una sostanziale sottovalutazione del significato innovatore, rispetto al passato e alla condotta di altre potenze, della politica estera americana nel dopoguerra9. La definizione di un coerente tessuto di alleanze non esaurisce *

* j .l . gaddis, The United States and the Origins of Cold War, New York, 1972, p. 357; B. bernstein , Les Etats Unís et les origines de la guerre froide, in « Revue d’histoire de la Deuxieme Guerre Mondiale », n. 103, 1976.9 j .l . gaddis, Was the Truman Doctrine a Real Turning Point?, in «Foreign Affairs», gen­naio 1974. L’autore è comunque tornato su questi temi in un articolo successivo, Containment. A Reassesment, ivi, luglio 1977 e nella sintesi Russia, The Soviet Union, and the United States. An interpretative History, New York, 1978. In questo ultimo volume riassume il proprio modello interpretativo in termini ulteriormente semplificati: « La storia delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica può essere scritta in termini di alternanza tra approcci < universalisti > (ideologici) e < particolaristi > (dettati dall’interesse nazionale) al problema del perseguimento della sicurezza nel mondo ». In maniera assai contraddittoria, al prevalere di questi ultimi è affidata la storia e la prospettiva della distensione. T. etzold-j .l. gaddis, Containment: Documents on American Policy and Strategy, 1945-1950, New York, 1978. Per un diverso approccio v. t.g. Paterson (ed.), Containment and the Cold War, Reading (Mass.), 1973.

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un’azione tesa ad incidere profondamente sulla realtà economica e civile degli stessi paesi europei.Per quanto concerne le radici interne di tale politica, può essere interessante veri­ficare come successive ricerche abbiano proposto più attente interpretazioni dei tre livelli di indagine puntualizzati in The U.S. and The Origins of Colà War. il rapporto opinione pubblica-politica estera, i modelli di percezione e reazione dei policymakers, il ruolo degli apparati diplomatici e governativi.Un giudizio più equilibrato sull’interazione esistente tra opinione pubblica e go­verno è presente nello studio che Michael Leigh ha dedicato alla recezione della dottrina Truman nel paese. L’utilizzazione dei sondaggi di opinione, fonte inno­vatrice ma parziale nella valutazione degli orientamenti collettivi dell’età con­temporanea, è stata ulteriormente arricchita nelle ricerche di R.B. Levering. Precisa è nell’interpretazione di quest’ultimo la contestazione di ogni considera­zione acritica del soggetto collettivo « opinione pubblica ». Acritico è il prescin­dere dalla sua strutturazione mediante i moderni mezzi di comunicazione di massa, ad opera di istituzioni e forze sociali esse stesse protagoniste principali della poli­tica estera. Del resto il rapporto tra i due termini rimanda al problema dell’orga­nizzazione del consenso attorno a scelte sulle quali nullo può dirsi il controllo demo­cratico e il livello di partecipazione della società civile americana, ieri come oggi. Introducendo quindi il soggetto « opinione pubblica » non si perviene alla rimo­zione delle determinanti strutturali della politica estera, in quanto i due termini risultano quanto meno integrati, come mostrano altri studi importanti, ad esempio sulla stampa negli anni del dopoguerra I0.Non mancano su questo punto anche gli studi dei « revisionisti ». Alla tesi di una pressione del paese a favore della « linea dura » nei confronti dell’URSS, R.M. Freeland, in un saggio dedicato alla dottrina Truman e all’origine del Maccar­tismo, che meriterebbe una traduzione italiana, aveva opposto un’interpretazione altrimenti coerente.La necessità di coagulare un consenso di massa attorno alla politica economica internazionale incardinata sul piano di aiuti all’Europa avrebbe spinto l’Ammi­nistrazione a promuovere una vasta campagna di manipolazione ideologica, fon­data sul significato anticomunista della politica estera americana. La Dottrina Truman, dunque, a suo modo precorritrice e progenitrice del Maccartismo interno, sarebbe stata scelta strumentale per condurre in porto tra un Senato diffidente e larghi strati di collettività disattenti se non ostili, il disegno impegnativo per un nuovo assetto economico internazionale. Si tratta di un quadro che pur ricono­scendo un ruolo primario agli orientamenti collettivi, spontanei e manipolati, tende a riaffermare l’acquisizione « revisionista » di un movente strutturale alla base della politica estera americana. Non è questo l’unico dato stimolante del saggio di Freeland, che è contemporaneo alla ricerca di Gaddis. Altrettanto attento alle differenziazioni tra personalità e apparati nella formulazione delle scelte politiche all’autore non sfuggono istanze di ricomposizione di tale policentrismo e costanti

10 M. leig h , Mobilizing Consent: Public Opinion and American Foreign Policy, 1937-1947, Westport, 1976; r.b. levering, American Opinion and the Russian Alliance, 1939-1945, Chapel Hill, 1976; id., The Public and American Foreign Policy, 1918-1978, New York, 1978; già r .j . earnet in Roots of War, New York, 1972, aveva insistito su questi temi. Più in generale v. a. gallup, The Gallup Poll: Public Opinion 1935-1971, New York, 1972. Per la stampa v. r.t. elson, The World of Time Ine., New York, 1973 e w.A. swanberg, Luce and his Empire, New York, 1972; E. w est , The Roots of Conflict: Soviet Images in the American Press. 1941-1947, in D.c. de boe e altri, Essays on American Foreign Policy, Austin 1974. Più in generale v. t .g. paterson, Presidential Foreign Policy, Public Opinion and Congress: The Truman Years, in « Diplomatic History », n. 3, 1979.

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strategiche nell’azione americana. Insistendo sui riflessi interni della strategia in­ternazionale degli Stati Uniti egli inoltre introduce il problema delle trasforma­zioni ideologiche e istituzionali che tale strategia comporta. Le migliori pagine del volume descrivono l’emergere del National Security State attraverso i provve­dimenti, anche contradditori, approvati tra il 1946 e il 1948. Più esclusivo ruolo del Dipartimento di stato e dell’esecutivo, moltiplicazione del « governo per enti » permeabile alle pressioni dei gruppi d’interesse, trasformazione del potere giudi­ziario, crescente incidenza dei militari negli apparati dello Stato sono alcune delle modificazioni indotte o ulteriormente ampliate rispetto ai precedenti dell’assetto bellico. Si tratta di acquisizioni di grande rilievo, tanto più in quanto Freeland lascia intravedere le propensioni della strategia internazionale degli Stati Uniti ad esportare, per così dire, ideologie e modelli istituzionali. E ciò senza appannare la dialettica della realtà, le contraddizioni dell’amministrazione e dello stesso Truman, prima e dopo l’emergere del fenomeno Me Carthy.Sviluppando indicazioni relative al rapporto politica estera-maccartismo presenti in altre interpretazioni «revisioniste», l’autore propone dunque una saldatura tra storia delle relazioni internazionali e storia sociale e istituzionale degli Stati Uniti, ancorata ad una ricognizione attenta della documentazione pubblica e privata inedita u.A quella saldatura farà riferimento la ricerca successiva, come documentano i saggi raccolti nel 1974 da R. Griflfith e A. Theoharis, a loro volta autori di puntuali monografie sulle origini del maccartismo e dell’« anticomunismo » come ideologia di stato 11 12.Anche su un versante diverso, quale quello del ruolo autonomo dei processi di percezione e reazione dei protagonisti, le ricerche successive al lavoro di Gaddis hanno contribuito a focalizzare meglio le connessioni esistenti tra politica estera e vicenda nazionale.Vi è da dire, in primo luogo, che la documentazione relativa ai protagonisti si è arricchita negli ultimi anni in misura straordinaria. La pubblicazione dei volumi delle Foreign Relations ormai pervenuta al 1951, la meticolosa raccolta docu­mentaria da parte di Fondazioni e biblioteche quali la F.D. Roosvelt Library o l’H.S. Truman Institute, l’accessibilità degli archivi governativi rappresentano le basi di tali sviluppi.Da qui ha preso le mosse non solo una rinnovata produzione memorialistica ma anche una più puntuale ricostruzione biografica. Innanzi tutto Truman è stato oggetto di importanti ricerche, al di fuori delle anguste apologie e dei raffronti con Roosvelt pregiudizialmente negativi propri della storiografia «liberal». Si pensi ai saggi di S.M. Hartmann, B. Cochran, A.L. Hamby, e R.J. Donovan, che a distanza di pochi anni hanno rinnovato il quadro delineato da Cabell Phillips

11 r.m . freeland, The Truman Doctrine and the Origins of Me Carthyism, New York, 1972. L’interpretazione di un condizionamento prioritario della politica estera sugli sviluppi della po­litica interna non è stato tuttavia condiviso da altri autori « revisionisti » come A. Theoharis che pure convergono nelle valutazioni relative alla « emergence of the bureaucratized presidency and of a vast quasi independent internal Security bureaucracy » incardinato nelle istituzioni sorte a partire dal 1936: FBI, CIA, NSC, NSA. Sull’importanza di questi apparati v. r.j . barnet, Roots of War, cit.; J.c. donovan, The Cold Warriors. A Policy Making Elite, Lexington, 1974; d.m . abashire, R.v. Allen, National Security. Political, Military and Economie Strategy in the Decade Ahead, New York, 1963; A.D. sander, Truman and the National Security Council, 1945-1947, in « Journal of American History », n. 2, 1972.12 R. Gr iff it h , A. theoharis, The Specter: Original Essays on the Cold War and the Origins of Me Carthyism, New York, 1974; r. Gr iff it h , The Politics of Fear: Joseph R. Me Carthy and The Senate, Lexington, 1970; A. theoharis, Seeds of Repression. H.S. Truman and the origins of Me Carthyism, Chicago, 1971.

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in Truman Presidency. Al taglio critico, talora aspro, della Hartmann e di Cochran, si contrappone l’interpretazione di Hamby, secondo cui Truman, esponente del moderato « Vital Center » democratico « aiutò il liberalismo a sopravvivere in un periodo di avversità » grazie anche ad una specifica conduzione della politica estera. Piano Marshall e Quarto punto rappresenterebbero i perni del suo « riformismo ». Ma questo appare piuttosto intenzionale che effettivo, assai più di quanto ritenga Hamby. Approcci diversi convergono nel sottolineare l’apporto personale, e della presidenza, nella formulazione della politica internazionale americana I3. Accanto a Truman, assumono rilievo storiografico i segretari di stato, da Marshall ad Acheson, mentre costante è l’attenzione rivolta all’apparato diplomatico. Kennan, Harrimann, Bohlen sono oggetto di indagini accurate, come mostrano gli atti del primo con­vegno della Society for Historians of American Foreign Relations, svoltosi a Georgetown nel 1975 14 15.Prevalgono, anche in questo campo opere di impostazione tradizionale, spesso polemiche nei confronti della storiografia «revisionista», ma non prive di inte­resse. Si veda, ad esempio, come G. Smith, pur in un contesto simpatetico verso le idee di Acheson ne illumini la rigidità semplicistica destinata ad accentuare l’arroganza del personaggio all’interno e all’esterno del Dipartimento di Stato. Rientrano in questo orizzonte di studi anche specifici contributi « revisionisti » come il volume di Lloyd Gardner Architects of lllusion, e i saggi dedicati ai « Cold War Critics », radicali e conservatori, curati da T.G. Paterson. È stato Henry Wallace ad attirare maggiormente l’attenzione dei ricercatori. Nell’esponente pro­gressista si è cercata la sistemazione di una politica estera alternativa alle scelte di Truman. Henry Wallace, Harry Truman and The Cold War, di R.J. Walton e soprattutto Henry A. Wallace and American Foreign Policy di S.J. Walker, entrambi pubblicati nel 1976, sono i frutti più maturi di tale interesse, accanto alla precedente esaustiva ricerca di Norman Markowitz,5. Questo è il versante della storiografia revisionista più esposto alle torsioni moralistiche proprie di ogni approccio alle «alternative mancate». Ma ove tale limite sia evitato, è indubbio l’apporto conoscitivo indotto da una ricognizione che non si limita alle personalità più direttamente impegnate negli apparati deH’Amministrazione, ma illumina gli

13 B. cochran, Harry Truman and the Crisis Presidency, New York, 1973; s. Hartmann, Truman and the SOth Congress, Columbia, 1971; a.l. hamby, Beyond the New Deal: H.S. Truman and American Liberalism, New York, 1973. Prevalentemente giornalistica la ricostruzione di r .j . donovan, Conflict and Crisis. The Presidency of Harry S. Truman, 1945-1948, New York, 1977; c. Ph il l ip s , The Truman Presidency, New York, 1966; B. Bernstein, Truman, the 80th Congress and the Transformation of Political Culture, in « Capitol Studies », primavera 1973; id . , Politics and Policies of the Truman Administration, Chicago, 1970 offre un’interpretazione « revisionista » più attenta. In questo contesto andrà pure menzionata l’apologetica biografia della sorellaM. trum an , Harry S. Truman, New York, 1973. Un breve profilo del presidente è infine tracciato da j .l . Gaddis in f .j . m erli, t .a. Wilson, Makers of American Diplomacy: from B. Franklin to H. Kissinger, New York, 1974; di particolare interesse r.a. divine, Foreign Policy and United States Presidential Elections, New York, 1975.14 La monumentale biografìa di F.C. Pogue dedicata a Marshall non è ancora giunta agli anni postbellici, g. sm it h , Dean Acheson, New York, 1972; ancora meno critico nei confronti di Acheson, g . sm it h , Dean Acheson, New York, 1972; d.s. mclellan, Dean Acheson. The State Department Years, New York, 1976. Per gli atti della S.H.A.F.R. v. J. Davids (ed.), Perspectives in American Diplomacy, New York, 1976; in particolare la parte dedicata ai « Cold War Warriors » con saggi di Wright, Ruddy, Bland ecc.15 l .c. GARDNER, Architects, cit; T.G. paterson (ed.), Cold War Critics, Alternatives to American Foreign Policy in The Truman Years, Chicago, 1971; R. radosh, Prophets on the Right, New York, 1975; j .t . Patterson, Mr. Republican: a Biografy of Robert A. Taft, Boston, 1972; r .g . walton, Henry Wallace, Harry Truman and the Cold War, New York, 1976; s.J. walker, Henry A. Wallace and the American Foreign Policy, Westport, 1976; n.d. markowitz, The Rise and Fall of the People’s Century: Henry A. Wallace and the American Liberalism, New York, 1973.

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orientamenti di componenti non secondarie nel Senato, nei sindacati, nel mondo culturale, nel paese. Non è il caso in questa sede di richiamare analiticamente le acquisizioni specifiche emerse da questi studi rispetto alla storiografia degli anni precedenti. Preme piuttosto sottolineare come il panorama degli orientamenti e delle personalità che hanno influito su questa o quella scelta di politica estera si sia arricchito con il moltiplicarsi dei protagonisti considerati.Questo dato emerge nettamente dal recente saggio di Daniel Yergin, Shattered Peace, The Origini of Colà War and thè National Security State, che rappresenta la sintesi di maggior rilievo e più puntuale aggiornamento oggi disponibile sul tema. Come Gaddis, Yergin si propone un superamento del dibattito tra ortodossi e revisionisti che giudica trasposizione storiografica delle polemiche della guerra fredda. Tuttavia finisce per contestare, in nome di un approccio comportamen­tista, esclusivamente le connessioni « interessanti ma inadeguate » tra espansioni­smo internazionale e struttura del capitalismo americano, proposte dalla storio­grafia progressista.Il movente della politica estera va ricercato nelle « commanding ideas » dei pro­tagonisti, quali ad esempio la « sicurezza nazionale » che, « dobbiamo ricordare... non è un dato, non è un fatto, ma una percezione, una concezione ». Tuttavia per non ricadere nell’ambiguo eclettismo di altri autori, Yergin sostiene 1’esistenza di un filo conduttore nella vicenda della guerra fredda. Esso è dato dal prevalere, tra il 1944 e il 1947, degli « assiomi di Riga » cioè delle concezioni proprie della missione diplomatica in URSS, orientata ad un atteggiamento « duro » nei con­fronti dell’URSS, a scapito della linea distensiva, tipicamente roosveltiana, affer­matasi compiutamente a Yalta. « Serie di norme relative e principi, usati dai po­litici per spiegare, interpretare e prefigurare il comportamento degli stati -— del proprio e di quelli esteri — nel sistema internazionale», questi assiomi di Riga e di Yalta « sono generati dall’esperienza, dallo studio, dalla collocazione personale e dall’associazione di gruppi » 16. Ma all’origine di queste « commanding ideas » nella concreta analisi storiografica, Yergin tende a ritrovare un universo mosso non esclusivamente da astratte correnti ideologiche e assiomatiche. Anche la vi­vace personalizzazione delle posizioni all’interno e all’esterno del Dipartimento di Stato non impedisce di scorgere la trama di connessioni esistente, per esempio, tra l’anticomunismo aggressivo della « scuola di Riga », e gli interessi del nascente complesso industriale-militare, di cui l’ammiraglio Forrestal è perno di mediazione centrale. Oppure il background economico e sociale della potente China Lobby nel Senato americano. Così come, pur non condividendo l’analisi di Freeland, egli approfondisce il problema dell’emergere del National Security State con spregiu­dicato rigore.Nonostante le premesse metodologiche, dunque, Yergin finisce per delineare uno « spaccato » di grande interesse delle trasformazioni istituzionali, dell’incidenza dei gruppi di pressione nel sistema politico, dei processi di legittimazione interna e internazionale che scandiscono le scelte di Truman. Semmai la contraddizione

16 D. yergin, Shattered Peace, The Origins of Cold War and National Security State, Boston, 1977, p. 415. La precedente citazione a p. 196. Oltre alla influenza di E. May questa impostazione deve non poco a I. jan is, Victims of Grougthink: A psychological study of Foreign Policy Decisions and Fiascoes, Boston, 1972. Un eclettismo interpretativo analogo a quello di Yergin ritorna in B.B. h u g h es , The Domestic Contest of American Foreign Policy, San Francisco, 1978, peraltro attento a verificare la complessità del rapporto politica estera-opinione pubblica a ridosso di alcune scadenze decisive come il piano Marshall, la guerra di Corea ecc. Sui limiti interpretativi della contrapposizione di « assiomi » insiste a.m . schlesinger jr„ Cold War, cit. Più aspra la critica di c. eisenberg che vede nell’opera di Yergin l’espressione più matura di un « Toothless Revisionism », cfr. Diplomatic History, Summer 1978.

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tra premesse e risultati del saggio rende eclatante il limite di un approccio pregiu­dizialmente teso a contestare raffermazione « revisionista » dell’esistenza di linee strategiche coerenti e istanze di ricomposizione del noto policentrismo della po­litica estera americana, connesse alla struttura economica del paese. Da tale ap­proccio derivano conseguenze non irrilevanti nel momento in cui Yergin tenta di spiegare l’operato concreto degli Stati Uniti sull’arena mondiale.Egli coglie nella politica americana, soprattutto interpretando il piano Marshall, « due intenti fondamentali connessi e inseparabili: bloccare una temuta avanzata comunista in Europa Occidentale e stabilire un assetto economico internazionale favorevole al capitalismo » 17. Tali intenti si inscrivono nello scontro USA-URSS, considerato un classico conflitto tra potenze per l’egemonia. La politica economica internazionale americana è esclusivamente finalizzata alla strategia del containment. Scarso o nullo è il rilievo attribuito al confronto con la Gran Bretagna e con gli interessi capitalistici europei soprattutto nel terzo mondo, oggetto di scontro po­litico — secondo Yergin -— soltanto a partire dal 1950, allorché la guerra fredda assume dimensioni mondiali. Né originali sembrano gli scarsi riferimenti all’in­tervento nei confronti dei partiti di sinistra e dei sindacati occidentali o, piti in generale, al contenuto concreto dell’azione per la stabilizzazione capitalistica pri­ma e durante l’ERP.Un risultato contraddittorio analogo emerge da un importante contributo che Hadley Arkes ha dedicato al ruolo degli apparati nella formazione della volontà politica. Nodo questo che già Gaddis aveva considerato decisivo per comprendere le radici della politica estera americana.Bureaucracy, thè Marshall Pian and thè National Interest, si fonda su un para­digma simile a quello di Yergin, laddove attribuisce alle « presunzioni operative » dei protagonisti il movente primo della decisione politica. Ma l’indagine dei pro­cessi legislativi, dei conflitti burocratici, dello scontro tra le diverse opzioni stra­tegiche all’interno dei gruppi dirigenti, da cui scaturisce l’ERP, consente, anche in questo caso, conclusioni più ricche delle asettiche premesse. Non solo le « pre­sunzioni operative » dei singoli, ma un determinato rapporto di forze tra Ammi­nistrazione e Senato, la pressione interna vincente per una maggiore privatizza­zione degli strumenti statali di politica economica, sono alla base della crea­zione dell’Agenzia per la Cooperazione Economica. Come sottolinea Arkes l’isti­tuzione in quanto tale ne è riprova, non solo per la composizione degli organi dirigenti, ma per il modello gestionale dell’« agenzia d’affari», per il supporto decisivo offerto ai canali privati del commercio e della finanza internazionale. Una decisione centrale nella politica estera degli Stati Uniti come il Piano Marshall rivela l’incidenza profonda di interessi particolari, ben diffìcilmente conciliabili con il tradizionale concetto esplicativo dell’« interesse nazionale ». Arkes è il primo a rendersene conto; sottoponendo a critica quella nozione ne propone una significativa associazione all’idea di sistema politico-istituzionale, di regime. Un dato regime maturerà la sua nozione di interesse nazionale, di cui la burocrazia sarà concreta e quotidiana paladina. Con questa proposizione la « falsa coscienza » della politica estera americana viene riportata al referente storicamente dato: il sistema politico-sociale con le sue forze dominanti e le scelte ad esse funzionali. La seconda parte del saggio di Arkes illumina, attraverso la concreta vicenda dell’ERP, le trasformazioni che la politica internazionale degli Stati Uniti ha prodotto, non tanto all’interno, quanto nei paesi di intervento. L’autore indaga

17 D. yergin, Shattered Peace, cit., p. 309. Su Forrestal v. pp. 204 e sgg. Più in generale sul ruolo dei militari v. r.k. betts, Soldiers, Statesman and Cold War Crises, Harvard, 1977; M. w e il , The American Military and the Cold War, New York, 1979.

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non solo le trasformazioni economiche, tecnologiche e manageriali indotte, ma anche le contraddizioni intrinseche all’iniziativa ERP. Contraddizioni che por­tano alla definizione di « interventismo imperfetto », per quanto operato su più piani. Importante di questi, quello ideologico: l’ideologia della prosperità, che Paul Hoffmann sintetizza nel volume Peace can be won diviene ideologia diffusa, « a form of Tory Socialism that lured thè workers away from thè appeals of radicai ideologies » ls. Spunti di rilievo vengono così proposti sia per una nozione più articolata dei mutamenti indotti dalla guerra fredda in aree diverse del mondo, che per l’analisi del contesto nazionale della politica estera americana.L’indagine sulla formazione e sulla composizione degli apparati centrali e perife­rici è dunque punto di partenza per cogliere connessioni più ampie di quelle deli­neate su un piano esclusivamente politico-ideologico da Gaddis.Del resto i « revisionisti » vi hanno insistito a più riprese: si pensi agli ormai classici studi di B. Bernstein e L. Gardner, ma soprattutto ai contributi raccolti da D. Horowitz in Corporations and thè cold war.Più recentemente L.H. Shoup e W. Minter in Imperiai Brain Trust, delineando il ruolo del Council of Foreign Relations nella formulazione della strategia mon­diale degli USA, hanno illuminato un ulteriore spazio di permeabilità dell’istitu­zione politica ai più forti interessi economici e sociali nazionali negli anni della guerra fredda ed oltre 18 19.

La strategia economica internazionale

Il riferimento ai contributi di Gaddis, Yergin, Arkes ha consentito di valutare acquisizioni e limiti di una storiografia impegnata a rinnovare un approccio analitico pur contestando le interpretazioni economiche della politica estera americana negli anni della guerra fredda.Positivo mi sembra il generalizzato rifiuto, di ogni pregiudiziale scissione tra politica estera e interna. Perni di connessione importanti sono stati colti sottolineando il rapporto governo-opinione pubblica, l’interazione di diverse opzioni ideologiche e strategiche radicate nella cultura politica del paese, il ruolo autonomo e differen­ziato di singole personalità, istituzioni e apparati intermedi. Altri se non appro­fonditi risultano quanto meno suggeriti. Più in generale questi studi rendono im­proponibile ogni ritorno meccanicistico nell’interpretazione del dopoguerra, ogni appannamento della concreta autonomia del politico nei modelli esplicativi delle origini della guerra fredda. Tuttavia più carenti appaiono laddove un’interpreta­zione angustamente comportamentista tende a descrivere un gioco di percezioni e reazioni politiche o un’assomatica scissa da ogni analisi strutturale. Quando entrano in campo valutazioni relative al rapporto politica-economia, al consenso alla politica estera, ma anche all’emergere del National Security State, si infitti­scono gli interrogativi irrisolti sui processi più profondi che alimentano determi­nate scelte internazionali.

18 H. arkes, Bureaucracy, the Marshall Plan, and the National Interest, Princeton, 1973, p. 319; per una definizione di « interventismo imperfetto » v. pp. 273 e sgg.; h .b. price , The Marshall Plan and its Meaning, Ithaca, 1955; p .g. Hofmann, Peace can be won, Doubleday, 1951.19 d. horowitz (ed.), Corporations and the Cold War, New York, 1969; l .h . sh o u p , w . m inter . Imperial Brain Trust. The Council of Foreign Relations and U.S. Foreign Policy, New York, 1977; per un analogo esempio sul piano della politica economica interna e internazionale v. K. schrift- geisser , Business Comes of Age: the Story of the Committee for Economic Development and its impact upon the Economic Policies of U.S., New York, 1960.

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Parallelamente da queste ricerche stenta ad emergere un quadro complessivo delle trasformazioni indotte dalla strategia internazionale degli Stati Uniti e dalla guerra fredda nelle società occidentali, a partire proprio da quella americana. Qualora suggerimenti in questo senso vengano avanzati è per un positivo allontanamento dall’ottica prevalente, attenta alla storia delle relazioni internazionali, come nel­l’opera di Arkes. Il rinnovamento auspicato da Kirkendall non può dirsi che par­zialmente conseguito. Ciò non significa che manchi nella storiografia degli Stati Uniti l’interesse ad un approccio più ampio agli anni quaranta e cinquanta. In parte è al di fuori del dibattito specifico sulle origini della guerra fredda che i primi tasselli di un panorama altrimenti mosso, vengono composti. Si pensi a certi frutti, per esempio, dell’abbondante produzione sociologica o di storia del costume e della cultura americana dedicata agli anni ’5020.Ma per rimanere entro l’orizzonte qui privilegiato, occorre dire che ad una inter­pretazione dello sviluppo postbellico capace di contestualizzare la politica estera americana, coglierne le molte determinanti e valutarne le ripercussioni profonde nel mondo, si è avvicinata maggiormente la storiografia che ha posto in primo piano la strategia economica internazionale dell’amministrazione Truman.Il riferimento va in primo luogo alla fondamentale opera di Joyce e Gabriel Kolko, The Limils of Power.Il valore di questa ricerca, al di là delle acquisizioni specifiche non sempre condi­visibili, sta nel rifiuto di un’ottica limitata alla nozione di « guerra fredda », tesa cioè a subordinare i diversi aspetti della vicenda postbellica al confronto russo­americano.Infatti i Kolko ritengono la strategia economica internazionale degli Stati Uniti il fulcro dell’intero decennio 1945-1954. I rapporti con l’URSS non sono che un aspetto della politica statunitense, relativamente secondario e talora strumentale rispetto allo sforzo globale di « riformare il capitalismo » e sconfiggere i movi­menti operai e progressisti, affermando un nuovo stabile ordine mondiale subor­dinato alla metropoli capitalistica. Le pagine dedicate alla ridefinizione dei rap­porti intercapitalistici — dalla penetrazione nell’impero britannico al rapporto col colonialismo francese — assumono un’importanza centrale. Così come acqui­sizioni di grande interesse si registrano nella valutazione dell’intervento americano nel terzo mondo.La distanza rispetto ad interpretazioni del perodo quali quelle proposte da Gaddis o Yergin è netta. La politica economica internazionale degli Stati Uniti non è riflesso ma semmai causa della politica di containment.Ma non meno netta è la differenza rispetto a Williams e a quanti, come La Febed, concepiscono la « open door policy » frutto di errate convinzioni piuttosto che di esigenze strutturali al sistema. A diversi critici, è apparsa in questa ricerca, pure eccezionale per coerenza analitica, eccessivamente irrigidita l’ipotesi formu­lata nel precedente saggio The Politics of War. « La politica economica interna­zionale e le più vaste esigenze ed il più vasto ruolo globale degli Stati Uniti sono determinati dall’interesse all’espansione del capitalismo americano come economia con esigenze strutturali specifiche»21. Tale interesse assumerebbe la linearità di

20 d.t . m iller , M. Nowak, The Fifties: The Way we Really were, New York, 1977; J.c. goulden, The Best Years ¡945-1950, New York, 1976, sono le opere che più si allontanano dal superficiale revival. Per la varia letteratura precedente v. e . may, Anxiety and Affluence. America 1945-1965, New York, .1966.21 J. e c. kolko, The limits of Power, New York, 1972 (ed. it. 1 limiti della potenza americana, Torino, 1975, p. 11); o. kolko, The Politics of war, c it.; w. i .afeber, America, Russia and the Cold War, 1945-1975, New York, 1975, 3= ed.

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un principio hegeliano in atto, accanto al quale mediazioni politiche e ruoli spe­cifici si annullano progressivamente. Se nell’analisi dei Kolko non vi è, com’è stato notato, nessuno spazio per « tragedie della diplomazia americana » o per « alter­native mancate », ciò avviene nella misura in cui è spesso sopravvalutata la coe­renza e l’incisività di posizioni quali quelle di Corder Hull o Clayton a livello governativo. Oppure in quanto si avanzano valutazioni non sufficientemente do­cumentate come a proposito delle contraddizioni interne agli USA: « Nazione capitalistica incapace di espandere il mercato interno, redistribuendo il reddito, per assorbire il surplus, gli Stati Uniti sarebbero rapidamente ricaduti in quella depressione che solo la Seconda guerra mondiale aveva risolto. L’alternativa fu esportare dollari, mediante aiuti piuttosto che prestiti » 22 23.La ricerca dei Kolko risulta peraltro non solo altrimenti articolata rispetto ad una tradizionale nozione di imperialismo, ma anche più equilibrata delle sintesi prodotte da Horowitz e da altri revisionisti negli anni sessanta. Meriti questi che anche discusse ricerche sul complesso militare industriale indirettamente confer­mano B.Le obiezioni, già espresse da Tucker, circa la presenza di un interesse vitale statunitense per l’acquisizione ed il controllo delle fonti energetiche e di materie prime ritornano in ricerche più recenti, ma appaiono ridimensionate dagli studi specifici condotti sulle strategie delle grandi imprese nell’immediato dopoguerra. A questo proposito, anche una storica non sospetta come Mira Wilkins, prose­guendo una ricerca avviata negli anni ’60, con il volume Maturing of Multinational Enterprise ha delineato un rapporto ricorrente tra obiettivi della politica estera delle amministrazioni democratiche e strategia espansiva dei grandi complessi in­dustriali. Tale costanza è inscritta nella più generale ridefinizione dei rapporti tra stato ed economia avviata dalla grande depressione e dagli anni di guerra24.Così, diversi studi tendono a confermare le radici strutturali della politica americana anche laddove respingano aspetti importanti delle tesi dei Kolko. È il caso appunto del ruolo propulsivo del surplus inassorbito nella spiegazione dell’espansionismo degli anni ’40, che il quadro del ciclo economico postbellico offerto da C.A. Blith e R.A. Gordon sembra negare, attenuando contemporanea­

22 j. e G. kolko, The limits, p. 360. Per le critiche citate v. i dibattiti in Politicai Science Quarterly, 1973 e Pacificai Historical Review, n. 42, 1973.23 Cfr. d. horowitz, The Free World Colossus, New York, 1 9 6 5 . Non è qui possibile ricostruire il dibattito storiografico relativo alla natura dell’imperialismo americano nel secondo dopoguerra, che si collega ad una più complessiva interpretazione del fenomeno storico: v. p . bairati, Impe­rialismo statunitense, in « Il mondo contemporaneo », cit.; H. dean, Scarce Resources: The Dinamic of American Imperialism, Boston, 1 9 6 5 ; T . moran, Foreign Expansion as an Institutional Ne­cessity for U.S. Corporate Globalism: The Search for a radical Model, in « World Politics », aprile 1 9 7 3 ; fann-odges, Readings in U.S. Imperialism, Boston, 1 9 7 1 . Altrettanto vasta la lette­ratura dedicata al complesso militare-industriale come vettore dell’espansionismo statunitense: v. s. melman, Pentagon Capitalism: The political economy of war, New York, 1 9 7 0 (ed. it. Capitalismo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economia americana, Torino, 1 9 7 5 ) ; id ., The Permanent War Economy: American, Capitalism in decline, New York, 1 9 7 4 ; b .f . cooling, War Business and American Society, Historical Perspectives on the Military-Industrial Complex, New York, 1 9 7 7 ; j .l . clayton, The Economic Impact of the Cold War, New York, 1 9 7 0 ; c.E. nathanson, The Militarization of the American Economy, in D. horowitz (ed.), Corporations, cit.24 I capitoli sul secondo dopoguerra sono, comunque, i meno convincenti della studiosa di Harvard: M. w ilk in s , The Maturing of Multinational Enterprise: American Business Abroad from 1914 to 1970, Cambridge, Mars 1974; larson h .m ., knowlton e .h ., popple c.s ., History of Standard Oil Company (N.I.), New York, 1971. Anche per questo versante ci si limita ai contributi più recenti: s .d. krasner, Defending the National Interest. Raw Materials Investments and U.S. Foreign Policy, Princeton, 1978; a.e . eckes jr., The United States and the global struggle for Minerals, Austin, 1979.

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mente il carattere dirompente delle contraddizioni interne al sistema economico USA nel dopoguerra25.Ma ciò che l’interpretazione dei Kolko non chiarisce appieno è la specificità sto­rica, distintiva, deH’imperialismo americano26. T.G. Paterson ha scritto, a con­clusione del suo saggio Soviet American Confrontation «La diplomazia americana non fu accidentale o priva di scopi: piuttosto, essa fu consapevolmente espansio­nista. Un elemento essenziale in quell’espansione, espressa nell’ideologia della pace e prosperità, era economico: lo sviluppo del commercio estero e degli investimenti, l’acquisizione di materie prime. Ma vi era qualcosa di più in questo espansionismo, rispetto agli aspetti economici, che non può essere spiegato semplicemente come un singolare sforzo per sostenere il capitalismo in patria e riformarlo all’estero ». Gli Stati Uniti — prosegue Paterson — erano una potenza capitalistica non meno che cristiana, industrialmente avanzata ma chauvinista, detenevano il monopolio di sofisticate tecnologie ma non avevano rinunciato ad un profondo razzismo. Univano idealismo e militarismo, universalismo e arroganza. « Sostenere che queste caratteristiche dipendono dalla natura capitalistica è rendere il termine < capita­lista > così elastico e inclusivo da essere privo di senso » 27. Laddove con ciò si voglia porre l’accento sulle specificità storiche e politiche del ruolo statunitense, ma anche sui caratteri innovatori e « modernizzanti » ad esso propri, il rilievo coglie nel segno.Paterson, peraltro, formulando la tesi della « quest for peace and prosperity » come ideologia sottesa alla politica economica internazionale degli Stati Uniti sembra talora soltanto aggiornare con un concetto più ampio la proposta di W. Wil­liams relativa alla strategia dell’« open door». «The Truman Administration — si legge ancora in Soviet American Confrontation ■— sought thè economie open door for much thè same reasons it sought free elections: both were traditional American ideáis » 28. Il confronto con l’Unione Sovietica riveste in questa analisi un ruolo centrale; le crisi successive che caratterizzano le origini della guerra fredda non vengono considerate artificiosi inasprimenti indotti dagli Stati Uniti per ridefinire in primo luogo i rapporti intercapitalistici, come sostengono i Kolko. È in funzione di tale confronto che matura e si impone una strategia di pressione economica; è la tesi accolta anche da Yergin. Fallimentare nei riguardi dell’est essa contribuisce a plasmare nell’Europa Occidentale e nel resto del mondo un assetto globale, subordinato non solo economicamente agli USA. Partendo da questa valutazione l’analisi si fa più circostanziata. L ’individuazione degli stru­menti principali di questa strategia è ricostruita insieme all’identificazione di quei settori produttivi orientati verso il mercato internazionale e quegli ambienti po­

25 c.A. b lith , American Business Cycles 1945-1950, New York, 1969; R.A. cordon, Economie Instability and Growth: The American Record, Berkeley, 1974 (ed. it. Crescita e ciclo nell’eco­nomia americana dal 1919 al 1973, Milano, 1978), cap. IV; b .g. hickm an , Growth and Stability of the postwar Economy, Washington, 1960.26 Sulla specificità dell’imperialismo statunitense ha insistito, tra gli altri, g. stedmann jones. The Specificity of United States Imperialism, in « New Left Review », n. 60, 1970. Di w .a. w il ­liams v. i recenti contributi: History as a way of Learning, New York, 1973 (ed. it. Le frontiere dell’Impero americano, Bari, 1978); id ., Confessions of an Intransigent Revisionist, in « Socialist Revolution », n. 17, 1973; id ., Americans in a Changing World. A History of the United States in the 20th. Century, New York, 1978.27 T.G. paterson, Soviet-American Confrontation, Postwar Reconstruction and the Origins of Cold War, Baltimore, 1973, p. 263.28 t .g. paterson, Soviet-American, cit., p. 99; una form ulazione più articolata del tem a è in The Quest for Peace and Prosperity: International Trade, Communism and Marshall Plan, in B. Bernstein (ed.), Politics and Policies, cit., pp. 78-112.

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litici, ad essi legati, sostenitori della «quest for peace and prosperity». Non meno dei successi emergono le contraddizioni registrate nell’impatto concreto con l’Euro­pa. Quali le tappe di tale strategia? Paterson, come Kolko ed altri, fa riferimento all’azione internazionale per un multilateralismo commerciale, alla riorganizzazione finanziaria e monetaria, alla politica dei prestiti e degli aiuti, non trascurando le politiche economiche delle forze di occupazione nei paesi vinti. La sistemazione data a questa complessa materia implica un confronto con la vasta pubblicistica esistente sui singoli problemi, ma al tempo stesso un approccio a nodi a cui la ricerca successiva è frequentemente tornata. Egli insiste, per primo, ad esempio, sulla politica del prestito e del condizionamento degli scambi commerciali con l’Est come primo passo di un nuovo atteggiamento globale25 * * * 29. Nella valutazione della riorganizzazione finanziaria e commerciale internazionale, oltre a sussumere i risultati del classico saggio di R.N. Gardner, egli coglie più nitidamente lo scontro di interessi e le ragioni strutturali della crescente conflittualità anglo-americana sui temi del multilateralismo e del nuovo ordine monetario30. Si tratta comunque di terreni di conflitto da Paterson subordinati alla centralità dello scontro russo­americano, a differenza di quanto sostengono i Kolko.Nell’approfondimento dell’ideologia della « prosperità » Paterson propone risultati altrettanto validi. Egli coglie un effetto di modernizzazione immesso nei paesi europei dall’ERP e dall’intervento americano, che impedisce di limitare l’analisi al solo, pur decisivo, versante dell’azione di restaurazione sociale e stabilizzazione anticomunista3I.Questo aspetto innovativo, ma anche la centralità delle relazioni intercapitalistiche, l’esigenza di non appiattire meccanicisticamente la determinazione delle radici strutturali della politica internazionale degli Stati Uniti, sono al centro dei saggi di Charles Maier.In The Politics of Productivity: Foundations of American International Economie Policy ai ter World War II, apparso nel 1977, l’autore del classico volume sul­l’Europa degli anni ’20, ha ricollegato alla storia di lungo periodo questi aspetti, proponendo una delle ipotesi più suggestive di valutazione del secondo dopoguerra. Maier ritiene il determinismo economico simmetrico alla valutazione tradizionale di una politica internazionale dettata da un illuminato e idealistico universalismo. E aggiunge, differenziandosi da Paterson e Williams: « Questa escatologia della

25 G. herring, Aid io Russia, 1941-1946, New York, 1973; per la mancata efficacia di talestrategia nell’Europa Orientale v. t .g. paterson, Soviet-American, cit., pp. 99 sgg., ma cfr. G.lundestad, The American non Policy towards Eastern Europe 1943-1947, New York, 1975. Sulle politiche economiche di occupazione v. in particolare il caso tedesco pp. 235 sgg. j .h . backer,Priming the German Economy: American Occupational Policies 1945-1948, Durham, 1971. Perl’Italia D.w. ellwood, L’alleato nemico, Milano, 1977, pp. 317 sgg.; più in generale v. h .a. schmitt (ed.), United States Occupation in Europe after World War II, Lawrence, 1978.30 R.N. Gardner, Sterling-Dollar Diplomacy, New York, 1969 (ed. it. Politica economica e or­dine internazionale, Milano, 1978), rimane un contributo fondamentale nonostante l’accrescersi della bibliografia sulle origini delle organizzazioni economiche internazionali e sugli aspetti della strategia statunitense, il modificarsi degli orientamenti interpretativi e le nuove acquisizioni docu­mentarie. Cfr. tra le opere più recenti a.e . eckes jr., A Search for Solvency: Bretton Woods and the International Monetary System 1941-1947, Austin, 1975, e, per un taglio « revisionista » ma non sufficientemente documentato v. f .l . block, The Origins of International Economie Disorder, Berkeley, 1977.31 t.g. paterson, Soviet-American, cit., pp. 207 sgg.; id., The Quest for Peace, cit. Sottolinea la conflittualità anglo-americana, l’importante saggio di w.R. L outs, Imperialism at bay. The U.S. and Decolonization of the British Empire 1941-45, Owford, 1978. Una serie di interessanti valu­tazioni sulla conflittualità europea rispetto al multilateralismo statunitense in o. hieronym i, Economie Discriminations against the U.S. in Western Europe 1945-1958, Geneve, 1973.

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prosperità nella pace — con il suo amalgama di aspirazioni nazionaliste e univer­salistiche, opportunamente definito « wilsoniano » — non è comunque sufficiente a spiegare completamente le radici ideologiche della politica economica interna­zionale americana. Né l’anticomunismo montante è una spiegazione sufficiente... È necessario comprendere più a fondo le concezioni americane di un deside­rabile ordine economico internazionale, in termini di divisioni sociali e « stal­li » politici interni agli stessi Stati Uniti » 32. Posti di fronte ai problemi della ricostruzione postbellica da posizioni di ineguagliata potenza e incisività politica, i gruppi dirigenti americani avrebbero teso ad estendere al resto del mondo, ma in particolare, e con successo, all’Europa occidentale e al Giappone, un modello di egemonia sociale fondato sull’assioma della produttività come vettore di integra­zione interclassista. Il precedente del New Deal è evidente: « The stress on pro- ductivity and economie growth arose out of thè very terms in which Americans resolved their own organization of economie power ». Subordinare i conflitti di classe e internazionali al raggiungimento di una efficienza produttiva capace di garantire benessere e prosperità: questo il cardine dell’intervento tra il 1946 e il 1951. Sostenitori di questo modello internazionale di egemonia sociale sono gli stessi gruppi di comando capitalistici impegnati negli anni quaranta a dare una soluzione di stabilizzazione moderata al New Deal. In Europa e in Giappone referente è un blocco di potere ancora fragile e instabile per le tensioni di classe esasperate dalla congiuntura postbellica, destinato a coagularsi proprio attorno all’intervento americano.La realizzazione di un’egemonia degli Stati Uniti su scala mondiale passa attra­verso il consenso di questi gruppi dirigenti, ma soprattutto di più vasti strati so­ciali. Il consenso dipende, certo, dalla promozione di trasformazioni strutturali (gli investimenti, il nuovo assetto finanziario e commerciale internazionale) ma anche ideologiche e politiche. Nella « politica della produttività », che prospetta la transizione alla società del benessere come problema di ingegneria, piutto­sto che come esito di un confronto sociale e politico, egli individua un ce­mento ideologico di massa destinato ad incrinarsi soltanto alla fine degli anni sessanta.Ne sono tramite diretto settori informativi, culturali, ma anche sindacali e poli­tici, dato che uno degli obiettivi principali degli Stati Uniti è la ridefinizione della cultura del movimento operaio. Maier aggiunge nuovi elementi di conoscenza, relativi alla natura dell’intervento americano in questa direzione, accanto a quelli evidenziati da Radosh, Godson e da altri autori in contributi di gran­de interesse. Il costante riferimento alle specificità nazionali e ai limiti impo­sti da queste alla strategia americana, rende la proposta analitica convincente. Così è oltremodo arduo perdere di vista i limiti di tali propensioni « riformatrici » e modernizzanti. Già il caso italiano — come vedremo — tende a dimostrare che tali propensioni, pure presenti, sono spesso subordinate alla preferenza per la ga­ranzia di « stabilità » offerta da forze conservatrici. Dove la coincidenza auspicata tra modernizzazione e stabilità non pare realizzarsi — è il caso di molti paesi del terzo mondo, negli anni ’50 e oltre — l’elemento democratico intrinseco alla

3! c.s. maier, The Politics of Productivity: foundations of American International economic Policy after World War II, in « International Organization », Autunno 1977, da cui sono tratte le citazioni. Dello stesso Maier, oltre a The Origins, cit., v. il grande affresco della stabilizzazione negli anni ’20, Recasting Bourgeois Europe. Stabilization in France, Germany, and Italy in the Decade after World War I, Princeton, 1975 (ed. it. La rifondazione dell’Europa borghese, Bari, 1979).

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« politics of productivity » lascerà il campo alla più tradizionale politica dell’inter­vento militare33. La pregnanza di quel disegno nel contesto europeo appare, co­munque, indubbia.

Stati Uniti ed Europa

L’interpretazione di Charles Maier tende a spostare l’interesse della ricerca sto­riografica dall’alveo del dibattito sulle origini della guerra fredda e sulle radici strutturali della strategia internazionale degli Stati Uniti verso quell’orizzonte più ampio, relativo alle trasformazioni delle società occidentali nel decennio post­bellico, auspicato da Kirkendall.Lo stesso approccio interdisciplinare implicito in una tesi che tenta di integrare vettori economici e sociali, culturali e politici avendo presente il precedente degli anni venti, rappresenta di per se un salto di qualità rispetto alla storiografia pre­cedente. Oltre alla sensibilità per i problemi della prima ricostruzione «europea», quella degli anni ’20, vi è in Maier il confronto con i più recenti orientamenti della ricerca nel vecchio continente. Più di una coincidenza è il fatto che il seminario su The United States and thè Reorganization of European Institutions after world War II del Lehrman Institute, da cui ha preso le mosse il volume curato da Maier sulle origini della guerra fredda e dell’Europa postbellica sia contemporaneo ad un’analoga riflessione ad Oxford. Recomtruction: Metropolitan Capitalism from thè second world war to Korea, redatta da P.J. Armstrong, A.J. Glyn, J.M. Har- rison e R.B. Sutcliffe, ne raccoglie i primi risultati34. Anche il gruppo coordinato da Sutcliffe considera il periodo segnato profondamente dall’iniziativa americana sul triplice terreno dei rapporti con l’Unione Sovietica, con gli altri paesi capita­listici, con una destabilizzazione sociale diffusa, valutata di gran lunga più grave dei problemi della ripresa economica in senso stretto.Dopo una prima fase in cui tale iniziativa risulta contraddittoria, perché incapace di saldare i diversi terreni in una strategia globale, a partire dal 1947 si realizza un disegno organico di egemonia e stabilizzazione su scala mondiale. Perno di tale svolta è l’atteggiamento del movimento operaio europeo che, consentendo la restaurazione degli equilibri tradizionali di classe, avrebbe consolidato oggetti­vamente il blocco di potere capitalistico. La presa di coscienza di tale mutamento dei rapporti di forza tra le classi da parte americana si traduce in un riassestamento strategico. Si individua nell’URSS il nemico principale e si ricompone nella lotta anticomunista su scala mondiale un’unità interna ai vari paesi e del blocco capi­talistico in quanto tale sotto l’egemonia americana.Per quanto suggestiva e sorretta da una originale riconsiderazione delle dinamiche

33 Per una testimonianza, fra le tante, della pregnanza dell’ideologia americana in Europa, v. G. Hutton, We too can prosper, London, 1953. Più in generale b.a. javits, Peace by investment, New York, 1950. Una ricognizione esemplare, relativa al coagularsi del blocco dominante, in K. vergoupolos, L’hegemonie americaine apres la 2 guerre mondiale et la formation de la bourgoise peripherique en Grece, in « Les temps Moderns », 3, 1979. Sul movimento operaio c sui sindacati v. v .R . radosh, American Labor and U.S. Foreign Policy, New York, 1969 (ed. it. Il Sindacato imperialista, Torino, 1978); r. godson, American Labor and European Politics: the AFL as a transnational Force, New York, 1976, ma anche J. w indm uller , American Labor and the International Labor Movement 1940-1953, Ithaca, 1954.34 P.J. ARMSTRONG, A.J. glyn, J.M. harrison, R.B. su tcliffe , Reconstruction. Metropolitan Capitalism from the Second World War to Korea, Oxford, 1976 (dattiloscritto). Sull’assenza di uno sviluppo storiografico europeo parallelo a quello statunitense per gli anni della guerra fredda, insiste, tra gli altri, a.m . schlesinger jr., Cold War, cit. Si vedano anche alcune considerazioni presenti in j.m . siracusa, j .s . John Barclay, The Impact of the Cold War, Port Washington, 1977.

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sociali ed economiche nei paesi europei e negli Stati Uniti, questa interpretazione appare contraddittoria. Il limite non sta solo nel circoscrivere la vicenda postbel­lica entro lo scacchiere europeo ignorando un quadro mondiale di contraddizioni non sempre riconducibili ai tre piani delineati. Né è in discussione il movente anti­comunista come ha sostenuto qualcuno. Ad esempio Gaddis nel citato saggio su « Foreign Affairs » ha scritto che quel movente non sarebbe presente nella Dot­trina Truman e nella politica estera americana fino alla guerra di Corea. Ma, a ben vedere, è scarsamente fondato sulla documentazione nota, arguire — sulla base pure corretta che oggetto dello scontro principale era non il movimento operaio europeo ma l’Unione Sovietica — che il movimento comunista mondiale non venisse considerato a Washington già nel 1947 un nemico globale in quanto « piovra » guidata da Mosca33 * 3S 36.Un primo limite di fondo della tesi dei ricercatori inglesi va visto invero nell’at­tribuzione moralistica di ogni « responsabilità » della sconfitta di classe postbellica alle strategie del movimento operaio occidentale, laddove la stabilizzazione prima e la sconfitta poi, ove questa vi fu, paiono frutto di un più complesso fascio di cause, non solo ideologiche. Si pensi all’importanza della razionalizzazione capi­talistica nel ridefinire le basi sociali del movimento operaio oppure al controllo conservatore di aree di emarginazione e disoccupazione. E ancora al ruolo, nuovo per molti paesi europei, di partiti di massa moderati e dei modelli di gestione dello stato da quelli attivati; elementi questi posti in rilievo dalla recente ricerca.Non ultima ragione — e ad essa rimanda direttamente il saggio di Maier — la pregnanza del disegno egemonico che l’intervento americano induce nei paesi europei, con il duplice coesivo delPanticomunismo e dell’ideologia della prosperità e del benessere perseguibili attraverso l’interclassista « politics of productivity ». Le stesse finalità degli Stati Uniti non possono essere circoscritte ad un disegno di restaurazione planetaria quale quello proposto da Sutcliffe. Come ha notato D. Ellwood almeno in Europa, « l’obiettivo di lungo termine non fu semplice- mente la < stabilizzazione >, cioè un ritorno allo status quo ante, ma l’inizio di un ciclo virtuoso di sviluppo entro il quale una crescita generale dei livelli di'vita potesse creare i margini per la modernizzazione e per certe riforme, nonché pro­muovere la pace sociale » Tutto ciò spinge a ritenere che una più articolata storia sociale del secondo dopoguerra, piuttosto che una proiezione internazionale dell’in­terpretazione dell’« occasione mancata », offra nuovi elementi esplicativi della svolta del 1947 e dell’assetto globale emergente negli anni cinquanta.Le analisi di Sutcliffe e di Maier portano alle estreme conseguenze una tendenza storiografica tesa a rimarcare la centralità del rapporto Stati Uniti-Europa rispetto al confronto con l’Unione Sovietica.Peraltro anche laddove si preferisce una minore insistenza, come nel volume di Paterson e in altri contributi della storiografia americana attenta alle relazioni economiche internazionali, quel rapporto è considerato particolarmente comples­so e poliedrico. Conflittualità intercapitalistica, egemonia e dipendenza, neoco­lonialismo, cooperazione in un disegno di stabilizzazione globale e di restaurazione sociale ma anche di modernizzazione civile sono alcuni degli angoli di visuale

33 Per lo scenario extraeuropeo v. a. gunder frank, The Postwar Boom: Boon for the West,Bust for the South, in « Journal of International Studies », autunno 1978, pp. 153-1962. Le obie­zioni sull’anticomunismo in j .l . gaddis, Was the Truman Doctrine, cit.36 D.w. ellwood, American Imperialism in Europe, 1905-1978, Bologna, 1979 (dattiloscritto), p. 22. In polemica con le frequenti sopravvalutazioni dei movimenti di classe neH’immediato dopoguerra, Maier scrive: « America did not really have to rescue Europe from radical change because no significant mass-based elements advocated a radical transformation » (Origins, cit., p. 18).

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proposti dalle ricerche citate. L’esaurimento tra gli anni ’60 e ’70 degli equilibri delineatisi nell’immediato dopoguerra è alla base di una rinnovata attenzione ad essi, sia da parte europea che da parte americana.L’ottica politico-diplomatica risulta ancora prevalente. Già abbiamo notato come la migliore storiografia sulle origini della guerra fredda abbia via via riconsiderato il ruolo autonomo dei paesi europei rispetto alle tensioni postbelliche. John Gimbel, ad esempio, nella definizione della questione tedesca e delle origini del piano Marshall, riconduce la politica americana non tanto alla priorità antisovietica quanto alla necessità di riassorbire le rivendicazioni francesi sul paese vinto. In questo caso, come in altri, si tratta pur sempre di un’ottica interna alla tradi­zionale storia diplomatica37. Tanto meno esorbitano da essa le ultime voci di quella vasta bibliografia sul sistema politico euro-americano, più o meno inscritta nell’angusto perimetro « atlantista ». Proprio a fronte di questi diffusi approcci alle origini postbelliche dei rapporti Stati Uniti-Europa risalta la fertilità dei con­tributi dei Kolko, di Paterson, Maier, Sutcliffe qui considerati38. Essi avviano la suggestiva esplorazione delle trasformazioni delle società occidentali negli anni cinquanta. Trasformazioni in primo luogo della struttura economica interna ed internazionale, nei meccanismi di accumulazione ma anche di distribuzione. È dall’interpretazione del ciclo 1945-51 che possono apparire non solo i «prerequisiti del boom successivo » ma anche lo spessore delle contraddizioni proprie dell’in­tervento economico americano.Non paiono sottovalutabili soprattutto i mutamenti di modelli di gestione azien­dale, di assetti tecnologici e di ideologie imprenditoriali. Il piano Marshall tra il 1947 e il 1951 assume da questo punto di vista un’importanza notevole, ben maggiore di quella sottesa al flusso materiali di aiuti e all’apporto del sostegno finanziario ai paesi europei la cui funzione di « volano » dello sviluppo successivo è stata contestata a più riprese. E lo stesso si dica a proposito del nodo decisivo del trasferimento di capitali e degli investimenti americani in Europa, le cui ripercussioni vanno ben oltre la semplice ricostituzione degli stocks di capitale. Ad esse, come alla organizzazione del sistema finanziario e commerciale interna­zionale, sono connesse le linee di definizione di una divisione internazionale del lavoro, destinata a protrarsi ben oltre gli anni cinquanta39.Ma il dato saliente, rimarcato da approcci dissimili, da A. Maddison a P. Sweezy, è il ruolo nuovo assunto dallo stato nella promozione dello sviluppo e nella di­retta gestione dei meccanismi di accumulazione. È forse questo l’elemento me­no presente nella riflessione storiografica qui considerata, ma di grande impor­tanza per una piena comprensione del decennio postbellico. Si è richiamata

37 J. gim bel, The American Occupation oj Germany. Politics and Military, 1945-49, Stanford, 1968; id., The Origins of Marshall Pian, Stanford, 1976.38 E. VAN DER BEUGEL, From Marshall Aid to Atlantic Partnership: European Integration as a Concern of American Foreign Policy, Amsterdam, 1966; R. mayne, The Recovery of Europe. 1945- 1973 , New York, 1973; a. buchan, Europe and America. From Alliance to Coalition, Sawon House, 1976; e .o. czem piel , d.a. ru sto w , Euro-American System, Frankfurt, 1976. In questo panorama sul quale v. d. ellwood, American lmperialism, cit., si inserisce anche G. mammarella, Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile, Firenze, 1976. Più complesso il quadro proposto da F. catalano, Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda, Milano, 1972, nonché le consi­derazioni pure parziali in N. addario, e . baldi, 0. longo, Europa-USA. Le contraddizioni interim­perialistiche, Firenze, 1977; sulla situazione attuale v. c.m . santoro, Europa e USA: cooperazione o conflitto?, in « Critica marxista », n. 3, 1979.39 Sul piano Marshall nei paesi europei — mentre scriviamo — si annunciano due importanti convegni ad Essen, « Marshall Plan und Europäische Linke », e a Roma « 11 Piano Marshall e l’Europa ». In essi sarà possibile fare il punto sugli sviluppi della ricerca al di qua dell’Atlantico.

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da altre parti l’attenzione sulla diffusione delle ideologie keynesiane, non meno importante dell’affermazione di produzioni di massa o della ridefinizione dei mer­cati di consumo.Tale diffusione chiama in causa, in primo luogo, il significato delle politiche eco­nomiche governative, fin dagli anni della gestione degli aiuti americani.Il ruolo dello Stato ha un’altra valenza, in quanto vettore della legittimazione del blocco di potere. Esso diviene protagonista per eccellenza di quella soluzione delle contraddizioni di classe per la via, già sperimentata con successo negli Stati Uniti, del controllo sociale. Si pensi per limitarci ad un comparto di rilievo quale quello agricolo alla adozione di politiche di assistenza e scomposizione corporativa nei paesi europei, capaci di contenere le tensioni di un settore decisivo delle società continentali, che ha più di un precedente proprio nel New Deal. E ancora alla tematica delle « aree depresse » da cui deriva la definizione di istituzioni ed Enti di sviluppo in molti paesi europei. In essi trova corpo più di un aspetto della ideologia della produttività e delle prosperità; in essi si realizza la valorizzazione delle istanze « tecniche » proprie di vasti strati intermedi urbani. Qui, infine, emerge un nuovo modello di « stato, pluralizzato in amministrazioni autonome che canalizzano e corporativizzano la società civile » 40. Viene da chiedersi, dun­que, quale rapporto esiste tra politica americana in Europa e precedenti espe­rienze nazionali di «pluralismo corporativo». Un tema che Maier sfiora nel suo saggio, ma che merita attenzione ben maggiore nel proseguimento delle ricerche. Certo non tutti i caratteri salienti lo sviluppo postbellico possono essere ricondotti ad un disegno prestabilito e promosso esclusivamente dagli Stati Uniti. Speci­ficità nazionali scarsamente malleabili, contraddizioni ed equilibri sociali peculiari alle diverse realtà provocano un ampio ventaglio di soluzioni; ma tratti comuni, interdipendenze e influssi risultano innegabili.Vettore di omogeneizzazione è, come hanno notato molti autori citati, in primo luogo, 1’affermarsi di culture e orientamenti di massa mutuati direttamente da­gli Stati Uniti. Non si fa riferimento esclusivamente alla circolazione delle idee o alla recezione culturale in senso stretto, su cui abbiamo importanti ricerche, negli Stati Uniti e in Europa41. È la formazione di un « senso comune » con­dizionato dalla diffusione di nuovi mezzi di comunicazione o dalla ridefinizione dei tradizionali, a dare corpo a quella integrazione secondo i parametri di una vera e propria « ideologia americana ». Produttività, prosperità, benessere consumistico finiscono per essere componenti e sfaccettature di un medesimo nu­cleo. Ne risultano coinvolti aspetti primari del costume, modelli di comporta­mento quotidiano di vasti strati sociali, ma anche più sedimentate realtà quali gli orientamenti e le aggregazioni sindacali e politiche. Al proposito si citava

® G. amato, II Governo dell'industria in Italia, Bologna, 1972, p. 34. Sul ruolo dello Stato v. p.A . baran, p .m . sw eezy , Il Capitale monopolistico, Torino, 1968; m . kibron, Il capitalismo occi­dentale del dopoguerra, Bari, 1969; A. maddison, Economie Growith in thè West, London, 1963. Per il rapporto Stato-legittimazlone-controllo sociale v. c. offe, L o Stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977. Per le politiche agricole e nei confronti delle arce depresse v. G. barbero, L’inter­vento pubblico nell’agricoltura europea, Roma, 1963, e per gli Stati Uniti n.c. blaisdell, Go­vernment and agricolture. The Growth of Federai Farm Aid, New York, 1940; Atti del Con­vegno Internazionale di Studi sulle aree arretrate, Milano, 1956 e Centro Nazionale di Difesa e prevenzione sociale, Problemi dello sviluppo delle aree arretrate, Bologna, 1960.41 Per limitarci alle ultime ricerche in Italia v, T. bonazzi, America-Europa: la circolazione delle idee, Bologna, 1976 (in particolare i saggi di e . krippendorff e G. pasquino), gli interventi suggestivi di M. Teodon e F. Ferrarotti in Italia e America dalla grande guerra ad oggi, Padova, 1976, nonché diverse comunicazioni al corso internazionale della Fondazione G. Cini sul tema « Europa e Nord America. Incontri di modelli culturali nel X X secolo », Venezia, settembre 1977.

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poc’anzi il catalizzarsi, attorno all’anticoniunismo atlantista, di opzioni terzafor- ziste, di tradizioni socialdemocratiche, cattoliche o radicali, presenti in Europa. Certo il versante europeo delle trasformazioni nelle società occidentali registra una dialettica assai più viva di quella propria degli Stati Uniti.È una differenziazione destinata ad accentuarsi ulteriormente quando si consi­deri il caso italiano, ma non al punto da negare una sua contestualizzazione in questo panorama.Sembra questa la conclusione formulata dagli studi più attenti, recentemente de­dicati al rapporto Italia-Stati Uniti negli anni della guerra fredda.Anche per questo versante può dirsi matura l’ora di un superamento del tradi­zionale orizzonte politico-diplomatico a favore di una ricognizione dei riflessi eco­nomici, sociali e culturali della nuova collocazione internazionale dell’Italia nel secondo dopoguerra.Un’indagine relativa al caso italiano potrebbe offrire alla storiografia della guerra fredda un apporto conoscitivo importante quanto meno rivalutando la dialettica contraddittoria del periodo postbellico e dell’intervento statunitense, troppo spesso analizzato in laboratori peculiari quali Giappone e Germania. Ma anche maggiore sarebbe tale apporto in funzione di una ricostruzione storica della vicenda sociale e civile nazionale al di fuori di ottiche di breve periodo, di metodologie tradi­zionali e pregiudiziali ideologismi42.

PIER PAOLO D’àTTORRE

42 Per l’intervento americano in Italia v. Italia-Stati Uniti, cit.; n. ellwood, L’alleato, cit.; R. faenza, M. f in i, Gli americani in Italia, Milano, 1976; E. collctti, La collocazione internazionale dell’Italia dall’Armistizio alle premesse dell’alleanza atlantica, 1943-1947, in INSMLI, L’Italia dalla Liberazione della Repubblica, Milano, 1976. Per le ripercussioni econo­miche v. cir, Lo sviluppo dell’economia italiana nel quadro della ricostruzione e della coopera­zione europea, Roma, 1952; G. bonifati, f . vianello, L’economia italiana negli anni della Rico­struzione, in « Italia Contemporanea », n. 126, 1977; Centro Nazionale di Difesa e Prevenzione Sociale, Progresso Tecnologico e società italiana, Milano-Bologna, 1961-62; w .G . scorr, Gli inve­stimenti esteri in Italia, Milano, 1960; un esempio dell’attenzione crescente ai mezzi di diffu­sione di un’« ideologia americana » nel secondo dopoguerra in e. di nolfo, Documenti sul ritorno del cinema americano in Italia nell’immediato dopoguerra, in aa.w ., Intellettuali in trincea, Padova, 1977.