Guerra e azione umanitaria: l’Iraq e i Balcani della comunità internazionale alle crisi...

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Negli anni ’90 le organizzazioni umanitarie dovettero fronteggiare una serie di sfide fondamentalmente nuove. Nel mutato clima politico del dopo guerra fredda, non solo l’Unhcr, ma un gran numero di organizzazioni umanitarie e di altri protagonisti sulla scena internazionale cominciarono ad operare molto più di prima negli stessi paesi e territori devastati dalla guerra. Si registrò uno spettacolare aumento dell’intervento di forze militari multinazionali in conflitti interni, e i media – e, in particolare, i servizi televisivi in diretta – svolsero un ruolo cruciale per motivare, su tutto il pianeta, la risposta della comunità internazionale alle crisi umanitarie. Nel 1991, l’esodo in massa dei curdi dall’Iraq settentrionale, a seguito della guerra del Golfo, costituì per l’Unhcr un particolare dilemma. La Turchia rifiutava di concedere l’asilo ai curdi, e le forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti crearono dunque nel nord dello stesso Iraq una "zona di sicurezza" loro destinata. L’Unhcr partecipò a tale operazione, che comporta- va una stretta collaborazione con le forze militari della coalizione. Per l’Unhcr fu la prima gran- de operazione di soccorso dalla fine della guerra fredda, e costituì una importante svolta. I movimenti di popolazione su larga scala che iniziarono nei Balcani alcuni mesi dopo, quello stesso anno, durante la disgregazione della Jugoslavia, diedero luogo a una serie di operazioni internazionali di soccorso ancora più complesse, in cui l’Unhcr svolse un ruolo di primo piano. Anche qui, l’organizzazione operò in stretta collaborazione con una forza militare multinazionale, in un contesto pericoloso e for- temente politicizzato. Nella Bosnia-Erzegovina, per la prima volta nella sua storia, l’Unhcr lanciò un’operazione umanitaria nel bel mezzo di una guerra, sforzandosi di assistere non solo i rifugiati, ma anche gli sfollati e le altre vittime del conflitto. Durante queste e altre operazioni, realizzate negli anni ’90, l’Unhcr dovette affrontare due problemi principali. Primo, tentare di aiutare i civili durante un conflitto armato si rivelò ben più difficile che assistere i rifugiati nei paesi d’asilo. Persino il diritto di raggiungere le popolazioni vulnerabili costituì, in molti casi, un problema complesso, e la sicurezza fu moti- vo di seria preoccupazione, non solo per gli assistiti, ma anche per il personale umanitario. Continuare a dare l’impressione dell’imparzialità era difficile, per non dire impossibile. In secondo luogo, il gran numero di governi e organismi internazionali coinvolti nella risposta alle emergenze umanitarie richiedeva una migliore collaborazione fra loro. Furono instaura- ti nuovi rapporti, non solo con forze militari multinazionali e con altre organizzazioni uma- nitarie, ma anche con tutta una serie di altri interessati: organismi per la sicurezza regionale, paladini dei diritti umani, commissioni d’inchiesta sui crimini di guerra, organizzazioni per lo sviluppo, negoziatori per la pace, senza dimenticare i mezzi di comunicazione. Il presente capitolo descrive le difficoltà e i dilemmi davanti ai quali si trovarono, nel corso di tali operazioni, l’Unhcr e le altre organizzazioni umanitarie. Per esempio, quando dare la priorità alla protezione degli abitanti coinvolti in una situazione di con- 9 Guerra e azione umanitaria: l’Iraq e i Balcani

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Negli anni ’90 le organizzazioni umanitarie dovettero fronteggiare una serie di sfidefondamentalmente nuove. Nel mutato clima politico del dopo guerra fredda, non solol’Unhcr, ma un gran numero di organizzazioni umanitarie e di altri protagonisti sullascena internazionale cominciarono ad operare molto più di prima negli stessi paesi eterritori devastati dalla guerra. Si registrò uno spettacolare aumento dell’intervento diforze militari multinazionali in conflitti interni, e i media – e, in particolare, i servizitelevisivi in diretta – svolsero un ruolo cruciale per motivare, su tutto il pianeta, larisposta della comunità internazionale alle crisi umanitarie.

Nel 1991, l’esodo in massa dei curdi dall’Iraq settentrionale, a seguito della guerra delGolfo, costituì per l’Unhcr un particolare dilemma. La Turchia rifiutava di concedere l’asilo aicurdi, e le forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti crearono dunque nel nord dello stessoIraq una "zona di sicurezza" loro destinata. L’Unhcr partecipò a tale operazione, che comporta-va una stretta collaborazione con le forze militari della coalizione. Per l’Unhcr fu la prima gran-de operazione di soccorso dalla fine della guerra fredda, e costituì una importante svolta.

I movimenti di popolazione su larga scala che iniziarono nei Balcani alcuni mesidopo, quello stesso anno, durante la disgregazione della Jugoslavia, diedero luogo auna serie di operazioni internazionali di soccorso ancora più complesse, in cuil’Unhcr svolse un ruolo di primo piano. Anche qui, l’organizzazione operò in strettacollaborazione con una forza militare multinazionale, in un contesto pericoloso e for-temente politicizzato. Nella Bosnia-Erzegovina, per la prima volta nella sua storia,l’Unhcr lanciò un’operazione umanitaria nel bel mezzo di una guerra, sforzandosi diassistere non solo i rifugiati, ma anche gli sfollati e le altre vittime del conflitto.

Durante queste e altre operazioni, realizzate negli anni ’90, l’Unhcr dovette affrontaredue problemi principali. Primo, tentare di aiutare i civili durante un conflitto armato si rivelòben più difficile che assistere i rifugiati nei paesi d’asilo. Persino il diritto di raggiungere lepopolazioni vulnerabili costituì, in molti casi, un problema complesso, e la sicurezza fu moti-vo di seria preoccupazione, non solo per gli assistiti, ma anche per il personale umanitario.Continuare a dare l’impressione dell’imparzialità era difficile, per non dire impossibile. Insecondo luogo, il gran numero di governi e organismi internazionali coinvolti nella rispostaalle emergenze umanitarie richiedeva una migliore collaborazione fra loro. Furono instaura-ti nuovi rapporti, non solo con forze militari multinazionali e con altre organizzazioni uma-nitarie, ma anche con tutta una serie di altri interessati: organismi per la sicurezza regionale,paladini dei diritti umani, commissioni d’inchiesta sui crimini di guerra, organizzazioni perlo sviluppo, negoziatori per la pace, senza dimenticare i mezzi di comunicazione.

Il presente capitolo descrive le difficoltà e i dilemmi davanti ai quali si trovarono,nel corso di tali operazioni, l’Unhcr e le altre organizzazioni umanitarie. Per esempio,quando dare la priorità alla protezione degli abitanti coinvolti in una situazione di con-

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flitto nei paesi d’origine, anziché a una protezione attraverso l’asilo? Che tipo di rap-porti devono instaurare le organizzazioni umanitarie con i belligeranti, responsabili diaver preso direttamente come bersaglio dei civili? Come impedire che gli aiuti umani-tari siano dirottati a beneficio delle forze militari locali, in tal modo alimentando ed avolte prolungando la guerra? E ancora, come possono le agenzie umanitarie rimanereimparziali, quando i loro obiettivi sono contrari a quelli di uno o più belligeranti, inparticolare quando esse collaborano da vicino con forze militari internazionali?

La crisi dei curdi nel nord dell’Iraq

Nel marzo 1991, dopo che l’esercito iracheno era stato ricacciato dal Kuwait ad operadella Forza d’intervento (Task Force) della coalizione guidata dagli Stati Uniti, alcunigruppi emarginati dell’Iraq scatenarono una rivolta, sia nel nord che nel sud del paese.Le truppe del presidente Saddam Hussein risposero con rapidità e brutalità, e le con-seguenze per i civili furono devastanti. Presi di mira direttamente in una campagnamilitare dell’esercito iracheno, oltre 450mila abitanti, in maggioranza curdi, fuggiro-no nel giro di una settimana verso la frontiera con la Turchia. Da allora a metà aprile,altri 1,3 milioni di curdi cercarono riparo in Iran. Inoltre, circa 70mila iracheni – inmaggioranza sciiti – fuggirono dalle loro case dell’Iraq meridionale. In vista di unpotenziale esodo di rifugiati, l’Unhcr aveva già predisposto riserve di generi di primanecessità per circa 35mila profughi in Iraq e 20mila in Turchia, ma l’entità numericae la rapidità dei movimenti di popolazione superarono ogni previsione.

Mentre i rifugiati si riversavano in Iran, il governo iraniano chiese l’assistenzadell’Unhcr. Secondo i dati governativi, il paese ospitava già oltre due milioni di rifu-giati: più esattamente, 1,4 milioni di afghani e 600mila iracheni, divenuti esuli duran-te la guerra Iran-Iraq. Con questo nuovo afflusso, l’Iran divenne il paese con la mag-giore popolazione rifugiata al mondo. L’Unhcr rispose aiutando le autorità iraniane afronteggiare l’afflusso ed a gestire i campi profughi.

In Turchia, l’operazione di soccorso umanitario fu molto più complessa. Il gover-no turco, che doveva anch’esso far fronte a una grave insurrezione curda, nell’estdell’Anatolia, chiuse le frontiere con l’Iraq per impedire l’ingresso dei curdi iracheni,nel timore che destabilizzassero il paese. Varie centinaia di migliaia di curdi si trova-rono quindi bloccati in passi di montagna inospitali, coperti di neve, lungo la frontie-ra fra Iraq e Turchia.

Le troupe televisive, che avevano appena diffuso in tutto il pianeta le immaginidella guerra del Golfo, fecero ora conoscere il calvario dei curdi, esposti a temperatu-re glaciali e scarsamente forniti di viveri e di ripari di fortuna. Esercitarono così ulte-riori pressioni sull’Unhcr e sui governi perché lanciassero un’operazione internazio-nale d’emergenza. Raramente una crisi umanitaria era stata così intensamente pubbli-cizzata dai mezzi di comunicazione.

In una prima fase, l’operazione di soccorso alla frontiera turco-irachena fu domi-nata dalle forze militari degli Stati Uniti e degli altri paesi della coalizione, che svol-

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sero un ruolo preminente per organizzare ed effettuare la distribuzione dei generi diprima necessità. Malgrado tutto il materiale e il personale militare disponibili, si regi-strarono seri problemi logistici per far giungere gli aiuti ai profughi, dispersi in deci-ne di località montane poco accessibili.

Al rifiuto della Turchia di concedere l’asilo ai curdi, gli stati occidentali opposerosolo una timida risposta. Fu compiuto qualche passo diplomatico, né vigoroso né pro-tratto nel tempo. I maggiori stati si preoccupavano soprattutto della necessità perl’Organizzazione del Trattato del Nordatlantico (Nato) di continuare a utilizzare leproprie basi aeree in Turchia, ed esitavano quindi a criticarne il governo per la chiu-sura delle frontiere. Oltre a ciò, l’argomentazione secondo cui dei grandi campi pro-fughi per accogliere i curdi iracheni in Turchia avrebbero creato una situazione di tipopalestinese, tendeva a far tacere gli appelli dei governi occidentali alla Turchia perchéconcedesse loro l’asilo 1.

La creazione di un’”oasi di sicurezza”

Mentre la televisione continuava a diffondere in tutto il mondo le drammatiche imma-gini dei curdi intrappolati nelle montagne, cresceva la pressione internazionale per laricerca di una soluzione. Ai primi di aprile 1991, il presidente turco, Turgut Özal,avanzò l’idea di un’"oasi di sicurezza" per i curdi, nel nord dell’Iraq. Dopo prolungatediscussioni, il 5 aprile il Consiglio di sicurezza dell’Onu adottò la risoluzione 688, chesollecitava l’Iraq a consentire immediatamente alle organizzazioni umanitarie interna-zionali di raggiungere tutti coloro che avevano bisogno di assistenza, autorizzando ilSegretario generale a "impiegare tutte le risorse a sua disposizione" per rispondere alle"necessità fondamentali dei rifugiati e degli sfollati iracheni". Fu in base a tale risolu-zione, e nel più ampio quadro degli strascichi della crisi del Golfo, che la Forza d’in-tervento internazionale, sotto la guida degli Stati Uniti, giustificò il lancio dell’opera-zione Provide Comfort, mirante a creare una "zona di sicurezza" nel nord dell’Iraq.

Il 10 aprile, i paesi membri della Task Force istituirono nel nord dell’Iraq una zonad’interdizione di sorvolo e assunsero la direzione dell’operazione di soccorso umani-tario. Il 16 aprile, il presidente americano George Bush annunciava che le forze dellacoalizione sarebbero entrate nella regione per installarvi dei campi per i profughi curdi.Sebbene Bush promettesse di "proteggere" i curdi, l’amministrazione americana esita-va a impegnare nuovamente truppe in un ambiente ostile, ed ebbe cura di fissare unlimite temporale per l’intervento militare degli Stati Uniti 2. L’obiettivo era di consen-tire un rapido ritorno dei curdi nel nord dell’Iraq, trasferendo poi l’operazione alleNazioni Unite.

Le motivazioni degli stati occidentali nel lanciare l’operazione Provide Comfortandavano chiaramente oltre le immediate preoccupazioni umanitarie, comprendendoanche il desiderio di andare incontro alla Turchia, un alleato importante. La loro stra-tegia aveva il vantaggio di rappresentare una soluzione a breve termine per i curdi ira-cheni, che migliorava la loro sicurezza, evitando al tempo stesso qualsiasi indicazioneche ciò potesse condurre alla piena indipendenza. Fu quella una soluzione che i paesidella Nato avrebbero nuovamente applicato con qualche variante, alla fine del decen-nio, nel Kosovo.

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Riquadro 9.1 Gli sfollati

Nel corso degli anni ‘90, la tragicacondizione degli sfollati ha destatomaggiore preoccupazione a livellointernazionale che in precedenza, acausa, da un lato, delle dimensionidegli esodi originati, durante ildecennio, da nuovi conflitti interni e,dall’altro, delle maggiori possibilità diintervento in zone di conflitto incorso, nel mutato contesto politicodel dopo guerra fredda.

Quando, 50 anni orsono, fu creato sulpiano internazionale il regimegiuridico e istituzionale di protezionedei rifugiati, esso non comprendevagli sfollati, cioè gli esuli cherimangono nel proprio paese. In virtùdel tradizionale principio di sovranitànazionale, essi rientravano nellecompetenze dello stato interessato.Ne è derivata una risposta incoerentedella comunità internazionale alfenomeno degli esodi interni dipopolazione, e grandi masse disfollati sono rimaste prive di efficaceprotezione o assistenza.

Le dimensioni dell’esodo interno

Per molti anni, il tema dell’esodointerno non occupò una posizione dirilievo sulla scena internazionaleanche se tradizionalmente,nell’ambito della protezione dellevittime di conflitti armati, il Comitatointernazionale della Croce rossaassisteva anche gli sfollati. Negli anni‘90, per contro, il numero deglisfollati è cresciuto in mododrammatico. Anche se non si disponedi dati precisi, si calcola che nel1999 vi fossero, in non meno di 40paesi, 20-25 milioni di sfollati,strappati alle loro case dalla guerra oda violazioni dei diritti umani [cfr.figura 9.1].A livello mondiale, oltre la metà deglisfollati si trovano in Africa. Nel soloSudan, la guerra civile in corso daanni ha costretto quattro milioni dipersone ad abbandonare i lorovillaggi; conflitti altrettanto cruenti,che a volte hanno provocato un veroe proprio genocidio, hanno generatoun enorme numero di sfollati inAngola, Burundi, Repubblicademocratica del Congo, Ruanda eSierra Leone. In Asia gli sfollati sonocirca cinque milioni, in particolare inAfghanistan, Azerbaigian, Indonesia,

Iraq, Myanmar e Sri Lanka. In Europa,i conflitti armati scoppiati nell’exJugoslavia, a Cipro, in Georgia, nellaFederazione russa e in Turchia, hannostrappato alle loro case altri cinquemilioni di persone. Nelle Americhe, glisfollati sono all’incirca due milioni, inmaggioranza in Colombia.

Nel luglio 1992, il Segretario generaledell’Onu ha nominato Francis Dengproprio Rappresentante per glisfollati. Secondo Deng, questi ultimivengono facilmente a trovarsi, neisingoli stati, in un “vuoto dicompetenze”. Le autorità responsabilili vedono come “il nemico”, piuttostoche come propri cittadini bisognosi diprotezione e assistenza. In talicircostanze, l’accesso agli sfollati èspesso pericoloso. Ogni parte incausa teme che l’assistenzaumanitaria possa rafforzare l’altra eper questo cerca di ostruirne l’arrivo aquella parte. Nello scontro,l’assistenza può anche essere usatacome arma. L’accesso alle popolazionisfollate è reso ancora più arduo dalfatto che tali popolazioni non sempresi raggruppano in campi oinsediamenti facilmente raggiungibili,ma a volte si disperdono per evitaredi essere identificati. Molticonvergono su squallide periferieurbane, dove per assisterli puòrisultare necessario aiutare l’interacomunità; oppure si mescolano adaltre vittime del conflitto. Diconseguenza, perfino un’esattavalutazione del loro numero è piùcontroversa che nel caso dei rifugiati.

Dato che a volte sembra impossibiledistinguere gli sfollati dalle altrepersone bisognose che li circondano,si pone spesso il quesito seindividuarli come una categoria a séstante o includerli in quella più ampiadelle persone vulnerabili. Gli sfollatihanno spesso particolari necessitàderivanti dall’esodo. Perlopiù nondispongono di un pezzetto di terra,non hanno prospettive di occupazionestabile, sono privi di documentiidonei, e rimangono esposti ad atti diviolenza quali il trasferimentoforzato, l’arruolamento coatto e leaggressioni sessuali. Durante ilritorno e il reinserimento, inoltre, èprobabile che gli sfollati abbianonecessità diverse nel campo dellaprotezione.

L’esodo interno sconvolge non solo lavita degli individui e delle famiglie,ma intere comunità e società.Possono risultarne gravementedanneggiate sia le zone abbandonatedagli sfollati, sia quelle in cuifuggono. Il sistema socioeconomico ele strutture comunitarie possonoandare in frantumi, ostacolando perdecenni la ricostruzione e lo sviluppo.Inoltre, i conflitti e gli esodi spessosuperano i confini dei paesi vicini,minacciando la stabilità regionale.Ecco perché il Segretario generaledell’Onu, Kofi Annan, ha sottolineatol’impellente necessità che la comunitàinternazionale rafforzi il sostegno alleiniziative nazionali miranti adassistere e proteggere tutte lepopolazioni esuli.

I “principi direttivi”

Nel 1998, Francis Deng ha presentatoalla Commissione delle Nazioni Uniteper i diritti umani di “Principi guidasull’esodo interno”, che individuanole specifiche necessità degli sfollaticome pure gli obblighi dei governi,dei gruppi ribelli, delle organizzazioniintergovernative e di quelle nongovernative verso tali popolazioni.Basandosi sul diritto internazionale inmateria di diritti umani, su quelloumanitario e su quello relativo airifugiati, i principi direttivi, alla cuistesura hanno collaborato l’Unhcr emolte altre organizzazioni umanitarie,raccolgono in un unico documento lavigente normativa internazionaleapplicabile agli sfollati.

I principi direttivi ne affrontano lezone grigie e le apparenti lacune,rendendo esplicite molte norme, inprecedenza solo implicite. Adesempio, si sottolinea che gli sfollatinon possono essere rinviati con laforza in una situazione di pericolo, sienunciano particolari misure diprotezione per le donne e i bambini,e si stabilisce altresì che gli sfollatihanno diritto ad un indennizzo o aduna riparazione per i beni mobili eimmobili perduti. I principi direttiviaffermano, inoltre, il diritto di nonessere costretti all’esodo, specificanole ragioni e le condizioni per cui essoè illegale, e fissano garanzie minimeirrinunciabili in caso di esodo.Seppure non giuridicamente

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vincolanti, i principi direttivi hannoconquistato, in un temporelativamente breve, notevolericonoscimento e approvazione, esono largamente diffusi e promossidalle Nazioni Unite, da organismiregionali e Ong.

Il coordinamento dell’azioneinternazionale

Nel corso degli anni ‘90, leorganizzazioni umanitarie, quelle peri diritti umani e gli organismi per losviluppo si sono sempre piùinteressati al fenomeno degli esodiinterni. Tuttavia, gli sforzi dellacomunità internazionale sono statiripetutamente ostacolati da problemilegati alla sovranità nazionale, allasicurezza e al rifiuto di accesso aglisfollati. Sono stati anche intralciatida problemi di definizioni, e dalladifficoltà di individuare gli sfollatibisognosi di protezione e assistenza.

Malgrado l’accresciuta consapevolezzadel fenomeno dell’esodo interno, larisposta della comunità internazionaleè rimasta frammentaria, incoerente e,in molti casi, inadeguata. Nell’ambitodelle Nazioni Unite, le iniziative persanare la situazione si sonoincentrate sul rafforzamento dellacollaborazione fra le varie agenzie chesi occupano degli sfollati, comeindicato, nel 1997, nel programma diriforma dell’organizzazione propostodal Segretario generale i. Nel volumeMasses in Flight (Masse in fuga), gliautori, Francis Deng e Roberta Cohen,sollecitano una più efficaceripartizione del lavoro sul terreno perfar fronte ai bisogni degli sfollati,con interventi più mirati ii, esostengono che maggiore attenzioneva riservata alla protezionedell’incolumità fisica e dei dirittiumani di quelle popolazioni.

Il ruolo dell’Unhcr

L’Unhcr fu istituito nel 1950 perproteggere e assistere i rifugiati cheattraversano, in cerca di salvezza, unconfine internazionale. Benchél’intervento dell’organizzazione inaiuto degli sfollati risalga già aglianni ‘60, è solo negli anni ‘90 che siè assistito ad un enorme aumento

della dimensione numerica egeografica delle sue attività in lorofavore. Nel 1999, l’Unhcr fornivaprotezione e assistenza a qualcosacome cinque milioni di sfollati, conoperazioni che spaziavano dallaColombia al Kosovo e al Caucaso iii.

Pur non facendo alcun riferimentoagli sfollati, nell’articolo 9 lo Statutodell’Unhcr prevede che l’AltoCommissario può, oltre all’attività peri rifugiati, “impegnarsi in attività è divolta in volta decise dall’Assembleagenerale, entro i limiti delle risorseposte a sua disposizione”. In base atale articolo, per decenni questa hariconosciuto, con una serie dirisoluzioni, la particolare competenzadell’Unhcr nel settore umanitario,incoraggiandone l’intervento insituazioni di esodo interno. Inparticolare, la risoluzione 48/116(1993) ha enunciato importanticriteri che devono guidare ladecisione dell’Unhcr su quandointervenire per proteggere e assisteregli sfollati. Assieme all’articolo 9dello Statuto, tali risoluzionicostituiscono la base giuridicadell’interessamento e dell’interventodell’Alto Commissariato in loro favore.

L’Unhcr ritiene di avere particolariresponsabilità quando esiste unostretto collegamento fra un problemadi rifugiati e un esodo interno, equando la protezione degli sfollatirichiede la sua particolarecompetenza. In determinatesituazioni, è difficile distinguereutilmente tra sfollati, rifugiati,rimpatriati e altri gruppi vulnerabili,vittime della guerra e che si trovanoin una stessa zona. In tali casi, èspesso necessario adottare unastrategia più vasta e globale, cheassista tutti coloro che soffrono.

Quando l’Unhcr agisce a beneficiodegli sfollati, una considerazioneimportante è l’influenza che il suointervento può avere sulla protezionedei rifugiati e sull’istituto stessodell’asilo. Le conseguenze, infatti,possono essere positive comenegative: i paesi d’asilo possonoessere più inclini a tenere in piedi laloro politica in materia se si faqualcosa per alleviare le sofferenzedegli sfollati, in modo che non sianocostretti a chiedere asilo, e per creare

Paese

Sudan 4.0

Angola 1.5–2.0

Colombia 1.8

Myanmar 0.5–1.0

Turchia 0.5–1.0

Iraq 0.9

Bosnia-Erzegovina 0.8

Burundi 0.8

Congo, Rep. dem. del 0.8

Federazione russa 0.8

Afghanistan 0.5–0.8

Ruanda 0.6

Jugoslavia, Rep. fed. di 0.6

Azerbaigian 0.6

Sri Lanka 0.6

India 0.5

Congo, Rep. del 0.5

Sierra Leone 0.5

Fonte: US Committee for Refugees, WorldRefugee Survey 2000, Washington DC, 2000.

Le maggioripopolazioni sfollate, 1999

Fig. 9.1

Milioni

le premesse del ritorno alle loro case.D’altro canto, le attività dell’Unhcrper gli sfollati possono essereinterpretate erroneamente, come sefacessero venir meno l’esigenza, alivello internazionale, della protezionee dell’asilo. Inoltre i criticisostengono che, se diviene menochiara la distinzione fra i rifugiati,che godono di ulteriori dirittinell’ambito della normativainternazionale, e gli sfollati, ciòpotrebbe compromettere la protezionedegli stessi rifugiati.

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Anche il governo iracheno desiderava che la responsabilità dell’operazione fosserapidamente trasferita dalle forze della coalizione alle Nazioni Unite. Il risultato fu lafirma, il 18 aprile, di un protocollo d’accordo fra lo stesso governo e le Nazioni Unite,in cui si stabilivano le condizioni di un’operazione umanitaria volta a permettere ilrientro dei profughi. L’ex Alto Commissario Sadruddin Aga Khan, all’epoca Delegatoesecutivo del Segretario generale dell’Onu per la gestione della crisi, svolse un ruolofondamentale nelle trattative col governo iracheno.

Nell’ambito delle Nazioni Unite, fu proposto di affidare all’Unchr il ruolo dicapofila per l’operazione umanitaria. All’inizio ci fu, tuttavia, qualche resistenza daparte dell’organizzazione, che sosteneva che la creazione di un’oasi di sicurezza equi-valeva in sostanza a un surrogato dell’asilo. Potenzialmente, la presenza dell’Unhcrpoteva essere utilizzata dai paesi limitrofi come pretesto per rifiutare l’asilo ai rifugia-ti, creando così un pericoloso precedente. L’organizzazione si preoccupava, inoltre, perla sicurezza dei curdi che dovevano tornare nell’Iraq settentrionale, dato che il gover-no iracheno non aveva fornito alcuna garanzia circa la loro incolumità. Fu quindi deci-so di dislocare un contingente di polizia dell’Onu, forte di 500 uomini, che dovevaoperare in collegamento con l’operazione umanitaria, ma in seno all’Unhcr moltidubitavano che ciò potesse bastare a garantire la sicurezza dei curdi che dovevano rim-patriare. Si precisò che la polizia, adeguatamente equipaggiata, sarebbe stata incarica-ta di proteggere il personale, le attrezzature e le forniture di un programma interisti-tuzionale umanitario in Iraq, ma non di proteggere i curdi.

L’azione delle forze americane, britanniche, francesi e di altri paesi per porre inessere la zona di sicurezza fu rapida e decisa, ma nel contempo di portata geograficae durata limitate, il che provocò già qualche tensione. I comandanti militari volevanotrasferire rapidamente l’operazione di soccorso all’Unhcr, sostenendo che, una voltastabilita una presenza umanitaria nel nord dell’Iraq, con il corpo di polizia dell’Onuper proteggere il personale umanitario, il problema della sicurezza sarebbe stato risol-to. L’Unhcr, invece, esitava a lanciare un’operazione di soccorso nella zona, in unasituazione in cui non poteva essere garantita l’incolumità della popolazione curda ira-chena che rientrava, ed era invece favorevole a una transizione più graduale 3.

Il ritorno e la costruzione

Per incoraggiare il rientro, le forze della coalizione presentarono ai curdi la poliziadell’Onu come un’autentica protezione, distribuendo centinaia di migliaia di volanti-ni per annunciare che potevano rientrare in condizioni di sicurezza 4. Dopo di ciò, icurdi stremati, bloccati nel freddo intenso dei passi di montagna alla frontiera turca,iniziarono ben presto a ritornare.

Quando cominciò il rientro in massa in Iraq, il problema immediato dell’Unhcrera risolto. Come disse un funzionario dell’organizzazione, "l’Unhcr era tenuto aseguire i rimpatriati" 5. Avendo ricevuto dal Segretario generale la richiesta di assiste-re gli esuli in tutte le regioni dell’Iraq, l’organizzazione accettò di assumere il ruolodi capofila. Il 6 maggio 1991, l’Alto Commissario Ogata informò il personale che"l’Unhcr dovrà assumersi la responsabilità globale della protezione e dell’assistenzaalla frontiera e del rimpatrio volontario da tale zona" 6.

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Nelle prime due settimane, rientrarono in Iraq poco meno di 200mila rifugiati. Intale periodo, l’operazione di soccorso continuò a essere dominata dalle forze militariamericane e degli altri paesi della coalizione, con la partecipazione, al suo culmine, dicirca 200 velivoli e oltre 20mila uomini. Degli aiuti d’emergenza furono anche forni-ti da oltre 50 organizzazioni umanitarie internazionali e da una trentina di governi.

Mai prima, le organizzazioni umanitarie avevano collaborato così strettamente coni militari. Il gran numero di agenzie umanitarie e di contingenti militari coinvolti, ela loro mancanza di esperienza nel lavorare insieme, crearono seri problemi di coor-dinamento. Si ricavarono, però, alcuni importanti insegnamenti, che aprirono nuovicanali di comunicazione fra i militari e gli umanitari.

Gli Stati Uniti mantenevano 5mila uomini di stanza in Turchia, e gli aerei dellacoalizione continuavano a pattugliare la zona del nord dell’Iraq vietata al sorvolo, mal’Unhcr nutriva timori per l’incolumità dei curdi. In una lettera del 17 maggio 1991al Segretario generale dell’Onu, l’Alto Commissario Ogata esprimeva la sua "persi-stente preoccupazione" per la sicurezza dei rimpatriati, spiegando che "soltanto unasoluzione negoziata" accompagnata da "garanzie internazionali" poteva costituire unasoluzione duratura del calvario dei curdi 7.

All’inizio di giugno 1991, veniva chiuso l’ultimo campo profughi nelle montagnealla frontiera turca.A quella data, erano anche rientrati all’incirca 600mila dei rifugiatifuggiti in Iran tre mesi prima. In una gara contro il tempo, dato l’approssimarsi del-l’inverno, l’Unhcr varò un massiccio programma di ripari d’emergenza. Fra agosto enovembre, circa 1.600 camion entrarono dalla Turchia in Iraq, trasportando circa30mila tonnellate di materiali da costruzione destinati a mezzo milione di rimpatria-ti: essenzialmente travetti di copertura e lamiera ondulata, che i curdi usarono perlavori di ripristino di case, scuole, ambulatori e altre infrastrutture in oltre 1.500 vil-laggi: solo una parte delle migliaia di villaggi distrutti dalle forze armate irachene 8.

Nel giugno 1992, conclusa la fase iniziale dell’emergenza e mentre l’attenzione sispostava sulla ricostruzione a più lungo termine, l’Unhcr trasferì il controllo dell’o-perazione di soccorso ad altre agenzie dell’Onu. Successive analisi dell’intervento,scarsamente coordinato, della comunità umanitaria internazionale durante la fase del-l’emergenza nella crisi curda, condussero sia i governi che le organizzazioni umanita-rie a invocare un migliore coordinamento fra queste, come anche con i militari. Fuauspicato un ruolo di rilievo per il Dipartimento Onu degli affari umanitari (Dha),istituito da poco per coordinare la risposta delle Nazioni Unite alle emergenze, in basealla risoluzione 46/182 del 19 dicembre 1991 dell’Assemblea generale. All’inizio del1998, il Dha è divenuto l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha).

La creazione dell’oasi di sicurezza nell’Iraq settentrionale è stata spesso considera-ta un successo, in particolare perché consentì il ritorno alle loro case di centinaia dimigliaia di curdi. All’inizio, però, la situazione economica nella zona fu difficile, datoche soffriva di un duplice embargo economico: le sanzioni dell’Onu contro l’Iraq, eun embargo interno imposto dal governo iracheno. Negli anni successivi, nella zonacontinuarono a porsi problemi di sicurezza, a seguito sia di lotte per il potere tra fazio-ni curde rivali, che di incursioni militari esterne 9. Nel 1996, ad esempio, si registra-rono violenze, quando le forze irachene circondarono per breve tempo la città di Irbil.La zona subì, inoltre, attacchi di forze iraniane e, su scala molto maggiore, di forze tur-

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che, che investirono località in cui sospettavano la presenza di membri del Partito deilavoratori del Kurdistan (Pkk). In un attacco di vaste proporzioni, nel marzo 1995, laTurchia inviò nella zona ben 35mila uomini. Malgrado tali difficoltà, il lavoro di ripri-stino e ricostruzione è continuato per tutto il decennio, e la situazione economica edella sicurezza nel nord dell’Iraq è gradualmente migliorata.

La creazione, nel 1991, dell’oasi di sicurezza nell’Iraq settentrionale fu inizialmentesalutata da alcuni come il riflesso di un "nuovo ordine mondiale", nel quale l’interventodi una comunità internazionale unita avrebbe garantito il primato della protezione con-tro gravi violazioni dei diritti umani, rispetto al principio della sovranità nazionale.Tuttavia, l’utilizzazione successiva del concetto di oasi di sicurezza e altri tentativi per pro-teggere e assistere i civili durante un conflitto armato, ad esempio in Bosnia-Erzegovina,Somalia, Ruanda e Kosovo, avrebbero portato a ridimensionare tali ambizioni.

La guerra in Croazia e in Bosnia-Erzegovina

Quasi subito dopo l’esodo dei curdi dall’Iraq settentrionale, nel 1991, l’Unhcr dovette farfronte a un’altra massiccia emergenza umanitaria, questa volta nei Balcani 10. La violentadisgregazione della Repubblica federale socialista jugoslava, iniziata nel giugno 1991 conla dichiarazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia, provocò la maggiore crisidi rifugiati che l’Europa avesse conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Icombattimenti scoppiarono dapprima in Slovenia, ma furono limitati e di breve durata.La prima grave esplosione di violenza avvenne in Croazia, dove viveva una minoranza dioltre mezzo milione di serbi.A seguito della dichiarazione d’indipendenza della Croazia,l’esercito jugoslavo e le milizie paramilitari serbe presero rapidamente il controllo di unterzo del territorio croato. Fu in Croazia che apparve per la prima volta il fenomeno vio-lento e barbaro eufemisticamente noto come "epurazione etnica" o, più comunemente,"pulizia etnica". In un primo tempo, migliaia di croati furono espulsi dalle zone cadutesotto controllo serbo e, più tardi, migliaia di serbi furono cacciati dalle loro case dalleforze croate. In Croazia, nel solo 1991, furono uccise circa 20mila persone, oltre 200milaabitanti abbandonarono il paese, e altri 350mila circa divennero sfollati.

Nel 1992 la guerra si estese alla vicina Bosnia-Erzegovina, con conseguenze ancor piùdevastanti. In effetti, la Bosnia era la meno omogenea dal punto di vista etnico di tutte lerepubbliche dell’ex Jugoslavia: secondo il censimento del 1991, i tre principali gruppi pre-senti erano i musulmani (44%), i serbi (31%) e i croati (17%) 11. Quando la Bosnia-Erzegovina dichiarò, nel marzo 1992, la propria indipendenza, il governo serbo, con allatesta il presidente Slobodan Milosevic, s’impegnò a combattere in difesa della minoranzaserba. Nel giro di pochi giorni, le milizie serbe penetrarono nell’est della repubblica, comin-ciando a uccidere ed espellere gli abitanti musulmani e croati.All’incirca nello stesso perio-do, le forze serbe dell’esercito jugoslavo si diressero verso le colline che circondano la capi-tale bosniaca, Sarajevo, cominciando a bersagliarla con tiri d’artiglieria. Alla fine di aprile1992, il 95% degli abitanti musulmani e croati delle principali città della Bosnia orientaleerano stati costretti ad abbandonare le loro case, mentre Sarajevo era sottoposta a un quoti-

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diano cannoneggiamento. A metà giugno, le forze serbe controllavano ormai i due terzidella Bosnia-Erzegovina e circa un milione di persone erano state gettate sulle strade.

Nelle prime fasi della guerra, i musulmani e i croati della Bosnia-Erzegovina com-batterono insieme contro i serbo-bosniaci, ma all’inizio del 1993 scoppiarono com-battimenti fra croato-bosniaci e musulmano-bosniaci. Cominciò allora un nuovo ciclodi "pulizia etnica", stavolta nella Bosnia centrale. Le forze croato-bosniache, appoggia-te dalla Croazia, cercavano di creare una fascia di territorio etnicamente pura, conti-gua alla Croazia. Sebbene persistessero le tensioni interetniche, gli scontri fra le forzecroato-bosniache e quelle governative bosniache, costituite principalmente da musul-mani, cessarono nel marzo 1994, con la firma dell’accordo di Washington e la crea-zione di una Federazione croato-musulmana.

Alla fine della guerra, nel dicembre 1995, oltre la metà dei 4,4 milioni di abitan-ti della Bosnia-Erzegovina erano stati costretti all’esodo: all’incirca 1,3 milioni eranosfollati nel paese stesso, mentre circa 500mila si erano rifugiati nei paesi limitrofi.Altri700mila circa avevano trovato rifugio in Europa occidentale, dei quali circa 345milain Germania.

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Durante la guerra in Bosnia, l’incessante bombardamento dell’artiglieria causò massicce distruzioni a Sarajevo.(UNHCR/A. HOLLMANN/1996.)

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La “foglia di fico” dell’aiuto umanitario

I massicci movimenti di popolazione e il grande rilievo dato dai media agli orrori dellaguerra generarono una delle maggiori operazioni internazionali di soccorso umanita-rio di tutti i tempi. Nell’ottobre 1991, mentre in Croazia era in pieno svolgimento unesodo di popolazione, le autorità jugoslave chiesero l’assistenza dell’Unhcr. Nelnovembre successivo, il Segretario generale dell’Onu, Javier Pérez de Cuéllar, domandòformalmente all’Alto Commissario, Sadako Ogata, se fosse disposta a prestare i suoi"buoni uffici" per portare soccorso agli sfollati particolarmente bisognosi in conse-guenza del conflitto, e per coordinare l’azione umanitaria nella regione 12. Dopo unamissione esplorativa, l’Unhcr accettò l’incarico e assunse ufficialmente, nello stessonovembre 1991, il ruolo di capofila per il coordinamento degli aiuti umanitari forni-ti da tutto il sistema delle Nazioni Unite nell’area 13.

L’Unhcr organizzò operazioni di soccorso in tutte le repubbliche dell’exJugoslavia, ma fu in Bosnia-Erzegovina che incontrò i maggiori problemi. Quando, nelmaggio 1992, il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) si ritirò tempora-neamente da Sarajevo, dopo che uno dei suoi delegati era stato colpito a morte, ilruolo dell’Alto Commissariato assunse un’importanza cruciale, in particolare aSarajevo. L’organizzazione cominciò a distribuire migliaia di tonnellate di generi diprima necessità, per via aerea a Sarajevo e per mezzo di camion in località dissemina-te in tutto il Paese. Per la prima volta nella sua storia, l’Unhcr coordinò – in mezzo auna guerra – un’operazione umanitaria su vasta scala, destinata ad assistere non solorifugiati e sfollati, ma anche centinaia di migliaia di altre vittime civili della guerra 14.

Incapace di accordarsi sul modo di far cessare il conflitto, la comunità internazio-nale concentrò buona parte delle sue energie sull’appoggio all’operazione umanitariacondotta dall’Unhcr. I governi fornirono ingenti finanziamenti, ma non furono ingrado di raggiungere un consenso su granché d’altro. L’intervento umanitario diven-ne sempre più una "foglia di fico", nonché l’unica risposta visibile della comunitàinternazionale alla guerra. Come affermò, nell’ottobre 1993, François Fouinat, coor-dinatore della Task Force dell’Unhcr per l’ex Jugoslavia, "non è semplicemente il fattoche gli sforzi umanitari dell’Onu siano stati politicizzati; è piuttosto il fatto che siamostati trasformati nell’unica manifestazione della volontà politica internazionale" 15.

L’elevata priorità attribuita all’operazione umanitaria significò che anche l’Unhcrsvolse un importante ruolo nei negoziati politici condotti a livello internazionale.L’Alto Commissario Ogata riferiva di frequente al Consiglio di sicurezza dell’Onu circala situazione umanitaria sul terreno. Inoltre, come presidente del Gruppo di lavorosulle questioni umanitarie della Conferenza internazionale sull’ex Jugoslavia, incon-trava regolarmente i politici di vari paesi impegnati nei negoziati di pace, i dirigentidelle parti in conflitto e i rappresentanti dei governi.

Un elemento essenziale della risposta internazionale fu la dislocazione delle trup-pe di pace delle Nazioni Unite. La Forza di protezione dell’Onu (Unprofor), cheinstallò nel febbraio 1992 un quartier generale di settore a Sarajevo, era stata inizial-mente dislocata per vigilare sul rispetto della tregua in Croazia. Quando la guerra siestese, varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza la incaricarono pure di creare le pre-messe per un’efficiente distribuzione degli aiuti umanitari in Bosnia-Erzegovina 16.

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L’Unprofor riuscì inizialmente, nel giugno 1992, a prendere il controllo dell’aeropor-to di Sarajevo che, sino alla fine della guerra, ebbe vitale importanza per la distribu-zione degli aiuti alla popolazione assediata della capitale. Sebbene il mandatodell’Unprofor fosse successivamente esteso alla prevenzione degli attacchi contro le"zone di sicurezza" e ad altri compiti, la protezione dei convogli di aiuti umanitaricontinuò per tutta la guerra a costituire un elemento centrale del suo mandato. Nel1995, il contingente dell’Unprofor in Bosnia era ormai forte di oltre 30mila uomini.

La barbarie della “pulizia etnica”

Se è vero che l’Unhcr e le altre organizzazioni umanitarie riuscirono a distribuire duran-te la guerra ingenti quantità di aiuti, non riuscirono invece a proteggere i civili dalla"pulizia etnica". Il personale dell’Unhcr intervenne in numerose occasioni presso le

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Un convoglio dell’Unhcr avanza, scortato da militari dell’Unprofor, sulla strada da Zepce a Zavidovici, nella Bosnia centrale.(UNHCR/S. FOA/1994)

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autorità locali cercando di impedire le espulsioni dalle case e dalle città, particolarmen-te in località come Banja Luka, dove l’Unhcr aveva un ufficio a qualche strada di distan-za da un quartiere i cui abitanti erano cacciati dalle loro abitazioni sotto la minaccia dellearmi. Nel complesso, però, l’organizzazione non riuscì a impedire le uccisioni, i pestag-gi, gli stupri, gli arresti, le espulsioni e la cacciata dei civili dalle loro case. In molti casi,il massimo che il personale dell’Unhcr potesse fare era di riferire sulle atrocità cui assi-steva. Quei resoconti, per quanto insufficienti da soli, fornirono al mondo esterno infor-mazioni di vitale importanza, tanto più in quanto i giornalisti, come pure l’Unprofor,per quasi tutta la guerra non ebbero accesso a gran parte del territorio serbo-bosniaco.In molti casi, il Cicr e l’Unhcr furono le uniche organizzazioni internazionali presentitestimoni delle atrocità, e in particolare di quelle commesse dai serbo-bosniaci.

I resoconti, nonché le pubbliche denunce fatte dai funzionari dell’Unhcr contro iresponsabili delle atrocità stesse, misero a dura prova i rapporti con le parti in conflit-to, dando spesso luogo a minacce contro il personale dell’Unhcr ed a limitazioni dellasua libertà di movimento. Ne risultò un chiaro dilemma: era difficile collaborare conle autorità locali nell’attuazione dei programmi di assistenza, condannandole al tempostesso per le violazioni dei diritti umani. In alcuni casi, l’Unhcr fu criticato per nonavere alzato la voce più apertamente.

Un’altra scelta difficile che l’organizzazione dovette fare fu se collaborare o menoall’evacuazione dei civili particolarmente vulnerabili. All’inizio, l’Unhcr si oppose a taleevacuazione, ma quando apparve chiaro che per molti l’alternativa era rappresentata daicampi d’internamento in cui spesso erano percossi, violentati, torturati o uccisi, l’orga-nizzazione cominciò a evacuare i civili in pericolo.Tali trasferimenti, tuttavia, portaronoa una valanga di critiche contro l’Unhcr, perché avrebbe facilitato la "pulizia etnica". Nelnovembre 1992, l’Alto Commissario Ogata descrisse la situazione come segue:

Nel contesto di un conflitto il cui obiettivo è proprio quello dei movimenti for-zati di popolazione, ci troviamo davanti a un grave dilemma. Fino a che punto dob-biamo convincere gli abitanti a rimanere dove si trovano, quando ciò potrebbe mette-re in pericolo la loro vita e la loro libertà? All’inverso, se li aiutiamo a trasferirsi, nonci facciamo noi stessi complici della "pulizia etnica"? 17.

L’Inviato speciale dell’Unhcr per l’ex Jugoslavia, José-Maria Mendiluce, fu ancora piùpreciso: "Noi denunciamo la ‘pulizia etnica’", affermò, "ma con migliaia di donne e bam-bini in pericolo che chiedono disperatamente di essere evacuati, è mio compito aiutarli,salvare loro la vita. Non posso addentrarmi ora in un dibattito filosofico o teorico..." 18.

Oltre all’assistenza dei civili in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, l’Unhcr sollecitògli stati della regione e dell’Europa occidentale a concedere una "protezione tempora-nea" all’ingente numero di abitanti che fuggivano davanti all’escalation della guerranell’ex Jugoslavia. L’insieme degli stati aprirono le loro frontiere a centinaia dimigliaia di profughi, ma alcuni critici sostennero che la concessione di uno status di"protezione temporanea" inferiore a quello di rifugiato a pieno titolo indeboliva ilsistema internazionale di protezione dei rifugiati [cfr. capitolo 7].

La creazione delle “zone di sicurezza”Mentre la "pulizia etnica" continuava a generare ondate di rifugiati e sfollati, la comunitàinternazionale cercava nuove strategie per proteggere i civili e prevenire gli esodi.All’inizio

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del 1993, si verificò una situazione critica nella Bosnia orientale, in larga misura svuotatadegli abitanti non serbi, salvo in tre piccole sacche di territorio attorno a Srebrenica, Zepa eGorazde. Queste enclave erano sovraffollate di musulmani, molti dei quali vi si erano rifu-giati dalle campagne circostanti; erano difese dalle truppe governative bosniache, scarsa-mente armate, e circondate dalle forze serbo-bosniache. Un rapporto dell’Unhcr dalla zona,in data 19 febbraio 1993, così descriveva la situazione a Srebrenica: "Ogni giorno c’è genteche muore di fame e di spossatezza. La situazione sanitaria è estremamente critica. I feritisono portati in ospedale, dove muoiono per la mancanza di scorte di medicinali" 19.

La situazione a Srebrenica divenne sempre più insostenibile e, il 2 aprile 1993, l’AltoCommissario Ogata scrisse al Segretario generale dell’Onu, Boutros Boutros-Ghali, avver-tendo che gli sforzi in corso per fronteggiare le sempre più gravi sofferenze umane erano"del tutto inadeguati" e sottolineando l’esigenza di "un’azione più drastica" per garantirela sopravvivenza della popolazione di Srebrenica. Nella sua lettera, la Ogata insisteva per-ché i Caschi blu dell’Unprofor fossero autorizzati a far uso della forza per proteggere gliabitanti, oppure perché l’Unhcr fosse abilitato ad organizzare un’evacuazione in massa 20.

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Chilometri

600 30

UNGHERIA

CROAZIA

BOSNIA-ERZEGOVINA

REP. FED.DI JUGOSLAVIA

SARAJEVO

Tuzla

Zepa

Srebrenica

Bihac

Gorazde

ZAGABRIA

Zona controllata dalle forzegovernative bosniache

Zona controllata dalle forze croateZona controllata dalle forze serbeLinea approssimativa del fronte

Confine di stato

Confine di repubblica

"Zona di sicurezza" dichiaratadall’Onu

Confine di zona protetta dall’Onu

LEGGENDACapitale di statoCittà / villaggio

Tuzla

M a r e A d r i a t i c o

MONTENEGRO

SERBIA

Dubrovnik

Trebinje

Mostar

Foca

Pale

Spalato

Kiseljak

VitezZenica

Zvornik

Bijeljina

Brcko

Banja Luka

Drvar

Sanski Most

Prijedor

Novi SadVukovar

Knin

Zone controllate in Croazia e Bosnia-Erzegovina, aprile 1995 Cartina 9.1

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Quattordici giorni più tardi, dopo che l’artiglieria serbo-bosniaca aveva ucciso 56persone durante un’evacuazione da Srebrenica organizzata dall’Unhcr, il Consiglio disicurezza adottava la risoluzione 819, dichiarando l’enclave "zona di sicurezza" sotto laprotezione dell’Onu e chiedendo, fra l’altro, all’Unprofor di rafforzare la propria presen-za sul posto. Tre settimane dopo, lo stesso Consiglio di sicurezza adottava la risoluzione824, che dichiarava zone di sicurezza pure Sarajevo,Tuzla, Zepa, Gorazde e Bihac.

Le zone di sicurezza erano state istituite senza il consenso delle parti in conflitto esenza porre in atto un qualsiasi deterrente militare credibile. Sebbene il Segretariogenerale dell’Onu avesse avvertito che sarebbero stati necessari altri 34mila Caschi blu"per ottenere un effetto deterrente col ricorso alla forza", i governi non furono dispo-sti a fornire un tale numero di militari e, di conseguenza, il Consiglio di sicurezzaadottò una "alternativa leggera", per cui solo 7.500 Caschi blu sarebbero stati disloca-ti a tal fine. Come riconobbe in seguito il Segretario generale Kofi Annan, in realtà lelocalità dichiarate zone di sicurezza non erano "né zone protette né oasi di sicurezzaai sensi del diritto umanitario internazionale, né zone di sicurezza in qualsiasi acce-zione militare" 21.

Poiché tali zone ospitavano non solo civili, ma anche truppe governative bosnia-che, le forze serbo-bosniache le considerarono obiettivi leciti durante la guerra, sot-toponendole spesso al bombardamento dell’artiglieria e al fuoco dei cecchini. Inmolte occasioni, gli attacchi delle forze serbo-bosniache erano in risposta ad attacchisferrati dalle forze governative bosniache, partendo dalle zone di sicurezza. Le autoritàserbo-bosniache negarono agli abitanti la libertà di circolazione attraverso il territoriosotto controllo serbo, e in molti casi impedirono alle organizzazioni umanitarie comel’Unhcr di raggiungerli. Le zone di sicurezza divennero dei ghetti sovraffollati, in pre-valenza musulmani. Se è vero che fornirono un certo riparo ai gruppi particolarmen-te vulnerabili, divennero anche zone di confinamento in cui i civili erano intrappola-ti: in pratica, dei centri d’internamento aperti. Nel frattempo, mentre la comunitàinternazionale si concentrava sulle zone di sicurezza, riservava scarsa attenzione al cal-vario dei non serbi che ancora vivevano nel territorio sotto controllo serbo e che, diconseguenza, si trovarono ancora più esposti alla "pulizia etnica".

Analogamente a quanto era avvenuto nell’Iraq settentrionale, i governi avevanosvariati motivi per favorire la creazione delle zone di sicurezza. Per tutta la durata dellaguerra, non fu mai chiaro se il loro scopo precipuo fosse la protezione del territorioo quella degli abitanti 22. Tale ambiguità fece nascere malintesi e false speranze. Comericonobbe, nel novembre 1999, il Segretario generale Kofi Annan in un rapporto, for-temente critico, sul ruolo delle Nazioni Unite a Srebrenica, non ammettendo chedichiarare determinate località zone di sicurezza comportava un valido impegno allaloro difesa, la risoluzione del Consiglio di sicurezza aveva creato in realtà un falsosenso di sicurezza. Nel rapporto si sottolineava:

Quando la comunità internazionale si impegna solennemente a proteggere dei civili innocen-ti dal massacro, deve essere anche pronta a mantenere l’impegno con tutti i mezzi necessari.In caso contrario, è certamente preferibile cominciare col non suscitare speranze e aspettative,e non intralciare l’eventuale capacità degli interessati di organizzare la propria difesa 23.

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L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco conquistava Srebrenica, prendendo inostaggio alcune centinaia di Caschi blu olandesi e costringendo alla fuga circa 40milaabitanti. Intanto circa 7mila persone, quasi tutti uomini e ragazzi e quasi tutti musul-mani, erano trucidati dalle forze serbo-bosniache in quello che fu il più grande ecci-dio perpetrato in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il giudice Riad,del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha descritto quanto accaddecome "scene apocalittiche, scritte sulle pagine più oscure della storia del genereumano" 24. Pochi giorni dopo la caduta di Srebrenica, le forze serbe conquistavanoZepa, un’altra cosiddetta zona di sicurezza.

La distribuzione degli aiuti d’emergenza

L’operazione di soccorso umanitario in Bosnia-Erzegovina fu senza precedenti perdimensioni numeriche, estensione geografica e complessità. Fra il 1992 e il 1995,l’Unhcr coordinò una massiccia operazione logistica, nel corso della quale furonodistribuiti, in varie regioni del paese, aiuti umanitari per quasi un milione di tonnel-late. Nel 1995, l’Unhcr distribuiva soccorsi – perlopiù viveri, forniti dal Programmaalimentare mondiale (Pam) – a qualcosa come 2,7 milioni di beneficiari.

Nella fornitura degli aiuti umanitari, l’Unhcr collaborò strettamente non solo con ilPam, ma anche con altre istituzioni delle Nazioni Unite, come l’Organizzazione per l’a-limentazione e l’agricoltura (Fao), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. (Unicef)e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), come anche con molte organizzazioninon governative (Ong) internazionali e nazionali, che operavano sotto l’egida dello stes-so Alto Commissariato. La maggioranza di tali organizzazioni si appoggiarono larga-mente sull’Unhcr per ottenere l’accreditamento ufficiale dell’Onu, richiesto dalle partiin conflitto, senza il quale sarebbe stato per loro quasi impossibile operare.

Il ruolo di agenzia capofila dell’Unhcr comportava tutta una serie di responsabilità.Nel periodo culminante dell’operazione, vi partecipavano oltre 3mila operatori uma-nitari, appartenenti a più di 250 organizzazioni, in possesso del documento d’identifi-cazione dell’organizzazione, ed erano oltre 2mila gli automezzi che circolavano inBosnia-Erzegovina con la sua targa. Per i convogli umanitari, l’Unhcr disponeva di oltre250 camion, con squadre fornite da o tramite i governi della Danimarca, dellaNorvegia, della Svezia, del Regno Unito, della Germania e della Federazione russa.Inoltre, più di 20 nazioni parteciparono al ponte aereo dell’Unhcr per Sarajevo, e circa18mila tonnellate di aiuti umanitari furono lanciate dagli aerei in località di difficileaccesso, quali Konjic, Gorazde, Maglaj, Srebrenica,Tesanj e Zepa. Le forniture erano lan-ciate di notte da alta quota, in modo da ridurre i rischi di attacchi contro i velivoli.

L’operazione umanitaria fu intralciata, durante tutta la guerra, da problemi di sicu-rezza, dalla mancata cooperazione dei belligeranti e da difficoltà logistiche. Il persona-le umanitario era continuamente esposto al cannoneggiamento indiscriminato dell’ar-tiglieria, al fuoco dei franchi tiratori, al pericolo delle mine, ed a volte era deliberata-mente preso di mira. Esso finì col contare largamente sull’Unprofor per ottenere infor-mazioni sui problemi di sicurezza, le scorte armate, il trasporto in mezzi blindati e ilsupporto logistico. Il personale dovette, inoltre, ricorrere ai giubbotti antiproiettile eagli automezzi blindati più che in qualunque altra operazione precedente. Malgrado

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tale protezione, la guerra fece oltre 50 vittime fra gli operatori umanitari, ed altre cen-tinaia rimasero feriti. Inoltre, 117 militari dell’Unprofor persero la vita 25.

Nella maggior parte dei casi, gli aiuti umanitari erano consegnati dall’Unhcr alleautorità locali, responsabili della loro distribuzione. Malgrado gli sforzi per evitare chefossero dirottati, ci fu inevitabilmente una certa dispersione degli aiuti in direzionedelle forze militari e del mercato nero, che originò critiche secondo cui l’operazioneumanitaria alimentava, di fatto, la guerra.

Nel maggio 1992, il Segretario generale aveva dichiarato che "la distribuzione degliaiuti va vista da tutte le parti interessate come un atto umanitario neutrale" 26. Apparveben presto chiaro, però, che le cose non sarebbero andate così: l’operazione fu ogget-to di costante ostruzionismo da parte dei belligeranti, e in particolare dei serbo-bosnia-ci, che controllavano l’accesso alle enclave assediate, amministrate dal governo bosnia-co, e dei croato-bosniaci, che controllavano l’accesso alla Bosnia centrale.

In un certo periodo, nel 1992, per andare da Zagabria, capitale della Croazia, aSarajevo, un convoglio dell’Unhcr doveva negoziare il passaggio attraverso una novan-tina di posti di blocco. A seguito di prolungate trattative con le parti, molti furono poirimossi, per essere sostituiti da una serie di intralci burocratici. Prima che un convogliopotesse mettersi in moto, occorreva un nullaosta scritto, contenente numerosi dettagli,da richiedere alle autorità locali con un massimo di due settimane di preavviso. In pra-tica, fu un comodo sistema col quale le autorità locali controllavano e limitavano l’ac-cesso al territorio nemico, senza proibirlo apertamente.Veniva usata ogni sorta di tatti-ca dilatoria, con infiniti pretesti per rifiutare il rilascio delle autorizzazioni.

In molti casi, i belligeranti rifiutavano ai convogli dell’Unhcr il permesso di tran-sitare per zone sotto il loro controllo, in direzione del territorio nemico, se non incambio di un aumento della percentuale degli aiuti avviati verso le zone di propriointeresse. Seguivano lunghi negoziati, durante i quali i convogli erano spesso bloccatiper settimane o mesi. I funzionari dell’Unhcr sul terreno passarono buona parte dellaguerra a negoziare l’accesso umanitario. Alcuni enti civili locali, formalmente contro-parti dell’Unhcr, come ad esempio i Commissariati serbo-bosniaci per gli aiuti uma-nitari, erano in realtà gli stessi che impedivano agli aiuti di pervenire ai civili in terri-torio nemico. Se ne ebbe una lampante dimostrazione in una riunione tenutasi, il 2luglio 1995, fra l’Unhcr e le autorità civili serbe: Nikola Koljevic, presidente delComitato di coordinamento degli aiuti umanitari (e vicepresidente dell’autoprocla-mata Republika Srpska), vi spiegò il suo costante ostruzionismo affermando che, seavesse consentito di dar da mangiare ai musulmani, sarebbe stato incriminato dal pro-prio regime come criminale di guerra 27.

Il ruolo dell’Unprofor nell’operazione umanitaria

Il mandato centrale dell’Unprofor in Bosnia-Erzegovina era di assistere l’Unhcr, crean-do le premesse per l’efficiente distribuzione degli aiuti. La Forza dell’Onu non vidisponeva, però, di una rilevante presenza, ma solo di un limitato accesso alle zonesotto controllo serbo-bosniaco. Nell’attuazione del proprio mandato, l’Unprofor diedela priorità alla creazione di itinerari terrestri e di corridoi aerei affidabili, come ancheal miglioramento della sicurezza del personale umanitario. I suoi genieri riuscirono ad

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aprire e mantenere in funzione i principali collegamenti stradali nel territorio sottocontrollo del governo bosniaco, nonché a mantenere in esercizio la pista d’atterraggioe le infrastrutture essenziali dell’aeroporto di Sarajevo. Un problema inevitabile, però,fu che la forte dipendenza da determinati itinerari rendeva facile per le parti in con-flitto bloccarli a proprio piacimento 28.

Sebbene l’Unprofor contribuisse notevolmente ad accrescere la sicurezza del per-sonale umanitario, in certi momenti il suo intervento sembrava controproducente. Iserbo-bosniaci, in particolare, furono spesso quanto mai ostili alla Forza di pacedell’Onu. In certe occasioni, i responsabili dei convogli dell’Unhcr lamentarono chela presenza delle scorte dell’Unprofor aveva l’effetto di esporli al fuoco dei bellige-ranti, e che sarebbero stati più sicuri senza una scorta militare.

Nell’assistenza all’operazione umanitaria, una delle funzioni principalidell’Unprofor era quella della "protezione passiva" ai convogli. Questa consisteva inautomezzi blindati che scortavano i convogli attraverso le zone più pericolose dellalinea del fronte. L’idea era che, se il convoglio fosse stato preso di mira da tiri d’arti-glieria, il personale civile avrebbe potuto rifugiarsi nei mezzi blindati. In alcuni casi, iveicoli di scorta dell’Unprofor risposero anche al fuoco, quando i convogli furonoattaccati. Per l’Unhcr il ricorso a scorte militari ai convogli costituì un’innovazionema, all’epoca, suscitò notevoli critiche da parte di alcuni osservatori, che vedevanocosì intaccata l’imparzialità dell’azione umanitaria. Per contro, durante tutta la guerra,il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) operò senza scorte militari. Il siste-ma consentì, nondimeno, all’Unhcr di far pervenire a destinazione grandi quantitati-vi di aiuti d’emergenza e di attraversare le linee del fronte, anche durante alcuni deipiù aspri combattimenti. Oltre l’80% degli aiuti distribuiti ai civili in Bosnia-Erzegovina durante la guerra lo furono ad opera dell’Unhcr.

Le truppe dell’Unprofor fornirono all’operazione umanitaria una sicurezza e unsupporto logistico essenziali, ma poterono fare ben poco per migliorare l’accesso allezone che richiedevano il transito attraverso il territorio controllato dalle forze serbo-bosniache. Operando in base al consenso – conformemente ai principi tradizionali delmantenimento della pace – l’Unprofor dipendeva dalle autorità serbo-bosniache peril nullaosta al transito. Queste, tuttavia, più delle altre parti in conflitto, videro costan-temente l’Unprofor come una forza ostile. Il risultato fu che, su alcuni itinerari, imovimenti dei suoi automezzi non erano approvati per mesi. Di fatto, in località comeGorazde e Bihac, gli stessi Caschi blu mancarono a volte di generi alimentari freschi,non riuscendo ad ottenere il necessario nullaosta per i propri convogli di riapprovvi-gionamento. In un certo numero di tali occasioni, fu l’Unhcr a fornire loro dei vive-ri, costituendo così un’ancora di salvezza per la stessa forza che era stata inviata a soste-gno dell’operazione di soccorso.

L’assedio di Sarajevo e il ponte aereo umanitario

Per buona parte della guerra, la comunità internazionale concentrò la propria atten-zione sulla capitale bosniaca, Sarajevo. La città era circondata dall’artiglieria e dai fran-chi tiratori serbo-bosniaci, e più volte rimase per mesi a corto d’acqua, elettricità ogas. Mentre le forze serbo-bosniache tenevano la città in stato d’assedio, spesso ucci-

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dendo civili che facevano la spesa al mercato o la fila per procurarsi il pane o l’acqua,l’Unhcr si sforzò di fornire viveri e altri generi di prima necessità.

Fra il 3 luglio 1992 e il 9 gennaio 1996, l’Unhcr coordinò quello che divenne ilpiù lungo ponte aereo umanitario della storia, superando in durata quello di Berlinodel 1948-49. La maggioranza dei velivoli furono messi a disposizione dal Canada, dallaFrancia, dalla Germania, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, ma in realtà vi partecipa-rono in totale più di 20 nazioni. In oltre 12mila voli, furono trasportate a Sarajevo qual-cosa come 160mila tonnellate di viveri, medicinali e altri soccorsi. Il ponte aereo fuanche utilizzato per evacuare più di 1.100 civili bisognosi di cure mediche.

Il ponte aereo fu vittima non solo di intralci burocratici, ma anche di costantiminacce per la sua sicurezza. Entrambe le parti in conflitto, ma in particolare le forzeserbo-bosniache, prendevano di mira i velivoli che utilizzavano l’aeroporto. Si regi-strarono oltre 270 incidenti gravi in materia di sicurezza, che in molti casi costrinse-ro l’Unhcr alla sospensione temporanea del ponte aereo. Il più grave di tali incidentiavvenne il 3 settembre 1992, quando un missile terra-aria abbattè un aereo da tra-sporto G-222 dell’Aeronautica italiana, uccidendo i quattro uomini d’equipaggio. Leresponsabilità dell’attacco non furono mai accertate.

In molte occasioni, gli ispettori serbo-bosniaci, la cui presenza presso l’aeroportoera una condizione posta dal governo per autorizzare il ponte aereo, rifiutarono diconsentire lo scarico dagli aerei dell’Unhcr di determinate merci, che dovettero esse-re rimandate indietro, con ingenti spese, in Croazia, Italia o Germania. In altre occa-sioni, le forze serbo-bosniache, che controllavano l’accesso stradale all’aeroporto, vie-tavano l’uscita delle forniture umanitarie dall’aeroporto per cui, mentre migliaia dicivili facevano la fame nella capitale, centinaia di tonnellate di viveri andavano a malesulle piazzole dell’aeroporto. Alcune merci, fra cui tubazioni e motopompe per l’ac-qua, generatori e altri componenti necessari urgentemente per la riparazione delleinfrastrutture essenziali della città, rimasero bloccate all’aeroporto per quasi tutta laguerra. Nel contempo, era spesso impedita l’evacuazione sanitaria di civili gravemen-te malati o feriti.

Gli eventi culminati nell’accoro di pace di Dayton

All’inizio del 1995, si registrò una nuova ondata di "pulizia etnica", di matrice serbo-bosniaca, nella Bosnia occidentale, e più esattamente nella zona di Banja Luka, che ilportavoce dell’Unhcr definì a quell’epoca l’"abisso delle tenebre" bosniaco. In maggio,la credibilità delle Nazioni Unite in Bosnia-Erzegovina fu ulteriormente intaccata,allorché centinaia di militari dell’Unprofor furono presi in ostaggio dai serbo-bosnia-ci a seguito degli attacchi aerei effettuati dalla Nato su richiesta dell’Unprofor. Alcuniostaggi furono incatenati dai serbo-bosniaci come "scudi umani" a potenziali obietti-vi degli attacchi aerei: immagini che, alla televisione, fecero il giro del mondo.

Poi, a metà del 1995, un certo numero di avvenimenti modificarono drastica-mente la dinamica della guerra. In luglio, l’esercito serbo-bosniaco conquistò le zonedi sicurezza di Srebrenica e Zepa. Ai primi di agosto, l’esercito croato lanciò una"Operazione tempesta", una massiccia offensiva militare cui parteciparono oltre100mila soldati, con la quale riconquistò tutte le zone controllate dai serbi nella parte

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sudoccidentale della Krajina, una regione croata. Di conseguenza, circa 200mila civiliserbi si diedero alla fuga, in maggioranza raggiungendo la Repubblica federale diJugoslavia, mentre gruppi più ridotti si fermarono nelle regioni sotto controllo serbodella Bosnia-Erzegovina. In seguito, il 28 agosto 1995, le forze serbo-bosniache tira-rono un ordigno su un affollato mercato di Sarajevo, facendo 37 vittime e decine diferiti. La Nato reagì lanciando un’intensa campagna aerea, durata due settimane, con-tro obiettivi serbo-bosniaci. Incoraggiate dagli attacchi aerei, le forze croate e le forzegovernative bosniache sferrarono un’offensiva congiunta in Bosnia-Erzegovina perriconquistare il territorio dalle mani dei serbi, riprendendosi un terzo delle zone con-trollate dalle forze serbo-bosniache. Rendendosi conto che perdevano terreno ognigiorno, le autorità serbo-bosniache accettarono un cessate il fuoco e s’impegnarono apartecipare a colloqui di pace a Dayton, nell’Ohio.

L’accordo di pace di Dayton, che emerse da tali negoziati, fu firmato a Parigi il 14dicembre 1995 dai presidenti della Repubblica di Bosnia-Erzegovina, della Repubblicadi Croazia e della Repubblica federale di Jugoslavia. Pur mantenendo la Bosnia e

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0 50 100

Chilometri

REP. FED.DI JUGOSLAVIA

UNGHERIA

BOSNIA-ERZEGOVINA

CROAZIAROMANIA

Rep. ex jug.DI MACEDONIA

ALBANIA

SLOVENIA

Bihac

SARAJEVO

SKOPJE

Tuzla

Gorazde

Srebrenica

Zepa

LUBIANA

TIRANA

ZAGRABIA

BELGRADO

Mare AdriaticoConfine di statoConfine di repubblicaConfine amministrativo

Città / villaggio

Movimenti di rifugiati /sfollati

LEGGENDACapitale di stato

MONTENEGRO

SERBIA

Vojvodina

Kosovo

200.000 sfollati

650.000 rifugiati

22.000 rifugiati

9.000 rifugiati

1.100.000 sfollati

Altri paesieuropei *

Germania : 345.000

Austria : 80.000

Svezia : 57.000

Svizzera : 25.000

Paesi Bassi : 24.000

Danimarca : 20.000

Francia : 15.000

Regno Unito : 13.000

Altri : 37.000

9.000 rifugiati

Totale : 616.000

187.000 rifugiati

* Le cifre relative agli altri paesi europei, riferite al settembre 1996, si basano sui dati forniti all’Unhcr dai governi(Humanitarie, Hiwg 96/6, 11 dicembre 1996).

Principali popolazioni esuli dell’ex Jugoslavia, dicembre 1995 Cartina 9.2

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l’Erzegovina unite come uno stato unitario, l’accordo vi riconosceva due entità: laRepublika Srpska e la Federazione croato-musulmana.

L’accordo conteneva disposizioni dettagliate per la smilitarizzazione delle parti inconflitto e per la sostituzione dell’Unprofor da parte di una Forza di attuazione dellapace sotto il comando della Nato (Ifor), forte di 60mila uomini. Minore attenzione furiservata, però, alla concretizzazione degli aspetti civili dell’accordo di pace che, nel-l’allegato VII, invitava l’Unhcr "ad elaborare, in stretta consultazione con i paesi d’asi-lo e le parti, un piano di rimpatrio che consenta il ritorno rapido, pacifico, ordinato egraduale dei rifugiati e degli sfollati". Sebbene l’accordo di pace affermasse che "tuttii rifugiati e gli sfollati hanno il diritto di tornare liberamente nelle rispettive localitàd’origine", non prevedeva alcuna disposizione per l’attuazione pratica. Si faceva affi-damento, invece, sulle parti in conflitto perché creassero volontariamente un contestoin cui i rifugiati potessero rientrare "in condizioni di sicurezza, senza il pericolo divessazioni, intimidazioni, persecuzioni o discriminazioni" 29.

L’applicazione delle disposizioni militari dell’accordo è stata coronata da successo e,dopo la conclusione dell’accordo stesso, non si sono registrati scontri fra le forze mili-tari delle due parti. Sul piano civile, invece, l’accordo ha lasciato al potere, sia da un lato

I RIFUGIATI NEL MONDO

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Le distruzioni causate dagli scontri ad Ilidza, presso Sarajevo. Il gran numero di mine ha rappresentato una graveminaccia per quanti sono tornati alle loro case dopo la guerra. (UNHCR/R. LEMOYNE/1996)

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che dall’altro, i dirigenti nazionalisti, insidiando in particolare le prospettive di riconci-liazione fra i vari gruppi etnici, nonché la possibilità di un ritorno degli sfollati e deirifugiati in zone dalle quali la "pulizia etnica" li aveva cacciati durante la guerra. Con lesue limitate disposizioni in materia di controlli di polizia, ricostruzione e riconciliazio-ne, l’Alto Commissario Ogata rilevava nel 1997 che l’accordo lasciava le organizzazioniumanitarie come l’Unhcr "alle prese con problemi essenzialmente politici" 30.

Il rimpatrio e il perpetuarsi della separazione etnica

Sin dall’inizio è apparsa evidente la riluttanza della forza militare multinazionale, gui-data dalla Nato, a prevenire disordini ed a mantenere l’ordine pubblico in Bosnia-Erzegovina nel periodo post-Dayton, facendosi coinvolgere in attività di polizia poten-zialmente rischiose. Se n’è avuto un chiaro esempio all’inizio del 1996, quando lapolizia, le milizie e gli estremisti serbo-bosniaci hanno esercitato pressioni su circa60mila compagni di etnia serbi perché abbandonassero i sobborghi di Sarajevo, chetornavano sotto il controllo della Federazione croato-musulmana. Gruppi armati diagitatori serbi hanno allora dato alle fiamme degli edifici sotto gli occhi del persona-le dell’Unprofor, armato di tutto punto, ma completamente inerte 31.

L’assenza di ordine pubblico in Bosnia-Erzegovina, e in particolare la mancanza diun’effettiva sicurezza per le minoranze etniche, ha impedito un’inversione significativadella "pulizia etnica" avvenuta durante la guerra. I locali dirigenti politici di entrambe leparti hanno più volte bloccato i ritorni, facendo trasferire membri del proprio gruppoetnico in alloggi disponibili e creando un clima di paura e intimidazione ai danni delleminoranze. Sebbene, a fine 1999, fossero tornati nel paese circa 395mila dei rifugiati cheavevano abbandonato la Bosnia-Erzegovina durante la guerra, la maggioranza di loronon hanno fatto ritorno alla propria casa, ma si sono trasferiti altrove, in zone in cui illoro gruppo etnico è maggioritario. Alla fine del 1999, circa 800mila abitanti dellaBosnia-Erzegovina erano tuttora esuli e nell’impossibilità di far ritorno alle loro case.

L’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie hanno compiuto enormi sforzi perincoraggiare la riconciliazione e per facilitare il ritorno volontario dei rifugiati e sfol-lati alle località d’origine, anche se ora dominate da un altro gruppo etnico. L’AltoCommissariato ha messo in funzione un certo numero di linee d’autobus che colle-gano le due entità della Bosnia-Erzegovina, e ha incoraggiato gruppi di rifugiati esfollati a visitare le rispettive località d’origine. L’organizzazione ha, inoltre, avviatoun progetto di "città aperte", mediante il quale i donatori erano incoraggiati a inve-stire nei comuni che consentivano il ritorno dei gruppi minoritari. C’è però un limi-te a quanto possono fare le organizzazioni umanitarie. Come concludeva l’AltoCommissario Ogata, nel suo intervento alla conferenza del Consiglio per l’attuazionedella pace, nel 1998:

La premessa fondamentale del ritorno – modifiche significative e durature delle circostanze checondussero gli abitanti ad abbandonare le loro case – non si è ancora verificata. Il ruolo dicapofila dell’Unhcr per il rientro era condizionato all’eliminazione degli ostacoli politici.Questi esistono tuttora. Noi li abbiamo individuati ma non possiamo, come organizzazioneumanitaria, rimuoverli 32.

Guerra e azione umanitaria: l’Iraq e i Balcani

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Anche se piccoli gruppi di abitanti sono tornati in zone dove fanno ormai partedi una minoranza etnica, i progressi compiuti verso la ricomposizione di una societàveramente multietnica sono stati minimi, sia in Croazia che in Bosnia-Erzegovina. Leprospettive di un rientro su vasta scala in zone ora dominate da un altro gruppo etni-co rimangono scarse. Alla fine del 1999, oltre quattro anni dopo la fine dei combatti-menti in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, meno del 10% del totale dei circa 300milaserbi fuggiti dalla Croazia hanno fatto ritorno alle loro case. Analogamente, meno del5% dei 650mila musulmani e croati espulsi dai serbi dall’ovest della Bosnia-Erzegovina sono tornati nelle loro località d’origine, e meno dell’1% di quelli espulsidai serbi dalla Bosnia orientale vi hanno fatto ritorno 33.

Fra i pochi tornati in zone dove fanno ora parte di un gruppo etnico minoritario,molti sono rientrati in zone vicine alla linea di demarcazione fra le due entità, stretta-mente sorvegliata dalla forza militare sotto comando Nato, e molti sono anziani, equindi non considerati dalle autorità locali come una reale minaccia. Inoltre, alcuni di

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0 25 50

Chilometri

BOSNIA-ERZEGOVINA

CROAZIA

REPUBBLICAFEDERALE

DI JUGOSLAVIA

SARAJEVO

Vitez

VukovarNovi Sad

BihacBrcko

Gorazde

Banja Luka

Mostar

Tuzla

Knin

Drvar

Spalato

Dubrovnik

Bijeljina

SrebrenicaZenica

Zvornik

Foca

Trebinje

Pale

Sanski Most

Prijedor

Kiseljak Zepa

Confine di statoLinea dell’accordo di Dayton

LEGGENDA

Confine di repubblica

Città / villaggioCapitale di stato

M a r e A d r i a t i c o

MONTENEGRO

FEDERAZIONEDI

BOSNIA-ERZEGOVINA

REPUBLIKA SRPSKA

SERBIA

L’accordo di Dayton del 1995 per la Bosnia-Erzegovina Cartina 9.3

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quanti sono tornati l’hanno fatto con l’intenzione di concludere una permuta diimmobili. Il processo di separazione etnica, iniziato durante la guerra, è continuatonel dopoguerra con altri mezzi.

Se è vero che il numero complessivo dei rientri nelle zone dominate da un altrogruppo etnico rimane modesto, l’Unhcr e altri osservatori hanno constatato un note-vole aumento del numero dei "ritorni minoritari", sia in Croazia che in Bosnia-Erzegovina, nei primi mesi del 2000 34. Il fenomeno è stato attribuito all’impazienzadi rifugiati e sfollati, a un mutato atteggiamento psicologico delle popolazioni, siamaggioritarie sia minoritarie, al cambiamento di governo in Croazia dopo la morte,nel dicembre 1999, del presidente Franjo Tudjman, a una nuova politica del governobosniaco, come pure alle misure adottate dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante – chevigila sull’attuazione civile dell’accordo di Dayton – per allontanare i funzionari ostru-zionisti e far applicare le leggi sulla proprietà fondiaria.

Il processo di rientro ha carattere regionale, interessando tutti i paesi dell’exJugoslavia. L’Unhcr ha costantemente sottolineato che, affinché prosegua a ritmosostenuto, la comunità internazionale deve continuare a stanziare ingenti risorse perl’edificazione della pace nell’area. Dopo la fine della guerra, l’Unhcr ha collaboratostrettamente con l’Ufficio dell’Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina, con la forzamilitare sotto l’egida della Nato, con la Forza di polizia internazionale dell’Onu, conl’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), con la BancaMondiale e con molte altre organizzazioni nazionali e internazionali, per dare il pro-prio contributo al processo di ritorno, ricostruzione e riconciliazione. Inoltre, il Pattodi stabilità per l’Europa sudorientale, promosso dall’Unione europea nel giugno1999, ha ribadito l’impegno ad appoggiare una transizione democratica e ad inco-raggiare il ritorno di società multietniche nella regione.

La crisi del Kosovo

Mentre finiva la guerra in Bosnia-Erzegovina, in un’altra regione dei Balcani una nuovacrisi si profilava all’orizzonte. Il Kosovo aveva una lunga storia di violazioni dei dirit-ti umani. A partire dal 1989, quando fu parzialmente revocata l’autonomia della pro-vincia all’interno della Serbia, la maggioranza degli albano-kosovari vivevano in unasituazione simile all’apartheid, in cui erano loro negati l’accesso ai posti di lavoro e aiservizi pubblici e l’esercizio dei diritti fondamentali. Di conseguenza, gli abitanti dietnia albanese, che costituivano circa il 90% della popolazione, crearono una reteparallela per quasi ogni aspetto della vita quotidiana, fra cui il lavoro, la sanità e l’i-struzione. Fra il 1989 e l’inizio del 1998, si calcola che 350mila albano-kosovariabbandonassero la provincia, trasferendosi perlopiù in paesi dell’Europa occidentale.

La crisi che da molto tempo covava sotto la cenere assunse una nuova dimensio-ne nel febbraio 1998. Le forze di sicurezza serbe intensificarono le operazioni controgli abitanti di etnia albanese sospetti di simpatizzare per l’Esercito di liberazione delKosovo (Uck). Col deteriorarsi della sicurezza, nel maggio-giugno 1998 circa 20milaprofughi attraversarono le montagne per passare in Albania. Altri si rifugiarono in

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Montenegro, come anche in Italia, Svizzera, Germania e altri paesi dell’Europa occi-dentale. Nei mesi successivi, si registrò un inasprimento degli scontri e, in settembre,nel Kosovo c’erano già 175mila sfollati. L’Unhcr avviò una vasta operazione per assi-sterli, insieme con altre vittime del conflitto.

La pressione internazionale, cresciuta dopo l’adozione, nel settembre 1998, dellarisoluzione 1199 del Consiglio di sicurezza, spinse le autorità jugoslave ad accettare uncessate il fuoco e un parziale ritiro delle loro truppe dal Kosovo. Una missione inter-nazionale di verifica, sotto l’egida dell’Osce, fu inviata sul posto per accertare il rispet-to dell’accordo. Seguì una calma temporanea, ma le violazioni isolate della tregua con-tinuarono e, alla fine del 1998, il cessate il fuoco era ormai virtualmente inoperante. Ametà gennaio del 1999, 45 albano-kosovari furono massacrati dalle forze serbe a Racak.Tali sviluppi diedero nuovo slancio alle iniziative per la cessazione del conflitto, che cul-minarono nel febbraio 1999 nei negoziati di pace di Rambouillet, presso Parigi.

Sebbene per tutta la durata delle trattative continuassero gli scontri e gli esodi dipopolazione, i governi occidentali, ottimisti circa le prospettive di pace, invitaronol’Unhcr a programmare il rientro dei rifugiati e degli sfollati. Il 19 marzo, però, i col-loqui di pace fallirono e, il 24 marzo, senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurez-za dell’Onu, la Nato iniziò una campagna aerea contro la Repubblica federale diJugoslavia, che comprendeva pure attacchi contro obiettivi situati nel Kosovo. Dato chela campagna fu giustificata con lo scopo principale di far cessare le uccisioni e le espul-sioni, effettive o potenziali, degli albano-kosovari da parte delle forze serbe, fu spessodesignata come la "guerra umanitaria" della Nato 35. Tale terminologia non puònascondere, tuttavia, il fatto che gli attacchi aerei si tradussero in una crisi umanitariadi ancora maggiori proporzioni, almeno nel breve periodo.

L’afflusso dei rifugiati in Albania e Macedonia

All’inizio degli attacchi aerei, nel Kosovo c’erano già qualcosa come 260mila sfollati.Inoltre, fuori della provincia, si contavano circa 70mila rifugiati e sfollati albano-koso-vari nella regione, e oltre 100mila rifugiati e richiedenti asilo in Europa occidentale ein altri continenti.

La campagna aerea della Nato innescò sul terreno un aumento della violenza.Continuarono gli scontri isolati fra l’Uck e le forze jugoslave, mentre le forze armatee la polizia jugoslave, spalleggiate da forze paramilitari e da abitanti di etnia serba,conducevano una efferata campagna di "pulizia etnica", comprendente anche depor-tazioni in massa verso i paesi limitrofi 36. Dopo l’inizio dei bombardamenti, migliaiadi albano-kosovari furono uccisi e qualcosa come 800mila fuggirono o furono espul-si dal Kosovo. Di questi, circa 426mila cercarono riparo in Albania, circa 228mila nellaRepubblica ex jugoslava di Macedonia e circa 45mila in Montenegro 37. Inoltre, allafine della campagna aerea, durata 78 giorni, un gran numero di abitanti erano sfolla-ti nello stesso Kosovo.

Reagire a una crisi di rifugiati di quelle dimensioni, in un clima politico di estre-ma tensione, rappresentò una enorme sfida. Negli anni e nei mesi precedenti, l’Unhcr– d’intesa con altre agenzie dell’Onu e con le Ong – aveva predisposto piani d’emer-genza per un esodo di un massimo di 100mila persone. Nessuno, però, aveva previsto

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l’ampiezza e la rapidità dell’esodo reale. L’afflusso superò la capacità di risposta deipaesi ospitanti e delle organizzazioni umanitarie. L’Unhcr, in particolare, fu aspra-mente criticato da alcuni donatori e alcune Ong per la sua scarsa prontezza operativae per la sua gestione, nella fase iniziale, della crisi 38.

In Macedonia, ai primi di aprile 1999, le autorità chiusero temporaneamente la fron-tiera, rifiutando l’ingresso a decine di migliaia di albano-kosovari, in una situazione chericordava la reazione della Turchia, nel 1991, nei confronti dei curdi iracheni. Dovendofronteggiare le tensioni legate alla propria minoranza di etnia albanese, il governo mace-done temeva che consistenti arrivi di albanesi del Kosovo potessero destabilizzare il paese.Per ridurre il numero dei rifugiati presenti sul proprio territorio, il governo chiese quindil’attuazione di un sistema di ripartizione internazionale dell’onere, che includesse l’eva-cuazione o il trasferimento in paesi terzi di una parte dei rifugiati. Per continuare a opera-re in territorio macedone, la Nato aveva bisogno dell’assenso delle autorità nazionali, il chedava loro notevoli mezzi di pressione sui governi dei paesi membri dell’Alleanza atlantica.

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235

5025

Chilometri

0

Rep. ex jug. diMACEDONIA

BOSNIA-ERZEGOVINA

REPUBBLICA FEDERALE DI JUGOSLAVIA

ALBANIA

SKOPJE

TIRANA

SARAJEVO

Podgorica

Pristina

Mare Adriatico

MONTENEGROKosovo

SERBIA

445.000 rifugiati

242.000 rifugiati

70.000 sfollati

22.000 rifugiati

63.000 sfollati

Movimenti di rifugiati /sfollati

Confine di stato

Capitale di stato

Città / villaggio

Confine di repubblica

Confine amministrativo

LEGGENDA

Popolazioni del Kosovo esuli nei paesi/territori limitrofia metà giugno 1999 Cartina 9.4

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I RIFUGIATI NEL MONDO

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Riquadro 9.2 Timor est: il prezzo dell’indipendenza

La lunga lotta di Timor est perl’indipendenza giunse ad una svoltarisolutiva nel 1999, quando lapopolazione locale si espresse astragrande maggioranza in favoredell’indipendenza, in un referendumorganizzato e supervisionato dalleNazioni Unite. Subito dopo l’annunciodell’esito della consultazione, le forze disicurezza indonesiane e la milizia anti-indipendentista fomentarono unacampagna di violenze, saccheggi eincendi contro la popolazione civile, cheprovocò un esodo di massa da Timor estverso la parte occidentale dell’isola, eun esodo interno di vaste proporzioninella stessa Timor est. Per l’Unhcr, laprotezione e l’assistenza in favore deirifugiati a Timor ovest comportaronodelicati rapporti con i gruppi dellamilizia anti-indipendentista che, in largamisura; controllavano i campi profughi.

Lo status giuridico di Timor est, lametà orientale di un’isoladell’arcipelago orientale dell’Indonesia,è stato a lungo controverso. Per 450anni fu la colonia portoghese piùdistante e trascurata. Nel 1960, mentrealtre colonie ottenevanol’indipendenza, Timor est comparvesulla scena internazionale grazieall’Assemblea generale dell’Onu, cheinserì la colonia in un elenco di“territori non autonomi”.

La caduta del regime di MarceloCaetano in Portogallo, nell’aprile 1974,apriva la strada all’indipendenza diTimor est, sotto la guida del Fronterivoluzionario per Timor estindipendente (Frente Revolucionária doTimor Leste Independente - Fretilin),un movimento di sinistra. Tuttavia,piuttosto che lasciare che ciòavvenisse, l’inamovibile regimeanticomunista del presidenteindonesiano, il generale Suharto,appoggiò un colpo di stato contro ilFretilin. Dopo il fallimento deltentativo, nel dicembre 1975 lanciòun’invasione su vasta scala,annettendo il territorio, nel luglio1976, come 27a provincia indonesiana.

L’occupazione indonesiana

L’occupazione di Timor est da partedelle forze armate indonesiane

provocò violazioni gravi egeneralizzate dei diritti umani. Suuna popolazione, anteriormente al1975, di circa 700mila persone, sivaluta in oltre 170mila il numerodelle vittime civili, nei primi sei annidi amministrazione militare vi. Sia ilConsiglio di sicurezza che l’Assembleagenerale dell’Onu rifiutaronoripetutamente di riconoscerel’occupazione e chiesero il ritirodell’Indonesia, senza alcun risultato.Gli alleati occidentali del generaleSuharto, in particolare gli Stati Uniti,consideravano il suo regime come unbaluardo strategico essenziale nelSudest asiatico, e le potenzeoccidentali vendevano al governoindonesiano sofisticati armamentianti-insurrezionali.

Per anni, lo status giuridico di Timorest è stato oggetto di controversia.Era la 27a provincia indonesiana,oppure un territorio ancora nonautonomo che doveva ancoraesercitare il dirittoall’autodeterminazione? Fra ilnovembre 1982 e il maggio 1998, iSegretari generali dell’Onu che sisuccedettero nell’incarico ebberoregolari consultazioni con i governidell’Indonesia e del Portogallo aproposito di Timor est, senzacompiere reali progressi. Trannel’Australia, nessuno dei principalipaesi occidentali riconobbe de iurel’annessione indonesiana del 1976.

Con la fine della guerra fredda, lasituazione di Timor est cominciò acambiare. I giornalisti stranieriottennero più facilmente accesso alterritorio e fornirono eloquentiresoconti della brutalitàdell’occupazione. I fotografioccidentali catturarono le immaginidei militari indonesiani chegiustiziavano a colpi d’arma da fuocooltre 250 persone che, nel novembre1991, partecipavano ad un funeralein un cimitero di Dìli, la capitale diTimor est. Quelle fotografie, chefecero istantaneamente il giro delmondo, smentirono le assicurazionidel governo, secondo cui lapopolazione aveva accettatol’integrazione con l’Indonesia. Ilregime ebbe un’altra batosta

diplomatica quando il premio Nobelper la pace 1996 fu assegnato alvescovo cattolico di Timor est, CarlosBelo, e a José Ramos Horta,principale portavoce della resistenzaest-timorese all’estero. Quando, nelmaggio 1998, il generale Suharto fucostretto a dimettersi, nel bel mezzodi una crisi economica e di unmalcontento generalizzato sul pianopolitico, il dominio indonesiano suTimor est andava ormai attenuandosi.

Il referendum del 1999 e glieventi successivi

Il nuovo governo del presidente B.J.Habibie agì rapidamente per risolvere ilproblema di Timor est. Nel maggio1999, l’Indonesia e il Portogallo siaccordarono per affidare al Segretariogenerale dell’Onu l’incarico di svolgereuna “consultazione popolare”, peraccertare se la popolazione localepreferiva una limitata autonomia o lapiena indipendenza. Nel giugno 1999, ilConsiglio di sicurezza istituiva laMissione consultiva delle Nazioni Unitea Timor est (Unamet) per vigilare sulreferendum e sul successivo passaggioall’autonomia o all’indipendenza. Ilgoverno indonesiano, però, insistetteper mantenere la responsabilità dellasicurezza, nel periodo precedente loscrutinio e durante qualunque periododi transizione.

Nonostante la situazione tesa e ilprogramma ambizioso, l’Unametcondusse fruttuosamente laregistrazione di 451.792 potenzialielettori su una popolazione est-timoresedi oltre 800mila persone. Il 30 agosto,oltre il 98 per cento dei registrati sirecò alle urne. Il 78,5 per cento diquesti rifiutò la proposta di autonomia,optando in favore dell’indipendenza.Non appena, il 4 settembre, fuannunciato il risultato le milizie anti-indipendentiste e le forze militarimisero in atto una campagna diassassinii, stupri, saccheggi e incendi.

Non si conosce il numero delle personeuccise in questo periodo, ma la polizia civiledelle Nazioni Unite ricevette notizia, allafine del 1999, di oltre mille uccisioni extra-giudiziali. Il Portavoce speciale della

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Commissione delle Nazioni Unite per i dirittiumani riferì, sempre alla fine del 1999, cheerano stati portati alla luce oltre 100cadaveri, ma le organizzazioni nongovernative locali citavano un numero divittime più elevato vii. Le infrastrutturedel territorio erano distrutte. Dietro lepressioni diplomatiche della comunitàinternazionale, il governo indonesianoacconsentì ad autorizzare l’intervento diuna forza militare multinazionale, sottocomando australiano. Il 20 settembre, laForza internazionale per Timor est(Interfet) cominciò a dispiegarsi e, nelgiro di 32 giorni, aveva riportato lasicurezza sull’intero territorio e suOecussi (Ambeno), una enclave est-timorese nella parte occidentaledell’isola.

Il 19 ottobre, il supremo organocostituzionale indonesiano,l’Assemblea consultiva del popoloindonesiano, riconosceva formalmenteil risultato dello scrutinio, favorevoleall’indipendenza. In capo ad unasettimana, il Consiglio di sicurezzadell’Onu istituiva l’Amministrazioneprovvisoria dell’Onu a Timor est(Untaet), incaricata di garantire lasicurezza e assicurare la supervisionesul passaggio del territorioall’indipendenza.

Proteggere gli esuli

Nel periodo precedente il referendum enei giorni successivi, le violenzeavvenute a Timor est ebbero comeconseguenza l’esodo di qualcosa come500mila abitanti: 250mila circadivenuti sfollati all’interno delterritorio, e all’incirca 290mila rifugiatinella parte occidentale dell’isola.

La maggioranza degli sfollati sirintanò sulle montagne o in zonecontrollate dalla resistenza, fra il 4settembre e il completamento delladislocazione dell’Interfet, a metàottobre. I militari della forzainternazionale aiutarono leorganizzazioni umanitarie nelladistribuzione degli aiuti d’emergenzaa quanti erano rimasti a Dìli. Quandol’Interfet estese il suo controllo sulterritorio, gli aiuti furono distribuitianche negli altri principali centri, e

paracadutati nelle zone di difficileaccesso. A fine ottobre, la maggiorparte degli sfollati era tornata a casa.L’Unhcr assunse il ruolo di capofilaper fornire loro un’assistenza di piùlunga durata. Coloro i quali eranofuggiti a Timor ovest finirono,perlopiù, in campi tirati su in frettanelle vicinanze del capoluogo,Kupang, o di una località di confine,Atambua. I rifugiati erano alla mercédella milizia anti-indipendentista, chelimitava l’accesso delle organizzazioniumanitarie internazionali ai campi. Lecondizioni di questi erano moltoprecarie: scarseggiavano viveri,acqua, servizi igienici e assistenzamedica. Nel novembre 1999, ilmonsone aggravò le già spaventosecondizioni di vita, provocando unaumento delle infermità e dei decessiper malattie trasmesse con l’acqua.

L’Unhcr organizzò il rimpatrio deirifugiati verso Timor est. Quelli cheoptarono per il ritorno, tuttavia, sitrovarono in pericolo a causa dellamilizia anti-indipendentista. Isospetti sostenitori dell’indipendenzafurono alleggeriti dei loro effettipersonali. Alcuni furono stuprati ouccisi. All’inizio, il personaledell’Unhcr doveva recarsi nei campisotto scorta armata dei militari odella polizia, per prelevare quelli cheavevano dichiarato di volerrimpatriare. Col tempo l’accesso aicampi migliorò, ma permanevanoproblemi di sicurezza. Molte famigliedi miliziani non volevano rimpatriare;altre, che volevano farlo, nonpotevano per le continueintimidazioni da parte della milizia.

I primi voli di rimpatrio volontario sonostati organizzati dall’Unhcr l’8 ottobre,ma i rifugiati erano, in generale, troppointimoriti dalla milizia perapprofittarne. A partire dal 21 ottobre,le navi noleggiate dall’Unhcr hannofatto la spola con Timor est,trasportando oltre 2mila persone lasettimana, in un’operazionesuccessivamente assistitadall’Organizzazione internazionale per lemigrazioni (Oim). Alla fine del 1999,oltre 130mila persone erano rimpatriatevolontariamente, di cui 85milanell’ambito di programmi organizzati. I

Timor est e regionecircostante, 1999 Cartina 9.5

0 300 600

Chilometri

Timor est

AUSTRALIA

O C E A N O I N D I A N O

FILIPPINE

MALAYSIA

BRUNEIDARUSSALAM

INDONESIA

miliziani, però, erano sempre presentinei campi profughi e scoraggiavano iritorni, con un’intensa campagna sullasituazione e sulle presunte atrocitàperpetrate a Timor est.

Alla fine del 1999, nei campi profughidi Timor ovest rimanevano oltre150mila rifugiati. Di questi, si ritieneche 50mila circa siano ex dipendentidello stato e membri reclutati in locodell’esercito o della poliziaindonesiana, con le loro famiglie. Moltidi loro decideranno forse di rimanerein Indonesia, mentre molti di quantiappartenevano alla milizia cercherannoprobabilmente di tornare a Timor est.Altri rifugiati, fra quelli rimasti, sonoforse stati “presi in ostaggio” e messinell’impossibilità di rimpatriare. Vistele pressioni esercitate sui rifugiati neicampi, non c’era alcun modoattendibile di verificare gliorientamenti della maggioranza degliest-timoresi che si trovavano ancora aTimor ovest. Alcuni rimpatriati sonostati aggrediti e molestati, per unpresunto sostegno alla milizia anti-indipendentista. L’Unhcr e altreorganizzazioni umanitarie continuanoa collaborare alle iniziative per ilreinserimento a Timor est, checostituiscono una parte essenziale delprocesso di ricostruzione della societàest-timorese.

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L’operazione di soccorso umanitario divenne ancor più politicizzata quando leforze della Nato parteciparono all’assistenza ai rifugiati. I mezzi di comunicazioneinternazionali continuavano a diffondere le drammatiche immagini dei profughidisperati, che affluivano in massa in Albania o erano bloccati alla frontiera macedone.Apparve sempre più chiaramente che, nel breve periodo, la campagna aerea aveva fattoaumentare, anziché diminuire, le violenze contro gli albano-kosovari. In reazione atale sviluppo, la Nato rivolse in misura crescente la propria attenzione al dramma deirifugiati. Il 2 aprile, il Segretario generale dell’organizzazione, Javier Solana, scrivevaall’Alto Commissario Ogata, offrendo di appoggiare l’Unhcr nell’operazione di soc-corso. Il giorno dopo, l’Alto Commissario accettava l’offerta, con una lettera in cuiprecisava i principali settori che richiedevano una collaborazione. Fra di essi, la gestio-

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Circa 65mila rifugiati albanesi del Kosovo sono rimasti intrappolati per parecchi giorni in questa “terra di nessuno”,prima che le guardie di frontiera macedoni li lasciassero passare. (UNHCR/H.J. DAVIES/1999)

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ne del ponte aereo per convogliare gli aiuti umanitari in Albania e Macedonia, un’as-sistenza in materia di trasporti, e un supporto logistico per l’allestimento dei campiprofughi 39.

L’accettazione da parte dell’Unhcr dell’assistenza offerta dalla Nato contribuì adare una rapida soluzione al problema dei 65mila albano-kosovari bloccati alla fron-tiera della Macedonia. La costruzione immediata di campi profughi e il programma dievacuazione verso paesi terzi costituirono il "pacchetto" necessario per strappare algoverno macedone l’accordo per l’ammissione dei rifugiati.

Una novità di rilievo fu la partecipazione della Nato all’allestimento dei campiprofughi. L’Unhcr fu criticato per la sua stretta collaborazione con l’Alleanza atlanticada osservatori i quali sostenevano che, essendo questa coinvolta nel conflitto, la colla-borazione delle sue unità militari alla realizzazione dei campi comprometteva l’im-parzialità dell’operazione umanitaria. Come era avvenuto nel 1991 nel nord dell’Iraq,tuttavia, i militari sembrarono più qualificati di chiunque altro per fornire l’assisten-za logistica e la sicurezza necessarie per gestire la crisi umanitaria.

L’altra parte del pacchetto concordato per ottenere che la Macedonia mantenesseaperte le frontiere fu un programma di "evacuazione umanitaria". L’iniziativa, lancia-ta su insistenza del governo macedone, fortemente appoggiato dagli Stati Uniti, fuattuata dall’Unhcr, di concerto con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.Il programma – concepito esclusivamente come una soluzione di breve durata, perpermettere il trasferimento di parte dei rifugiati dalla Macedonia verso paesi terzi –rappresentò una nuova variante della ripartizione dell’onere. L’ambiguità dello statusgiuridico e dei diritti di coloro che furono evacuati nel quadro del programma fece sìche ogni governo applicasse i propri criteri, ad esempio, relativamente al diritto alricongiungimento familiare. L’Unhcr ribadì che l’evacuazione doveva essere volonta-ria, rispettare l’unità della famiglia e dare la priorità agli individui particolarmentevulnerabili: la decisione, però, circa i rifugiati più bisognosi e i paesi di destinazionepiù idonei, la registrazione e il monitoraggio, durante il trasferimento, degli evacuati– spesso del tutto sprovvisti di documenti – costituirono un compito arduo.

Al termine dell’emergenza, avevano beneficiato del programma poco meno di96mila rifugiati, in 28 paesi ospitanti. Il maggior numero fu trasferito in Germania(14.700), negli Stati Uniti (9.700) e in Turchia (8.300), mentre la Francia, la Norvegia,l’Italia, il Canada e l’Austria accolsero più di 5mila rifugiati ciascuno. Inoltre, variemigliaia di rifugiati furono trasportati in autobus dalla Macedonia in Albania.

In questi due paesi, i governi donatori contribuirono generosamente all’operazio-ne umanitaria. Di fatto si registrò una notevole disparità fra il volume di contributifinanziari e altre risorse fornito per questa operazione e quello messo a disposizione,nello stesso periodo, per le nuove emergenze di rifugiati in Africa. L’enorme pubbli-cità data dai media internazionali all’operazione di soccorso nei Balcani fece sì che lemodalità di fornitura degli aiuti fossero dettate da considerazioni politiche. Comespiegava un funzionario dell’Unhcr, che all’epoca lavorava sul posto: "Per molti com-ponenti della comunità internazionale era divenuto quasi obbligatorio trovarsi in locoe mentre si occupavano direttamente dei rifugiati. Quanto più i bombardamenti nonavevano apparentemente altro effetto se non quello di costringere gli abitanti alla fuga,tanto più i governi si ritenevano obbligati a farsi vedere mentre si interessavano ai pro-

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Riquadro 9.3 La giustizia penale internazionale

Negli anni ‘90, per la prima voltadopo i processi di Norimberga e diTokyo della fine degli anni ‘40, lacomunità internazionale ha istituitouna serie di tribunali internazionaliper portare in giudizio i responsabilidi violazioni del diritto internazionaleumanitario e di quello relativo aidiritti umani. Ai tribunaliinternazionali ad hoc per l’exJugoslavia e il Ruanda, istituitirispettivamente nel 1993 e nel 1994,fece seguito alla fine del decennio unaccordo per la creazione di unTribunale penale internazionale.

Ponendo termine alla culturadell’impunità, la giustizia penaleinternazionale può limitare lemaggiori violazioni dei diritti umaniche spesso danno vita a spostamentiforzati di popolazione. La giustiziapenale internazionale può inoltregiocare un ruolo fondamentale nelmettere in condizione rifugiati esfollati, alla fine di un conflitto, diritornare alle loro case. La giustiziacostituisce un elemento dellariconciliazione nazionale; senza diessa la pace è meno stabile, epermane il rischio di una ripresa delleostilità.

I tribunali internazionali

Sin dalla sua istituzione, nel maggio1993, il Tribunale penaleinternazionale per l’ex Jugoslaviaopera per far sì che i crimini diguerra e contro l’umanità perpetratiin quella regione non rimanganoimpuniti. La sua attività fa parteintegrante del lento processo diriconciliazione, premessa di una pacedurevole nell’area.

Il Tribunale ha posto in statod’accusa oltre 90 persone, ma il suolavoro è intralciato dall’ostruzionismodi alcuni governi interessati. Quasi unterzo degli incriminati rimane inlibertà, fra cui il presidente jugoslavoSlobodan Milosevic e il leader serbo-bosniaco, Radovan Karadzic. Per moltiimputati la procedura è ancora in fase

istruttoria. A fine 1999, otto personeerano state giudicate colpevoli diviolazioni delle leggi e degli usi dellaguerra, o di gravi infrazioni alleConvenzioni di Ginevra del 1949 sulleleggi della guerra, o ancora di criminicontro l’umanità, e condannate apene fino a 40 anni di detenzione.

Il Tribunale penale internazionale peril Ruanda è stato istituito nelnovembre 1994, al fine di assicurarealla giustizia i responsabili delgenocidio del 1994. Il compito èrisultato estremamente difficile. Finoal novembre 1999, il Tribunale avevaportato a termine appena quattroprocessi e incriminato altri dueimputati. Solo cinque individui eranostati condannati, con pene detentiveche andavano dai 15 anniall’ergastolo.

Malgrado tutti i problemi proceduralie le carenze, non bisognasottovalutare il contributofondamentale dato dal Tribunale allagiustizia internazionale eall’elaborazione del diritto penaleinternazionale. La sentenza emessa,nel 1998, contro un ex sindacoruandese ha non solo dato luogo aun’applicazione innovativa dellaConvenzione del 1948 sullaprevenzione e la repressione delcrimine di genocidio, ma ha anchestabilito un importante precedenteriguardo all’interpretazione di atti diviolenza sessuale e stupro, commessidurante un conflitto armato.

Quando analoghi crimini sono staticommessi in altri paesi, tuttavia, lacomunità internazionale non ha datoprova della stessa fermezza. InCambogia, ad esempio, oltre unmilione di persone fu ucciso, neglianni ‘70, dai khmer rossi, ma soltantoora s’intravede la prospettiva diun’azione giuridica contro iresponsabili. Più di recente, alcunidei crimini più efferati contro deicivili, fra cui la mutilazione deliberatadi neonati e bambini piccoli, sonostati commessi nella Sierra Leone.Eppure, l’accordo di pace del 1999 ha

concesso un’amnistia generale pertutti quei crimini. Per lottare control’impunità senza ricorrere allagiustizia penale, alcuni stati hannoadottato altre misure, comel’istituzione delle cosiddette“commissioni verità e riconciliazione”.In molti altri paesi che hanno subitoenormi perdite civili, in conflittibrutali e interminabili, non ci sonostate né incriminazioni penali néaltre alternative del genere.

Verso una Corte penaleinternazionale

A queste preoccupazioni di più vastaportata ha in parte risposto laconclusione, nel luglio 1998, diprolungate deliberazioni circal’istituzione di un Tribunale penaleinternazionale. Un regime veramenteuniversale per l’esercizio dellagiustizia penale dovrebbe avere uneffetto dissuasivo sugli autori di talicrimini, e quindi contribuire aprevenire le situazioni che generanoflussi di rifugiati.

In una dichiarazione congiuntadivulgata nel maggio 1999, l’Unhcr ealtre agenzie umanitarie hannoincoraggiato tutti gli stati asottoscrivere e ratificare quanto primail cosiddetto “Statuto di Roma”,istitutivo del Tribunale, al fine diassicurare alla giustizia i responsabilidi gravi violazioni del dirittointernazionale umanitario e di quellorelativo ai diritti umani, sollecitandoinoltre i governi a fare il propriodovere in materia di protezione dellepopolazioni civili, deliberatamenteprese di mira in un numero sempremaggiore di conflitti.

Alla fine del 1999, solo sei statiavevano ratificato lo Statuto delTribunale penale. Per la sua entrata invigore sono necessarie 60 ratifiche.Nel frattempo, a New York proseguonointerminabili discussioni per definirein dettaglio i reati che rientrano nelloStatuto e il regolamento interno dellaCorte.

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fughi" 40. Il risultato fu che, anziché fornire aiuti multilaterali tramite organizzazionicome l’Unhcr, i governi convogliarono stanziamenti senza precedenti alle proprie Ongnazionali, oppure direttamente ai governi albanese e macedone.

Per l’Unhcr, nel suo ruolo di capofila, questo rappresentò un grosso problema.Alcunicampi profughi furono allestiti e utilizzati addirittura prima che l’organizzazione fosseinformata della loro esistenza. I criteri adottati per gli aiuti bilaterali variavano notevol-mente, e per molti governi e organismi la visibilità sembrava spesso più importante che ilrisultato e il coordinamento. L’Alto Commissario Ogata sollecitò i governi a non indeboli-re l’azione delle organizzazioni umanitarie internazionali come l’Unhcr scavalcandole, riaf-fermando nel contempo l’importanza degli aiuti multilaterali per garantire l’imparzialità,dato che tali aiuti sono "diretti alle persone e non basati sugli interessi degli stati" 41 .

Guerra e azione umanitaria: l’Iraq e i Balcani

Un elicottero svizzero trasporta per conto dell’Unhcr a Kukes, nel nord dell’Albania, aiuti umanitari donati dagli StatiUniti e distribuiti tramite il Programma alimentare mondiale. (UNHCR/U. MEISSNER/1999)

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La ricostruzione del Kosovo

Il 9 giugno 1999, la Repubblica federale di Jugoslavia accettò formalmente un pianodi pace che esigeva il ritiro di tutte le forze serbe dal Kosovo, il ritorno in piena sicu-rezza e libertà di tutti i rifugiati e gli sfollati, nonché l’istituzione di una missionedell’Onu, autorizzata in virtù della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza. Il 12giugno, una Forza per il Kosovo (Kfor), sotto l’egida della Nato e comprendente anchetruppe russe, cominciò a dislocarsi nella provincia.

I rifugiati cominciarono immediatamente a far ritorno alle loro case. Nel giro ditre settimane, erano tornate mezzo milione di persone e, alla fine del 1999, ne eranorientrate oltre 820mila (fra cui alcuni abitanti partiti prima del 24 marzo). Coloro chetornavano trovavano una società priva di un’amministrazione civile e una forza dipolizia operative, senza alcun ordinamento giuridico o apparato giudiziario, in cui ledistruzioni degli immobili erano state massicce. I rimpatriati dovevano, inoltre, farfronte al pericolo delle mine, delle bombe nascoste e degli ordigni inesplosi.

Con decine di migliaia di case distrutte o gravemente sinistrate, l’Unhcr e le altreorganizzazioni umanitarie avviarono immediatamente un programma di ripristino ericostruzione su larga scala. La fornitura di aiuti materiali agli albano-kosovari rimpa-triati, tuttavia, era solo uno dei molteplici aspetti dell’edificazione della pace nelKosovo. Tutta la società civile era gravemente traumatizzata dalla guerra e dagli eventidegli anni precedenti, e la situazione in materia di sicurezza rimaneva incandescente.Gli stanziamenti destinati alla campagna aerea Nato erano stati massicci, ma ancorauna volta gli investimenti postbellici – sia a livello politico che economico – furono,in confronto, minimi.

Una Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione provvisoria del Kosovo(Unmik) fu incaricata dal Consiglio di sicurezza di mettere in piedi un’amministrazionecivile provvisoria. Questa doveva occuparsi di tutto: dall’assistenza sociale e gli alloggi, alripristino dell’ordine pubblico. Sommandosi ad anni di abbandono, i danni causati dallaguerra imponevano urgenti lavori di ricostruzione in tutti i settori essenziali: elettricità eacqua, sanità e istruzione, fabbriche e piccole imprese, agricoltura e comunicazioni.

A parte l’enorme opera di ricostruzione, tuttavia, per la Kfor e la Missione con-dotta dall’Onu il problema maggiore si rivelò quello della protezione dei serbi, deirom (nomadi) e degli altri gruppi minoritari rimasti in Kosovo. Mentre i rifugiatie gli sfollati tornavano in massa alle loro case, gli albano-kosovari attaccarono eminacciarono serbi e membri delle altre minoranze, sospetti di aver perpetratoatrocità contro di loro o di avervi collaborato. Nel giro di tre mesi, poco meno di200mila serbi e componenti degli altri gruppi minoritari abbandonarono ilKosovo, con quella che fu definita una "pulizia etnica alla rovescia". Malgrado l’in-sistenza dei paesi della Nato sulla necessità di preservare il carattere multietnicodella provincia, e malgrado l’impegno in tal senso dei dirigenti albano-kosovari,questa è ormai nettamente divisa fra le zone albano-kosovare e le sacche di terri-torio tuttora abitate da serbi e rom. A partire dal giugno 1999, l’Unhcr e le altreorganizzazioni umanitarie hanno svolto un certo numero di attività, in collabora-zione con la Kfor e l’Unmik, con l’obiettivo di proteggere e assistere i serbi e lealtre minoranze.

I RIFUGIATI NEL MONDO

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Nel frattempo, l’esodo dei serbi dal Kosovo verso le altre regioni della Repubblicafederale di Jugoslavia ha messo ancor più a dura prova un paese che già soffriva deglieffetti protratti delle sanzioni internazionali e dei bombardamenti. Già prima di que-st’ultimo afflusso di profughi, la Jugoslavia ospitava oltre mezzo milione di rifugiatioriginari della Croazia e della Bosnia-Erzegovina, il che ne fa il paese della regione cheospita il maggior numero di esuli.

I limiti dell’azione umanitaria in tempo di guerra

Nell’ultimo decennio del 20° secolo, le organizzazioni umanitarie che operavano inpaesi dilaniati dalla guerra hanno salvato migliaia di vite e hanno notevolmente con-tribuito ad attenuare le sofferenze umane. Uno degli insegnamenti principali deldecennio, tuttavia, è che nelle situazioni di conflitto l’azione umanitaria può esserefacilmente strumentalizzata dagli avversari, con la conseguenza involontaria di raffor-zare la posizione delle autorità colpevoli di violazioni dei diritti umani. Inoltre, gliaiuti forniti dalle organizzazioni umanitarie possono essere immessi nell’economiabellica, contribuendo a sostenere e prolungare la guerra.

In questo decennio, inoltre, si sono acquisiti importanti insegnamenti circa il ricorsoalle forze militari per la protezione delle vittime civili delle guerre. In un rapporto estre-mamente critico sulla caduta di Srebrenica, presentato all’Assemblea generale dell’Onu nelnovembre 1999, il Segretario generale Kofi Annan ne riassumeva i più rilevanti:

Il principale insegnamento di Srebrenica è che un tentativo deliberato e sistemati-co di terrorizzare, espellere o massacrare un intero popolo va contrastato con decisio-ne e con tutti i mezzi necessari, nonché con la volontà politica di portare tale strategiafino alla sua logica conclusione. Nei Balcani, in questo decennio, abbiamo dovutoapprendere questa lezione non una volta, ma due. In entrambi i casi, in Bosnia e inKosovo, la comunità internazionale ha cercato di giungere a una soluzione negoziatacon un regime privo di scrupoli e omicida. In entrambi i casi, è stato necessario ricor-rere alla forza per far cessare le uccisioni e le espulsioni di civili, programmate e siste-matiche 42.

Troppe volte, durante gli anni ’90, le organizzazioni umanitarie come l’Unhcrsono state lasciate da sole alle prese con problemi di carattere prettamente politico. Inognuno di quei casi, sono chiaramente apparsi i limiti dell’azione umanitaria. Comeha sottolineato per tutto il decennio, con crescente insistenza, l’Alto CommissarioSadako Ogata, le operazioni umanitarie d’emergenza non vanno considerate sostituti-ve di un’azione politica tempestiva e decisa, che vada alla radice dei conflitti 43.

Guerra e azione umanitaria: l’Iraq e i Balcani

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