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Anno XXXV 12 15 Dicembre 2012 € 1,00 Spedizione in A.P. - art. 2 - c.20 - L.662/96 Redazione: piazza Duomo, 12 Brindisi E-mail: [email protected] tel. 340.2684464 | fax 0831.524296 In caso di mancato recapito inviare al CDM di Brindisi per la restituzione al mittente previo pagamento Resi In caso di mancato recapito inviare al CDM di Brindisi per la restituzione al mittente previo pagamento Resi La logica del dono perenne Angelo Sconosciuto A bbiamo sperato tutti in- sieme che il Natale del 2011 fosse l’ultimo Nata- le di un’epoca di crisi economica e di sistema, una crisi destinata a mutare profondamente le no- stre abitudini. Il che sarebbe il meno se avessimo già mutato il nostro modo di approcciare questioni grandi e piccole. Non è stato così. Ci apprestiamo a vivere mesi intensi, anche per- ché determineremo scelte, mai come questa volta decisive per il nostro futuro. Di recente il card. Bagnasco ha ripetuto che “non si possono mandare alla malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini” , ma oltre la semplice analisi, scrivendo ai bambini, ha ricordato che “la vita vera si realizza quando si ama molto” e a tutti ha ribadito, stando a col- loquio con un giornalista, che le “prospettive da assecondare con maggiore convinzione” sono i giovani e la famiglia. I giova- ni che, a pensare giusto, vanno considerati come parte del pre- sente e non più come speranza del futuro e la famiglia che va considerata “decisiva” . “Nella difficile congiuntura l’unico ammortizzatore uma- no e sociale garantito presso- ché a tutti si è rivelata la fami- glia” , ha detto testualmente e, se ci pensiamo, anche Dio che si fa uomo ha scelto - nel cor- so di tutte le epoche e nel suo percorso naturale, biologico, profondamente umano senza rinunciare alla sua essenza divina -, quell’ammortizzato- re umano e sociale. Quell’am- mortizzatore lo accoglie in una grotta di Betlem – è vero – ma proprio perché intorno si avverte crisi, lo pone al sicuro di fronte al mondo, di fronte alle insidie che vengono dalla mentalità corrente e gli fa toc- care con mano (a un neonato lo si potrà raccontare dopo) quanto valga quell’amare molto e in modo disinteressa- to e quanto sia capace di farlo proprio l’uomo più semplice , stando accanto all’altro, anche se non lo conosce personal- mente, consapevole soltanto della sua prossimità. I pastori che vanno alla grotta non rap- presentano tutto questo? La loro è una logica accantona- ta, ma vincente: i più accorti economisti la chiamano logica del dono. E non è stato l’uomo ad inventarlo: l’ha creata Dio, mandando il suo Figlio nel mondo. Il primo dono lo ha fatto lui, ed è un dono perenne: non è il fattorino che bussa alla porta per consegnarci il regalo di Natale. Et habitavit in nobis è molto, molto di più. EDITORIALE Grazie Ampia intervista a Mons. Talucci alle pagine 12-13 Dopo quasi tredici anni di Ministero, all’inizio del 2013, Mons. Rocco Talucci lascia il governo della Diocesi

Transcript of Grazie A - diocesibrindisiostuni.it · per la giustizia sociale, ... ha ben riassunto le radici e...

Anno XXXV n° 12 15 Dicembre 2012

€ 1,00Spedizione in A.P. - art. 2 - c.20 - L.662/96

Redazione: piazza Duomo, 12 Brindisi E-mail: [email protected]. 340.2684464 | fax 0831.524296

In caso di mancato recapito inviare al CDM di Brindisi per la restituzione al mittente previo pagamento Resi In caso di mancato recapito inviare al CDM di Brindisi per la restituzione al mittente previo pagamento Resi

La logicadel donoperenne

Angelo Sconosciuto

Abbiamo sperato tutti in-sieme che il Natale del 2011 fosse l’ultimo Nata-

le di un’epoca di crisi economica e di sistema, una crisi destinata a mutare profondamente le no-stre abitudini. Il che sarebbe il meno se avessimo già mutato il nostro modo di approcciare questioni grandi e piccole. Non è stato così. Ci apprestiamo a vivere mesi intensi, anche per-ché determineremo scelte, mai come questa volta decisive per il nostro futuro. Di recente il card. Bagnasco ha ripetuto che “non si possono mandare alla malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini”, ma oltre la semplice analisi, scrivendo ai bambini, ha ricordato che “la vita vera si realizza quando si ama molto” e a tutti ha ribadito, stando a col-loquio con un giornalista, che le “prospettive da assecondare con maggiore convinzione” sono i giovani e la famiglia. I giova-ni che, a pensare giusto, vanno considerati come parte del pre-sente e non più come speranza del futuro e la famiglia che va considerata “decisiva”.“Nella difficile congiuntura l’unico ammortizzatore uma-no e sociale garantito presso-ché a tutti si è rivelata la fami-glia”, ha detto testualmente e, se ci pensiamo, anche Dio che si fa uomo ha scelto - nel cor-so di tutte le epoche e nel suo percorso naturale, biologico, profondamente umano senza rinunciare alla sua essenza divina -, quell’ammortizzato-re umano e sociale. Quell’am-mortizzatore lo accoglie in una grotta di Betlem – è vero – ma proprio perché intorno si avverte crisi, lo pone al sicuro di fronte al mondo, di fronte alle insidie che vengono dalla mentalità corrente e gli fa toc-care con mano (a un neonato lo si potrà raccontare dopo) quanto valga quell’amare molto e in modo disinteressa-to e quanto sia capace di farlo proprio l’uomo più semplice , stando accanto all’altro, anche se non lo conosce personal-mente, consapevole soltanto della sua prossimità. I pastori che vanno alla grotta non rap-presentano tutto questo? La loro è una logica accantona-ta, ma vincente: i più accorti economisti la chiamano logica del dono. E non è stato l’uomo ad inventarlo: l’ha creata Dio, mandando il suo Figlio nel mondo. Il primo dono lo ha fatto lui, ed è un dono perenne: non è il fattorino che bussa alla porta per consegnarci il regalo di Natale. Et habitavit in nobis è molto, molto di più.

editoriale

Grazie

Ampia intervista a Mons. Talucci alle pagine 12-13

Dopo quasi tredici anni di Ministero, all’inizio del 2013, Mons. Rocco Talucci lascia il governo della Diocesi

“La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile. L’uomo è fatto per la pace che è dono di

Dio”. Ma “per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla di-mensione trascendente e il colloquio costan-te con Dio. Così l’uomo può vincere quel ger-me di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoi-smo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste”. Lo scrive Benedetto XVI nel mes-saggio per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2013) intitolato “Beati gli ope-ratori di pace” e presentato il 14 dicembre in Vaticano. Un testo, nel quale il Pontefice tratteggia una sorta d’identikit dell’operato-re di pace definito come “colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace”. Le strade della pace. Una di queste è “il ri-spetto per la vita umana”. Operatori di pace sono coloro che, afferma il Papa, “amano, di-fendono e promuovono la vita, dal suo con-cepimento e sino alla sua fine naturale, nel-la sua integralità, in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente”. Per Benedetto XVI, “chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita. Colo-ro che sostengono per esempio la liberalizza-zione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabil-mente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente”. Anche la struttura natu-rale del matrimonio “va riconosciuta – si leg-ge nel messaggio - e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tenta-tivi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo ca-rattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale”. Cooperazione alla pace è anche il ri-conoscimento del “diritto all’uso del princi-pio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eu-tanasia”. Altra via da percorrere in vista della “vita pacifica dei popoli”, è quella della libertà religiosa, un diritto, si legge nel testo, da promuovere “dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di testi-moniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di benefi-cenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, struttu-

rati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri”. Purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana, denuncia Benedetto XVI, “si stanno moltiplicando gli episodi d’intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo”. Nuovo modello di sviluppo. Tra i diritti oggi maggiormente minacciati vi è quello al lavoro: “Ciò è dovuto al fatto – scri-

ve il Pontefice - che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni econo-miche, sociali e politiche, esigono che si con-tinui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimen-to, per tutti”. Ne consegue per Benedetto XVI la necessità di “un nuovo modello di svilup-po, come anche un nuovo sguardo sull’eco-nomia” che abbia Dio “come riferimento ultimo”. Riferendosi poi alla crisi finanziaria ed economica, il Papa afferma che “l’opera-tore di pace esercita l’attività economica per il bene comune, vive il suo impegno come qualcosa che va al di là del proprio interesse, a beneficio delle generazioni presenti e futu-re”. Ben più grave della crisi finanziaria è, ad avviso di Benedetto XVI, quella alimentare. Per fronteggiarla, gli operatori di pace “sono chiamati a operare insieme in spirito di soli-darietà, dal livello locale a quello internazio-nale, con l’obiettivo di mettere gli agricoltori, in particolare nelle piccole realtà rurali, in condizione di poter svolgere la loro attività in modo dignitoso e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico”. Nella ricerca del bene comune, gli operatori di pace sono, inoltre, chiamati a “coltivare la passione per il bene comune della famiglia e per la giustizia sociale, nonché l’impegno di una valida educazione sociale. Nella fami-glia nascono e crescono gli operatori di pace, i futuri promotori di una cultura della vita e dell’amore. In questo immenso compito di educazione alla pace sono coinvolte in parti-colare le comunità religiose, la Chiesa, attra-verso la nuova evangelizzazione, e le istitu-zioni culturali, scolastiche ed universitarie”. Una pedagogia del perdono. Emerge, in conclusione, la necessità di promuovere una pedagogia della pace. Bisogna, scri-ve Benedetto XVI, “insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vive-re con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spi-rituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Oc-

corre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, com-passione, solidarietà, coraggio e perseveranza. E Gesù in-carna l’insieme di questi atteggiamenti”..

giornata mondiale della pace Reso noto il Messaggio di Benedetto XVI

Beati gli operatori di pace

“È meglio discutere attorno a un tavolo che sul cam-po di battaglia”: con una frase pronunciata da

Jean Monnet, uno dei “padri” dell’avventura comunita-ria, il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ha ben riassunto le radici e gli obiettivi dell’in-tegrazione europea (la ricerca della pace dopo la secon-da guerra mondiale) e le strade percorse per costruire la “casa comune” (principalmente la politica e la diplomazia). La cerimonia di consegna del premio Nobel per la pace 2012 all’Unione europea, svoltasi a Oslo il 10 dicembre, ha fornito l’opportunità per una lezione di ripasso, una “riflessione a voce alta” su quanto l’esperimento comu-nitario abbia rappresentato nel passato e ciò che in pro-spettiva da esso ci si può ancora attendere per il futuro. Ieri, oggi e domani. La cerimonia, tenutasi nel municipio di Oslo, è stata aperta, alla presenza dei reali norvegesi, da Thornbjorn Jagland, presidente del comitato che assegna il Nobel per la pace, il quale ha ricordato come l’Ue abbia alle spalle un lungo processo storico, che prende avvio nella riconciliazione tra Germania e Francia all’indomani dell’ul-timo conflitto mondiale. La cancelliera tedesca Angela Mer-

kel e il presidente francese François Hollande, presenti alla cerimonia assieme a numerosi altri capi di Stato e premier europei, si sono alzati in piedi tenendosi per mano. «Con la crisi finanziaria in atto - ha affermato Jagland - l’archi-tettura politica dell’Unione europea è più importante che mai», per evitare il risorgere «di nuovi protezionismi e nuo-vi nazionalismi». Jagland ha ripercorso le tappe dell’inte-grazione, il progressivo allargamento della comunità oltre i sei Paesi fondatori, le responsabilità collettive nel campo dell’economia, della pace, della difesa dei diritti fondamen-tali. Hanno quindi preso la parola il presidente del Consi-glio europeo, Herman Van Rompuy, e il capo dell’Esecutivo, Barroso. Al termine dei discorsi, la consegna ai rappresen-tanti Ue di una targa e una medaglia a ricordo, assieme a un assegno pari a 930 mila euro che, integrato dal budget Ue fino a raggiungere 2 milioni, sarà destinato a proget-ti a favore di bambini vittime delle guerre nel mondo. La figura di Wojtyla. Dal canto suo il presidente della Commissione Barroso ha inserito nell’olimpo dell’Unione europea - da intendersi come “comunità di valori” e qua-le progetto economico e politico fondato sulla pace e la

solidarietà - anche Karol Wojtyla. Barroso ha citato papa Giovanni Paolo II tra i personaggi che hanno contribuito a far avanzare il cammino di «unità nella diversità», apren-do i confini dell’Unione verso Est. «In oltre sessant’anni - ha aggiunto - il progetto comunitario ha dimostrato che è possibile che popoli e nazioni stiano insieme al di là delle frontiere nazionali», assumendo anche una responsabilità nella stessa direzione su scala mondiale.

nobel per la pace 2012 Il premio assegnato all’Unione Europea

Un lungo percorso tra storia e futuro

I leader Ue ricevono il premio Nobel per la pace

315 dicembre 2012 Primo Piano

Lo scorso 21 novembre presso la Basilica Cattedrale di Brindisi si è svolta l’inaugurazio-ne dell’Anno Accademico 2012/2013 dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Lorenzo da Brindisi” associato alla Facoltà Teologica Pugliese. I numerosi presenti,

studenti, presbiteri e fedeli, hanno ascoltato uno degli ultimi testimoni viventi del Concilio Vaticano II, Mons. Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, che ha tenuto la prolusione dal titolo “Il Concilio Vaticano II ieri, oggi e domani”.

L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Lorenzo da Brindisi”, attraverso degli itinerari sistematici di approfondimento biblico e teologico, cerca di rispondere alle impellenti neces-sità che l’attuale contesto sociale ha generato, tanto da richiedere sempre più “la presenza di uomini e donne dalla fede adulta, capaci, nelle varie situazioni, di render ragione della spe-ranza che è in loro (cfr 1Pt 3,15)”.

L’incontro con Mons. Bettazzi, fortemente voluto dal Direttore dell’Istituto, Mons. Antonio Valentino, e dall’intero collegio docenti, «ha rappresentato – come sottolineava l’Arcivesco-vo, Mons. Talucci – una delle tappe che a livello diocesano stanno scandendo questo Anno della Fede. Perché chi vuole camminare ha bisogno di tappe, per avere stimoli culturali ed esperienziali». Ascoltando il Vescovo emerito di Ivrea, quasi novantenne, abbiamo accolto le parole di un uomo di fede, come lo ha definito il nostro Arcivescovo.

Mons. Bettazzi ha partecipato a tre sessioni del Concilio Vaticano II, in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare) ed è noto a livello na-zionale ed internazionale per il suo impegno nel movimento cattolico “Pax Christi”, di cui è stato presidente nazionale a partire dal 1968 ed internazionale dal 1978 al 1985. Tanto da divenirne una delle figure di riferimento per il movimento pacifista di ispirazione cristiana insieme all’indimenticabile Mons. Tonino Bello con il quale partecipò, nel 1992, alla storica marcia organizzata nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.

Della prolusione di Mons. Bettazzi gli intervenuti ricorderanno senza dubbio la straordi-naria lucidità e la spiccata simpatia che hanno permesso al relatore di catturare l’attenzione dell’assemblea mentre ripercorreva gli anni del Concilio Vaticano II, che furono, per usare le parole di Papa Giovanni XXIII: “una nuova Pentecoste” per la Chiesa.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II si svolse circa 100 anni dopo il Concilio Ecumenico Vati-cano I, che iniziò nel 1868 e fu interrotto nel 1870 con la presa di Roma e la caduta dello Stato Pontificio. In tale Concilio venne approvato solamente il primato del Santo Padre. Non ter-minò, fu sospeso e poi fu chiuso simbolicamente da Papa Giovanni XXIII prima di aprire il Concilio Vaticano II.

Già sotto il pontificato di Pio XII riaffiorò l’idea di convocare un Concilio e si compirono diversi passi per la preparazione di esso, ma – ha sottolineato Bettazzi – molti dissuasero il Papa. Fu, poi, Giovanni XXIII, che tutti pensavano un Papa di transizione, a soli tre mesi dal-la sua elezione al soglio pontificio, che il 25 gennaio del 1959, annuncio l’indizione del XXI Concilio della storia della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II non è stato un concilio dogmatico, ma pastorale che ha “partorito” quattro Costituzioni (Sacrosanctum Concilium, Dei Verbum, Lumen Gentium e Gaudium et Spes), tre Dichiarazioni e nove Decreti. Mons. Bettazzi vi partecipò a partire dalla secon-da sessione e lo ricorda come un grande evento di “grazia” donatogli dal Signore. «Non sono state dette cose nuove ma è cambiato il modo di coinvolgere tutti». «È vero – ha detto Bettaz-zi – che per muovere secoli di atteggiamento dominante, in cui il papa era un re, ci vuole un po’ di tempo, ma si capì che il decentramento, la collegialità, la collaborazione dei vescovi

non sarebbe significato sottrarre autorità, bensì dare autorevolezza al governo della Chiesa. Così abbiamo maturato insieme il rinnovamento» e i cristiani hanno avuto la possibilità di avere in mano la Rivelazione di Dio.

Ci si accorse, perciò, che bisognava capire il linguaggio della Parola di Dio, che occorreva formare piccoli gruppi per conoscerla meglio, per diventare familiari con essa e comprende-re, quindi, cosa Dio vuole dire alla vita dell’uomo.

Dal costato di Adamo è nata Eva e dal costato di Cristo nasce la Chiesa, che in quegli anni visse un’importante rinnovamento che le permise di aprirsi al mondo.

Infatti, ha ricordato Bettazzi, nell’autunno nel 1963 ci fu un’altra grande intuizione di Gio-vanni XXIII che promulgò la Pacem in terris la quale rappresentò una novità, perché «per la prima volta un Papa non parlava di questioni religiose rivolgendosi ai cattolici, ma di un grande valore umano, come la pace, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà». La Chiesa cominciò così a presentare i valori cristiani a tutta l‘umanità, anche ai non cristiani, perché, pur non diventando Chiesa, potessero camminare verso il Regno di Dio. «La Chiesa deve essere fermento e lievito per tutta l’umanità, perché diventi migliore».

Successivamente Mons. Bettazzi ha ripreso gli aspetti fondamentali delle quattro Costitu-zioni conciliari.

La Sacrosanctum Concilium, la prima delle quattro, era stata ben preparata sulla base del-le indicazioni derivanti dal movimento liturgico. Il frutto principale di questo movimento fu che i fedeli non dovessero assistere più passivamente alle funzioni sacre e che l’eucarestia doveva essere celebrata nelle lingue nazionali; questo ha permesso un maggiore coinvolgi-mento del popolo di Dio, prima completamente estraneo.

La Dei Verbum, sulla Divina Rivelazione, sottolinea la riscoperta della centralità della Pa-rola di Dio. Questo è stato frutto del lavoro del rinnovamento biblico. Sotto la guida dello Spirito Santo i Padri Conciliari affermarono l’importanza della Parola di Dio, mettendola al centro della vita della Chiesa. “È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, sia nu-trita e regolata dalla sacra Scrittura” (DV 21).

La Lumen Gentium è la costituzione fondamentale del Concilio Vaticano II e costituisce in due sensi il vertice e il centro delle decisioni conciliari. Dal punto di vista storico, essa è il vertice perché conclude la ricerca della Chiesa sulla propria natura e sul proprio intimo significato. Essa, inoltre, è il centro dei decreti conciliari, perché alla sua luce vanno interpre-tati tutti gli altri decreti del Concilio. Ne viene fuori una definizione nuova della Chiesa, ossia la Chiesa è popolo di Dio.

Con la Gaudium et spes i Vescovi del mondo intesero manifestare l’amorevole solidarietà della Chiesa verso gli uomini e le donne di questo secolo per rispondere agli interrogativi fondamentali che da sempre assillano il cuore umano: “Che cosa è l’uomo? Quale è il signi-ficato del dolore, del male, della morte, che malgrado ogni progresso continuano a sussiste-re?” (GS 10).

Certo in questi cinquant’anni forse si sarà affievolito il fervore e l’entusiasmo che c’era negli anni del Concilio, non solo dentro all’assemblea, ma soprattutto al di fuori.

Ma Mons. Bettazzi ha concluso il suo intervento con un messaggio di grande speranza: se è vero quello che diceva padre Congar, cioè, che per comprendere e attuare a pieno il grande concilio occorrono cinquant’anni, si può senz’altro affermare che questo è l’anno giusto.

Nicola Moro

iSTiTUTO Di SCiENZE rELiGiOSE Mons. Bettazzi all’inaugurazione dell’Anno Accademico

Il Concilio Vaticano II ieri, oggi e domani

Vi scrivo la gioia dell’amore

Come da prassi, sabato 20 ottobre, dopo l’annuncio della nomina del nuovo Arcivescovo, è stata data lettura della “primissima lettera” che il Vescovo elet-

to ha indirizzato ai fedeli della sua nuova diocesi.Di questo scritto vogliamo sottolineare due passaggi e, svol-gere una considerazione.

Dopo aver affermato che: “Fin d’ora a tutti esprimo la mia sincera gratitudine. Questo grazie che precede la mia venu-ta tra voi, presto si riempirà di volti, di sentimenti, di voci, di sguardi”, Mons. Caliandro ha salutato i diversi soggetti della chiesa diocesana a lui affidata.

Con riferimento ai sacerdoti e diaconi ha chiosato: “In modo particolare, saluto i sacerdoti anziani e ammalati: alla loro preghiera affido il mio ministero”. Un’attenzione, questa, significativa se si tiene conto che, qualche volta, si rischia di dimenticarsi di quei presbiteri che, a motivo dell’età, della malattia, o della disabilità, poiché lasciano l’azione pastorale attiva, vengono dimenticati o considerati pastoralmente “inutili”.

Dell’attenzione che il Vescovo deve coltivare verso i sacer-

doti in difficoltà si scrive nel Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi: “Venga amorevolmente in soc-corso di chi può trovarsi in una situazione difficile, dei malati, degli anziani, dei poveri, affinché tutti sentano la gioia della loro vocazione e la gratitudine verso i propri pastori” (n. 81).

E dopo aver salutato altri soggetti ecclesiali, ha rivolto il “saluto a tutti i malati, gli anziani e tutti coloro che nella sofferenza fisica o morale vivono la conformazione a Cristo crocifisso, rendendo ancor più feconda l’azione pastorale”. È da sottolineare come il saluto abbia offerto l’occasione per indicare la preziosità non solo della presenza, ma an-che dell’azione “feconda” che i sofferenti offrono all’azione pastorale.

Anche in questo passaggio del messaggio si può intrave-dere il collegamento con il Diretto rio (già citato) nel quale si afferma che: “l’organizzazione e la promozione di un’ade-guata pastorale per gli operatori sanitari, in vista del mag-gior bene dei malati, merita davvero una priorità nel cuore di un Vescovo” (n. 206).

Questa lettera il Vescovo eletto l’ha rivolta a tutto il popolo di Dio che è nella chiesa diocesana di Brindisi-Ostuni: ciò comporta che di questo atto e del suo contenuto devono

essere informati tutti i fedeli, anche quelli che sono impedi-ti (a causa dell’età,della malattia,del- la disabilità) a parteci-pare alle assemblee liturgico-ecclesiali.

In una società nella quale l’utilizzo dei mezzi multimediali (telefonini, computer) realizza la “rete”, la parrocchia è sol-lecitata a promuovere anch’essa una rete di relazioni e co-municazioni che utilizzando i tanti operatori pastorali (es. ministri straordinari del la santa comunione) ed i volonta-ri faccia giungere a tutti, anche ai parrocchiani obbligati a stare in casa, o ricoverati nella strutture socio-assistenziali e/o sanitarie, la notizia ed il messaggio del Vescovo eletto, in attesa “di incontrare ciascuno di voi e di «poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena» (2Gv 12).

Mons. Bettazzi tiene la prolusione. Accanto a lui, Mons. Talucci e Mons. Valentino La Cattedrale gremita di persone che ascoltano la prolusione di Mons. Bettazzi

Vita Diocesana4 15 dicembre 2012

Grande festa per la nostra Chiesa diocesana nel giorno della vigilia dell’Immacolata Concezione della

Beata Vergine Maria. Venerdì 7 dicembre, infatti, presso la Basilica Cattedrale di Brin-disi sono stati ordinati due nuovi sacerdo-ti - Don Pierluigi Ruggiero e padre Daniele Lanfranchi - per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di Sua Eccel-lenza l’Arcivescovo-Amministratore apo-stolico, mons. Rocco Talucci.

Don Pierluigi Ruggiero è originario della parrocchia Madonna del Pozzo in Ostuni, dove ha ricevuto i sacramenti dell’Inizia-zione Cristiana. Ha iniziato il cammino vo-cazionale da giovanissimo nella comunità dei padri Dehoniani per poi proseguire la sua ricerca vocazionale nel Pontificio Se-minario regionale Pugliese.

Un percorso articolato, ma sempre ca-ratterizzato dalla ferma volontà di com-prendere la volontà di Dio. Pierluigi è stato docile alle indicazioni del suo Vescovo e degli educatori del Seminario, disponibile a varie esperienze che lo hanno segnato e gli hanno fatto coltivare maggiormente il senso della vocazione al presbiterato.

Ha svolto il suo tirocinio pastorale a Fog-gia, prima di rientrare in Diocesi dove ha prestato il suo servizio nella parrocchie Sant’Antonio Abate in Veglie, Chiesa ma-trice in Guagnano e Basilica Cattedrale in Brindisi. È giunto al diaconato e al pre-sbiterato desideroso di servire il popolo di Dio, pronto a qualsiasi impegno, ma anche conscio dei doveri propri del ministero.

Alla presentazione del primo ordinando, ha fatto seguito quella di padre Daniele Lanfranchi.

La vocazione di padre Daniele Lanfran-chi, dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, è sbocciata grazie alla testimonianza di vita cristiana dei genitori. Il giovane Daniele è entrato nel semi-nario diocesano di Milano in Venegono, all’età di 14 anni, il 20 settembre 1987. Al termine del tradizionale percorso seminariale, ha ricevuto l’ordinazione diaconale il 4 ottobre 1998. Dopo un periodo di riflessione vocazionale, durante il quale è stato docente di Religione in alcune Scuole Supe-riori di Milano, è giunto il tempo della svolta. La Madonna lo ha raggiunto con l’afflato del Suo amore materno e il 10 luglio 2004 frà Daniele è entrato nella Chiesa del Carmelo di Monza e vi è ritornato il 16 luglio, festa della Beata Vergi-ne del Carmelo, ricevendo l’imposizione dello Scapolare di Maria che lo ha condotto per mano nella comunità dell’Or-dine dei Carmelitani Scalzi.

È stata la Provincia napoletana dei Carmelitani Teresiani il campo su cui ha approfondito studi ed esperienze pastorali

ispirati alla spiritualità monastica carmelitana, sui grandi modelli di Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, Santa Teresa di Gesù Bambino.

Frà Daniele ha esercitato il ministero diaconale nel San-tuario di Santa Maria Madre della Chiesa di Jaddico, dal 29 ottobre 2010, mentre il 26 novembre 2011, nella ricorrenza del XXV dell’arrivo in città dei Padri Carmelitani, ha emes-so la professione solenne dei voti religiosi.

«Fra Daniele di Gesù – ha scritto mons. Angelo Cataroz-zolo - elevando l’Ostia ed il Calice sentirà le mani protese, unite alle sue, di tutti i fedeli della nostra Diocesi all’incon-tro con Gesù, il dono più prezioso da fare all’intera umanità con la mediazione del ministero sacerdotale».

Dopo la liturgia dell’ordinazione, in una Cattedrale gremi-ta di fedeli, sono seguiti gli impegni degli eletti e le litanie

dei Santi, durante le quali, don Pierluigi e padre Daniele si sono prostrati a terra. Da qui l’imposizione delle mani sul loro capo, prima quelle del Padre Arcivescovo, poi quelle di tutti i sacerdoti presenti. Altro momento commovente, la vestizione dei neo ordinati con gli abiti sacerdotali: la sto-la e la casula. Poi l’unzione con il sacro crisma sul palmo delle mani dei neo sacerdoti inginocchiati innanzi a mons. Talucci.

Il rito è culminato con un applauso e con l’abbraccio di pace del Vescovo con i due novelli sacerdoti.

Antonella Di Coste

il 7 dicembre Il Signore manda nuovi operai alla sua messe

Don Pierluigi e Padre Daniele presbiteri

Don Pierluigi Ruggiero e fra Daniele Lanfranchi

Pubblicazione periodicaReg. Tribunale Brindisi n. 259 del 6/6/1978

Proprietario-EditoreArcidiocesi di Brindisi-Ostuni

Direttore Responsabile: Angelo SconosciutoCoordinatore di Redazione: Giovanni MorelliHanno collaborato: Daniela Negro, Salvatore Licchello

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 16 del 14 dicembre 2012

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Vita Diocesana 515 dicembre 2012

È un romano che svolge in Puglia il suo servizio pasto-rale dividendosi fra la parrocchia Santa Maria della Mercede, a San Vito dei Normanni, e il carcere di

Brindisi, presso il quale è stato recentemente nominato cappellano. Si tratta di padre Pasquale Agostino, un giova-ne sacerdote mercedario.

Padre, a primo impatto, qual è la dignità umana dietro le sbarre?

«È una dignità umana che ha sicuramente bisogno di ri-scatto perché ciò che si sperimenta in carcere è l’essere inermi, non avere alcuna difesa. Prima di essere detenuti, i carcerati hanno tante cose che li “proteggono” e che li rendono “invulnerabili”; nel car-cere sperimentano l’essere davanti a se stessi, davanti alla propria miseria e di questo prendono coscienza. Spesso si pensa che non è così; in realtà è la verità. Un po’ tutti i gior-ni io ho l’opportunità di parlare con i detenuti e vedo che assumono coscienza. Diventano un po’ come dei bambini indifesi: quando sono fuori tendono ad essere autonomi e a bastare a se stessi, senza aver bisogno degli altri; in car-cere, invece, come dei bambini, hanno bisogno degli altri. Nel mio caso hanno bisogno del cappellano cui fanno una richiesta continua di ogni cosa: rosari, immaginette, vestia-rio e necessario per l’igiene».

Quindi quali sono gli aspetti positivi e quelli negativi del servizio pastorale in carcere?

«Penso che ci siano fondamentalmente solo aspetti positi-vi, perché l’apostolato in carcere è sicuramente la realizza-zione di una Parola che ha detto Gesù: “Ero carcerato e mi avete visitato”. È un visitare!Credo che questo sia già molto: trovare una persona che ascolti i detenuti, aldilà dell’organizzazione di corsi di ca-techesi (perché molti non hanno ricevuto la Cresima o la prima Comunione) o corsi di evangelizzazione per chi vuo-le approfondire la propria fede. Credo che questo sia il mio

primo compito; poi ritengo che l’80% del lavoro che il cap-pellano deve svolgere lo debba fare fuori dal carcere, come prevenzione. Quello è il lavoro più grande. In questo sen-so mi sto muovendo anche attraverso il volontariato, pro-prio perché è un lavoro importantissimo. Ne parlavo l’altro giorno con la direttrice del carcere: a volte ci dimentichia-mo che l’aspetto fondamentale di questo servizio è proprio quello di prevenire. È importante soprattutto nel mondo giovanile: il 70% dei detenuti è costituito da ragazzi, quindi va fatto un lavoro forte in questo contesto. Tante volte i gio-vani vivono dei disagi e tante volte si ritrovano a sperimen-tare delle situazioni che diventano drammi per loro e per le loro famiglie. Il cappellano svolge un lavoro con i giovani e con le famiglie. Credo, quindi, ci siano soprattutto aspetti positivi per quanto riguarda il mio servizio».

Quali frutti spirituali un sacerdote può dare ai carcera-ti?

«Il frutto spirituale che si può dare è quello di far prendere loro coscienza del grande dono della fede, un dono che fa vedere alla sua luce il dramma con una speranza. È un frut-to importante che servirà per la vita fuori dal carcere».

Stiamo vivendo l’Anno della Fede: al riguardo, ci sono

delle iniziative in programma?«Per l’Anno della Fede abbiamo voluto iniziare un corso di evangelizzazione per chi ha già ricevuto tutti i sacramenti: è una novità! È un approfondimento della propria fede in maniera animata, con i canti. Lo facciamo con la speranza che il nuovo Vescovo, dopo il suo ingresso, voglia visitare per prima cosa il carcere, questa “parrocchia particolare”. Poiché sembra che il cappellano parli sempre dei detenu-ti, ci tengo a precisare che io sono il cappellano del carce-re: oltre a 220 detenuti, ci sono tanti agenti. Io sono anche loro cappellano e quindi ho lanciato l’idea di fare qualcosa anche per loro, perché, a mio parere, svolgono un lavoro davvero molto difficile. Daremo anche agli agenti la possi-

bilità di approfondire la propria fede; molti agenti con cui mi sono fermato a parlare sentono questa necessità. Infine, vorremmo continuare l’iniziativa avviata dal mio predecessore, padre Giovannino Fabiano: si tratta del “car-cere degli innocenti”, l’aiuto per i figli dei detenuti».

Un’ultima domanda: come viene vissuta l’esperienza di cappellano da un mercedario? E perché il servizio del cappellano delle carceri viene affidato ad un merceda-rio?

«Mi piace questa domanda! Per noi questo servizio è quella “qualità” che ci mettiamo attraverso la spiritualità che vi-viamo come possibilità di aprirci ai fratelli oppressi o che vivono in schiavitù. Fondamentalmente il nostro servizio è un’attenzione particolare a questi fratelli nell’affidamen-to a Maria della Mercede. A noi Mercedari Lei ha ordina-to di avere un’attenzione particolare per gli oppressi ed ha voluto che nascesse quest’ordine: l’ha voluto Lei! Abbiamo voluto dedicare la cappella del carcere alla Madonna della Mercede proprio per questo motivo».

Grazie, Padre!«Grazie a voi!»

Dario Romano

ERO IN CARCERE... A colloquio con P. Pasquale Agostino

«Vi racconto di una dignità umana che ha bisogno di riscatto»

L’ultimo quaderno post-sinodale, consegnato in par-ticolare ai sacerdoti, riguarda la formazione perma-nente dei presbiteri ed ha un’esortazione bella nella

sua titolazione “Ravviva il dono di Dio che è in te”. In queste poche righe cercherò di esprimere l’immediata sensazione che ho avuto dopo una lettura tutta d’un fiato del testo, alcune sottolineature sui contenuti e qualche semplice prospettiva di attuazione.

L’impressione iniziale. Finalmente abbiamo un testo orga-nico sulla formazione permanente dei presbiteri! Mi pongo però anche la domanda: e fino ad ora cosa abbiamo fatto? Mi sembra doveroso ricordare che un cammino di formazione per noi presbiteri non è mai mancato, sicuramente non or-ganico, ma fatto di tanti incontri per giovani e meno giovani (che io ricordo in molti casi con tanto piacere!), approfondi-menti tematici importanti per la nostra vita spirituale e pa-storale, ma anche tanta fraternità e amicizia che difficilmen-te, quando si è inseriti nel pieno del lavoro pastorale, si riesce a coltivare. Dunque, non siamo all’anno zero! Ma grazie al Signore, al lavoro sinodale, alla disponibilità di alcuni che hanno stilato concretamente il “Progetto per la formazione permanente dei presbiteri”, si è arrivati ad una formulazione organica di tale formazione.

La metodologia e i contenuti proposti non escludono nes-sun presbitero, perché ogni età o situazione personale o pa-storale, va vissuta come fatto di Chiesa, in fraternità, potendo contare sull’aiuto del confratello e della comunità intera. An-che i laici, infatti, in particolare nel Sinodo, hanno espresso apprezzamenti per il “lavoro” dei presbiteri e attese in ordine all’esempio nella vita spirituale e pastorale e nella vita frater-na tra gli stessi presbiteri (in una canonica, nello stesso pae-se…).

Il Progetto della Formazione Permanente dei Presbiteri si sviluppa con una introduzione e un’opportuna conclusione, in 6 capitoletti che partono da alcune idee guida, per formu-lare l’obiettivo che si intende perseguire, spiegando il senso della formazione, per giungere alla formulazione di un cam-mino unico che ha uno sguardo particolare su momenti de-licati e privilegiati della vita del presbitero stesso: i presbiteri giovani e quelli anziani.

Nelle idee guida, compreso che “in un mondo che cambia” ci si deve formare, emerge un testo biblico della seconda let-tera di Paolo a Timoteo (2Tm 1, 1-8) dove il versetto 6 dice “…ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te median-

te l’imposizione delle mani”. Ravvivare è temine che sta ad esprimere l’azione del riattizzare il fuoco, perchè sia sempre alimentato e non si spenga mai. In questa espressione trovo il sempre rinnovato entusiasmo dell’essere presbitero, la bel-lezza di poter dire “Dio mi ha fatto questo dono”, la consa-pevolezza che Dio si è fidato proprio di me, creatura senza merito.

L’obiettivo. Essere presbitero significa partire dalla propria umanità, vivere nell’ascolto della Parola, alla scuola dell’Eu-caristia e nella dimensione nuziale con la comunità dei credenti, disponibile a solcare le strade del mondo. È bello sentirsi dire che non siamo né angeli, né diavoli, ma sempli-cemente uomini che con questa umanità dovrebbero servire il Signore, così come è forte il richiamo ultimo sulla necessità di solcare le strade del mondo, perché solo con il respiro am-pio (che diversamente diventa asfittico) della missio ad gen-tes si può raggiungere la meta di una radicalità evangelica.

La formazione viene presentata nel “Progetto per la forma-zione permanente dei presbiteri” innanzitutto come auto-formazione che trova un primo luogo formativo nella stessa liturgia, affinché non diventi celebrazione di routine, ma in-contro quotidiano con il Signore riscoprendo (ravvivando!) il “dono” del Sacramento dell’Ordine. In questa formazione sono sottolineate modalità significative quali il confronto, il racconto autobiografico, il dialogo e la necessità di apprezza-re i luoghi di fraternità esistenti (le canoniche!?) e altri che si possono creare o individuare. Questo è gesto di accoglienza per tutti, a qualsiasi età e in qualsiasi situazione il presbitero stia vivendo.

Il cammino unico ci dà modo di avere in questo Progetto uno sguardo ampio, che riguarda tutti i presbiteri, partendo dal cammino vocazionale dei giovani e dall’accompagna-mento ricevuto in Seminario, minore e maggiore. Il desiderio espresso è quello di non delegare tutto agli animatori della pastorale vocazionale o agli educatori dei seminari, ma di sa-per integrare questa formazione in collaborazione con chi ha una responsabilità più diretta e con l’accoglienza dei giovani .

Infine il “Progetto per la formazione permanente dei pre-sbiteri” prevede un’attenzione specifica ai presbiteri gio-vani ed anziani, affinché l’entusiasmo dell’inizio come la lunga esperienza ministeriale siano considerate risorse e non problema.

Il testo si conclude con una invocazione allo Spirito Santo

di don Tonino Bello. Vi riporto ciò che esprime quanto que-sto progetto ha suggerito al mio cuore: “Spirito del Signore… Confortali (i presbiteri) con la gratitudine della gente e con l’olio della comunione fraterna”.

Auspico, dunque, che l’attuazione di questo progetto ci fac-cia diventare più testimoni che maestri, più fratelli che lavo-ratori solitari nella vigna del Signore.

don Adriano Miglietta

dOCumENtI Il quaderno post-sinodale “Ravviva il dono di Dio che è in te. La formazione dei presbiteri”

Quale presbitero oggi? Non uno slogan, ma un progetto

P. Pasquale Agostino, a sinistra nella foto

Vita Diocesana6 15 dicembre 2012Vita Diocesana6 15 dicembre 2012

Tutto ricomincia dalla Penteco-ste. Quel fuo-

co vivo disceso sugli Apostoli che, ricevuto il dono dello Spirito subito lo trasformano in Parola da annuncia-re per essere donata al mondo, ci ha resi con-sapevoli che dall’ascolto della Parola nasce la passione per Cristo, per l’umanità e quindi il dono della propria vita, dando così origine alla missionarietà della Chiesa. In questo Anno della Fede, la passione è viva e fervente nel Centro Missionario Diocesa-no. Gli incontri di formazione fanno vivere a tutti i partecipanti un clima di entusiasmo e speranza. Si torna a casa pensando già alla ricchezza che ci verrà donata nell’incontro successivo. E nasce l’idea di una sfida. Far diventare il Centro Missionario Diocesano il luogo dove nascono le idee, i progetti, i pro-grammi e le iniziative. Fare in modo che que-sto lavoro possa portare nuovo slancio mis-sionario in tutte le parrocchie della Diocesi, per coinvolgere i gruppi pur nel rispetto dei diversi carismi. Un filo rosso che aiuti a non disperdere le energie, ma riesca a canalizzar-le verso sforzi comuni, per aiutare ciascuno di noi a portare agli altri il dono ricevuto col Battesimo: l’amore di Dio, donatoci in Cristo, che ci sospinge. Noi ci crediamo!

Rosy Pecoraro

Il 24 e il 25 novembre, presso il Centro di Spiritualità “Madonna della Nova” di Ostuni, si è tenuto il secondo incontro di formazione missionaria per l’equipe e i refe-

renti parrocchiali guidato da Padre Rinaldo Ronzani, mis-sionario comboniano.

Il weekend ha visto impegnata l’equipe, sabato 24, sul tema: La prassi Missionaria di Gesù e l’apertura Missionaria della Chiesa locale; mentre al mattino della domenica, in-sieme ai referenti, si è riflettuto a partire dal brano di Atti ri-ferito alla Pentecoste. L’intera mattinata è stata caratterizzata da una interessante riflessione su la Missione dopo il Conci-lio approfondendo l’identità del referente missionario.

Di volta in volta, questi incontri rafforzano la passione per la missione e l’identità dell’essere missionari in virtù del Bat-tesimo.

Padre Rinaldo, con il suo carisma, è riuscito a far penetrare la Parola di Dio nei cuori di tutti, provocando la nostra fede e aiutandoci in un sereno ed edificante confronto con l’altro. Il condividere un cammino ci aiuta nel rinnovare l’entusia-smo e fa emergere la passione per la costruzione del Regno di Dio.

La grande sfida alla quale siamo chiamati, come singoli e come comunità, è proprio quella di far crescere nelle parroc-chie della nostra Diocesi un rinnovato slancio missionario per annunciare a tutti, vicini e lontani, l’Amore di Dio che in Cristo si è fatto carne e speranza viva per ogni uomo. Solo at-tingendo alla forza della Sua Parola e del Suo Santo Spirito possiamo insieme costruire il Suo Regno fatto di giustizia, di amore, di pace, di perdono e di condivisione.

È questo il sogno di Dio, a noi la responsabilità di collabo-rare con gioia e perseveranza. Ci siamo dati appuntamento al 12-13 Gennaio, certi di vivere un altro ricco e significativo momento di grazia.

Marta e Dino Mazzone

formazione� In un momento particolare

Il Centro Missionario nell’Anno della Fede

Mercoledì 12 dicembre, nell’auditorium del Palazzo Arcivescovile si è svolta una serata in memoria del compianto Mons. Elio Antelmi.

L’iniziativa era organizzata dal Serra Club di Brindisi che an-che quest’anno ha inteso presentare una figura sacerdotale della nostra Diocesi. Dopo i saluti del dottor Angelo Pomes, Presidente del Serra Club, la serata è stata introdotta dal Cap-pellano, Mons. Giuseppe Satriano.

«Non è difficile presentare una figura come quella di don Elio – ha esordito Mons. Satriano che a don Elio è succeduto nel ruolo di Vicario generale - poiché il suo percorso umano, cristiano e dunque sacerdotale, sembrano coincidere in una maniera impressionante». Chiunque percepiva immediata-mente «la sua identità semplice e cristallina». Per Mons. Sa-triano, parlare di don Elio «significa fare riferimento al suo essere figlio, amico, fratello, sacerdote, padre amorevole. L’esperienza di chi l’ha incontrato, di chi ha condiviso con lui momenti tristi e belli, di chi ha sperimentato la dolcezza e la forza della sua parola, ha sicuramente assunto uno di questi volti e al tempo stesso ne ha riconosciuto gli aspetti di cia-scuno».

Di don Elio, suo padre spirituale per 19 anni, don Satriano ha ricordato «la disponibilità all’ascolto a qualsiasi ora del giorno e della sera, la capacità di penetrare con lo sguardo le profondità dell’animo spesso in agitazione per la consapevo-lezza delle proprie fragilità. La dolcezza ferma e rassicurante con cui sapeva condurre il colloquio, si condensavano in due occhi sempre pieni di luce spalancati sulla tua vita e in una frase magica che apriva ogni incontro: come stai? Una sem-plice domanda a cui la risposta non poteva essere scontata».

Subito dopo è intervenuto Mons. Angelo Ciccarese, amico d’infanzia di don Elio e soprattutto compagno nel cammino sacerdotale, il quale ha delineato il profilo di “Don Elio An-telmi, sacerdote di Dio e della Chiesa, fratello degli uomini”.

«Don Elio era un buon prete e un prete buono - ha detto in apertura della sua testimonianza Mons. Ciccarese - un credente con una fede semplice, confidente, coraggiosa». Poi don Angelo ha ricordato gli anni del Seminario e della formazione e la grande figura di don Giuseppe Aleo «nostro parroco e maestro».

Mons. Ciccarese ha poi raccontato delle sofferenze di don Elio, sia dal punto di vista fisico che morale, quest’ultima so-prattutto a causa della lontananza da Ostuni del papà, per di motivi di lavoro. Ma la sofferenza don Elio l’ha sempre vissu-ta «con pudore, coraggio e lucidità. Nel suo testamento aveva scritto: “Vado incontro al Signore, con serenità, specialmente dopo i ripetuti problemi al cuore”». Ma la salute malferma non ostacolò mai il suo ministero – ha detto ancora don Cic-carese, il quale ha raccontato che don Elio molto spesso gli confidava il timore «di non farcela o di non essere all’altezza

del compito».Successivamente Mons. Ciccarese ha ripercorso le tappe

principali del ministero di don Elio: fu parroco nel rione an-tico di Ostuni, a Santa Maria della Stella dove, quando arri-vò «non trovò neppure l’essenziale»; fu assistente diocesano dell’Azione cattolica per la diocesi di Ostuni; fu animatore e promotore della nascita del gruppo folk “La Stella” «per con-servare e promuovere l’anima genuina del popolo ostunese»; fu impegnato come Vicario episcopale per la carità e Diretto-re della Caritas diocesana; lavorò per la Visita pastorale ac-canto a Mons. Todisco; fu canonico penitenziere ad Ostuni,; infine Vicario generale di Mons. Talucci.

«Don Elio ha messo in gioco in tutte le sue relazioni e mi-nisteri affidatigli, una umanità ricca e bella» – ha detto con un pizzico di emozione il suo fraterno amico don Ciccarese, il quale ha continuato: «sono stati rari i momenti in cui sem-brava arrabbiato. Quando perdeva le staffe, emergevano gli spigoli della sua umanità, ordinariamente tenuti sotto con-trollo. Quasi sempre il suo viso era illuminato da un sorriso semplice e contagioso. Sapeva offrirlo soprattutto a chi era triste e arrabbiato. Nelle situazioni difficili faceva sempre il tentativo di sdrammatizzare con una battuta o con le imman-cabili barzellette. Questo atteggiamento, apparentemente giocoso, aveva una radice profonda: il bisogno di ascoltare, e in alcuni momenti, di essere ascoltato e accolto».«Questa radice profonda – ha concluso Mons. Ciccarese - fatta di fede e di umanità, che ci aiuta a cogliere il suo profondo amore per i poveri. Anche per coloro, ed erano tanti, per i quali era confessore e guida spirituale, poveri quindi in cerca di un’al-tra misericordia, quella spirituale».

Dopo l’intervento di Mons. Ciccarese, ha portato la sua te-stimonianza Bruno Mitrugno, Direttore emerito della Ca-ritas Diocesana, il quale ha parlato di “Don Elio Antelmi al servizio dell’accoglienza”.

«Ho conosciuto don Elio in Caritas, nel 1985, quando lui fu nominato Direttore da Mons. Todisco e io, insieme con Ma-ria Antonietta Botrugno, eravamo i vice».

«Quelli erano anni di grande vivacità per la Caritas – ha rac-contato ancora Mitrugno -, vi era grande sensibilità all’ac-coglienza, da qualche anno era nata la prima casa di acco-glienza notturna in via Cittadella. Ben presto, però, fummo costretti a lasciare quei locali, vecchi e pericolanti, per tra-sferirci in una sede provvisoria concessa dalla Diocesi, in angusti locali, presso la chiesa di Santa Teresa. Don Elio era entusiasta del servizio che si offriva, i suoi occhi brillavano quando in Caritas si prestava aiuto».

Poi, nel 1990, arrivarono i locali in via Madonna della Sca-la. Ha raccontato Bruno Mitrugno: «Anche questo immobile aveva bisogno di lavori di ristrutturazione e fondi a disposi-zione non c’erano. Don Elio non disperò , raccolse qualche

somma da benefattori amici, firmò cambiali a suo nome e fi-nalmente lo stesso anno si aprì la casa di accoglienza».

Poi Mitrugno ha ricordato il grande lavoro di don Elio nell’accoglienza del popolo albanese, nel 1991,

il gemellaggio con Kanina, un villaggio albanese poveris-simo che domina la baia di Valona. «Don Elio, amante della natura, godeva di quei momenti, anche se di quel paesaggio facevano parte tante famiglie poverissime. Mobilitò Ostuni, scuole, suore, amici, commercianti. Kanina è stata destinata-ria di tanti aiuti: nell’estate del 1992 si svolse il primo campo di lavoro in Albania, la scuola di Kanina fu dotata di bagni e finestre che prima non aveva e si realizzò una potente pompa idraulica che da Valona faceva arrivare l’acqua su a Kanina». È sempre Bruno Mitrugno a ricordare le vacanze organizzate in Italia per i bambini di Kanina, «bambini che don Elio ama-va tantissimo».

Nella sua testimonianza, Bruno Mitrugno ha ricordato il grande amore di don Elio per la Chiesa, per i suoi pastori e per i più poveri, che lui amava chiamare “i crocefissi della storia”. E poi le sue omelie: «i temi delle sue prediche era-no sempre densi di beatitudini, ti entravano dritte al cuore perché la parola di Dio era mediata dalle storie di vita delle persone che lui incontrava e delle quali si faceva carico, spi-ritualmente e materialmente».

«Partecipavamo insieme agli incontri e ai convegni della Caritas Italiana, si parlava di dimensione comunitaria della carità, si cercava di far capire che la carità passa anche attra-verso la giustizia, si discuteva di formazione e testimonianza, si iniziò a lavorare perché in ogni parrocchia nascesse l’espe-rienza della Caritas». Don Elio – ha concluso Bruno Mitru-gno – «instaurava rapporti con le Autorità sempre da uomo libero, umile ma mai servile».

L’incontro, partecipato da un gran numero di persone, si è concluso con l’intervento di Mons. Rocco Talucci Arcive-scovo-Amministratore apostolico, il quale, compiacendosi per l’impegno del Serra Club, ha ricordato la sua conoscenza personale di don Elio, che scelse come suo Vicario generale, esprimendo il grazie al Signore per il dono di un uomo e di un prete che ha dato luce alla nostra Chiesa diocesana.

Giovanni Morelli

mons. e�lio ante�lmi La Diocesi ha ricordato l’uomo e il sacerdote

Testimone sorridente del Risorto

“Uno spaccato della realtà missionaria in Italia, che

consente anche a chi non è diret-tamente implicato nella ‘missio ad gentes’ di capire oggi dove ci tro-viamo”. Questo, in sintesi, il nuovo “vademecum” del Centro missiona-rio diocesano, presentato a Roma. Don Gianni Cesena, direttore di Missio, ha definito il nuovo volu-me - edito dalla Emi e predisposto dall’Ufficio nazionale per la coope-razione missionaria tra le Chiese e dalla Fonda-zione Missio - una sorta di «carta d’identità» dei Centri missionari dio-cesani, uno «strumen-to operativo» pratico e d’immediata fruibilità nato dall’approvazione, da parte della presidenza della Cei, dello Schema di regolamento per i Centri missionari diocesani, 43 anni dopo l’approvazione del loro primo Statuto, nel dicembre 1969. Il «vademecum», ha spiega-to don Alberto Brignoli, uno dei curatori, «è frutto di un lavoro di équipe, di rete, di relazioni, di collegialità, di fraternità, che non intende essere esaustivo e non ha pretese di essere vincolante». Nella “missio ad gentes”, la tesi di Maria

Chiara Pallanti, vicedirettore del Centro missionario diocesano di Firenze, «i tempi sono maturi per un balzo in avanti, un colpo d’ala» capace di passare dalla pastorale delle «lamentazioni» alla capacità di «lavorare in ogni diocesi per un progetto missionario integrato nel progetto pastorale diocesano, per far prendere coscienza che la Chie-sa è tutta missionaria».“Animare, cooperare, formare”.

Queste le tre parole d’ordine del “vademe-cum”, che nella prima parte - dedicata agli ele-menti-base della missio-ne - raccomanda tra l’al-tro ai Centri missionari diocesani di adottare uno “stile” capace di

“lavorare insieme, formare men-talità, progettare l’animazione, ac-compagnare il partire, valorizzare il ritorno”. Tra i temi considerati “strategici”, la priorità dell’annun-cio, l’apertura alla mondialità, la promozione di nuovi stili di vita. Nella seconda parte del “vademe-cum”, dedicata alle scelte operati-ve, ci si sofferma in particolare sul “progetto missionario diocesano” e sulle modalità della formazione.

missio Nuovo vademecum per i Centri diocesani

Animare, cooperare, formare

715 dicembre 2012 Vita Diocesana

Un Motu proprio per “ordinare” il “servizio della carità” della Chiesa. Il documento, che nell’ori-ginale latino ha per titolo “De caritate mini-

stranda”, emanato il 1 dicembre da Benedetto XVI, è en-trato in vigore il 10 dicembre. Annuncio della Parola, celebrazione dei Sacramenti e servizio della carità, ricorda il Papa in apertura, sono “compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro”, così come aveva già scritto nell’enciclica “Deus caritas est”. Espressione dell’essenza della Chiesa. “Il servizio della ca-rità”, sottolinea papa Benedetto nel “Proemio”, “è una dimen-sione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”. “Tutti i fedeli – preci-sa – hanno il diritto e il dovere d’impegnarsi personalmente per vivere il comandamento nuovo che Cristo ci ha lasciato”, “offrendo all’uomo contemporaneo non solo aiuto materia-le, ma anche ristoro e cura dell’anima”. “All’esercizio della diakonia della carità – prosegue il Santo Padre – la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comuni-tà locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale”; per questo serve un’”organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato”, che abbia pure “espressio-ni istituzionali”. Scopo del Motu proprio è, dunque, “fornire un quadro normativo organico che serva meglio ad ordinare, nei loro tratti generali, le diverse forme ecclesiali organizza-te del servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale”. Una speciale attenzione per la persona. “L’attività caritati-va della Chiesa”, mette in guardia il Pontefice, “deve evitare il rischio di dissolversi nella comune organizzazione assisten-ziale, divenendone una semplice variante”. “Pertanto, nell’at-tività caritativa, le tante organizzazioni cattoliche non devo-no limitarsi a una mera raccolta o distribuzione di fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno e svolgere, altresì, una preziosa funzione pedagogica nella comunità cristiana, favorendo l’educazio-ne alla condivisione, al rispetto e all’amore secondo la logica del Vangelo di Cristo”. Un compito al quale già rispondono differenti “iniziative organizzate”, in primo luogo la Caritas,

“che si è giustamente guadagnata l’apprezzamento e la fidu-cia dei fedeli e di tante altre persone in tutto il mondo per la generosa e coerente testimonianza di fede, come pure per la concretezza nel venire incontro alle richieste dei bisognosi”. Alcune norme essenziali. Accanto a questa, “nei vari luo-ghi sono sorte molteplici altre iniziative, scaturite dal libero impegno di fedeli”. Una pluralità di realtà verso le quali “la

Chiesa in quanto istituzione non può dirsi estranea”. “I Pasto-ri – auspica il Papa – le accolgano sempre come manifesta-zione della partecipazione di tutti alla missione della Chiesa, rispettando le caratteristiche e l’autonomia di governo che, secondo la loro natura, competono a ciascuna di esse quali manifestazione della libertà dei battezzati”. Tuttavia, aggiun-ge, “occorre garantire che la loro gestione sia realizzata in ac-cordo con le esigenze dell’insegnamento della Chiesa e con le intenzioni dei fedeli, e che rispettino anche le legittime norme date dall’autorità civile”. Da qui la necessità di emana-re “alcune norme essenziali” per esplicitare “le responsabi-lità giuridiche assunte in materia dai vari soggetti implicati, delineando, in modo particolare, la posizione di autorità e di coordinamento al riguardo che spetta al vescovo diocesano”. Seguire i principi cattolici. Tra le disposizioni, Benedet-to XVI ricorda che le iniziative collettive di carità, “oltre a osservare la legislazione canonica”, “sono tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accet-tare impegni” che ne condizionino l’osservanza. L’appellati-vo “cattolico” può essere usato “solo con il consenso scritto dell’autorità competente”, ovvero “del vescovo diocesano”, al quale spetta il compito di “vigilare” affinché “siano sempre osservate le norme del diritto universale e particolare della Chiesa”, e “coordinare nella propria circoscrizione le diverse opere di servizio di carità”, curando che quanti vi operano “diano esempio di vita cristiana e testimonino una formazio-ne del cuore che documenti una fede all’opera nella carità”. Educare alla condivisione e alla carità. Il Motu proprio invita il vescovo a favorire “la creazione, in ogni parrocchia della sua circoscrizione, d’un servizio di ‘Caritas’ parroc-chiale o analogo, che promuova anche un’azione pedagogi-ca nell’ambito dell’intera comunità per educare allo spirito di condivisione e di autentica carità”. Per evitare che “i fedeli possano essere indotti in errore o malintesi”, vescovo e par-roci “dovranno impedire che attraverso le strutture parroc-chiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, proponessero scelte o metodi contrari all’insegnamento della Chiesa”, come pure “il vescovo diocesano deve evitare che gli organismi di carità che gli sono soggetti siano finanziati da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa”. Da ultimo, al Pontificio Consiglio “Cor Unum” il compito “di promuovere l’applicazione di questa normativa e di vigilare affinché sia applicata a tutti i livelli.

caritas Reso noto il 1 dicembre Motu proprio di Benedetto XVI

Le radici dell’amore cristiano

“Misfatti” come il “traffico e lo sfruttamento di persone, con maggior rischio per donne e bambini” vanno “decisamente condannati e

puniti, mentre una gestione regolata dei flussi migratori, che non si riduca alla chiusura ermetica delle frontiere, all’ina-sprimento delle sanzioni contro gli irregolari e all’adozione di misure che dovrebbero scoraggiare nuovi ingressi, potreb-be almeno limitare per molti migranti i pericoli di cadere vit-time dei citati traffici”. Lo ricorda Benedetto XVI nel messag-gio per la 99a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (13 gennaio 2013) sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.Flussi di ingresso legale. Secondo il Papa sono “quanto mai opportuni interventi organici e multilaterali per lo sviluppo dei Paesi di partenza, contromisure efficaci per debellare il traffico di persone, programmi organici dei flussi di ingresso legale, maggiore disponibilità a considerare i singoli casi che richiedono interventi di protezione umanitaria oltre che di asilo politico”. “Alle adeguate normative – precisa - deve es-sere associata una paziente e costante opera di formazione della mentalità e delle coscienze. In tutto ciò è importante rafforzare e sviluppare i rapporti di intesa e di cooperazione tra realtà ecclesiali e istituzionali”. “La Chiesa e le varie realtà che ad essa si ispirano – scrive - sono chiamate, nei confronti di migranti e rifugiati, ad evitare il rischio del mero assisten-zialismo, per favorire l’autentica integrazione”. “Coloro che emigrano – osserva - portano con sé sentimenti di fiducia e di speranza che animano e confortano la ricerca di migliori opportunità di vita”. Le migrazioni forzate. Tuttavia molti sono costretti a mi-grare a causa di “persecuzioni e violenze” con “il trauma dell’abbandono dei familiari e dei beni che, in qualche mi-sura, assicuravano la sopravvivenza”. Nonostante ciò “coloro che migrano nutrono la fiducia di trovare accoglienza, di ot-tenere un aiuto solidale e di trovarsi a contatto con persone” disposte “a condividere umanità e risorse materiali con chi è bisognoso e svantaggiato”. “Certo – sottolinea Benedetto XVI -, ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene co-mune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana”. Il Papa evidenzia, oltre al diritto ad emigra-re, anche “il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizio-ne di rimanere nella propria terra”. Altrimenti, “invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla spe-

ranza, migrare diventa allora un ‘calvario’ per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vi-cenda migratoria”. Non “cacciare” i migranti. «Nessuno Stato al mondo ha il diritto di cacciare i migranti, né es-sere così naïf da far venire tutti. Lo Stato deve difendere l’identità culturale e il benessere dei propri cittadini, ma questo non significa cacciare i migranti»: lo ha ribadito il card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Un mes-saggio, ha spiegato il card. Vegliò, che «mette in luce la realtà delle migrazioni economiche e di quelle forzate»: 214 milioni di migranti interna-zionali più 740 milioni di sfollati interni, ossia «circa un miliardo di esseri umani, un settimo della popolazione globale che sperimenta oggi la sorte migratoria». «Non è solo questione di accettazione della presenza straniera da parte della società di accoglienza - ha osservato - ma è soprattutto un processo (spesso lungo e delica-to), che richiede anche mutua comprensione». Citando un rapporto del Pew research centre, il card. Vegliò ha elencato i Paesi che hanno accolto il maggior numero di migranti negli ultimi anni: Stati Uniti (43 milioni, di cui 32 milioni cristiani), Federazione Russa, Germania, Arabia Saudita, Canada, Francia, Regno Unito, Spagna, India, Ucraina.Ue, “sempre più difficile chiedere asilo”. Nell’Unione europea «diventa sempre più diffi-cile poter chiedere asilo, specialmente da quan-do in alcuni Paesi sono state introdotte misure restrittive per ostacolare l’accesso al territorio: requisiti per i visti, sanzioni applicabili ai vetto-ri, la lista di safe countries of origin»: lo ha detto mons. Joseph Kalathiparambil, segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. «Que-ste limitazioni - ha precisato - hanno incentivato le attività dei contrabbandieri, dei trafficanti, e pericolose traversate in mare che hanno visto sparire tra le onde già troppe vite uma-ne». Le persone fanno infatti «ricorso ai contrabbandieri di persone per raggiungere la loro meta»: «Il loro destino può

tuttavia peggiorare quando a destinazione i contrabbandie-ri diventano trafficanti di persone e sfruttano le loro vittime in diversi modi, come ad esempio nel lavoro forzato e nello sfruttamento sessuale». Migrazioni forzate che riguardano, in questo periodo, popolazioni in fuga da «Siria, Mali, Re-pubblica democratica del Congo, dove l’80% delle vittime sono i civili».

migrazioni Il messaggio di Benedetto XVI per la 99ª Giornata del migrante

Impegno di tutti per un’autentica integrazione

Speciale Caritas8 15 dicembre 2012

Il Convegno si è aperto con la preghiera guidata da Mons. Mario Paciello, vescovo delega-to regionale per la Pastorale della Salute e della Carità.

È seguita la relazione “la fede senza le opere è morta. Una lettura a partire dalla Gau-dium et Spes”, tenuta da Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino. Il relato-re ha esordito affermando come questo tempo, attraversato da una crisi profonda, da nuove povertà, da un vuoto da riempire, da bipolarismo e dicotomia tra fede e opere, sia il tempo del fare. La fede –è stato detto ancora -lungi dall’essere semplice “credenza”, è un agente di-namico che fa muovere e fa andare verso un “oltre” che provoca cambiamento e l’agire non è quello ristretto di Marta, presa dai molti servizi. C’è unità, quindi, tra fede e opere, perché la prima opera mediante la carità, quella carità che rende la fede opus, cioè attività finalizzata a conseguire un cambiamento. Ciò che non genera cambiamento, infatti, non è opera, esau-risce in sé la potenzialità che viene dalla fede. E il segreto di tutto ciò sta nella convinzione che Cristo ama in noi, mentre la finalità vera consiste nel portare la persona a Gesù, come i quattro che nel Vangelo scoperchiarono il tetto per mettere ai piedi di Gesù il paralitico.

La carità è caratteristica di Dio e ci è in parte donata mediante lo Spirito Santo. Dio ama at-traverso di noi: ecco la testimonianza. Quindi, accogliere Dio in noi (la fede) porta ad amare come Dio. E non si tratta di fare grandi cose, perché la fede va custodita in piccoli vasi, come per le cinque vergini sagge del Vangelo. La carità, poi, si fa solidarietà: il compromettersi con la debolezza altrui, in tutto ciò che si è e si ha, alla maniera di Cristo, che si è fatto in tutto come noi, escluso il peccato. Ancora: la carità si fa anche giustizia: dare del necessario, non del superfluo, da non confondere con la “restituzione”, che viene prima, perché ciò che si ha non è nostro e, se non lo condividiamo, rimaniamo nella condizione di ladri.

Ma il cuore della carità che genera cambiamento sta nella relazione, una relazione che si fa ascolto, è paritaria, promuovente, fa emergere la dignità della persona, produce responsa-bilità nella comunità, scommette sull’alleanza con tutti i soggetti operanti, ecclesiali e non, e promuove a tutti i livelli una visione teologica centrata sull’agape, che è il vero volto di Dio. Il tutto condito con una forte dose di coraggio, alla maniera di Mosé, che ha scommesso sui profeti Eldad e Medad, che profetizzavano senza autorizzazione: fossero tutti profeti nel popolo del Signore.

Dopo questa nutrita relazione pomeridiana ed il relativo confronto in assemblea, abbiamo chiuso la giornata assistendo al Musical “Un fremito d’ali. La vita di P. Pio vista dagli angeli”, che ci ha fatto rivivere la vita di Padre Pio in una sublime atmosfera spirituale.

Il giorno seguente è iniziato con la celebrazione eucaristica presso la tomba di san Pio, pre-sieduta da Mons. Michele Castoro. Sono seguite due relazioni: una su “La vulnerabilità: l’altro nome della crisi”, a cura del prof. Francesco Chiarello, e l’altra su “Il censimento delle opere socio-assistenziali nelle chiese di Puglia”, a cura del dott. Walter Nanni, di Caritas Italiana.

Con la prima relazione è stata fatta una lettura sullo stato delle diseguaglianze nei vari set-tori della vita: i poveri sono sempre più poveri e più numerosi; i ricchi, sono sempre più ric-chi e meno numerosi. Il welfare, come garanzia di compensazione delle diseguaglianze, è sempre più problematico, a causa dell’incremento della vita media (nel 2025 aumenteranno gli anziani e gli ultraottantenni) e della sua rigidità rispetto alla variabilità della realtà e alla diversificazione sociale. Sono state individuate 5 aree problematiche su cui agire: povertà,

transitoria e ricorrente (es.: mutui e cumulo rischi); diffusione deprivazione abitativa (so-vraffollamento per figli che restano a casa); aumento lavori atipici e precari; riconciliazione tra lavoro e cura dell’infanzia; aumento di persone bisognose di assistenza. Da ciò deriva una maggiore vulnerabilità sociale che a sua volta produce incertezza sistematica, maggior diva-rio tra nord e sud Europa e tra nord e sud Italia. E qui la considerazione conclusiva: nel netto dualismo tra nord e sud, alla maggiore vulnerabilità non corrisponde un maggior welfare.

Con la seconda relazione, è stata fatta una lettura sulla situazione dei servizi ecclesiali in Italia ed in Puglia: una sinossi dell’anagrafe povertà-risorse, conclusasi con la domanda: i servizi sono opere, o meglio, opere-segno?

La mattinata si è chiusa con la presentazione del progetto regionale “Le povertà e le Risorse nelle Chiese di Puglia”, a cura del dott. Natale Pepe, che ha evidenziato la necessità di un osservatorio regionale delle povertà, strutturato in rete, con livelli di partecipazione normali e rafforzati. Infine, ha sottolineato la necessità che le Caritas parrocchiali, senza perdere la loro specificità, diventino Caritas territoriali, in una integrazione collaborativa tra di loro. È seguito un ampio dibattito assembleare su tutti gli argomenti trattati.

Nel pomeriggio c’è stata una condivisione sulle buone prassi della Caritas pugliese, sui temi: opere e servizi di contrasto alla crisi, carcere, immigrazione. In particolare, si è parlato di “prestito della speranza”, progetti di finanziamento per famiglie e piccole realtà imprendi-toriali; corsi vari realizzati al fine di recuperare mestieri in disuso; carcere (sportelli di consu-lenza, mediazione culturale, una rete per l’inserimento sociale degli ex detenuti).

È seguito un ampio confronto assembleare e la conclusione dei lavori.

Tonino Bova

caritas di puglia Il 23 e 24 novembre a S. Giovanni Rotondo il Convegno regionale

La fede senza le opere è morta

Un anno fa, il 25 no-vembre 2011, gli animatori Caritas

di tutta Italia incontravano il Papa, a 50 anni dalla isti-tuzione di Caritas Italiana. In quella occasione Bene-detto XVI così li accoglie-va: “Sentinelle di Vangelo”, siete venuti presso la tom-ba di Pietro per conferma-re la vostra fede e renderla operosa nella Carità. A voi è affidato un importan-te compito educativo nei confronti della Comunità, della famiglia, della socie-tà civile in cui la Chiesa è chiamata ad essere “luce”. Si tratta di assumere la responsabilità di educare alla Vita buona del Van-gelo, attraverso la testimonianza della carità”.

L’incontro di S. Michele Salentino, del 15 novem-bre u.s., ha cavalcato quelle orme; a molti è appar-so una prosecuzione dell’incontro vissuto a Roma ed ha visto gli animatori Caritas della diocesi uniti da un forte desiderio di stare insieme, per matu-rare valide esperienze nella testimonianza di una Carità più autentica.

Profondo il silenzio nell’ascolto della Parola letta, pregata e contemplata; massima l’attenzione du-rante la riflessione di Mons. Angelo Ciccarese, che ha subito catturato l’interesse dei presenti nella trattazione del tema: “L’Iniziazione Cristiana per la Vita Nuova dei Credenti e della Chiesa”. Il re-latore ha esordito sollecitando i partecipanti a non cadere nell’equivoco di considerare l’Iniziazione Cristiana compito esclusivo dei catechisti. Essa è opera di tutta la Chiesa che comunica, genera e fa crescere nella fede.

Don Angelo ha insistito su queste tre funzioni ed ha affermato che nell’«im-parare a diventare Cristia-ni» la Chiesa deve essere presente al modo di Gesù che annuncia, chiama e si prende cura.

Parola Annunciata, Cele-brata, Testimoniata, sono un tutt’uno, tra loro vi deve essere una interconnes-sione inscindibile e, se si assume l’I.C. come para-digma della Vita, non si può prescindere da questo intimo nesso.

A conferma di ciò Mons. Ciccarese, ha evidenziato quanto il Papa - nel-la “Porta Fidei” - solleciti i cristiani a riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, pregata e vissuta nella testimonianza della Carità. Testimo-nianza che diventa attenzione e scoperta dell’Altro che vive in povertà, solitudine, malattia, emargina-zione.

Il cristiano autentico deve essere sentinella pre-murosa del suo quartiere, senza voglia di apparire o di mettersi al centro delle situazioni; deve inter-venire ad asciugare le lacrime e a fasciare le ferite, usando quella fantasia dell’Amore di Dio che è Ca-rità nella sua pienezza e nel suo splendore.

Don Ciccarese, infine, ha concluso la sua relazio-ne, augurando che le nostre comunità diventino luogo di accoglienza e di comunione per operare in sinergia di forze. Grata è la Caritas diocesana a don Angelo per aver saputo trasmettere lo spirito autentico del Vangelo, come testimonianza di fede certa, conoscenza profonda e carità operante.

Piera Leuzzi

caritas diocesana Incontro a San Michele Salentino

Sentinelle di Vangelo

Dopo un lavorio estivo di organizzazione, ricerca e accostamento delle persone extracomunitarie e della comunità europea presenti in Le-verano, finalmente domenica 28 di ottobre nel salone parrocchiale

della Chiesa Matrice abbiamo vissuto una giornata di incontro e di condivi-sione con i nostri fratelli venuti da fuori che hanno scelto di stabilirsi nella comunità leveranese.Gli operatori Caritas delle tre parrocchie, insieme ai sacerdoti, hanno mobi-litato le rispettive comunità, che hanno risposto con generosità all'iniziativa, preparando il pranzo da condividere insieme. I nostri fratelli stranieri sono giunti timidamente a gruppi di due o tre, uo-mini, donne e qualche famiglia, alcuni con dei meravigliosi costumi del pro-prio paese. Seduti in mezzo a loro, con tutta la difficoltà della lingua, abbia-mo cercato di ascoltarci e raccontarci le nostre storie per un incontro di vite e di culture chiamate a vivere lo stesso territorio. Dopo una comprensibile "impasse" iniziale, i ragazzi presenti si sono sciolti, hanno suonato e cantato insieme ai nostri giovani, ci hanno raccontato le loro storie. In particolare, ci hanno stupito per il loro buon livello di istruzione, contrariamente a quanto si pensi, e il loro grande bagaglio di valori umani .Questa prima giornata ha di fatto aperto un itinerario di conoscenza e di sen-sibilizzazione delle autorità e della comunità cittadina verso questi nostri fra-telli che, giunti da lontano nella povertà dei mezzi, hanno il diritto di trovare un popolo felice di accoglierli e pronto nel rispondere ai loro bisogni perché possano conservare la dignità che spetta ad ogni uomo.

Mimina Marciante

esperienze Dalle parrocchie di Leverano

Un’intera giornata all’insegna della fraternità

La nostra delegazione diocesana al Convegno regionale © D. Corsa

Pranzo conviviale con gli ospiti stranieri

915 dicembre 2012 Speciale Caritas

L’UCIIM (associazione professionale cattolica di docenti, dirigenti e forma-tori) di Brindisi, Ostuni e Fasano, con

il convegno tenuto il 23 novembre u.s. pres-so l’auditorium dell’Istituto Tecnico Agrario “Pantanelli” di Ostuni ha celebrato i 50 anni dell’istituzione della Scuola Media Unica.

Considerate le trasformazioni che la Scuo-la Media ha subito in modo generalizza-to sull’intero territorio nazionale, a partire dall’anno scolastico in corso, l’iniziativa è stata voluta e organizzata insieme all’AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici) dato che, con la nascita degli Istituti Comprensivi e la verticalizzazione del percorso educativo, i docenti ed i maestri sono presenti nei medesimi Istituti.

I relatori del Convegno hanno cercato di rispondere all’in-terrogativo se questa ennesima riforma scolastica sia stata determinata da pura esigenza di risparmio economico oppu-re sia anche una vera sfida educativa per Dirigenti scolastici, Docenti della cessata Scuola Media e Maestri delle esautora-te Scuole Primaria e dell’Infanzia.

Il tema è stato trattato dal prof Giovanni Villarossa, e dal prof. Giuseppe Desideri, rispettivamente presidenti naziona-li dell’UCIIM e dell’AIMC; sono intervenuti anche mons Roc-co Talucci, Arcivescovo Amministratore Apostolico, il prof. Francesco Capobianco, Dirigente dell’Ufficio Scolastico Pro-vinciale, il prof. Luigi Viscanti, Presidente Regionale UCIIM e il prof. Paolo Centomani Presidente Regionale AIMC.

Il prof. Villarossa ha ripercorso la storia della Scuola Me-dia italiana, evidenziando come l’introduzione della Scuola Media Unica, di cui alla legge numero 1859 del 31 dicembre 1962, abbia segnato una tappa fondamentale nello sviluppo

del sistema scolastico italiano e, soprattutto, sia stata una conquista culturale e sociale in attuazione delle molteplici enunciazioni legislative miranti alla realizzazione dell’istru-zione e dell’educazione quale diritto fondamentale di tutti i cittadini indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali di ciascuno.

A distanza di 50 anni da quella legge, in un momento di gra-vi difficoltà non solo economiche del nostro Paese, la Scuola Media, quale segmento scolastico caratterizzato da una sua specifica identità, è stata soppressa per dare posto alla nuova realtà istituzionale, comprensiva della scuole dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo gra-do.

Nell’ottica che il riordino possa essere una nuova oppor-tunità educative per la Scuola italiana, il prof Giuseppe De-sideri ha evidenziato che certamente sussistono maggiori difficoltà da superare, a causa degli accorpamenti formati mediante provvedimenti amministrativi asettici rispetto alle

realtà locali, essendo invece evidente che in quelle nelle zone dell’Italia in cui gli Istitu-ti comprensivi sono sorti spontaneamente, l’accorpamento è stato vissuto con spirito di-verso producendo migliori risultati.

Gli Istituti Comprensivi sono certamen-te una opportunità educativa, ha ribadito il prof. Desideri, a condizione che ci si ponga dalla parte dell’alunno piuttosto che dalla parte dei Dirigenti, dei Docenti e dei Maestri che indubbiamente perdono qualcosa; che si abbia il coraggio di “meticciare” le diver-se culture degli operatori, di riorganizzare gli spazi eliminando le separazioni dovute alla dislocazione degli alunni in diversi sedi,

come oggi è nello stato delle cose; che gli operatori scolastici riescano a programmare insieme un curricolo verticale in at-tuazione di un progetto condiviso dagli insegnanti dei diversi segmenti che compongono un comprensivo.

L’arcivescovo, mons. Rocco Talucci, nel suo saluto ha con-fermato piena fiducia alle due associazioni professionali cat-toliche: queste sono espressione di una garanzia educativa in linea con le indicazioni dei Vescovi negli Orientamenti per il nuovo decennio, in cui vi è l’invito ad educare alla vita buona cioè, per gli insegnanti, a rendere bello e buono ogni alunno che viene loro affidato.

Anche il prof. Francesco Capobianco, provveditore agli stu-di, ha messo in evidenza come l’operazione accorpamento offra delle opportunità educative e i risparmi che si otter-ranno debbano essere destinati a rendere più funzionale la Scuola.

Teresa Lococciolo

convegno Il 23 novembre ad Ostuni interessante incontro organizzato dagli insegnanti cattolici

Dalla Scuola Media unica agli Istituti comprensivi

Da secoli filosofi e studiosi tentano di dare una spiegazione raziona-le al concetto di fede. Lo facciamo

spesso anche noi.Don Sebastiano Pinto, Docente di Sacra

Scrittura presso la Facoltà Teologica Pu-gliese, attraverso gli incontri biblici inizia-ti venerdì 23 novembre nella nostra Par-rocchia, ci sta guidando alla conoscenza dei grandi personaggi che hanno vissuto, “contro ogni speranza” la Fede in quel Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra.

Il Papa ha indetto l’Anno della Fede con l’intento esplicito di richiamare la centrali-tà e la bellezza della fede cristiana in pro-spettiva missionaria, nel desiderio cioè di proporla a tutti come sorgente di vita piena e vera.

Prima di tutto dobbiamo prendere in mano la Bibbia, e imparare a maneggiarla con familiarità e a meditarla: è Dio che ci parla!

Il primo incontro biblico si è incentrato intorno alla figura di Abramo: alla chiamata di Dio si è messo in cammino verso un futuro oscuro fidandosi solo della sua parola. Il vero volto di Dio si scopre camminando.

La fede, infatti, non è un kit bello e pronto, ma è intimamente legata alla vita e in essa si trasforma. Il cammino-viaggio è la metafora della fede che segue le stagioni. È una conti-nua ricerca personale che non finisce mai in un continuo ascolto della Sua Parola. È es-senziale, però, capire il genere del racconto, per non far dire al testo quello che vogliamo (lettura fondamentalista). Il genere (in questo caso popolare) racconta il cuore, dice la verità, non in senso scientifico ma teologico. Come diceva Galileo la Bibbia ci dice come si va in cielo e non come va il cielo (gli astri).

Le Scritture non sbagliano sulla verità salvifica. Per il resto si adegua alle conoscenze umane di ogni specifico periodo storico.

La Bibbia è Parola di Dio ma gli autori dei testi hanno i loro limiti e sono figli della loro cultura, perciò va letta con intelligenza e con l’aiuto di esperti. Per questo la necessità di corsi specifici che ci aiutino ad accostarci ad essa con umiltà, illuminati dallo Spirito Santo che dobbiamo sempre invocare.

La Fede è fiducia. Abramo è un esempio lampante: la sua storia è un invito a guardare oltre “ogni speranza”, oltre ogni umana aspettativa, sapendo scorgere nei fatti concreti della propria vita, i piccoli segni di un promettente futuro.

Abramo si è fidato . La fede è un cammino continuo, senza sosta e sempre pieno di no-vità. Chissà quanti pensieri avrà avuto, indecisioni, paure, ma alla fine ha scelto di segui-re la voce di Dio affidandosi a Lui.

Al primo incontro con don Sebastiano Pinto eravamo in tanti, a dimostrazione di quan-to in realtà la gente abbia sete di Dio, nonostante gli affanni quotidiani. Questi incontri sono una ricchezza, un’occasione per conoscere e amare Dio attraverso i pensieri e le azioni di protagonisti come Abramo, Mosè, Samuele, Elia, Tobia, Giobbe e Nicodemo. Loro si sono fidati di Dio, il quale ha fiducia e ce lo dimostra continuamente.

Lucia Semeraro

Chi è costantemente impegnato nel mondo del volontariato avrà senti-to parlare certamente di “progetta-

zione sociale”.Se ci si sofferma a riflettere su questa

semplice, ma quanto mai attuale espres-sione, ci si scopre a dover valutare diverse sfumature di significato; tutte sottilmente distinte tra loro.

“Progettare nel sociale”, infatti, può voler dire lavorare insieme per raggiungere una soluzione ad un problema o ad un bisogno comune.

Da un altro punto di vista la “progettazio-ne” può apparire molto simile al risolvere un algoritmo per cui è necessario svolgere, in maniera sequenziale e senza un minimo errore, una serie di calcoli che conducono dritti verso l’obiettivo.

Infine, nella frase “progettiamo il sociale” vi si può racchiudere tutto questo, unito ad uno sforzo di immaginazione e, perché no, ad un pizzico di creatività, oltre che di vo-lontà.

E Retinopera di sforzi come questo ne ha già fatti molti in passato. Percorrendo qual-che passo indietro,infatti, posso facilmente ritrovarmi al ricordo del mio ingresso nel gruppo giovani di Retinopera. Mi colpì su-bito l’impressionante fermento culturale, oltre al paziente ed instancabile lavoro di promozione sociale che ancora oggi con-traddistingue questa associazione. Alcuni mesi dopo, per meglio plasmare quell’im-pegno, decidemmo, come gruppo, di re-galarci una possibilità concreta intrapren-dendo, per la prima volta, la strada della progettazione sociale e partecipando ad un bando di concorso per Organizzazioni di volontariato.

Il tentativo fallì, credo, principalmen-te, per due motivi: la mancanza di spirito di coesione che, invece, dovrebbe carat-terizzare questo tipo di esperienza e, in secondo luogo, il fatto che sia i tempi, sia noi ragazzi, forse non eravamo abbastanza maturi.

L’immediata conseguenza fu quella di dar vita ad un iter formativo del tutto unico a San Pancrazio: un “Laboratorio di proget-tazione sociale” promosso da Retinopera Salento con il patrocinio del CSV Poiesis di Brindisi. Si è trattato di un percorso con-diviso, con estremo entusiasmo, da tutti i rappresentati delle numerosissime Orga-nizzazioni di volontariato e Associazioni di promozione sociale presenti nel territorio circostante e che ha rispecchiato le aspet-tative che, la gran parte di noi, partecipan-dovi, si era prefissata.

Infatti, oltre all’aspetto formativo, dettato dall’incontro e dal confronto di tante ge-nerazioni, menti ed idee, il laboratorio ha permesso di conseguire tutti gli strumenti , tecnici e non, necessari ad intraprendere un lavoro associativo di progettazione.

Tutto ciò è stato possibile grazie alla di-sponibilità di svariati professionisti del settore che, gratuitamente e senza riserve, hanno trasmesso non solo le loro cono-scenze, ma anche quella dose fondamen-tale di sensibilità a suggerire che la pro-gettazione costituisce, oggi, uno dei pochi punti di incontro tra bisogni comunitari e risorse sociali.

Essa costituisce, inoltre, l’importante oc-casione per Organizzazioni di volontaria-to e Associazioni di promozione sociale, per far sì che la loro azione non si espleti solo in promozione sociale, teoricamente parlando, ma sia adeguatamente ripagata e concretizzata per la genialità di una loro idea progettuale.

Oggi, alla luce di quanto quella splendida esperienza di laboratorio mi ha trasmes-so, ritengo assolutamente giusto che tutte le associazioni come Retinopera, dotate, cioè, di capitale umano e con una storia segnata da anni di impagabile impegno nel volontariato, possano avere la possibilità di costruire qualcosa, di cambiare o, più sem-plicemente, di crescere.

Fabiola Astore

s.maria della mercede Una serie di incontri

La Fede attraverso la ParolaesPerienZe Con Retinopera Salento

Progettare nel sociale

Parrocchie & Associazioni10 15 dicembre 2012

Natale 2012Lettera ai fedeli della Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni

Mons. Rocco TalucciArcivescovo-Amministratore apostolico

Figli carissimi,così vi ho chiamati nella prima lettera venendo a voi nell’Anno Santo del Grande Giu-

bileo. Così, e con maggiore consapevolezza, vi chiamo oggi, nell’Anno Santo della Fede,

dopo l’esperienza diretta della mia paternità, nella quale ha avuto senso il mio ministero,

pur nella debolezza della mia persona e nella complessità di tante situazioni.

Sono passato in mezzo a voi amandovi nel servizio e servendovi con amore, perché

veramente ogni mio passaggio, presenza,visita, fosse il passaggio, la presenza, la visita del

Buon Pastore, del Signore nostro Gesù Cristo.

Secondo quanto vi avevo invitato a fare, mi avete chiamato Padre, Padre Arcivescovo e

vi siete riconosciuti figli. Siete figli di Dio, il Padre di tutti e che tutti ama, anche quelli che

non lo conoscono, ma sono chiamati ad incontrarlo e, in Lui, a scoprire la gioia della vita,

perché è solo lui a dare senso all’esistenza umana.

La paternità continua con il nuovo Arcivescovo e voi non sarete mai soli. Mai manche-

rà la voce di chi annunzia il Vangelo, la mano che vi dona l’Eucaristia, la presenza che vi

indicherà la strada dell’amore.

Il Vescovo è il primo tra voi, perciò è vostro servo, come Gesù, il Signore, venuto a servi-

re l’umanità, fino a donare la vita per essa.

Accogliete il nuovo Arcivescovo, perché viene nel nome di Gesù.

«In Cristo per un cammino di comunione e di missione» è il percorso ecclesiale che il

nostro Sinodo ha indicato alla nostra diocesi. Rimanete in Cristo: in Lui siete figli di Dio.

Volgete a Lui il vostro sguardo, è Lui il Salvatore. Da quello sguardo dipende la vostra vita

buona, una vita riconosciuta come dono, una vita redenta per il bene, una vita fragile fon-

data sulla Grazia di Dio, una vita nel cammino della storia, una vita vissuta come comu-

nione nella compagnia di Dio, da ascoltare, adorare, pregare, seguire, raggiungere. Una

vita protesa verso il prossimo a cui offrire un servizio nella carità e nella giustizia delle

opere, nell’esercizio onesto delle professioni, nel rispetto dei diritti e della dignità dell’uomo,

nell’adesione ai doveri che esprimono la volontà di Dio, nella fedeltà impastata d’amore

delle famiglie, nell’impegno di una esistenza terrena protesa verso il raggiungimento della

vita eterna, accolta come dono che supera ogni nostra aspettativa e ogni nostro impegno

per perseguirla.

Passa la scena di questo mondo, ma non la vita umana che, pur bisognosa di purifica-

zione, è orientata al Creatore. Da lui l’uomo riceve la vita stessa e ogni bene.

Siamo nati per Dio: in Lui la speranza dà contenuto e fine alla nostra esistenza. Una

vita senza Dio, anche se comoda, a volte, è sempre vuota. Con Dio anche una vita povera

è sempre ricca e cammina verso il possesso di quella ricchezza che nessuno può toglierci. Il

bene che facciamo è la premessa del bene duraturo e definitivo che ci verrà donato.

«Sulla tua parola getterò le reti». Con questo programma del mio motto episcopale ho

iniziato il mio ministero tra voi. E solo con questa speranza, che è una certezza, ho visitato

le vostre città e le vostre case, nella Visita Pastorale, per annunciare la giustizia e la santità

a tutti e per donare la carezza di Dio agli ammalati. Di voi ho parlato al Santo Padre nel-

la visita “ad Limina”, cioè alla sede di Pietro, per chiedere di confermare la nostra fede. Il

Papa ha conosciuto ulteriormente la nostra Comunità diocesana e il suo territorio, la sua

storia, le sue attese, speranze e angosce.

E poi è venuto da noi. La sua visita è stata veramente la visita del Signore Gesù che ha

incoraggiato i giovani invitandoli a scelte nobili e generose, gli amministratori per uno

sviluppo nella legalità, i cittadini a saper camminare nella fede e nella giustizia. Ha cele-

brato davanti al mondo intero, offrendo a tutti noi un respiro di universalità, un invito a

operare per la pace nel Mediterraneo, un afflato di unità con l’Oriente, una speranza verso

il porto sicuro della salvezza. Il Papa ha visitato la nostra Cattedrale, ormai ristrutturata,

per benedire i lavori del Sinodo e stringere la mano ai Sacerdoti, instancabili pastori tra le

case degli uomini.

È sorto in questi anni, vero dono della Provvidenza, il nuovo Seminario nel cuore della

città per essere il cuore della Diocesi. Amate il nostro Seminario. È il luogo dove si coltiva

il seme di una vocazione, segno di una chiamata, certezza dell’amore di Dio, perché la

presenza di nuovi Sacerdoti è garanzia di guide spirituali, segno della giovinezza di Cristo

che cammina per le nostre strade, certezza che Dio non abbandona mai l’uomo.

Sono tredici anni di mia presenza in mezzo a voi.

Vi ho conosciuti, mi siete diventati cari, vi ho incontrati nelle chiese e nelle piazze, nelle

scuole e nelle fabbriche, nelle case e negli ospedali. Vi ho sempre parlato per farvi giungere

la Parola di Dio, la Parola che conforta e illumina, corregge e incoraggia, sostiene e tra-

sforma la vita, libera da ogni solitudine e accompagna fino all’oltre dei nostri giorni, verso

la pace vera che tutti auspichiamo e che solo Gesù può donare.

Ai vostri fanciulli, nella luce della fede, ho dato la carezza dell’amore, ai giovani lo

sguardo della fiducia, agli adulti ho teso la mano dell’appartenenza. E quando vi siete

chinati al bacio del sacro Anello, voi vi siete riconosciuti figli davanti al padre ed io padre

davanti ai figli. Siamo difatti una sola cosa nel Signore Gesù.

Non è stata vana la nostra esperienza di Chiesa.

Se qualcuno non ha sempre condiviso il cammino con me, questo ha evidenziato la

mia debolezza e il mio limite. Quanti hanno condiviso la gioia dell’essere discepoli hanno

saputo accogliere la presenza del Maestro. Solo Gesù è il Salvatore: è Lui che parla, convin-

ce, allieta, sostiene, promette. Noi Sacerdoti ed io Vescovo siamo solo “servi inutili”, servi

che dicono la vicinanza del Buon Pastore. Chi incrocia il suo sguardo è salvo.

Dal 5 gennaio 2013 sarà vostro Arcivescovo S. E. Mons. Domenico Caliandro. Io sarò

chiamato “Vescovo emerito”, perché lascio il governo della Chiesa brindisina, ma resto ap-

partenente per sempre a questa Diocesi. Resto uno di voi, di questa nostra Chiesa, nella

preghiera, nell’affetto, nella comunione di fede. Una volta che Dio ci affida e ci consegna

l’uno all’altro, ci apparteniamo sempre. Un segmento di storia si salda inscindibilmen-

te con tutta la storia, storia umana ed ecclesiale che appartiene a Dio, è da lui abitata e

quotidianamente la sospinge verso il conseguimento del traguardo che è Dio stesso, nostra

gioia, nostro tutto, nostro unico bene, nostro tesoro verso cui orientare l’anelito del cuore,

fatto per l’infinito.

Saluto voi tutti Sacerdoti. È stato costante il mio amore per voi, ed è stato vero anche

quando non sono riuscito a dimostrarlo. Con voi saluto tutte le persone consacrate, in par-

ticolare le Suore, vero dono profetico per la nostra Chiesa.

Saluto voi Famiglie. Siete il luogo della vita e della educazione, siete il luogo dell’amo-

re fedele, quello che costa perché vero, quello che garantisce la speranza e la gioia. Saluto

le persone separate: coltivate anche voi il vostro cammino di fede e di santità. Le difficoltà

non annullano l’amore di Dio.

Saluto voi Giovani. È grande il mio affetto per voi, per il fatto stesso che siete giovani.

Più volte ci siamo incontrati, con gioia, nelle nostre città, a Roma, ad Assisi, alla GMG.

Con i più forse non ci siamo mai incontrati, eppure il Signore vi aspetta perché Lui solo

può farvi felici. Per le strade vi vedevo in tanti, apparentemente distratti o spensierati, o

anche preoccupati e presi dai vari problemi. Ed io vi guardavo e, nel cuore, pregavo: «il

Signore vi benedica».

Saluto voi, fratelli Ortodossi e Protestanti e quanti accomunati dal medesimo Battesi-

mo. Mi sono considerato inviato anche a voi. Vi ringrazio per la collaborazione nel ricer-

care insieme occasioni di reciproca conoscenza e collaborazione per crescere nell’unità e

nella testimonianza del Vangelo.

Saluto ciascun uomo e ciascuna donna, i Responsabili delle Istituzioni, quanti ricerca-

no la verità e si impegnano per un sereno e concorde vivere comune. Vi ringrazio per la vo-

stra accoglienza, fatta di stima e disponibilità a ricercare i percorsi più idonei e opportuni

per costruire insieme il bene comune.

Saluto voi tutti, di ogni età e condizione, Dio vi ama e vi parla. Siamo nell’Anno della

Fede: credendo al suo amore e alla sua Parola sarete nella luce della fede, quella fede che

dà senso alla vita, quella fede che assicura la vera ricompensa per il bene fatto e che siete

chiamati a compiere ancora.

La Vergine Santa, di cui tutti siete devoti e che tutti invocate, vi protegga e vi guidi verso

il Signore Gesù. Lui solo è la Verità che cerchiamo, Lui solo è la Vita vera che desideriamo,

Lui solo è la Via da percorrere per raggiungere la meta del nostro pellegrinaggio terreno.

Paternamente vi benedico.

+ Rocco TalucciAmministratore Apostolico

“servo inutile”Brindisi, 8 dicembre 2012Solennità dell’Immacolata Concezione

l’intervista Mons. Talucci si congeda dalla Diocesi che ha visitato, ha visto la conferma della visita del Papa, ha assunto una dimensione di Chiesa sinodale in cammino nel Terzo Millennio

«Non ci siamo incontrati per caso, il Signore ha fatto questo e ci apparteniamo»

Nominato arcivescovo di Brindisi-Ostuni il 5 febbraio 2000, ha iniziato il suo mi-nistero l’8 aprile successivo. Mons. Rocco Talucci, 101° della Cronotassi, prima guida pastorale del nuovo millennio cristiano tra qualche giorno lascerà la Dio-

cesi, «portandola tutta nel cuore, perchè a livello intimo e spirituale il cuore dell’uomo, e quello del cristiano ancora di più, quanto più ama, più è capace di amare».

Eccellenza sono trascorsi quasi tredici anni...«Allora non pensavo di lasciare Tursi e la Basilicata. Non posso dimenticare con quanta delicatezza mons. Settimio Todisco mi ha presentato la Diocesi, all’inizio del mio man-dato. Io conoscevo Brindisi solo di nome ed il mio è stato un impatto pastorale, missiona-rio. Ora in tutti i paesi chiamo tanta gente per nome, conosco tantissime persone, quelle che il Signore mi mette davanti e che non mi toglie nessuno, nemmeno quando una leg-ge dice: “Basta con il governo di questa Diocesi”. Una norma non toglie nulla al rapporto personale, perché sento di aver vissuto una paternità che nessun vincolo giuridico può annullare. Nel calendario di dicembre mi sono firmato “servo inutile” e mai come oggi lo dico con convinzione. “Servo” perché il Signore mi ha chiesto un servizio; “inutile” è da intendersi nel senso evangelico, perché quando hai fatto tutto quello che dovevi, sei inu-tile: interrompi un’azione, ma non puoi pensare che quanto fatto andrà perduto».

Si può dire che c’è un po’ di nostalgia, e di tristezza, umanamente parlando?«Diamolo per scontato, anche se mi predispongo ad altro, giacché non vado a stare in pantofole. Sono “servo inutile” qui, perché viene un nuovo pastore, ma potrò essere utile altrove. A livello umano, posso dire che sarei rimasto a Brindisi fino al finire dei giorni, ma non distinguerei più nemmeno il livello umano da quello pastorale, perché la mia umanità è pastorale e la mia pastorale non prescinde dai rapporti umani. Anche quando parlo, e parlo a tutti, il mio parlare è pastorale. Ma quando scendo in chiesa ed in piazza e chiamo per nome la gente e parlo con loro, è sempre il rapporto del pastore che vuole il bene dell’altro. Non mi sento di dire: questo lo dico da vescovo, e questo da amico. È sem-pre l’amico-vescovo ed il vescovo-amico… Di conseguenza, padre si è sempre… Oltre il ruolo. Ci sono le persone, che il ruolo ha fatto anche incontrare, ma poi sono amici. E non più per il ruolo… E questo fa sì che ci si arricchisca umanamente e spiritualmente. Ecco: se riuscissimo a vivere così avremmo realizzato la civiltà dell’amore».

Andiamo a questi anni: che esperienza è stata la Visita Pastorale? Quali ricordi?«Ho tanti ricordi particolari, soprattutto se li metto in relazione con altre esperienze di miei confratelli vescovi. Alcuni di loro sono rimasti sorpresi del fatto che io abbia abita-to nei paesi, soggiornando, dormendo, mangiando, passeggiando per le strade, entran-do nei locali, salutando tanta gente, cosa che non puoi fare se devi tornare ogni sera a casa. Ricordo che la gente si fermava e salutava, era come se fossi diventato un cittadino di quella comunità. Come non ricordare, poi, gli impegni del dopo cena quando, o si fa-cevano degli incontri o una passeggiata o si entrava in un negozio…si parlava con tutte le persone che venivano incontro: posso dire che non ho semplicemente fatto la visita, ma l’ho vissuta. Mi sono sentito il pastore che incontrava le sue pecore e stava col gregge che gli era stato affidato. Molte di loro sapevano che erano state affidate a me, altre sapevano che il vescovo era il pastore di tutti. Dall’accoglienza che mi hanno riservato per la strada, potevano anche non riconoscersi appartenere a quel pastore, ma si sono avvicinate co-munque. Sono stati gli stessi preti a comunicarmi i motivi di emozione di questa gente, il che significa che il vescovo, come pastore, rappresenta davvero il Signore anche rispetto a chi il Signore non lo riconosce, ma sa che un vescovo viene nel suo nome».

Sentiva proprio il bisogno di conoscere il suo gregge….«La Visita Pastorale è stata la risposta ad un mio bisogno di pastore, un bisogno ontolo-gico, perché un pastore non può che desiderare di stare col gregge e di incontrarlo per dire ad ognuno una parola. E se scopre delle pecore che soffrono, deve poter riservare loro un’attenzio-ne particolare. Tanto era forte il mio desiderio di incontrare loro, quanto grande era il bisogno della gente di incontrare il vescovo: io me ne accorgevo prima dell’incontro, la gente dopo, ad incontro avvenuto, per la condivisione e le emozioni vissute. Mi ha accompagnato in ogni momento della Visita la convinzione che io consentivo a Gesù buon pastore di passare per le strade dei Comuni della Diocesi e di dover essere solo la voce della Parola incarnata: ero io che parlavo, ma era la Parola del Signore che veniva trasmessa in quel momento. Credo di essermi sentito sempre nei panni di Giovani Battista: “io sono la voce, ma viene dopo di me la Parola che resta e che ha da consolare, da perdonare, da purificare, da incoraggiare”. È stata un’esperienza di una moltitudine di gente che attendeva il Signore, è stata una semina di Parola veramente grande…».

I ritmi delle giornate di Visita Pastorale erano abbastanza intensi…«Il tempo non mi bastava mai, si lavorava fino a tardi: non c’è stato un minuto che io abbia te-nuto per me. Tutto il tempo era impegnato per la condivisione, a pranzo e a cena ero ospite del parroco con il quale ho vissuto momenti di vera intimità: alcuni di loro mi hanno detto che in quei giorni hanno sentito il pastore tutto per loro».

Poi provvidenzialmente c’è stata la visita ad limina….«Appena finita la Visita Pastorale, come vescovi pugliesi siamo stati chiamati per la visita ad limina: io dovevo relazionare al Papa sulla mia Diocesi. Al Santo Padre ho confidato un mio pensiero scaturito proprio dalla Visita Pastorale appena conclusa: il fatto che i cristiani siano una minoranza – ho detto al Pontefice - è più una convinzione sociologica, perché io ho speri-mentato un’accoglienza da parte del Popolo di Dio che ci interroga e vuole che ci poniamo in modo diverso».

Mons. Talucci e la cura delle vocazioni: lei è il vescovo del nuovo seminario a Brindisi…«Il discorso delle vocazioni non è un discorso di strutture: è il dono del Signore che non si stan-ca degli uomini e continua a chiamare nonostante la pochezza umana. Chiama le persone - ra-gazzi, giovani, adulti -, di cui si fida e ai quali dona la sua veste di grazia. Il tutto si risolve in un dialogo tra il chiamato e il vescovo, e così comincia un cammino di discernimento perché le vo-cazioni al sacerdozio non se le inventa né la chiesa né il vescovo. O uno è chiamato dal Signore e lo sente nel suo cuore e lo comunica alla Chiesa e al vescovo, o di vocazione non si può par-lare. Il vescovo, nonostante la secolarizzazione imperante, registra questa voce forte che alcuni

giovani, pur sentendola e riconoscendola, spesso la vogliono allontanare. Anche le strutture servono per avere degli spazi adeguati nei quali i giovani possano mettere meglio a punto il loro progetto di vita in un dialogo educativo con i sacerdoti, in un confronto amicale con quanti sentono la stessa chiamata, in un modo o età diversa, e possano sperimen-tare sul serio la Parola del Signore pur continuando a vivere con i loro amici nella scuola, nella parrocchia, nelle strade. È opportuno un luogo appartato per la riflessione più profonda che li porterà a decidere della loro vita».

La scelta di costruire un nuovo seminario, però, non è stata condivisa subito da tutti…«Il seminario è il luogo dove il seme della vocazione può essere meglio coltivato. Il seminario nato a Brindisi non è stato osteggiato da nessuno ed è stato accolto da tutti: con questo non si-gnifica che io chiuda gli occhi davanti alle difficoltà incontrate. Alcune sono state di ordine giu-ridico, di chi rivendicava diritti inesistenti circa alcune eredità che persone di Dio hanno voluto dedicare alle opere della Chiesa, mi riferisco ad eventuali eredi che si sarebbero visti privati di un bene donato alla Chiesa. Ci sono state anche difficoltà umane, c’era chi si chiedeva se fosse proprio necessario e se vi fossero le risorse per farlo. Occorre dire a tal proposito che l’antico seminario di Ostuni era ospitato nei locali della Madonna Pellegrina, destinati certo all’educazione dei ragazzi, ma non più adeguati ai tempi e alle esigenze normative. Mi preme ricordare che il seminario diocesano è anche seminario per i seminaristi di Molfetta. La risposta vera, dunque, non è stata la decisione del vescovo, bensì è stata la Provvidenza che ha ispirato al vescovo la vendita di due terreni, uno donato da un sacerdote, l’altro da una suo-ra. Si trattava di terreni improduttivi che forse avremmo anche perso con l’andare del tempo, perché uno poteva essere espropriato, l’altro era richiesto dai coloni. La vendita di tali beni ha consentito la costruzione del rustico completo, il resto lo ha fatto la grande generosità del Po-polo di Dio, il cui contributo è servito, almeno in parte, per il completamento, per le rifiniture e per l’arredo».

Un seminario nato da una terra che non produceva frutti…«Due terreni incolti si sono trasformati in un fabbricato agibile e accogliente. Oggi il seminario è quello che vediamo: non c’è una angolo inutilizzato. È frequentato dai seminaristi del Minore e del Maggiore, dai sacerdoti, dagli studenti compagni dei seminaristi, dalla città. È un monu-mento della Provvidenza per noi, ma anche un segno visibile della chiamata di Dio. Il Papa, quando lo ha visto, ha esclamato: “Ma è proprio nel cuore della città!” Ecco: nel cuore della città di Brindisi e nel cuore della Diocesi spicca davanti a tutti la testimonianza che Dio

chiama ancora e chiama sempre. Il vescovo è stato la persona che ci ha creduto per primo, ora ci credono tutti».

Perché ha deciso di celebrare un Sinodo diocesano?«Ogni vescovo è testimone del suo tempo: nulla è avvenuto a caso, ma tutto è stato suggerito ed ispirato dalla provvidenza di Dio, che diventa per noi, in termini teologici, quella che è chiama-ta “la grazia di stato”. Quando un vescovo si scoraggia, la Chiesa dice: “Non temere, c’è la grazia di Dio, la grazia relativa al tuo stato di vescovo”. Ogni chiamata, infatti, è accompagnata dalla grazia di stato ed io, non solo la vedo, ma posso dire che mai dalla mia mente umana potevano venir fuori tanti progetti, come quello del Sinodo, né avevo risorse culturali tali da poter imma-ginare alcune cose. Dopo la Visita Pastorale, che mi ha fatto conoscere intimamente la Diocesi e il popolo di Dio affidatomi; dopo aver riferito al Santo Padre ed aver scritto una lunga relazio-ne di cui la Santa Sede si è compiaciuta per la chiarezza, la necessità del Sinodo è venuta quasi spontanea».

La Diocesi aveva già un bel cammino pastorale alle spalle…«L’ispirazione della Provvidenza sta tutta qui: dopo vari anni di cammino che ha impegnato le persone, le comunità e le associazioni, cioè le varie espressioni del Popolo di Dio, è venuto spontaneo chiamare a raccolta il Popolo di Dio, almeno nei suoi rappresentanti e poter dire: prendiamo coscienza di essere popolo di Dio! Che cosa dice oggi al nostro popolo, che sta vi-vendo una sua storia? Quali interrogativi pone questo popolo alla Chiesa per essere storicizzato in questo tempo ed in queste situazioni? Abbiamo concepito il Sinodo come Sinodo di popolo, perché prima di convocare i delegati, ab-biamo preparato un questionario che ogni parrocchia ha discusso al suo interno, rispondendo alle domande e avanzando esigenze e proposte, difficoltà e gioie. Poi si è prodotto uno stru-mento di lavoro, che è passato per tutti i consigli perché si enunciassero i problemi e i temi con gli ambiti di impegno. Abbiamo vissuto un seminario nei pressi di Roma, a Sacrofano, dove il documento è stato non solo esaminato, ma anche rivisto, quasi ristrutturato e riscritto in alcuni capitoli. Di conseguenza, lo strumento di lavoro definitivo è stato coltivato e quasi reimpostato dalla base. Quando si è giunti alla celebrazione, quegli ambiti sono diventati argomenti da ap-profondire e nei quali trovarci, sia con le lezioni dei maestri, ma soprattutto con i lavori, nelle assemblee e nei circoli minori per gli approfondimenti. Quando giungevano le sintesi, esse era-no il fior fiore di quanto veniva suscitato. E se penso agli interventi in aula e alla composizione delle varie proposizioni, per combinarle, sostenerle e votarle, dico che il Sinodo è stato un’espe-rienza di Chiesa, di popolo perché tutti sapevano, partecipavano, ma i delegati sinodali non

solo hanno capito con la mente, ma hanno vissuto con il cuore la bellezza di una Chiesa che è unione dei cristiani, che si sentono in Cristo un solo corpo e una cosa sola come spiegava il titolo: solo in Cristo possiamo vivere la storia come un cammino di comunio-ne, nell’amore, e di missione nell’annuncio del Vangelo. Perché il Vangelo appartiene a tutti gli uomini e noi siamo obbligati ad annunciarlo non solo perché è un comando del Signore, ma perché è un’esigenza che nasce nel cuore di ogni uomo».

Poi è arrivato il tempo post-sinodale.«Quando abbiamo detto che si passava dal Sinodo dei delegati al Sinodo del popolo, si-gnificava che i testi delle proposizioni dovevano passare nella conoscenza di tutto il po-polo di Dio, per cui un programma triennale ci ha fatto approfondire i vari ambiti ed il significato del Sinodo è giunto anche a chi non ne aveva conoscenza. Alla luce di tutto ciò, possiamo dire che: siamo un popolo visitato dal Signore nella Visita Pastorale; siamo un popolo che si sente parte della Chiesa universale nella relazione fatta nella visita ad limina; siamo un popolo confermato dalla visita del Santo Padre che cono-sceva la nostra storia ed è venuto a visitarci proprio durante la celebrazione del Sinodo. Abbiamo la consapevolezza di essere Chiesa sinodale con la coscienza di essere cristiani. O restiamo uniti e lavoriamo insieme e siamo Chiesa, o Chiesa non siamo».

Quali frutti dovrà portare il Sinodo?«I frutti sono noti solo al Signore, ma è un dato di fatto che dal Sinodo sia scaturita una maggiore coscienza e gioia di essere Chiesa, siano nate tante vocazioni, insieme alla co-struzione del nuovo Seminario, il Papa sia venuto a Brindisi, ci sia stata una fioritura del laicato impegnato in quanto tale o anche in forme associative e nei movimenti. Tutte queste cose non potevano essere solo programma umano. Ho visto i laici protagonisti, non soggetti dipendenti dal clero; ho visto una Chiesa pre-sente nel territorio che a sua volta avverte maggiori attese nei confronti della Chiesa.Anche il rinnovamento dell’Iniziazione Cristiana, pur tra comprensibili difficoltà, vuol significare che la nostra evangelizzazione mira sì alla pratica dei sacramenti che avvici-nano a Dio, ma è una evangelizzazione che, con i sacramenti, deve trasformare la nostra vita in una vita di fede. In questa ottica, il Sinodo non è stato un fatto voluto dal vescovo, nè una organizzazione di eventi: è stato un evento ispirato dal Signore e che si è realizzato sotto la spinta dello Spirito Santo, perché nel vedere l’assiduità dei delegati, soprattutto dei laici, il loro interesse nonostante togliessero tempo alla propria famiglia e nel leggere le proposizioni su cui si è discusso, viene da dire che la nostra gente è stata capace di cose grandi».

Un rammarico che si porta dentro?«È tale la gioia di quanto abbiamo ricevuto dalla Provvidenza da non aver spazio per ram-marichi di nessuna sorta, se non quello di voler realizzare tante altre cose di cui, o non sono stato capace o è mancato il tempo. Nonostante l’incapacità, il Signore ha realizzato tante cose belle. Posso dire di aver utilizzato tutto il tempo, senza sciupare un attimo. Il tempo per altre riforme ed aggiornamenti della chiesa è riservato al successore, perché, appunto, siamo “servi inutili”, cioè utili per un tempo ma non per tutti i tempi. Passano le persone, ma è il Signore che costruisce, sia la casa, sia la Chiesa».

Un invito alla Diocesi che sta per lasciare?«L’augurio è che questa Chiesa continui ad essere e a sentirsi Popolo di Dio, perché così si è auto costruito con la grazia di Dio e con l’ausilio del vescovo e dei sacerdoti. Auguro di sentire un’appartenenza di comunione nell’amore, perché se c’è un aspetto che ci dif-ferenzia da qualunque tipo di società, è che siamo una famiglia alla luce della fede, legata dall’amore. E l’amore viene da Dio. L’augurio è che questa Chiesa si senta sprone nel ter-

ritorio, che è il teatro dove noi dobbiamo testimoniare la nostra fede e passare come coloro che hanno una grande speranza. Se la secolarizzazione porta dei disagi, le vittime sono i giovani, i quali hanno bisogno più degli altri di credere nell’amore, che diventa un gioco se non è capito bene; hanno bisogno di credere nella giustizia, la quale esige un’opera educativa che vede i sacerdoti capaci di lavorare insieme: i preti non sono navigatori solitari, devono lavorare insieme. L’altro augurio è che si accolga il nuovo vescovo come nuova forma di presenza del Signore Gesù. Cambiano le persone, ma rimane il vero pastore, al quale sentirci legati. Questo signifi-ca garanzia di fede solida, speranza sicura e amore che ci accompagna. Continuiamo a volerci bene sempre, perché una volta conosciuti ci siamo conosciuti per sempre, una volta amati ci amiamo per sempre al di là dei tempi. Non ci siamo incontrati per caso: ci ha fatti incontrare il Signore e ci apparteniamo, l’uno all’al-tro, nel tempo e nell’eternità»

Angelo Sconosciuto e Giovanni Morelli

Brindisi, 14 giugno 2008. Piazzale Lenio Flacco. Incontro del Papa con i giovani della Diocesi. Mons. Talucci accanto a Benedetto XVI

Fermento torna a Gennaio La redazione ricorda che è possibile inviare articoli, foto, lettere e riflessioni entro e non oltre lunedì 7 gennaio2013.Il tutto può essere spedito all’indirizzo di posta elettronica: [email protected], oppure tramite fax al numero: 0831/524296 o, in alternativa, in busta chiusa indirizzata a:

Redazione Fermento, Piazza Duomo, 12 Brindisi.

Speciale12 15 dicembre 2012 Speciale15 dicembre 2012 13

giornata mondiale della gioventù� Il Messaggio del Papa in vista dell’appuntamento di Rio

Andate e fate discepoli tutti i popoli!

XI Forum del Progetto Culturale

Si è svolto dal 30 novembre al 2 dicem-bre, a Roma, l’XI Forum del Progetto

culturale, sul tema “Processi di mondializ-zazione opportunità per i cattolici italiani”. Sono stati due giorni di intenso e parteci-pato confronto tra docenti ed esperti, sti-molati dalle due relazioni di Carlo Secchi e Francesco D’Agostino.

«La memoria escatologica è il massimo contributo che i cristiani possono appor-tare alla mondializzazione», perché «rela-tivizza la logica spaziale del potere e ne mostra tutti i limiti antropologici, garan-tendo quella necessaria riserva di quella umanità, che molti ritengono si stia dram-maticamente esaurendo nel mondo con-temporaneo». Ne è convinto Francesco D’Agostino, docente di filosofia del diritto e di teoria generale del diritto all’Universi-tà di Roma Tor Vergata, che intervenendo al Forum, si è soffermato sul concetto di «cattolicità religiosa» come «condizione di possibilità fondamentale della mondializ-zazione». «Il processo di mondializzazione è irreversibile, ha spiegato, ma non può essere abbandonato a se stesso», al contra-rio «va sempre continuamente stimolato,

promosso, riqualificato». È sui cattolici, se-condo D’Agostino, che «grava in particola-re questo compito»:

«L’Europa potrà sentirsi al sicuro nell’eco-nomia e nella finanza globalizzata solo re-alizzando una vera Unione che sia anche politica», passando, cioè, anche attraver-so «l’unione bancaria, l’unione fiscale e l’unione economica». È la «ricetta» per il nostro Continente fornita da Carlo Secchi, docente emerito di politica economica europea all’Università Bocconi e vicepre-sidente dell’Ispi (Istituto per gli studi di po-litica internazionale) di Milano. Pur con le «debolezze» che la crisi ha fatto emergere, per Secchi, l’Unione europea «rappresenta non solo l’unica speranza per i cittadini europei, che li metta al riparo dalle guerre del passato e che possa garantire un futu-ro di prosperità, ma rimane un modello per il resto del mondo».

La mondializzazione, ha affermato il card. Camillo Ruini chiudendo il Forum, «è un’opportunità che rimane per noi una sfida non eludibile, e di fronte alla quale dobbiamo cercare di essere all’altezza, confidando nel primo - segreto ma decisi-vo - attore della storia, nostro Signore, che troppo spesso nel nostro operare in con-creto anche noi mettiamo tra parentesi».

1515 dicembre 2012 Vita di Chiesa

“Oggi non pochi giovani dubitano profondamente che la vita sia un bene e non ve-dono chiarezza nel loro cammino”, ma “la luce della fede” ci fa comprendere che “ogni esistenza ha un valore inestimabile, perché frutto dell’amore di Dio”. Nel

portare questo “annuncio gioioso di salvezza e di vita nuova”, la Chiesa “conta” anche sui gio-vani, “i primi missionari” tra i “coetanei”. Lo scrive Benedetto XVI nel messaggio inviato ai giovani e alle giovani del mondo, in occasione della XXVIII Giornata mondiale della gioventù che sarà celebrata, dal 23 al 28 luglio 2013, a Rio de Janeiro (Brasile). “Andate e fate discepoli tutti i popoli!” è il titolo del messaggio.Strumenti d’amore. “Stiamo attraversando un periodo storico molto particolare - afferma il Papa - il progresso tecnico ci ha offerto possibilità inedite di interazione tra uomini e tra popolazioni, ma la globalizzazione di queste relazioni sarà positiva e farà crescere il mondo in umanità solo se sarà fondata non sul materialismo ma sull’amore”. Per questo “è urgente testimoniare la presenza di Dio affinché ognuno possa sperimentarla: è in gioco la salvez-za dell’umanità e la salvezza di ciascuno di noi”. Per svolgere la missione evangelizzatrice il Pontefice invita i ragazzi a guardarsi intorno: “Tanti giovani hanno perduto il senso della loro esistenza. Andate! Cristo ha bisogno anche di voi. Lasciatevi coinvolgere dal suo amore, siate strumenti di questo amore immenso, perché giunga a tutti, specialmente ai ‘lontani’. Alcuni sono lontani geograficamente, altri invece sono lontani perché la loro cultura non lascia spa-zio a Dio; alcuni non hanno ancora accolto il Vangelo personalmente, altri invece, pur aven-dolo ricevuto, vivono come se Dio non esistesse”. A tutti, suggerisce il Santo Padre, “apriamo la porta del nostro cuore; cerchiamo di entrare in dialogo, nella semplicità e nel rispetto”. Due campi. I giovani si devono impegnare in questa missione evangelizzatrice anche in fa-miglia, nei quartieri, negli ambienti di studio o di lavoro, tra i gruppi di amici e i luoghi del tempo libero, ma due, chiarisce Benedetto XVI, sono i campi in cui l’“impegno missionario” dei giovani “deve farsi ancora più attento”. Il primo è “quello delle comunicazioni sociali, in particolare il mondo di internet”, da “usare con saggezza”, considerando “anche le insidie che esso contiene, in particolare il rischio della dipendenza, di confondere il mondo reale con quello virtuale, di sostituire l’incontro e il dialogo diretto con le persone con i contatti in rete”. Il secondo ambito è “quello della mobilità. Oggi sono sempre più numerosi i giovani che viaggiano, sia per motivi di studio o di lavoro, sia per divertimento. Ma penso anche a tutti i movimenti migratori, con cui milioni di persone, spesso giovani, si trasferiscono e cambiano Regione o Paese per motivi economici o sociali. Anche questi fenomeni possono diventare occasioni provvidenziali per la diffusione del Vangelo”. Come il buon Samaritano. “Penso che abbiate sperimentato più volte la difficoltà - sostie-ne il Papa - di coinvolgere i vostri coetanei nell’esperienza di fede. Spesso avrete constatato come in molti giovani, specialmente in certe fasi del cammino della vita, ci sia il desiderio di conoscere Cristo e di vivere i valori del Vangelo, ma questo sia accompagnato dal sentirsi inadeguati e incapaci”. Per il Pontefice sono importanti anzitutto la “vicinanza” e la “semplice testimonianza” come “canale attraverso il quale Dio potrà toccare il loro cuore. L’annuncio di Cristo non passa solamente attraverso le parole, ma deve coinvolgere tutta la vita e tradursi in gesti di amore”. “Come il buon Samaritano - sottolinea il Santo Padre -, dobbiamo essere sempre attenti a chi incontriamo, saper ascoltare, comprendere, aiutare, per condurre chi è alla ricerca della verità e del senso della vita alla casa di Dio che è la Chiesa, dove c’è speran-za e salvezza”. I mezzi che abbiamo per “fare discepoli” sono principalmente “il Battesimo e la catechesi”. Cuore e braccia. Di fronte alle difficoltà della missione di evangelizzare, Benedetto XVI invi-ta i giovani a non aver “timore”: “L’evangelizzazione non è una nostra iniziativa e non dipen-de anzitutto dai nostri talenti, ma è una risposta fiduciosa e obbediente alla chiamata di Dio, e perciò si basa non sulla nostra forza, ma sulla sua”. Di qui l’invito a “trovare nell’Eucaristia la sorgente” della “vita di fede” e della “testimonianza cristiana”, a ricorrere “frequentemen-te al sacramento della Riconciliazione” e a “ricevere il sacramento della Confermazione”. Il Papa ricorda anche che “per restare saldi nella confessione della fede cristiana”, c’è “bisogno della Chiesa”: è “sempre come membri della comunità cristiana che noi offriamo la nostra testimonianza, e la nostra missione è resa feconda dalla comunione che viviamo nella Chie-sa”. “Come mostra la grande statua di Cristo Redentore a Rio de Janeiro - conclude il Ponte-fice -, il suo cuore è aperto all’amore verso tutti, senza distinzioni, e le sue braccia sono tese per raggiungere ciascuno. Siate voi il cuore e le braccia di Gesù! Andate a testimoniare il suo amore, siate i nuovi missionari animati dall’amore e dall’accoglienza”.

Dobbiamo intensamente benedire il Signore e dire grazie al santo padre Benedetto XVI per il dono dell’Anno

della fede. Egli ce lo presenta come occasio-ne propizia (cfr Porta Fidei= PF, 5.9.14) per riscoprire il cammino della fede (PF, 2), un invito a un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo (PF, 6), per rendere sempre più saldo il rapporto con Cristo Signore, poiché solo in Lui vi è la certez-za per guardare al futuro e la garanzia di un amore autentico e duraturo (PF, 15).

Questa occasione propizia, suggerita dal-la lettura del contesto in cui viviamo, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e, nella stessa data, del 20° anniversario del-la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, mentre ci richiama a riconsiderare la portata ecclesiale della grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX, ci chiede anche di riscoprire i contenuti della fede (PF, 9) e, insieme, l’atto della fede con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà (PF, 10).

Così il Papa, richiamando la struttura reggente (annuncio – celebrazione – testimonianza) del mistero della Chiesa, auspica: in ogni credente l’aspirazio-ne a confessare la fede in pienezza; l’intensificazione della celebrazione della fede nella liturgia e la crescita in credibilità della testimonianza di vita dei credenti (PF, 9).

D’altra parte il Papa introducendosi nella lettera apostolica dice che la por-ta della fede che da accesso alla comunione con Dio nella comunità della sua Chiesa, sempre aperta, è possibile oltrepassarla quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia (PF, 1).

Comprendiamo perciò che l’occasione propizia che ci è data dal Papa è solo per riscoprire l’essenziale del dono che ci viene da Dio: la fede.

E che cos’è l’Anno Liturgico se non lo spazio e il tempo per ri-scoprire e ri-accogliere il dono della fede in Colui che è luce sul nostro cammino?

L’Anno Liturgico è essenziale perché il dono della fede sia confermato, cele-brato e testimoniato.

Per questo, come d’altra parte facciamo ogni anno, abbiamo predisposto i sussidi (consultabili sul sito diocesano nello spazio dell’Ufficio Liturgico) per i primi giorni di Avvento (novena dell’Immacolata) e gli ultimi giorni di Av-vento (novena di Natale).

Il tempo di Avvento o, meglio, il mistero dell’Avvento non riguarda solo la prima parte dell’Anno Liturgico. L’Avvento infatti, in quanto parte del miste-ro di Cristo, suscita l’esercizio temporale dell’attesa di desiderio della Chie-sa che dalla Parola e dalla Liturgia viene confermata, appunto, nella fede dell’adventus Domini in gloria.

Lasciamoci prendere per mano, nelle nostre comunità, dalla Liturgia della Chiesa per non distogliere mai lo sguardo da Gesù Cristo, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento (Eb 12, 2).

Ci accorgeremo che proprio la celebrazione (=frequentazione) del mistero di Cristo nell’ Anno Liturgico rende possibile a tutti i credenti di vivere nella fede del Figlio di Dio (Gal 2, 20) e di essere abilitati alla sua testimonianza.

Mons. Antonio Valentino

riflessioni L’occasione propizia

L’anno della fede nell’anno liturgico

Tra i documenti emanati da Concilio Vaticano II, la Costituzione dogmatica “Lumen Gentium” costitui-sce per il magistero della Chiesa e per la sua attività

un testo di straordinaria importanza. C’è stato chi ha voluto mostrare come tutti gli altri documenti conciliari conduca-no a questo, o ne derivino. Il testo, approvato da 2.156 Pa-dri con 2.151 voti favorevoli e solo 5 contrari, fu promulgato “una cum patribus” da Paolo VI il 21 novembre 1964.

L’organizzazione finale della costituzione in otto capitoli è tutta positiva: preoccupata del Mistero considerato in se stesso, delle ricchezze in esso contenute e che dovevano es-sere offerte al popolo fedele e al mondo perché divenissero spirito e vita. Il primo carattere che emerge dall’esposizione sulla Chiesa è la sua ispirazione biblica, che evidenzia un altro aspetto assai importante per l’ecclesiologia: quello della storia della salvezza. La Rivelazione, infatti, presen-ta il mistero della Chiesa essenzialmente nel mistero della redenzione: essa prolunga nella storia gli eventi originari che hanno condotto e conducono l’umanità alla salvezza. In questa medesima prospettiva biblica e in questa visione storico-salvifica deve esser compreso anche il secondo ca-pitolo della costituzione sulla Chiesa-popolo di Dio: quel popolo che il Redentore ha raccolto da terre disperse, che lo Spirito vivifica nell’unità e che riconduce definitivamen-te al Padre.

Nella prospettiva della redenzione operata da Cristo sarà compresa pure l’indole sacramentale della Chiesa. È la pri-ma volta che in un documento del Magistero questa cate-goria viene applicata alla Chiesa, recuperando in ciò il più

vasto significato di sacramento e di mistero molto familiare all’antico linguaggio dei Padri e al linguaggio perenne della liturgia. La Chiesa poi si attua e vive i suoi momenti origi-nari attraverso i Sacramenti. Tale dimensione profonda del mistero della Chiesa non coincide in toto, come già intuiva Agostino, con la sua organizzazione storica, ma ha la sua fonte originaria nella potenza operante dello Spirito Santo. Ovunque è lo Spirito di Dio che opera l’unità, ivi è la Chiesa che sorge e prende vita. Le strutture giuridiche, anche quel-le di origine divina, sono in funzione di questa vitalità es-senziale della Chiesa, che è la salvezza in atto.

Sono queste considerazioni che hanno portato il Conci-lio a mettere in rilievo il ministero dell’episcopato e della gerarchia, come servizio offerto alla comunità degli uomi-ni. Come successori degli Apostoli, i vescovi hanno la cura pastorale del regime della Chiesa diffusa su tutta la terra in una profonda unità di disciplina, di fede, di speranza e di carità con il loro Capo, il Successore di Pietro. Nella stes-sa luce “Lumen Gentium” considera la natura del laicato, che nella Chiesa non rappresenta una parte passiva o ac-cidentale, ma è un aspetto essenziale della sua vita e della sua missione. L’inserimento della forza di salvezza in tutte le dimensioni della creazione e della storia non può avve-nire senza la presenza attiva dei laici. Dove questi vengono meno, la Chiesa è messa in condizione di non poter esple-tare in tutta la sua pienezza la missione affidatale. Questa concezione di Chiesa, sacramento dell’azione dello Spirito nella storia ha offerto l’opportunità al Concilio di esaltare il ruolo della Santa Madre di Dio e Madre della Chiesa.

A questo dinamismo interno della Costituzione si potreb-be aggiungere un’osservazione della sua forma. Vi si po-trebbero riconoscere quattro coppie tematiche: la prima composta dai primi due capitoli, che spiegano la natura misterica della Chiesa, ossia la Chiesa nell’eterno disegno della Trinità, e la sua storica attuazione; la seconda cop-pia è composta dai successivi due capitoli, che riguardano la struttura in cui si articola storicamente il popolo di Dio, cioè i sacri ministri e i fedeli laici. Essa è radicata nella du-plice partecipazione all’unico Sacerdozio di Cristo attuata nella forma del sacerdozio comune, o battesimale e del sa-cerdozio ministeriale, o gerarchico. I capitoli quinto e sesto presentano la santità come il fine della Chiesa e indicano la vita religiosa come una via specifica per giungere alla perfe-zione. La quarta e ultima coppia descrive in concreto la fase finale della Chiesa e ce ne indica i modelli nella Madonna e nei Santi.

Oltre i suoi contenuti dottrinali, la costituzione ci lascia in eredità un metodo che conserva intatta la sua validità e la sua attualità. Per parlare della Chiesa il Vaticano II ha fatto ricorso alle fonti, cioè alla Parola di Dio viva nella Chiesa e trasmessa vitalmente sotto l’assistenza dello Spirito Santo nella dottrina dei Padri, del Magistero dei Pastori, nella te-stimonianza della liturgia e della vita cristiana del popolo di Dio. Sono le medesime piste sulle quali oggi la Chiesa può avviare i suoi cammini per la nuova evangelizzazione.

Mons. Marcello SemeraroVescovo di Albano

viaggio tra i documenti conciliari La costituzione “Lumen gentium”

Il ricorso alla fonti per parlare della Chiesa

Un’enciclica per l’Anno della fede. Sarà proprio la fede il tema del quarto documento di Be-nedetto XVI che completa così il trittico delle

virtù teologali iniziato nel 2006 con la “Deus caritas est”, e proseguito nel 2007 con la “Spe salvi”. Uscirà in gennaio, il Papa vi ha lavorato la scorsa estate, come ha rivelato, un po’ a sorpresa, il cardinale Tarcisio Ber-tone, dicendo che la principale occupazione del Papa a Castel Gandolfo è stata proprio la stesura del testo della nuova enciclica. Sul nome, ovviamente, non ci sono indiscrezioni, ma non è difficile ipotizzarlo all’interno delle celebrazioni volute dal Papa per i 50 anni dell’apertura del Vaticano II. Con un precedente importante: Giovanni Paolo I negli incontri del mer-coledì avrebbe voluto trattare proprio i temi delle vir-tù teologali, ma la sua prematura morte gli permise di affrontare solo la fede e non la speranza e la carità.

Nel commentare il Concilio e la sua attuazione, in un’intervista rilasciata alla fine degli anni Ottan-ta il cardinale Franz Koenig - arcivescovo di Vienna, morto nella capitale austriaca nel 2004 - diceva che si doveva essere attenti alla situazione reale, ma sen-za troppi timori: «Dobbiamo guardare il mondo alla luce della nostra fede, con la forza che ci sa dare la preghiera. Questo il segno che deve caratterizzare noi cristiani: avere coraggio e non paura; avere speranza e rendere visibile la fede nella carità».

Koenig è stato un protagonista dell’Ostpolitik va-ticana, cioè dell’attenzione verso le Chiese al di là della “Cortina di ferro” e del dialogo con i regimi co-munisti; ma è stato altresì un grande protagonista del Concilio, portando il suo contributo sui documenti riguardanti la Parola di Dio, “Dei verbum”, la libertà religiosa e il dialogo con l’ebraismo e soprattutto con i suoi interventi sulla “Gaudium et Spes.” Non meno importanti le sue riflessioni sull’ateismo, lui che è sta-to arcivescovo di una città crocevia tra Est e Ovest.

Terminato il Concilio, c’è chi si era posto la do-manda: qual è la dottrina del Vaticano II sulla fede, con evidente intento critico. Papa Paolo VI non vol-le lasciare senza risposta questo interrogativo e, nell’udienza di mercoledì 8 marzo 1967, disse: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne par-la a ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e so-prannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine».

Non di omissione si tratta, dunque, per Paolo VI; e lo dice ricordando «le affermazioni conciliari sulla necessità congiunta della Chiesa insegnante e della fede, sul senso della fede, sotto la guida del sacro ma-gistero, anima tutto il Popolo di Dio»” (“Lumen Gen-tium”). Ancora, sulla “purezza della fede” in funzione del dialogo ecumenico; sull’opera dei vescovi nell’in-segnamento delle verità della fede, sull’incontro della

fede e della ragione nella “Gravissimum Educationis”. Per non parlare poi della “Gaudium et Spes” che nel numero 57 affronta proprio il tema fede e cultura: “I cristiani, in cammino verso la città celeste, devono ri-cercare e gustare le cose di lassù questo tuttavia non diminuisce, anzi aumenta l’importanza del loro do-vere di collaborare con tutti gli uomini per la costru-zione di un mondo più umano. E in verità il mistero della fede cristiana offre loro eccellenti stimoli e aiuti per assolvere con maggiore impegno questo compi-to e specialmente per scoprire il pieno significato di quest’attività, mediante la quale la cultura umana ac-quista un posto importante nella vocazione integrale dell’uomo”.

Benedetto XVI nell’omelia pronunciata il 24 aprile in occasione dell’inizio del suo pontificato, parlava della fede come della «santa inquietudine di Cristo» che deve animare il pastore in un tempo in cui tante persone si trovano a vivere nel deserto: «Vi è il deser-to della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amo-re distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interio-ri sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asser-viti alle potenze dello sfruttamento e della distruzio-ne. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per con-durre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza».

Così nel libro “Luce del mondo”, rispondendo a una domanda del giornalista Peter Seewald, Bene-detto XVI afferma: «L’uomo non cerca più il mistero, il divino, ma si crede certo che un giorno la scienza ci spiegherà tutto quello che ancora non capiamo. È solo una questione di tempo, si pensa, poi avremo il potere su ogni cosa. In tal modo la scientificità è di-venuta la categoria più alta dell’assoluto”. E più avanti sottolinea che “viviamo in un’epoca nella quale è ne-cessaria una nuova evangelizzazione; un’epoca nella quale l’unico Vangelo deve essere annunciato nella sua razionalità grande e perenne, ed insieme in quel-la sua potenza che supera quella razionalità».

Già in questa risposta possiamo trovare la radice dell’Anno della fede aperto dal Papa l’11 ottobre scor-so, non solo per far memoria dei 50 anni del Concilio, ma per renderlo ancora attuale e per accompagnare l’uomo «fuori dal deserto, verso il luogo della vita».

Fabio Zavattaro

anticipazioni Sarà resa nota il prossimo mese di gennaioL’enciclica sulla fede di Papa Benedetto

50° Concilio e Anno della Fede16 15 dicembre 2012

Aveva compiuto da qualche giorno 18 anni, stava pensando all’iscri-zione universitaria, dopo la brillan-

te maturità classica conseguita al “Marzol-la”. Gianfranco Liberati, storico del diritto nell’Università di Bari, che tanti studi ha dedicato al mezzogiorno d’Italia, ha vivissi-mo il ricordo di quel concerto di campane, che suonavano a distesa al mezzogiorno di sabato 11 ottobre 1962. «Era una bellissima giornata di sole, quel sabato – dice subito -. E quello scampanio ci ricordò che a Roma si apriva il Concilio».

Cosa ricorda del periodo immedia-tamente precedente il grande evento dell’11 ottobre 1962?

«C’era una diffusa sensazione di attesa, la bellezza della giornata inaugurale alimen-tava quel clima di entusiasmo che si era ve-nuto a creare sin dai mesi precedenti, ma vorrei aggiungere che questo clima durò poco, perché fu travolto dalla crisi dei mis-sili a Cuba, da uno scenario internazionale che non faceva presagire nulla di buono».

Come si preparò il laicato cattolico a quel grande evento?

«Soprattutto fra i giovani ricordo una pre-parazione con un dibattito molto intenso. La domanda di fondo, non solo di quelli della mia generazione, era soprattutto ri-volta a cosa ci si attendesse dal Concilio».

Organizzavate delle iniziative diocesa-ne per far conoscere a tutti ciò che i pa-dri conciliari facevano a Roma?

«Per quanto riguarda i giovani no, ma ab-biamo seguito con attenzione lo svolgi-mento delle diverse sessioni soprattutto la prima, che aveva in sé la maggiore carica di tensione, di attesa, di curiosità, se vo-gliamo: da quegli incontri si poteva com-prendere l’evolvere dei lavori successivi. Ci interessò moltissimo il discorso di aper-tura pronunciato da papa Giovanni XXIII. Leggemmo e rileggemmo dalle colonne dell’Osservatore romano: Gaudet Mater Ecclesia… È un discorso profondissimo e di rara bellezza estetica. Tornarci può esse-re utile».

Quale fu la novità portata dal Concilio, che colpì maggiormente?

«Dal mio punto di vista la fine della messa in latino, che fu un annunzio di valorizza-zione, attraverso la lingua corrente, del-le diverse chiese locali. E a questa vorrei aggiungere, alla fine del Concilio, la Co-stituzione Gaudium et spes. Nell’ambito della spiritualità conciliare, ancora, vorrei ricordare il contributo portato dal cardina-le Bea al dialogo tra le religiosi. Egli fu una scoperta inattesa, soprattutto da parte dei

suoi ex allievi, che notavano la differenza di eloquio tra il docente in cattedra, il ge-suita misurato nelle parole esposte, ed il cardinale, padre conciliare, con un eloquio davvero appassionato».

Quale contributo di idee portò l’Azione Cattolica di quel periodo?

«Sempre per quanto riguarda i giovani di Ac di quegli anni, le idee si incentrarono, esclusivamente forse, sul dialogo inter-religioso: era la questione che sentivamo con maggiore attenzione e resa visibile da alcuni gesti della nostra comunità diocesa-na: ricordo don Giacomo Perrino a Corfù per incontrare l’arcivescovo ortodosso del-le isole Jonie».

È cambiata la Chiesa in questi decenni? Se sì, in quali aspetti?

«È cambiata, è cambiata… È difficile co-glierne i singoli aspetti. Il punto è che la Chiesa è stata largamente interessata da un processo di secolarizzazione e dal dila-gare del relativismo, al quale questo papa, da finissimo intellettuale e uomo di Chiesa pone punti fermi. Si potrebbe assumere ad esempio il discorso da egli pronunciato al parlamento tedesco…»

Secondo lei c’era più fede cinquant’an-ni fa, rispetto ad oggi?

«No, per le stesse ragioni di cui sopra. Ri-mane questo fondo di pietà, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, ma la Chiesa di allora era diversa».

In quel periodo tanti uomini parteci-pavano attivamente alla vita ecclesiale. Oggi non sembra essere più così. Per-ché secondo lei? Cosa si può fare per avvicinare più uomini alla Chiesa?

«L’unica cosa è tornare alle fonti, alla Pa-rola: leggerla e cercare, se possibile di ren-derla propria».

(a. scon)

Liberati: Noi giovani di Ac guardavamocon attenzione al dialogo interreligioso

Ricordi vivi, alimentati dall’aver con-tinuato ad approfondire quell’even-to storico di 50 anni addietro, che

certamente ha cambiato anche la sua vita di credente. È difficile tenere negli argi-ni di un’intervista Luigi De Tommasi, già direttore dell’Inps e giornalista di lungo corso, nel trienni 1962-1965 era Presiden-te dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, l’associazione che nei trienni successivi lo avrebbe visto presidente diocesano ed an-cora, fino a noi, responsabile del gruppo «Veritas in Charitate».

Cosa ricorda del periodo immedia-tamente precedente il grande evento dell’11 ottobre 1962?

«Una Chiesa, cosciente ed operosa, rispet-tosa delle verità della fede ma vissute più sulla base delle tradizioni che sulla forza intrinseca dei loro contenuti».

Come si preparò il laicato cattolico a quel grande evento?

«Il laicato militante rimase scioccato dall’annuncio di un evento di cui aveva preso cognizione solo per “sentito dire”. Tuttavia, per iniziativa dell’Azione Catto-lica e per lo zelo di mons. Giacomo Perri-no, studioso di elevato livello accademico, fu svolto, qui a Brindisi, nel salone della Provincia, un corso sulla storia dei Concili ecumenici e sui loro contenuti. I militanti più attivi e interessati ne appresero, così, le cognizioni più elementari cercando, poi, i contenuti più consistenti da qualche pub-blicazione che timidamente veniva offerta dalle Editrici Cattoliche».

Organizzavate delle iniziative diocesa-ne per far conoscere a tutti ciò che i pa-dri conciliari facevano a Roma?

«Non mancarono iniziative di carattere di-vulgativo, rimanendo, però, sulle generali. La stampa associativa, invece, fornì, un no-tevole contributo sui lavori conciliari. Un notevole apporto, sul piano dei contenuti, lo fornì il quotidiano cattolico con servizi puntuali e chiari di Raniero La Valle».

Quale fu la novità portata dal Concilio, che colpì maggiormente?

«Indiscutibilmente l’uso del vernacolo che consentì al popolo cristiano di accedere al significato dei riti sacri, all’amministrazio-ne dei Sacramenti, e alla conoscenza della Sacra Scrittura, con maggiore consapevo-lezza. Sarebbe, tuttavia, di grande utilità ai fini dell’universalità del culto, l’uso del latino per le preghiere frequenti».

Quale contributo di idee portò l’Azione Cattolica di quel periodo?

«Appunto quello del vernacolo. Durante le

Messe, prima del Concilio, alle quali erano presenti le Associazioni di Azione Cattoli-ca, si leggevano nella lingua corrente i testi biblici e qualche altro passo del sacro rito, mentre il Sacerdote continuava, a bassa voce, a celebrare».

È cambiata la Chiesa in questi decenni? Se sì, in quali aspetti?

«Sì e No! Sì, perchè ha raggiunto la con-sapevolezza di essere “popolo di Dio”. No, perchè tra gerarchia e laicato o, se voglia-mo, tra Chiesa docente e Chiesa discente, è rimasto pressochè immutato il distacco. Ciò implica, come dolorosa conseguenza, che il laicato è rimasto erroneamente nella convinzione di essere escluso dall’obbligo dell’Annunzio, al quale è tenuto in forza del Battesimo».

Secondo lei c’era più fede cinquant’an-ni fa, rispetto ad oggi?

«Credo che ci sia più fede oggi rispetto al passato, ma questa maggiore consapevo-lezza di fede è assorbita dal triste fenome-no del secolarismo al quale non pochi fe-deli si sono adeguati».

In quel periodo tanti uomini parteci-pavano attivamente alla vita ecclesiale. Oggi non sembra essere più così. Per-ché secondo lei? Cosa si può fare per avvicinare più uomini alla Chiesa?

«Le Associazioni ecclesiali, intesa l’espres-sione in senso ampio (ad es. le confraterni-te), hanno un ruolo primario e, direi, inso-stituibile nell’aprire alla Fede. La catechesi sistematica e l’esercizio della carità sono le vie maestre per rendere gli associati sem-pre più consapevoli e coerenti della loro appartenenza alla Chiesa».

(a. scon.)

De Tommasi: la maggiore consapevolezzadi fede assorbita dal triste secolarismo

ricordi Nostre interviste a due laici che hanno vissuto intensamente gli anni del Concilio

Il prof. Gianfranco Liberati

Il dott. Luigi De Tommasi

Torniamo ai documenti. «Da tempo la Chiesa italiana ribadisce la necessità di un adeguato recupero dei do-

cumenti del Vaticano II, affinché diventino la bussola del cammino pastorale nel nuovo millennio: esorta dunque a riprendere in mano il Concilio per riscoprirne la grandezza di stimoli dottrinali e pastorali» hanno sostenuti gli studio-si ed è ovvio che «non si può fare a meno di constatare che dopo 50 anni il Concilio resta un evento ancora da cono-scere appieno per molti».

In occasione del 50° anniversario dell’apertura del Conci-lio Vaticano II, ecco dunque, per le Edizioni Dehoniane di Bologna «Il Concilio Vaticano II» (pp. 160, Euro 13) di Ge-rardo Cardaropoli, l’anziano teologo francescano , che ha a lungo insegnato teologia fondamentale e sistematica e teologia pastorale, sia nei seminari, sia al Pontificio Ateneo

Antonianum di Roma, del quale è stato Rettore dal 1978 al 1984, dopo aver anche insegnato teologia pastorale nella Pontificia Università Lateranense e nella Pontificia Facol-tà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, sezione San Tommaso. «Il volume viene riproposto in una nuova edi-zione: l’intento è presentare la storia e la teologia del Vati-cano II in modo scientificamente documentato, ma anche non specialistico, accessibile a tutti, riducendo al minimo i termini tecnici ed evitando l’appesantimento delle citazio-ni», si sostiene , commentando l’opera di chi è oltremodo conosciuto non solo per quella sua «Introduzione al cri-stianesimo» (Paoline, Roma 1979), ma anche per quel più recente « Essere cristiano nel nuovo millennio» (Cittadella, Assisi 2002).

E quindi, dopo una doverosa e ben armoniosa premessa

alla nuova edizione e dopo una efficace «Introduzione», ecco che si parte con «I concili nella storia cristiana», quin-di si studia la «Chiesa e società moderna». Il III capitolo è dedicato alla storia del Vaticano, mentre i due capitoli con-clusivi guardano al dopo Concilio. Molto opportuna e ben efficace l’appendice, nella quale si offrono non solo «alcuni criteri per interpretare il Vaticano II», ma anche «Indicazio-ni per la bibliografia».

Insomma p. Cardaropoli fa un nuovo dono della sua dot-trina alla comunità: «il testo si rivolge quindi principal-mente a studenti, sacerdoti impegnati nell’apostolato, lai-ci animati dalla volontà di vivere responsabilmente nella Chiesa», ma anche gli studiosi più assidui frequentatori del Concilio possono trarre utili spunti da queste pagine.

letture Le Edizioni Dehoniane propongono uno scritto di Padre Gerardo Cardaropoli

“Il Concilio Vaticano II” e i suoi documenti

1715 dicembre 2012 50° Concilio e Anno della Fede 1715 dicembre 2012

La Chiesa di San Michele Arcangelo

di Antonio Chionna

Don Antonio Chionna ci pre-senta il suo ultimo lavoro (La

chiesa di S. Michele Arcangelo in San Vito dei Normanni tra storia arte e devozione, Edizioni Il Punto, pp. 246, Locopress, Industria Grafica di Mesagne, € 10), un impegno

preso con il com-pianto Card. Mi-chele Giordano, suo caro com-pagno di studi a Napoli, quando il 22 giugno 2007 venne a S. Vito ad inaugurare il bronzo di Maria Concetta Carluc-ci accanto alla “sua” chiesa..Nell’accurata pre-fazione Angelo Sconosciuto sot-tolinea le tante storie di vita di gente umile. Una memorabile sto-ria che ha origini negli anni venti del Novecento per la determina-zione di un’umi-lissima donna,

Maria Concetta Carlucci, capace di presentarsi davanti al vescovo, forte di una fede semplice, per realizzare una missione affidatale dall’Arcangelo Michele. Nel testo è ricostruito il culto di S. Michele in Puglia e in San Vito. Viene pre-sentata la figura di Maria Concetta Carlucci (1848-1927), nata in una famiglia povera, che traeva il ne-cessario per vivere da un pezzo di terra che veniva coltivata da ma-rito, moglie e figli. Poi le vicissitu-dini della costruzione della chie-sa, gli atti delle visite pastorali, le vicende dei lavori di restauro. La processione dell’8 maggio, le pra-tiche devozionali, un dettagliato inventario dei beni culturali esi-stenti nella chiesa. Dalla “chiesa tempio” alla “chiesa comunità” i rettori e i tanti laici, gli uomini, le donne per la cura degli altari, i sacrestani (il popolarissimo “Sa-riuccio”), i chierichetti, le Scholae Cantorum, i bravi artigiani che al-lestivano i “Sepolcri” del Giovedì Santo e i presepi, tutti comprimari di questa storia, con l’impegno e la loro beneficenza spesso anoni-ma. La cura pastorale e socio-culturale di don Antonio, cultore di studi pa-tri, che ricerca e scava nella micro-storia di una comunità, ha portato ad una puntuale ricostruzione. Or-mai unico custode di tanti ricordi, li affida alla memoria di una città che non deve dimenticare il suo passato. Un volume-album di ri-cordi, curato magistralmente dalla Locopress, che dovrebbe entrare nelle famiglie, scuole, biblioteche, comunità parrocchiali, il cui rica-vato andrà a finanziare altri lavori della chiesa.Storia di fede e vita quotidiana, che coincide con una autobiogra-fia, trattata in modo accorato, ma con delicatezza, evitando di parla-re di sé, se non in conclusione, su-perando le preoccupazioni per il futuro di questa chiesa, nella pre-ghiera: “l’Arcangelo Michele vegli dall’alto su questa città, ma in particolare sugli abitanti di questo rione”.

Ernesto Marinò

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o 365 motivi per non avere paura

di Maurizio Mirilli

“L’assenza di paura presup-pone la calma e la pace

dell’anima. Per essa è necessario avere una viva fede in Dio”. Po-tremmo partire da questa solle-citazione di Ghandi per introdur-ci nel libro “365 motivi per non avere paura” (San Paolo, pp. 425

euro 14.90) di Maurizio Mirilli, sacerdote nato a Mesagne (Br), attuale Direttore del Servizio per la Pastorale Gio-vanile della Dio-cesi di Roma.Sono tempi que-sti, quasi scon-tato sottolinear-lo, fortemente carat ter iz z at i da timori, incer-tezze, fragilità e che conducono, spesso, ad un senso di smarri-mento ed inade-guatezza.La via d’uscita, l’unica, come sostiene M. Coz-zoli nella prefa-zione al testo,

può essere solo “l’incontro con la Parola della vita”.Don Maurizio Mirilli ci propone, infatti,in una scansione quoti-diana, giorno dopo giorno, mese dopo mese, per un anno intero, un incontro con la Parola–Luce, che smuova dal torpore, dallo scoramento, dalla paura che at-tanaglia.È un libro che trova la sua genesi nell’ordinaria attività di Don Mau-rizio il quale, vivendo accanto ai giovani, ascoltando i loro timori, le loro titubanze e insicurezze, e percependo questi come mag-giori ostacoli alla realizzazione di una vita serena, propone loro 365 inviti a “non temere” presenti nella Bibbia: una frase al giorno, una pensiero al giorno o, come definite dallo stesso autore, “una carezza al giorno”. Riconducibili a varie esperienze e circostanze quotidiane, questi “inviti” offrono tanto una parola di consolazione ad un dolore, quanto un incorag-giamento o una esortazione alla speranza per una concreta indi-cazione nella propria vita.La prospettiva con la quale l’auto-re ci “conduce per mano” è quel-la di non lasciarsi sopraffare dai timori, piuttosto di comprenderli, affrontarli e liberarsene. Come egli stesso sostiene, nella rifles-sione dell’ultimo giorno dell’an-no, il suo augurio è quello di aver fornito “365 motivi per buttar via la paura”, col sostegno della Pa-rola di Dio e di Gesù, fonte e cul-mine della nostra esistenza.È un libro pensato e concepito per i giovani, prediletti interlocutori di Don Maurizio, le cui riflessioni, nascono, appunto, dall’ascolto di storie ma anche dalla condivisio-ne di percorsi di vita e di fede. Ma è un libro che si rivolge a tut-ti, che parla al cuore di chiunque sia afflitto dalla “paura” del no-stro tempo, e che può rasserena-re l’anima di ognuno di noi.Emblematiche, nell’Anno della Fede, le ultime due righe: “Non temere di credere. Tu vieni da Dio e a Dio ritornerai”.

Ermanna Salamanna

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o Un prete da cantiere e sul cantiere

di Giuseppe Capriglia

Finalmente un libro del quale non si dice: «Si legge tutto d’un fiato».

«Un prete da cantiere e sul cantiere» (Nuova Ga srl, pp. 121), scritto da don Giuseppe Capriglia, parroco del-la Concattedrale di Ostuni, è un libro impegnativo, perchè nasce dall’espli-citazione di pagine di diario che il

prete conti-nua a tenere: non una mera «nota della la-vandaia», che pure talvolta è utile per fissare sulla carta ope-re ed azioni, ma fogli densi di riflessioni: risonanze a conclusione di un percorso. Traguardo e partenza allo stesso tempo.Mentre il parro-co Capriglia su-pervisionava la costruzione del tempio di pie-tra della zona 167 di Ostuni, volendo ren-dersi conto di

persona di alcune questioni portanti della chiesa stessa non attese alcu-no e fece da sè. «Uno degli operai, continuando a mettere le travi - lo racconta lui stesso nella “Introduzio-ne” -, ha detto: per tutta la vita tu sarai sempre un prete da cantiere. Ecco la frase di cui ho parlato all’ini-zio - riprende -: essa racchiudeva un messaggio, quasi una profezia, come a volermi fare intendere che il Signo-re mi avrebbe affidato altri cantieri, non limitati a costruzioni materiali, ma aperti alla formazione ed alla crescita di nuove comunità».E se un prete da cantiere si tro-va bene con gli edili nella «Chiesa tempio», figuriamoci come debba trovarsi a suo agio nella «Chiesa-co-munità», nel «cantiere di anime» che di volta in volta gli viene affidato. E non distingue, don Capriglia, tra re-sponsabilità di direzione dei lavori e umiltà-serietà del lavoro manuale: sa bene che «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’an-golo» e quindi, nei capitoli del suo libro, non intende sciorinare un ma-nuale di scienza delle costruzioni, ma più semplicemente (e profonda-mente) una serie di «esercizi», par-tendo dalla convinzione che «non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo una perenne novità di vita umana e spirituale».«Nello scrivere questo opuscolo non ho sottratto tempo al popolo di Dio che mi è stato affidato - dice ancora don Capriglia -, ma solo al mio ripo-so pur di far comprendere ai fedeli che mi hanno conosciuto come il Signore si serve di qualsiasi cosa per attirare a sè tutti gli uomini. Dob-biamo tutti quanti avere sempre presente un Dio che gioca con noi a nascondino - sottolinea, ricordando un fortunato capitolo di questo libro -, mentre stiamo sul cantiere della vita, per sentirlo più vicino». E forse la dimensione del gioco - «che è cosa serissima», dicono quelli che di gioco s’intendono - è la migliore per com-prendere tutto di Dio. Pagine che fanno comprendere la grandezza di ciascuno, se diventa «cantiere» per realizzare un’idea-progetto riservata a ciascuno da un grande costruttore.

(a. scon.)

libri18 15 dicembre 2012

DI NUOVO IN GIOCO regia: Robert Lorenz

Nonostante dopo il suo ultimo film, da regista e attore, “Gran Torino” del 2008, avesse annun-ciato il suo ritiro dalle scene cinematografiche, Clint Eastwo-od torna, solo come interpre-te, nella pellicola “Di nuovo in gioco” diretta da Robert Lorenz. Forse lo ha fatto per amicizia, visto che Lorenz è suo amico e socio della sua casa di pro-duzione Malpaso e ha lavorato con lui in alcuni suoi film, o for-se aveva semplicemente nostal-gia del grande schermo. Quale che sia la ragione è un piacere che abbia ripensato alla sua scelta e che il pubblico possa continuare a vederlo in nuove pellicole. Certo, bisogna dirlo subito, non siamo di fronte a un capolavoro, come molti dei film a cui Eastwood ci ha abi-tuato, ma l’opera ha dei suoi pregi, legati soprattutto al tema che l’attraversa. E cioè quello della famiglia, del rapporto tra un padre e una figlia che sem-brava impossibile e che invece viene recuperato, delle secon-de possibilità che la vita ti offre per porre rimedio a degli sbagli del passato e dell’opportunità che cose vissute negativamente, come la malattia e la vecchiaia, possono invece regalarti.Il film racconta la storia di Gus, uno dei migliori scout nel mon-do del baseball, da decenni. Con l’avanzare dell’età, però, sta perdendo la vista e facili-tando il compito di chi, sul la-voro, vorrebbe fargli le scarpe, considerandolo ormai un peso. Sua figlia Mickey, brillante avvo-cato in carriera, convinta da un amico di famiglia, si offre di ac-compagnarlo nel Nord Carolina, per aiutarlo a decidere se un giovane battitore è davvero la promessa che sembra. Da parte

sua, però, Gus non ha mai fatto altrettanto per stare vicino alla figlia, dopo la morte della mo-glie, e la trasferta si rivela per la ragazza l’occasione per mettere il padre alle strette ed esigere una spiegazione. Sarà un con-fronto difficile e contrastato ma alla fine del viaggio i due trove-ranno una complicità mai avuta e costruiranno quel rapporto per così tanto tempo negato. Nonostante a volte i dialoghi non siano proprio all’altezza, il film è comunque una bella storia d’amore filiale e pater-no, perfettamente recitata da Eastwood e da Amy Adams che interpreta sua figlia. Il vecchio attore americano è bravissimo nella sua parte di burbero sen-za scampo che, però, alla fine cede e riesce, accettando le sue fragilità, ad accogliere l’aiuto della figlia e finalmente a par-larle sinceramente. La Adams, d’altro canto, è altrettanto bra-va a rendere la complessità di un personaggio insicuro che per tutta la vita, dalla morte della madre, non ha fatto altro che cercare l’affetto e la stima del padre. Ci troviamo di fronte a un film, dunque, estremamente classico per regia (punta tutto sugli attori e su una narrazione chiara e precisa) e per morale veicolata.Quel cinema classico che propo-neva sempre storie con una mo-rale ben precisa, in cui i princi-pi etici venivano messi in primo piano. È questo aspetto a nobi-litare una pellicola un po’ trop-po prevedibile, perché troppo spesso si assiste a film che di-struggono ogni tipo di speranza e visione etica del mondo. Men-tre l’anziano Clint Eastwood ci ricorda il valore di una serie di principi che sono indispensabili nella vita di ognuno.

Pa.Da.To.

UNA FAMIGLIA PERFETTAregia: Paolo Genovese

Arriva il Natale e anche il cine-ma si adegua, offrendoci tante commedie per poter passare le feste con divertimento e insie-me alle proprie famiglie. Final-mente senza i troppo spesso volgari cinepanettoni. Per risco-prire così il valore degli affetti e del nucleo familiare, che si fa più pressante durante le vacan-ze.In una villa di campagna nei pressi di Todi, un cinquantenne misterioso, ricco e solo, decide di affittare una compagnia di attori per far interpretare loro la famiglia che non ha mai avuto in occasione delle feste natalizie. Leone, il singolare padrone di casa, adesso ha una moglie, un fratello, una cogna-ta, tre figli e una mamma, ma la finzione e la realtà si mesco-leranno fino al sopraggiungere di un personaggio imprevisto dal copione che cambierà per sempre la sua vita.“Una famiglia perfetta”, il nuo-vo film di Paolo Genovese, inizia con una situazione che sembra un idillio natalizio ma presto viene ribaltato dall’entrata in scena di un Sergio Castellitto che alla presunta rilassatezza del quadro aggiunge una nota tesa, quasi tagliente: il suo pri-mo scontro con la scalcinata compagnia ansiosa di riuscire a rispettare le linee guida della farsa è sulle caratteristiche fisi-che del piccolo Daniele, troppo grasso per interpretare suo fi-glio, in un godibile aggiorna-mento di una ferocia da troppo assente nella commedia italia-na contemporanea. Scorbutico e dispotico, quasi fosse un ag-giornamento dello “Scrooge” di-ckensiano, Leone vede scorrere davanti ai suoi occhi il Natale (e la vita) che avrebbe potuto ave-re nel passato e che, trattandosi

di una commedia per famiglie, riuscirà ad avere nel suo imme-diato futuro. Innegabilmente al di sopra del livello medio dei nostrani titoli natalizi, la pel-licola risente forse di qualche lungaggine e finisce, nella coda, con l’indulgere a quel buonismo tenuto alla larga all’avvio.Alla base della sceneggiatura c’è lo spagnolo “Familia” (1996) di Fernando León de Aranoa, inedito in Italia, e il film, uscito a pochi giorni di distanza da “Il peggior Natale della mia vita”, regia di Alessandro Genovesi, inizia così la grande battaglia fra commedie che vedrà l’arrivo di ben sei pellicole italiane.Il film di Genovese non è pro-priamente un film comico come quello di Genovesi, incentrato su più situazioni grossolane e dalla risata semplice, e rispet-to ai suoi due “Immaturi”, in-dirizzati ai trenta-quarantenni, Genovese cerca qui di costruire qualcosa di più complesso e profondo, affidando ai suoi at-tori delle ombre di ambiguità e sofferenza. Più articolato e più drammatico de “Il peggior Na-tale della mia vita”, toccherà un pubblico forse meno giovane ma sicuramente più attento. Fa-cendo riflettere sulla solitudine di tante persone nella contem-poraneità, specchio della deso-cializzazzione dei nostri tempi postmoderni, e della necessità di legami familiari e affettivi come base per ogni vita felice e appagata.

Paola Dalla Torre

rapporto censis 2012 Internet è il vero protagonista

Italiani, più social che mai Il Papa su twitter

“Cari amici, è con gioia che mi uni-sco a voi, grazie per la vostra ge-

nerosa risposta, vi benedico di cuore”. È questo il testo del primo “tweet” del Papa, inviato dallo stesso Benedetto XVI al termine dell’udienza generale del 12 dicembre, “cliccando” su un tablet predi-sposto per l’occasione. Il primo “tweet” di Benedetto XVI è stato salutato da un applauso dei circa 4.500 fedeli presenti nell’ Aula Paolo VI. La presenza del Papa su Twitter «è un’espressione concreta della sua con-vinzione che la Chiesa deve essere pre-sente nel mondo digitale». Così mons. Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, ha spiegato in un’intervista la presenza di Benedetto XVI sul social network. «La presenza del Papa su Twitter - ha conti-nuato mons. Tighe - vuole essere, in sin-tesi, un appoggio e un incoraggiamento a quanti s’impegnano per assicurare che il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa possano permeare il “continente digita-le”». Parlando del messaggio e dell’impegno che il Papa lancia alla comunità cristia-na, mons. Tighe sottolinea «innanzitut-to la disponibilità di Benedetto XVI - un uomo di 85 anni - a mettersi in gioco, entrando con coraggio, ma anche con semplicità, all’interno di questo spazio comunicativo. In fondo ciò che caratte-rizza la Chiesa è la passione per l’uma-nità».

Il Censis ha pubblicato il “Rapporto sulla situazione so-ciale del Paese”, giunto ormai alla sua 46ª edizione, un ritratto (fra gli altri) del rapporto tra gli italiani, la comu-

nicazione e i media. La tendenza dei consumi mediatici degli italiani è chiara: la televisione inizia a perdere importanza a favore dei nuovi media digitali, mentre la carta stampata re-sta ai margini delle preferenze del Belpaese.

Il 98,3% degli italiani guarda la televisione, una percentua-le in aumento dello 0,9% rispetto al 2011 soprattutto grazie al progressivo completamento della sostituzione del digitale terrestre e al successo delle piattaforme alternative: alla tv satellitare, che conferma il suo successo ormai consolidato (+1,6%), si affiancano anche la web tv (+1,2%) e la mobile tv (+1,6%). Il pubblico televisivo è aumentato, ma non i tele-spettatori. Oggi gli italiani guardano i programmi televisivi in modo nuovo grazie a Internet. Il 24,2% degli italiani che ha una connessione alla Rete (quasi 1 su 4) ha l’abitudine di seguire i programmi dai siti web delle emittenti televisive e il 42,4% li cerca su YouTube per costruirsi i propri palinsesti d’informazione o d’in-trattenimento su misura. Un fenomeno ancora più importante fra gli internauti tra i 14 e i 29 anni, che arrivano a percentuali rispetti-vamente del 35,3% e del 56,6%. Anche la radio ha beneficiato della Rete: i radioascoltatori sono aumenti del 3,7% rispetto al 2011 (rag-giungendo quota 83,9% della popolazione), grazie all’aumento degli ascolti della radio via web tramite il pc (+2,3%) e per mezzo dei tele-foni cellulari (+1,4%).

Internet è il vero protagonista del 2012. Il 62,1% degli italiani ha una connessione alla Rete (+9% in un anno), dato che sale nettamente nel caso dei giovani (90,8%), delle persone più istruite, diplomate o laureate (84,1%), e dei residenti nelle grandi città, con più di 500.000 abitanti (74,4%). Internet per gli italiani è sinonimo di social. Anche grazie alla diffusione sempre più capill are degli smartphone (nelle

mani del 27,7% della popolazione complessiva e del 54,8% di quella compresa tra 14 e 29 anni) e dei tablet (utilizzati dal 13,1% dei giova-ni nostrani) il 2012 ha visto l’esplosione dei social network: il 41,3% dell’intera popolazione e ben il 79,7% di quella giovane è iscritta a Facebook, mentre YouTube è visto d al 38,3% degli italiani. I nuovi dispositivi mobili hanno anche avviato una nuova economia, l’app economy. Negli ultimi dodici mesi il 37,5% di possessori di smart-phone e tablet ha scaricato applicazioni gratuite o a pagamento (il 16,4% frequentemente, il 21% qualche volta).

L’esplosione dei social media ha avuto come effetto la moltiplica-zione delle informazioni personali in Rete, con gli italiani divisi tra la voglia di raccontarsi (il 51,2% degli utenti dei social network pubbli-ca informazioni personali e il 7,1% pubblica informazioni e fotogra-fie di altri) e la paura per la propria privacy (il 75,4% di chi accede a Internet ritiene che esista il rischio che la propria privacy possa esse-re violata sul web).

Antonio Rita

Vaticano, 12 dicembre: Benedetto XVI invia il suo primo tweet

1915 dicembre 2012 Cultura & Comunicazione

Per molti era diventato un sim-bolo del calcio pulito, una bandiera da sventolare contro

i malaffari del pallone e i troppi suoi colleghi che si erano venduti per un pugno di euro. Dopo pochi mesi però quasi tutti si sono dimenticati di Si-mone Farina, il ragazzo che, quando giocava in Serie B con il Gubbio nel 2011, rifiutò 200 mila euro per truc-care le partite. Certo, in molti, anche a livello internazionale, lo hanno ad-ditato come uno dei pochi ragazzi in grado di opporsi al marcio dello scandalo scommesse, lo hanno pure premiato in varie occasioni per la sua denuncia forte, che ha spezzato un mondo troppe volte omertoso, ma poi si sono dimenticati di lui troppo in fretta.

Denunciando la combine, era stato colui che aveva favorito l'apertura di un filone fondamentale delle inda-gini: aveva rifiutato molti soldi per poter ancora guardare in faccia com-pagni, tifosi e la sua famiglia, rice-vendo elogi praticamente da tutto il mondo del calcio e forse, quello che più conta, anche dal segretario gene-rale dell'Interpol Ron Noble. Con il passare del tempo, però, paradossal-mente questo gesto non ha portato vantaggi concreti: nessuno, infatti, si è fatto avanti, anche in categorie in-feriori, per proporgli un ingaggio per questo campionato e, alla fine, il di-fensore ha dovuto guardarsi attorno, provare a proporsi anche all'estero, per continuare a giocare.

Un colpo di scena, però, era dietro l'angolo: una grande del calcio d'Eu-ropa, già vincitrice della Champions come l'Aston Villa, ha creduto in lui,

ingaggiandolo e facendolo esordire nel calcio che ha la più grande visibi-lità a livello mondiale. Soddisfazione doppia per Simone, anche se i rim-pianti restano, come ha giustamen-te sottolineato il ct azzurro Cesare Prandelli, molto colpito dal fatto che il ragazzo avesse dovuto emigrare. "L'Italia - ha detto il ct - non gli ha dato un'opportunità, c'è amarezza perché la sua immagine sarebbe ser-vita al nostro calcio".

Un calcio con la memoria corta, che tra qualche tempo potrebbe di-menticare non solo il gesto di Farina, ma anche il baratro in cui era spro-fondato e in cui forse dovrà ancora continuare a dibattersi, se è vero che potrebbe uscire a breve altro marcio dalle viscere di un pallone esausto, che non sa più dare esempi virtuosi ai giovani, ma sa solo prendere, con mezzi più o meno illeciti, utilizzando il gioco più bello del mondo come fonte di guadagno, costi quel che costi. Chissà quante volte gli sporti-vi inglesi chiederanno a Simone di raccontare la sua storia, proprio là, in Inghilterra, dove le scommesse sono nate, ma dove, in caso d'illeci-ti, la giustizia penale, prima ancora di quella sportiva, interviene in ma-niera severissima, senza fare sconti a nessuno e in tempi certi.

È stato San Francesco la figura di rife-rimento del Meeting 2012 del Centro sportivo italiano, che si è svolto ad

Assisi. «La figura di Francesco - ha spiegato don Alessio Albertini, consulente eccle-siastico nazionale del Csi - è affascinante, ma è soprattutto il paradigma di un uomo vero, che ha cambiato la sua vita, e quella di tante altre persone, quando ha incontra-to Dio e ha scelto di seguirlo totalmente». Le parole di Francesco, dal Cantico delle Creature a tutte le altre, erano buone. «E le parole buone - ha sottolineato don Alber-tini - sono un ponte gettato verso gli altri. Le parole buone sono quelle che può dire ogni donna e uomo del Csi creando rela-zioni con gli altri e promuovendo percor-si di maturazione, nella fede e nel solco del Vangelo, che coinvolgono davvero tutti». Vicini ai giovani. La parola è passata all’al-lenatore di calcio Emiliano Mondonico, ne-oambasciatore dello sport in oratorio: «Ho allenato una vita in serie A, ma a 50 anni, forse troppo tardi, ho scoperto il gusto del volontariato, quello che con una pacca sulla spalla, ti gratifica. Ho cercato di rimediare; ed eccomi una volta a settimana all’oratorio di Lodi, a insegnare calcio a bambini di 5 o 6 anni, e ai loro genitori». Un altro allenamen-to speciale è quello che Mondonico conduce una volta a settimana, da volontario, a perso-ne con dipendenza da alcool, da internet, dal gioco d’azzardo, e da cocaina: «Ogni settima-na un allenamento tipo, che sorprende gli psicologi per partecipazione. Ogni settimana 10 nuovi elementi in campo, ma sempre con lo stesso risultato di trovarli reattivi fino al termine della partitella». Ambasciatore dello sport oratoriale è anche Mauro Berruto, ct dell’Italvolley bronzo a Londra 2012: «L’at-tività sportiva è l’occasione in cui gli uomi-ni sono spinti a eccellere, cioè a mettere in campo e a realizzare il proprio potenziale. Per questo credo che sia necessario da parte

delle Istituzioni, delle realtà sportive territo-riali, della scuola, un doppio investimento a favore dello sport: economico ed emoziona-le». «Ai nostri giovani dobbiamo dare un proget-to, la gioia di inseguire un futuro», ha soste-nuto Josefa Idem, campionessa di canoa e nuova ambasciatrice dello sport in oratorio.L’impegno a educare. Al Meeting del Csi è intervenuto anche mons. Mario Lusek, di-rettore dell’Ufficio nazionale di pastorale per il tempo libero, turismo e sport della Cei, per il quale l’impegno del Csi nella Pastorale dello sport, soprattutto in questo Anno del-la fede, deve porsi alcuni obiettivi. Innanzi-tutto, aiutare a superare il «verbalismo» at-traverso «uno sport per l’uomo, quello che mette al centro la persona, che non la mi-tizza, ma la libera rendendola capace di rag-giungere la meta». Superare l’«estetismo», recuperando la «bellezza del gesto atletico, dell’armonia delle varie pratiche sportive, la bellezza del vincere dopo la fatica e gli sforzi della preparazione, la bellezza di non sentir-si dei perdenti dopo aver subito una sconfit-ta non prevista, la bellezza di appartenere a una squadra, dove amicizia e solidarietà s’in-trecciano». Superare, infine, il «moralismo»: «Purtroppo anche il gioco, lo sport, si è fatto sporco: azzardopoli, scommessopoli, calcio-poli, alcune tragiche morti per suicidio nel mondo dello sport sono segnali che la visio-ne mercantile della vita ha inquinato un po’ tutto il tessuto sociale e che anche settori che richiamano i valori della festa, della gioia, dell’entusiasmo, della felicità, dell’avventura non riescono più a soddisfare o dare risposte al desiderio di vita, di realizzazione, di felici-tà di tanti nostri giovani. Siamo interpellati e chiamati non a produrre risultati, spettacolo, ma a educare, educare, educare ancora», ha concluso mons. Lusek.

Gigliola Alfaro

giovani e sport� Il meeting del Csi ad Assisi

Sui campi del futurodon albertini

nuovo assistente csi sport in oratorio

accordo lega a-tim

Don Alessio Cirillo Albertini è il nuo-vo consulente ecclesiastico nazio-

nale del Centro Sportivo Italiano. La sua nomina per il triennio 2012/2015, ad opera del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, è stata comunicata al CSI venerdì 28 settembre dal Segretario generale della CEI, mons. Mariano Crociata.

Don Alessio svolgerà il suo incarico senza abbandonare le responsabilità e gli impegni pastorali che la Diocesi am-brosiana gli ha affidato.

Nel dare il benvenuto al nuovo consu-lente, la cui nomina costituisce un dono della Chiesa ed un immenso regalo per tutto il CSI, l’Associazione ringrazia la Conferenza Episcopale Italiana per l’at-tenzione e la fiducia che costantemente dimostra nei propri confronti, e la Dio-cesi di Milano che con generosa dispo-nibilità ha consentito a don Alessio di impegnarsi nel CSI nazionale.

Don Albertini subentra a mons. Clau-dio Paganini, tornato alla Diocesi di Bre-scia. A lui va la riconoscenza dell’intera Associazione arancioblu per l’immensa quantità di bene che, con generosità e dedizione, ha seminato nei quasi 7 anni del suo incarico come Consulente eccle-siastico nazionale.

Tra le nomine deliberate dal Consiglio Permanente della Cei, la conferma nel ruolo di Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turi-smo e sport di Mons. Mario Lusek, cap-pellano del Team Italia alle Olimpiadi, e sacerdote sempre prossimo alle iniziati-ve e alle attività del Centro Sportivo Ita-liano.

È stato ufficializzato lo scorso 19 no-vembre, nel corso dell’Assemblea di

Lega, il protocollo tra CSI, Lega Calcio di Serie A e Tim a favore dello sport in oratorio. Si tratta di una novità epocale. Tra le iniziative previste nel protocollo, la nascita della prima edizione della “Ju-nior TIM Cup 2013 – Il calcio negli Ora-tori”, un torneo di calcio a 7, riservato a giovani under 14, che vedrà protagonisti - a partire da febbraio 2013 - gli orato-ri delle 16 città le cui squadre militano nella Serie A TIM 2012-2013.

Nel corso della stagione ai ragazzi sarà anche offerto un palcoscenico d’eccezio-ne: in ciascuna delle 16 città che oggi ospitano la serie A, una partita di que-sta competizione, a sorteggio, si dispu-terà infatti negli stadi in cui giocano le squadre del massimo campionato, nel pre-partita dei match di Serie A TIM. Le fasi finali della Junior TIM Cup (le 16 vin-centi delle fasi cittadine) si svolgeranno allo Stadio Olimpico di Roma in antepri-ma alla finale della TIM Cup 2013.

A finanziare l’iniziativa sarà, in parte un fondo alimentato dai proventi delle ammende comminate a Calciatori e So-cietà dal Giudice Sportivo della Serie A TIM. Inoltre Tim riprenderà e racconterà “storie di sport in oratorio” con l’obiet-tivo di raccontare “il calcio è di chi lo ama”, e promuovere così i valori auten-tici dello sport.

«Non posso nascondere l’entusiasmo per questo accordo storico – ha afferma-to il presidente nazionale del Csi, Massi-mo Achini. Prendendosi per mano Calcio di Serie A e calcio degli oratori possono fare veramente cose inimmaginabili per il bene dei ragazzi».

gran prix della legalità

Il C.S.I. - Centro Sporti-vo Italiano – Comitato

Provinciale di Brindisi, in collaborazione con il Comitato Regionale di Puglia, nell’ambito del progetto “Sport Edu-cational”, ospitarà sul proprio territorio, una manifestazione sporti-va che coniuga il moto all’aria aperta con le tematiche di interesse sociale. Queste sono in-fatti le caratteristiche peculiari del “Gran Prix della Legalità”, fase pro-vinciale e regionale del Campionato Naziona-le di Corsa Campestre 2012/2013 del C.S.I.La manifestazione avrà luogo domenica 16 di-cembre 2012, a partire dalle ore 8:30, a Torchia-rolo (Br), presso la villa confiscata in contrada Santa Barbara e affidata alla cooperativa di Libe-ra Terra.Il Gran Prix vede la colla-borazione di Libera Ter-ra e si avvale inoltre del patrocinio del Comune di Torchiarolo, del Coni-Comitato provinciale di Brindisi, della Regione Puglia e della Provincia di Brindisi.

calcio Simone Farina e gli eroi dimenticati

La memoria corta

Una grande tripletta, per cer-ti versi inattesa, che ci fa ben sperare in vista di quel

febbraio 2013, in cui i Mondiali di Schladming ci diranno se lo sci az-zurro è davvero pronto per ricoprire un ruolo di protagonista assoluto. In Colorado i nostri sciatori hanno di-mostrato che tenacia e applicazione, se ben assortite con un’ottima tecni-ca di base, oggi fanno ancora la diffe-renza nonostante i materiali rivesta-no ormai un ruolo da star in questo circo bianco. Ma Christof Innerhofer prima, Matteo Marsaglia e Davide Simoncelli poi, hanno dimostrato che il fattore umano conta ancora, e parecchio. Così, i nipotini di Thoeni e Gross o se volete i fratelli minori di Alberto Tomba hanno fatto vede-re nella trasferta americana piccoli scorci di valanga azzurra che atten-devamo dai tempi di Torino 2006.

Se non è ancora valanga, è almeno slavina azzurra, perché un weekend come quello vissuto in Colorado non lo si ricordava proprio dai tempi del-lo squadrone capitanato da Mario Cotelli, quando era Plank a vincere la libera di venerdì, mentre sabato e domenica, i vari Thoeni, Gross, ma anche Radici, Chiesa o Pietrogiovan-na erano lì a battagliare per il suc-cesso in gigante o in speciale. Sono segnali importanti, perché all’appun-tamento dell’anno in Austria man-cano meno di 80 giorni e oltre ai tre vincitori americani c’è un Manfred Moelgg che scalpita tra i paletti.

Tutto nasce da un approccio alla stagione diverso, pur avendo con-servato l’ossatura sia in fatto di atleti sia di staff. Il cambiamento è figlio di

diverse modalità nell’allenamento e nell’approccio alla gara: i ragazzi (ma anche le ragazze che stanno recupe-rando velocemente il tempo perdu-to) quest’anno sono arrivati in Ame-rica prima, per assaggiare la neve, provare e riprovare piste e pendenze, collaudare gli ultimi sci e materiali. Due vittorie e quattro podi nelle pri-me sette gare di Coppa del mondo ci fanno sognare, sono un patrimonio importante, che da qui a febbraio il ct Claudio Ravetto ha il compito di non disperdere, incoraggiando i suoi, ma senza esagerare, perché a queste ve-locità sulle piste solo concentrazione e “fame” fanno la differenza.

Anche tra le donne siamo certi che da qui a febbraio i progressi ci sa-ranno, a cominciare da Irene Curto-ni, già quinta in gigante ad Aspen e poi bissata dalla bella performance in libera di Daniela Merighetti: sarà fondamentale, comunque, il gioco di squadra per arrivare al Mondiale caricati e tornare a disputare le gare con la giusta carica e senza quell’ec-cessiva pressione che, in un recente passato, è stato l’handicap più visto-so per i nostri sciatori.

sci Gli azzurri si preparano ai mondiali

Un inizio promettente

Sport20 15 dicembre 2012

Con la presente vorremmo esprimere tutta la nostra vicinanza e la no-stra attenzione agli avvenimenti che si stanno succedendo nelle ulti-me ore presso gli stabilimenti ILVA di Taranto e del resto d’Italia.

A costo di apparire ripetitivi, ma ben lontani da discorsi di mera demago-gia e frasi di circostanza che non sono d’aiuto a nessuno, ribadiamo la nostra ferma condanna alla sconsiderata decisione, da parte dei dirigenti dell’IL-VA, di interrompere il ciclo produttivo, causando la perdita di lavoro a più di 20.000 persone.

Ventimila famiglie che da questa mattina non hanno più la certezza della paga e vedono giustamente in pericolo il futuro proprio e dei propri figli.

Condanna perché, ancora, per l’ennesima volta, non è stato messo l’Uomo al centro di qualsiasi presa di posizione, ma logiche di profitto e di interesse. Impossibile non citare le parole di Papa Benedetto XVI pronunciate a Madrid nel corso della GMG del 2011: “L’uomo deve essere al centro dell’economia. Molti giovani guardano al futuro con preoccupazione di fronte alla difficoltà di trovare un lavoro degno, o perché l’hanno perso o perché hanno un’occupa-zione precaria”.

Se il lavoro, come sancito dalla nostra Costituzione, è un diritto per l’uomo, come può l’uomo sopravvivere senza? Come si può barattare il lavoro con la salute? Con quale coscienza si decide della vita e della morte di un’intera po-polazione con tanta leggerezza? Scrive L’Avvenire: “E’ davvero il blocco totale la via adeguata per ristabilire la giusta scala tra valori e diritti, per comporre il contrasto fra salute e lavoro? Non vorremmo infatti che l’apprezzabile impe-gno verso la tutela della vita, venga oggi assunto al grido fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo, con le famiglie degli ope-rai e il Paese tutto”.

L’ILVA di Taranto ha sempre rappresentato, per noi Salentini, tutto il bene e il male che la nostra terra martoriata potesse offrire. Il “mostro di acciaio” che sporca di polvere rossa strade, case, mare e polmoni, è stato visto negli anni come una delle poche, rarissime, opportunità di sopravvivenza per mi-gliaia e migliaia di uomini e donne che su quei turni di lavoro hanno fonda-tola propria vita, la propria famiglia, il proprio futuro. Uno sviluppo per tutto il Sud Italia, una goccia nel mare della disoccupazione, tra la piaga del lavoro nero e dell’emigrazione verso le Regioni del Nord che ha svuotato i nostri pa-esi di menti e di braccia.

E d’altra parte, un’economia volutamente centralizzata sull’acciaieria ha impedito lo sviluppo di altri settori pur importanti che sarebbero dovuti fiori-re accanto ad essa: l’agricoltura, il turismo, l’allevamento, la mitilicoltura così tipica delle coste tarantine. E chiuso entrambi gli occhi sui danni ambienta-li legati a questo sfruttamento scellerato del patrimonio territoriale, che ha permesso ad alcuni di arricchirsi in maniera sconsiderata con l’arroganze delle minacce di chiusura e di licenziamenti di massa, e ad altri di sfidare ogni giorno la vita e la salute senza certezze e senza speranze.

Stretti fra la “città rossa” tarantina ed il comparto industriale brindisino che non è da meno in termini di nocività per persone e ambiente, possiamo dire in coscienza di aver sempre avuto parte attiva nella condanna degli errori (tanti) commessi e nella pretesa di tutela nei nostri stessi confronti? Non sia-mo stati forse anche noi, tutti, risucchiati da questa corsa al progresso e alla sicurezza economica, tanto da non riuscire a comprendere le conseguenze che di lì a poco sarebbero sorte?

Quanto hanno fatto, di concreto, i nostri politici locali per scongiurare que-sta tragedia? Siamo proprio certi che anche loro non si siano lasciati abba-gliare dagli affari nazionali, dai riconoscimenti in ambito extra-regionale, dalla “teoria”, trascurando la “pratica”, la presenza in loco tra gli operai, tra la gente, facendo sentire il loro peso qui dove esso dovrebbe essere messo al servizio di chi si rappresenta e si dovrebbe tutelare?

Il presunto disastro ambientale contestato ai dirigenti dell’ILVA non è un problema degli ultimi giorni, da sempre sono circolate mezze verità, false

voci, tentati procedimenti, filmati di scempi e testimonianze di storie di ma-lattia e di morte di lavoratori, di bambini, di cittadini residenti nel circonda-rio. Chi ha ascoltato la voce del popolo? Presso chi ha trovata eco? Perché solo ora tutto il marcio è venuto fuori? Com’è corta la nostra memoria! La nostra e quella dei nostri rappresentanti! Abbiamo dimenticato i funerali dei tanti operai dei nostri Comuni morti per mancanza di misure di sicurez-za all’interno degli stabilimenti, la disperazione delle famiglie coinvolte, il dramma degli invalidi, il tormento dei colleghi che non sono riusciti a sal-vare i propri compagni… Ogni volta si diceva “Mai più!”, ma il giorno dopo si era punto e a capo.

Diceva bene Sciascia: “Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”.

È necessaria allora la condanna di tutti noi. Oggi.Ferma ed espressa a voce alta.Perché un futuro migliore si può e si deve pretendere. Un futuro in cui sia

messo, definitivamente, l’uomo al centro dell’economia, del lavoro e dell’am-biente. L’uomo con le sue necessità e la sua dignità. E con i suoi obblighi nei confronti di un Creato che deve essere salvaguardato e protetto, e non solo sfruttato.

È necessario pretendere attenzione, perché soprattutto i giovani possano tornare a progettare con serenità il proprio futuro, senza scendere a compro-messi meschini e immorali.

Alle Istituzioni chiediamo presenza, fisica, reale, qui nel Salento. Chiedia-mo che il tavolo delle concertazioni venga allestito a Taranto, non a Roma, perché si tocchino con mano le situazioni reali di questo disastro e si ascolti personalmente la voce dei lavoratori.

Non esistono problemi senza soluzioni, quando si mettono in campo le competenze e la volontà.

Di volontà crediamo se ne sia vista ben poca sino ad ora, in ogni caso non sufficiente a scongiurare quanto accaduto.

Siamo ancora in tempo a ridare una speranza, se ci crediamo veramen-te!

Laura Bonfrate

«Era una decisione, forse, inevitabile», conviene anche il presidente della Cei, card. Angelo Ba-gnasco, in un’ampia intervista al “Corriere della

Sera” del 10 dicembre, a proposito delle annunciate e ir-revocabili dimissioni del presidente del Consiglio, a legge di stabilità acquisita. Quel che s’ha da fare si faccia subito: questo vecchio adagio, al di là ovviamente dei toni, già da campagna elettorale, è in sostanza condiviso da tutti gli at-tori di questa strana campagna elettorale invernale, avviata per sant’Ambrogio. Da Berlusconi (classe 1936), che ha ri-preso in mano quel che resta della sua antica coalizione, a Bersani (classe 1951), fresco di consacrazione alle primarie, a Grillo (classe 1948), che ha tutto l’interesse a capitaliz-zare in fretta la protesta, prima che si guardi con attenzio-ne il soggetto, fino alla galassia centrista, che così è spinta all’aggregazione e alla decisione, allo stesso presidente del Consiglio, che è proiettato “en réserve de la République”, lasciandosi le mani libere per ogni decisone futura, già nel brevissimo termine. «Sarebbe un errore in futuro non avva-lersi di chi ha contribuito in modo rigoroso e competente alla credibilità del nostro Paese in ambito europeo e inter-nazionale evitando di scivolare in situazioni irreparabil»,

osserva ancora il presidente della Cei.Del resto, con saggia preveggenza, il presidente della Re-

pubblica aveva declinato l’invito alla prima della Scala, ben calcolando la data della quasi inevitabile perturbazione po-litica, originata dalle decisioni di Berlusconi.

Saranno, con tutta probabilità, quelle in calendario in pie-na Quaresima, le ultime elezioni della cosiddetta seconda Repubblica. Il big bang verso un “bipolarismo virtuoso”, che si sarebbe potuto profilare nell’autunno 2011, non si è rea-lizzato. Ci vorrà, con tutta probabilità, un nuovo passaggio, la crisi dei soggetti dovrà andare ancora avanti e fino in fon-do. Nello specifico, gli interrogativi sull’offerta elettorale, in particolare a proposito della delicata questione del Senato, e a proposito del rapporto tra centro e centro-sinistra, do-vrebbero chiarirsi in tempi relativamente brevi.

Dal punto di vista sistemico, comunque sia, in questo periodo elettorale, che culminerà con le presidenziali, campeggiano due impegni. Occorrerà innanzitutto salva-guardare l’essenziale, cioè quanto di buono è stato fatto dal governo e quanto ragionevolmente si può fare per dare delle prospettive, dal punto di vista, tante volte evocato, dell’equità e dello sviluppo. E poi assicurare la tenuta dei

conti e degli assetti e tenere forte e saldo il tessuto sociale e i valori e i principi di riferimento, come sottolinea il presi-dente della Cei. Come già aveva fatto aprendo il Forum del progetto culturale il cardinale colloca opportunamente la vicenda italiana nel quadro europeo, sottolineando il rin-novato e fecondo interesse dei cattolici per l’impegno poli-tico, ormai alla prova dei fatti.

Il Censis, nel Rapporto annuale sulla situazione socia-le del Paese, ha coniato una nuova parola, a proposito del tono generale dell’Italia: restanza. Probabilmente non avrà successo. Ma indica lo sforzo anche lessicale per dare un nome a una situazione inedita, in cui le tante energie del Paese si sentono sole, ma non mollano, anzi, accettano la sfida, restano sul campo, non indulgono all’autocommise-razione e al pessimismo. Ma hanno bisogno d’interlocu-tori. La casa brucia, irresponsabile chi pensa a sé, osserva il card. Bagnasco. Può essere la base da cui partire per la campagna elettorale e guardare al prossimo futuro con se-renità. Quella fiducia che gli italiani reclamano e che non si dà con promesse o proteste, con clamore o rancore, ma con tanto, tanto lavoro.

Francesco Bonini

riflessioni La Parrocchia di Cellino interviene sulla vicenda dell’ILVA

Ancora in tempo per ridare speranza

crisi di governo Il compito di tutte le parti dopo le annunciate dimissioni di Monti

Occorre salvaguardare l’essenziale

Un invito urgente «all’unità e al su-

peramento delle lace-razioni che spingono a contrapporre ingiusta-mente salute, ambiente e lavoro» viene rivolto dai vescovi di Puglia in merito alla vicenda Ilva di Taranto. Il messaggio dei vescovi, che augura-no «un Natale più sereno per tutti», è stato deciso a conclusione dell'As-semblea della Conferen-za episcopale pugliese che si è svolta a Molfetta il 12 dicembre scorso.«Noi vescovi di Puglia -si legge in una nota -ri-uniti in assemblea ordi-naria, siamo vicini alla Chiesa locale di Taranto, al suo arcivescovo e a tutte le persone colpi-te dal dramma umano che il caso Ilva continua a produrre nella nostra terra. Tutti hanno im-parato a conoscere, at-traverso giornali e tv, le vicende della città con il più grande stabilimento siderurgico d'Europa». «Una "guerra tra vitti-me" in cui, da una parte, c'è la salute, fortemen-te compromessa dalle emissioni della fabbrica e, dall'altra -si sottoli-nea -il timore, per oltre dodicimila operai ed impiegati dell'azienda, di perdere il proprio po-sto di lavoro». «Il ruolo della Chiesa -conclude la Conferenza episcopa-le pugliese -è quello di farsi presente e di con-dividere il dramma della salute fortemente aggre-dita dall'inquinamento a cui si aggiunge il rischio sempre imminente di perdere il posto di lavo-ro. In tutti e due i casi è minacciata la vita sia dall'emergenza sanita-ria, sia dalla paura non remota di una disoccu-pazione di massa».

Attualità & Territorio22 15 dicembre 2012

Era di martedì esattamente come quest’anno, ma in cinquant’anni, quante cose sono cambiate. Allora,

1962, iniziava il boom economico, adesso siamo impegnati a fronteggiare una crisi non solo economica, ma di sistema, glo-bale e più insidiosa. Eppure «a Betlemme, diletti figli, è l’inizio del nuovo corso del-la storia, per una più grande irradiazione della civiltà di ciascun popolo: ma questo corso è affidato alla responsabilità di cia-scuno di noi», sembrano le parole che il pastore universale potrà pronunciare al prossimo Angelus di Natale in piazza San Pietro, piuttosto che essere quelle dette da un Pontefice, il Beato Giovanni XXIII, cinquan’anni addietro appunto, a Conci-lio avviato e con il presentimento di essere all’epilogo di una vita intensamente vissuta a testimoniare l’amore di Dio per l’uomo.

Forse, presi come siamo dal riscopri-re il Concilio, ci sfuggono queste parole dell’Angelus di Natale del 1962, ma sono parole profetiche, quelle riferite innanzi, che certamente trovano la logica conse-guenza in queste: «Di fatto, per la legge na-turale della solidarietà e per la dottrina cri-stiana del corpo mistico, la dignità umana, la libertà e la giustizia dipendono da tutti noi nell’insieme e come individui. Da Bet-lemme, l’incoraggiamento alle applicazio-ni del vivere sociale: sconfitta di egoismo, intelligente conoscenza delle necessità altrui, legge del perdono, legge del perdo-no – proprio così, pronunciata due volte -, ampiamente applicata, trionfo di fraternità perfetta».

Non solo, prendendo avvio proprio da ciò che è l’Angelus Domini, da ciò che dimo-stra in termini di «umiltà e obbedienza», papa Giovanni sostenne che non bastava «soffermarsi alla lietissima contempla-zione del gaudio natalizio», ma bisognava «procedere oltre con animo grande per giungere alle sue pratiche applicazioni personali e sociali». E per essere più chia-ro: «Non c’è studio filosofico, non c’è sfor-

zo di ammodernamento di sistemi che val-ga – aggiunse -, se l’animo non si apre tutto alle effusioni della luce e della grazia cele-ste». Del resto, «la verità delle beatitudini proclamate sulla montagna torna in eco particolarmente vibrante a Natale, e si im-pone alla universale attenzione. Il Nato di Betlemme – disse ancora Papa Giovanni - è umile e mite di cuore, povero e innocen-te; egli è il costruttore della pace, e per essa già si appresta al sacrificio supremo».

E sottolineò come quella fosse «la strada segnata da Gesù Cristo; questa la indica-zione per ogni uomo che accoglie il divino messaggio con prontezza di adesione – disse -, ad ogni costo di sforzo e di genero-sità personale». E queste parole ci dicono ancora che la strada è quella: basterà sfor-zarsi di ritrovare il sentiero.

(a.scon.)

Natale 1962 l’aNGelUS DI Natale DI PaPa GIOVaNNI

Anche quel giorno la storia passò da Brindisi. “La città di Brindisi”, in giornale diretto da Camillo Mealli,

non vi dedico eccessivo spazio: 9 righe di testo diviso in tre frasi con una titolo che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere accattivante: “Personaggi greci in giro” e quindi: “Martedì 10 dicembre corr. mese giunse col Vapore Macedonia il primo ministro greco Venizelos” e quindi, subi-to dopo l’altra notizia: “Egli partì alla vol-ta di Roma nel pomeriggio”. Conclusione: “Scopo del viaggio sarebbe, a quanto ho potuto apprendere, di visitare alcune città dell’Italia e della Francia”.

Poche righe - nemmeno un dispaccio di agenzia - quando invece la notizia avrebbe meritato certamente di più. E non è a dire che non ci si accorse di quanto accadeva, perché altrimenti non sarebbe stato impa-ginato – a debita distanza – l’altro articolo intitolato “Turchi a Brindisi”.

Era, quel finire di anno di un secolo ad-dietro, un periodo particolarissimo: Eleu-therios Venizelos, era primo ministro dal 1910 ed era proprio impegnato in quelle che sono passate alla storia come “guerre balcaniche”, con la prima di queste che vide l’impero ottomano, indebolito dalla guerra di Libia con l’Italia, attaccato il 17 ottobre 1912 da Serbia, Bulgaria, Mon-tenegro e Grecia, per il possesso dei ter-ritorio europei ancora in suo possesso. E allora, a meno di due mesi dall’inizio del conflitto, era una semplice visita in Fran-cia ed in Italia, quella di Venizelos, di pas-saggio da Brindisi? Non lo crede nessuno e non lo credeva nemmeno l’estensore di quel trafiletto.

Egli passò da un paese amico – poiché opposto all’Impero ottomano – ed anda-va in un altro paese per intessere rapporti utili al prosieguo di una guerra, che stava per concludersi. Non sono anche di quel periodo, infatti, i contatti di Venizelos con Lord George in Inghilterra? Ecco, lo han-no scritto gli storici: “George era interes-

sato ad approfittare della possibile caduta dell’Impero Ottomano, considerando la Grecia come posizione strategica per gli interessi inglesi sulla Turchia. Venizelos sperava, con l’appoggio di Gran Bretagna (e anche della Francia in seguito), di ot-tenere alcuni territori in Asia minore (e indirettamente anche di non permettere espansionismo territoriale a altre nazioni tra cui l’Italia)”.

Non fu un caso che l’impero ottomano, sconfitto già in quei giorni di dicembre, con i preliminari di pace di Londra del 30 maggio 1913 cedette tutti i suoi domi-ni europei, tranne una piccola parte della Tracia.

Possibile che tutta questa storia sia pas-sata da Brindisi? Senza enfasi possiamo credere che questo sia stato uno dei tea-tri in cui questa storia è andata in scena. Ci si accorse di essere testimoni, ma forse si preferì pensare che, oltre la cronaca di quel martedì 10 dicembre, la storia sareb-be passata un po’ più in là.

(a.scon.)

10 DICeMBRe 1912VeNIZelOS a BRINDISI

Eleutherios Venizelos

Papa Giovanni XXIII

2315 dicembre 2012 Le Rubriche