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Governare la Fiducia:
Reputazione, Informazione e Relazioni Interpersonali
Vittorio Pelligra
Università di Cagliari
e Istituto Universitario ‘Sophia’
“Crowding-out reciprocity, cooperation, and
citizenship is a waste of human and material resources
and presents a serious challenge to the sustainibility of
democratic institutions over time”
(Elinor Ostrom, 2005, p.270)
1. Introduzione
La fiducia, è un dato ormai largamente condiviso, sta alla base di ogni processo
efficace di cooperazione. Solo attraverso la concessione di fiducia e conseguenti
comportamenti affidabili, è possibile superare gli ostacoli legati al perseguimento di
obiettivi comuni, è possibile godere dei benefici della divisione del lavoro e, più in
generale, è pensabile di coordinare le azioni di una molteplicità di soggetti verso esiti
socialmente ottimali. Dove maggiore è la dotazione di fiducia, o capitale sociale, per
usare la terminologia oggi in voga tra gli economisti, si rilevano più elevati tassi di
crescita economica, le istituzioni vengono percepite come più giuste ed efficienti, i
redditi sono più elevati e distribuiti in maniera più egualitaria, il sistema finanziario è
più sviluppato ed infine i cittadini riportano livelli di felicità e benessere soggettivo
più alti rispetto a quelli che vivono in comunità dove invece prevale la diffidenza e
l’opportunismo (cfr. Knack e Keefer, 1997; Guiso et al., 2004, 2009; Pelligra 2007).
Benché ormai, come dicevo, esista tra gli economisti e gli scienziati sociali più in
generale, un diffuso accordo circa la significatività di queste relazioni empiriche,
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ancora poco si sa circa la natura dei comportamenti fiduciari. Questo, con tutta
probabilità è dovuto alla struttura dei modelli teorici che generalmente vengono
utilizzati per descrivere e prevedere il comportamento dei soggetti economici. Come
si sa, l’assunto antropologico fondamentale su cui si basa la scienza economica è
quello di un agente sociale fondamentalmente autointeressato, individualista e
ottimizzante.
“Il primo principio dell’economia – scriveva Francis Edgeworth nel 1881 - è che ogni
agente è mosso esclusivamente dal proprio interesse personale”. E da allora questa
posizione non ha subito sostanziali revisioni. E se è vero che non necessariamente
l’autointeresse coincide con l’egoismo psicologico, è altrettanto vero, che spesso,
questa distinzione cade, e la sovrapposizione dei due concetti diventa totale.
Un altro aspetto che può aver reso difficile la comprensione delle dinamiche
fiduciarie in economia ha a che fare con il fatto che l’economia è stata
tradizionalmente impegnata nella spiegazione di una forma di cooperazione del tutto
peculiare; quella cioè che ha luogo nell’ambito del mercato e che porta, attraverso
scambi volontari, coloro che si scambiano beni e servizi, ad una situazione di mutuo
vantaggio. Questa impostazione culturale è la stessa che parte dal Mandeville dei
“vizi privati e pubbliche virtù” e che arriva attraverso la “mano invisibile” di Adam
Smith, fino ai nostri giorni producendo i teoremi fondamentali dell’economia del
benessere. Nel mercato la “cooperazione” porta all’ottimo sociale e questo si ottiene
semplicemente come conseguenza inintenzionale di azioni intenzionalmente
autointeressate. Nel mercato di concorrenza perfetta dunque il problema della
cooperazione, del perseguimento di obiettivi comuni è risolto perché l’aggregazione
delle scelte individuali porta al risultato individualmente non voluto, ma socialmente
desiderato dell’ottimo paretiano.
Questa impostazione culturale che ha caratterizzato la teoria economica fino
agli anni ’70 del secolo scorso, si trova però in difficoltà quando si esce dal mercato
di concorrenza perfetta e si entra nell’ambito delle interazioni strategiche: quelle nelle
quali le scelte di ogni soggetto sono fortemente interdipendenti e le conseguenze delle
azioni di ciascuno dipendono dalla combinazioni delle scelte di ogni altro agente. In
quest’ambito la cooperazione diventa difficile da spiegare se si continua a considerare
soggetti autointeressati e le dinamiche fiduciarie acquistano un ruolo centrale.
Tale difficoltà produce effetti importanti non soltanto perché essa si traduce
nella creazione di modelli teorici incompleti, ma soprattutto perché quando, come
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spesso avviene nell’ambito delle scienze sociali, si passa dal piano puramente
descrittivo a quello normativo, quando cioè i modelli vengono utilizzati per guidare
l’azione di policy e di progettazione istituzionale, le assunzioni semplificatrici e le
conclusioni errate cui queste possono portare, rischiano di: “danneggiare (e perfino
distruggere) realtà non economiche importanti come le motivazioni intrinseche e le
relazioni sociali” (Gibbons, 1998, p. 130). Da qui l’importanza di comprendere i
meccanismi individuali e sociali che producono e distruggono fiducia, facilitando o
ostacolando i comportamenti cooperativi, e la necessità di studiare a fondo le
implicazioni per la progettazione di istituzioni capaci di favorire il coordinamento
delle azioni sociali sulla base di norme fiduciarie e non solo di regole formali e
coercitive, che come vedremo, non di rado producono effetti di spiazzamento
controproducenti.
In questo capitolo proponiamo, nella prima parte (par. 2-4) una disamina delle
principali strategie che sono state utilizzate in ambito biologico ed economico per dar
conto dell’emergenza e dell’evoluzione dei fenomeni cooperativi, mentre nella
seconda parte (par. 5-7) descriveremo alcuni dei principi comportamentale che è
necessario tenere in considerazione per superare i limiti che evidenziano le teorie
tradizionali. Nella terza parte infine (par. 8), discuteremo le implicazioni di questi
risultati per l’attività di progettazione istituzionale e implementazione normativa.
2. Chi miete il mio raccolto?
Iniziamo, a mo’ d’esempio, col considerare questo famoso passaggio di David Hume:
“Il tuo grano è maturo, oggi, il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi
se oggi io lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo
nessun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che
neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho
alcuna garanzia che domani tu mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti
lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma il
maltempo sopravviene e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per
mancanza di fiducia reciproca e di una garanzia” (1737, III, II, 5).
L’estrema semplicità della situazione descritta in queste poche righe dal filosofo
scozzese non deve trarre in inganno. Egli infatti ha appena descritto ciò che sta al
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cuore del problema della cooperazione. Soggetti autointeressati che coordinando le
loro azioni possono ottenere un risultato ottimale, sia da un punto di vista sociale che
individuale, ma a causa delle caratteristiche dell’interazione in cui sono coinvolti e
della stessa natura umana, sono condannati per reciproca mancanza di fiducia, ad un
esito meno che ottimale, in questo caso, alla perdita del raccolto. Ma perché? Perché,
per quanto strano possa apparire, questa è la scelta più razionale… date le circostanze.
Se il primo agricoltore infatti riuscisse ad ottenere l’aiuto del secondo, il giorno dopo
non avrebbe nessun incentivo per ricambiare l’aiuto. Il secondo giocatore, se
razionale, anticiperà questa tentazione e, per ridurre il danno, sceglierà, già il primo
giorno di non aiutare il compagno. Abbiamo appena descritto un dilemma sociale, che
con il linguaggio degli economisti chiamiamo “Dilemma del Prigioniero”.
La razionalità, almeno nella sua versione più radicale, spesso però non coincide con la
ragionevolezza; e infatti ogni giorno, da migliaia di anni ormai, la specie umana, e
non solo quella, ha imparato a cooperare, estensivamente, stabilmente e negli ambiti
di attività più disparati. Già novanta mila anni fa i nostri progenitori cooperavano per
procurarsi il cibo costituito da grandi animali che sarebbe stato possibile catturare da
soli. E dopo la caccia un altro dilemma sorgeva, quello della divisione della preda, e
anche questo, se noi oggi siamo qui, è stato risolto un’infinità di volte in modo
brillante. La difesa del gruppo da parte degli attacchi dei predatori rappresentava un
ulteriore dilemma. E così via, praticamente ogni istante di ogni giorno per migliaia e
migliaia di anni, la specie umana ha dovuto affrontare e imparare risolvere tali
dilemmi attraverso l’azione congiunta. Queste forme di cooperazione non
rappresentano solo esempi di “mutualismo”, ma di vero e proprio altruismo. Spesso
infatti fare la propria parte nell’ambito di uno di questi processi cooperativi può
produrre, non solo mutui benefici, ma anche costi netti. Quante volte, per esempio,
colui chiamato a vegliare sul gruppo contro gli attacchi dei predatori ha dovuto pagare
il prezzo più alto. E quante volte la cooperazione ha coinvolto e coinvolge ancora
oggi soggetti non appartenenti alla famiglia o al gruppo. Perché doniamo il sangue a
perfetti sconosciuti? Perché aiutiamo la ricerca scientifica che andrà a beneficiare
probabilmente persone che non sono ancora nate? Perché scioperiamo e perché
adottiamo un bambino a distanza anche se non lo conosceremo mai se non attraverso
qualche foto o qualche lettera? Molti di noi sono favorevoli a pagare le tasse per
finanziare un welfare state che provvederà ai bisogni dei disoccupati, degli orfani, dei
disabili, anche se valutiamo come estremamente bassa la possibilità di poter o dover
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accedere a quei servizi? Eppure, allo stesso tempo, non possiamo certo negare che
l’egoismo e l’interesse individuale giochi un ruolo importante nelle nostre scelte.
Cerchiamo di pagare per la nostra spesa al supermercato il meno possibile. Quando
subiamo un torto cerchiamo di rifarci su chi ne è responsabile con gli interessi. Se la
selezione e la pressione evolutiva preservano i più adatti, coloro che mettono in atto
comportamenti massimizzanti, come è possibile spiegare la sopravvivenza, anzi, la
diffusione di comportamenti che avvantaggiano il gruppo, la società, nel suo insieme,
ma danneggiano il singolo? L’aiuto, infatti, può essere negato, l’altruismo può essere
sfruttato, la fiducia tradita. Ma nonostante questo, senza aiuto reciproco, altruismo e
fiducia, gran parte delle conquiste della civiltà sarebbero rimaste al di là della nostra
portata.
Abbiamo appena iniziato a comprendere che l’evoluzione, le forze naturali e sociali
che plasmano il nostro comportamento e che determinano le nostre istituzioni, non
favoriscono solo l’autointeresse e l’egoismo, ma possono promuovere anche
l’altruismo, l’affidabilità, il rispetto delle norme e i comportamenti etici, benché
costosi. Ecco perché diventa “naturale” che la risposta alla domanda di Hume – “Chi
miete il mio raccolto?”, sia “lo facciamo insieme”.
Nelle pagine che seguono discuteremo varie soluzioni che sono state avanzate per dar
conto dell’insorgenza della cooperazione umana; alcune traggono spunto da recenti
teorie di biologia evolutiva, altre ricorrono al ragionamento prettamente economico.
Tutte presentano, secondo noi, grandi pregi, ma anche delle significative limitazioni.
3. Meglio un uovo oggi?
3.1. Selezione familiare
Come è perché un soggetto autointeressato dovrebbe essere disposto a incorrere in un
costo per produrre un beneficio per la società? E’ questa una delle più profonde
domande che negli ultimi secoli ha attratto gli sforzi di centinaia e forse migliaia di
scienziati sociali e naturali. Da Tocqueville a Darwin, da Hobbes e Hume ad Haldane,
da Trivers ad Aumann, tutti, con metodi differenti, della biologia, filosofia, teoria dei
giochi, politologia, hanno cercato di spiegare la cooperazione partendo dall’egoismo.
Ma come è possibile che un agente egoista sia al contempo così altruista da riuscire a
cooperare con gli altri, a volte a costo di grandi sacrifici, anche nell’ambito di
dilemmi sociali? Nell’ambito della prima prospettiva che adotteremo, la risposta è
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semplice, basta considerare un “autointeresse giustamente inteso”, per usare
un’espressione cara ad Alexis de Tocqueville (1835-9, II, 5). Questo essenzialmente
vuol dire che ciò che occorre spiegare, ciò che informa le scelte cooperative, se
“giustamente intese”, ci appariranno in fondo come nient’altro che esempi di
autointeresse illuminato.
I primi ad inaugurare questa strategia nell’ambito delle spiegazioni biologiche del
comportamento cooperativo sono stati William Hamilton (1964), George Price (1970)
e Robert Trivers (1971).
La soluzione escogitata da Hamilton (1964), va sotto il nome di Kin-Altruism, o
altruismo “familiare”. La “regola di Hamilton”, la condizione se soddisfattà portarà
all’emergenza della cooperazione, stabilisce che in un dilemma sociale, per esempio
un dilemma del prigioniero, la selezione naturale favorirà qualsiasi azione capace di
conferire un beneficio b ad un altro individuo, ad un costo c, per il benefattore, solo se
dove con r si indica il grado di parentela che lega i due soggetti (1/2 tra fratelli, 1/4 tra
nipoti e 1/8 tra cugini). Se la condizione è rispettata, allora l’inclusive fitness1 del
soggetto benefattore aumenterà, rendendo vantaggioso in termini evolutivi il
comportamento altruistico adottato, benché questo sia per il soggetto che lo adotta
immediatamente costoso. Tanto maggiore è la vicinanza genetica tra un benefattore
ed un beneficato, tanto maggiore sarà, secondo Hamilton, il costo che il benefattore
sarà disposto a sopportare per aiutare l’altro. Tale costo, in termini di mancata
trasmissione diretta del proprio patrimonio genetico ai discendenti, infatti, sarà più
che compensato dalla trasmissione indiretta dello stesso patrimonio genetico
attraverso il parente beneficato. Questo spiega molto bene perché la nostra spinta
altruistica, che si manifesta in un’enorme varietà di modi, è tendenzialmente maggiore
verso i nostri cari che non rispetto agli estranei. Ma sta qua, nella sua capacità di
spiegare l’altruismo verso i familiari, non solo il punto di forza dell’idea di Hamilton,
1 Per Inclusive Fitness si intende la somma tra il numero di discendenti diretti del soggetto e il numero
di soggetti equivalenti, soggetti cioè che potranno riprodurre parte del suo patrimonio genetico, si
aggiungeranno alla popolazione generale.
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ma anche la principale debolezza. Essa infatti non ci aiuta in nessun modo a
comprendere tutte quelle forme di altruismo che osserviamo comunemente e che si
estendono oltre i confini della famiglia naturale e spesso riguardano dei perfetti
estranei, o come dicevamo precedentemente, perfino soggetti non ancora nati.
3.2. Altruismo reciproco.
Un secondo modello di evoluzione naturale dell’altruismo, quello proposto
originariamente da Robert Trivers (1971), è capace di superare il confine delle
relazioni familiari, entro il cui ambito rimane invece confinato, come abbiamo visto, il
modello di Hamilton. Supponiamo di considerare due soggetti appartenenti ad un
gruppo estremamente numeroso, non legati geneticamente, che si incontrano per caso
e si trovano a interagire ripetutamente in un dilemma del prigioniero come quello
descritto nella figura 1.
Giocatore B
C D
C b-c , b-c -c , b
Giocatore A D b , -c 0 , 0
Figura 1. Dilemma del Prigioniero
Le azioni a disposizione di ogni giocatore sono quella di aiutare (C) o di non aiutare
(D). La prima produce un costo pari a c per chi aiuta e conferisce un beneficio pari a b
(con b>c) per chi è aiutato (il costo ed il beneficio sono misurati in termini di fitness).
La seconda opzione, il non aiuto, non implica né costi, né benefici. Naturalmente
entrambi i giocatori sarebbero più felici se entrambi scegliessero C, perché in questo
modo ognuno otterrebbe un beneficio netto positivo pari a (b-c). Se entrambi invece
scegliessero D non avrebbero sicuramente nessun costo, ma non potrebbero neanche
sperare in alcun beneficio. Dove sta il problema allora? Perché questa situazione
rappresenta un dilemma sociale? E’ presto detto. Se A decidesse di giocare C, e B lo
sapesse, sarebbe interesse di B giocare D. In questo caso infatti B potrebbe ottenere
un beneficio b senza nessun costo. Per contro, il giocatore A avrebbe solo costi (-c) e
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nessun beneficio. Il giocatore A sa che B avrà questa tentazione e quindi sceglierà di
non rischiare. Un argomento analogo lo si può applicare al caso in fosse sia B a voler
giocare C e il giocatore A a volerne approfittare. Insomma la conclusione è che
qualunque cosa ognuno si aspetta che l’altro faccia, sarà nel suo interesse minimizzare
i danni e giocare D. Come gli amici di Hume, anche in questo caso, la mancanza di
fiducia reciproca condanna i giocatori all’esito sub-ottimale di (0,0).
Per farci uscire da questa impassei, Robert Trivers avanza un’idea brillante. La sua
intuizione è che le cose potrebbero cambiare e per il meglio, se invece di considerare
il singolo dilemma in isolamento, iniziassimo a considerare una serie di dilemmi, tutti
uguali e giocati indefinitamente. Cosa succederebbe, in altri termini, se gli agricoltori
di Hume ragionassero non soltanto con un orizzonte temporale di un anno, ma
piuttosto considerassero il loro problema in termini complessivi, come un problema
fatto da singole decisioni, cooperare o non cooperare, che si ripetono di anno in anno
per l’intera durata, indefinita, della loro vita. Ci dimostra Trivers, che a questo punto
le cose cambiano e di parecchio. Immaginiamo che i due giocatori siano dei
“cooperatori condizionali”, che inizino, cioè, a cooperare al primo incontro o round, e
che poi facciano ciò che l’altro ha fatto nel round precedente: se tu ieri hai cooperato
io oggi coopererò, se tu ieri hai tradito, io tradirò oggi. Che tipo di risultati
otterrebbero questi giocatori in una popolazione formata da molti altri giocatori con i
quali si incontrano casualmente per giocare un dilemma del prigioniero? Proviamo
innanzitutto a chiederci che cosa succederebbe se in una popolazione formata
interamente da cooperatori condizionali arrivasse un nuovo soggetto “mutante”
disposto a giocare un’altra strategia. Se questo soggetto non è in grado di fare meglio
dei cooperatori condizionali e quindi di invadere la popolazione originaria, possiamo
definire la strategia iniziale di cooperazione condizionale come “evolutivamente
stabile”. Per verificare se questo è il caso, assumiamo che il gioco sia ripetuto
indefinitamente e che la probabilità che il round attualmente giocato sia l’ultimo, sia
pari a δ. La durata attesa D dell’intera relazione sarà pari a 1/(1-δ). Allora la
condizione affinché la cooperazione condizionale sia una strategia evolutivamente
stabile è data da
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Consideriamo, infatti, cosa succede ad un cooperatore che incontra un cooperatore
condizionale. Indichiamo la vincita in questo caso con ν. Il suo payoff complessivo
allora sarà pari a
€
υ = b − c +δυ
Che posto in altri termini equivale a
Quest’ultima formula mette in luce come il payoff che un cooperatore ottiene
incontrando un cooperatore condizionale sia uguale al payoff che si ottiene
cooperando in un gioco non ripetuto, moltiplicato per il numero infinito di periodi
D=1/(1-δ). Se invece si decidesse di non cooperare con un cooperatore condizionale
allora si otterrebbe un payoff pari a b per il primo round, ma poi più niente in tutti i
round successivi. Si capisce quindi che converrà cooperare solo se la seguente
condizione sarà soddisfatta
Il che equivale alla condizione enunciata sopra.
Può essere interessante notare come nell’ambito della teoria dell’altruismo reciproco,
il fattore di sconto δ , gioca lo stesso ruolo attribuito alla relazione genetica nella
teoria della selezione familiare. Se questa condizione vale e la popolazione è
interamente composta da cooperatori condizionali che si incontrano casualmente e
ripetutamente per giocare un dilemma del prigioniero, il payoff che ottiene un non-
cooperatore sarà sempre inferiore a quello ottenuto da un cooperatore condizionale.
Questo significa che quest’ultima strategia non può essere invasa e che quindi è
evolutivamente stabile.
E’ interessante notare che questo tipo di spiegazione del problema della fiducia
reciproca e della cooperazione non equivale a convincere due soggetti entrambi
egoisti a cooperare, quanto piuttosto, in uno spirito pienamente humeano, a trovare un
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sistema per rassicurare due soggetti che già conoscono i benefici della cooperazione,
che nessuna delle loro mosse cooperative verrà sfruttata da qualcun altro. Questa è
l’idea che sta dietro il concetto di strategia evolutivamente stabile.
Il modello di Trivers ci mostra che la cooperazione può inizialmente fondarsi su una
parentela genetica, ma una volta che questa si diffonde sufficientemente nella
popolazione, per sostenerla è sufficiente un numero adeguato di cooperatori
condizionali, che cooperano non più perché imparentati tra loro, ma perché, come
aveva ipotizzato Hume, attratti dai benefici individuali che possono ottenere da questa
scelta.
Questo incoraggiante risultato però, è soggetto ad un’importante limitazione. Esso
infatti si riferisce esclusivamente ad interazioni di tipo diadico, che hanno luogo, cioè,
sempre nell’ambito della stessa coppia di soggetti. Cosa succederebbe nel caso di una
interazione con la stessa struttura del dilemma del prigioniero ma che coinvolgesse un
numero di partecipanti superiore a due? L’interazione in questione viene chiamata
gioco dei beni pubblici (public good game). In questo gioco ogni partecipante può
cooperare contribuendo alla produzione del bene pubblico, oppure può defezionare,
nella speranza di poter godere dei benefici associati al bene pubblico b, anche quando
questo viene prodotto dagli altri giocatori, risparmiando così il suo costo di
produzione individuale, che indichiamo con c (con c<b). Se tutti contribuiscono
ognuno guadagna b-c>0, ma così come nel dilemma del prigioniero, anche nel gioco
dei beni pubblici ogni giocatore avrà un incentivo alla defezione. Se il gioco non è
ripetuto o è ripetuto un numero finito di volte l’esito dell’interazione sarà
invariabilmente la mutua defezione. Se invece il gioco è ripetuto indefinitamente
allora la cooperazione può emergere, ma questa sarà estremamente fragile ed
instabile, in quanto basata su condizioni piuttosto stringenti e irrealistiche. Tra queste,
come dimostrano Bowles e Gintis (2010), il fatto che il gruppo non deve essere troppo
numeroso, i benefici della cooperazione molto alti, la conoscenza circa il
comportamento di tutti gli altri membri del gruppo deve essere perfetta, gli errori di
percezione e di scelta devono essere assolutamente infrequenti. Alla base di queste
limitazioni sta il fatto che mentre in una interazione diadica ogni soggetto osserva ciò
che ha fatto l’altro nel round precedente e la defezione può efficacemente essere
punita con un’altra defezione, nel gioco con n>2 giocatori, la defezione di un
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individuo che vuole punire qualcuno che ha defezionato nel round precedente andrà a
danno non solo di chi ha defezionato, ma di tutti i membri del gruppo, sia cioè di
coloro che hanno defezionato come di coloro che hanno cooperato. Questo semplice
fatto unitamente all’impossibilità da parte dei membri del gruppo di distinguere una
defezione punitiva da una egoistica, fa saltare totalmente la logica dell’altruismo
reciproco.
3.3. Reciprocità Indiretta.
Ma non tutto è perduto. Robert Sugden (1986), ha fornito una spiegazione della
cooperazione anche in gruppi numerosi facendo ricorso al concetto di “reciprocità
indiretta”. L’assunzione addizionale che dobbiamo inserire riguarda la capacità degli
individui di ricordare in qualche modo il comportamento passato dei soggetti con cui,
anche infrequentemente, si sono incontrati. Chiamiamo un soggetto che ha cooperato
nell’incontro precedente, un “buon incontro” (BI), mentre quello che non ha
cooperato sarà definito un “cattivo incontro” (CI). Un BI assume lo status di CI se
sceglie di non cooperare contro un BI, mentre se un BI non coopera quando
interagisce con un CI questo non avrà nessun effetto sullo status del BI. Proviamo a
immaginare ora la seguente strategia: coopera solo ed esclusivamente se hai a che fare
con un BI oppure coopera sempre se per caso hai sbagliato a non cooperare e devi
recuperare il tuo status di BI. Proviamo a vedere ora se tale strategia è evolutivamente
stabile. Supponiamo che gli individui si incontrino per giocare il dilemma del
prigioniero descritto sopra e formino coppie casuali, ma adesso ogni volta con un
soggetto differente. Assumiamo inoltre che la probabilità di continuazione del gioco
sia pari a δ. Per rendere il modello ancora più realistico consideriamo l’evenienza che
la scelta di non cooperare possa essere frutto di un errore; la probabilità che ciò
avvenga sarà indicata con ε.
Consideriamo ora un BI che gioca la strategia cooperativa contro un altro BI; egli
otterrà il beneficio b con probabilità pari a 1-ε, la probabilità di cooperazione senza
errori, e il costo c con probabilità pari a ε, nel caso in cui il suo avversario scelga la
strategia sbagliata. Il gioco ora passerà ad un nuovo round, con probabilità pari a δ, e
il soggetto che ha sbagliato sarà ora diventato un CI (con probabilità pari a ε) oppure
sarà rimasto un BI (con probabilità pari a 1-ε). Se con νBI indichiamo il payoff atteso
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di un BI mentre con νCI quello di un CI, nella generalità della popolazione, il valore
atteso che ottengono i buon incontri sarà pari a
€
νBI = b(1−ε) − c +δ(ενCI + (1−ε )νBI )
Mentre quello che ottengono i cattivi incontri sarà uguale a
€
νCI = bε(1−ε) − c +δ(ενCI + (1−ε )νBI )
Risolvendo le due precedenti equazioni otteniamo
€
νCI =νBI − b(1−ε)2
L’espressione per νBI è data dal payoff atteso in ogni periodo (il numeratore
dell’espressione) moltiplicato per il numero dei round 1/(1-δ). La necessità di mettere
in atto punizioni costose riduce il payoff per ogni individuo, in ogni periodo, di un
valore pari a bδε . In queste condizioni la scelta di cooperare è la migliore strategie
fintantoché il payoff che si ottiene dalla continua cooperazione è maggiore di quello
che si otterrebbe defezionando e ottenendo poi lo status di CI, detto in altri termini
quando νBI ≥ b(1-ε)+ δCI . Semplificando otteniamo
Se ε è sufficientemente piccolo e δ è sufficientemente vicino ma minore di 1, allora la
diseguaglianza indicata sopra sarà valida finché il beneficio b supererà il costo c.
Benché il modello di Sugden si spinga molto in avanti rispetto alle conclusioni degli
altri modelli fin qui analizzati, anche esso non è privo di limiti, il più importante dei
quali è di tipo informativo. Perché il modello funzioni, infatti, dobbiamo assumere
€
νBI =b(1−ε(1+δ)) − c + bδε 2(2 −ε )
1−δ
€
bδ(1−ε)(1+δ(1−ε )2 +ε 2)1+δ
≥ c.
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che tutti i membri della popolazione siano in grado di riconoscere se l’avversario è un
BI o un CI, devono cioè sapere ciò che egli ha fatto nel round precedente. Questo
requisito può realisticamente essere soddisfatto solo in gruppi di piccole dimensioni,
ed è infatti a questi casi che il modello più efficacemente si può applicare.
3.4. L’altruismo come segnale di qualità.
Un’ulteriore possibile spiegazione per comportamenti di natura altruistica fa
riferimento alla possibilità che tali comportamenti fungano da segnali credibili delle
qualità, altrimenti difficilmente verificabili, dei soggetti che li mettono in atto. Se
contribuisce in modo rilevante, attraverso generose donazioni, all’attività di
un’associazione benefica, per esempio, un soggetto autointeressato può volerlo fare
per segnalare, con una qualche precisione una grande disponibilità monetaria. Se si
cimenta in attività fisiche pericolose, allo stesso modo, può voler segnalare un
coraggio e magari un’abilità fisico superiore alla norma. Se aiuta un amico e questo
aiuto è costoso, tale aiuto può essere un segnale affidabile di un carattere leale e un
attaccamento alle persone care che, se osservabile da terze parti, potrà essere utile nel
trovare partner con cui cooperare, costituire alleanza e sfruttare i vantaggi dell’azione
collettiva. Tutti questi comportamenti, e molti altri, benché costosi per chi li adotta,
potrebbero avere un valore adattativo proprio perché segnali credibili, cioè
difficilmente falsificabili. Per questa ragione anche soggetti autointeressati potrebbero
trovare conveniente adottare simili comportamenti in virtù dei potenziali benefici
derivanti dalla formazione di una reputazione di persona forte, onesta, ricca,
affidabile, e qualsiasi altro tipo di informazione tali comportamenti potrebbero
segnalare. Questa idea ha trovato una importante applicazione in ambito biologico
attraverso il cosiddetto “principio dell’handicap” (Zahavi, 1975). Alcuni tratti sia
comportamentali che morfologici di molte specie animali rappresentano per i soggetti
che li posseggono dei costi, a volte anche ingenti, il che dovrebbe rendere
evolutivamente impossibile la loro sopravvivenza. Zahavi dimostra però, che tali tratti
(le corna del cervo, la coda del pavone, il rituale del potlatch, o anche il bungee
jumping) possono servire per discriminare in maniera efficace le caratteristiche non-
osservabili dei soggetti in questione. Solo i cervi in buona salute e molto robusti
possono permettersi delle corna imponenti ed estremamente scomode, così come solo
soggetti molto coraggiosi (?) sarebbero disposti a saltare da un ponte legati per la
caviglia ad una corda elastica.
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Anche questo tipo di spiegazione non è esente da difetti. Il problema principale
risiede nel fatto che, come si può evincere anche dagli esempi precedenti, il principio
dell’handicap o quello più generale della segnalazione costosa, giustifica non
solamente comportamenti pro-sociali, ma anche comportamenti anti-sociali. I mafiosi
che si sfidano tra loro a chi brucia più banconote o i membri delle gang giovanili che
vanno in giro con pesanti catene d’oro al collo a vessare coetanei e a terrorizzare il
quartiere, stanno certamente mandando messaggi credibili che possono anche essere
evolutivamente robusti, ma certo non stanno contribuendo in nessun modo al
benessere né del gruppo né della comunità in generale. Da questo punto di vista, il
bullismo e il volontariato hanno esattamente lo stesso significato evolutivo e quindi la
stessa giustificazione teorica.
4. Cooperazione ed egoismo: ripetizione, errori e osservabilità
Uno dei passaggi certamente più noti di tutta la storia del pensiero economico è quello
in cui Adam Smith dichiara che “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio, o
del fornaio che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla considerazione del loro proprio
interesse”. In questa frase è racchiusa l’essenza della visione economica della
cooperazione, per la quale lo scambio e la cooperazione, può aver luogo, attraverso la
mediazione del mercato, anche tra soggetti autointeressati e mutuamente indifferenti,
proprio in virtù del reciproco beneficio che, inintenzionalmente, essi si procurano
vicendevolmente. Questa idea della cooperazione autointeressata è stata ripresa
nell’elaborazione delle teorie economiche che cercano di spiegare, anche fuori dal
mercato, perché soggetti auto interessati dovrebbero cooperare tra di loro, magari
incorrendo in costi personali o patendo il rischio di comportamenti opportunistici.
L’idea è semplice, perché, come sembra suggerire Smith, la cooperazione non è altro
che il risultato non voluto, inintenzionale appunto, del perseguimento diretto o
indiretto, del proprio tornaconto personale. Anche le teorie economiche quindi,
sembrano adottare la stessa strategie esplicativa di quelle teorie evolutive di cui
abbiamo appena discusso, che vedono nell’apparente altruismo nient’altro che una
forma sofisticata di egoismo. In fondo in fondo, due soggetti autointeressati decidono
di cooperare perché temono le conseguenze di ciò che potrebbe accadere loro se non
cooperassero. La minaccia di una punizione o dei mancati benefici della cooperazione
sono, in questa prospettiva, le vere ragioni che stanno alla base di quei
comportamenti cooperativi che chiamiamo altruismo, mutualismo, affidabilità,
15
reciprocità. Lo strumento teorico su cui si fonda quest’approccio prende il nome di
folk-theorem (Fudenberg e Maskin, 1986).
Immaginiamo che due giocatori A e B, si trovino ad interagire ripetutamente in un
dilemma del prigioniero come quello rappresentato nella figura 2.
Giocatore B
C D
C 10 , 10 -1 , 11
Giocatore A D 11 , -1 0 , 0
Figura 2. Dilemma del Prigioniero
Le potenziali vincite o perdite degli incontri futuri vengono scontati attraverso un
fattore d (0<d<1). Immaginiamo che il gioco venga giocato un numero finito di volte,
assumiamo, per esempio, quattro sole ripetizioni. Come faranno due giocatori
razionali a decidere come scegliere. Teniamo innanzitutto conto del fatto che l’unica
ragione plausibile che potrebbe portare un giocatore a cooperare oggi è la paura che
se non lo facesse, l’altro giocatore potrebbe decidere, per punirlo, di non cooperare
domani. La minaccia della non-cooperazione potrebbe essere sufficiente a sostenere la
cooperazione in un gioco ripetuto un numero finito di volte? Per capire se conviene
cooperare o tradire nella prima ripetizione, ognuno cercherà di capire cosa l’altro farà
nel secondo incontro, e per capire come comportarsi nel secondo, occorrerà guardare
al terzo e poi al quarto. Nell’ultimo gioco sia A che B sceglieranno con certezza di
defezionare, perché non esiste un ulteriore periodo nel quale chi ha cooperato possa
punire chi non ha cooperato. Per questo nell’ultimo round entrambi i giocatori
sceglieranno di defezionare. Se questo è vero anche nella terza ripetizione non esisterà
più nessuna ragione per cooperare, infatti i giocatori sanno già che entrambi non
coopereranno nel round successivo. E questo stesso ragionamento si applica anche al
secondo round e infine anche al primo. La logica della cosiddetta induzione
retrospettiva (backward induction) dimostra in modo stringente che se il gioco è
ripetuto un numero finito di volte, per quanto grande sia tale numero, l’unico esito
possibile sarà quello della non-cooperazione. Le cose però possono cambiare in
16
maniera drastica se si inserisce una qualche incertezza circa la durata del gioco.
Immaginiamo ora che il gioco sia ripetuti indefinitamente, cioè che esista una certa
probabilità che il round che si sta giocando non sia l’ultimo dell’intera serie. Allora la
durata complessiva del gioco sarà data da 1 + d + d2 + d3 + … = 1/(1-d). Ipotizziamo
ora che i giocatori scelgano le loro mosse seguendo questa strategia: inizia a
cooperare e poi coopera se l’altro coopera o continua a defezionare se l’altro
defeziona anche solo una volta. Se i giocatori adottano questa “strategia a grilletto”
(trigger strategy) e cooperano per tutti i periodi del gioco riceveranno un payoff
complessivo finale pari a 10/(1-d). Cosa succederebbe a questo punto se uno dei due
cercasse di approfittare della cooperazione dell’altro per ottenere un payoff maggiore
defezionando? Questo giocatore otterrebbe in quel periodo un payoff di 11, ma
farebbe anche scattare il grilletto della defezione perpetua dell’altro giocatore, per cui,
da quel momento in poi, otterrebbe sempre 0. Defezionare sarebbe conveniente quindi
solo nel caso in cui la somma dei payoff 8+0+0+0+… fosse maggiore di 10/(1-d).
Questo può accadere solo quando d < 1/11. Ma quando il fattore di sconto d è
sufficientemente grande, vicino a 1, quando cioè i giocatori tengono sufficientemente
a quello che gli capiterà nel futuro, la prospettiva di una punizione seguita a una
defezione è sufficiente a scoraggiare ogni tentazione di scelte opportunistiche. Questo
risultato è valido indipendentemente dal valore dei payoff ed è legato esclusivamente
al valore del fattore di sconto, quindi alla “pazienza” dei soggetti. Generalizzando
questo tipo di conclusione, il folk-theorem afferma che ogni coppia di strategie che
consente ai giocatori di ottenere un payoff medio superiore al payoff che si ottiene
dalla mutua defezione, è un equilibrio del gioco, vale a dire, può essere scelta da due
giocatori razionali e auto interessati. Questa è una conclusione molto positiva per chi
voglia ricorrere alla strategia esplicativa dell’egoismo indiretto. Anche questa però,
una conclusione non priva di difficoltà. Se analizziamo il risultato del folk-theorem
con più attenzione infatti, ci accorgiamo subito che esso si fonda su alcune condizioni
piuttosto restrittive. Tra queste il fatto che l’interazione debba avvenire sempre tra due
soli individui e che il loro comportamento sia perfettamente osservabile e non
soggetto ad errori di esecuzione o di interpretazione. Appena si introduce anche una
piccola dose di incertezza o di opacità rispetto al comportamento passato il modello
collassa. Anche un piccolo errore, se per esempio, scelgo di defezionare mentre avrei
voluto cooperare, oppure l’altro crede che io abbia defezionato anche se in realtà ho
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cooperato, porterebbe immediatamente alla defezione perenne ed irreversibile tra i
giocatori.
Questi tre elementi, la validità solo per le coppie, la possibilità di errori e la non
perfetta osservabilità, trova soluzione nella variante del folk-theorem, sviluppata da
Kandori (1992) e in quelle con segnalazione imperfetta e con segnalazione privata
(Bowles e Gintis, 2010).
Come abbiamo detto più sopra l’idea fondamentale che sta alla base della teoria dei
giochi ripetuti e del folk-theorem in particolare, è che la minaccia di una ritorsione da
parte di un avversario tradito, può essere da sola, una ragione sufficiente per sostenere
la cooperazione anche tra soggetti autointeressati che interagiscono in coppie stabili.
Il lavoro di Kandori (1992) ha esteso questa stessa logica anche ai casi nei quali i
giocatori interagiscono non in coppie fisse ma attraverso incontri casuali e sporadici.
La condizione affinché questo possa avvenire è che esista un sistema di diffusione
dell’informazione circa il comportamento passato di ogni membro del gruppo. Se ciò
esiste e tale informazione è credibile allora ogni soggetto avrà interesse a formarsi una
reputazione di affidabilità comportandosi in maniera affidabile.
Nei modelli con segnalazione imperfetta il comportamento dei giocatori è opaco,
osservato cioè con un certo grado di errore. Può verificarsi, in altri termini che ad un
giocatore venga attribuita una defezione o perché egli ha commesso un errore nella
scelta, oppure perché ha cooperato, ma tale comportamento è stato male inteso.
Assumiamo che la probabilità di tali errori sia pari a ε > 0. Immaginiamo ora che un
soggetto che per qualche ragione ha defezionato venga punito nel periodo successivo
dai membri del gruppo di giocatori per un ammontare pari a p. Ogni giocatore per
punire le defezioni subirà quindi un costo complessivamente pari a εp/(n-1), dove n è
il numero complessivo dei giocatori. Il numero invece dei segnali di defezione sarà
uguale a (n-1)ε e questi porteranno come conseguenza una punizione complessiva del
valore di a (n-1)εp. Siccome abbiamo detto che tale somma andrà divisa per ogni
giocatore ad esclusione del punito, e immaginando che una punizione pari a p costi a
chi la mette in atto αp (α > 0), allora ogni individuo subirà un costo atteso pari a εp(n-
1)/(n-1) = εp, per un costo complessivo di αεp. Tale punizione dev’essere tale che
nessun giocatore possa trovare conveniente defezionare oggi e poi ritornare a
cooperare domani. Se indichiamo con πc il payoff che si ottiene quando tutti
cooperano e con πd quello che invece si ottiene se si defeziona oggi mentre tutti gli
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altri cooperano e poi si torna a cooperare, allora tale condizione sarà verificata quando
πc ≥ πd. I due payoff si ottengono nel modo seguente:
πc =b – c – αεp – εp
πd =b – (αε +1)p
se, per semplificare, imponiamo che il valore della punizione p sia uguale a
c/(1-ε), allora il payoff di ogni giocatore sarà dato da
dove cε(1+α)/(1-ε) è il costo che ogni giocatore deve sostenere per contribuire
all’intero sistema di punizione. Tale costo si riduce al ridursi dell’opacità dei
comportamenti e all’aumentare dell’osservabilità del segnale.
Ma qui sorge un ulteriore problema che è legato al fatto che la punizione di coloro che
defezionano ha le stesse caratteristiche di un bene pubblico; vale a dire che la
punizione continuerà ad essere efficace anche se tutti, tranne me, decidessero di
punire chi ha defezionato. In altri termini un giocatore autointeressato avrebbe un
forte incentivo a non punire per sfruttare, senza nessun costo individuale, i benefici
delle punizioni messe in atto dagli altri. Me se tutti ragionassero allo stesso modo,
l’intero sistema delle punizioni collasserebbe e con esso l’incentivo principale a
cooperare. Bowles e Gintis (2010) forniscono una risposta anche a questo problema.
Quando tutti sono disposti a punire, il numero di defezioni osservate sarà pari a εn e il
numero di punizioni effettivamente messe in atto sarà pari a εn(1-n). Se osserviamo a
questo punto il numero di punizioni, anche queste saranno soggette ad errori, per cui
potremmo osservare nel periodo successivo un numero di defezioni sulle punizioni
pari a ε2n(1-n), e nel periodo successivo ancora a ε3n3(1-n), per un totale
complessivo, di periodo in periodo, pari a
€
εn(n −1) +ε 2n2(n −1) +ε 3n3(n −1) + ... = (n −1) εn1−ε
€
π c = b − c 1+ε1+α1−ε
⎛
⎝ ⎜
⎞
⎠ ⎟
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la somma totale delle punizioni p va poi divisa per (n-1) soggetti i quali in ogni
periodo subiranno un costo pari a
se assumiamo un valore per ε < 1/n allora il payoff complessivo per coloro che
cooperano e puniscono chi non coopera sarà pari a
Tale risultato, diversamente da quanto abbiamo visto nel caso dell’altruismo
reciproco, mantiene la sua validità anche nel caso di gruppi numerosi. Questo
principalmente perché nel caso di defezione da parte di un giocatore non vengono
puniti anche tutti gli altri, ma solo e unicamente il colpevole.
Il terzo problema che avevamo introdotto discutendo del folk-theorem era connesso
alla pubblica osservabilità dei comportamenti. Se per qualche ragione introduciamo
un certo livello di opacità circa ciò che gli altri fanno, se il gruppo è numeroso questa
possibilità diventa piuttosto realistica, il risultato originale del folk-theorem non regge
più. Tale limite è stato superato grazie al contributo di Sekiguchi (1997), il quale ha
sviluppato un modello basato sul folk-theorem considerando la presenza di segnali
non pubblicamente osservabili. La critica che in maniera convincente Bowles e Gintis
(2010) muovono a questo modello si fonda sul fatto che benché esso sia logicamente
coerente, produce un risultato soddisfacente, in termini di strategie di equilibrio,
solamente in presenza di condizioni estremamente restrittive e le proprietà dinamiche
degli equilibri sono, al meglio, irrilevanti.
Questo ultimo problema, in gradi differenti, affligge tutti i risultati basati sul folk-
theorem, proprio in virtù della sua stessa natura. Il teorema infatti ci dice che un
equilibrio esiste, ma non ci spiega come giocatori razionali possano riuscire a
coordinare le loro azioni per raggiungerlo. Un equilibrio infatti si può ottenere solo le
credenze dei giocatori rispetto alle azioni degli altri giocatori sono mutuamente
€
(n −1) pεn1−εn
€
πc = b − c 1+εn 1+α(1−εn)(1−ε )
⎛
⎝ ⎜
⎞
⎠ ⎟
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allineate. Mentre questo risultato è facilmente, o meno problematicamente, ottenibile
in un gioco statico, questo diventa estremamente complicato in un gioco ripetuto e
ancor più se i giocatori sono più di due. In questi casi in assenza di un “meccanismo
di correlazione” delle credenze di ciascun giocatore circa le azioni di ogni altro
giocatore, la possibilità di raggiungere un equilibrio diventa decisamente implausibile,
anche se il folk-theorem afferma che tale equilibrio esiste. Un tipico esempio di
“meccanismo di correlazione” che adempie a tale funzione nella vita reale sono le
norme sociali, le quali ci aiutano a formarci credenze a priori, circa il possibile
comportamento che gli altri soggetti, in una data situazione, in un dato ruolo,
tenderanno con tutta probabilità a porre in essere.
Questa è la ragione principale perché le norme sociali si sono evolute, anche con una
fisionomia molto differente, da cultura a cultura, lungo i secoli: per consentire un più
efficace coordinamento tra soggetti decentrati, che interagendo in gruppi e potendo
osservare in maniera solo imperfetta il comportamento e le scelte altrui, non di meno
aspirano a godere i benefici di una azione cooperativa.
Per questa ragione una spiegazione della cooperazione, dell’emergenza e della
sopravvivenza di comportamenti fiduciari ed affidabili, che trascuri il ruolo delle
norme sociali è destinata a rimanere un’impresa meritoria, ma fondamentalmente
destinata all’insuccesso.
Nel proseguo del capitolo introdurremo alcuni modelli che, attraverso la
considerazione del ruolo centrale delle norme sociali, possono aiutarci a comprendere
meglio le dinamiche cooperative e fiduciarie che sostengono la nostra vita comune.
5. Homo economicus o Homo Sapiens?
Avevamo aperto il paragrafo precedente citando la celeberrima frase di Adam Smith
circa le virtù del mercato nella quale si evidenziava come sia possibile che soggetti
autointeressati e mutuamente indifferenti riescano a cooperare facendo leva
esclusivamente sul reciproco egoismo. Questa filosofia è, a pensarci bene, quella
stessa che informa tutte le spiegazioni di natura biologica ed economica relativa
all’emergere della cooperazione che abbiamo fin qui analizzato. E abbiamo anche
visto come tutte queste teorie, in un modo o nell’altro, per un verso o per l’altro,
presentino dei forti limiti esplicativi o, nel migliore dei casi, siano soggetti a
condizioni altamente restrittive.
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Le difficoltà legate ai modelli che abbiamo finora analizzato e che, in modo
differente, caratterizzano tutti i tentativi di spiegazione di questo tipo, mettono in luce,
non solo difficoltà di natura tecnica, ma piuttosto un vizio di fondo, un pregiudizio
antropologico che in qualche modo condanna all’insuccesso questo tipo di modelli.
Per capire la natura di questo pregiudizio può esserci utile continuare a seguire Adam
Smith, ma passando dell’impostazione tipica della Ricchezza delle Nazioni, aquella
dal lui adottata nella Teoria dei Sentimenti Morali. All’inizio di questo libro Smith
descrive l’essere umano in questi termini: “Per quanto [egli] possa esser supposto
egoista, vi sono evidentemente alcuni principi nella sua natura che lo inducono ad
interessarsi alla sorte altrui e gli rendono necessaria l'altrui felicità, sebbene egli non
ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla”. Dunque non solo, afferma Smith,
nel mercato è sufficiente il ricorso all’autointeresse per spiegare gli scambi improntati
al mutuo guadagno, ma anche che in generale, negli essere umani è presente una
tendenza altruistica, che seppure non necessaria nel mercato, è fondamentale per la
costruzione di convivenze coese e cooperative.
Ecco il tassello mancante nella nostra spiegazione dell’emergere della cooperazione e
della fiducia: un modello di agente economico più ricco, un agente economico dotato
di preferenze sociali, e non solo un massimizzatore autointeressato della sua utilità
individuale. Questa tipologia di agente, se inserito nelle teorie che abbiamo
considerato potrà dar conto in maniera più compiuta e descrittivamente adeguata,
dell’evidenza empirica che possediamo circa la capacità di cooperare e di fidarsi
reciprocamente che l’homo sapiens mette in essere ormai da qualche centinaia di
migliaia di anni e a cui dobbiamo in larga misura in nostro attuale livello di sviluppo
culturale, economico e sociale.
L’orientamento all’altro, e le preferenze sociali spiegano inoltre l’evoluzione e il
funzionamento di quelle norme sociali che codificano in cultura i comportamenti
funzionali alla cooperazione.
Il ruolo di tali norme e di tali preferenze è ormai largamente riconosciuto e l’enorme
quantità di evidenza empirica raccolta sia sul campo che in laboratorio, che testimonia
forme di cooperazione sistematica appare difficile da conciliare con le previsioni dei
modelli tradizionali (cfr. Camerer, 2004 per una valida rassegna).
Di seguito discuteremo brevemente alcuni dei principi comportamentali non-
autointeressati che sono stati recentemente individuati e incorporati in alcune teorie
formali di scelta strategica.
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6. Giustizia distributiva e avversione all’iniquità.
Il primo elemento che vorremmo prendere in considerazione fa riferimento al
concetto di equità. Innumerevoli esperimenti hanno messo in luce l’esistenza di un
taste for fairness, una preferenza per l’equità, ampiamente diffusa nella popolazione
ed largamente invariante rispetto a considerazioni di natura soggettiva, culturale e
sociale. Tale elemento è stato ampiamente analizzato e descritto formalmente in
particolare nell’accezione di “avversione all’iniquità”. Questi modelli (Fehr e
Schmidt, 1999; Bolton e Ockenfels, 2000) postulano che gli agenti economici, nel
valutare la desiderabilità di una data azione non considerano solo l’esito materiale che
ne deriva per loro stessi, ma anche la natura della distribuzione dei guadagni e delle
perdite che le loro scelte determinano e che coinvolgono tutti gli altri soggetti con cui
essi interagiscano. Queste distribuzioni concorrono a determinare l’utilità del soggetto
in modo tale che egli cercherà contemporaneamente di massimizzare il suo benessere
materiale e di minimizzare la differenza tra la sua posizione e quella di tutti gli altri.
In altri termini questo significa che un agente siffatto sarà disposto a rinunciare ad una
frazione della sua ricchezza per fare in modo che si determini una distribuzione della
stessa più egualitaria. La diseguaglianza quindi rappresenterà un costo di natura
psicologica che i soggetti cercheranno di evitare, sia che tale diseguaglianza, in
termini materiali, sia vantaggiosa per il soggetto, sia che essa sia svantaggiosa. Questa
tensione verso l’equità appare naturalmente come un elemento necessario per
l’emergenza di norme cooperative. Eppure, benché importante, l’aspetto dell’equità
non esaurisce tutte le ragioni che possono portare all’emergere di comportamenti
cooperativi. Infatti il principio di avversione all’iniquità è un principio puramente
consequenzialista. Ciò significa che ogni scelta viene valutata esclusivamente sulla
base delle sue conseguenze. Eppure le osservazioni di laboratorio mostrano che
spesso gli agenti valutano azioni equivalenti tra loro, in termini di conseguenze, in
maniera differente sulla base delle differenti intenzioni che ad esse possono essere
associate. Immaginiamo che tu mi possa offrire una certa somma di denaro. La mia
gratitudine rispetto a tale gesto non dipenderà solamente dalla somma che deciderai di
regalarmi, ma anche dall’intenzione che io associo a tale gesto. Per esempio, un conto
è ricevere 5 euro sapendo che tu ne avevi 10 in totale; un altro conto è ricevere 10
euro sapendo che tu ne avevi a disposizione 100. Spesso nella nostra valutazione e
quindi nelle potenziali reazioni, la prima scelta ci appare più gentile della seconda,
23
benché la somma ricevuta in questo caso (la conseguenza), sia inferiore rispetto a
quella ricevuta nel secondo caso.
L’importanza del processo di attribuzione delle intenzioni è stata riconosciuta e
recentemente formalizzata nei modelli che considerano le preferenze sociali legati ai
principi di reciprocità e rispondenza fiduciaria.
7. Incentivi relazionali: Reciprocità e fiducia
Per reciprocità si intende la disponibilità di un soggetto A a rinunciare ad un
guadagno materiale per conferire un beneficio ad un soggetto B, il cui comportamento
ha un effetto positivo sul benessere di A. Questa la definizione di reciprocità
“positiva”, cui si affianca quella di reciprocità “negativa”, dove la disponibilità a
rinunciare ad un guadagno o a sopportare un certo costo, è finalizzata a punire un
comportamento che viene valutato scorretto. Sono vari i modelli teorici che
incorporano questo concetto di reciprocità (Rabin, 1993; Dufwenberg e Kirchsteiger,
2004, tra gli altri) e che spiegano comportamenti cooperativi che sfuggono al campo
di significatività del modello classico. Con l’introduzione di una struttura di
motivazioni fondata sulla reciprocità, naturalmente diventa più semplice spiegare
l’evoluzione e la sopravvivenza di modelli comportamentali cooperativi, in quanto sia
la ricompensa di scelte funzionali al benessere del gruppo, sia la punizione di
comportamenti devianti, benché possano comportare un costo individuale in termini
materiali, producono anche dei benefici di natura psicologica per lo stesso soggetto
che le pone in atto. Tale beneficio psicologico diretto va a sommarsi a quello
materiale indiretto che riguarda l’intero gruppo, rendendo in questo modo la
probabilità della fissazione di scelte cooperative complessivamente più probabile.
Il concetto di reciprocità ci dice qualcosa di importante anche rispetto alle
relazioni di natura fiduciaria. Immaginiamo due imprenditori (A e B) che decidono di
cooperare in un progetto innovativo. Il soggetto A inizia a fare degli investimenti che
pagheranno solo se anche il soggetto B farà la sua parte. Gli investimenti di A
altrimenti saranno un costo per lui. Il soggetto B a questo punto può decidere se fare
la sua parte nel progetto congiunto o sfruttare i risultati ottenuti insieme ad A fino a
quel momento cambiando progetto in modo da tagliare fuori A. Se il soggetto A
decida di fidarsi e quello B di ripagare la sua fiducia, potremmo spiegare tale
comportamento affermando che B ha reciprocato la gentilezza diA, il quale,
fidandosi, lo aveva messo nelle condizioni di ottenere un risultato migliore di quello
24
che avrebbe ottenuto se A non si fosse fidato di lui. Tale gentilezza viene
ricompensata da B attraverso la rinuncia alla scelta opportunistica e la tutela degli
interessi di A. Sulla base di questo ragionamento, la fiducia di A potrebbe benissimo
fondarsi sull'aspettativa di un comportamento reciprocante da parte di B. Eppure
siamo convinti che la reciprocità da sola non è sufficiente a dar conto dei fenomeni
fiduciari, se questi vengono intesi in senso più generale. Essa infatti, funziona solo nel
caso in cui una relazione fiduciaria preveda per entrambi i giocatori la possibilità di
un mutuo vantaggio. Ma dobbiamo tener conto che pure esistono situazioni fiduciarie
nelle quali tale condizione non è presente; situazioni, cioè, nelle quali il fiduciario non
ha niente da guadagnare dalla fiducia che viene riposta in lui, e addirittura situazioni
nelle quali il comportamento affidabile non solo non determina un guadagno per il
fiduciario, ma è associato ad un costo.
Immaginiamo che ci venga chiesto un favore: quando il nostro vicino di casa ci
chiede di annaffiargli le piante mentre lui è in vacanza, o quando ci viene confidato
un segreto e chiesto di mantenerlo, o quando, ancora, uno studente sconosciuto ci
manda una e-mail chiedendo indicazioni e consigli di vario genere. In questi casi, non
solo io non guadagno niente dal comportarmi in maniera affidabile (innaffiare le
piante, mantenere il segreto, fornire buone ed esaurienti indicazioni), ma questi
comportamenti possono essere associati ad un costo (il tempo necessario per
l'annaffiatura o per rispondere alla mail o ancora la tensione emotiva legata al
mantenimento del segreto). Questi sono solo tre semplici esempi di interazioni
fiduciarie dove non solo non esiste la possibilità di vantaggio per il fiduciario, ma anzi
la sua affidabilità è associata ad un costo. Queste considerazioni ci portano ad
affermare che la visione della fiducia quale aspettativa di reciprocità, debba essere
intesa come una concezione parziale e nient'affatto generale di ciò che generalmente
intendiamo con il termine “fiducia”.
Per questo appare necessario fare un passo in avanti e proporre elementi per una
teoria dei comportamenti fiduciari almeno parzialmente distinta dalle varie teorie
della reciprocità. Come base di tale teoria proponiamo il concetto di “rispondenza
fiduciaria” (Pelligra 2007, 2010a). Secondo tale principio è la stessa la fiducia
ricevuta a costituire una delle ragioni che motiva una risposta affidabile. Il nesso
causale tradizionale tra l’affidabilità che giustifica la fiducia, è in questo caso
invertito, considerando che è anche la fiducia a promuovere l'affidabilità.
25
I comportamenti fiduciari, ancor più di quelli fondati sul movente della reciprocità,
rappresentano un esempio chiaro dell'importanza della componente relazionale anche
in ambiti economicamente rilevanti. Questo fatto appare ancora più chiaro alla luce
della distinzione appena introdotta tra fiducia intesa come aspettativa di reciprocità e
fiducia come aspettativa di affidabilità. Nel primo caso, infatti, la tipologia di
interazione tra soggetti, il primo che si fida e il secondo che si comporta in maniera
affidabile, è sempre riconducibile ad un tipo di scambio materiale, sia pure
sequenziale e differito nel tempo. La fiducia, in questo caso, entra nella relazione
perché la possibilità del guadagno reciproco è condizionata alla rinuncia del
comportamento opportunistico da parte del fiduciario. Ma la tipologia di relazioni
fiduciarie è, come abbiamo visto, più ampia di quelle nelle quali è presente la
possibilità di mutuo guadagno e coinvolge anche situazioni nelle quali, non potendo
esserci nessun tipo di scambio e quindi di reciproco vantaggio materiale, non è
presente il movente della reciprocità. Ma allora, è proprio in questi casi nei quali non
è presente la dimensione dello scambio materiale mutuamente vantaggioso, che
l'elemento genuinamente relazionale emerge con più chiarezza.
Se la fiducia non è una aspettativa di reciprocità che si fonda sulla
disponibilità del fiduciario di rinunciare all'opportunismo per rispondere
positivamente alla possibilità di guadagno che gli offre il fiduciante, allora che cos'è?
Ma soprattutto, se l'affidabilità non è solo una forma di reciprocità, come possiamo
definirla, pensando in particolare a quei casi nei quali una scelta affidabile è gratuita o
addirittura costosa?
Per rispondere a tali quesiti è opportuno discutere più in profondità il principio di
“rispondenza fiduciaria”. In questa concezione dei rapporti fiduciari è proprio la
natura della relazione, e non solo le caratteristiche dei singoli protagonisti, a
determinare l’esito dell’interazione stessa. Perché l’entrare in relazione, se tale
relazione è una vera relazione inter-umana, modifica di per sé stessa i soggetti che ne
sono coinvolti, nelle loro aspettative e di conseguenza nelle loro decisioni. L’ipotesi
di rispondenza fiduciaria descrive, in questo senso, l'influenza che in un rapporto
fiduciario, esercitano sulle decisioni dei soggetti le aspettative circa il comportamento
altrui ma anche le aspettative circa le aspettative rispetto a tale comportamento.
Sintetizzando potremmo dire che la fiducia responsiva implica che il comportamento
fiducioso del fiduciante, proprio perché segnala al fiduciario la sua aspettativa di
affidabilità, susciti e giustifichi tale risposta affidabile da parte del fiduciario. In
26
questo caso, quindi, la logica tradizionale secondo cui “io mi fido perché tu sei
affidabile” viene completamente ribaltata, fino a prendere la forma del “tu sei
affidabile perché io mi sono fidato”.
La “responsività” (responsiveness) che contraddistingue una relazione siffatta, è
una qualità della fiducia che emerge nella relazione tra fiduciante che si fida, e
fiduciario, colui di cui ci si fida, e può essere compresa solo guardando all’interazione
tra le intenzioni e le azioni di coloro che sono coinvolti. Una scelta fiduciosa, infatti,
quando viene osservata dal fiduciario, segnala a quest'ultimo l'aspettativa che il primo
ha circa la sua affidabilità; nessuno si fida, infatti, se ha la certezza di venire tradito.
Tale aspettativa di affidabilità porta con sé un beneficio psicologico, un dono
immateriale per il fiduciario, il quale però può solo incassare tale beneficio se decide
di corrispondere positivamente all'aspettativa di affidabilità, comportandosi
effettivamente in maniera affidabile. In questo senso possiamo considerare una scelta
affidabile che segue una scelta fiduciosa, come una vera e propria “profezia che si
auto-avvera”. E' questo gioco di aspettative e congetture, intenzioni ed azioni che
rende impossibile descrivere la logica della rispondenza fiduciaria all'interno della
teoria della scelta tradizionale. Se le preferenze dei soggetti, infatti, si modificano
all'interno della relazione stessa, sono cioè endogene alla relazione, non è possibile
descriverle in un quadro puramente consequenzialista, quale quello della scelta
razionale ma anche dei modelli di avversione all’iniquità. L'esito dell'interazione
dipende in maniera cruciale non solo dalle conseguenze effettive cui una coppia di
scelte, fiduciosa e affidabile o diffidente e opportunista, può condurre; essa si fonda
anche sulle credenze relative alla probabilità di tali scelte che gli agenti coinvolti si
possono formare (Pelligra, 2010b).
Nelle teorie della scelta tradizionali tutte le ragioni per fidarsi e per essere
affidabili sono rappresentate come dei dati esogeni. Ma se la fiducia è realmente un
fattore relazionale che si manifesta, e direi di più, si crea all'interno di una relazione
interpersonale, sembra altamente improbabile che un modello di spiegazione che
consideri le ragioni delle scelte come esterne alla relazione stessa, possa essere in
grado di fornire un resoconto soddisfacente della reale natura dei fenomeni fiduciari.
La rispondenza fiduciaria, al contrario, considera, almeno in parte, l'affidabilità come
una conseguenza endogena della scelta fiduciaria. Anche l'idea di reciprocità che
abbiamo introdotto più sopra, implica una qualche forma di responsività: gli atti di
27
“gentilezza”, infatti, inducono risposte gentili, mentre atti scorretti esplicitano
risposte punitive.
Dunque, mentre la reciprocità scaturisce dalla constatazione di un beneficio
materiale ottenibile in relazione alla scelta osservata o attesa dell'altro giocatore, la
rispondenza fiduciaria funziona semplicemente sulla base dell'osservazione di una
azione che manifesta aspettative fiduciarie da parte del fiduciante. La reciprocità
quindi risulta in fin dei conti, attivata dalla possibilità di uno scambio mutuamente
vantaggioso, sia pure differito nel tempo, dal quale entrambi i soggetti traggono un
beneficio materiale. La rispondenza fiduciaria, invece, non necessita di questa
componente materiale quale elemento attivante della risposta cooperativa.
Come abbiamo più volte ripetuto, nello schema della rispondenza fiduciaria, un
atto di genuina fiducia fornisce al fiduciario ragioni addizionali per rispondere in
maniera affidabile alla scelta fiduciosa del fiduciante. L'ipotesi è in sostanza quella
secondo cui siamo spinti a conferire benefici a persone che hanno credibilmente
mostrato di attenderseli (i fiducianti) e sulla base di tale aspettativa si sono esposte
volontariamente al rischio legato ad una eventuale mossa opportunistica. La nostra
ipotesi è che tale meccanismo, accanto ad altri, possa fornire importanti elementi per
la comprensione delle dinamiche evolutive dei comportamenti cooperativi tra persone
reali.
Una più estesa e dettagliata trattazione dei tratti principali dell'ipotesi di
rispondenza fiduciaria sono esposti in Pelligra (2007 e 2010a), mentre Dufwenberg e
Gneezy (2000), Guerra e Zizzo, (2005) e Bacharach, Guerra e Zizzo (2007) riportano
i primi risultati sperimentali che sembrano avvalorare empiricamente tale ipotesi.
8. Alcune implicazioni per l’implementazione e la progettazione
istituzionale.
La rassegna che qui abbiamo voluto proporre relativamente ai modelli biologici ed
economici della emergenza della cooperazione umana, unitamente alle considerazioni
che abbiamo svolto sulla complessità della struttura motivazionale dovrebbero aver
messo in luce, sia pure in maniera veloce e perlopiù non tecnica, i limiti legati alle
spiegazioni unidimensionali del fenomeno della cooperazione. Per unidimensionali
intendiamo quei modelli di spiegazione che fanno ricorso ad un modello di agente
economico puramente autointeressato il quale è capace di rinunciare ad un guadagno
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immediato solo se a questo, attraverso la formazione di una solida reputazione, né può
seguire uno maggiore nel lungo periodo. Quello che dovrebbe apparire chiaro ora è
che tale strategia risulta inefficace se non si completa tale modello di agente con
nuove dimensioni legate alla sua struttura motivazionale, che come abbiamo visto,
risulta in realtà essere più complessa e incorpora elementi quali, tra gli altri, equità,
reciprocità e rispondenza fiduciaria.
L’importanza di questa operazione è legata non solamente alla costruzione di un
modello completo e descrittivamente adeguato di agente sociale, ma anche e
soprattutto, alla possibilità di progettare più efficacemente delle politiche e delle
istituzioni capaci di promuovere la cooperazione e di scoraggiare,
contemporaneamente i comportamenti opportunistici e disfunzionali. La complessità
del nesso tra teoria e politica è tale che un modello teorico incompleto, infatti, può
portare all’elaborazione di politiche e alla progettazione di istituzioni non solo
inefficaci, ma addirittura controproducenti e dannose.
Se i soggetti reali differiscono sensibilmente dall’immagine tradizionale dell’homo
economicus, nel senso che non solo reagiscono ad incentivi materiali come quelli che
si considerano nei modelli che abbiamo considerato nella prima parte del capitolo, ma
traggono utilità anche da comportamenti other-regarding che sono guidati dai principi
di equità, reciprocità e rispondenza fiduciaria, allora tali elementi dovranno essere
incorporati in un sistema di incentivi più complesso e gestiti di conseguenza, alla
stregua di importanti risorse motivazionali. Gli schemi di relazione che stanno alla
base di regole, contratti, costituzioni e altre forme di strutture interattive, dovranno
essere pensati, nell’ambito delle comunità, in modo da essere in grado di attivare i
principi suddetti e di orientare i comportamenti verso la piena cooperazione.
Quando, per esempio, costruiamo uno schema di interazione che lasci spazio al
funzionamento del meccanismo di rispondenza fiduciaria, stiamo creando una
domanda di affidabilità, e questo possiamo farlo non solo in virtù del beneficio che il
fiduciante avrà dall’affidabilità del fiduciario, ma anche perché in questo modo, da
tale relazione, potremmo ottenere un incremento di capitale sociale, che, al momento
del bisogno, andrà a beneficio anche del fiduciario stesso, quale membro di un gruppo
più coeso e cooperativo. Ricorrere invece ad un eccessivo monitoraggio e a regole
strettamente cogenti, può avere l’effetto di bloccare il meccanismo della rispondenza
fiduciaria e, in ultima analisi, di incentivare proprio quell’opportunismo che le regole
erano intese a scoraggiare.
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La fiducia, in questo senso, è una questione di “segnali”. Il fiduciario sa che il
fiduciante si sta mettendo volontariamente e coscientemente nelle sue mani. E’ questo
segnale che crea ragioni addizionali per il fiduciario a comportarsi in modo affidabile.
Spesso l’assicurazione dal rischio di opportunismo fa si che tali segnali non possano
essere veicolati, riducendo l’effetto motivante della fiducia e riducendo,
conseguentemente, la disponibilità del fiduciario all’affidabilità.
Quella di reciprocità e di affidabilità sono inoltre, norme rinforzate dalla
pressione dell’approvazione o della disapprovazione sociale. Per questa ragione, come
recentemente dimostrato da Fehr e Falk (2002), tali norme sono soggette ad un
meccanismo di “complementarietà strategica”. Questo implica che l’efficacia
dell’approvazione o della disapprovazione dipende dal comportamento degli altri
soggetti e dalla valutazione che essi danno del comportamento in questione. Se gli
altri soggetti sono sensibili alla valutazione sociale espressa dai membri del loro
gruppo, l’agire di ogni soggetto troverà del desiderio di approvazione un movente
spesso sufficientemente forte da controbilanciare l’incentivo materiale. Tale
meccanismo apre la possibilità del verificarsi di una molteplicità di equilibri. Alcuni
di questi equilibri saranno ottimali e quindi preferibili, mentre altri saranno sub-
ottimali e quindi li si vorrà evitare. La transizione da un equilibrio inefficiente verso
uno migliore dipenderà allora dal modo in cui gli incentivi relazionali e sociali
vengono fatti funzionare all’interno di ogni data comunità. Un dato insieme di regole
possono creare uno schema di community governance nel quale il valore
dell’approvazione sociale e del rispetto delle norme condivise vengono incoraggiati e
in questo modo, tali regole, possono essere in grado di favorire e promuovere
comportamenti cooperativi.
Le motivazioni psicologiche e morali dei soggetti devono quindi essere considerate
come beni importanti, a volte cruciali, di ogni comunità. Trascurare o sottovalutare
l’importanza di questo punto, può portare ad esiti controproducenti e in ogni caso, ad
uno spreco di risorse ed in ultima analisi ad un danno per l’efficienza sociale della
comunità.
L’attività di progettazione istituzionale e la connessa teoria dell’implementazione
mirano, da una parte, a regolare le interazioni tra soggetti a differenti livelli,
attraverso la creazione di istituzioni formali capaci di coordinare gli interessi dei
diversi agenti e di dirigerli verso gli esiti cooperativi desiderati, e dall’altra, a
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sostenere e promuovere con sanzioni e altre forme di (dis)incentivi materiali e
immateriali certe tipologie di comportamenti.
L’idea di fondo che sta alla base della teoria e della pratica della progettazione
istituzionale di stampo tradizionale non è certo nuova e può essere fatta risalire fino a
Mandelville, il quale nella sua Favola delle Api affermava la necessità per i
governanti di fare in modo che “il peggiore di tutta la Moltitudine faccia qualcosa per
il Bene Comune”. Sulla stessa linea si muove David Hume, quando suggerisce che
“nel progettare qualsiasi sistema di governo (...) si dovrebbe presupporre che ogni
uomo sia un delinquente senza altro fine, in tutte le sue azioni, che il perseguimento
del suo interesse privato”.
Un gran numero risultati sperimentali e teorici hanno messo in luce
recentemente che tale teoria è basata su un errore di fondo. Si è iniziato a capire infatti
come, quando e perché, regole progettate per egoisti portano anche soggetti non-
autointeressati a comportarsi da egoisti. Questo approccio che è stato definito devian-
centered (Pettit, 1996), è destinato a sprecare, in questo modo, le risorse
motivazionali e le inclinazioni other-regarding dei soggetti reali. Questo esercizio
basato sull’assunzione secondo cui ogni agente deve essere considerato come un
“furfante razionale” (Hume), non è così innocuo come si era propensi pensare fino a
qualche tempo fa, perché esso può avere come conseguenza l’erosione degli
orientamenti pro-sociali dei membri di una comunità, la loro fiducia e la tendenza alla
reciprocità. L’inadeguatezza teorica dei modelli standard, può portare quindi
all’elaborazione di regole e schemi di incentivi che scoraggiano in pratica, i
comportamenti cooperativi.
Queste conclusioni accentuano necessariamente la necessità di individuare un
percorso alternativo, più focalizzato sulla promozione della cooperazione che sul
contrasto all’opportunismo. Un tale approccio complier-centered, è in linea con
quanto suggerisce Alber Hirschman, il quale segnala come leggi e regolamenti non
dovrebbero servire tanto ad aumentare il costo di comportamenti antietici o
antisociali, quanto a “stigmatizzare [tali comportamenti] e dunque a influenzare i
valori dei cittadini e i loro codici comportamentali”.
Non possiamo, per ragioni di spazio, spingerci oltre nell’analisi dei modelli complier-
centered, è stato fatto in altre occasioni (Pelligra, 2002), ma ora il messaggio di fondo
dovrebbe essere emerso in modo sufficientemente chiaro. Le diverse tipologie di
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regole, incentivi e schemi di relazioni attraverso i quali le comunità governano i loro
membri e attivano le loro risorse dovrebbero essere accuratamente strutturate in
modo da non provocare effetti controproducenti e di spiazzamento e, più in generale,
un’erosione della fiducia e dell’inclinazione alla reciprocità. I rapporti di lavoro, la
pubblica amministrazione, la rappresentanza politica, l’attività di consumo e di
scambio, l’auto-organizzarsi della società civile, sono solo alcuni dei campi per i quali
tali raccomandazioni possono essere rilevanti.
Non ci resta che concludere sottoscrivendo l’affermazione di Samuel Bowles
secondo cui la scoperta e la pratica attuazione dei modi “in cui ciò potrebbe essere
fatto è una delle sfide maggiori degli studi contemporanei sulle istituzioni e i
comportamenti economici” (2005, p. 500).
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