Globalizzazione ed educazione

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Il contributo è apparso sulla rivista «Vita e Penisero», 4, 1998, pp. 273-286.

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PIER CESARE RIVOLTELLA Globalizzazione: il fatto simbolico, l’appropriazione culturale, i compiti educativi

Uno dei fattori di novità di questa edizione di Scholé – quanto meno dal

punto di vista del confronto disciplinare e delle prospettive che esso può dischiudere alla riflessione pedagogica – è stato sicuramente l’integrazione del punto di vista economico. Lo ha chiaramente evidenziato Cesare Scurati, chiudendo i lavori, quando ha indicato la necessità per la pedagogia di porsi di fronte all’economia: non la micro-economia, quella delle povertà locali, con la quale, anche se indirettamente, la pedagogia già si relaziona (magari con il rischio di configurare il pedagogista solo come un “pompiere sociale”, o un “infermiere” – secondo l’immagine usata da Scurati), ma la macro-economia, quella dei grandi processi di trasformazione, delle logiche planetarie.

L’indicazione – quella di una necessaria relazione della riflessione pedagogica con i temi dell’economia – ha trovato riscontro a più livelli nella due giorni dei lavori.

Anzitutto, la key-note di apertura, affidata a Giovanni Bazoli, ha contestualizzato subito il tema della globalizzazione proprio all’interno di un grande affresco macro-economico. Nel fenomeno andrebbero distinti due elementi costitutivi: la globalizzazione dei prodotti e la globalizzazione dell’informazione e delle conoscenze. Il primo fenomeno è favorito dalla liberalizzazione dei mercati ed è guidato dalla ricerca del profitto; il secondo è alimentato dai media, vecchi e nuovi, ed è segnato da un incremento progressivo dell’informazione circolante e disponibile. A entrambi i livelli, in linea teorica, dovrebbe essere possibile registrare degli effetti positivi: a livello di prodotti, nel senso di una maggiore distribuzione di beni e servizi; a livello di conoscenza, nella direzione di un progressivo avvicinamento dei popoli e delle culture. Di fatto, però, un bilancio degli effetti non può che far registrare anche delle criticità (che interpellano inevitabilmente l’educazione) a diversi livelli: di impatto ambientale, di iniqua distribuzione della ricchezza (le tecniche di politica economica connesse con la globalizzazione, segnate dalla deregulation dalla privatizzazione, si sono dimostrate irrispettose del valore dell’individuo), di progressiva occidentalizzazione del mondo con quel che ne sta conseguendo a livello di tensioni e conflitti.

L’economia è stata posta al centro della sua riflessione anche da Lattuada, in prospettiva morale: la burocratizzazione della vita urbana, la mobilità e la flessibilità del lavoro, la sovraesposizione della logica del profitto, l’esaltazione del consumo come criterio alla luce del quale misurare la soddisfazione esistenziale, sono da questo punto di vista tutti fattori che indicano nella direzione di una sostituzione dell’etica con l’estetica intesa come risoluzione della vita nella superficie e rinuncia alla domanda sui temi fondamentali della vita e della morte.

Ancora, sul piano dello sviluppo, Felice Rizzi ha messo in relazione l’economia e le sue forme in tempo di globalizzazione con i “numeri” del sud del mondo: un tasso di analfabetismo prossimo al 67% in Asia, al 37% nell’Africa

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sub-sahariana, al 12% nella regione caraibica; la registrazione, negli anni ’90, di 150 conflitti locali, due milioni di bambini uccisi, un milione di handicappati, dodici milioni che hanno perso le loro famiglie. Anche in questo caso l’educazione deve sentirsi fortemente provocata: il problema è di realizzare un raccordo tra le politiche locali e una visione coerente del bene comune.

Tutti questi percorsi di lettura hanno quasi naturalmente trovato nell’11 settembre un’icona significativa alla luce della quale leggere il fenomeno della globalizzazione evidenziandone le diverse declinazioni. Vi è stata colta una cesura epocale (“nulla più sarà come prima”), la ricomparsa della Storia che pareva uscita di scena “dalla Porta di Brandeburgo” nel 1989, la dimostrazione che ogni potenza è vulnerabile, la fine dell’idea di guerra, la deflagrazione delle disparità a causa delle conoscenze messe in circolazione dai network televisivi e dalla rete Internet, la prova delle responsabilità politiche dell’Occidente, l’esplosione del conflitto tra il “fondamentalismo” capitalista e il fondamentalismo islamico.

La risposta all’11 settembre – e di conseguenza alle “storture” della globalizzazione – è stata consegnata, dai diversi interventi e dalle voci emerse all’interno del dibattito, alla necessità di passare dal “micro” al “macro” (come si indicava in apertura facendo riferimento alla conclusione dei lavori da parte di Scurati). Così, per Bazoli, la possibilità di rendere positivo il fenomeno passa da alcune scelte obbligate: il rafforzamento della rappresentatività democratica, la sanzionabilità degli atti a livello internazionale, il mutamento dei costumi nella direzione della convivenza multiculturale, la tutela dei beni pubblici globali (l’ambiente). Pazzaglia ha evidenziato la necessità di «un grande progetto politico che coniughi libertà e regole». Santerini ha indicato alcuni itinerari educativi possibili: restituire responsabilità agli attori sottraendoli alla omologazione simbolica dei consumi; favorire il riconoscimento come certificazione dell’esistenza; coltivare l’ospitalità come veicolo della tolleranza; inquadrare il problema della giustizia coltivando il ritorno alla politica.

Come si capisce, questa sintetica ricostruzione (peraltro incapace di restituire la ricchezza del dibattito) individua almeno tre temi sullo sfondo del rapporto tra pedagogia ed economia: il tema del significato reale della globalizzazione; il tema delle interpretazioni culturali dell’11 settembre; il tema degli scenari di azione possibili, nello specifico dell’educazione, per produrre il cambiamento e liberare le “forze positive” della globalizzazione.

Ciascuno di questi tre temi può essere introdotto a partire da una domanda che consente di problematizzare le modalità secondo le quali è stato affrontato e discusso nei due giorni dei lavori: 1) la globalizzazione è un fatto materiale o un fatto simbolico? Appartiene all’ordine dei fatti o delle interpretazioni? 2) l’11 settembre rappresenta il rifiuto dell’Occidente e dei (dis)valori che esso incarna o non piuttosto la conferma dell’avvenuta appropriazione su larga scala di quei valori? 3) si può pensare alla possibilità di intervenire a livello “macro”, o il “micro” rappresenta l’orizzonte non superabile dell’agire educativo?

Cercheremo non di fornire una risposta ma degli elementi di riflessione in margine a ciascuna delle tre domande1.

1 Parte delle analisi di queste pagine sono il risultato della rielaborazione e dello sviluppo di prospettive già delineate in due brevi interventi: Globalizzazione, Media Education e costruzione della cittadinanza, «Il nodo. Scuole in rete», (19), 20 aprile 2002, pp. 40-43; Guerra e media, «Intermed», (3), Dicembre 2001, pp. 1, 3.

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1. IL “MITO” DELLA GLOBALIZZAZIONE

La globalizzazione, oggi, costituisce sicuramente un termine di moda, in tal

senso usato a proposito e anche a sproposito. Questa fortuna proviene dal fatto di costituire una categoria-ombrello sotto la quale è relativamente facile ricondurre fenomeni economici e socio-culturali diversificati che sono caratteristici dell’oggi (in tal senso è succeduta nell’uso a quella del post-moderno che aveva svolto la stessa funzione lungo gli anni ‘80).

Due definizioni serviranno a comprendere quanto si sta dicendo: 1) globalizzazione è «la crescente interconnessione di regioni diverse del mondo, un processo che genera forme complesse di interazione e interdipendenza»2; 2) globalizzazione è «il processo di unificazione del mondo economico e, per estensione, di tutto ciò che riguarda il pianeta »3.

L’area semantica coperta da queste definizioni consente di risalire ad almeno cinque macrofenomeni (con) cui la globalizzazione viene abitualmente ricondotta e spesso confusa:

- la transnazionalizzazione (o multinazionalizzazione), intesa come il processo della riorganizzazione in senso policentrico dell’azienda (sede in un paese, segmenti produttivi e distribuzione commerciale in tutti i continenti);

- l’internazionalizzazione, cioè il processo di progressivo abbandono della logica nazionale tipica dell’Europa moderna (da questo punto di vista la globalizzazione andrebbe retrodatata come processo al ‘5004);

- la mondializzazione, che è l’esito ultimo dell’internazionalizzazione, cioè l’apertura dello spazio di contrattazione simbolica tra individui e società all’intero pianeta (Morin parla di “epoca planetaria”);

- l’omogeneizzazione, intesa come standardizzazione planetaria dei gusti e della cultura (una standardizzazione che avverrebbe secondo i parametri propri della cultura occidentale secondo la classica tesi dell’imperialismo culturale avanzata da Herbert Schiller nel suo Mass Communications and American Empire);

- l’interculturalità, versione “buonista” dell’omogeneizzazione, dove alla colonizzazione culturale si sostituisce la libera integrazione delle diverse culture in società come le nostre ormai sempre più multietniche.

Senza procedere a una critica della singole dimensioni (che consentirebbe di verificare come alcuni di questi fenomeni siano parte di ciò che intendiamo per globalizzazione, mentre altri vadano nettamente distinti da essa e sottoposti a critica severa), si può optare per un recupero degli elementi che da esse possono essere desunti come qualificanti e strutturali del processo di gloablizzazione. Seguendo l’analisi di Thompson, se ne possono individuare tre: 1) l’iscrizione in un’arena planetaria (l’internazionalizzazione, la mondializzazione); 2) l’organizzazione su scala globale (la transnazionalizzazione); 3) la reciprocità e interdipendenza (l’interculturalità).

2 J.B.Thompson, The Media and the Modernity. A Social Theory of the Media, Polity Press, Cambridge 1995; tr.it., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998, p.211. 3 A.Mattelart, La mondialisation de la communication, PUF, Paris 1996; tr.it., La comunicazione globale, Editori Riuniti, Roma 1998, p.95 4 E. Morin, A. Kern, Terre-Patrie, Seuil, Paris 1993; tr. it., Terra-Patria, RaffaelloCortina, Milano 1994.

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Dove origina questo tipo di realtà socio-culturale? Dove occorre cercare le logiche che ne hanno prodotto l’avvento e l’affermazione?

Seguendo l’analisi di Morin e Mattelart è possibile rintracciare, per la globalizzazione: una genesi remota, due matrici culturali prossime, una evoluzione recente.

La genesi remota va cercata nella scoperta dell’America che, nel 1492, spezza l’orientamento eurocentrico della storia e ne produce la prima vistosa accelerazione in senso globalistico. La coltura della patata o del pomodoro, sconosciute prima in Occidente (come la sifilide), sono il sintomo dell’incipiente creolizzazione delle culture e dei comportamenti, proprio come il morbillo, prima della Conquista assente nel Nuovo Mondo e che uccise più indios che i Conquistadores stessi.

Le matrici culturali prossime, nel ‘700, sono costituite dalle due teorie universaliste dell’illuminismo e del liberismo. Entrambe costruiscono la loro ideologia attorno al «potere creatore dello scambio», naturalmente declinandolo in due diverse direzioni. Gli illuministi ne sottolineano la capacità di far circolare le idee garantendo la democrazia: in questa prospettiva va inquadrata la politica rivoluzionaria di unificazione della lingua come risposta alla logica dell’Ancienne Régime, volta invece a bloccare la circolazione delle idee e a separare i popoli. Quanto al liberismo, il cui motto può essere trovato nella massima di J.S.Mill: «Produrre significa muovere», esso lavora a costruire una «repubblica mercantile universale», una grande comunità economica di consumatori in cui la libera iniziativa prenda il posto di istituzioni forti come quella dello Stato.

Quanto, poi, all’evoluzione recente del fenomeno, essa coincide, si può dire, con lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione a partire dalla metà del secolo scorso e con il loro portato politico e culturale.

Sul piano della tecnologia si pensi alla nascita del telegrafo e alla sua funzione di contrazione delle distanze, resa evidente nel 1851 dalla posa del primo cavo telegrafico tra Calais e Dover e, nel 1902, dal completamento della prima linea transpacifica. Una tendenza poi accentuata, volta a volta, dal progressivo avvento della radio e della televisione fino ai temi attuali delle autostrade dell’informazione e del World Wide Web.

Ma questa tendenza tecnologica innesca un processo analogo anche sul piano politico. Nel 1865 nasce l’Unione telegrafica internazionale, con lo scopo di fissare standard, tariffe e norme comuni a tutti i paesi, seguita nel 1874 dall’Unione generale delle poste e nel 1906 dall’Unione radiotelegrafica internazionale. Dunque, non solo la tecnologia “restringe” il pianeta, ma provoca il dialogo tra gli Stati, favorisce il coagulo delle relazioni sul piano internazionale.

Tutto questo produce inevitabilmente un riflesso anche a livello culturale. L’Europa, affondata nella crisi prodotta dalla Rivoluzione Francese e impegnata a garantire con fatica un equilibrio politico tra gli Stati, trova proprio nella comunicazione quell’utopia di salvezza capace di prospettare al mondo un futuro di pace. L’universalismo, con Saint-Simon soprattutto, diviene allora una vera e propria «ideologia redentrice» che trova nell’industria e nel sapere positivo i suoi supporti e nelle grandi esposizioni universali un momento efficace di elaborazione mitologica. Come osserva Mattelart: «Esposizioni e invenzioni tecniche (il cinema tra queste, n.d.r.) si sostengono reciprocamente per propagandare la retorica della pace e della comunione dei popoli: “Tutti gli uomini diventeranno fratelli”. Ogni generazione tecnologica è un’occasione per

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sostenere la commedia della concordia generale e della riconciliazione dei conflitti sociali sotto l’egida della civilizzazione occidentale»5.

Momentaneamente tramontata a fine secolo con la caduta della Comune di Parigi e il crollo del sistema degli Stati dopo la guerra franco-prussiana, questa utopia rinascerà nel corso del ‘900 trovando nel programma cibernetico di Wiener il proprio momento di rifondazione: i temi attuali della società della comunicazione e del villaggio planetario, come Breton6 ha ben indicato, dipendono in larga parte da esso.

In questa prospettiva di lettura, la globalizzazione dimostra chiaramente di appartenere alla categoria delle interpretazioni simboliche più che non a quella dei fatti materiali. In particolare essa mostra il suo vero volto di macro-categoria concettuale delle scienze umane e sociali che si iscrive (auspica di iscriversi) nell’area di quelle che la sociologia definisce le profezie che si autoavverano. Teorizzare la globalizzazione, sia sul piano economico che su quello culturale, significa proporre un’utopia coagulante in grado di rispondere a diverse crisi: alla crisi dell’ordine planetario, provvedendo, dopo la caduta delle ideologie, un surrogato delle loro funzione politica; alla crisi dello Stato, rimpiazzando la nazione – vittima dei processi storici che hanno segnato il ‘900 – con un nuovo elemento identitario per gli individui e i gruppi; alla crisi del mercato, aprendo nuovi spazi di mercato alla produzione e alimentando il mito di una ripresa dell’occupazione; alla crisi delle relazioni, sostituendo all’ordine del conflitto e della violenza la possibilità di una soluzione dialogica, che passa attraverso il principio di conversazione e la connettività come strumento di una nuovo utopia di convivenza pacifica.

Capire questo, pedagogicamente parlando, significa conferire all’educazione in tempo di globalizzazione un marcato orientamento critico, in cui la demistificazione e l’esercizio del sospetto divengono strumento indispensabile per “andare alle cose stesse”, al di là delle mitologie politiche ed economiche, facendo dell’autonomia e della consapevolezza dei soggetti uno degli obiettivi fondamentali da raggiungere.

2. LA GUERRA E I MEDIA: “LEGGERE” L’11 SETTEMBRE Il rapporto tra la guerra e i media è sempre stato molto stretto. Moltke

costruisce l’ascesa della Prussia bismarckiana alla fine dell’800 grazie alla ferrovia; il telegrafo vive la sua prima straordinaria applicazione in occasione della Guerra di Secessione americana; la radio rimane coperta a lungo dal segreto militare prima che se ne intuiscano le possibilità commerciali; la stampa decreta la fine dell’intervento americano in Vietnam mostrando all’opinione pubblica le reali condizioni dei “suoi ragazzi” sul fronte. Quanto poi alla televisione, il ricordo della Guerra del Golfo è ancora sufficientemente fresco per capire come anche in questo caso il rapporto con la guerra sia forte, anzi, privilegiato.

I noti fatti dell’11 settembre scorso e quel che ne è seguito consentono di aggiungere un tassello a questa storia. Lo si può fare annodando insieme

5 Mattelart, La comunicazione globale, cit., p.33. 6 P. Breton, L’utopie de la communication, La Découverte, Paris 1992, tr. it., L’utopia della

comunicazione. Il mito del « villaggio planetario », UTET, Torino 1995.

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alcune riflessioni che già erano risultate valide al tempo di Desert Storm con altre suggerite invece proprio dall’attacco alle torri gemelle.

Un primo dato che risulta evidente è il cortocircuito tra realtà e rappresentazione. Quelle che vediamo in televisione sono immagini in diretta o in differita? Attuali o di repertorio? Striscia la notizia, il seguitissimo format di Canale 5, ha “smascherato”, proprio durante l’attacco americano, un noto magazine nazionale che aveva spacciato una fotografia di aerei in volo già comparsa due anni prima su una rivista militare per la ripresa di aerei americani in volo nei cieli dell’Afghanistan. Di fatto la televisione agisce di collage, mescola finzione e realtà, reinventa i fatti. La guerra cui assistiamo in televisione non esiste. In questo senso aveva ragione Baudrillard quando intitolò un suo intervento: La guerra del Golfo non è mai esistita. La guerra televisiva non è la guerra reale.

Questo problema ne comporta un altro: quello del rapporto tra copertura televisiva e informazione. Grazie alla CNN (e alla sua “sorella” araba Aljezeera) Enduring Freedom, come già successe per il Golfo, è stata una guerra in diretta, coperta dall’informazione televisiva 24 ore su 24. Eppure, al massimo di copertura informativa è corrisposto il minimo di informazione reale. Quanti americani sono morti? E quanti civili afghani? I Talebani resistono ancora oggi o sono stati debellati? Bin Laden è vivo o morto? Sono tutte domande a cui non è possibile trovare risposta, sintomo questo che probabilmente aveva ragione Philippe Breton quando invitava a dubitare della presunta trasparenza della società dell’informazione: si vede tutto, ma si rischia di sapere poco.

Terza considerazione. Ciascuno di noi, in quanto telespettatore, ha vissuto quello che si definisce “effetto scoiattolo”. Tutti nella tana non a sgranocchiare noccioline ma a sintonizzarsi sulla Guerra. Come in un gigantesco Truman Show ciascuno di noi accendeva la tv al mattino, appena sveglio, a mezzogiorno durante il pranzo, alla sera all’ora di cena, per vedere se fosse successo qualcosa di nuovo. La guerra come una soap, con gli stessi tempi dilatati, la stessa frequenza giornaliera, l’innesco delle stesse pratiche sociali: si discute dei personaggi (Bush, Bin Laden, l’Iraq di Saddam), si disegnano gli scenari possibili, si pensa ai probabili colpi di scena.

Ma c’è dell’altro. I fatti dell’11 settembre consentono di ritornare su questi rilievi ridisegnandoli dall’interno.

Anzitutto il rapporto tra realtà e rappresentazione. Per la prima volta abbiamo assistito all’uso di una città (New York) come un grande set. La scena che vi è stata girata appartiene al filone catastrofico frequentato da Hollywood lungo gli anni ’90: Indipendence day, Fuga da New York, Armageddon. Il problema è che tutto è stato tragicamente reale. Quel che i registi americani avevano solo immaginato si è tradotto in realtà. E qui si impongono alcune riflessioni.

I terroristi si servono della presenza della televisione come strumento certificatore distanziando lo schianto dei due aerei: in questo modo si ottiene che le televisioni abbiano il tempo di arrivare sul posto e riprendano in diretta il secondo impatto. La presenza delle telecamere, negli anni scorsi, induceva i ragazzi dell’Intifada a ripetere il gesto della fionda, questa volta sono stati loro a richiamare le telecamere.

Ancora. La sceneggiatura dell’evento è decisamente “americana”, di sicuro nella retorica. Come americana è la mimetica di Bin Laden, e americano il suo orologio da polso, americani di adozione anche i kamikaze, per formazione almeno. Un fatto che si può interpretare in due modi. Da una parte osservando come persino nel gesto estremo di offesa verso il loro nemico i terroristi si

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dimostrino imbevuti della sua cultura (non aveva una passione per le Cadillac il ministro degli esteri di Kabul?). Dall’altra annotando che, come in un contrappasso, sono state proprio la tecnologia e la cultura americane a ritorcersi contro l’America. E i film catastrofici hanno funzionato da innesco, hanno suggerito il copione: c’è qualcosa di Hollywood che si intreccia in maniera perversa con Manhattan sotto attacco. La globalizzazione sperata come strumento di leadership economica e la tecnologia promossa come ultima frontiera si trasformano in rischio di autodistruzione: si compie il tragitto tra le scimmie con cui Kubrick inizia 2001 Odissea nello spazio e il computer di bordo Al, nell’inizio è iscritta la fine.

La tesi che a lungo (e forse ancor oggi) ha fatto da riferimento, a questo proposito, è quella già citata dell’imperialismo culturale in base alla quale, dal piano Marshall in poi, si sarebbe assistito a una progressiva colonizzazione culturale del mondo da parte del modello americano, proprio perché erano (sono) gli Stati Uniti ad esercitare il controllo totale sull’industria dei media e della comunicazione. Secondo questa tesi, dunque, la globalizzazione, andrebbe letta nei termini di una americanizzazione (più in generale, di una occidentalizzazione) delle altre culture. Non è il caso di entrare nel merito di una critica articolata di questa tesi7. È sufficiente evidenziare la sua principale debolezza teorica che consiste in una spiegazione ingenua del processo di appropriazione attraverso cui un individuo interiorizza i modelli culturali proposti dai media. Tale processo non si può mai intendere nei termini di una assunzione meccanica (come vorrebbe la tesi dell’imperialismo culturale: imparo il consumismo fruendo di programmi consumistici), ma va pensato secondo un modello ermeneutico: «il significato che gli individui assegnano ai messaggi dei media e gli usi che essi fanno dei materiali simbolici mediati devono dipendere in modo cruciale dai contesti della ricezione e dalle risorse che essi impiegano nel processo di interpretazione»8.

E veniamo all’altra rilettura che i fatti dell’11 settembre impongono. Quel che ci ha portato come scoiattoli davanti al televisore in attesa di nuove notizie non è la curiosità, ma l’angoscia. L’angoscia non è paura, perché si ha paura di qualcuno o di qualcosa. L’angoscia, invece, è angoscia per non si sa cosa: è uno stato di sospensione che ci dice che il pericolo potrebbe materializzarsi da un momento all’altro, anche se tutto sembra normale. Al tempo della guerra del Golfo avevamo un nemico definito, Saddam Hussein, un teatro delle operazioni circoscritto, il Kuwait, e la certezza di non poter essere minacciati in casa nostra. Oggi non è più così, perché il nemico potrebbe essere chiunque, il teatro delle operazioni è il mondo intero e potremmo morire anche in casa nostra, avvelenati da una nube di gas nervino o annientati da un’esplosione nucleare.

Ultima annotazione. La televisione, di questa angoscia, è padrona. La pilota attraverso i talk show e gli special del telegiornale in cui veniamo a sapere quotidianamente in quanti modi potremmo rimanere vittime di un attentato; la gestisce, in una drammaturgia sapiente e folle, rimandando gli appelli di Bin Laden e di quelli che parlano in suo nome. Molti, a questo proposito, si sono detti favorevoli alla censura: la televisione alcune cose può scegliere di non dirle. Noi registriamo l’esigenza che rinvia chiaramente alla deontologia di chi fa informazione, ma crediamo che il problema sia un altro. Il mondo, ormai, è 7 Si può vedere, per questo tipo di analisi, quanto dice Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, op.cit., pp.232.244. 8 Ibi., p.246.

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veramente mediato: vive del suo passaggio in Internet o in televisione. La guerra lo sta ribadendo.

La guerra e i media, dunque. Insieme rappresentano, probabilmente, il destino ultimo della razionalità che siamo abituati a definire occidentale. Un destino che accomuna anche l’Islam e smaschera la presunta dialettica tra le civiltà indicando come in fondo, da una parte e dall’altra, sia la razionalità tecnologica a convertirsi in barbarie. Il conflitto non è tra occidente e oriente, ma tra l’occidente e gli esiti incontrollabili della sua razionalità. Queste pare essere il vero esito della globalizzazione, sul piano culturale. Lo intuiva Pasolini, quando, diversi anni fa, chiudeva il suo Pilade con un urlo disperato: «Che tu sia maledetta, Ragione, / e maledetto ogni tuo Dio e ogni Dio».

3. I COMPITI DELL’EDUCAZIONE, TRA GLOBALE E LOCALE Proprio l’accenno alle dinamiche dell’appropriazione culturale consente di

tornare sul terzo dei temi enunciati in apertura, quello del rapporto tra “macro” e “micro”, più precisamente della necessità di trascendere il “micro” per trovare lo spazio di interventi che si muovano sul “macro”.

Qui il problema è di verificare la praticabilità di una logica di intervento (educativo, nel nostro caso) che proprio a livello macro si muova. È realmente possibile? Non significa dare per presupposto che le condizioni minime perché questo spazio si possa aprire siano già garantite? Quando si propone di “rafforzare la rappresentatività democratica”, o di “favorire il mutamento dei costumi nella direzione della convivenza multiculturale”, o ancora di “inquadrare il problema della giustizia coltivando il ritorno alla politica”, non si sta saltando un passaggio? Non si rischia di dare per scontato un momento previo che invece è di fondamentale importanza?

Provando ad esplicitare il senso della domanda, l’impressione è che lo scenario disegnato nel dibattito di Scholé per questa azione a livello macro risponda ai caratteri di quella che Apel definisce una “società ideale della comunicazione”. Una società ideale della comunicazione è un sistema di relazioni interindividuali in cui risultano garantiti gli apriori della comunicazione, le sue condizioni di possibilità: la giustizia, cioè le pari opportunità di comunicare; la corresponsabilità, cioè la determinazione di tutti a impegnarsi perché ai conflitti si trovi una soluzione dialogica e non strategica; la solidarietà, cioè l’impegno di tutti a collocarsi in una posizione di collaborazione comunicativa nei confronti degli altri. In una società di questo tipo, è chiaro che il problema della rappresentatività democratica può essere posto: in essa, infatti, tutti sono già disposti a riconoscere che presupposto della comunicazione sono le pari opportunità. Allo stesso modo può essere posto il problema della convivenza multiculturale: nessuno mette in discussione l’esigenza della corresponsabilità. La questione è un’altra. Occorre, cioè, chiedersi se noi ci troviamo di fatto in queste condizioni (se questa società ideale esiste realmente) o se piuttosto esse sono ancora di là dal concretizzarsi (questa società, cioè, rimane “ideale”). Se la risposta, come pare evidente da quanto l’informazione quotidianamente ci restituisce, è che tali condizioni non sussistono, forse occorre fare uno sforzo di riposizionamento rispetto al problema dell’azione (educativa). Come dire che il “grande progetto politico che coniughi libertà e regole” di cui si è parlato deve forse essere preceduto dalla

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risposta più concreta ad altre domande. Cosa bisogna fare perché si diano le condizioni a partire dalle quali pensare questo grande progetto? E chi decide?

Tre elementi, mi sembra, vanno attentamente valutati. Anzitutto va preso in considerazione il dato di una comunicazione sempre più

globale che deve però essere messa in tensione con il carattere locale della sua appropriazione, che significa, sul piano culturale, evidenziare la dialettica tra le logiche planetarie, da una parte, e il rinnovato valore delle tradizioni, dall’altra. Più micro che macro, dunque.

In secondo luogo, sul piano metodologico, occorre sviluppare una progressiva “centratura” sui soggetti, le loro abitudini, la loro cultura. Se l’appropriazione è sempre situata e va studiata a partire dall’orizzonte storico e culturale entro il quale i soggetti sono inseriti occorrerà mettere a punto strumenti per rilevare processi e routines di tale appropriazione. Ecco allora l’importanza, per chi fa educazione, di lavorare con strumenti di tipo etnografico, come le storie di vita, l’osservazione partecipante, il focus group, il diario. Ancora una volta una scelta di intervento nel locale.

Infine, sul piano organizzativo, si dimostra vincente la scelta della connettività come strumento di intervento. Oggi sono le associazioni non profit come Médicine sens Frontières o Green peace ad avere la maggiore efficacia di risultati: la loro struttura, costruita come una rete mondiale di gruppi di lavoro nazionali, consente a queste realtà di pensare globalmente ma agendo localmente (thinking globally, acting locally).

Da quanto detto si può ricavare, come conclusione, una riconfigurazione del rapporto tra agire locale e agire globale: il micro, forse, per l’educazione, più che un limite da integrare, è una condizione naturale da praticare. Forse solo accettandolo e assumendolo con serietà è possibile, sul medio-lungo periodo, produrre cambiamenti importanti anche a livello macro preparando le condizioni perché la società ideale della comunicazione diventi una realtà.