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«Italia contemporanea», marzo 1981, fase. 142 Gli Alleati e la Venezia Giulia. 1941-1945 Le premesse di fondo per una radicale revisione dell’assetto dell’Italia nord-orien- tale e più in generale dell’intera area danubiano-balcanica furono poste verso la fine degli anni trenta dalla politica di espansione nazista in direzione meridionale ed orientale (invasione dell’Austria nel 1938 e della Cecoslovacchia nel 1939). Tale problema — riferito all’area geografica della Venezia Giulia, quale venne a configurarsi nel corso della guerra e del primo dopoguerra, è stato già affrontato in alcuni studi, i cui risultati oggi possono apparire viziati, in misura anche assai diversa l’uno dall’altro, dalla presenza di alcuni limiti di fondo. In queste opere in- fatti l’analisi appare spesso condizionata dagli schemi interpretativi generali legati, più o meno direttamente ed immediatamente, al dibattito politico-ideologico, quale venne a svilupparsi sul piano locale ed internazionale negli anni della guerra fredda. In secondo luogo il privilegio del quadro di riferimento dato dalla situa- zione locale ha fatto sì che gli avvenimenti ed i processi di ordine internazionale hanno talvolta assunto l’aspetto di una cornice creata a posteriori ed adattata ad un quadro per molti versi già completo, sono cioè stati letti nel quadro della con- troversia italo-jugoslava; ed il più delle volte l’iniziativa e l'azione alleata sono state considerate solo per quanto si integravano o si discostavano dalle posizioni dei due diretti contendenti '. Nelle pagine che seguono non si vuole semplicemente ro- vesciare questi modi di « lettura » della questione della Venezia Giulia e di Trie- ste riproponendo modelli di analisi altrettanto schematici, quanto piuttosto ricostrui- re lo snodarsi di progetti ed iniziative da parte alleata (ed inglese innanzitutto), le loro linee di continuità ed i momenti di svolta, nell’interdipendenza fra fattori strategico-militari e politico-diplomatici, nell’intreccio fra pianificazione ad ampio raggio e sviluppi della situazione locale. Gli elementi di potenzialità relativi ad una revisione dell’assetto dell’Italia nord- orientale cominciarono a tradursi in atto allorché, all’inizio del 1941, venne deli-1 1 Mi riferisco ai lavori di d. de castro, II problema di Trieste, voi. I (Genesi e sviluppo della questione giuliana in relazione agli avvenimenti internazionali (1940-1952)), Bologna, 1952, M. pacor, Confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Milano, 1964, j .b. duroselle, Le conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, 1966 (opera che risente in mi- sura minore dei limiti indicati), b. novak, Trieste 1941-1945. La lotta politica, etnica, ideologica, traduzione italiana, Milano, 1973. Ancora in parte vincolati all'impostazione segnalata sono il contributo di R. d'agata, La questione di Trieste nella vita politica italiana dalla liberazione al trattato di pace in « Storia e Politica », 1970, fase. 4, pp. 642-678 e i recenti lavori di r. pupo , La rifondazione della politica estera italiana: la questione giuliana (1944-1946). Linee interpretative, Udine, 1979, e p .l. fallante, Il PCI e la questione nazionale. Friuli-Venezia Giulia 1941-1945, Udine, 1980.

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« Ita lia contem poranea», marzo 1981, fase. 142

Gli Alleati e la Venezia Giulia. 1941-1945

Le premesse di fondo per una radicale revisione dell’assetto dell’Italia nord-orien­tale e più in generale dell’intera area danubiano-balcanica furono poste verso la fine degli anni trenta dalla politica di espansione nazista in direzione meridionale ed orientale (invasione dell’Austria nel 1938 e della Cecoslovacchia nel 1939).Tale problema — riferito all’area geografica della Venezia Giulia, quale venne a configurarsi nel corso della guerra e del primo dopoguerra, è stato già affrontato in alcuni studi, i cui risultati oggi possono apparire viziati, in misura anche assai diversa l’uno dall’altro, dalla presenza di alcuni limiti di fondo. In queste opere in­fatti l’analisi appare spesso condizionata dagli schemi interpretativi generali legati, più o meno direttamente ed immediatamente, al dibattito politico-ideologico, quale venne a svilupparsi sul piano locale ed internazionale negli anni della guerra fredda. In secondo luogo il privilegio del quadro di riferimento dato dalla situa­zione locale ha fatto sì che gli avvenimenti ed i processi di ordine internazionale hanno talvolta assunto l’aspetto di una cornice creata a posteriori ed adattata ad un quadro per molti versi già completo, sono cioè stati letti nel quadro della con­troversia italo-jugoslava; ed il più delle volte l’iniziativa e l'azione alleata sono state considerate solo per quanto si integravano o si discostavano dalle posizioni dei due diretti contendenti '. Nelle pagine che seguono non si vuole semplicemente ro­vesciare questi modi di « lettura » della questione della Venezia Giulia e di Trie­ste riproponendo modelli di analisi altrettanto schematici, quanto piuttosto ricostrui­re lo snodarsi di progetti ed iniziative da parte alleata (ed inglese innanzitutto), le loro linee di continuità ed i momenti di svolta, nell’interdipendenza fra fattori strategico-militari e politico-diplomatici, nell’intreccio fra pianificazione ad ampio raggio e sviluppi della situazione locale.Gli elementi di potenzialità relativi ad una revisione dell’assetto dell’Italia nord- orientale cominciarono a tradursi in atto allorché, all’inizio del 1941, venne deli- 1

1 Mi riferisco ai lavori di d. de castro, II problema di Trieste, voi. I (Genesi e sviluppo della questione giuliana in relazione agli avvenimenti internazionali (1940-1952)), Bologna, 1952, M. pacor, Confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Milano, 1964, j.b. duroselle, Le conflit de Trieste 1943-1954, Bruxelles, 1966 (opera che risente in mi­sura minore dei limiti indicati), b. novak, Trieste 1941-1945. La lotta politica, etnica, ideologica, traduzione italiana, Milano, 1973. Ancora in parte vincolati all'impostazione segnalata sono il contributo di R. d 'agata, La questione di Trieste nella vita politica italiana dalla liberazione al trattato di pace in « Storia e Politica », 1970, fase. 4, pp. 642-678 e i recenti lavori di r . pu po , La rifondazione della politica estera italiana: la questione giuliana (1944-1946). Linee interpretative, Udine, 1979, e p .l. fallante, Il PCI e la questione nazionale. Friuli-Venezia Giulia 1941-1945, Udine, 1980.

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neandosi la possibilità di estensione del conflitto, o quanto meno della presenza militare tedesca, nei Balcani. Onde fronteggiare tale eventualità la diplomazia in­glese intraprese una serie di iniziative volte ad ottenere che Jugoslavia, Grecia e Turchia opponessero resistenza alla probabile avanzata tedesca, fatto che avrebbe comportato un allentamento della pressione militare sull’Inghilterra. Tali inizia­tive vennero caratterizzate peraltro — come è stato scritto — da « improvvisa­zioni dell’ultimo momento e sottoscrizione di impegni che non si aveva la forza di mantenere ». È nell’atmosfera « cupa e disperata », estremamente ricettiva a tutto quanto avrebbe potuto migliorare la condizione militare della Gran Bretagna, è in questa affannosa, improvvisata e per certi versi velleitaria ricerca di elementi di pressione che si inseriva il problema di una futura revisione del confine italo-ju- goslavo 2.L’atteggiamento inglese nei primi mesi del 1941 ha già costituito oggetto d’indagine da parte di alcuni studiosi, spesso però in un’ottica eccessivamente condizionata dagli sviluppi successivi della questione 3. In realtà, in questa fase il principale in­teresse della diplomazia britannica non era tanto quello di costituire una base or­ganica di elementi di giudizio e di riferimento utili ad affrontare il problema di una revisione del confine italo-jugoslavo, quanto quello di verificare se fosse so­stenibile — in linea di massima — un atteggiamento di generica disponibilità in tal senso, un atteggiamento da far valere come espediente tattico — come « esca » secondo la definizione di un funzionario del Foreign Office — al fine di raffor­zare i vincoli fra Gran Bretagna e Jugoslavia in funzione antinazista. Ed infatti dei due aspetti del problema affrontato dal Laffan, uno studioso del Balliol College di Oxford al quale il Foreign Office aveva affidato l’esame della questione, e cioè la legittimità delle rivendicazioni jugoslave e l’individuazione di una possibile li­nea di frontiera, i funzionari del Foreign Office isolavano il primo ignorando pres­soché totalmente il secondo. In effetti i passi concretamente compiuti presso il go­verno jugoslavo erano volti esclusivamente ad attestare che « il governo di S.M. sta studiando con simpatia il caso di una revisione [della frontiera italo-jugo- slava] » 4.La genericità della formulazione pone in rilievo come il significato e la reale por­tata di quelli che sono stati impropriamente definiti gli « accordi segreti » anglo­jugoslavi debbano essere esclusivamente rapportati a contingenti interessi britan­nici nell’area balcanica. Agli inizi di aprile l’invasione nazifascista ed il successivo smembramento della Jugoslavia modificava radicalmente il quadro entro il quale la diplomazia britannica aveva giocato quella carta. Poco più tardi l’apertura delle

2 e . barker, British Foreign Policy in South East Europe in the Second World War, London, 1976, p. 5 ss., 80 ss.; D. Stafford, Britain and European Resistance in 1940-1945. A Survey of Special Operations Executive with Documents, London, 1980, p. 57 ss.; v. inoltre l . woodward, British Foreign Policy in the Second World War, voi. I, London, 1970, p. 502 ss.; F. deakin, The Myth of an Allied Landing in the Balkans during the Second World War (with particular reference to Yugoslavia and Greece in British Policy towards Wartime Resistance in Yugoslavia and Greece a cura di P. Auty e R. Clogg, London, 1975, pp. 95-97.3 Oltre agli autori citati alla nota *, si sono occupati della questione d. se pic , Velika britanna i pitanje revizife jugoslavensko-taliianskt granice 1941, in « Casopis za suvremenu povijest », 1975, n. 1, pp. 121-140, a. breccia, Jugoslavia 1939-1941. Diplomazia della neutralità, Milano, 1978, pp. 492-496; v. inoltre L. woodward, op. cit., voi. I p. 532, barker, British Policy in South East Europe, cit., pp. 87-90 e la rassegna di R. pu po , Gli « accordi segreti » anglo jugoslavi della primavera del 1941 in « Qualestoria. Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia», n. 1, pp. 18-20.4 II memorandum di Laflan, 5 febbraio 1941, la discussione all’interno del Foreign Office, il memorandum WP(41)45 e le istruzioni ad Eden, 2 marzo 1941, in Public Record Office, Londra (d’ora in avanti PRO), FO 371/30240/R 960, 1949/960/92.

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ostilità fra la Germania nazista e l’Unione Sovietica metteva in discussione l’intero assetto non più solo dell’area danubiano-balcanica ma dell’est europeo e poneva le premesse affinché si aprisse su tale terreno il confronto fra Gran Bretagna e Unione Sovietica. Ciò avrebbe impegnato la diplomazia britannica soprattutto do­po l’inizio della parabola discendente della Germania nazista, ma già nel corso dei colloqui anglo-sovietici della fine del 1941 tale questione si poneva sul tappeto5.Per il problema del confine italo-jugoslavo si apriva dunque un capitolo nuovo, dominato da un quadro di riferimento estremamente più ampio di quello entro il quale la questione era stata inizialmente sollevata. In tale quadro i principi di fondo che erano stati affermati dagli studiosi inglesi e sostanzialmente accettati dai funzionari del Foreign Office non risultavano in grado di fornire un adeguato supporto al corso della pianificazione inglese. Non si vuol dire che il principio per cui la frontiera e la linea di separazione etnica fra italiani, sloveni e croati dove­vano coincidere e si dovessero creare al di qua e al di là del confine aree etnica­mente omogenee rappresentassero esclusivamente opzioni di carattere contingente e transitorio. Esse avrebbero ancora conservato una capacità suggestiva e si sareb­bero ripresentate, identiche nella sostanza, all’inizio del 1944; il dato più rilevante non è comunque l’individuazione dei principi di fondo dotati di vitalità autonoma, ma il modo in cui tali principi — come era avvenuto nei primi mesi del 1941 — si tradussero in atto, dettero luogo a determinati progetti ed iniziative (subendo an­che profonde alterazioni), si rapportarono all’evoluzione della politica britannica verso l’Unione Sovietica e la Jugoslavia oltre che al particolare tipo di evoluzione della situazione politica in loco.Dalla fine 1941 - inizio 1942 i progetti britannici, dominati dall’obiettivo generale volto a riempire il vuoto di potere creatosi nell’area danubiano-balcanica dopo la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e il fallimento dei tentativi egemonici di marca nazista (e fascista), facevano alternativamente riferimento o ad un ambito circo- scritto di relazioni internazionali dato dai rapporti italo-jugoslavi, o ad un quadro che comprendeva un’area assai più vasta (il progetto delle confederazioni nell’Eu­ropa centrale e balcanica). Diverse furono le ipotesi elaborate principalmente dagli studiosi del Research Department (che in questa sede non vengono analiticamente esaminate) nel corso del 1942 e 1943; il loro carattere fu comunque, come veniva detto esplicitamente « estremamente sperimentale e contingente » o « gravemente pregiudicato dall’ignoranza del futuro retroterra internazionale » 6.A spingere la pianificazione inglese in una direzione precisa avrebbe pesato in ma­niera determinante lo sviluppo degli eventi militari e le scelte strategiche correlate ad essi. Come è noto, nel corso della conferenza di Casablanca fra i massimi espo­nenti inglesi ed americani (gennaio 1943) veniva presa la decisione di sfruttare il successo ottenuto in Africa settentrionale con un’operazione nell’Italia meridio­nale. Gli obiettivi più direttamente connessi a tale progetto e sui quali si registrava il consenso dei pianificatori inglesi e americani, divisi peraltro su piani a più ampio raggio prevedevano l’eliminazione dell’Italia dal fronte avversario e di conseguenza una diretta e ben più onerosa assunzione di responsabilità da parte tedesca sia in

5 Su ciò v. L. woodward, op. cit., vol. II, London, 1971, p. 220 ss; e . barker. British Policy in South East Europe... cit., p. 125 ss., w. Roberts. Tito Mihailovic and the Allies 1941-1945, New Brunswick, 1973, p.45ss.6 Cfr., ad esempio, il draft comment del 30 gennaio 1943 in PRO, FO 371/37176/R 851/ 851/57, il memorandum di Laffan (RB IV 16), 6 maggio 1942, in PRO, FO 371/33446/R 3509/ 35/92 e lo studio di Toynbee, agosto 1943, in PRO, FO 371/37276/R 8489/352/22. Per quanto riguarda il progetto delle confederazioni v. L. woodward, op. cit., vol. V, London, 1976, p. 10 ss., p. 42 ss., E. barker, British Policy in south East Europe... cit., pp. 131-132.

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Italia che nei Balcani in Grecia e Jugoslavia soprattutto). Verso questi paesi l’inte­resse strategico britannico non risultava più periferico e si ravvisava la necessità di favorire un’espansione di attività da parte dei movimenti di resistenza; per quanto riguarda la Jugoslavia è proprio nella prima metà del 1943 che aveva luogo la ricerca di un rapporto diretto con la resistenza guidata da Tito cioè col movi­mento di resistenza militarmente più attivo ed efficace, saldamente radicato in tutta la realtà jugoslava e parallelamente il progressivo distacco dal leader cetnico Mihailovic. Il movimento di liberazione jugoslavo consolidava ulteriormente le proprie posizioni in seguito al disfacimento della presenza militare italiana nei Balcani dopo T8 settembre 19437, e alla fine di novembre 1943 definiva nel II congresso del supremo organo rappresentativo (AVNOJ) l’assetto di massima della Jugoslavia postbellica rivendicando al tempo stesso il diritto all’annessione del li­torale sloveno e dellTstria.Da allora si cercò di salvaguardare un certo grado di influenza nella situazione in­terna jugoslava, promuovendo una qualche forma di collaborazione fra il movi­mento di liberazione jugoslavo e il governo jugoslavo in esilio. Come ha sottoli­neato E. Barker, l’obiettivo era « di persuadere Tito ad acconsentire al ritorno del re, non di impedire a Tito l’accesso al potere » 8.Accanto a ciò, e dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra, si stava ponendo in termini altrettanto nuovi lo sviluppo delle relazioni fra Gran Bretagna e Unione Sovietica. Abbandonato per l’ostilità sovietica il progetto delle confederazioni danubiano-bal- caniche, dopo il settembre 1943 l’esclusione dell’Unione Sovietica dalla gestione degli affari interni italiani rappresentava il primo passo verso la creazione di aree di influenza dell’uno o dell’altro dei « grandi alleati », tendenza che si sarebbe svi­luppata con maggiore evidenza nell’ultima fase del conflitto9.Venuti in tal modo a modificarsi profondamente nel corso del 1943 quelli che erano stati i punti di riferimento per i progetti di soluzione della questione della Vene­zia Giulia, si ponevano le premesse per un riesame della posizione inglese e la scelta di nuove coordinate di fondo. Ciò avveniva fra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 ed aveva per protagonista il Research Department del Foreign Office, un

7 Sulle operazioni militari nell’area mediterranea cfr. l’agile sintesi di M. Howard, The Medi­terranean Strategy in the Second World War, London, 1968. Le tesi generali di Howard vengono prese in esame e ribadite da F. deakin, The Myth of an Allied Landing, cit., pp. 93-116; v. anche E. barker, British Policy in South East Europe, cit., p. 114 ss.8 Sulla svolta inglese del 1943 nei rapporti con la Jugoslavia cfr. E. barker, British Policy in South East Europe, cit., pp. 157-168; della stessa autrice v. anche Some Factors in British Deci­sion-Making over Yugoslavia 1943-1944 in British Policy towards Wartime Resistance, cit., p. 22 ss., in cui si puntualizzano le differenti e, per certi aspetti, divergenti posizioni degli organismi politico-diplomatici e militari interessati alla definizione e conduzione della politica verso la Jugoslavia. V. inoltre d.a.t . Stafford, op. cit., p. 95 ss. 103 ss. 119-122 167-173, l . woodward, op. cit., voi. Ili, London, 1971, p. 287 ss., il quale però privilegia nettamente gli aspetti di con­tinuità della politica inglese, f .w . deakin, La montagna più alta, trad, it., Torino 1972, p. 187 ss. ed D. ellwood, Al tramonto dell'impero britannico. Italia e Balcani nella strategia inglese 1942- 1946 in «Italia contemporanea», a. 1979, n. 134, p. 78 ss., w. Roberts, op. cit., p. 71 ss. Una breve rassegna sullo sviluppo del punto di vista inglese sulla Jugoslavia è stata compiuta da D. biber, Britanci o Titu in revolucij in « Zgodovinski Casopis », a. XXXI (1977), fase. 4, pp. 449-464.9 Per questi aspetti della politica estera inglese fra il 1943 e il 1944 v. l. woodward, op. cit., voi. II, p. 588 ss., voi. Ili, p. 104 ss., voi. V, cap. 62 e 64, e . barker, British Policy in South East Europe, cit., p. 134 ss., d.w . ellwood, Al tramonto dell’impero britannico, cit., p. 85 ss., c. Warner, L’Italia e le potenze alleate dal 1943 al 1949 in Italia 1943/1950. La ricostruzione, a c. di S. Woolf, trad, it., Bari, 1974, pp. 50-59. Sull’abbandono del progetto delle confedera­zioni v. anche e . aga ro ssi, Gli Stati Unti e la divisione dell’Europa in « Storia contempora­nea », 1979, n. 6, pp. 1160-1164.

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organo — si badi bene — senza dirette responsabilità sul piano delle scelte ope­rative, ma deputato principalmente a fornire il supporto e le motivazioni di fondo ad esse.

Nel periodo suddetto il capo del Research Department, A. J. Toynbee, redigeva due memorandum dal titolo II problema di Trieste e La frontiera italo-jugoslava, che rap­presentavano la fase di passaggio da un’analisi ancora centrata attorno alla fun­zione del porto di Trieste in relazione al retroterra danubiano (come avveniva ap­punto nel primo studio) ed ancora connessa agli ormai decaduti progetti di confe­derazione nell’Europa centrale e meridionale, ad una in cui l’orizzonte si restringeva pressoché esclusivamente ai due paesi confinanti, ai loro interessi ed aspirazioni, in modo da individuare, almeno a questo livello, quei fondamenti di concretezza sulla base dei quali poi avviare i veri e propri processi decisionali.Nel secondo memorandum infatti il principale elemento di riferimento nel deli­neare una soluzione del problema non era dato più dall’assetto complessivo della area danubiano-balcanica: al contrario l’attenzione era centrata sulle relazioni ita- lo-jugoslave sotto il profilo delle attività economiche, dell’equilibrio strategico e, principalmente, dei rapporti fra i vari gruppi etnici, nella ricerca di un diverso as­setto del confine che non fosse la risultante di radicali sconvolgimenti e potesse perciò rivelarsi capace di dar luogo ad una condizione di stabilità nei rapporti fra l’Italia e Jugoslavia. Tale condizione è da correlare all’ipotesi che l’Italia « non [sarebbe stata] compresa nello stesso sistema della Jugoslavia », ipotesi che, quan­tunque generica, recepiva in qualche modo il tema della divisione dell’Europa in aree di influenza, a quel tempo in circolazione all’interno del Foreign Office. In altre parole la stabilità di quelle che apparivano aree di cerniera fra le due zone d’influenza costituiva una premessa di fondo utile a facilitare il dispiegarsi di quella che veniva definita politica di « collaborazione » fra Gran Bretagna e Unione Sovietica.Nella ricerca di una soluzione della vertenza che rispondesse ai suddetti requisiti, il documento prestava la massima attenzione alla ricostruzione del contenzioso italo- jugoslavo dopo la prima guerra mondiale, un contenzioso che risultava dominato — e nel complesso l’immagine era aderente alla realtà — da uno scontro di contrap­posti appetiti nazionalistici, in cui si aspirava a porre il confine al limite del terri­torio abitato dai rispettivi gruppi etnici ed il cui esito era stato determinato dalla prevalenza, per dirla in breve, delle ragioni del più forte.Secondo Toynbee andava evitato il riproporsi dell’esperienza fatta a Versailles nel 1919. L’unica alternativa capace di impedire il ricrearsi di una situazione di instabilità lungo il confine italo-jugoslavo era offerta da una soluzione della ver­tenza che mirasse alla creazione, al di qua e al di là della frontiera, di aree dotate di compattezza etnica. Due erano gli strumenti, già segnalati dal Laffan nel 1941: la coincidenza sostanziale fra frontiera e linea di separazione etnica e lo scambio di popolazioni che sarebbero venute a trovarsi « sul lato sbagliato della frontiera » 10.

tfl Cfr. i due studi The Problem of Trieste (FO Print: Italy, 7, 6, 1944, sec. 3) in PRO, FO 371/37276/R 13597/362/22 e The Italo-Yugoslav Frontier (FO print: Italy, 7.6.1944, sec. 4) in PRO, FO 372/37601/R 10195/84/92 (l’intero secondo memorandum è stato pubblicato in ap­pendice al mio articolo Un documento del Foreign Office sul confine orientale in « Quale sto­ria », luglio 1979, n. 2, pp. 11-23). La linea di divisione etnica vi veniva così descritta: seguita da nord verso sud la frontiera austro-italiana del 1914, la abbandonava « ad un punto a nord- ovest di Gorizia, passava proprio a nord di Gorizia e scendeva al mare giusto ad est di Monfal- cone; essa rientrava nella terraferma alcune miglia ad est di Trieste, la rasentava e correva con andamento serpeggiante verso sud attraverso l’Istria ad una distanza media di 7-8 miglia dalla costa occidentale, per raggiungere il mare oltre Pola ». Una leggera digressione dalla linea etnica

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Per quanto in un memorandum coevo, redatto dall’organo di pianificazione post­bellica, il Post-Hostilities Planning Sub-commission si puntasse più semplicistica­mente ad una distribuzione in pari misura — salomonica, verrebbe da dire — di vantaggi e perdite rispetto alle aspettative massime, fra le due parti in conflitto n. Entrambi gli studi — e in maniera più evidente quello di Toynbee — postulavano, come condizione preliminare alla messa in atto della soluzione prospettata, l’esi­genza di un controllo diretto in virtù di una « presenza fisica » alleata nel terri­torio conteso, l’esigenza cioè di avere mano libera nell’amministrazione della Ve­nezia Giulia escludendone i diretti contendenti. Ed era proprio questa la conside­razione di maggior peso e dotata — come si vedrà — di maggior capacità sugge­stiva nello studio di Toynbee.Nel frattempo, l’esito del dibattito, che aveva luogo fra americani e inglesi nel giu­gno 1944, interessando la strategia mediterranea, comportava conseguenze di ri­lievo sul problema che stiamo affrontando. L’alternativa contrapponeva — com’è noto — un principio di rigidità ad uno di flessibilità della strategia mediterranea e, in termini concreti, l’operazione « Anvil » (sbarco in Provenza) veniva opposta alla prosecuzione dell’offensiva in Italia in direzione nord e nord-est e alla ripro­posizione dell’Italia come teatro di operazioni non secondario. Tale corso era fa­vorito dal comandante alleato del Mediterraneo, generale H. Wilson, e soprattutto da Churchill, in nome di quell’opportunismo strategico che aveva caratterizzato do­po lo sbarco in Sicilia i progetti inglesi nel settore mediterraneo. Respinto il piano formulato dalle massime autorità del Mediterraneo ed esauritasi l’aspettativa di un’affannosa e disordinata resistenza tedesca in Italia, verso la metà di luglio si delineava la possibilità che la linea gotica fosse saldamente difesa 12.Tutto ciò non poteva non indurre la consapevolezza che la data dell’effettiva impo­sizione di un controllo alleato sulle regioni dellTtalia nord-orientale si allontanava nel tempo nè poteva essere prevista con una certa sicurezza ed attendibilità. Ac­canto a ciò era presente, da parte inglese, ancor prima della metà del 1944, una altra consapevolezza: l’alta probabilità che l’esercito di liberazione jugoslavo ef­fettuasse, al primo sintomo di collasso tedesco, un « colpo di mano » diretto a por­tare la regione giuba sotto il proprio controllo. Tale ipotesi era esplicitamente for­mulata già nel febbraio 1944 da un funzionario del Foreign Office 13; ed è evidente che, col crescere d’intensità della lotta partigiana nell’estate 1944, essa veniva consi­derata come una minaccia alla realizzabilità dei progetti di massima elaborati dal Foreign Office. La minaccia era tanto più rilevante in quanto non risultava solo da una temuta iniziativa di carattere militare, ma appariva, oltre o ciò, interprete — come del resto era implicito nelle riflessioni di Toynbee — di un vasto con­senso popolare, messo ampiamente in evidenza dai rapporti provenienti dalle mis­sioni britanniche in Jugoslavia, sia operanti ad alto livello che presenti in loco 14.

sarebbe stata necessaria fra Monfalcone e Trieste in modo da annullare la soluzione di conti­nuità nel tracciato della linea di frontiera.11 II memorandum P.H.P. (43) 21,7 marzo 1944, in PRO, CAB 81/41.12 Su ciò cfr. m . Howard, op. cit., p. 58 ss., g.a. sheprerd, La campagna d’Italia 1943-1945, trad. it., Milano, 1970, p. 301 ss., j. ehrman, Grand Stratega, voi. V (august 1943-september 1944), London, 1956, p. 268 ss., m . matloff, Strategie Planning jor Coalition Warfare 1943-44, Wa­shington, 1959, pp. 221 ss. Eccessivamente limitato l’angolo visuale di s. nesovic, Gli Alleati, l’Istria e la L.P.L. nel 1944-45, in « Quaderni », voi. IV, Centro di ricerche storiche di Rovi- gno (Jugoslavia), Pola. 1974-1977, pp. 115-156.13 PRO, FO 371/43959/R 3137/3122/22, appunto di Dew del 23 febbraio 1944.14 Cfr. i numerosi rapporti della 37a missione attiva in Slovenia e Istria in PRO, WO 202/ 281,309,520, il rapporto del it. col. Moore, 23 luglio 1944 in PRO, WO 204/7311. Alcuni cenni in H.R.s. HARRIS, Allied Military Administration of Italy 1943-1945, London, 1957, p. 328.

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Si apriva da questo momento una contraddizione fra i progetti inglesi per la Ve­nezia Giulia e le previsioni circa la situazione che si sarebbe determinata in essa, una contraddizione che avrebbe pesato su tutto l’ulteriore corso della vicenda e che per lo meno fino alla fine del 1944 non sarebbe stata risolta ma avrebbe pro­vocato un alternarsi di interventi sul piano politico-diplomatico e su quello della pianificazione militare. Per tutto il 1944 infatti la posizione alleata non ebbe una linea di sviluppo univoca. Ciò vale soprattutto per il problema di fondo che si trova­va ad affrontare: se cioè dovesse adeguarsi in vario modo alla prevedibile situazione che si sarebbe creata nella Venezia Giulia all’atto del collasso nazifascista o se dovesse contrapporsi a tale situazione. Nell’ambito di tale dilemma, il problema del­la Venezia Giulia avrebbe trovato — da parte inglese — il suo quadro di riferi­mento dominante, che sarebbe stato mantenuto fino alla fine della guerra, nelle relazioni con la Jugoslavia.

Il problema veniva posto in termini espliciti dal vice capo della commissione alleata di controllo (Allied Control Commission ACC) capitano Stone, in un messaggio al quartier generale alleato del Mediterraneo (Allied Forces Headquartes, AFHQ), al quale si chiedeva di impartire chiare direttive circa i territori al confine italo-jugosla- vo, presentano un’ampia gamma di possibilità, alle cui estremità si trovavano, l’ipo­tesi di amministrazione militare alleata o — alternativamente — in tutta la Venezia Giulia 1S.La richiesta di Stone passava al vaglio del Reconstruction Department del Foreign Office, la cui posizione veniva sintetizzata in un promemoria trasmesso dal segre­tario di stato britannico, Anthony Eden, a Churchill il 10 agosto alla vigilia della partenza di quest’ultimo per l’Italia. In esso veniva ribadito l’orientamento, già presente — come si è visto — nel memorandum di Toynbee, che cioè fosse « essen­ziale » che « si tenesse il terreno allontanandone i due portavoce delle contrapposte rivendicazioni, l’Italia e la Jugoslavia », di escluderli cioè dalla partecipazione al governo della Venezia Giulia. « L’istituzione di un’amministrazione militare alleata costituirà — si continuava — la miglior intesa provvisoria, ma sarà attuabile solo ottenendo la cooperazione spontanea del governo jugoslavo e di Tito. Sembra per­ciò desiderabile sondare l’atteggiamento jugoslavo quanto prima possibile e a tal fine si potrebbe approfittare dell’imminente incontro di Caserta », già programmato al fine di discutere problemi di carattere politico e militare 16.Nel passare dalla programmazione in astratto alla fissazione di una concreta linea d’intervento atta a garantire il futuro assetto della Venezia Giulia, la diplomazia inglese vedeva scardinate le premesse sulle quali questa doveva fondarsi, in quanto anziché avere autonoma capacità di imporre il proprio punto di vista su entrambi i contendenti, si trovava nella necessità di aprire la discussione con uno di essi al fine di strappare una sorta di consenso. Non che la lucida dichiarazione di Eden comportasse un rifiuto o una revisione del progetto di fondo, ormai in ef­fetti largamente consolidato, fuori discussione l’obiettivo di sottoporre tutta la Venezia Giulia al controllo alleato, si trattava di verificare, mediante un sondag­gio cauto e accorto — come proponeva Eden — la possibilità di un adattamento jugoslavo ad essi.Nel corso del primo incontro avuto con Tito e il primo ministro del governo ju­

15 II messaggio di Stone A/CC 321, 28 luglio 1944 in PRO, WO 204/9796 (la maggior parte di esso è riprodotta anche in h.l . coles-a.k. weinberg, Civil Affairs: Soldiers Become Governors, Washington, 1964, p. 590).16 II promemoria PM 44/584, 10 agosto 1944 e la sua redazione preliminare in PRO, FO 371/40845/U 6754/6752/70.

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goslavo in esilio, Subasic, a Napoli il 12 agosto, Churchill in effetti partiva da lon­tano accennando alla possibilità di un’operazione militare in Istria; ma la risposta del leader jugoslavo andava direttamente al cuore della questione, del controllo e della futura amministrazione della Venezia Giulia. In un memorandum consegnato il pomeriggio dello stesso giorno al primo ministro inglese. Tito manifestava netta­mente l’intenzione di mantenere nella Venezia Giulia l’amministrazione militare e civile jugoslava, l’intenzione di non lasciare campo libero alTamministrazione al­leata, un disegno che era chiaramente collegato al carattere ufficiale degli impe­gni circa la liberazione dellTstria e del litorale sloveno proclamati nel corso della II sessione dell’AVNOI a Jajce (novembre 1943). Tale volontà veniva ribadita l’indomani da Tito di fronte al rappresentante dell’AFHQ, generale Gammell, che aveva sottoposto al leader jugoslavo l’esigenza di istituire il governo militare alleato in rapporto alla necessità di controllare le vie di comunicazione che attraversavano la regione giulia. Tito non manifestava alcun’intenzione di interferire nella piani­ficazione alleata, ma netto era — stando al verbale di parte inglese — il suo obiet­tivo di limitare il campo d’intervento sottoposto all’esclusivo controllo alleato alle esigenze logistiche connesse all’occupazione dell’Austria (la sicurezza del porto di Trieste e delle linee di comunicazione da esso verso nord).Nell’operare una netta distinzione fra l’amministrazione del territorio da una parte e dall’altra i piani operativi alleati e gli stessi obiettivi di natura politica (esclu­dere i diretti contendenti dall’amministrazione della Venezia Giulia) che gli veni­vano sottoposti da Churchill nel corso dell’ultimo incontro Tito giocando d’anti­cipo aveva decisamente spostato il confronto dal terreno suggerito da Eden 17 18. Non soltanto esso non era semplicemente consistito in un cauto sondaggio, ma l’irrinun- ciabile condizione atta a garantire il consenso jugoslavo si rivelava inconciliabile con i progetti alleati e rendeva del tutto impraticabile la via suggerita da Eden. Il tema del consenso jugoslavo si sarebbe ripetutamente affacciato nei mesi suc­cessivi, ma le dichiarazioni rilasciate da Tito a Churchill avrebbero dimostrato che, finché i cardini del progetto inglese verso la Venezia Giulia fossero rimasti inalterati, si trattava in sostanza di una petizione di principio incapace di dar so­luzione concreta agli interrogativi apertisi per gli inglesi.Il progetto inglese, sul quale si registrava in agosto l’esplicito consenso americano ls, non veniva comunque abbandonato — come vedremo più avanti — ed in settembre i suoi termini di fondo erano fatti conoscere anche al governo italiano. Nel ri­spondere ad una comunicazione nella quale il sottosegretario agli esteri, Visconti Venosta, faceva presente alle autorità alleate la possibilità che al momento del col­lasso tedesco scoppiassero nella Venezia Giulia « conflitti fra bande armate e pa­cifici cittadini », il vice capo dell’ACC, Stone rendeva noto il piano alleato diretto ad imporre il governo militare alleato su tutta la Venezia Giulia « in modo da pro­teggere le basi e le linee di comunicazione delle truppe alleate nell’Europa cen-

17 La lettera di Tito a Churchill (annex B a R Ì3760/8/G) e il verbale dell’incontro del mattino e del pomeriggio del 13 agosto in PRO, PREM 3/512/3, il memorandum del gen. Gammell è annesso al verbale SAC (44) Special (5), 13 agosto 1944 in PRO, WO 204/872; (i documenti risultano parzialmente riprodotti anche in w. churchill, La seconda guerra mon­diale, Milano, 1970, voi. II, p. 114 e h.l. coles-a.k. weinberg, op. cit., p. 590). Cfr. inoltre h.r.s . harris, op. cit., pp. 328-329 e woodward, op. cit., voi. Ili, pp. 336-342. Sulle relazioni anglo jugoslave dopo la metà del 1944, v. D. biber, Medmarodni polozaj Jugoslavije v zadnjem letu druge svetovne vojne in Osvoboditev Slovenije, Ljubljana 1977, pp. 237-243.18 Cfr. nota di Murphy, sostituto consigliere americano, a Gammell, 18 agosto 1944, in PRO, WO 204/2286, e il messaggio del segretario di Stato, Cordoli Hull, a Murphy, 20 agosto 1944, in FRUS, 1944, IV, p. 1401.

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trale » l9. L’intervento di Stone si limitava ad una mera notificazione delle inten­zioni alleate. Lo stesso collocarsi della risposta sul piano della programmazione tattica e logistica equivaleva a escludere di fatto la possibilità di ulteriori richieste ed approfondimenti da parte del governo italiano. Del resto, una volta stabilito il principio dell’estromissione dei diretti contendenti dall’amministrazione dei terri­torio suddetto, non poteva manifestarsi alcun interesse ad interloquire col governo italiano in merito alle ipotesi di soluzione del problema.Per quanto non vada dimenticato che la natura del controllo alleato fu tale da fare dell’Italia, in quanto entità statale, essenzialmente un oggetto di decisioni al­trui, non può essere ignorato che la diplomazia italiana ebbe come obiettivo principale quello di appurare di momento in momento fino a dove arrivasse la copertura militare alleata. Fu, in sostanza una scelta di subordinazione, un tenta­tivo di integrare le aspettative italiane entro i progetti alleati (o presunti tali). Ciò si verificò a più riprese anche nella fase successiva e con maggiore insistenza fra marzo e aprile 1945, allorché da parte del ministero degli esteri si manifestò più volte ai rappresentanti alleati l’aspettativa che venisse stabilito il controllo alleato su tutta la Venezia Giulia 20. Altre iniziative, quale il contatto diretto col governo jugoslavo, se pur venivano indicate ed auspicate risultavano comunque subordinate all’accertamento delle reali intenzioni alleate o venivano tentate con il tramite della diplomazia alleata.Tornando poi ai progetti alleati verso la Venezia Giulia, dopo gli incontri con Tito dell’agosto 1944 Tipotesi del controllo alleato non era peraltro abbandonata. Ve­niva invece modificato il terreno sul quale essa era stata posta: non più sulla base della ricerca dell’intesa con gli jugoslavi, che era evidentemente improbabile, ma sulla base dei piani militari per il settore italiano e balcanico. Da allora il pro­blema in questione si collocava nel contesto della pianificazione militare alleata e la gestione di esso passava dalla competenza delle sfere politico-diplomatiche a quella dei pianificatori e dei responsabili militari. Non si trattava quindi di un conflitto fra obiettivi strategici e diplomatici che spesso viene addotto a giustificare le iniziative britanniche nel Mediterraneo, quanto di un meccanismo di alternanza consapevolmente accettato dai responsabili della politica estera inglese e destinato a riproporsi anche in momenti successivi.Dalla seconda metà di agosto 1944, dunque, quello che è stato definito l’opportu­nismo strategico di Churchill (condiviso spesso dai responsabili militari inglesi del Mediterraneo) riafforava sollecitato principalmente dall’avanzata dell’esercito so­vietico, che in quel tempo, dopo aver liberato la Romania, si stava avvicinando alle frontiere ungheresi e jugoslave. Nella previsione che i nazisti avrebbero organiz­zato la propria linea di difesa lungo Tasse Trieste-Lubiana-Zagabria-Danubio, Wil­son giudicava che gli unici a trar beneficio dalla ritirata nazista sarebbero stati Tarmata rossa ed i partigiani jugoslavi21. Caduta, per effetto della tenace resistenza

19 La lettera di Visconti Venosta a Stone 1/236, 19 agosto 1944, le disposizioni di Gamraell a Cush (sostituto presidente dell’ACC), 2 settembre 1944, e la risposta A/CC 321 a Visconti Venosta, lettera di Bonomi a Stone, 1/555, 16 settembre 1944, in PRO, WO 204/9796 (parte della documentazione è già stata pubblicata da D . d e c a s t r o , op. cit., pp. 105-106).20 Cfr. note di Charles al Foreign Office, 437 e 544, 8 marzo e 1 aprile 1945, relative a col­loqui con Bonomi De Gasperi e Prunas in PRO, WO 106/4058; cfr. inoltre d . d e c a s t r o , op. cit., pp. 108-110. Per quanto riguarda il controllo alleato sulla situazione italiana rimando a D . w . e l l w o o d , L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943- 1946, Milano, 1977 e principalmente alla seconda parte. Sulle aspettative italiane cfr. R . p u p o ,

La rifondazione della politica estera italiana, cit., pp. 42-69.21 Cfr. messaggi di Wilson, Medcos 181 e NAF 774, 2 e 9 settembre 1944 in FRUS, 1944, The conference at Quebec, pp. 224-228 e 230-232 (già in precedenza Churchill aveva sollecitato

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opposta dai tedeschi sulla linea gotica, l’ipotesi di Wilson circa una rapida avanzata in direzione nord-est ed analogamente la convinzione di Churchill circa l’opportu­nità di uno sbarco in Istria (che era strettamente connessa a quella), agli inizi di ottobre Wilson formulava il seguente piano: « Sia che la guerra in occidente si concluda quest’inverno o si prolunghi nel 1945, l’aspetto [della strategia alleata, per cui al fronte italiano era assegnato l’esclusivo compito di tener impegnato il maggior numero di divisioni tedesche] deve restare immutato, ma l’avanzata dello esercito russo in Ungheria e Jugoslavia può avere nei prossimi mesi un effetto più decisivo sulla forza del nemico che ci è di fronte in questo teatro che l ’azione delle forze sotto mio controllo ». Di conseguenza all’originale intenzione di impa­dronirsi di Trieste (e in seguito dell’Italia nord-orientale) per effetto di uno sbarco diretto si sostituiva l’ipotesi di arrivarvi da sud-est dopo uno sbarco in Dalma­zia 22.A questo punto Churchill affrontava, sul piano politico ma anche su quello mili­tare, la trattativa con l’Unione sovietica. È anche in questo quadro che si colloca, a mio parere, la visita di Churchill a Mosca dal 10 al 20 ottobre 1944 e specifica­tamente il noto « accordo sulle percentuali » di spartizione dell’influenza inglese e sovietica nei Balcani23. Com’è stato già sottolineato, gli accordi si inserivano nel­l’ambito della tendenza alla definizione delle aree di influenza e miravano a rista­bilire sul piano diplomatico un equilibrio di rapporti irrimediabilmente incrina­tosi per effetto dell’avanzata sovietica. Per il caso che ci riguarda la Jugoslavia veniva riconosciuta come area sottoposta ad un’influenza bilanciata anglo-sovie­tica. Se si tien conto però dell’attività dispiegata da Churchill nel settembre 1944 e fino a prima della sua visita a Mosca a favore di un impegno militare alleato nei Balcani, era anche attorno ad un’eventualità del genere che il primo ministro inglese mirava a sondare l’atteggiamento sovietico. Da questo punto di vista gli accordi non potevano non riferirsi anche all’aspetto della presenza militare (da non intendere ovviamente in senso meccanico). In sostanza T« accordo sulle per­centuali » serviva anche a conoscere — come ha giustamente sottolineato Deakin sia pur in modo unilaterale24 — se i piani inglesi circa la Jugoslavia fossero com­patibili con quelli sovietici. Per quanto riguarda appunto il caso particolare della Jugoslavia, la spartizione « fifty-fifty » comportava di fatto un riconoscimento della legittimità della presenza militare alleata in quel paese; a conferma di questa parti­colare modalità degli accordi va detto che il progetto di uno sbarco in Dalmazia per il febbraio 1945 veniva diretto da Wilson ai capi dello stato maggiore inglese prima del viaggio di Churchill nell’Unione sovietica e riceveva conferma immediata dopo il suo ritorno da Mosca2S.

Wilson a tale iniziativa (cfr. verbale clell’incontro all’ambasciata inglese a Roma, 21 agosto 1944, e telegr. a Roosevelt in PRO, PREM 3/275/1).22 Cfr. Medcos 201, 9 ottobre 1944 in PRO, WO 106/4058; di tale piano si era già parlatoil giorno prima a Napoli, quando Churchill, Eden ed i capi di stato maggiore inglesi, sulla via di Mosca, avevano incontrato Wilson ed Alexander (le conclusioni della discussione sono rias­sunte in un messaggio del capo dello stato maggior generale imperiale, 8 ottobre 1944 in PRO, PREM 3/275/3). Vedi inoltre j. e h r m a n , Grand Strategy, voi. VI (October 1944-august 1945), London, 1956, p. 40 ss. :23 Sull’incontro fra Churchill e Stalin rimando a l . w o o d w a r d , op. cit., voi. Ili, p. 146 ss., E . b a r k e r , British Policy in South East Europe, cit., p . 144 ss., G . k o l k o , The Politics of War. Allied Diplomacy in the World Crisis of 1943-1945, London, 1969, p . 140 ss. Una dettagliata analisi dei colloqui è stata recentemente effettuata da a . r e s i s , Churchill-Stalin Secret « Percen­tages » Agreement on the Balkans, Moscow, October 1944. in « American Historical Review », voi. 83, n. 2, aprii 1978, p p . 368-387. I verbali inglesi dell’incontro in PRO, PREM 3/434/4.24 Cfr. British Policy towards Wartime Resistance, cit., intervento di Deakin nella discussione, pp. 247-248.25 Cfr. Medcos 201 e 205, 9 c 24 ottobre 1944 in PRO, WO 106/3967.

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Ma nel corso dell’ottobre le premesse di tale pianificazione si rivelavano infon­date: infatti la principale direttrice dell’avanzata sovietica si spostava dalla Jugo­slavia all’Ungheria, mentre sul fronte itàliano non risultava ancora raggiunto lo obiettivo di stabilire il fronte lungo la linea Ravenna-Bologna-Forlì che permettesse di alleggerire la pressione sull’armata di Kesselring e rendesse possibile il ritiro di un certo numero di divisioni da destinare alle operazioni in Adriatico. Va an­che aggiunto che sia i pianificatori inglesi sia lo stesso Wilson prevedevano che, nel quadro di una concezione strategica essenzialmente attenta a garantire la li­bertà di movimento per linee interne, le truppe tedesche avrebbero sensibilmente rafforzato la propria posizione nella regione giuba un’area vitale in quanto sede dei collegamenti fra fronte italiano e fronte danubiano e fra questo e territorio metropolitano 26.La regione giuba — era implicito nelle previsioni di Wilson — sarebbe stata sal­damente tenuta dai nazisti fino al momento del collasso finale e l’assunzione del potere da parte dell’esercito di liberazione jugoslavo non sarebbe avvenuta in so­stanziale anticipo rispetto alla caduta del fronte italiano, nè avrebbe potuto aver luogo un avvicendamento su ampia scala di apparati di governo. Tutto ciò avrebbe allontanato il pericolo che si creasse un vuoto di potere, pericolo che, in questa fase, era alla base della pianificazione alleata circa i territori non ancora asse­gnati a sfere di influenza o politicamente inquietanti27. È appunto su aspettative del genere che si fondavano i progetti circa le forme e le modalità dell’ammini- strazione alleata della Venezia Giuba. Essi permettevano di raggiungere — come si vedrà — una particolare forma di equilibrio fra i due corni del dilemma che dal luglio-agosto 1944 si erano posti per gli alleati circa la Venezia Giuba: l’ade­guamento o la contrapposizione ai progetti jugoslavi. L’approntamento dei pro­getti alleati avveniva sulla base dell’ipotesi di controllo totale della Venezia Giu­ba; ad essa veniva manifestato nel settembre 1944 il consenso americano che, a quanto si riesce a dedurre dalla documentazione edita, sembra fondarsi su moti­vazioni immediate nella sostanza analoghe a quelle inglesi, partendo cioè dal pre­supposto che, a non pregiudicare l’assetto definitivo della regione giuba, era ne­cessario escludere dall’amministrazione del territorio i due diretti contendenti ed istituire una struttura di governo militare sotto la responsabilità alleata 28.Le direttive alle quali avrebbe dovuto ispirarsi il funzionamento del governo mi­litare alleato della Venezia Giuba venivano stabilite alla fine di novembre 1944 da Wilson. Era certamente un modello sui generis quello che veniva proposto (in rapporto a quanto messo in atto o previsto per il resto d’Italia), ma che comunque lasciava trasparire l’aspettativa di diventare arbitri della situazione in Venezia Giu­ba. Tale aspettativa si fondava sulla previsione che il governo dell’Adriatisches Kustenland avrebbe retto fino all’ultimo e che sarebbe stato impossibile un ra­pido e completo trapasso dei poteri da esso all’amministrazione militare e civile jugoslava prima che gli eserciti alleati arrivassero in loco. Era da tale premessa che acquistava forma il progetto presentato da Wilson ai capi di stato maggiore combi­nati (Combined Chiefs of Staff, CCS) il 27 novembre 1944:

a. Nella misura in cui si trovi un’amministrazione locale funzionante ed espressione

26 Cfr. Medcos 210, 22 novembre 1944 in PRO, PREM 3/275/4.27 II caso del Piemonte è stato illustrato da G . p e r o n a , Torino ira Atene e Varsavia. L’ope­razione «Cinders », in «Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica», a. I (1975), p. 349-423.28 V. il memorandum di H.F. Matthews per H. Hopkins, approvato da Roosevelt, 16 set­tembre 1944, pubblicato da E . d i n o l f o , L’operazione «Sunrise ». Spunti e documenti, in «Sto­ria e politica», 1975, fase. 3, p. 359 ed il memorandum di Grew ad Hopkinson e di Leahy per Matthews, 16 e 19 settembre 1944 in w . l . c o l e s - a . h . w e i n b e r g , op. cit., pp. 590-591.

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dell’opinione pubblica locale, lo status quo fra partigiani e non partigiani, fra italiani e slavi, sarà mantenuto. Soltanto funzionari autoctoni saranno trattenuti in servizio o autorizzati ad esso. b. Si limiterà l’uso di carabinieri o truppe italiane. Sarà reclutata in sede locale una speciale forza di polizia, ma, a causa delle difficoltà inerenti alla situazione e all’importanza della zona come sede di una linea di comunicazione per l’Austria, le truppe alleate di guarnigione dovranno essere impiegate in funzione supple­mentare su scala relativamente ampia, c. La legge fondamentale sarà quella italiana, ma verranno sospese tutte le disposizioni di legge discriminanti gli jugoslavi e di diritto di ricorso al di là delle istanze giudiziarie locali; alcune norme della legislazione na­zionale italiana non avranno vigore in questa zona. d. Allo stesso modo potrebbe svilupparsi un certo grado di autonomia in materia bancaria e fiscale. Le lire italiane continueranno ad avere corso legale, ma nuove emissioni di denaro saranno rappresen­tate dalle AM/lire. e. Si potranno formare comitati consultivi locali, costituiti da elementi autoctoni, italiani e slavi, che le autorità regionali alleate potranno consultare a loro discrezione 29.

Veniva in tal modo sancito il carattere peculiare del governo alleato della Vene­zia Giulia, la sua autonomia ed eterogeneità rispetto alle forme di governo mi­litare esistenti o previste nel resto d’Italia, riferite sia a determinati orientamenti giuridici che ai particolari rapporti con le istituzioni del governo locale, presenti nel­l’ambito del governo militare, non meramente in funzione esecutiva ma neppur tale da intaccarne l’autorità effettiva, e all’impegno di preservare il carattere prettamente « indigeno » alle istituzioni politico-amministrative locali. Era proprio la peculiarità di tale modello amministrativo che avrebbe dovuto consentire l’esercizio del controllo alleato sulla Venezia Giulia. Mirava appunto a tal fine l’obiettivo principale, rassi­curare lo « status quo fra partigiani e non partigiani, fra italiani e slavi ». Tale obiet­tivo che, fra l’altro, si collegava alla già asserita esigenza di garantire il mantenimen­to degli equilibri etnici e politici nella regione giuba, si fondava sull’ipotesi di un equilibrio paralizzante fra realtà amministrative, politiche ed etniche in profondo contrasto, un equilibrio che non poteva non ritorcersi contro la loro libertà di ma­novra. Il progetto elaborato dal comandante supremo del Mediterraneo riproponeva da una parte scelte già effettuate e dall’altra linee generali di programmazione rela­tive a determinati territori. Per il primo aspetto esso rievocava con indubbia imme­diatezza l’analoga scelta di fondo compiuta dai responsabili della politica alleata in Italia verso il quadro politico interno, e per il secondo il principio dell’indipendenza « da forze politiche autonome di origine locale » che veniva seguito nella pianifica­zione diretta ad imporre il controllo alleato « delle zone non ancora assegnate ad aree di influenza o politicamente inquietanti » (e la Venezia Giulia era, con ogni evidenza, una di queste)30.C’è ancora un aspetto da sottolineare nel progetto del generale Wilson. Rispetto alle condizioni presentate da Tito nell’agosto 1944, riferentisi all’impiego prioritario del­l’amministrazione militare e civile jugoslava nel governo della Venezia Giulia, Wil­son si preoccupava fondamentalmente di assorbirla in un quadro che avrebbe note­volmente limitato l’indipendenza di essa; peraltro egli non mancava di raccomandare l’opportunità che la relativa decisione dovesse « essere presa d’accordo col mare­sciallo Tito »; ma il richiamo, date le premesse fondamentalmente operative della direttiva di Wilson, continuava ad avere il carattere di una petizione di principio. Il consenso jugoslavo avrebbe poi potuto realizzarsi mediante una trattativa che, con la sua chiara valenza politica, non avrebbe potuto non conferire un carattere le­gittimante al movimento partigiano jugoslavo come unica entità di governo in Ju­

29 Wilson ai CCS, MAT 418, 27 novembre 1944 in PRO/FO 371/40845/U 8392/6752/70 (ri­portato in parte anche in h . l . c o l e s - a . k . w e i n b e r g , op. cit., pp. 590-592; ne f a cenno anche H . R . S . H A R R I S , op. cit., pp. 329-330.30 Cfr. d . w . e l l w o o d , L’alleato nemico, cit., pp. 309-310 e c. p e r o n a , Torino fra Atene e Varsavia, cit., p. 365, che riprende alcune fondamentali osservazioni di G. Kolko.

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goslavia. Ed un’iniziativa del genere avrebbe rischiato di mettere in discussione l’in­tera politica inglese nei confronti della Jugoslavia, politica che mirava all’effettiva costituzione di un governo unitario il quale, pur con netta predominanza partigiana, contasse al suo interno anche esponenti delle forze politiche in esilio.L equilibrio fra le due alternative apertesi per gli inglesi si rivelava ben presto co­struito su ipotesi inattendibili. I rapporti privenienti del campo, dalle missioni allea­te presenti fra Italia e Jugoslavia portavano un contribuito, per alcuni versi deter­minante, alla chiarificazione della situazione in atto nella Venezia Giulia e nel Friuli orientale e dei suoi più probabili sbocchi. Ciò contribuiva a mettere rapida­mente in crisi certi elementi del progetto di Wilson che sembravano con sicurezza acquisiti. I primi rapporti d’insieme sulla resistenza italiana attiva ai margini orien­tali d ’Italia, redatti a partire dal novembre 1944, segnalavano con estrema chiarezza che il partigianato comunista (divisione « Garibaldi-Natisone ») stava ponendo in atto un tentativo di sottrarsi al controllo (o ai progetti di controllo) alleato sulla re­sistenza. Nel passaggio della « Garibaldi-Natisone » alle dipendenze operative del IX Korpus sloveno (decisione avversata, come è noto, dall’altra componente della re­sistenza italiana nel Friuli, la divisione Osoppo), si intravvedeva da parte alleata l’in­tenzione — che si reputava godesse di una sorta di avallo del Pei — di dar luogo ad una situazione di egemonia comunista, italiana e slovena, in tutto il territorio del­l’Italia nord-orientale31.Non era soltanto la politica alleata diretta al controllo della resistenza italiana che nel Friuli orientale dimostrava serie difficoltà a tradursi in atto. Se, accanto a quella del Friuli orientale, si considera la situazione creatasi a Trieste e, in gran parte della Venezia Giulia, situazione nella quale agli espliciti progetti di egemonia co­munista si contrapponeva la sensazione che — fatta eccezione dei grossi centri ur­bani — l’apparato di governo dell’Adriatisches Kustenland aveva un’autorità per molti aspetti nominale e destinata a dissolversi rapidamente, era lo stesso progetto di amministrazione militare — com’era stato formulato da Wilson — ad essere di fatto messo in discussione 32. La possibilità di reggersi su spinte contrapposte an­nullandone al tempo stesso gli effetti, la stessa contrapposizione fra un fronte parti­giano ed uno anti-partigiano, fra italiani e sloveni non reggeva alla prova dei fatti che davano atto di una realtà ben più articolata e complessa, e che tendeva ad evol­vere in una direzione opposta alle previsioni formulate all’interno del quartier gene­rale alleato del Mediterraneo.Agli inizi di gennaio 1945, all’interno di esso, si procedeva ad una messa a fuoco del problema accompagnata da uno sforzo di reimpostare i termini di fondo della politica alleata verso la resistenza al confine orientale. In un rapporto del 16 gen­naio il capo della sezione G-3, generale D. Noce, ravvisava l’elemento di maggior preoccupazione nella situazione di egemonia comunista nel suo complesso, slovena ma anche italiana, creatasi in tale territorio per effetto del passaggio della « Gari­baldi-Natisone » alle dipendenze operative del IX Korpus parallelamente all’esten­sione dell’area operativa di quest’ultimo verso ovest al di là dell’lsonzo. Al riguardo

•" Mi riferisco principalmente al rapporto del magg. Vincent, capo della missione «Tucker», 13 novembre 1944, in PRO, WO 204/2000. Per una più ampia analisi di tali problemi si ri­manda al mio articolo Resistenza e Alleati Ira Italia e Iugoslavia, in « Qualestoria », n. 1, marzo 1980, pp. 3-12.32 Cfr. ad esempio, il rapporto sulla situazione di Trieste, redatto da un esponente della locale questura e raccolto da un agente inglese, 15 dicembre 1944, in PRO, FO 371/43917/R 21358/69/22; sullTstria v. il rapporto CSD1C/IAI, 2 febbraio 1945 in PRO, WO 204/2000 e il dispaccio del capo della missione militare inglese a Belgrado, F. Maclean, n. 9, 4 febbraio 1945 in PRO, WO 200/317.

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l’alto ufficiale americano non appariva in grado di individuare una linea di condotta verso una situazione che presentava tratti non omogenei rispetto al resto dell’Italia partigiana. Lo conferma il fatto che, nel concludere l’analisi sulle particolari caratte­ristiche dell’esperienza partigiana fra Italia e Jugoslavia, si affacciavano l’ipotesi di totale eliminazione della presenza partigiana nel suo complesso da parte nazifasci­sta. Certo l’ipotesi veniva giudicata inattendibile subito dopo essere stata esposta, ma anche solo tale circostanza è indice sia dell’atteggiamento di fondo dei comandi allea­ti verso la resistenza in generale, sia del particolare modo di rapportarsi, o meglio delle sue incertezze e dei suoi limiti, di fronte alla situazione circoscritta che qui si esamina. Per il primo aspetto ne veniva ribadita quella radicale sfiducia ed ostilità alleata nei confronti del movimento partigiano, per l’altro il fatto che ad una pre­senza partigiana dai tratti indubbiamente peculiari e tutto sommato scomodi non si riuscisse a contrapporre altro che l’immagine di una sua totale eliminazione, in al­tre parole la presenza di una siffatta alternativa sottolineava l’estrema difficoltà in cui si trovava il quartier generale alleato del Mediterraneo nell’individuare una via d’uscita alla paralisi dei rapporti col movimento partigiano attivo fra il Friuli orien­tale e la valle dell’Isonzo.E in effetti le proposte che il generale Noce formulava in chiusa al messaggio sud­detto non miravano a colmare in qualche modo il vuoto d’iniziativa politica da parte alleata verso le forze della resistenza, anzi finivano per eludere tale questione — o meglio a spostarla su altro terreno — puntando ad una rigida definizione di aree operative riservate esclusivamente a partigiani sloveni e rispettivamente italiani. L’alto ufficiale americano suggeriva infatti che, a livello di governi, venisse ufficial­mente dichiarato quali fossero le zone dell’Italia nord-orientale che gli jugoslavi era­no autorizzati a far teatro di operazioni militari, senza peraltro che ciò impedisse od ostacolasse l’esercizio del controllo alleato sulle vie di comunicazione dai porti della regione giuba verso nord33. L’esplicita rinuncia ad individuare i termini di una politica alleata verso la resistenza, facendo appello all’intervento in sede politico-di­plomatica, non rappresentava comunque soltanto una scappatoia, una soluzione di comodo.Fra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 veniva infatti raggiunta la consapevolezza che l’iniziativa e la pianificazione dei militari non rappresentavano un adeguato sup­porto ai progetti di controllo totale della Venezia Giulia, la consapevolezza cioè che quel particolare equilibrio fra l’adeguamento e la contrapposizione ai progetti ju­goslavi si era definitivamente rotto. Si poneva dunque il problema di cercare nuovi elementi di riferimento e nuove basi sulle quali impostare l’atteggiamento nei con­fronti della questione della Venezia Giulia e sulle quali effettuare una scelta defini­tiva. Dopo la metà di dicembre 1944 si dedicava a questa ricerca una serrata discus­sione che, avviata all’interno del Foreign Office, coinvolgeva il War Office, gli or­gani inglesi della pianificazione post-bellica e la componente inglese dell’AFHQ. Il 19 dicembre 1944 si teneva al Foreign Office un incontro, guidato dal sottosegreta­rio, sir Orme Sargent, ed al quale partecipavano i maggiori responsabili della poli­tica estera inglese per l’Europa meridionale allo scopo di « riesaminare gli attuali impegni britannici per il mantenimento dell’ordine e della legalità nelle aree di fron­tiera in contestazione nell’Europa sud-orientale ».« Esperienza greca » ed esigenze complessive della politica inglese verso la Jugosla­via concorrevano, a giudizio dei funzionari del Foreign Office, a porre su nuove basi 31

31 Rapporto del gen. D. Noce al capo di stato maggiore del quartiere generale alleato del Me­diterraneo, 16 gennaio 1945, in PRO, WO 204/2000.

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le linee di intervento in merito al problema della Venezia Giulia. Era questa la pre­messa sulla quale, infatti, si apriva la discussione: « Alla luce degli avvenimenti gre­ci è sembrato molto opportuno da un punto di vista politico evitare di usare truppe britanniche laddove sono soggette ad essere coinvolte in combattenti con i parti­giani alleati e con la popolazione locale ». In sostanza se il rischio dell’intervento militare era stato di fatto previsto ed accettato dove erano in gioco « vitali inte­ressi » per la politica estera inglese, l’esercizio di un controllo diretto da parte alleata su un territorio in disputa, quale strumento per meglio tutelare i propri interessi politici e strategici, non rappresentava necessariamente un modello da utilizzare in contesti in cui le relazioni con le forze partigiane presentavano certe analogie di mas­sima. Una scelta del genere, infatti, rischiava di risolversi, in presenza di schiera- menti interni fortemente contrapposti, in un estenuante logoramento ed in un inevi­tabile coinvolgimento nelle lotte interne. Continuava infatti il verbale dell’incontro:

È comunque chiaro che un governo militare alleato a pieno titolo (nella Venezia Giulia) sarebbe imposto contro le aspettative jugoslave e ci esporremmo a nuove complicazioni con il nuovo governo jugoslavo che si spera stia per essere costituito sotto la guida del maresciallo Tito. Certamente si manifesterebbero delle frizioni fra le truppe britanniche o i funzionari del governo militare alleato e i partigiani jugoslavi o le autorità locali. Attualmente parte dei partigiani italiani (quelli guidati dai comunisti) stanno collabo- rando con i partigiani sloveni che sono più attivi ed aggressivi. Probabilmente ciò conti­nuerà finché i tedeschi controlleranno il territorio conteso da italiani e sloveni, ma non appena i tedeschi si saranno ritirati c’è ogni probabilità che si manifesti uno scontro armato fra partigiani jugoslavi e italiani e qualora fossimo responsabili dell’amministra­zione ci troveremmo coinvolti con entrambe le parti34.

Il senso di tali preoccupazioni non va inteso tanto come valutazione a posteriori dell’« esperienza greca » appunto, nè, tanto meno, può prestarsi a ribadire facili ana­logie con altri casi (con quello italiano innanzitutto); esso va invece collegato allo andamento delle relazioni inglesi con la Jugoslavia, ed è utile inoltre a precisare, nel concreto, la particolare evoluzione che esse avevano avuto. Va innanzitutto te­nuto presente che a tale andamento era attribuita la massima importanza, conside­rato che — oltre alla Grecia dove la posizione di potere inglese rivestiva carattere preminente ed era comunque assicurata — soltanto in Jugoslavia — in tutto l’insie­me dei paesi dell’area danubiano-balcanica, si tentava di sviluppare un’iniziativa po­litica-diplomatica (senza affidarsi esclusivamente agli accordi ad alto livello), al fine di esercitare un certo grado di influenza. In questo contesto la determinazione con la quale da parte inglese era stato compiuto ogni tentativo che potesse portare alla formazione di un governo jugoslavo unitario sembrava raggiungere, verso la fine del 1944, i primi risultati positivi. Nel corso di una riunione tenutasi il 21 dicembre 1944, Churchill e Eden consideravano « nel complesso anche migliore delle aspet­tative » l’accordo raggiunto da Tito e Subasic il 7 dello stesso mese circa le elezioni per l’assemblea costituente e ravvisavano, in linea di massima, in questo ed in altri passi del genere una prima garanzia che la situazione interna jugoslava non sarebbe evoluta lungo modelli di stampo cosiddetto totalitario35. Era a tale obiettivo ed alla conseguente necessità di salvaguardare ogni possibilità di dialogo con quello che si considerava come l’interlocutore (jugoslavo) più adeguato alla situazione in atto ed

34 II verbale della riunione del 19 dicembre 1944 fra il sostituto sottosegretario di Stato, Sargent e i funzionari dell’Economic and Reconstruction e del Southern Department, Howard Jebb Ward Williams e Hood, in FRO, FO 371/40735/U 8838/491/70. Al riesame della linea di condotta inglese accenna anche H a r r i s , op. cit., p . 330.35 Sulle relazioni anglo-jugoslave fra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, cfr. l . w o o d w a r d ,

op. cit., voi. Ili, p. 356, E . b a r k e r , British Policy in South East Europe, cit., p. 170 s s . ; cfr. anche D.w. e l l w o o d , Al tramonto dell’impero britannico, cit., p. 86 s s .

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alle prospettive per il futuro che andava nettamente subordinato ogni altro atteggia­mento su problemi capaci di interferire — com’era quello del confine italo-jugoslavo— nelle relazioni anglo-jugoslave, a vanificare la premessa di fondo che aveva giu­stificato la decisione di estendere l’amministrazione alleata fino ai confini del 1939.Le esigenze della politica verso la Jugoslavia e la consapevolezza circa la difficoltà e la gravosità degli impegni connessi al mantenimento di law and order in territori caratterizzati da forti tensioni interne rappresentavano i nuovi punti di riferimento sui quali rifondare la linea di intervento inglese sulla Venezia Giulia. Fra le possi­bili alternative fra la resistenza ai progetti jugoslavi e l’adattamento ad essi, veniva imboccata con decisione la strada che portava alla seconda, come risulta chiaro dai suggerimenti che emergevano dalle discussioni all’interno del Foreign Office:Ad evitare queste difficoltà (connesse con una prospettiva di intervento militare alleato)— continuava il documento — si suggerì di tracciare una linea di demarcazione a carattere temporaneo. Tito si impegnerebbe a non andarvi al di là, ma ad est di essa egli sarebbe libero di porre in essere un ’amministrazione jugoslava. Per avere ogni probabilità di essere accetta dal maresciallo Tito, tale linea dovrebbe dare sostanziale riconoscimento alle rivendicazioni jugoslave e dovrebbe approssimarsi alla frontiera del 1914. Perciò Trieste, Fiume e Pola, nonostante il carattere italiano della loro popolazione, sarebbero sottoposte alTamministrazione jugoslava. Del resto queste città sono già per gran parte controllate dal movimento clandestino sloveno, che prenderebbe apertamente il potere con l’aiuto dei partigiani sloveni presenti nei dintorni all’atto dell’evacuazione della città da parte dei tedeschi.

È interessante infine notare che la soluzione della questione sul piano diplomatico doveva passare attraverso il coivolgimento degli altri due maggiori alleati, prospet­tando anche come sede di composizione la commissione consultiva europea (alla quale partecipava anche la Francia). Era con ciò riaffermata la tendenza generale per cui le situazioni di conflittualità locale andavano esaminate e risolte nel quadro dei rapporti complessivi fra le grandi potenze, anche se tale tendenza non va intesa— nel caso della Jugoslavia — in senso univoco: in tale caso infatti gli accordi al massimo livello erano previsti in modo che il loro contenuto incontrasse un prevedi­bile favore preventivo da parte jugoslava.In realtà, a seguito dell’esame compiuto dal Post-Hostilities Planning Staff, la propo­sta di soluzione veniva di lì a poco modificata in modo da recepire l’obiettivo di na­tura tattico-operativa, sulla base del quale i militari avevano considerato necessario il controllo di tutta la Venezia Giulia, cioè l’esigenza di poter disporre liberamente delle linee di comunicazione dai porti della Venezia Giulia verso l’Austria36. Rispet­tata tale esigenza, Laffan e Toynbee si preoccupavano di individuare una linea di demarcazione, che risultava seguire, partendo da nord, il tracciato del confine italo- austriaco dal 1914 modificato in modo da comprendervi la zona di Tarvisio e si al­lacciava, dai dintorni di Cormons-Gorizia, alla linea etnica seguendola fino ad in­contrare il corso della Dragogna (o il Quieto) nell’Istria nord-occidentale 37.Pur nel mutato contesto entro il quale si collocava la nuova linea d’intervento in­glese, veniva in tal modo recuperato uno degli elementi di fondo nella riflessione compiuta dagli studiosi del Research Department e che aveva dato avvio — come si ricorderà — alla pianificazione sulla Venezia Giulia, la scelta cioè della linea di divisione etnica come traccia per la frontiera fra Italia e Jugoslavia e come pre­messa per una sistemazione stabile del contenzioso fra questi due stati. Ma va anche detto che il senso di questo recupero si collegava a progetti notevolmente diversi da quelli che ne avevano giustificato la prima formulazione.

“ Verbale del Post Hostilities Planning Staff, PHP 1(0) Final, 9 gennaio 1945, in PRO, CAB 81/46.37 Le note di Toynbee e Hood, 10 e 11 gennaio 1945, in PRO, FO 371/50787/U 428/51 /70.

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Nel frattempo anche all’interno dell’AFHQ si stavano consolidando gli orientamenti definitivi circa l’atteggiamento da assumere di fronte ai nuovi orientamenti del Fo- reign Office. In un messaggio del 26 gennaio, il comandante supremo del Mediter­raneo, feldmaresciallo Alexander, ribadiva ancora l’opportunità di estendere il con­trollo alleato a tutta la Venezia Giulia, ma non mancava di dar atto della consapevo­lezza che, dall’agosto 1944, la situazione aveva subito un radicale cambiamento, tale da rendere chiaramente insostenibili le esigenze alleate com’erano state presentate a Tito negli incontri di Napoli e Caserta. È perciò che egli suggeriva che il territorio disputato fosse sottoposto ad amministrazione tripartita e considerato come un’ap­pendice della zona britannica di occupazione in Austria; e il ribadire tale stretto col- legamento fra Austria e Venezia Giulia evidentemente implicava che a mandare avanti la trattativa fosse innanzitutto il Foreign Office. Ad affidare ancor più espli­citamente ad esso la delega nella conduzione della vertenza, nella seconda parte del messaggio Alexander si dichiarava incline ad accettare l’ipotesi di una linea di de­marcazione, qualora non fosse possibile raggiungere un’intesa con americani e so­vietici 3S. Nelle settimane successive, in sostanziale consonanza con tale atteggiamen­to l’AFHQ provvedeva a definire le proprie relazioni col movimento partigiano at­tivo fra Italia e Jugoslavia sulla base di due indicazioni; l’obiettivo mirante al non coinvolgimento degli alleati nelle controversie fra i due fronti partigiani (la resi­stenza italiana di matrice non comunista contro quella comunista e slovena) e il contenimento della loro attività, « anche se ciò com porta la ] — come veniva affer­mato — la perdita di opportunità sul piano militare ». La nota dominante era la se­parazione fra esigenze di carattere militare e progetti di natura politica, o meglio la subordinazione delle prime ai secondi. Direttive del genere venivano ribadite e siste­maticamente precisate nei mesi successivi, trovando occasione di conferma dalle no­tizie provenienti dalle missioni alleate circa l’esasperazione della polemica, il pren­der piede di un clima di diffidenze, sospetti, ostilità fra i due fronti partigiani38 39.Tornando all’attività del Foreign Office, durante i colloqui di Jalta e precisamente nella seduta del 10 febbraio, Eden si proponeva di trovare un accordo non tanto su una concreta linea di demarcazione, quanto sul « principio che dovesse esserci tale linea e che dovesse esser creato un gruppo di tecnici allo scopo di determi­narla », fermo restando che fosse riconosciuto il diritto al controllo alleato sulle li­nee di comunicazione da Trieste all’Austria e giudicando invece impossibile l’instal­lazione dell’amministrazione alleata in una situazione dominata da forti contrappo­sizioni interne40. L’intervento di Eden rientrava nell’ambito della discussione sulla Jugoslavia e trovava la principale motivazione nel risultato al quale essa era per­venuta, alla raccomandazione cioè che il contenuto dell’accordo fra Tito e Subasic fosse immediatamente portato a compimento41. Una volta garantita la convergenza

38 II messaggio di Alexander ai capi dello stato maggiore inglese, JL/23, 26 gennaio 1945, in PRO, WO 106/4058. Nelle settimane successive, all’interno dcH’AFHQ, si lavorava all’indivi­duazione di una linea di demarcazione, poi nota come linea Robertson, che correva più ad est di quella indicata dal Foreign Office ed includeva nell’area sottoposta a controllo alleato anche la valle dell’lsonzo.39 Cfr. in particolare il promemoria della sezione G-3 dell’AFHQ, 27 gennaio 1945, in PRO, WO 204/1993 e l’ordine impartito il 4 febbraio 1945 al 15° gruppo d'armate in PRO, WO 204/ 1867 (v. anche h . l . c o l e s - a . k . w e i n b e r g , op. cit., p. 545. Per un più organico esame della que­stione dei rapporti fra resistenza e alleati nella fase finale della guerra rimando ancora al mio articolo Resistenza e Alleati, cit., pp. 9-12.40 11 testo della dichiarazione di Eden, « Notes for thè Secretaries of State in regard to Venezia Giulia » in PRO, FO 371/50788/U 1032/51/70 (riprodotto anche in FRUS, 1945, The Conferences at Malta and Yalta, cit., p. 888.41 Cfr. l . w o o d w a r d , op. cit., voi. I l i , pp. 362-363; d.s. clem ens, Yalta, trad. it Torino 1975, pp. 315-317.

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degli altri due maggiori alleati (e dell’Urss innanzitutto) attorno a quello che era allora il cardine della politica inglese verso la Jugoslavia, Eden presentava anche, per così dire, il corollario, la proposta cioè della linea di demarcazione. In sostanza l’orientamento britannico, muovendo dalla valutazione circa le peculiarità — dal punto di vista della situazione interna e della collocazione internazionale — della esperienza jugoslava, non si adattava esclusivamente al quadro degli accordi fra Churchill e Stalin, ma curava il mantenimento di relazioni bilaterali per le quali gli accordi (o gli eventuali accordi) ad alto livello intendevano rappresentare una sorta di sanzione.Lasciata peraltro cadere nel vuoto da parte degli interlocutori la proposta di Eden, l’iniziativa diplomatica britannica subiva un pesante scacco, che andava al di là del caso particolare, sottolineando lo stato di estrema precarietà ed aleatorietà del nego­ziato con l’Unione Sovietica circa i Balcani (fatta eccezione per la Grecia). Pur en­tro tali margini di incertezza il Foreign Office manteneva ferma la propria linea po­litica verso la Jugoslavia e, in particolare verso la Venezia Giulia, rimanendo pe­raltro aperto il problema di individuare il terreno sul quale fondarla. Resosi impra­ticabile quello rappresentato da un accordo ad alto livello, la ricerca si spingeva verso intese di natura circoscritta e di carattere operativo. È perciò che l’iniziativa veniva nuovamente affidata al comandante supremo del Mediterraneo nel quadro delle relazioni d’indole militare-operativa con gli jugoslavi, volte essenzialmente ad assicurare il controllo delle linee di comunicazione dai porti della Venezia Giulia all’Austria ai fini del mantenimento delle truppe colà destinate42. Va peraltro detto che tale terreno di discussione e di possibile intesa presentava caratteri di estrema labilità, in quanto i progetti alleati si fondavano su necessità di indole contingente e perciò suscettibili di dar luogo ad intese meramente transitorie.All’interno dell’AFHQ inoltre le divergenti posizioni inglese ed americana veni­vano ad un confronto diretto con effetto paralizzante per quanto concerneva lo emergere, senza riserve ed incertezze, di una linea comune a carattere definitivo. 1 particolari punti di vista inglese ed americano sulla questione della Venezia Giulia ri­flettevano fra l’altro le profonde divergenze circa la politica verso la Jugoslavia. A tale proposito, da parte americana non si era dato corso ad una linea politica coe­rente, in cui costante ipotesi del non-coinvolgimento nelle diatribe politiche lo­cali rifletteva una frequente oscillazione fra esigenze ed approcci militari e politici. Resta il fatto che obiettivo costante fu quello di contrastare i progetti di influenza britannica, che il Dipartimento di Stato considerava guidati dall’« ostinato deside­rio... di venire incontro, nell’ambito del possibile, per ragioni politiche, a qualsiasi posizione l’esercito di liberazione nazionale jugoslavo abbia deciso di assumere nei mesi recenti»43. Ancora in gennaio, poi, era stato ribadito che orientamento del Dipartimento di Stato era di estendere l’amministrazione alleata a tutta la Venezia Giulia44.

42 Cfr. il testo delle note di Hood e Ward, 15 febbraio 1945 in PRO. FO 371/50788/U 1081/51.70. Su ciò vedi anche G . cox, The Race ¡or Trieste, London, 1977, p. 17.43 Messaggio di Grew a Kirk, 28 febbraio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1107-1108; v. anche il messaggio di Stettinius al rappresentante inglese a Washington, lord Halifax, 23 dicembre 1944 e i promemoria «General Balkan Policy» e «Principal Jugoslav Problems», in FRUS, 1945, The Conferences at Malta and Yalta, pp. 255-257, 237-238 e 262ss. Per quanto riguarda la poli­tica americana verso la Jugoslavia, cfr. w. R o b e r t s , op. cit.; alcuni cenni anche in G . k o l k o , op. cit., pp. 131-168, 343-369, e L . E . d a v i s . The Cold War Begins. Soviet-American Conflit over Eastern Europe, Princeton, 1974. pp. 126 ss.44 Cfr. il messaggio della Joint Staff Mission di Washington, DON 494, 21 gennaio 1945, in PRO, WO 106/4058.

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Sta di fatto che, nella riunione del comitato politico del comandante supremo del Mediterraneo immediatamente precedente rincontro fra Alexander e Tito a Bel­grado (20 febbraio 1945), la soluzione di compromesso raggiunta fra gli esponenti americani (Stone e I ambasciatore Kirk) e quegli inglesi (Alexander e Macmillian) rimandava l’avvio del vero e proprio negoziato alla costituzione di un governo ju­goslavo unitario45. In tal modo veniva annullata l’accelerazione che il Foreign Office aveva inteso dare alla definizione della questione della Venezia Giulia, che conti­nuava a rimanere una mina vagante nelle relazioni anglo-jugoslave.Dall incontro con Tito a Belgrado alla fine di febbraio 1945 Alexander non riusciva dunque a trarre niente di più di quanto già era apparso evidente a Caserta nell’ago­sto precedente, salvo il fatto che Tito, cogliendo in pieno i limiti dell’impostazione alleata, attribuiva carattere contingente e transitorio sia alle necessità del controllo sulle linee di comunicazione che alla stessa amministrazione alleata, cessata la quale non nascondeva l’aspettativa di « succedere nell’amministrazione di tutta la Italia nord-orientale ad est dell’Isonzo » 46.Nella discussione sui risultati dell’incontro, tenuta in sede di comitato politico il 2 marzo 1945, si proponeva un ulteriore elemento di dualità nell’impostazione ameri­cana ed inglese. Da parte americana — e soprattutto da parte dell’ACC — si mani­festava la preoccupazione circa la « disfatta » cui sarebbe andato incontro ogni go­verno italiano che dimostrasse tacito consenso ad una cessione territoriale, guar­dando perciò alla questione principalmente nel quadro dei rapporti col governo italiano e soprattutto in vista del rafforzamento della sua capacità di tenuta e più in generale della stabilizzazione della situazione politica verso la quale il Diparti­mento di Stato dimostrava crescente attenzione ed interesse47.Nella proposta circa la Venezia Giulia, diretta da Alexander ai CCS in conclusione al suddetto incontro venivano ripresi progetti ed istanze se non contradditorie al­meno divergenti. Se dal punto di vista militare si suggeriva l’opportunità di stabi­lire una linea di demarcazione, da quello politico si avvertiva che essa poteva pre­giudicare le decisioni della conferenza della pace; la conclusione era rappresentata da una sorta di via intermedia, peraltro assai confusa, fra le diverse posizioni ame­ricana ed inglese: un’ipotesi di controllo alleato non secondo il modello esistente in Italia, ma con l’associazione del governo provvisorio jugoslavo, previa inoltre la approvazione dell’Unione Sovietica48. Tale ultimo modello recepiva sia il rifiuto ame­ricano della linea di demarcazione che l’obiettivo inglese di non contrapporsi alle intenzioni jugoslave. Quanto alla sua praticabilità esso non offriva certamente ga­ranzie più solide dei progetti precedentemente elaborati; va tenuto presente infatti che la tendenza in atto circa l’amministrazione militare dei territori liberati andava nella direzione di una gestione esclusiva da parte di uno o l’altro dei maggiori al­leati, Gran Bretagna e Stati Uniti da una parte e Unione Sovietica dall’altra.Agli inizi di marzo 1945 dunque, allorché il fronte italiano si stava rimettendo in moto, si ripresentava alla diplomazia, ma anche alle gerarchie militari, il problema di dare un assetto definitivo alla programmazione alleata. Al riguardo, neppure al-

« Verbale della riunione, PC (45)1, 20 febbraio 1945, in PRO, WO 204/100.44 II contenuto del colloquio con Tito venne riassunto dallo stesso Alexander nel corso della riunione del politicai committee del 2 marzo 1945 (il relativo verbale, PC(45)2, in PRO, WO 204/100). V. anche h a r r i s , op. cit., pp. 331-332.47 Ibidem-, cfr. inoltre la nota delI'ACC, 504/145/EC, 19 febbraio 1945, in PRO, WO 204/ 9789. Sulla svolta nella politica americana verso l’Italia della fine del 1944, v. d . w . e l l w o o d ,

L’alleato nemico, cit., p. 124 ss.48 Alexander ai CCS, NAF 872, 3 marzo 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1108-1110.

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l’interno delle alte sfere politico-diplomatiche e militari inglesi c’era uniformità di opinioni. Infatti la consapevolezza della sostanziale debolezza insita nella linea di politica inglese verso la Jugoslavia, la consapevolezza dell’incapacità di pilotarla di propria iniziativa produceva due atteggiamenti opposti, entrambi caratterizzati dalla ricerca di un supporto esterno ai propri progetti. Da una parte il Foreign Office — ed il segretario di stato Eden, in particolare — era dell’avviso che il progetto della linea di demarcazione fosse « il più adatto ad eliminare le tensioni locali e gli scontri armati e a evitare controversie con Tito » e che — come si suggeriva a Churchill — fosse necessario « accettare il fatto che Tito controlla la maggior parte del territorio », per altro verso da parte del War Office e di altri organi politici-mi­litari si poneva in luce la necessità di coinvolgere a pieno titolo gli americani « in modo da I) avere una copertura sulla responsabilità politica nel caso d’incidenti e II) prendere parte all’occupazione nella misura in cui ciò possa essere neces­sario » 49.Tale divergenza pone in luce le diverse prospettive di politica verso la Jugoslavia delle quali si facevano portavoce Churchill e Eden. Questi infatti sosteneva che si dovesse continuare a salvaguardare il particolare corso della politica inglese verso la Jugoslavia, ad interloquire attivamente col nuovo governo jugoslavo al fine di mantenere un’influenza negli affari jugoslavi, di « fare della Jugoslavia, per quanto possibile, un’area neutrale e di proteggere in tal modo la nostra posizione in Gre­cia e, in misura minore, in Italia ». A giudizio di Churchill invece, dissoltasi ormai l’aspettativa di una gestione anglo-russa degli affari jugoslavi sulla base dell’accordo del 50 per cento, era necessario imboccare una strada di « progressivo sgancia­mento » 50. Il dissenso peraltro non investiva esclusivamente la politica verso la Ju­goslavia, ma si riferiva al dilemma di fondo di fronte al quale si trovava la politica estera britannica; se continuare nella costruzione di una linea di politica estera di­retta a difendere autonomamente particolari e tradizionali interessi imperiali (eser­citare un certo grado di influenza nei Balcani in funzione del controllo dell’area- cerniera dell’impero britannico e cioè il Mediterraneo), o, al contrario dar vita ad una più stretta unità d’azione cercando semmai di orientarla a proprio vantaggio.È in questo quadro che va inteso lo sforzo di Churchill, il quale anche nelle fasi successive della questione della Venezia Giulia si sarebbe fatto deciso promotore di un orientamento del genere, teso cioè a modificare il corso delle relazioni anglo­jugoslave e conseguentemente a riportare su un piano di piena concordanza le posi­zioni inglesi e americane nei confronti dell’Italia. Infatti in un promemoria per Eden circa l’ipotesi di un trattato preliminare di pace con l’Italia, il primo ministro in­glese confessava di essere « ben disposto verso le rivendicazioni italiane in Alto Adriatico quanto ostile a quelle del maresciallo Tito ». Certo, questa era ancora soltanto un’intenzione non un disegno coerentemente proseguito, ma era senza dub­bio rivelatrice della preoccupazione — per quanto riguarda il caso nostro che il permanere di differenti progetti alleati sulla Venezia Giulia potesse provocare una divaricazione nella politica alleata verso l’Italia51. Tutto ciò portava ad accogliere

49 II memorandum di Eden Arrangements to be made in the province of Venezia Giulia on the eviction of the Germans, APW(45)31, 12 marzo 1945 in PRO, CAB 87/69, il promemoria di Eden a Churchill, P.M.45/111, 15 marzo 1945, in FRO, FO 371/50788/U 1952/51/70, tele­gramma del War Office alla Joint Staff Mission di Washington, NOD 664, 22 marzo 1945, in PRO, WO 106/4058.50 l . w o o d w a r d , op. cit., voi. Ili, pp. 364-365 ( l e citazioni sono parafrasi compiute dall’au­tore su un documento di Churchill a Eden, 10 e 18 marzo 1945).51 II promemoria di Churchill a Eden. 17 marzo 1945 e la lettera del primo ministro inglese a Roosevelt, 8 aprile 1945 in L . w o o d w a r d , op. cit., voi. Ili, pp. 475-476.

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anche gli avvertimenti del rappresentante inglese in Italia, N. Charles, circa le ri- percussioni negative che « il timore di perdere Trieste » avrebbe comportato nella saldezza della compagine governativa italiana e sullo stato dell’ordine pubblico e le conseguenze che avrebbe provocato sul Pei, che egli presumeva potesse « spac­carsi » attorno a tale questione52. Preoccupazioni del genere non potevano mancare di acquistare peso mentre si stava avvicinando il momento della liberazione del nord e si poneva perciò il problema di non porre in crisi l’autorità del governo di Roma nell’imminenza del suo confronto con il Clnai e di porre contemporanea­mente in difficoltà il Pei, di sollecitarlo — sulla questione della Venezia Giulia — ad una scelta fra la dimensione nazionale e quella internazionale del suo operare.Temporaneamente bloccata — com’è presumibile — dalla cosiddetta « operazione Sunrise » (il progetto di resa separata tedesca in Italia) il cui esito positivo avrebbe prodotto una rapida assunzione del controllo alleato in tutta l’Italia settentrionale, verso la metà di aprile interveniva la decisione del Combined Civil Affairs Comittee (CCAC). Essa prevedeva di imporre il governo militare alleato sull’intera Venezia Giulia sotto responsabilità congiunta anglo-americana, consentendo comunque il mantenimento degli organi di governo locale di qualsiasi nazionalità, ma preve­dendo al tempo stesso di ricercare l’avallo sovietico al fine di « ritirare tutte le forze jugoslave dal compartimento della Venezia Giulia » 53. Era evidentemente una soluzione di compromesso che riecheggiava in parte certi caratteri della direttiva di Wilson nel novembre 1944. Tale direttiva si era però già da tempo rivelata inat­tuabile; tale era pure la decisione del CCAC, nè l’impegno alla ricerca del consenso sovietico valeva ad alterarlo, in quanto rappresentava una mera petizione di princi­pio, sostanzialmente priva d’effetto. L’improponibilità della direttiva risultava im­mediata ad Alexander, il quale pianificava le operazioni conclusive della campa­gna italiana, con l’avallo del Foreign Office54, sulla base degli unici dati realmente acquisiti nel corso dei colloqui di Belgrado con Tito, e cioè sulla base dell’esclusivo controllo delle linee di comunicazione fra Trieste e l’Austria, mantenendo peraltro aperto il problema dell’amministrazione del territorio.Non è però che tale problema venisse di fatto lasciato impregiudicato: si delineava infatti un tipo d’intervento che pur sviluppandosi sul piano delle iniziative pretta­mente militari si fondava sul presupposto— di natura politica — assai prossimo al concetto di linea di demarcazione, di demarcazione quanto meno fra zone della Venezia Giulia dotate di diverso interesse dal punto di vista operativo. Non può stupire pertanto che Alexander riprendesse tale presupposto nel momento in cui, sottratta momentaneamente alla sua competenza la decisione circa l’amministrazione della Venezia Giulia, si adoperava a definire le ultime fasi della campagna italiana e dell’avanzata verso l’Austria. Va ancora sottolineato che Alexander non era allo oscuro delle implicazioni di ordine politico insite nella propria decisione; ed è anche a ciò che va indubbiamente collegata la determinazione con la quale il Foreign Office aveva perseguito il proprio piano pur dopo aver ripetutamente saggiato la

52 Telegramma di Charles al Foreign Office, n. 484. 18 marzo 1945, in PRO, WO 105/4058.53 11 testo del messaggio del CCAC è riprodotto nel telegramma della Joint Staff Mission al War Office, DON 684, 16 aprile 1945, in PRO, WO 106/4058. Per quanto riguarda l’operazione «sunrise» e le implicazioni con la questione di Trieste rimando a E . a g a r o s s i - b . f . s m i t h . La resa tedesca in Italia, trad. it., Milano 1980, soprattutto p. 121 e 173.54 Per quanto riguarda l’atteggiamento del Foreign Office, cfr. il messaggio di Sargent ad Eden nel telegramma dell’ambasciatore inglese a Washington n. 4036, 22 aprile 1945 e la risposta, n. 2839, 23 aprile 1945 in PRO, WO 106/4058; cfr. inoltre il telegr. del Foreign Office a Mac­millan, n. 1388, 27 aprile 1945, in PRO, FO 37I/48812/R 7078/6/92; sull’atteggiamento di quest’ultimo cfr. anche l’ampio rapporto di Kirk a Stettinius, 26 aprile 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1123-1125.

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ostilità americana e la sfiducia dello stesso Churchill. Grazie alla sostanziale inde­terminatezza (circa l’amministrazione della Venezia Giulia) delle direttive finali trasmesse il 28 aprile dai CCS ad Alexander, questi si sentiva autorizzato a perse­guire il proprio disegno; l’ordine impartito al generale Clark, comandante del 15° gruppo d’armata, faceva esclusivo riferimento al controllo delle linee di comunica­zione dai porti della regione giulia verso nord5S.Sta di fatto che la situazione evolveva, almeno momentaneamente, in direzione di­versa da quanto previsto dalla pianificazione alleata: il 1° maggio 1945 gli jugoslavi — come affermava l’ambasciatore inglese a Belgrado, Stevenson — vincevano la «corsa per Trieste», ed estendevano il controllo alla maggior parte della Venezia Giulia fino all’Isonzo 56.Peraltro il 3 maggio, in sede di comitato politico del comandante supremo del Me­diterraneo, veniva presa la decisione di « spingersi avanti » evitando scontri aperti con gli jugoslavi e di occupare le aree di importanza militare della Venezia Giulia » (Trieste e le linee di comunicazione verso nord). Nonostante fosse stata resa nota l’intenzione jugoslava di considerare tutto il territorio ad est dellTsonzo come area operativa di propria esclusiva competenza, tale operazione veniva messa in atto, con uno scambio di reciproche accuse di mancata fedeltà agli impegni. Si verificava così nei giorni successivi un sovrapporsi delle aree operative alleata e jugoslava so­prattutto a Trieste ed in prossimità delle linee di comunicazione57. Tutto ciò con­tribuiva a distinguere l’aspetto operativo del problema da quello più propriamente politico-strategico. Per quanto riguarda il primo si rendeva manifesta l’intrinseca inconsistenza delle argomentazioni legate al controllo delle linee di comunicazione, in quanto l’occupazione dell’Austria procedeva nel modo prestabilito sviluppando altre linee; restava al contrario aperto il problema dell’amministrazione della Vene­zia Giulia, ma appariva al riguardo chiaro il significato delle premesse (che non era­no appunto di carattere operativo) proprie dell’operazione decisa in seno all’AFHQ.La decisione di Alexander rendeva possibile una momentanea fase di tregua utile a ridefinire la linea di fondo in merito al problema dell’amministrazione della Ve­nezia Giulia, e soprattutto a trovare un terreno di convergenza fra la posizione ame­ricana e quella inglese.Al riguardo erano proprio i rapporti provenienti da due degli osservatori più attenti e più attentamente seguiti, da Stevenson e da Macmillan, a fornire ai dirigenti in­glesi le premesse per la soluzione del problema. In un telegramma del 5 maggio di­retto a Macmillan e fatto conoscere poi al Foreign Office, l’ambasciatore inglese a Belgrado valutava in questi termini la situazione creatasi a Trieste e nella Venezia Giulia:

2. La mia personale analisi della situazione è che lo stato maggiore generale jugoslavo ha in mano da solo l’iniziativa e tenta di fornire una base militare, quant’è più forte

55 Per quanto riguarda le direttive circa le operazioni finali cfr. il messaggio di Alexander ai CCS, NAF 932, 26 aprile 1945 e l’inverso, FAN 536, 28 aprile 1945 in h . l . c o l e s - a . k . w e i n -

b e r g , op. cit., pp. 594-595. 11 testo della direttiva a Clark è riportato in NAF 936, da Alexander ai CCS, 30 aprile 1945, in WO 106/4058.56 Stevenson al Foreign Office, n. 554, 30 aprile 1945, in PRO, FO 371/48812/R 7651/6/92, cfr. inoltre G . cox. op.' cit.. pp. 192-197. Per ulteriori ragguagli circa lo sviluppo della linea alleata fra il 29 aprile e il 2 maggio, cfr. E . a g a r o s s i - b . f . s m i t h , op. cit., pp. 222-230.57 II verbale della riunione del 3 maggio 1945, PC(45)9, in PRO, WO 204/100; il messaggio di Alexander a Tito, 3 maggio, e la risposta, 5 maggio 1945 in FRUS, 1945, IV, p. 1140-1142; Macmillan al Foreign Office, n. 805, 5 maggio 1945 in PRO, FO 371/48813/U 7968/6/92. V. inoltre i rapporti di Stevenson, n. 569 e 572, 2 maggio 1945, in PRO, FO 371/48812/R 7784/6/92.

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possibile, alle rivendicazioni politiche. Sul piano pratico esso è preoccupato di liquidare l’opposizione politica prima di ogni possibile interferenza. Perciò esso compie un notevole sforzo militare nel mantenere a Trieste alcuni contingenti militari ed è, per converso, turbato ed irritato dalla presenza della divisione neozelandese [...] 3. Personalmente non ritengo che Tito giungerà agli estremi (ciò è espresso dal suo ultimo messaggio al f.m. Alexander), nè provocherà un incidente. Ma in un’atmosfera di tensione locale quale con ogni evidenza regna in Istria non può essere esclusa la possibilità di qualche combustione spontanea. L’unica azione che Tito ha fino a questo momento preso contro le nostre truppe di occupazione è l’affermare che esse non possono operare ad est dell’Isonzo. Né lui né i comandanti jugoslavi in loco hanno finora fatto qualcosa per dare pratico effetto a quest’ordine e dubito assai che lo faranno. 4. È praticamente certo che Tito ha avuto a Mosca alcune discussioni sulle sue rivendicazioni sia verso la Venezia Giulia che l’Austria. Può essere dato per scontato che egli è al corrente del sostegno sovietico alla sua richiesta di partecipare all’occupazione dell’Austria e che comunque confida nella benevolenza sovietica circa la Venezia Giulia. Peraltro si ha ragione di pensare che egli non è affatto sicuro su quest’ultimo punto... Per di più il tono della stampa a Belgrado non da l’impressione di una completa fiducia. Il numero di partigiani in zona non sembra molto alto ma non c’è dubbio che egli voglia dare a vedere, per quanto gli è possibile, che l’amministrazione locale gli è completamente soggetta anche nelle aree sotto amministrazione militare alleata. Se ciò renderà im­possibile il GMA dipende in gran parte dalla qualità di quest’ultimo 58.

Due aspetti vanno segnalati dell’analisi che Stevenson proponeva dell’atteggiamento jugoslavo verso la Venezia Giulia; l’uno si riferiva alla dimensione politico-diplo­matica, l’altro a quella più specificamente militare. Per quanto riguarda la prima, va detto che all’interno del Foreign Office si manifestavano alcune riserve circa il non sicuro supporto sovietico; Sargent infatti si dichiarava poco propenso a darvi credito e del resto era lo stesso Stevenson a far presente che una certa opinabilità caratterizzava le proprie valutazioni59. Comunque, per quanto l’interrogativo e le va­rie ipotesi di risposta non fossero insignificanti, la linea inglese cercava più solidi elementi di riferimento su quelli che apparivano i dati incontrovertibili della situa­zione, sugli aspetti cioè di carattere militare. Al riguardo il rapporto di Stevenson indicava che i dirigenti militari jugoslavi puntavano al controllo militare della Ve­nezia Giulia come premessa al controllo politico, ma metteva altresì in luce la cautela — o certe cautele — nell’imporlo, nel senso che al piano di messa fuori gioco delle opposizioni locali non corrispondeva un altrettanto deciso e sicuro pro­getto di contenimento della presenza militare alleata ad est dell’Isonzo. Dal me­desimo punto di vista la situazione veniva esaminata da Macmillan, il quale, pur considerando la situazione a Trieste nel complesso non soddisfacente, aggiungeva: « fino a questo momento abbiamo migliorato almeno rispetto alla nostra prova di Atene: controlliamo il porto » 60.Stevenson, e più esplicitamente Macmillan analizzavano dunque la situazione sulla base dell’esperienza greca, nell’ottica cioè di un intervento militare atto ad impe­dire il consolidarsi di un’egemonia comunista. L’esperienza greca — come si ri­corderà — era già stata presente in passato ed aveva concorso a determinare il progetto della linea di demarcazione. La strategia jugoslava, col suo tentativo di estendere il controllo militare facendone la premessa al controllo politico, ricordava, sia pur in una situazione molto più circoscritta, ma non per questo meno esplosiva, quella già tentata (o meglio che si temeva tentasse) il partito comunista greco. Per­ciò il richiamo, da parte inglese, all’esperienza greca, era contenuto nei fatti. Tale richiamo, però, era anche indice di come, più in generale, gli ambienti diplomatici inglesi si rapportassero al problema della Venezia Giulia. Entro una cornice che

58 Stevenson a Macmillan, n. 255, 5 maggio 1945, in PRO, WO 204/44.59 Stevenson al Foreign Office, n. 591, 4 maggio 1945 in PRO, FO 371/48813/R 7941/6/92.«I Macmillan al Foreign Office, n. 796, 4 maggio 1945, in PRO,FO 371/48813/R 7984/6/92.

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era sempre data dal progetto della linea di demarcazione e dalla conseguente impo­sizione di una forma di controllo alleato ad ovest di essa, si trattava di scalzare le premesse ad un’egemonia comunista in loco evitando che il controllo militare jugo- slayo si assestasse. Veniva perciò privilegiato il piano dell’intervento militare, men­tre era completamente estraneo a quest’orizzonte una trattativa a livello politico con FUnione Sovietica. In fin dei conti i diplomatici inglesi non vedevano nelle truppe jugoslave presenti nella Venezia Giulia la longa manus dell’URSS, non ragionavano cioè in termini di espansione militare dell’URSS attraverso i passi satelliti (nel caso della Jugoslavia), ma miravano a risolvere il problema, dai contorni assai più cir­coscritti, di come respingere il tentativo di imporre l’egemonia politica comunista agendo su quello che era il suo vettore principale, la presenza militare.L’adozione di una linea morbida di approccio verso gli jugoslavi, mediante gli or­dini di Alexander diretti a non porre in essere l’amministrazione militare nei terri­tori ad est dell’Isonzo e a cercare un temporaneo « modus vivendi » fra truppe ju­goslave ed alleate e la stessa valutazione del comandante del 13 corpo, generale Harding, in merito al colloquio col collega jugoslavo Drapsin, per cui veniva rite­nuto possibile stabilire certe forme d’intesa 61, rappresentavano altrettanti elementi di conferma della linea suggerita da Stevenson e Macmillan. Ed in effetti il 5 mag­gio Alexander sottoponeva a Tito una proposta di incontro per aprire una via di intesa sempre sul piano delle relazioni militari62. In questa prospettiva veniva ac­colta con estrema apprensione la notizia dell’intenzione americana di aprire for­malmente la discussione con l’Unione Sovietica, intenzione che riprendeva progetti già manifestati nelle settimane precedenti. La loro genesi non ci è nota; tale inten­zione comunque mi sembra possa esser collegata al modo di raffigurare i rapporti fra l’Unione Sovietica e i paesi dell’est europeo, per cui questi ultimi apparivano essere nient’altro che passivi esecutori delle direttive — della volontà espansionistica — di Mosca. Era un’immagine profondamente diversa da quella che era stata ela­borata a Londra. Il problema della Venezia Giulia si veniva perciò a collegare con strategie e modalità d’intervento politico-diplomatico ad ampia portata e dimen­sione. Il senso delle apprensioni manifestate dai dirigenti inglesi, che attribuivano alle intenzioni americane la capacità di far fallire il negoziato fra Alexander e Tito, risulta perfettamente comprensibile se si considera che all’esito della trattativa sul piano militare si ascriveva carattere e valore di soluzione pressoché definitiva, o per lo meno di consistente base d’intesa e di compromesso qualora si fosse poi effet­tivamente aperta la discussione con l’Unione Sovietica63.Tali previsioni si rivelavano però infondate; nel corso del primo incontro fra il capo di stato maggiore dell’AFHQ, generale Morgan, e Tito a Belgrado (8 maggio), que­sti respingeva sia il carattere sia il contenuto dell’accordo. Quanto al primo egli non accettava l’ipotesi di soluzione sul piano esclusivamente militare, mentre per il se­condo aspetto lanciava una controproposta che prevedeva un’amministrazione mi­litare congiunta (alleati e jugoslavi) accanto all’amministrazione civile jugoslava 64.

61 Cfr. il messaggio di Alexander a Maclean, FX 71416, 6 maggio 1945 e il dispaccio dell’8* armata al 15° gruppo d’armata e AFHQ, AC/158, 6 maggio 1945 in PRO, WO 204/44.« Cfr. Alexander ai CCS, NAF 948, 5 maggio 1945, in PRO, FO 371/48813/R 8152/6/92, riportato parzialmente in c o l e s - w e i n b e r g , op. cìt., pp. 597-598.63 Cfr. il messaggio di Eden a Macmillan, n. 1540, 6 maggio 1945, in PRO, WO 204/44; del medesimo tono la nota di Sargent a Churchill, P.M ./OS/45/75, 6 maggio 1945 in PRO, FO 371/50790/U 3488/51/70. Le intenzioni americane erano state fatte presenti da lord Halifax, n. 3176, 5 maggio 1945, in PRO, WO 204/44.64 Cfr. il messaggio della missione Maclean all’AFHQ, WDM 2, 8 maggio 1945, in PRO, WHO 204/44.

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Per di più dopo l’emanazione della nota americana, in cui si ricordava che ogni eventuale accordo non avrebbe pregiudicato la definitiva destinazione dell’area, era10 stesso Tito a spostare decisamente la questione — nell’incontro del 9 maggio con Morgan — dal piano militare a quello politico, rivendicando il « diritto del vinci­tore » ad amministrare la zona contesa in quanto essa faceva parte delle rivendi­cazioni territoriali che sarebbero state presentate alla conferenza della pace65. Co­me notavano Alexander e Stevenson la risposta di Tito metteva radicalmente in discussione le valutazioni d ’ordine politico ed, in generale, le premesse su cui era fondata la linea alleata; per iniziativa del comandante supremo del Mediterraneo11 problema veniva ricondotto sul piano più propriamente ed esplicitamente politi­co-diplomatico 66. Ciò riapriva per gli alleati occidentali un grave problema tuttora irrisolto, il problema — come notava Sargent in una nota del 9 maggio a Churchill — della composizione delle diverse strategie alleate.A questo punto si riproponeva, per i dirigenti inglesi in veste diversa rispetto al passato, il dilemma fra adeguamento e contrapposizione ai progetti ed alle inizia­tive jugoslave. A detta di Alexander, tale dilemma si presentava nei termini di una « ovvia scelta fra l’uso o no della forza ». I termini di tale scelta venivano ulterior­mente articolati da Sargent in un promemoria per Churchill il 9 maggio:

Da un lato — egli scriveva — si delineava la possibilità di “raggiungere la miglior in­tesa possibile entro i limiti dell’offerta di T ito”; in caso contrario “è essenziale che ci portiamo dietro gli americani non solo sul piano politico ma anche su quello militare. Quanto ci è noto è ciò che il presidente Truman ha detto nel suo messaggio del 30 aprile, che cioè egli desidera evitare che forze americane siano adoperate in azioni di guerra nel teatro politico balcanico. Perciò suggerisco che è venuto il momento di far dire al presidente fino a dove intende spingersi. Finché ciò non ci è noto non siamo in grado di formulare i nostri piani. Il presidente probabilmente dirà che vuole affrontare la questione con Stalin. L’unica conseguenza sarebbe di porre i russi al centro del quadro e rendere evidente, in tutta la sua crudezza, il fatto che si tratta di uno scontro fra le potenze occidentali e il governo sovietico” 67.

Le notazioni di Sargent, vanno collegate al corso delle relazioni anglo-jugoslave ed anglo-sovietiche quali si erano sviluppate dopo Jaita, ma per certi aspetti fin dal viaggio di Churchill a Mosca nell’ottobre 1944 e possono portare un ulteriore con­tributo al chiarimento di tali aspetti della politica estera britannica. Quella che veniva definita politica di « collaborazione » con l’Unione Sovietica — secondo le parole del rappresentante inglese a Mosca, A. Clark Kerr

sembrava significare l'accettazione di « qualcosa di simile ad una divisione del mondo in sfere d ’interessi ed un tacito accordo che nessuno dei contraenti ostacolerà o anzi criticherà le attività dell’altro entro la propria sfera ». Il nostro valore come partner verrebbe giudicato sulla base della nostra forza e prontezza nel difendere i nostri diritti ed interessi. Dovremmo perciò limitare le nostre controversie con i russi a que­stioni sulle quali fossimo pronti a tener duro.

Per quanto riguarda l’individuazione della sfera d’interessi dell’Unione sovietica, essa veniva fatta discendere da una « politica di limitati obiettivi » in altre parole

65 Cfr. il messaggio della missione Maclean all’AFHQ, WDM 3, 9 maggio 1945, in PRO, WO 204/44; il testo della nota dell’ambasciatore americano a Belgrado, Patterson, nel messaggio di Stevenson al Foreign Office, n. 623, 8 maggio 1945 in PRO, FO 371/48813/R 8045/6/92.66 Cfr. Stevenson al Foreign Office, n. 626, 9 maggio 1945, in PRO, FO 371/48813/R 8066/ 6/92, Alexander al capo dello stato maggior generale imperiale 73280, 10 maggio 1945, Ale­xander ai CCS, NAF 960, 11 maggio 1945, in PRO, WO 204/44.67 Sargent a Churchill, 9 maggio 1945, P.M./OS/45/92 in PRO, FO 371/48813/6/92.

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dall’obiettivo della sicurezza dei confini occidentali68. A cosa ciò corrispondesse in termini precisi non era del tutto chiaro da parte inglese, per quanto dallo stesso snodarsi della linea di politica jugoslava è lecito arguire che la Jugoslavia veniva considerata, almeno parzialmente, al di fuori dell’orbita sovietica. La Jugoslavia si presentava per certi aspetti come una zona franca fra est e ovest, un’area verso la quale non era stata manifestata da parte sovietica, almeno fino a quel momento, una netta volontà di inglobamento entro il proprio sistema di sicurezza internazio­nale. La netta ostilità inglese a far direttamente intervenire l’Unione Sovietica nella questione della Venezia Giulia, a « portare i russi al centro del quadro » — per usare le parole di Sargent — era innanzitutto espressione del tentativo inglese di per­seguire una linea politica parzialmente autonoma dal quadro di accordi ad alto li­vello nei confronti della Jugoslavia. Più in generale poi, nelle intenzioni americane si ravvisava il pericolo non tanto di trovarsi di fronte all’assunzione della difesa delle posizioni jugoslave da parte sovietica, cosa che appariva per certi versi scon­tata; era dominante piuttosto il timore della situazione complessiva che una simile trattativa avrebbe potuto provocare, una situazione in cui ad un atteggiamento di risolutezza sovietica nel difendere le posizioni jugoslave non potesse contrapporsi una linea di « tenace resistenza » da parte inglese. L’assunzione di una condotta del genere, infatti, era prevista solo nei casi in cui fossero consolidati « i diritti e gli interessi » dell’area occidentale (e nè da parte inglese, nè tanto meno da parte ame­ricana, la Jugoslavia si poteva considerare fra questi).Una controversia diretta fra inglesi e sovietici attorno al problema della Venezia Giulia rischiava perciò di vanificare del tutto i presupposti della politica britannica verso l’Unione Sovietica, di rendere cioè palese agli occhi di tutti la sua estrema debolezza e labilità. Certamente questi erano dati intrinseci a tale politica e consa­pevolmente accettati dagli stessi vertici della diplomazia inglese, ma proprio il rin­vio di ogni situazione di confronto aperto permettevano almeno di non porli in as­soluta evidenza e di non rendere palese l’esistenza di quel sostanziale vuoto di pro­spettive di riserva, che stava dietro ad essi. Ecco perché, prima di ridefinire la li­nea di condotta inglese verso la Venezia Giulia, appariva innanzitutto ineludibile il problema di verificare — come spiegava chiaramente Sargent — il limite fino al quale avrebbe potuto spingersi il supporto politico e militare americano alle ini­ziative da intraprendere nei confronti della Jugoslavia.Autonomamente dalle preoccupazioni inglesi questo interrogativo veniva sciolto l’i l maggio da un telegramma di Truman a Churchill, che sintetizzava il contenuto di alcune discussioni ad alto livello tenute a Washington nei giorni precedenti. All’in­terno della cerchia di più stretti collaboratori del presidente dominava ormai il convincimento che l’occupazione della Venezia Giulia da parte delle truppe ju­goslave fosse effettuata in nome e per conto dei piani di espansione dell’Unione So­vietica. Da tale convincimento, che rappresentava — come già si è detto — un co­rollario delle ipotesi di fondo che guidavano la politica americana verso l’est euro­peo, maturava in Truman la decisione di « sbatterli fuori » e nel definire di conse­guenza, come obiettivo minimo, il controllo alleato fino alla linea di demarcazione, proposta a Tito, prendendo anche in considerazione « passi ulteriori per rendere effettivo il suo ritiro ». Era — come dichiarava Truman — un’« inversione rispetto alla precedente posizione » 69. Ma non tanto nel senso che Truman decideva di im­

68 Sulle relazioni anglo-russe dopo Yalta, cfr. L . w o o d w a r d , op. cit., vol. Ili, pp. 561-569 (la citazione è tratta da un memorandum del rappresentante inglese a Mosca, Clark Kerr, 29 marzo 1945, in parte riprodotto integralmente in parte parafrasato alle pp. 561-563).69 Truman a Churchill, 11 maggio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1156-1157 (cfr. inoltre la

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postare le relazioni con l’Unione Sovietica su nuove basi, mirando innanzitutto a frapporre una risoluta resistenza a quelli che venivano interpretati come progetti di espansione sovietica in Europa. Infatti la scelta di una modalità d’intervento che prevedeva di affiancare e sostenere l’iniziativa diplomatica con iniziative sul ter­reno militare era diretta innanzitutto verso la Jugoslavia, per quanto non si possa negare che, come scelta di metodo, avesse indirettamente come destinatario l’Unione Sovietica. L’« inversione » comunque va fatta risalire più precisamente alla prece­dente linea di condotta americana verso il problema della Venezia Giulia, che aveva previsto l’installazione dell’amministrazione alleata in tutto il suo territorio, inversio­ne quindi nel senso che anche da parte americana l’attenzione si dedicava in maniera prevalente alla messa in atto del controllo alleato fino alla prevista linea di demar­cazione70. In tal modo si creava una possibilità di allineamento fra le posizioni dei due alleati occidentali, possibilità caldamente auspicata da parte inglese ed entusia­sticamente accolta da Churchill: « concordo con ogni parola voi dite e mi adope­rerò con tutte le mie forze lungo la linea che proponete ».Ne conseguiva l’invio al governo jugoslavo (e fatta conoscere anche a Stalin), di una nota dal tono meramente informativo delle intenzioni alleate, come erano state de­scritte da Truman a Churchill71. Va comunque ricordato che in questa fase le ini­ziative della diplomazia inglese e americana procedevano non tanto lungo una direzione parallela, quanto secondo una linea di sviluppo in cui momenti di con­tatto si alternavano a momenti di digressione; raggiunta cioè una condizione di convergenza, su una determinata iniziativa, già in fase di individuazione delle pos­sibili modalità di continuarla si riproponevano occasioni di discussione. È quanto avveniva appunto attorno alla metà di maggio. In altre parole 1’« inversione » se­gnalata da Truman non appariva univoca e definitiva; come segnalava Eden a Chur­chill, erano ancora vive all’interno del Dipartimento di Stato certe esitazioni di fronte alla prospettiva di un conflitto armato con la Jugoslavia, anche come conse­guenza di uno scettico giudizio di Alexander circa il morale delle proprie truppe, qualora fossero state costrette a portar le armi contro un alleato, del quale la pro­paganda anglo-americana non aveva mancato di sottolineare il valore e i meriti72.Fondata o no che fosse la valutazione di Eden, Churchill interveniva pesantemente contro le dichiarazioni di Alexander e lo invitava a porre in atto un atteggiamento in cui non ci fosse « la più lieve mancanza di sicurezza », ad effettuare cioè « un crescente concentramento di truppe sul fronte jugoslavo » 73. L’invito rimetteva in

nota di Grew al presidente americano e il verbale degli incontri fra questi ed i suoi principali collaboratori alle pp. 1151-1155); v. anche cox, op. cit., pp. 232-234.70 Va ricordato che la dichiarazione di Grew, apparsa il 12 maggio sul «New York Times», a favore dell’istituzione del governo militare alleato in tutta la Venezia Giulia non poteva rap­presentare un elemento di freno o di riserva nei confronti di una linea evolutiva che si stava ormai assestando. Facendo proprie le aspettative degli ambienti diplomatici italiani essa mirava piuttosto ad evitare un loro intervento aperto nel merito della contesa in atto, aprendo altre forme di contenzioso oltre a quelle in corso fra alleati e jugoslavi, con effetto quindi di disturbo sull'esito della vertenza. In questo quadro l’intervento di Grew non rappresentava una novità nella prassi alleata, che già in passato aveva fornito risposte di analogo contenuto ogniqualvolta da parte italiana si era tentato di saggiare le intenzioni o di orientare le iniziative alleate.71 Churchill a Truman, n. 45, 12 maggio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1157-1158 (v. anche c h u r c h i l l , op. cit., voi. XII, pp. 244-245); il telegramma di Churchill a Stalin (contenente an­che la nota jugoslava) in PRO, PREM 3/495/9.72 I messaggi di Eden sono contenuti in due telegrammi di Halifax al Foreign Office, nn. 3344 e 3345, 14 maggio 1945, in PRO, FO 371 /48815/R 8451/6/92. Le riserve di Alexander circa l’atteggiamento delle truppe alleate era stata espresso nel citato messaggio ai CCS, NAF 960, 11 maggio 1945.73 Churchill ad Alexander, 15 maggio 1945 in PRO, PREM 3/495/9 (v. anche G . cox, op. cit., pp. 239-240.

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moto il modulo d’intervento militare, la cui attività si era arrestata in seguito agli incontri fra Morgan e Tito, e conferiva nuovamente centralità alla posizione di Alexander. In effetti nei giorni immediatamente successivi alla metà di maggio ve­nivano concordate fra il comandante del Mediterraneo ed il comandante supremo, generale Eisenhower, le misure di carattere tattico e logistico atte a rafforzare la posizione del 13“ corpo74. Tale decisione proveniva anche da sollecitazioni di or­dine interno all’AFHQ e alle formazioni alleate presenti nella Venezia Giulia. Fin dai primi giorni di maggio erano affluiti all’AFHQ rapporti che denotavano con estrema chiarezza il piano diretto a porre in essere l’amministrazione militare e civile jugoslava e a reprimere — anche con la forza — qualsiasi voce di dissenso. L’instaurazione di quelli che venivano definiti istituti di « democrazia popolare » veniva seguita attraverso un modello di analisi che parlava di vera e propria « per­secuzione » della popolazione civile: « requisizioni su vasta scala di veicoli, apparec­chi radio, indumenti, coperte, materassi, biancheria ed in genere di qualsiasi pro­prietà di uso domestico di un certo valore...; confisca di denaro, cibo, combustibili, coscrizione obbligatoria dei maschi, arresti su larga scala sulla base di pretesti senza fondamento, intimidazione di qualsiasi cittadino offra la benché minima assistenza dovuta alle truppe alleate ». E proprio « dal campo » provenivano richieste dirette a motivare, in qualche maniera alle truppe il senso della presenza alleata e gli obiet­tivi di essa, in maniera da far superare — come sosteneva il generale Harding in un messaggio all’V Ill armata — la situazione di immobilità e di passività delle trup­pe alleate di fronte alle iniziative deH’amministrazone militare e civile jugoslava, volte a porre in atto un controllo totale sulla situazione interna della Venezia Giulia 75.È assai arduo distinguere quanto delle circostanze riportate nel messaggio di Har­ding si riferisce ad una consapevolezza delle truppe e quanto riproponesse il modo di vedere dei comandi; ed è indubbio, che, da questo punto di vista, il discorso sul­le truppe si prestasse ad essere, un mero elemento di supporto alla pianificazione militare in una direzione o nell’altra. Va comunque negato che il senso complessivo dell’informazione riferita da Harding avesse un mero valore strumentale. In effetti gli aspetti nei quali si concretizzava il « martirio » della popolazione civile non si riferivano ad atti ed iniziative la cui evidenza avesse un carattere strettamente riser­vato, nè — direi — riproponevano in toto gli schemi descrittivi generali di quelli che venivano definiti processi di « bolscevizzazione »; al contrario essi concerneva­no — per così dire — circostanze della vita di ogni giorno, per cui l’acquisizione e la circolazione delle notizie poteva in effetti avvenire ad un livello molto am­pio. Erano perciò gli stessi atti compiuti dall’amministrazione militare jugoslava che sollecitavano delle iniziative di risposta da parte alleata.C’era anche un altro ordine di ragioni che spingeva verso un rafforzamento della posizione militare alleata nella Venezia Giulia, e cioè la situazione creatasi al con-

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« Messaggi di Alexander ai CCS. NAF 971 972 976 979, 16 17 e 19 maggio 1945, Eisenho­wer ai CCS, SCAF 397, 17maggio 1945 in PRO, FO 371/48816/R 8643/6/92 e 48817/R 8733/6/92; cfr. anche c. cox, op. cit., pp. 249-250. All’interno dell’AFHQ si pianificavano inol­tre le concrete misure da adottare contro gli jugoslavi (internamenti ecc.) in caso di apertura delle ostilità (cfr. la direttiva dell'AFHQ a vari organi dipendenti, FX 78526, 19 maggio 1945, in PRO, WO 202/319).75 Messaggio di Harding, 5802/G, 15 maggio 1945 in PRO. WO 204/44, 13 corpo 8‘ armata, 10 maggio 1945 in PRO, WO 204/1523, gen. Clark a 15 gruppo d’armata, A/C/55, 5 maggio 1945 e gen. DufT a AFHQ, A/50, 6 maggio 1945, in PRO, WO 204/621, 8" armata a AFHQ, 40268 e 40468, 7 maggio 1945, in PRO, WO 204/6876. Sull’atteggiamento jugoslavo v. anche n . N o v a k , op. cit.. pp. 175-182, e . m a s e r a t i , L’occupazione iugoslava di Trieste (maggio-giugno 19451. Udine, 1966, pp. 45-66 c 78-89. e c. cox, op. cit., pp. 218-224.

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fine fra Austria e Jugoslavia, in Carinzia, un territorio che costituiva anch’esso og­getto di rivendicazioni da parte jugoslava. Essa presentava senza dubbio caratteri diversi rispetto a quanto avveniva nella Venezia Giulia; in Carinzia infatti erano gli alleati che avevano sotto controllo la situazione militare. Il 10 maggio veniva dato alle truppe jugoslave l’ordine di ritirarsi al di là del confine del 1937; il go­verno jugoslavo, lo respingeva, ma si dichiarava al tempo stesso disposto a porre le proprie truppe alle dipendenze del comando alleato76. La scelta di fondo e la risposta jugoslava erano estremamente importanti nell’orientare i piani alleati nella Venezia Giulia: esse infatti stavano a dimostrare che un’iniziativa alleata originata da una situazione di maggior vantaggio sul piano militare superava la resistenza del governo jugoslavo, il quale a sua volta proponeva forme di compromesso.La nota jugoslava del 17 maggio, riaffermando il diritto all’occupazione della Vene­zia Giulia fino all’lsonzo costituiva un incentivo a definire la programmazione del­l’attività militare in tale senso; la risposta veniva data il giorno seguente col mes­saggio di Alexander alle truppe, nel quale si accomunavano le iniziative jugoslave a quelle dell’Asse e del Giappone77. Sempre sul terreno della pressione diplomatica e militare era poi un messaggio di Truman, calorosamente accolto da Churchill e dal Foreign Office e la direttiva dei CCS: il 22 maggio la « penetrazione pacifica » veniva posta in atto, in modo da portare le truppe alleate a ridosso della « linea Morgan ». La reazione jugoslava si esprimeva in un comunicato della IV armata che invitava a sospendere l’operazione, ma un’effettiva resistenza aveva luogo solo in situazioni circoscritte (Ternova, Comeno), per le quali veniva comunque raggiun­to un accordo; contemporaneamente avveniva l’evacuazione delle truppe jugoslave dalla Carinzia e il ritiro ad est dell’Isonzo 78.Nel frattempo, preceduta da alcune dichiarazioni di Kardelj a Stevenson, il 21 maggio il governo jugoslavo emetteva una nota, in cui rispondendo positivamente alle richieste già avanzate da Morgan a Tito veniva accettata l’amministrazione al­leata ad ovest della « linea Morgan » a patto che una rappresentanza militare e una piccola missione jugoslava rimanessero in loco e che venisse conservata l’ammini­strazione civile jugoslava79. Non è facile da spiegare il cambiamento di rotta da parte jugoslava sulla base della documentazione edita. È indubbio comunque che sulla decisione pesò in maniera determinante l’atteggiamento dell’Unione Sovietica. Sia che Tito avesse sopravvalutato la portata dell’appoggio sovietico, sia che avesse tentato, al contrario, di forzarlo, il silenzio sovietico rendeva manifesta la volontà di non fare della questione della Venezia Giulia — in questa fase — un argomento di discussione e trattativa con gli alleati occidentali. Resta il fatto che, con la nota jugoslava del 21 maggio la vertenza internazionale si concludeva; infatti la tratta­

ci Foreign Office a Stevenson, n. 546, 10 maggio 1945, in PRO, WO 204/44; la nota jugo­slava in PRO, FO 371/48815/R 8405/6/92. Sul problema dell’occupazione della Carinzia v. anche i lavori di D . b i b e r , Mednarodni polozaj lugoslavije, cit., pp. 244-48, Britansko-lugoslovan- ski nesporazumi okrog Koroske 1944-1945 in « Zgodovinski Casopis», 1978, n. 4, pp. 475-489.77 II testo della nota jugoslava in FRUS, 1945, IV, pp. 1165-1166; cfr. anche Stevenson al Foreign Office, n. 700, 18 maggio 1945, in PRO, WO 204/44; il messaggio di Alexander alle truppe, FX 77751, 18 maggio 1945, in PRO, WO 204/621 (riportato anche in B . n o v a k , op. cit.. p. 190).78 Cfr. Truman a Churchill, n. 43, 20 maggio 1945, in FRUS, 1945. IV, pp. 1169-1170; com­menti dei funzionari del Foreign Office nella nota di Howard, 21 maggio 1945, in PRO, FO 371/48817/R 8810/6/92; direttiva dei CCS 21 maggio 1945 in h . l . c o l e s - a . k . w e i n b e r g , op. cit., p. 600. Sulla situazione militare dopo l’avanzata alleata cfr. Alexander a CCS, NAF 988, 24 maggio 1945, in PRO, FO 371/48818/R 9085/6/92.79 II testo della nota jugoslava nel messaggio di Stevenson al Foreign Office, n. 717, 21 mag­gio 1945, in PRO, WO 204/44; cfr. inoltre i messaggi di Stevenson, relativi alle conversazioni con Kardelj, n. 712 e 715, 20 maggio 1945, in PRO, PREM 3/495/9.

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tiva si spostava tutta sul problema dell’amministrazione dell’area ad ovest della Linea Morgan, impegnandosi gli jugoslavi a garantire il mantenimento dei vari istituti di governo civile che erano stati istituiti. Soltanto a questo punto Stalin, rispondeva, e facendo proprie le tesi e le richieste jugoslave, dava il proprio con­senso ad un accordo sulla base di una linea di demarcazione e rimandando ogni sistemazione definitiva alla conferenza della pace80. Il messaggio rivelava quali erano la portata ed i limiti del supporto sovietico al governo jugoslavo, limiti tali per cui la soluzione alla questione della Venezia Giulia doveva trovarsi subordina­tamente ad una trattativa alla quale erano interessati, in maniera esclusiva, gli al­leati occidentali da una parte e la Jugoslavia dall’altra. Ma proprio su tale terreno nuovi ostacoli si frapponevano al proseguimento della trattativa.Infatti alcuni giorni prima della pubblicazione della nota jugoslava, Alexander ave­va segnalato l’inopportunità di úna cooperazione fra alleati e jugoslavi nella messa in atto dell’amministrazione militare della Venezia Giulia, ribadendola inoltre dopo l’intervento jugoslavo81. Assegnato al comandante supremo del Mediterraneo un ruolo a tutti gli effetti decisionale e risolutivo da parte dei massimi esponenti poli­tici alleati, la base di trattativa da questi proposta veniva accettata dalle due di­plomazie salvo per quanto riguardava l’occupazione di Pola, richiesta da Truman e definita invece uno « sgradito impegno » da Alexander. Ciò incontrava lo sfavore di Churchill il quale si adoperava prontamente affinché venissero accolti i desideri americani. L’intervento del primo ministro non aveva un rilievo meramente formale ma diventava una questione di metodo, nel senso che l’esigenza di « mantenersi al passo con gli Stati Uniti in tutta la nostra trattativa con Tito, dal punto di vista sia politico che militare » 82 e di assicurare preventivamente il supporto americano alle proprie iniziative diventava la premessa e la condizione di base nello sviluppo della politica estera inglese, soprattutto verso quei settori — come la Jugoslavia, ad esempio — nei quali la posizione inglese era sottoposta ad una forte pressione.Nelle condizioni imposte da Alexander va poi sottolineata la clausola per cui il go­verno jugoslavo avrebbe restituito « tutti i non-jugoslavi residenti in loco arrestati o deportati e reintegrato le proprietà confiscate o rimosse ». Era una condizione che, per quanto generica, usciva dai termini del contenzioso fra alleati e jugoslavi quale si era sviluppato prima del maggio 1945, poiché esso non si limitava esclu­sivamente ai progetti e alle intenzioni delle due parti circa la Venezia Giulia, ma in­vestiva direttamente l’attività esercitata dalTamministrazione provvisoria jugoslava della Venezia Giulia, o meglio della parte di essa che gli alleati intendevano porre sotto la propria giurisdizione. Ciò era reso in qualche modo inevitabile dal fatto che, nel corso del maggio, i progetti jugoslavi si erano concretati in un particolare modello di amministrazione volto ad assicurare un pieno e rigido controllo su tutti gli aspetti della vita associata83. Come si è già detto, tali caratteri erano stati pronta­mente colti da parte alleata e il loro giudizio era maturato all’intemo delle forze e dei comandi alleati presenti in loco e su di esso il peso della pressione esterna —

80 II messaggio di Stalin, 23 maggio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1172-1173.81 L’avvertimento di Alexander era contenuto nel p. 6 del messaggio NAF 976, 17 maggio 1945, in PRO, WO 204/44; cfr. inoltre i messaggi di Alexander, NAF 983 e 984, 23 maggio 1945 in PRO, FO 371/48818/R 9029/6/92 (cfr. anche h . l . c o l e s - a . k . w e i n b e r g , op. cit., pp. 600-601, e messaggio di Kirk al segretario di stato americano Stettinius, 23 maggio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1173-1174).82 II commento di Alexander in NAF 966, 27 maggio 1945, in PRO, FO 371/48819/R 9293/6/92; Churchill ad Alexander, 29 maggio 1945, in PRO, WO 106/4058; cfr. anche G . cox, op. cit., p. 255.83 Sull’amministrazione jugoslava a Trieste, cfr. B . n o v a k , op. cit., pp. 175-182 e E . m a s e r a t i ,

op. cit., pp. 45-66 e 78-89.

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mi riferisco alla pressione del governo italiano o a quella di vari esponenti politici facenti capo al Cln locale — era, se non irrilevante, sicuramente marginale. Basta a provarlo il fatto che le informazioni circa la situazione creatasi nella Venezia Giulia che affluivano ai comandi alleati da parte appunto del governo italiano o del Cln di Trieste erano assai più vaghe ed imprecise di quelle raccolte dagli or­gani alleati. 11 giudizio sulTamministrazione jugoslava della Venezia Giulia era dun­que inevitabile; che poi il problema degli arrestati e deportati — che a tale giudizio intimamente si connetteva — diventasse un punto specifico della trattativa fra gli alleati e la Jugoslavia va fatto risalire ad altre ragioni che cercheremo di esporre. Come si ricorderà l’esigenza di non alterare per iniziativa dei diretti contendenti — in pratica, per iniziativa jugoslava — i connotati politici ed etnici dell’area in que­stione, il rifiuto della logica dei fatti compiuti erano stati ribaditi più volte da parte alleata; ed è evidente per questo aspetto che venisse richiesta una sorta di riduzione in pristino stato del territorio che gli alleati intendevano porre sotto il proprio controllo. Tale operazione non poteva però effettuarsi con la esautorazione dell’amministrazione jugoslava e con il semplice arresto dei processi messi in atto; era invece richiesto un annullamento degli effetti che essi avevano comportato. E ciò rendeva esplicita l’intenzione di definire e chiudere tutti gli aspetti del conten­zioso con la Jugoslavia in modo che un’eventuale permanenza di fonti d’attrito al riguardo non gravasse ulteriormente il carico dei problemi — già di per sè più one­roso rispetto all’esperienza di governo fatta in Italia — che l’amministrazione alleata si sarebbe trovata di fronte, il che testimonia lo sforzo di dare carattere per molti aspetti definitivo agli accordi.Le proposte di Alexander venivano recepite, tranne che sul problema di Pola, nella bozza d’accordo presentata in termini ultimativi il 2 giugno da parte degli amba­sciatori americano ed inglese al governo jugoslavo a Belgrado: piena autorità al­leata nel territorio ad ovest della linea di demarcazione, ritiro di tutte le forze ju­goslave all’infuori di una piccola missione ed un distaccamento di 2000 uomini, scioglimento dei contingenti non regolari, istituzione dell’amministrazione militare alleata con l’eventuale uso dell’amministrazione civile messa in atto dagli jugoslavi a discrezione del comandante in capo alleato, restituzione di tutti i deportati citta­dini italiani alla data del 1939 e delle proprietà confiscate84.Dai rapporti di Stevenson due risultavano le preoccupazioni principali espresse da parte jugoslava soprattutto da Kardelj: una si riferiva al ruolo degli organi di go­verno jugoslavi nell’ambito dell’amministrazione alleata, l’altra era data dal proble­ma dei deportati. La difficoltà nella quale veniva a trovarsi, relativamente a questo secondo aspetto, il governo jugoslavo traspariva da un’affermazione di Subasic a Stevenson, secondo la quale Tinclusione di una clausola comportante la restitu­zione dei deportati nell’accordo avrebbe significato un’ammissione di colpa da par­te del governo jugoslavo con evidenti e negative ripercussioni a livelli di opinione pubblica internazionale e sullo stesso progetto che mirava a mantenere in vita — sia pur entro la cornice del Governo militare alleato — l’amministrazione civile ju­goslava. È evidente, al riguardo, che un’amministrazione della quale si ammetteva la responsabilità nell’aver proceduto ad atti di deportazione era destinata ad una tempestiva dissoluzione.Resta il fatto che, nell’eventualità che una tale questione potesse rappresentare una occasione di ulteriore dilazione alla firma dell’accordo, lo stesso Stevenson sugge­

84 II testo della nota anglo-americana nel messaggio di Grew a Patterson, 26 maggio 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1176-1177.

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riva che, all’atto della firma, il governo jugoslavo dichiarasse di non aver depor­tato nè beni nè persone 85. L’ambasciatore inglese a Belgrado vedeva la questione dal di fuori ed appariva innanzitutto preoccupato di por termine alla disputa anglo­jugoslava; e dal suo punto di vista l’intervento nel merito degli atti compiuti dalla amministrazione jugoslava poteva tendere al contrario; e va infine detto che la stessa genericità ed indeterminatezza con cui la questione era stata posta favorivano un tale esito.Il suggerimento di Stevenson veniva in effetti prontamente accolto dal governo ju­goslavo, che nella nota trasmessa successivamente alla firma dell’accordo dichiarava, fra l’altro, di non aver compiuto confische, deportazioni o arresti « tranne che sul terreno della sicurezza militare e ciò solo quando si trattava di persone note come fascisti di primo piano e come criminali di guerra » 86.Le reazioni di parte italiana e jugoslava all’accordo di Belgrado rappresentavano una prima anticipazione del contesto e del clima entro il quale si sarebbe trovata ad operare l’amministrazione alleata della Venezia Giulia e la relativa discussione in sede di conferenza della pace. Un contesto ed un clima dominati da un fuoco incrociato, in cui da una parte si stigmatizzava che gli alleati occidentali non aves­sero tenuto fede agli impegni dichiarati (o quanto meno non fornito ascolto alle richieste italiane) e dall’altra li si accusava di aver esercitato un’imposizione87, con la conseguenza di determinare all’interno dell’opinione pubblica, sia italiana che slovena, uno stato d’animo quanto meno di diffidenza se non di ostilità verso gli alleati, che avrebbe provocato ripercussioni negative sul già di per sè difficile av­vio del governo alleato della Venezia Giulia.Avvio difficile anche perché c’era consapevolezza da parte alleata che il dispositivo circa l’amministrazione della zona ad ovest della Linea Morgan, previsto dall’ac­cordo di Belgrado e non modificato in quello — di carattere operativo — siglato il 20 giugno a Duino, si rivelava inadeguato ai fini di un controllo a pieno titolo del territorio suddetto. Infatti l’articolo 3 dell’accordo di Belgrado, pur riconoscendo nel comandante supremo del Mediterraneo l’autorità di suprema istanza, non sta­biliva con precisione quale sarebbe stata la posizione e la funzione della struttura amministrativa jugoslava fondata sui comitati di liberazione; nè in sede di nego­ziato per il secondo accordo, tale aspetto era stato chiarito. Anzi, le due note, presentate il 15 e 16 giugno dalle due delegazioni e che venivano allegate al testo dell’accordo (senza peraltro farne parte integrante) esprimevano punti di vista inconciliabili; in quella jugoslava si ribadiva il principio che il governo locale do­vesse fondarsi sulla struttura dei comitati di liberazione, mentre in quella anglo-ame­ricana si riconosceva in tale richiesta un’inaccettabile limitazione all’autorità di go­verno alleata 88. La posizione alleata, il cui retroterra era costituito dalle valutazioni

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85 Stevenson al Foreign Office, nn. 819 e 820, 2 giugno 1945, in PRO, FO 371/48819/R 9515/ e 9516/6/92, n. 833, 6 giugno 1945, in 48820/R 9769/6/92.86 La nota del governo jugoslavo nel messaggio di Stevenson al Foreign Office, n. 876, 9 giu­gno 1945, in PRO, FO 371/48820/R 9932/6/92; v. anche G. cox, op. cit., p. 258.87 Erano appunto di tale tenore una nota di De Gasperi a Noel Charles, prontamente respinta dal Foreign Office e il comunicato emesso il 12 giugno dal governo italiano e rispettivamente la già ricordata nota riservata del governo jugoslavo alfambasciatore inglese e americano a Bel­grado, ripresa alcuni giorni dopo dal quotidiano belgradese « Politlka » (cfr. Charles al Foreign Office, n. 956, 7 giugno 1945, in PRO, FO 371/48820/R 9817/6/92; dichiarazioni di De Ga­speri all’Ansa, 12 giugno 1945, in PRO, FO 371/48828/R 10074 e 10162/24/92; l'articolo di « Politika » è riassunto da Stevenson nel messaggio al Foreign Office, n. 897A, 14 giugno 1945, in PRO, FO 371/48829/R 10265/24/92.88 II testo dell'accordo di Duino e relativi allegati in PRO, WO 204/418. Le due note, jugo­slave ed anglo-americana, annesse all’accordo, sono riprodotte anche in FRUS, 1945, I, pp. 843- 846.

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fornite circa i quaranta giorni di amministrazione jugoslava considerata come ma­nifesta espressione di un progetto di controllo totale globalmente contrapposto e dotato di potenzialità disgreganti rispetto agli obiettivi alleati, veniva illustrata dal negoziatore alleato, generale Morgan: « Io affermo che [...] era scopo dell’accordo [di Belgrado] che il nostro impegno a mantenere l’amministrazione in atto si ri­ferisse al personale di essa piuttosto che al sistema amministrativo in sè e che la struttura dei comitati in quanto strumento esecutivo del governo locale debba es­sere sciolta, ma i comitati, laddove si rivelino utili, siano utilizzati a livello consul­tivo come nelle altre parti d’Ita lia» 89.In sostanza Morgan mirava ad un esautoramento degli organi di governo locale creati nel periodo deH’amministrazione jugoslava; ed a tal riguardo la distinzione fra sistema amministrativo ed amministratori era un mero espediente in quanto questi ultimi non rappresentavano certamente un apparato tecnico, ma l’espressione concreta di una particolare struttura di governo. L’esigenza principale da parte al­leata era costituita dall’assoluta libertà di iniziativa e movimento del governo mi­litare e dalla parallela limitazione dei poteri dei comitati di liberazione a livello meramente consultivo. Certo non è che venisse messa in dubbio da parte alleata la possibilità stessa deH'amministrazione anglo-americana; ma sulla fiducia circa una lenta ma progressiva opera di normalizzazione prevaleva il timore di uno stato di « tensione latente » il timore che l’attività degli amministratori anglo-americani fosse scandita da atti di propaganda ostile, scioperi, dimostrazioni e così v ia90.Il significato di fondo delle preoccupazioni alleate emergeva con chiarezza in una lettera di Morgan ai consiglieri politici americano ed inglese presso l’AFHQ, nella quale si faceva il punto sull’esito delle trattative con la Iugoslavia:

Se la Venezia Giulia continuerà ad essere relegata come una questione « riservata » a ulteriori decisioni, ci troveremo esposti ad un lungo periodo di penetrazione nascosta da parte jugoslava e di intensa propaganda con l’intento di farci pagare un sempre più alto costo in termini di incidenti. Ora gli jugoslavi faranno apertamente del loro meglio per consolidare e sviluppare l’organizzazione messa in piedi dopo la fine della loro occupazione sul versante alleato della linea Morgan, nutrendo la speranza che mano a mano che il tempo farà smorzare l’interesse alleato, sia la risolutezza verrà meno sia la comune opposizione anglo-americana contro la politica di potere jugoslava diverrà meno probabile o se non altro meno temibile. E’ perciò evidente che in tale caso il tempo gioca a favore delle forze del disordine [...] E’ perciò un problema da esaminare se si debbano invitare i tre Grandi a stabilire al loro prossimo incontro l’opportunità di una tempestiva decisione definitiva per quanto riguarda la Venezia Giulia91.Due sono gli aspetti da sottolineare nelle indicazioni fornite dal negoziatore alleato. Il primo si riferisce all'inadeguatezza del contenuto degli accordi di Belgrado e Duino rispetto alle aspettative alleate sulla base delle quali era stata avviata la trattativa con la Jugoslavia. Nè la chiusura, quanto meno temporanea, del conten­zioso con essa, nè la piena ed indiscussa capacità di governo da parte dell’ammini­strazione alleata uscivano confermate senza possibilità di equivoco dagli accordi suddetti. Al contrario, come segnalava appunto Morgan, si apriva una fase — di cui non era prevedibile una conclusione a tempi brevi — di notevole incertezza e diffì-

89 Morgan a Lemnitzer, E/5701, 19 giugno 1945, in PRO. WO 204/9790.w E' possibile leggere tali preoccupazioni tra le righe di alcuni rapporti al 13“ corpo allo AFHQ, I 31 e 32, 15 e 18 giugno 1945, in PRO, WO 204/416 e il periodical intelligence sum- mary del 13“ corpo, n. 1, 22 maggio 1945, in PRO, FO 371/48828/R 10003/24/92.91 Morgan al consigliere politico americano ed inglese, CS 91, 23 giugno 1945, in PRO, WO 204/45 (in parte parafrasato nel messaggio di Kirk a Grew, 23 giugno 1945, in FRUS, 1945, 1, pp. 192-193. Un succinto esame del contenzioso fra alleati e jugoslavi nel maggio 1945 è stato compiuto anche da d . b i b e r , Mednarodni polozaj Jugoslavie, cit., pp. 249-256.

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coltà nella conduzione del governo locale, contrassegnata da una persistente con­flittualità con le organizzazioni contrapposte e quindi col governo jugoslavo, con un conseguente impegno militare di dimensioni nettamente superiori al previsto. L’altro aspetto che è opportuno richiamare del messaggio di Morgan è la proposta di dare una sistemazione definitiva al problema della Venezia Giulia in virtù di un accordo fra i tre Grandi quale strumento atto a cancellare i limiti al libero corso dell’amministrazione alleata della Venezia Giulia. Indipendentemente dai suggeri­menti del capo di stato maggiore dell’AFHQ, la questione che egli aveva sollevato veniva effettivamente aperta ma con conseguenze che andavano in direzione diversa da quella auspicata. La questione della Venezia Giulia infatti entrava a pieno ti­tolo nelle relazioni fra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica. Si è già detto che, anche nella fase finale del conflitto, e in sostanza fino agli accordi di Belgrado e Duino, essa aveva rappresentato pressoché esclusivamente un terreno di confronto fra anglo-americani e jugoslavi. Certo aleggiava su tale confronto la presenza del­l’Unione Sovietica, nel senso che il suo atteggiamento — o meglio il prevedibile at­teggiamento — sia in rapporto alla questione della Venezia Giulia sia, più in gene­rale, nei confronti della Jugoslavia veniva attentamente vagliato da parte alleata. In altre parole l’Unione Sovietica era stata presente come interlocutore indiretta e a distanza ma non aveva certamente manifestato l’intenzione di una netta assun­zione di responsabilità nella definizione della questione in corso. Se però Stalin aveva dato un avallo esplicito alla conclusione degli accordi di Belgrado92, dopo la firma e la chiusura della fase di più acuta tensione fra alleati occidentali e Ju­goslavia, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica mutava sostanzialmente, rivendicando Stalin un ruolo di diretto interlocutore nella definizione ultimativa della vertenza. Nella sua lettera del 21 giugno a Truman e a Churchill, Stalin infatti assumeva di­rettamente la difesa della linea jugoslava facendo propri i termini ormai noti di essa (il diritto di conquista e la recriminazione di essere stati costretti all’accordo da parte degli alleati)93. Nella loro risposta i due uomini di stato occidentali acco­glievano la richiesta di intervento diretto nella questione manifestato da Stalin formulando la proposta, poi accolta, di includere la questione della Venezia Giu­lia nell’ordine del giorno dei colloqui di Potsdam94. Tale questione entrava perciò stabilmente nel contenzioso postbellico fra le grandi potenze.Tale circostanza comportava implicazioni di notevole rilievo sull’andamento stesso dell’amministrazione alleata della Venezia Giulia. Come si ricorderà, Morgan aveva messo in relazione la piena capacità di governo con la definizione e la chiusura di quegli aspetti di dissenso sui quali gli accordi di Belgrado e di Duino avevano mantenuto una nota di ambiguità. 11 protrarsi a tempo indeterminato del conten­zioso fra le grandi potenze circa la Venezia Giulia rendeva perciò impossibile rag­giungere la condizione di base affinchè il governo militare alleato potesse imporre law and order. In tal modo due fattori di labilità si presentavano nella questione della Venezia Giulia: la trattativa fra le grandi potenze e la disputa sulle iniziative dell’amministrazione alleata. Le vicende legate al contenzioso politico internazio­nale si intrecciavano, complicandosi a vicenda, con gli sviluppi della situazione a livello locale. È questo l’intreccio che caratterizzerà, in sostanza, il problema della Venezia Giulia e di Trieste dal giugno 1945 all’entrata in vigore del trattato di pace.

GIAMPAOLO VALDEVIT

92 Messaggio di Stalin a Truman e Churchill, 8 giugno 1945, in FRUS, 1945, IV, pp. 1181- 1182.93 Stalin a Churchill e Truman, 21 g i u g n o 1945, i n FRUS, 1945, I, pp. 846-847; cfr. anche L . W O O D W A R D , Op. CÌt.: V o i . Ili, pp. 380, W . C H U R C H I L L , op. cit., v o i . XII, pp. 249-250.94 Cfr. L . w o o d w a r d , op. cit., voi. Ili, pp. 380-381 e w. C h u r c h i l l , op. cit., voi. XII, pp. 250-251. La risposta di Truman a Stalin in FRUS, 1945, IV, pp. 1191-1192.