Gli alberi spogli sono le radici della terra nel cielo

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GLI ALBERI SPOGLI SONO LE RADICI DELLA TERRA NEL CIELO una storia di nino antonaccio

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A dieci anni dalla sua uscita, ecco in rete il romanzo di formazione di Nino Antonaccio. Roma fa da sfondo ad una storia che inizia dalla sua fine.

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GLI ALBERI SPOGLISONOLE RADICIDELLATERRANEL CIELOuna storia di nino antonaccio

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Gli alberi spogli sono le radici della terra nel cielo.Questo mi capitò di pensare alle cinque di un pomeriggio

d’inverno, immerso con i piedi in una roggia colma di pioggia fredda, con lo sguardo all’orizzonte allineato al ciglio spelacchia-to di un campo, ai margini del quale mi trovai improvvisamente.

L’auto era parcheggiata per metà sull’asfalto. Ne vedevo con la coda dell’occhio il muso aggressivo reso più incombente dalla mia prospettiva. Pensai che questo momento non mi appartenes-se fino in fondo, che mi trovavo lì per una sequenza di eventi che non avevo governato a sufficienza.

Me ne resi conto solo per una questione di temperatura: il freddo liquido nelle scarpe e attraverso i pantaloni mi fece trasa-lire e rimosse dagli occhi un velo.

Per riprendermi, alzai il volto. Vidi belle forme di nuvole. Mi sembrò di abbracciare l’universo e ringraziai non so chi per aver-mi fatto ritornare nella mente una sembianza di pensiero.

Poi, guardando me stesso dalla mia posizione, credo di esser-mi preso in giro. Dovevo essere ridicolo. Non ricordo, perché il fatto è successo tanti anni fa, quali considerazioni feci sul mio stato. Ricordo bene, invece, che appoggiai le mani sul margine del fosso, senza inclinarmi eccessivamente, e respirai in un sol colpo tutta l’aria che era contenuta su quel campo, fino quasi a stordirmi. Questo mi servì, visto che una molla invisibile mi tirò fuori, impacciato, dalla roggia d’acqua.

Che i rami spogli degli alberi ancorassero il mondo all’azzurro del cielo era un pensiero che avevo già abbracciato in altre occa-sioni, e non solo in quel gelido pomeriggio di gennaio. L’avevo detto, per esempio, a Marina quando una sera decisi di irretirla a forza di scenari poetici farciti di metafore, durante un tentativo maldestro di corteggiamento.

Ma Marina ed il pensiero di lei erano spariti dalla mia vita circa dieci anni prima ed io adesso avevo i pantaloni e parte della giacca a vento intrisi di fango. – Non è successo niente, – mi im-posi di dirmi, e cercai di andar subito via da lì. Non mi sentivo

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a disagio ma volevo velocemente raggiungere un posto normale e fare cose normali.

Credo di aver sporcato un po’ il sedile della macchina. Ram-mento solo che le suole slittavano costantemente sui pedali. Pen-sai che almeno questa precarietà mi avrebbe aiutato a recuperare in fretta, a tenere gli occhi e i sensi bene attenti. Ma la strada era sgombra e fu lei a guidarmi verso casa.

Intanto i segni graffiati dei rami avevano riempito tutto il pae-saggio del mio ritorno. Li vedevo dappertutto. Cercai di farmene una ragione, anche quando scesi dall’auto e vidi tanti alberi in-torno al parcheggio come non li avevo percepiti mai prima di al-lora. Per un attimo credetti anche di aver sbagliato indirizzo ma, guardandomi intorno, l’abituale serie di indizi visivi – semaforo, cassonetto, altalena arrugginita, persino il cane del vicino con il vicino al guinzaglio – mi convinse di essere nel posto giusto.

Proprio il vicino di pianerottolo fu il primo contatto che mi venne incontro nel nuovo mondo.

– Moresco, sei andato a pesca?Le sue parole sprezzanti furono nettare per le mie orecchie.

Questo impatto ci voleva, per svegliarmi definitivamente.– Nanni, tutto bene? – furono le mie prime parole. Mi sor-

presi del fatto che le dicessi con sicurezza, che almeno non avessi perso l’uso del mezzo.

– Va bene, poi mi racconti. Adesso scusami, ma la bestia mi deve portare ai giardini.

Non seguii con lo sguardo Nanni trainato dal suo pastore te-desco. Lo salutai dicendo ciao ad un cespuglio di rose in letargo, mentre in pochi secondi raggiunsi l’interno dell’appartamento del terzo piano, non soffermandomi su alcuno dei particolari che mi dividevano dalla porta.

La aprii e la richiusi rumorosamente, troppo per i miei gusti. Un brivido definitivo decretò la conclusione di un momento, mentre accesi la luce dell’atrio. Perché tutti i momenti si conclu-dono. Perché al termine di una frase c’è sempre un punto.

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Anche quella parentesi, così bagnata ed inverosimile, si era conclusa e tuttavia qualche scoria me la sentivo ancora nella te-sta, qualche domandina me la ponevo. A parte – Cosa ci facevo lì? – oppure – Non avrò lavorato troppo questa settimana? –, mi sforzavo di chiedermi cosa avessi fatto prima di allora. Ma il tentativo di ricostruire i fatti fu un’impresa impossibile. Ne presi coscienza sotto il getto della doccia: non riuscivo a concentrarmi assolutamente su quanto fosse accaduto, e questo semplicemente perché non ne avevo voglia. Volevo solo superare il momento, guardare a quello successivo, cioè alla consultazione dell’agenda.

L’agenda mi avrebbe restituito la memoria. L’agenda era l’uni-ca certezza.

Il diario, esposto in bella vista sul tavolo della cucina, appari-va come un piccolo, orizzontale monolite blu: era il mio scrigno personale, la cornucopia delle mie azioni. Non vedevo l’ora di asciugarmi per sfogliare le sue pagine, per ficcanasare nei miei segreti.

Non prima di aver acceso una sigaretta.– Dunque, oggi è il nove.Presi l’unico posacenere della casa, regolarmente tenuto sul

davanzale esterno della finestra della cucina. Questo l’unico ge-sto, e intanto ricostruivo pensieri.

– Mercoledì. Il giorno di chiusura del giornale. Merda, devo andare in redazione!

Ero costernato. Ma vidi, in un angolo del tavolo, la copia degli articoli da consegnare con un post–it che diceva: Floppy en-tro l’8!!!! Ero salvo. Preciso com’ero nelle mie consegne, figurarsi se il giorno prima non avessi adempiuto al mio dovere. Niente redazione, tranquillo.

Il martedì era passato, dunque. E me lo sarei anche ricordato, con un minimo di sforzo. Rividi in una frazione di secondo, mentre lo sguardo era fisso sullo sportello del frigo, le fasi con-citate del pomeriggio del giorno prima. Ricordai la mia solita irruzione nello stanzone del giornale e lo scambio rituale di con-venevoli con i colleghi, con una in particolare.

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– Monica, ho gli articoli!– Tu spacchi sempre il secondo, oltre al resto. Lo sai che la tua

puntualità comincia a darmi sui nervi?A Monica spettava l’ingrato compito di impaginare il setti-

manale. Dall’alto della sua postazione informatizzata, da dietro il monitor diciannove pollici, era l’unica persona autorizzata a trattarci come delle bestie. Aveva il potere, conferitole dal fatto che tutti si dovesse passare dalla sua tastiera, di dirci qualsiasi cosa, dal redattore apprendista al direttore.

Monica era il setaccio dal quale passava ogni articolo, ogni pa-rola o immagine. Quando scaricava i testi e le foto sul program-ma era come se ingoiasse tutto quello che gli articolisti avevano cucinato. Ognuno avrebbe condito le pietanze a suo piacimento, e a lei toccava di mangiarle senza batter ciglio, potendo inter-venire al massimo sul corpo dei caratteri ma non sulla sostanza.

Omicidi, suicidi, furti, spettacoli, orari delle messe, necro-logi, pubblicità, tutto era affidato a questa esperta dell’arte del-la disposizione. Mansione affascinante, asettica ed estetica allo stesso tempo. Un po’ la invidiavo, soprattutto quando la vedevo assumere i gesti di un pittore che si allontanava leggermente dal quadro per comprendere l’effetto generale della composizione, gli equilibri delle posizioni dei soggetti. Monica allora inclinava il capo a sinistra e a destra, stringeva le labbra nel supremo sforzo del convincimento e, riavvicinandosi allo schermo, spostava con mouse e tastiera i campi delle pagine fino a quando le sembrava di aver raggiunto le giustapposizioni desiderate. Salva nella car-tella.

Quest’artista era necessariamente la presenza più costante in redazione. E la più rassicurante. Una mamma a cui inchinarci e dalla quale prenderci anche qualche rimprovero.

– Rocco, tu continui a usare un font che il mio computer non legge!

– Non è che non lo legge, è che gli apostrofi diventano qua-dratini. Bisogna trasformarli.

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– Devo baciare il monitor per far diventare il tuo articolo un principe azzurro?

Monica, prima di entrare in questa gabbia, era supplente pre-caria di lettere ed anche una bella ragazza. Ricordavo di quando sfilavamo insieme nei cortei studenteschi, della nostra amicizia proseguita nel tempo e di qualche suo filarino. Rimaneva ancora una bella ragazza ma la postura le aveva gonfiato i fianchi e qui dentro aveva acquisito un valore aggiunto: l’arroganza. Mi pia-cevano, e piacevano a tutti gli altri redattori, le sue frustate. Ho visto con i miei occhi qualche mio collega passare un pomerig-gio intero incollato, adorante, ai suoi umori e alle sue invettive ed uscirne stordito, stravolto di lividi e di piacere. Non capivo, come non capisco tuttora, se Monica fosse cosciente di tale pote-re. Di sicuro sapeva utilizzarlo.

– Quanti sono i pezzi?– Tre. Ascolta, quello più lungo riguarda la mostra di Gianni

Rende. Ho qui una foto da scansionare. Mettilo nella cultura. Gli altri due potresti inserirli tra le segnalazioni. Sono poche ri-ghe.

– Guarda che ho poco spazio. Nella cultura ho già l’intervista all’assessore e la sua biografia.

– Monica, mi fido del tuo buon gusto. Non posso tagliare nessuna frase!

– Va bene, lascia lì.Cioè mi avrebbe trovato lo spazio giusto anche stavolta. Il

mio ego giornalistico ne avrebbe tratto quella piccola dose di piacere che derivava dal fatto di poter esibire, sotto il proprio nome, un altro migliaio di parole senza preoccuparsi che qual-cuno le leggesse. Si trattava di una malattia che si insinuava nei piccoli pennivendoli di giornali circoscrizionali, intenti a sciori-nare tutti gli aggettivi possibili applicati ad eventi assolutamente non indispensabili. Unica preoccupazione: rileggere l’articolo stampato per controllare gli errori, poiché le cose inutili devono comunque risultare perfette. Nel mio caso era anche peggio per-ché mi occupavo di arte.

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Nella mia cassetta postale si accumulavano inviti tra i più disparati: vernici dei più ignoti egocentrici – che si scoprivano improvvisamente grandi profeti di rivoluzioni espressive – si al-ternavano a presentazioni di libri irrinunciabili di poesie sbilen-che. Il bacino d’azione era vasto e non riuscivo a raggiungere che pochi di questi eventi epocali. Spesso ricopiavo le note dei pieghevoli, gonfiandoli con alcuni sinonimi, e la segnalazione finiva lì. Quando mi capitava di essere testimone delle inaugu-razioni delle mostre, allora l’artista mi riempiva di collezioni di fotocopie di articoli – alle quali si sarebbe aggiunto a breve anche il mio – e mi portava ad ammirare i capolavori, veri e propri plagi di sculture e tele viste almeno mille volte su qualsiasi libro di storia dell’arte.

– Con quali materiali lavora abitualmente?– Insistere sulle tonalità scure è una scelta?– C’è relazione tra gesto creativo ed esperienze personali?Queste, e poche altre, erano le domande più frequenti che

rivolgevo al maestro, qualunque fosse il genere artistico ripro-dotto. Il quale maestro, prendendo fiato, cominciava a spacciare teorie rifritte come fossero perle inedite. Per discrezione e per pietà, il più delle volte non citavo la vera fonte dei suoi assiomi, o comunque non citavo negli articoli alcun nome famoso che potesse essere richiamato dal suo manierismo.

Quello che mi affascinava – perché c’era qualcosa che mi affa-scinava – era l’ingenuità. Era ingenua la moglie del chirurgo che si esaltava come una bambina per i ninnoli pescati da un rigat-tiere cinese ed incollati su fogli di truciolato e sommersi da colori acrilici sgargianti: solo lei riusciva a vedere l’originalità di un tale percorso, e forse qualcuno le avrebbe anche creduto, eppure re-stavo ammaliato dall’entusiasmo, dall’enfasi delle motivazioni, dalla difesa ad oltranza del proprio lavoro che diveniva missione. Pensavo, mentre uscivo dai rinfreschi che aggiungevano al profu-mo del colore ad olio altri odori più profani, alle forme che ogni individuo dà alla sua personalità: questi ciarlatani di quartiere

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dell’arte contemporanea costruivano le loro certezze riparando-si dietro lenzuoli colorati o maschere deformate di terracotta, e questo era il loro modo di presentarsi. E pensavo – ed anche questo mi affascinava – a quali altre forme illusorie dell’espres-sione di sé mi sarebbe toccato ancora di vedere, girovagando nel-la nona circoscrizione di Roma, in qualche negozio dell’Appio Tuscolano trasformato in spazio espositivo, tra scarpe e cuscini.

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Mercoledì nove gennaio. Questa era già una certezza, ma ne cercavo altre. Mi rigirai in cucina, senza esagerare nei movimenti perché dovevo pensare. Forse pensai anche a cosa preparare per la cena, ma sono sicuro che mi diressi verso l’agenda.

Il primo tronchetto di cenere si era già polverizzato sul pa-vimento. Avevo messo il posacenere troppo lontano dalla mia testa. Visto che la sigaretta era stata accesa solo per tirarla che per due volte, mi decisi ad appoggiarla in un incavo del bordo di vetro. Mi accorsi che più che la fame vinceva il desiderio di mettere ogni cosa al proprio posto. Prima di sfogliare il diario o di infornare una pizza surgelata o di stendermi sul letto, dovevo mettere in ordine gli oggetti, almeno quelli della cucina. Solo dopo, mi convinsi, avrei potuto ricordare. Solo dopo, nell’armo-nia dei sopramobili e dei piatti puliti, avrei trovato una linearità contestuale, un nitore che avrebbe potuto far emergere fatti e circostanze che adesso non riuscivo ancora a scorgere.

Piegare tovaglioli. Tovaglietta americana, lo stesso. Riporre entrambi. Mi ripetevo mentalmente la descrizione delle proce-dure come una nenia che rendesse meno alienante i gesti abitua-li, una sorta di blues di accompagnamento. L’accumulazione su gran parte del tavolo doveva essere cominciata da mesi se avevo iniziato a ritrovare foglietti con date anacronistiche, nomi e nu-meri telefonici di gente che al momento non mi dicevano nulla: si trattava, probabilmente, di personaggi di sponda, di coloro che avevo consultato per arrivare ad una notizia lontana.

O bella, ecco dove era finito il numero della Cavallanti del Provveditorato. Ma era già acqua passata, settembre era vola-to via da un bel pezzo e la mia supplenza si era risolta in uno spezzone di nove ore al Newton; la mia speranza di arrivare alla cattedra completa venne smorzata dall’impiegata che, alla mia ennesima telefonata, mi suggeriva di rassegnarmi e di pregare per qualche allattamento di una madre professoressa di ruolo nel corso dell’anno scolastico.

Poco male. Il punteggio si acquisiva lo stesso, lo stipendio era la metà di quanto sperato, in compenso gli articoli su Tutto

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Tuscolano ripianavano le entrate, almeno fino a quel mercoledì di inizio gennaio. Rimanevo tirato come uno spago, ma per il mo-mento riuscivo a chiedere a mia madre meno soldi e a costruirmi finalmente una carriera precaria con tutti i crismi dettati dalle statistiche. A trentadue anni queste erano soddisfazioni.

Raccogliere penne e matite. Riporle nel bicchiere di ceramica made in Vietri. Tovaglioli e matite non mi crearono problemi; ciò che mi sconvolse fu la matassa delle carte, il loro presentarsi in modo così eterogeneo da spiazzare subito qualsiasi mia velleità di riordino. Per esempio, le fotocopie non erano tutte della stessa natura, i manoscritti neppure; forse i pieghevoli potevano essere ammucchiati in un panino e riposti in qualche scatola che non avrei più aperto se non tra decenni, con conseguenti interroga-tivi drammatici tipo: – Butto o non butto? Queste sono mostre di vent’anni fa: e se avessi conservato gli unici reperti esistenti di quegli eventi?

Sapevo come andava a finire. Consapevole che non esistes-sero quotazioni di mercato dei pieghevoli, l’ultima loro dimora diventava l’indistinto macero.

– Questo non mi serve più. Le riviste meno che mai. I vecchi numeri del giornale.... ma sì, conserviamoli ancora per qualche anno, impiliamoli sopra lo stagionale della camera da letto in modo che gli acari trovino altro pane e poi, belli gonfi di cellu-losa e di polvere, si tuffino sugli arredi. O mamma, questa è la lettera di mia madre della scorsa estate.

Gettai la busta e conservai i fogli, insieme a quelli degli anni precedenti. I contenuti erano gli stessi, però cambiavano le date e talvolta anche il numero delle righe. Ma a lei piaceva questo appuntamento irrinunciabile, un esercizio atteso un anno intero. Ed eccola a dilettarsi in frasi di circostanza e di mollezza estiva, ma sentite e zeppe di affettuosità rotonde, come le a e le o che prendevano più spazio di altre lettere, costringendola spesso a chiudere il rigo con parole strettissime, alcune anche leggermen-te curve all’ingiù, perché a lei non piaceva spezzarle. Pensai, fis-

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sando per un attimo i fogli di carta velina e contemporaneamen-te il pensile dello scolapiatti, che avrei dovuto telefonarle visto che non lo facevo da ormai due settimane.

Adesso mi ricordo che quello era proprio uno dei momenti critici della nostra relazione: avevo deciso di passare le vacanze di natale e di capodanno nella dimora di Andrea ad Arezzo, e dalla telefonata del venticinque dicembre non mi ero fatto più sentire, nemmeno per dirle che ero tornato a Roma già da una settimana.

Lei era abituata ai miei silenzi, e sulla segreteria telefonica avevo già trovato, al mio rientro, il solito messaggio di auguri dell’anno nuovo. Io le dicevo di star tranquilla e di preoccuparsi non quando non mi facevo sentire bensì quando la cercavo trop-po: avrebbe voluto dire, in questo caso, che mi servivano soldi o che c’era qualche problema.

Mia madre mi aveva fatto nascere libero, lei stessa fu libera di scegliere di vivere la sua vita in quattro città diverse, viaggiando da sud a nord e poi al centro, prima seguendo mio padre nel suo peregrinare tra le scuole in cui trovava posto e in seguito, alla sua morte, seguendo solo l’istinto.

Quando ero piccolo, nei frequenti momenti di scambio di parole e carezze, mi ricordava spesso che noi – ed era un prono-me di forte appartenenza, di prestigio esclusivo, di rango con-cesso a pochi, da come le si illuminava il volto – avevamo radici lunghe lunghe che non si espandevano solo nelle zolle limitrofe alla nostra pianta ma che si dipanavano per tutti i più stretti per-tugi, per ogni più piccola strada che la terra lasciava libera dalla materia. Lì eravamo noi, o meglio lì passavamo, non riuscendo proprio a fermare l’andamento delle appendici vegetali.

– L’acqua più buona si trova sempre lontano. Le sue fiabe erano così, delle metafore non finite che mi spin-

gevano a materializzarle – sognai anche di essere diversi tipi di alberi – e a completarle con altri ragionamenti sempre impalpa-bili, che spesso mi facevano cadere in una trance profonda, più

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duratura di quella tipicamente infantile in cui la fantasia portava un bimbo a fissare a bocca aperta una fontana perché si era tra-sformata all’istante in un mostro marino. La mia assenza, in quei momenti, non la turbava. Ad una mia zia che si lagnava di questa presunta atonia, mia mamma suggerì di provare anche lei a fare la stessa cosa per verificare se fosse davvero così dannosa: mia zia si offese dicendole che stava allevando un figlio che avrebbe campato tra le nuvole. La cosa mi inorgogliva.

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Una parte delle scartoffie fu eliminata definitivamente dal ta-volo. L’orizzonte ne guadagnò poiché cominciavo a distinguere alcuni particolari. Riconobbi subito, per esempio, il fumo lungo e verticale della sigaretta ormai quasi giunta al termine. Urgeva spegnerla per porre fine all’inutile brace. Posacenere fuori sul da-vanzale e finestra aperta per qualche minuto. L’unico ambiente della casa in cui fumassi era proprio la cucina, perché lì ci facevo un po’ di tutto, soprattutto scrivevo gli articoli e correggevo i compiti. Il tavolo rettangolare occupava quasi mezzo pavimento. E lì sopra veniva inevitabilmente riposto di tutto, diventando una specie di discarica a cielo aperto con le sue colline e le sue de-pressioni altimetriche, i suoi pendii e le sue anse in cui ricavavo di volta in volta quei cinquanta centimetri utili per appoggiarci un piatto e mangiare.

La cucina era il mio studiolo, e la mia immagine riflessa nello specchio serigrafato con firma industriale di Man Ray era quella di un San Gerolamo metropolitano sommerso dalle sue carte, in-tento nell’arte della conoscenza o della mistificazione, se la cono-scenza consisteva solo nel copiare e incollare frasi scritte da altri che le avevano copiate da altri. Nel mio piccolo, mi piccavo di svolgere tale operazione aggiungendovi spericolati svolazzi gram-maticali al limite dell’errore, fraseggi sdruccioli, insomma tutte quelle cazzate che si inventavano gli articolisti collaboratori co-ordinati e continuativi per sembrare alternativi, per distinguersi, per dare la sensazione che loro si trovavano sì in una redazione di un settimanale periferico – tra l’altro, venduto solo in abbona-mento a selezionati lettori, cioè a una famiglia a caso per condo-minio – ma solo per dare lustro alla testata, disinteressatamente.

Il bello accadeva quando raramente si riusciva a piazzare, per chissà quali e quante prostrazioni, una segnalazione autografa su un giornale di quelli grossi: il giorno dopo il redattore entrava nello stanzone come se avesse avuto venti centimetri di tacco, di-spensando sorrisi, benedizioni e consigli di grande giornalismo, ridimensionato solo e per fortuna dalla prontezza di Monica che

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gli lasciava il tempo di dire due frasi per poi rivelare a tutti i distratti, a voce più alta del solito, che l’articolo consisteva banal-mente in una ricetta dei saltimbocca. Grande Monica, un vero angelo sterminatore, una fustigatrice irreprensibile e tenace delle borie altrui, un’assassina giusta e necessaria alla quale baciare le mani ancora sporche di sangue.

Io non avevo mai piazzato nessun articolo sul Messaggero o similia. La mia fedina era pulita, da questo punto di vista, e poi non mi sbattevo per cercare gli agganci utili. Né speravo, a dire il vero, di essere notato da qualche pezzo grosso che, come in un film americano di quelli che sfornano illusioni a tonnellate, venisse preso da folgorazione improvvisa per il mio stile di re-censione.

Quintavalle legge il commento di Rocco Moresco sulla mostra di tal Venanzio Annunziato; il noto critico si lascia trasportare dai percorsi esplicativi sciolti ed espliciti, ammira la chiarezza degli enunciati, si rammarica di non essere stato lui a scrivere quell’arti-colo; cerca il numero di telefono della redazione sulla prima pagina ed esige di parlare immediatamente con il signor Moresco il quale viene rintracciato dopo pochi minuti dal bidello del secondo piano che irrompe nell’aula di disegno e davanti agli alunni gli annuncia, senza frapporre indugi e con malcelata eccitazione, di presentarsi al più presto nella redazione di Repubblica; lì Quintavalle gli affiderà (a Moresco, non al bidello) la recensione della antologica di Claude Monet al Vittoriano. The end.

Mai sognato simili idiozie, anche se la mia mamma avrebbe imbastito chissà quante allusioni sull’importanza dell’ambizione e sulla necessità di dare sempre una prospettiva alle azioni uma-ne.

– La lama che sbuccia la mela ne assaggia già il succo. Ho cercato, mi sono sforzato di cercare di chiudere ogni seg-

mento della vita provando il sapore dell’aperitivo di quello che lo seguiva. In questo consisteva la tecnica dello sfalsamento che mia madre certo non spiegava in questi termini: un leggero sfal-

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samento consentiva di cogliere contemporaneamente una fine ed un inizio, la conclusione di una frase al servizio dell’incipit della successiva. Mia madre avrebbe anche potuto scrivere un libro poiché credo che avesse colto uno dei segreti dei grandi autori. Ma a dirglielo si sarebbe messa a ridere, senza aggiungere altra metafora.

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L’agenda l’avevo già messa da parte, cioè sul frigo, per aprirla solo dopo che il paesaggio del tavolo avesse assunto l’aspetto di un giardino tibetano. Mi mancavano ancora alcuni piccoli ri-assetti e scoperte. Ritrovai, e questo me lo ricordo bene perché avrebbe avuto la sua importanza, la foto di Silvio ed Elisabetta mentre posavano davanti alla chiesa di San Francesco, entrambi coprendosi mezzo volto con una mano. Erano rimasti delusi del-la parziale visione della Leggenda della Croce di Piero della Fran-cesca dovuta ai lavori di restauro, e con tale pantomima volevano ricordarlo. Eppure Andrea li aveva avvisati al telefono.

– Ragazzi, non la potrete vedere tutta. Una metà è completa-mente oscurata dai ponteggi.

– No! È che abbiamo voglia di rivedere Arezzo. Sono quindici anni che non ci vengo, dalla gita del liceo.

– C’è comunque tutto il resto! Le vetrate della Cattedrale, il polittico del Lorenzetti nella Pieve di Santa Maria, la Piazza Grande. Se venite domenica vi beccate anche la Giostra!

– Vedi che dobbiamo venire per forza! E se arrivassimo sabato sera? Ce ne andiamo domenica pomeriggio, non ti stiamo tra i piedi troppo tempo.

– Figurati, Eli. Anzi, se vieni da sola puoi fermarti anche due mesi.

– Andrea! Ti ricordo che sono fidanzata!I due si erano sempre piaciuti, dai tempi del ginnasio dove

frequentavano due classi vicine, scambiandosi per tre anni di fila sguardi di passione impotente. Andrea poi si trasferì con la fami-glia in Toscana, ma in qualche angolo dei loro cuori non venne mai cancellata quella simpatia. Elisabetta, la bionda anarchica – perché le piaceva da matti il logo della A cerchiata – coltivò in seguito una decina di amori che fece nascere e morire con deci-sioni unilaterali. Era un angelo, una visione da gelare il sangue, una principessa dai poteri assoluti. Non essere riuscita ad impos-sessarsi di Andrea fu l’unica sua sconfitta ed Andrea continuava a cullarsi nell’illusione di potere un giorno darle un bacio, non

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importava quando, non importava dove. Il fratello e la sorella si sarebbero ritrovati, perché così accade a chi si assomiglia, così come loro si sentivano attratti tanti anni prima come adesso.

I due continuavano a sentirsi spesso, per diversi motivi e per una sorta di piccolo giuramento che si erano fatti davanti al can-cello del Liceo Augusto quindici anni prima.

– Ma davvero domani parti?– Già. E davvero domani tu resti?– Scemo! È che non faccio in tempo a farti avere il nastro dei

Jefferson Airplane. Va be’, vuol dire che te lo spedisco. Dove?– Arezzo, via Leoni 4. Ci scriviamo?– Ma tu ogni tanto non tornerai a Roma?– Qui resta mia zia. Abita all’Alberone, dove c’è il mercato.

Forse faccio un salto a pasqua.Parola di Andrea, perché i dialoghi scarni che avevo in mente

mi furono riferiti da lui. Era un amico, un grande complice. Non mi ha mai chiesto nulla. Abbiamo solo fatto tante partite di pal-lone all’oratorio, molti cortei e diversi furti alla Standa. Inoltre si condividevano gli ascolti dei 33 giri nello studio di suo padre.

Ci siamo incontrati diverse volte, nelle rispettive città, dopo il suo trasferimento. Parlare di Andrea era solo questo, per me. Il mio più grande amico potevo raccontarlo in cinque righe così come mi capitava di fare per tutte le persone che avevano signi-ficato molto. Il resto erano chilometri di ricordi di eventi indele-bili, superflui da rievocare se non al diretto interessato.

La foto fu scattata proprio da Andrea che accompagnò Elisa-betta e Silvio in una passeggiata aretina, e mi venne regalata dalla mia amica assieme ad altre tre o quattro istantanee che ricorda-vano quella riunione.

Quell’immagine mi fece subito riandare alle rivelazioni che mi confidò Andrea solo qualche giorno prima, mentre si stava raggiungendo la sua combriccola ad Anghiari per la festa dell’ul-timo dell’anno. L’amico, durante il tragitto in macchina, era in vena di confidenze così come facemmo per un’intera settima-

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na, forse per la prima volta in maniera così intensa dopo tanti anni. Eravamo specializzati nelle vecchie storie, nei racconti che avevamo vissuto entrambi: Andrea non aspettava altro. Io gli ri-cordavo con la mia faccia i suoi tre anni memorabili di liceo, e lui ad Arezzo non riuscì più a fare partite di pallone all’oratorio, cortei e furti alla Standa. Realmente i nostri incontri sporadici gli facevano piacere.

So cosa lo faceva impazzire: citare, a mente fredda, un luo-go che l’aveva visto protagonista nei tempi d’oro. Era la stura di aneddoti e retroscena a valanga, alimentati dall’enfasi della nostalgia che ci faceva sentire magnifici. La verità è che ciò che rimane persistente nella memoria è la prima volta di ogni cosa. Ad Andrea spesso facevo presente che non erano ancora finite le sorprese, che la vita poteva riservare molte novità, ma lui non ne voleva sapere e mi implorava di spruzzarlo di ricordi. Ma quella sera aveva preso lui le redini del discorso virandolo improvvisa-mente – comunque non prima di un’ennesima ricostruzione di una rapina di 45 giri nei grandi magazzini di via Appia Nuova – verso una confessione che riguardava Elisabetta.

Tacqui mentre ascoltavo. Chiesi solo se potessi accendere una sigaretta in auto.

– Fa pure. Anche la mia ex mi impestava la macchina. Guar-da, c’è ancora il suo accendino sul cruscotto.

Andrea disegnava le curve lentamente, intento com’era su al-tri obiettivi. Davanti ai suoi occhi c’erano i capelli biondi di Eli.

– Ti ricordi? È venuta a giugno col ragazzo, Silvio. Cazzo, non è cambiata, è ancora la più figa della classe! Tu la vedi a Roma?

– Credo di averla incrociata per strada pochissime volte. Mi ha anche dato delle foto dove ci sei tu. Proprio un paio di set-timane fa l’ho incontrata in piazza Ragusa, con un cagnetto al guinzaglio. È quello lì Silvio?

– Bella questa! Ti dirò che non ci sei andato molto lontano. Come ai vecchi tempi, è sempre lei che comanda. Silvio sbrigati, Silvio paga, Silvio compra il giornale. Le manca solo il frustino.

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La adoro, come sempre. Lo sai, Rocco, che avrei voluto farmela già a sedici anni? Te la ricordi? Una volta, mentre mi faceva vede-re una ricerca su Seneca, eravamo così vicini che il profumo dei suoi capelli mi fece venire.

Mi era impossibile fermarlo. Andrea era in uno di quei mo-menti di estasi mistica, dove l’oggetto giovanile di culto veniva a contenere tutte le bellezze dell’universo, sia che si trattasse della prof di geografia sia che fosse il bidello che vendeva i panini durante la ricreazione. Qui si trattava addirittura della creatura adolescente che faceva morire quasi tutti i maschietti della scuo-la.

– Quando venne a sapere che stavo per andarmene via da Roma, lei mi venne a cercare pochi giorni prima che partissi. Mi bloccò davanti al cancello del liceo.

Il racconto alternava resoconti e commenti, in ordine sparso e senza approfondire.

– Insomma, in questi anni ci si sentiva ogni tanto per telefono e per lettera. Io le raccontavo dell’università, di ingegneria, lei dei disastri scolastici, del suo ritiro dalla facoltà di giurisprudenza, del lavoro nella boutique di sua madre. Quando mi ha detto che sarebbe passata a trovarmi, quasi svenivo! Va be’, c’era anche quel tipo, ma chi se ne frega. Il confronto avrebbe fatto più effetto.

Per farla breve, Andrea riuscì a fare l’amore con Elisabetta praticamente cinque minuti dopo che la coppia romana arrivò nella casa di Arezzo. Silvio, appena messe giù le valigie, fu co-mandato dalla padrona di raggiungere al più presto un negozio di foulards del centro per farsi consegnare della merce prenotata dalla boutique di famiglia. Il fratello e la sorella si riconobbero al solo sguardo: dalla prima stretta di mano, Andrea ed Elisabet-ta non si tolsero più gli occhi di dosso. Nei secondi seguenti si erano già trasmessi tutta la loro passione arretrata. Appena Silvio uscì dalla porta, vennero solo sbrigati alcuni convenevoli.

– Da quanto tempo vivi qui? – Due anni, sono in affitto.

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– Mi dai un bicchiere d’acqua?Il bicchiere d’acqua, a sentire il racconto di Andrea, in realtà

arrivò dopo un amplesso frenetico sul divano del salone, repen-tinamente squassato dalle effusioni dei due amici di vecchia data che provvidero a ripristinare un discorso lasciato in sospeso per troppi anni.

Silvio, al suo ritorno, non si accorse di nulla, neanche di alcu-ne striature umide sul bracciolo e di due cuscini strappati dai tac-chi di Elisabetta. Andrea non entrò, giustamente, nei particolari ma ce n’era abbastanza per capire che il mio amico aveva raccolto un altro ricordo consistente – un’altra prima volta – da poter rievocare per sempre. Nelle ore seguenti, Andrea scattò alcune foto ai due fidanzati, li accompagnò in giro per la città, visse con entrambi la confusione popolare della Giostra in piazza e bevve i sudori e gli umori di Elisabetta nella vasca da bagno nel cuore della notte, mentre Silvio dormiva sul divano–letto matrimonia-le dai cuscini strappati. La foto era venuta un po’ mossa.

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Accanto alla foto ritrovai, sporgente da un ciuffo di bollette dell’Enel, anche un bel ritratto di Andrea su uno sfondo di strada in salita. L’avrà scattata chi so io, pensai. Misi in una scatola di ferro le ultime minutaglie che meritavano un posto imprecisato – graffette, un paio di forbici, alcuni elastici screpolati, due rice-vute di pizzerie, un cavo di segnale dell’amplificatore, le chiavi della mia vecchia bicicletta – e mi concessi un attimo per rimi-rare lo spettacolo, non prima di aver pulito con panno e Vetril la superficie di laminato bianco. Il tavolo era vuoto. Avrei potuto festeggiare l’evento imbandendolo come nelle grandi occasioni, ma avevo già deciso di rimandare questo bisogno, anche quello di ingurgitare un cracker al volo. Era prioritario che continuassi a ricostruire, anche se erano le dieci si sera.

L’agenda blu mi guardava dall’alto del frigorifero. Avrei potu-to consultarla immediatamente se prima non mi fosse venuta la voglia di sentire la segreteria del telefono, all’epoca sulla credenza liberty che conteneva le stoviglie della festa. Forse i tre messaggi che il led luminoso mi segnalava mi avrebbero fornito qualche indizio in merito ai fatti che non ricordavo mi fossero successi prima dell’ammollo nella roggia. Non che ci sperassi molto, ma non mi sembrava inutile scartare quelle tracce o se non altro ascoltare le eventuali rogne che le voci registrate mi imponevano di assolvere. E allora richiama Monica, fatti sentire dalla mam-ma, rintraccia l’artista ultimo nato che vuole assicurarsi la tua indispensabile firma, contatta Giuliana che ti propone un’inutile domenica persa in una sagra paesana – e dille che hai un altro impegno.

Il primo messaggio era proprio di Giuliana.– Ciao. Scusa, ma odio le segreterie telefoniche. Se ci sei, ri-

spondimi subito. Silenzio. Non ci sei. Allora, ti ricordo che tra due giorni è il compleanno di Loredana. Vuoi farle il regalo con me? Io pensavo ad un CD di Neil Young oppure a un paio di libri da scegliere insieme... sempre che tu abbia tempo. Silenzio. Non riesco a dirti altro. Vaffanculo alla segreteria!

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Mentre fissavo il bicchiere porta–penne, pensavo che forse la stavo trascurando, la mia vecchia amica di Valle Giulia. La verità era che non mi interessava come un tempo. Innamorarsi di una collega di corso è come bere un bicchiere d’acqua durante un’immersione. Certo, ci eravamo presi una cotta verso la fine degli studi, poco prima delle rispettive tesi di laurea. Non si era condivisa nessuna lezione, non avevamo preparato alcun esame insieme, non avevamo respirato in comune l’ansia dei corridoi. Anche se fu proprio in un corridoio del primo piano della fa-coltà che mi capitò di conoscerla e di apprezzarne subito la dol-cezza. Quando le diedi il primo bacio, seduti su una panchina del Pincio, la guardai più da vicino: aveva begli occhi, una voce carezzevole, ed ispirava fedeltà. Mi sembrò che tutto si fosse già compiuto.

Come al solito, lei voleva occupare il suo cuore con un pen-siero, io ero in un momento di debolezza. Come al solito, lei sta-bilizzò il suo affetto, io mi addormentai durante il film avendo, da consapevole codardo, il timore di svegliarmi. Quel che suc-cesse in seguito fu solo un’alternanza tra scopate sul mio letto da una piazza e mezza e settimane intere di invisibilità. Raramente si andava al cinema o a mangiare una pizza.

– Ho diverse scadenze. Ti richiamo tra qualche giorno. Man-dami pure al diavolo, se vuoi.

Non mi accorgevo che questo giochino delle parti, mentre per me voleva dire avere già scelto cosa fare, per lei significava attesa. Non si sarebbe potuta spiegare altrimenti la sua rassegna-zione a cercarmi, il suo ruolo appagante di aspettarmi, sapendo che prima o poi mi avrebbe comunque avuto a disposizione. Lo schema rientrava nella sua organizzazione dove io ero il segnali-no – impazzito – che occupava la casella dei sentimenti. Quan-do venivo preso, e prima o poi arrivava l’attimo in cui mi sarei ficcato in un angolo, Giuliana non mollava la presa almeno per una notte intera. Io lasciavo fare, ma forse era arrivato anche il momento di chiarire le cose.

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Soprattutto adesso, che mi ero perso con Emanuela, dovevo decidermi a presentare a Giuliana un breve riassunto delle ri-petitive giornate precedenti e a farle accettare che il finale della storia fosse così poco avvincente quasi da farsi ridare i soldi del biglietto. Sapevo perfettamente che ne sarebbe morta, che non rientrava nel suo ordine l’idea di staccare le radici dal lembo di terra più vicino. Dirle che l’acqua più buona è sempre quella lon-tana non poteva essere una buona strategia. Era una questione delicata, e volevo rifletterci ancora un po’ su, anche perché mi stavo invaghendo di Emanuela. Proprio la sua voce mi rapì nel secondo messaggio in segreteria.

– Ehi, mi sarei sorpresa di trovarti! Meno male, ora sono più tranquilla e posso confermarti che il 15 viene Dylan al Palasport e che ho già preso i biglietti. Rumore infernale di camion. Va tutto bene. Mi sono già inventata una scusa a casa: quella sera andrò a trovare mia nonna a Tivoli e farò tardi. Non mi aspetteranno. Fammi sapere. Mi trovi in ufficio ai soliti orari. Ciao ciao.

Emanuela era sposata con un brav’uomo, ormai prossimo ai cinquanta e molto distante dalle sue passioni. Un figlio, una casa al Quadraro, mobili qualsiasi e le pareti zeppe di foto di monta-gne e di prati. Lavorava nella segreteria didattica della mia scuo-la. Fu la prima persona ad accogliermi a ottobre.

– Buongiorno, sono Moresco. Ho parlato con lei al telefono per lo spezzone di Disegno?

– Sì, compili il modulo di accettazione. Si tratta di tre clas-si. Nove ore. La nomina è del Provveditorato quindi dura tutto l’anno, estate compresa. Tutto qua. Prende servizio già da doma-ni. Passi in vicepresidenza, che le daranno l’orario settimanale.

– Grazie. Potrò disturbarla ancora, se avrò bisogno di infor-mazioni? La vostra scuola mi sembra enorme.

– Vedrà che si abituerà presto. Chieda anche al vicepreside tutto quello che serve. Io sono sempre qui. Venga, l’accompagno.

Emanuela Baldelli mi passò accanto velocemente, muoven-do l’aria e facendomi vivere la prima di una serie di turbolenze.

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La seguii per pochi secondi lungo il breve tragitto da un ufficio all’altro, guardandole i bei fianchi e i lunghi capelli castani.

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Mentre il sibilo del telefono mi avvisava dell’imminente ascolto del terzo messaggio, si materializzò sull’anta della creden-za l’immagine del nostro primo incontro ravvicinato. Emanuela stava smadonnando davanti al cofano della sua Renault bianca, nel parcheggio dell’istituto, proprio accanto al mio Boxer. Mi vide, mentre arrivavo, e mutò il suo sguardo e le sue espressioni.

– Non parte?– La macchina ha deciso di prendersi una vacanza, proprio

oggi. Non è la prima volta, e sempre nei momenti sbagliati. Uffa!Che bel broncio, quello di un cucciolo ferito da curare.– Se si fida, ho un posto libero. L’accompagno a casa?– Ma guarda cosa mi doveva succedere!Le leggevo in volto l’imbarazzo e la necessità.– Ma si può andare in due? – disse.– A Roma sì. A meno che la sua casa sia un po’ più lontana.Salì con qualche esitazione. Scrutò il parcheggio per trovare

una veloce alternativa. Ma c’eravamo solo noi due, gli altri inse-gnanti erano già fuggiti. Non vidi la falcata ma percepii il con-tatto della sua pancia contro la mia schiena e intuii la presenza incerta delle sue mani. Le diedi qualche istruzione essenziale per questa lezione di sopravvivenza sul mostro meccanico.

– Metta pure le mani sulle mie spalle. I piedi li ha appoggiati bene? Ok. Lei deve solo dirmi la strada che fa di solito.

Sospiri, sbuffi, strette profonde, pressioni sublimi, talvolta i suoi capelli sul mio volto quando mi voltavo per sentire meglio i suoi ordini in corsa. In questo caso, avvicinavo l’orecchio sinistro alla sua bocca a tal punto che avrei voluto farmelo mangiare. Emanuela mi stava già mangiando, senza che ne fosse consape-vole. Io mi stavo offrendo, come già con altre donne. Abbracciàti senza guardarci in faccia, ci eravamo immersi in un vortice fatto di svolte a sinistra, a destra e di file di auto sorpassate sulla linea di mezzeria. Ai semafori ci acquietavamo entrambi, le mani si distaccavano appena e così anche il suo ventre.

– Siamo quasi arrivati. Te la cavi bene! Sul motorino ci si mette meno tempo. Quanto costa un coso così?

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Queste, durante il viaggio, le uniche sue frasi che non fossero indicazioni stradali. Sarà stata l’ansia, sarà stata l’eccitazione, ma mi aveva dato del tu. Non pensai in alcun modo di sfruttare questa opportunità. Arrivati davanti al suo portone, Emanuela scese tremando sulle gambe e lisciandosi la gonna. La pettinatura scombinata la fece sembrare un angelo della savana. Non me ne stavo innamorando, avevo altre faccende a cui pensare, Giuliana rimaneva sui bordi del quadro, il giorno dopo avrei avuto il col-legio docenti e al giornale dovevo far avere il pezzo sulla raccolta di poesie del figlio del consigliere di zona. Le sorrisi premuroso.

– Tutto bene?– Wow, lo sai che è la prima volta che salgo su una moto?– Motorino, prego. Mi viene comodo durante il giorno. Di

sera uso la macchina. Piuttosto, faccia venire un meccanico a scuola per la sua. Domani non potrò accompagnarla perché ab-biamo orari diversi.

Quale intimità spezzata! Mi davo e non mi davo, un po’ come quelli che non vorrebbero mai fare la prima mossa. Ma prima mossa di cosa? Per me quello era stato un semplice passaggio di emergenza. Ma per Emanuela l’evento si era trasformato, in circa venti minuti, in una specie di valico.

– Dammi del tu, a questo punto. Io, in fondo, mi sono fidata.– Grazie di cuore. Buona giornata, allora.– Ciao, Rocco. Spero di poter ricambiare il favore.Appoggiò la mano sulla mia che nel frattempo non aveva la-

sciato il manubrio. Seguii i suoi capelli e i suoi fianchi, stavolta con più attenzione.

Da quei giorni al nove gennaio successero diverse situazioni, tutte tenui. Si è andati dai chiacchiericci nell’atrio ai commenti sul clima, ma c’è stato anche un caffè al bar di fronte alla scuola e una cena a San Lorenzo.

Alla cena ci arrivammo per gradi. Seppi da lei della sua passio-ne per il rock, per me un’autentica sorpresa dietro quell’apparen-te assetto asettico da segretaria. Credo sia stato questo il colpo di

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grazia che mi fece riconoscere in lei una possibile sorella, perché cominciavo a scorgere similitudini, affinità. E poi, come negarlo, ci si leggeva in faccia un leggero godimento ai nostri incontri. Mi sembrò di essere ritornato ai tempi della scuola, quando mi innamoravo come un bambino della ragazza che mi sorrideva nei corridoi. Adesso mi stavo innamorando come un ragazzo della donna che mi sorrideva nei corridoi.

Stavo diventando per Emanuela un’area sperimentale. A me riferiva voglie inconsce, rimpianti di cose non fatte, forse spe-rando che mi prodigassi per rendergliele possibili. Non si tratta-va di desideri irrealizzabili, ma pericolosi. Il che cominciava ad eccitarmi. Voleva, ad esempio, che la accompagnassi a visitare la Galleria d’Arte Moderna.

– Domani pomeriggio mio figlio è al dopo scuola fino alle cinque. Potremmo andarci dopo pranzo. E poi mi piacerebbe andare a mangiare in qualche postaccio a San Lorenzo, in mezzo alla confusione, ai camerieri che corrono, con la fila di gente fuori dal ristorante!

Osai l’inverosimile, mentre le passavo la bustina di zucchero durante la pausa al bar.

– Perché domani pomeriggio non vieni a risentirti tutta la musica che ti sei persa a casa mia? Non abitiamo lontani.

Si girò con disinvoltura verso la sala, prendendo tempo e ac-certando l’assenza di qualche collega. Mentre girò, fissandolo, il cucchiaino nella tazzina, emise il verdetto.

– Pizza a San Lorenzo. Dopodomani sera alle nove, mi vieni a prendere due portoni dopo il mio.

E così andò. I sudori a intermittenza si sprecarono, ma fu maledettamente intrigante, un’autentica serie di attese e sguardi circostanti, come due ladri appena usciti dalla casa rapinata e subito immersi nella folla. Da allora ad adesso che era gennaio ci eravamo parlati, sorrisi e coccolati. E basta. Il nostro gioco era stato lo slalom. Avevamo dribblato famiglia e lavoro (lei), fidan-zata e lavoro (io). E ora mi aveva appena annunciato l’ultima

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sfida: un concerto, potrei dire quasi organizzato da lei, del gran-de Bob, un capolavoro di strategia, un delitto perfetto. Giuliana continuava a permanere sul bordo del quadro, e avrei dovuto decidermi a parlarle.

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Il terzo messaggio fu di Silvio.– Rocco, sono Silvio, il fidanzato di Elisabetta. Ti ricordi di

me? Ci siamo conosciuti a Massenzio quest’estate, prima del film, del Napoleon di Abel Gance. (Silenzio. Un sospiro). Co-munque, ti telefono per chiederti se hai visto in questi giorni Elisabetta. Non prendermi per pazzo, è che sono sette giorni che non si fa trovare in casa. Non è neanche alla boutique. A sua madre ha detto che è andata a trovare un’amica di Firenze. Non l’ho voluta spaventare: le ho subito detto che era vero, che mi ero dimenticato. Non so se l’ha bevuta. Tu, per caso, l’hai vista, non sai se è da qualche parte? Scusami, ma sono preoccupato. È sparita senza dirmi nulla. So che tu sei un suo amico. Le sto provando tutte. Il mio numero è 7856221. Chiamami anche se non hai notizie. Grazie. Ciao.

– Hai provato a chiamare Andrea? – fu il mio immediato pensiero. Avrei dovuto telefonare al mio amico ad Arezzo? Nem-meno per sogno.

L’ultimo messaggio fu in apparenza poco utile alla mia in-dagine, allo stesso modo dei due precedenti. Comunque, avrei dovuto fare due telefonate più o meno tranquille, a Giuliana e a Silvio, mentre la terza mi metteva i brividi. Però avrei potuto tentare.

L’avevo già fatto una volta, e mi andò buca. Emanuela non rispose, bensì si affacciò dal ricevitore un lamento infantile che urlò un – Pronto, chi sei? Pronto? – che mi gelò. Non le riferii l’accaduto. Stavolta, però, Emanuela meritava il rischio. La mia nuova amica e sorella si era data così da fare che doveva essere premiata. Ricordo che non esitai un istante. Appena il tempo di cancellare i messaggi, annotare il numero di Silvio, e poi fare il 7482338, lentamente.

Primo squillo.Secondo squillo.Stai pronto a metter giù, alla prima lettera pronunciata da voce

non femminile.

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Terzo squillo.Metto giù, al prossimo, prometto.– Sì?Era lei.– Emanuela Baldelli? Parlo con la segretaria del Liceo Scien-

tifico Newton?Silenzio e un rumore di sedia.– Sono io. Con chi parlo?– Sono Rocco Moresco, insegno nella scuola suddetta e vole-

vo chiedere se potevo parlarle. Se le condizioni ambientali non lo permettessero, riattacco e ci risentiamo.

Il suono della sua risata trattenuta lo ricordo ancora adesso, che sono passati diversi anni e tanti rimpianti da allora. Credo che le immagini più persistenti della mia memoria non siano stati gli svolgimenti dei fatti bensì i particolari più brevi, i suo-ni delle campane, le occhiate della professoressa di francese, il profumo dell’erba tagliata del giardino dell’asilo, il calore sul-la pelle colpita dal calcio di un missino, la forma di un raviolo confezionato da mia madre, un urlo di disapprovazione di papà. Insomma, tutti quegli scricchiolii che accompagnano un viaggio in una barca a vela. Mi hanno fatto compagnia.

– Ciao!– Disturbo? L’ora è indecente, lo so. Metto giù?– No, no. Possiamo parlare. Non mi aspettavo proprio questa

telefonata! Sei a casa tua?– Sì. Ho ricevuto il tuo messaggio e allora ho pensato...– Dove sei finito? Ti ho chiamato due giorni fa, sperando di

vederti ieri a scuola, ma non sei venuto. Sei in malattia? Guarda che devi avvisare la mattina se non vieni a scuola, così possiamo sostituirti.

– Prego?– Ci siamo inventati qualcosa e il preside non ne sa nulla,

però domani hai lezione. Qualche problema?Fissai con insistenza una gamba del tavolo. C’era qualcosa che

non tornava, che non ricordavo.

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– No. Anzi sì. Ho dovuto correre all’improvviso da un mio parente fuori Roma e mi sono dimenticato di chiamare. Non ha il telefono e vive in campagna. Domani torno, stai sicura.

Cosa stava succedendo? Stavo chiudendo una falla del fondo della nave con la mia bocca ma mi stavo riempiendo di tutta l’ac-qua dell’oceano. Non riuscivo a godere della gioia di quel con-tatto che avevo sperato, ottenuto e perso nello stesso momento.

– Che sorpresa! Mi fa piacere, davvero. Non sono abituata a sentire la tua voce qui dentro.

Silenzio, da parte mia. Stavo cercando di organizzare qualche frase, ma lo sbandamento mi stava annientando. Dovevo chiu-dere. Era facile.

– Allora, andiamo a vedere Dylan! Bene, mi dirai dove e quando venire a prenderti. Non voglio trattenerti oltre. E poi non sarai sola.

– Già. Be’, allora ci vediamo a scuola. (La voce si abbassò). Io non sto più nella pelle per quel concerto! Ti dovrò dire una cosa molto importante.

– Allora ciao.– Ciao, e grazie. Buonanotte.

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Mi sedetti e misi la testa tra le mani. I gomiti erano delinea-ti perfettamente sul bianco libero e inusuale del tavolo. Pensai, scrutando il rubinetto del lavandino, che Emanuela mi aveva appena dato una notizia che mi riguardava e che non conoscevo.

Il giorno prima non ero andato a scuola, proprio io che stavo attento a tutti i miei piccoli e grandi doveri.

Dove ero andato a finire ieri? E oggi? Presi un foglio e tracciai assurdi appunti.

Scuola: martedì, giovedì, sabato.Sei gennaio: festa.Martedì otto: pomeriggio redazione.Mancano: martedì mattina (notizia di Emanuela) e sera, mer-

coledì 9 gennaio tutto.Mi sentii un cretino poiché per un attimo mi vedevo uguale

a quelli che nei libri ricostruivano il loro passato tramite lunghi capitoli di rievocazione dei traumi adolescenziali, affinché tutti noi si potesse riflettere sul fatto che eravamo figli di quei traumi, gli stessi elencati dall’autore che arrivava a darsi delle certezze, e a sembrare ancor più idiota come tutti quelli che credono di averne, di certezze. Io in quel momento non dovevo affrontare i traumi di tutta una vita ma avevo anch’io il bisogno di ricostru-ire. Dovevo solo ricordare quello che avevo fatto appena poche ore prima. Ma sulla base di cosa? Rispetto a tutta un’adolescenza, una giornata e mezza non dovevano essere così difficili da rimet-tere insieme. Ma io non ne avevo la più pallida idea.

Di lunedì 7 qualcosa mi ricordai. Sia della mattina che del-la sera. La mattina ero nella segreteria generale dell’università a richiedere per la centesima volta il diploma originale di laurea.

– Mi scusi, mi sono laureato cinque anni fa. Mi chiamo Mo-resco Rocco.

– Adesso guardo. Numero di matricola?– Non posso ricordarmelo.– E io come ci arrivo al suo diploma?– E io dove vado a trovarlo il numero di matricola? Non ci

può arrivare dal cognome?

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Questa scena si era ormai svolta fino alla nausea e si con-cludeva sempre con una finta ricerca dell’impiegato che dietro lo sportello di vetro consultava un cassetto pieno di cartoncini verticali. Non si riusciva a intravederne il contenuto. Per me po-tevano essere di tutto: cartelle cliniche, riviste sportive, cartoline. Dopo di che la faccia afflitta poneva la fine inappellabile della rappresentazione.

– Provi a ripassare tra un mese. Non c’era il tempo di replicare: la fila stava già divorandomi

il sedere. Lunedì mi era rimasto in testa. Il pomeriggio non lo ricorda-

vo, ma la sera sì. Senza rincasare, mi recai in redazione. In genere era, quella, l’unica sera in cui ci si trovava con il direttore per definire l’impostazione del numero che da lì a due giorni dove-va essere chiuso. Le riunioni duravano fino a mezzanotte, poi si sarebbe andati da Quirino a mangiare un piatto di fettuccine e poi a casa. Tutti seduti intorno al tavolone rettangolare rivestito di laminato grigio, si attendeva il capo e intanto si anticipavano alcune priorità. Come sempre, fu Monica a dare ordine e gerar-chie.

– Ragazzi, il prossimo numero avrà otto pagine, su trentadue, di pubblicità della concessionaria Vitaliani. Quindi regolatevi.

– Cosa? Scusa, se otto le dai a Vitaliani, altre otto sono dei normali sponsor, noi come scriviamo, in caratteri stenografici?

– Signori, se voi tirate fuori cinque milioni, io dico a Vitaliani di farsi fottere e voi scrivete tutta la Divina Commedia! Il giorna-le, forse fate finta di non saperlo, costa.

– Monica, Massimo non voleva fare polemiche, voleva solo dire...

– Rocco, non fare il solito avvocato delle cause perse! Monica ha capito benissimo cosa volevo dire.

– Fammi finire! Massimo capisce l’esigenza della pubblicità, ci mancherebbe. Vorrebbe, come vorrei io, capire se non sia pos-sibile un’alternativa che non riduca lo spazio per gli articoli. Che so, aumentare le pagine del giornale. Ho detto una cazzata?

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Entrò nel mentre il direttore, Virgilio Petrucci, meschino traf-ficone con cravatta a pois e amico di un consigliere provinciale che gli aveva trovato la legge e i soldi per finanziargli il giornale e in questo modo consegnarlo alla storia. Neanche in quell’occa-sione disse qualcosa di professionale, almeno di sensato. Per lui, fare il capo voleva dire solo impartire mandati, possibilmente di parte, e inventare un caso a settimana da sbattere in prima pagi-na, non importa se privo di veridicità o di riscontri: sognava di essere lui, un giorno, a dare per primo la notizia più clamorosa della storia del quartiere.

Purtroppo ci voleva arrivare per chiaroveggenza. Il suo motto, che spesso ci toccava ascoltare sorridendo di finta ammirazione, era: – La notizia non ti aspetta, devi costruirla.

Dunque anticipava indiscrezioni inventate, comandava di ricamare intere pagine su brandelli di pettegolezzi. Per il calco-lo delle probabilità, qualcuna delle sue panzane avrebbe potuto sfiorare, prima o poi, una verità. Da quando lo conoscevo io, solo una volta questo accadde: in occasione dell’arresto del suo vicino di casa, noto direttore di banca, tra l’altro della sua. Un anno prima, il capo si era lamentato degli interessi bassi del suo conto: bestemmiò più volte in redazione e promise un’indagine a tap-peto su alcune banche, inserendo pure quella. Di questo incaricò il redattore della rubrica economica e i commenti del giornalista furono desolanti, ma non erano uno scoop: le percentuali di in-teresse erano più o meno uguali in tutte le banche interpellate e i rendimenti irrisori. Ebbene, il lungimirante direttore, all’arresto del vicino, sparò in prima pagina: L’avevamo rivelato un anno fa. La Banca del Colle rubava! Addirittura, quella settimana, venne-ro acquistate nelle edicole ben settanta copie. In realtà la banca non c’entrava nulla, e l’arresto era dovuto a ruberie personali. Petrucci, nel numero successivo, era già passato ad altro, ad altre fittizie intuizioni da segugio di basso profilo. Per sua fortuna, la banca non sporse alcuna denuncia di diffamazione.

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– Buonasera a tutti! Monica, poi devo parlarti per quella pa-gina sulla nettezza urbana. Massimo, domani devi intervistare Meniconi per la questione dei parchi dei bambini: fagli dire che la giunta precedente se n’è sbattuta le palle del problema. Danilo, hai fatto il pezzo sul nuovo parcheggio di via Nocera Umbra? Rocco, la tua idea è come al solito tratta dal libro dei sogni.

Seguirono in rapida successione squilli di telefono, consul-tazioni di agende, battute pesanti, ammiccamenti, accensioni di sigarette, insomma il solito campionario di eventi irrilevanti eppure decisivi per la composizione di un ennesimo numero del settimanale al quale eravamo tutti affezionati. Petrucci calcava molto la mano su questo ultimo aspetto (– Piacerebbe anche a me lavorare senza sponsor; ma se non ci fossero, voi dove scri-vereste?). Poi si andava a mangiare, si diceva in quella sede tutto ciò che si pensava veramente, si illustravano le proprie ambizioni (– Se mi chiama chi so io, addio giornale! – oppure – Sono qui solo per l’accredito per la mostra di Venezia!) e poi tutti a casa a pensare ai fatti nostri.

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Di quel lunedì sera proprio adesso mi veniva in mente un particolare preciso, ora che il tavolo bianco stava illuminando i buchi della mia testa. Ricordai che Monica, all’uscita dal risto-rante, mi prese sotto braccio e mi chiese di fare quattro passi con lei. Voleva che qualcuno l’ascoltasse, ed io in particolare.

– La settimana scorsa Petrucci mi ha riferito una cosa che ti riguarda.

– Ho parlato male dei quadri del suo amico D’Andrea? Non ho colpe se ha rifatto pari pari Campigli! Non dirlo mi sembrava un incidente professionale.

– Macché! Lo sai che non legge quello che non gli interessa. No, si tratta di Giuliana.

– Giuliana? La Giuliana che conosco io?– La Giuliana che sta con te! Un pomeriggio ha chiamato al

giornale per chiedere tue notizie. Diceva che non ti trovava, che non ti trova mai, e ha chiamato da noi. Danilo l’ha passata al capo. E Petrucci l’ha fatta venire in redazione.

– Come mai?– E che ne so! Insomma, dopo un’ora era lì. Si è presentata a

me, a Danilo e a Petrucci. Carina.– E poi?Ero imbarazzato. Nessuno mi aveva detto nulla di questa visi-

ta, neanche Danilo, tanto meno il capo. Monica stava dicendo-melo in quel momento. Giuliana, per quello che sentii dopo un secondo, non l’avrebbe mai fatto.

– Non lo so. I due hanno parlato nell’ufficio di Petrucci. Lei è uscita dopo qualche minuto dalla sua porta. Si sono salutati. Si sono rivisti nel pomeriggio seguente, perché me l’ha riferito proprio lui in un orecchio. E mi ha anche detto... ok, te lo dico: l’ha rivista in centro, l’ha invitata al Caffè Greco e poi l’ha accom-pagnata a Piazza di Spagna, perché conosce un architetto che ha lo studio vicino alla fermata della metropolitana. Insomma, le ha promesso di farla lavorare lì. Poi mi ha confessato che la trova attraente e che ci ha fatto un pensierino. Scusa, Rocco, se

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te l’ho detto, ma non ce la facevo più a tenermi dentro questa roba. Non volevo che un giorno tu mi accusassi di non averti avvertito. Scusa.

È vero! Monica mi disse proprio questo, lunedì sera. Non era mica un fatto di poco conto. Mi riguardava, eppure ne avevo rimosso il ricordo. Forse il mio interesse per le cose di Giuliana era così basso da non restarmene traccia.

Pensai, con Monica sotto braccio, esattamente quello che pensavo in quel momento in cucina.

– Devo ringraziare Petrucci.A Monica, dopo mezzo minuto di silenzio, diedi purtroppo

modo di replicare.– Non c’è problema. Davvero. Hai fatto bene a dirmelo. Ok,

ti saluto. Ci penserò su.– Rocco, guarda che quel porco ci sta provando! E poi è il tipo

che andrà a dirlo a tutti, che ti sputtana! Se non gli spaccherai la testa tu, lo farò io. Ma ci pensi a Giuliana?

– Come dovrei comportarmi, me lo dici? Guarda che Giulia-na è grande abbastanza per poter decidere cosa fare della sua vita. Non sono il suo padrone.

– Sei proprio una testa di cazzo! Scusa, ma te lo meriti.Mentre guardavo la maniglia della finestra in cucina, mi ritor-

navano in mente le frasi successive di Monica, le insistenze per evitare che tutto precipitasse, la delusione per la mia non belli-geranza. Alla fine, esausta, mi lasciò dicendomi che non avevo le palle e che tutto quello che stava per succedere me l’ero cercato e mi stava bene. Grazie, di cuore. Non avevo voglia di dire che di Giuliana non mi fregava nulla da un pezzo. Volevo solo, ora che lo scoop era lanciato, organizzarmi un po’ meglio.

In quella sera di mercoledì nove gennaio, alle nove più o meno, sorrisi a quel ricordo. Pensai immediatamente che avevo un problema in meno: non avrei dovuto più dire nulla a Giulia-na, potevo solo attendere che le cose facessero il proprio corso. Petrucci le avrebbe fornito l’occasione della sua vita per cui lei

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potesse scegliere la forma di riconoscenza che ritenesse più op-portuna. Forse sarebbe stata addirittura lei a comunicarmi la fine del nostro rapporto. E il messaggio per il regalo di Loredana ser-viva solo a prendere tempo, a tenere sotto controllo la situazione. Questo pensai, ma solo con lo scopo di mettere una toppa su una fessura della quale non volevo più avere cura.

Cominciai piuttosto a preoccuparmi del mio ruolo in reda-zione. Se era vera l’angoscia di Monica, allora dovevo escogitare un modo per sopravvivere alle voci che sarebbero circolate sul mio conto, visto che – e qui Monica, come al solito, non era andata lontana dalla verità – Petrucci avrebbe potuto realmente annientarmi con la diffusione delle sue intimità con Giuliana. Me ne sarei occupato dopo, mi dissi. Ora volevo solo aggiungere un altro indizio al piccolo elenco manoscritto.

Ultimo ricordo: lunedì 7, mezzanotte – l’una: rivelazioni di Monica su Giuliana e Petrucci.

Questo aggiunsi agli stringati appunti scritti sul foglio. Perché in effetti, dopo quell’ora, non avevo altri elementi che potessero aiutarmi. Avrei potuto telefonare a Monica. 7243675.

– Chi è che bussa al mio convento?– Sono Rocco. Ma tu rispondi sempre così? Senza sapere chi

ti chiama? – Ciao. No, è che stasera sono un po’ sul depresso. Quello

stronzo di Francesco non mi ha chiamata per tutto il giorno, e mi sono sentita come una suora di clausura che aspetta chi non arriva mai. Non scherzo. Ero solo sopra pensiero. Che c’è? Hai dimenticato di darmi un articolo? Lo sai che il giornale è stato chiuso oggi pomeriggio.

– Lo so. Volevo solo sapere come stai.Stavo prendendola alla lontana. Questa specie di confidenza

con Monica talvolta usciva allo scoperto senza imbarazzi, perché dai tempi del liceo ci eravamo sempre seguiti a distanza ed ag-giornati occasionalmente. Entrai nel Tutto Tuscolano anche gra-zie alla sua segnalazione al direttore. Lei gli disse che in italiano

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ero bravo e che mi dilettavo di arte, una zona del giornale com-pletamente scoperta e capace di portare nuovi lettori se era vero che erano frequenti le mostre e gli eventi culturali nel quartiere: avrebbero così acquistato qualche copia l’artista, i suoi amici e i famigliari.

– Sto che tra un quarto d’ora vado a dormire, fregandomene di Francesco e del giornale! Non ci credo che mi hai telefonato solo per questo.

– Giuro! Ti ho vista un po’ tirata in questi giorni: l’altro ieri nella riunione, ieri pomeriggio…

Silenzio di tomba. Passarono alcuni secondi prima che l’inter-locutrice dicesse una parola.

– Ho capito, vuoi parlarmi di Giuliana e del capo. Ok, sen-tiamo, confessati meco, appoggia il tuo capo sulla mia tetta sini-stra e parla a cuore aperto. Poi vedrò se assolverti o se darti una penitenza.

Pensai, per un istante veloce mentre ammiravo i contorni del calcare sull’acciaio del lavandino, che diversi redattori sarebbero andati a tappeto dopo parole simili. Tetta, penitenza: Massimo, il buon padre di famiglia che scriveva di piani regolatori, ne sa-rebbe morto. Non ha mai nascosto la sua passione per Monica, o meglio la sua sottomissione. Ne adorava i lineamenti e i respiri, le occhiatacce e i movimenti. Quando le era vicino, soprattut-to in estate, faceva profondi respiri. Soggiogato completamente, spesso rimaneva come un ebete a rimirarla per ore, nascosto nel suo angolo facendo finta di cercare fogli e progetti.

– Monica, perché continui a parlarmi di Giuliana? Lunedì sera ti ho detto cosa penso della situazione.

– Cioè nulla. Tu non pensi a nulla! E Giuliana tra poco si farà sbattere dal porco senza che tu dica niente! Ci penserà lui a par-lare e a farti diventare il cornuto felice del giornale! Hai sentito cosa ha detto stamattina? E tu, neanche una parola. Compli-menti!

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Cosa aveva detto Petrucci questa mattina? Dove l’aveva det-to? In redazione, probabilmente. E probabilmente dovevo esserci anch’io. Ma l’avevo perso. Dovevo capire. Dissi qualcosa di in-definito.

– Ero distratto. – Ma come, anche quando ti ha messo una mano sulla spalla

e ti ha chiesto se non stavi lavorando troppo, se non stavi trascu-rando la tua ragazza? Stavi pensando ad altro quando ha ghigna-to e ti ha chiesto da quanto tempo non scopavi? Rocco, non ho voglia di ascoltarti un secondo di più!

– Dimmi cosa dovrei fare. Devo dargli un pestone? Gli parlo a quattrocchi e lo minaccio? Che prove ho, se non quelle che mi hai detto fuori dal ristorante?

– Ma tu hai parlato con Giuliana, hai cercato di capire come stanno le cose tra loro? Scusa, io non voglio impicciarmi, però dovresti farla scoprire, dovresti tirarle fuori questa cosa. Se poi lei è contenta così, amen. Per me, tu hai un solo dovere verso Giuliana: avvisarla che Petrucci è un maiale travestito, che è un sadico e che vuole portarsela a letto anche per mettere in giro la voce! Tu ne saresti contento?

Quasi urlava, Monica. Capivo che era davvero in pena per me. Io mi dimenavo invece tra due rapidissimi pensieri: da un lato mi veniva da dare per scontata la nuova opportunità per Giuliana, e per me questo voleva dire avere le mani libere per irretire Emanuela; dall’altro intuivo che il protrarsi della vicenda mi avrebbe gettato addosso delle rogne in redazione. Avrei anche potuto non rimanere più al giornale. In qualsiasi caso, Petrucci mi stava facendo la vita difficile là dentro.

Non presi immediatamente una decisione. O forse sì.– Non ne sarei contento, no di certo! Stasera, in realtà, ti

avevo chiamato per dirti che dalla prossima settimana potrei non venire più al giornale. Devo pensarci. Mi dispiace, ma è tutto fuori dal mio controllo. Potrei provare ad andare dal mio amico Davide.

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– Da quello dell’università? Da quello dell’agenzia dei senza lavoro? Non ti riconosco più. Dimmi che stai scherzando!

Davide era un mio collega di facoltà, laureatosi un anno dopo di me ma più celere a trovare un impiego, furbo com’era e lesto a riempire i buchi. Pensò che se non c’era lavoro, allora bisogna-va inventarselo. Presto detto. Conosceva il rettore e gli riuscì di convincerlo a finanziargli un’idea: quella di creare un ufficio che raccogliesse informazioni sulle aziende che cercavano laureati e sui laureati stessi che uscivano dall’università. Una vera e propria banca dati, si sarebbe detto qualche anno più tardi, che avrebbe cercato di far incontrare domande e offerte. Il rettore trovò l’ini-ziativa geniale. Se ne appropriò, ottenne i finanziamenti e instal-lò il relativo ufficio nella sede di Valle Giulia. Davide, da ormai quattro anni, era regolarmente stipendiato dall’università e la sua trovata stava anche funzionando, se già alcune testate nazionali si erano interessate all’esperienza.

– Perché, ti sembra una cosa insensata? E poi, io al giornale non so se avrò più voglia di entrare.

– Non combatti. È questa la verità! Hai gettato la spugna e io perderò un bravo collega. Veramente vuoi lasciarci?

– Non lo so. Ti telefonerò tra qualche giorno. Domani chia-merò Petrucci. Gli dirò che mi prendo una settimana di riposo. Ti va se ti invito a cena una delle prossime sere? Se deciderò di lasciare il giornale, le uniche cose che mi mancheranno saranno le tue tirate d’orecchie. Ci sentiamo. Buona notte.

Stop. Il telefono fu messo giù con delicatezza, senza rumore. Il momento non ne aveva bisogno. Ci voleva molto silenzio. In pochi minuti avrebbe potuto chiudersi una piccola pagina del mio romanzo, una parentesi della mia carriera. Chissà se avrei fatto ancora il giornalista, se avrei potuto inseguire di nuovo il profumo dei colori ad olio, se avrei ancora ascoltato i nuovi pro-feti dell’arte di periferia, gli inventori cialtroni delle rivoluzioni estetiche. Pensai di non essere così indispensabile, per questo.

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In cucina regnava la quiete più assoluta, disturbata ad inter-mittenza da un latrato incarognito che veniva dall’altra parte della parete divisoria dell’appartamento accanto. Nanni, in quel momento, mi sembrò un deficiente che voleva costringere una bestia dalla taglia esagerata a comprimersi in un bilocale, così come fanno molti amici degli animali, ignorando deliberata-mente la loro indole. Unica concessione: la cuccia sul balcone, monumento ridicolo alla idiozia dell’uomo che relega in una pri-gione da cinquanta per cento centimetri il suo amato compagno di passeggiate e di carezze. Le cucce sui balconi erano tra le visio-ni che più sconvolgevano i miei sentimenti. Quasi mi scendeva una lacrima al cospetto di cotanta costrizione: quando ne intra-vedevo una mi commuovevo impotente, allo stesso modo in cui da bambino assistevo sconvolto alle impiccagioni delle lucertole da parte dei miei amici. Che compassione.

Provavo compassione per quasi tutto ciò che vedevo. Mi è sempre sembrata, anche ora che sono vecchio, una necessità, un riscatto che mi facesse apparire più leggere le cose, più sopporta-bili e più chiare.

– Chi piange non sempre si dispera: le lacrime ti laveranno gli occhi, ti aiuteranno a vedere meglio, tesoro mio.

Mia madre non aggiungeva ulteriori carichi alle visioni apo-calittiche che mi toccava di conoscere ad ogni nuovo giorno. Pensava che non ci fosse stato bisogno di incutere paure e mi-nacce ad un bambino che non aveva ancora difese, che avrebbe avuto tempo per spaventarsi. E quando assistevo a una storia brutta, invece che trascinarmi via, si applicava a modo suo.

Usava la sottrazione. Il ricordo più antico che conservo è quello di quando lei mi

portò ad Ostia, alla spiaggia libera. Mio padre, quel pomeriggio, non era a Roma perché era commissario d’esame a Ciampino.

– Mamma, mi porti al mare?– Dopo pranzo. Fammi finire il bucato, prima. Poi ti faccio

un bel piatto di pastasciutta...

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– Col ragù?– Col ragù! Poi prendiamo la metropolitana e ci andiamo a

fare un bel bagno.– Posso portare le formine?– Tutte quelle che vuoi, basta che ci stiano nel borsone.Ero un patito delle costruzioni di sabbia, un architetto da

bagnasciuga. Furono gli unici progetti edilizi che realizzai. Nelle mie microcittà ci mettevo i miei soldatini di plastica dura, un esercito composito di indiani, cowboy, Biancaneve e i sette nani trovati nel detersivo. Ambientare le storie in quegli scenari era una passione indicibile. Mia madre, sotto l’ombrellone, si limi-tava a sorridermi e a farmi bere ogni tanto un bicchiere d’acqua e a lavorare di uncinetto all’ennesimo maglioncino.

Quel pomeriggio, mentre il tenente Johnny conduceva la sua squadra su un impervio sentiero farinoso per prendere alle spalle Biancaneve e attaccarla, il silenzio luminoso del mare fu interrot-to dalle urla strazianti di un uomo che era in ginocchio davanti ad un corpicino disteso. Mi alzai di scatto e lasciai lì i pupazzetti. Mia madre restò seduta e mi chiese di avvicinarmi a lei con un gesto della mano. Insieme vedemmo una piccola folla intorno all’uomo e a quel bambino. La voce di mamma, nel mio orecchio sinistro, sostituì per un istante quei suoni strazianti.

– Stai tranquillo. Se non vuoi, non guardare.Volevo guardare. Era la prima volta che assistevo ad una scena

così piena di persone e di movimenti. E poi non capivo perché tutto quel rumore per un bambino che dormiva sulla spiaggia. Lo dissi a mia madre, rivolgendole lo sguardo e impattando nel suo occhio destro.

– Non sta dormendo. Quel bimbo è morto, ma questa è una cosa che non capita sempre.

Cioè non capitava spesso che i bambini morissero, questo vo-leva dire. Io lo capii subito.

– È stato sfortunato, – dissi con un filo di voce.

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Fissai la folla che intanto aumentava di numero, così come crescevano le grida del padre. Due uomini in pantaloncini e ca-nottiera portarono ben presto una barella di cotone verde, ca-ricarono il bambino e lo portarono via insieme all’uomo, con passo veloce. Mia mamma mi sorrise e mi diede un bicchiere d’acqua. Io le diedi un bacio forte sulla guancia e ritornai ai sol-datini immobili sul crinale dove li avevo lasciati. Decisi che il tenente Johnny andasse da Biancaneve in missione di pace. Poi li feci sposare.

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Allo stesso modo in cui mia madre sottrasse a quell’evento qualsiasi aggiunta pittoresca o spaventosa, io cercavo – stavolta come altre volte – di vedere le cose esattamente come stavano. Se fossi uscito fuori dal giornale, dalla vita di Giuliana, dalle battute, dalle voci, mi sarei solo liberato da un bel peso. Avrei dovuto rinunciare, però, a quella piccola entrata. Davide era solo una speranza, non avevo certezza alcuna che potesse accogliermi a braccia aperte, e anche se l’avesse fatto chi poteva dire quando avrei potuto cominciare ad intascare qualche soldo? Forse era questo ciò che più mi preoccupava, più di tutto il resto. Le ri-sorse sul mio conto non sarebbero bastate per sostenere le spese ordinarie per più di due mesi, basandomi solo sullo stipendio della mezza cattedra.

Le urgenze cominciavano a diventare troppe per i miei gusti. Mi era passato anche l’appetito e la curiosità di guardare la mia agenda, che restava sempre lì sul frigo. Non volevo però intristir-mi. La ricostruzione della mia immersione nella roggia poteva anche attendere. Telefonai a Davide, come era logico. Non mi riusciva, d’altra parte, di aspettare le mie sorti. In genere con-trollavo l’orologio, verificavo che i tempi fossero decenti e poi, trattenendo il fiato, mi mettevo in moto, talvolta con la mia bor-sina di tela che conteneva le mie carte più utili, stavolta con il telefono.

– Ciao, Rocco! Non mi disturbi. Tra poco non mi avresti tro-vato perché sto uscendo per andare al cinema. Come va? Non so più nulla di te da quella volta che ci siamo visti con gli ex di architettura. Dimmi.

– Ti dico che ho uno spezzone al Newton e forse sto per li-cenziarmi dal giornale dove lavoro. Ti ricordi? te ne ho parlato. Allora ho pensato a te, a quella vecchia proposta di lavorare nella tua agenzia.

Seguirono minuti e minuti di parole e circostanze che gira-vano tutte intorno al fatto che non ci fosse proprio speranza. Davide si rammaricava, si scusava, si giustificava.

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– Non ti sei fatto più sentire, se no ti avrei tenuto in conside-razione, tanto più che sei un amico.

I posti erano al completo, però mi avrebbe fatto sapere in futuro. Chiuso.

Ci voleva un momento di vuoto, di silenzio, di pulizia. Tirai un bel respiro e iniziai a prepararmi una pastasciutta.

Veloci, i momenti più difficili dovevano passare veloci. Quella sera doveva interrompersi al più presto, dovevo chiudere dietro di me tutte le porte, mettere i punti a concludere il maggior nu-mero di frasi possibili. Decisi di dimenticare tutto per un istan-te, staccando la corrente per prevenire un corto circuito. Solo l’immagine di quel fosso in quel pomeriggio mi occupò la mente mentre sbucciavo una mela: per il resto, non riuscivo più a pen-sare ad altro. Forse ero giunto ad uno dei miei frequenti istanti di equilibrio assoluto, di immobilità di pensiero e di azione. Un po’ come quando da piccolo cadevo in trance. Da grande, invece, i momenti di incoscienza arrivavano pianificati, al termine di una lezione, di un consiglio di classe, di un articolo. Erano spiragli di pace, disintossicazioni dell’anima, attimi in cui mi sembrava che tutte le miserie umane potessero placarsi. Mi piaceva pensare che la mia inattività coincidesse con quella di tutto il mondo. Quella sera si stava trasformando in quella notte, ed io cominciavo ad essere un po’ stanco. I piatti li avrei lavati il giorno dopo, la tova-glia poteva restare là dov’era, non avevo neanche più la forza di fumare. Buona notte, Rocco.

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Arrivai a scuola alle nove, un quarto d’ora prima dell’inizio della lezione. In aula–insegnanti non incontrai nessuno, per for-tuna, e dopo aver preso il mio registro dal cassetto mi recai ve-locemente in segreteria. Emanuela era al suo posto, intenta in una telefonata convulsa con un impiegato del provveditorato. Mi sorrise e mi salutò con la mano sinistra aperta, per farmi capire di attendere.

– Scendo tra cinque minuti, – mi disse con una mano sul ricevitore.

Scendere voleva dire trovarsi alla macchina del caffè dell’atrio. Ritornai al piano terra, come un cagnolino. Non avevo strategie con le donne della mia vita: le assorbivo. Non avevo dei piani precisi né ne avevo per la maggior parte delle cose che facessi. A settantatre anni, lo posso dire con sicurezza. Quarant’anni fa tut-to questo mi sfuggiva, non mi interessava: i dipinti erano spesso bozzetti, i colori erano idee. Anche con Emanuela vagavo nel vuoto d’aria, come un astronauta che non cercava alcun punto fermo, convinto com’ero che quella fosse la condizione migliore – la più comoda, probabilmente – per fare meno scelte sbagliate possibili. Non avevo le palle, avrebbe detto Monica.

Emanuela scese molto prima del previsto, quasi insieme a me. Poca enfasi, per non dare nell’occhio: le bidelle erano appostate e al minimo passo falso avrebbero innescato le trasmissioni speciali su radio–scuola, con repliche all’infinito.

– Allora, bentornato! Non preoccuparti, l’altro ieri ha preso il tuo posto Benacci, senza che nessuno si accorgesse di nulla. Devi solo ricordarti di firmare sul registro.

– Grazie a te e a Benacci. Andrò a cercarlo.– Mi ha fatto piacere la tua telefonata. Me ne fai ancora? Puoi

mettere giù, se senti altre voci.– Se ti fa piacere... Ci vediamo. Vado a far lezione. Per il 15

mi va bene. Fammi sapere quando venirti a prendere.– Ok. Mi sentirai al più presto. E le tue vacanze di natale? Io

sono stata al Terminillo, come al solito. Tu avrai fatto cose sicu-ramente più entusiasmanti.

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Mi piaceva il fatto che non ci si desse mai appuntamenti, se non nelle rare volte che si organizzassero incontri clandestini. Non riuscivo a connotare quel tipo di rapporto, intriso com’era di precarietà. Probabilmente faceva pendant con tutto quello che mi stava capitando e perciò lo trovai congeniale.

Su un vetro obliquo conducevo i miei passi sbilenchi, non avendo una direzione precisa se non quella che non mi facesse uscire dai bordi. Forse ero stato vicino ad un precipizio il giorno prima, in quelle ore che non ricordavo. Neanche il sonno mi aveva reso il più vago indizio. Sarei ritornato a cercare di scoprire cosa fosse successo, ma l’avrei fatto solo dopo la lezione, dopo aver risolto la mia posizione al giornale, dopo aver letto l’agenda – che avevo sottobraccio, insieme al registro.

La campanella mi colse sulle scale. Entrai in classe e parlai del Brunelleschi. L’argomento non suscitò entusiasmi ma se non al-tro servì da spunto per parlare di Firenze, la meta della gita della settimana successiva, tanto più che la rappresentante di classe tirò fuori la piantina turistica della città. Riuscii a creare un silen-zio totale quando iniziai ad illustrare il significato di quelle linee su fondo arancione, di quelle piccole assonometrie di chiese. Gli alunni presero appunti sui percorsi più che sui monumenti, sulla strada più corta dalla stazione al duomo, sulla dislocazione dei giardini più grandi: era lì che ci si sbragava alla grande ed era quella la vera meta di tutte le visite studentesche. Già vedevo la macchia delle magliette colorate sull’erba, le urla sgraziate dei ragazzi che si sfidavano, gli sguardi persi delle ragazze che li la-sciavano fare.

Dopo due ore di immersione nell’Arno, suonò la ricreazione. Mi avviai verso il bar di fronte al cancello. Qui avrei ritrovato i soliti discorsi affrettati dei colleghi di ruolo che dall’alto del-la loro sicurezza occupazionale mi avrebbero guardato come un illuso che cerca l’oro nei fiori, dicendomi di non sforzarmi trop-po ad appassionare gli alunni perché a loro, dopo tanti anni di tentativi, non era mai riuscito. Io rispondevo che mi spingeva la

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mia euforia giovanile, che anche loro avevano cominciato come me salvo poi disilludersi strada facendo. Quel giorno il mio in-terlocutore era Salviati, un collega di lettere che era entrato in ruolo solo tre anni prima e che già parlava come un cattedratico di lungo corso.

– Caro Moresco, la verità è che ci pagano poco, pochissimo! I nostri sforzi vanno proporzionati ai nostri stipendi. Il resto sono chiacchiere.

Sorso di caffè, e nel mentre la mia replica.– Agli studenti possiamo dirgliele queste cose? Hai ragione

sugli stipendi, ma io devo dare a loro quello che mi chiedono.– Perché, ti pare che gli studenti chiedano? Questo vorrebbe

dire che pensano, e ciò sarebbe una scoperta stupefacente! Vai tranquillo, posso dirti con matematica certezza che a loro va bene tutto, purché studino il meno possibile. Non vedi come sono amorfi, privi di qualsiasi iniziativa? Ci facilitano solo il compito.

Al suo secondo sorso di caffè mi scoprii particolarmente te-nace.

– Va bene. Allora mettiamola sul piano deontologico. Cerco solo di fare ciò che la mia funzione mi richiede, visto che non me lo chiedono gli allievi.

Risata ed un accenno di applauso. Salviati stava già pensando alla schedina del totocalcio da compilare – un sistema ridotto, da dividere con altri undici insegnanti – e mi liquidò con una pacca sulla spalla, che per un attimo mi fece ritornare in mente Petrucci.

– Vai con Dio, amico! Ti do ancora due anni, poi la penserai come me. Ora scusami, ma devo cercare di arrotondare il mio mensile.

Attraversai la strada e ritornai nei corridoi del liceo, senza alcuna riflessione circa le previsioni del collega. Mi aspettava-no ancora due ore durante le quali dovevo istruire una seconda sull’uso della sanguigna per il chiaroscuro. In quel momento, mi sembrò un obiettivo irrinunciabile.

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Ricordo che mancavano pochi minuti all’una. Avevo l’abi-tudine di segnare sulla mia agenda i compiti che assegnavo alle classi. Non mi fidavo del registro, strumento che raccoglieva le direttive di tutti e che in breve si trasformava sempre in un’intri-cata selva di frasi che spesso, per mancanza di spazio, si sovrap-ponevano. Mi resi conto che stavo per aprire la mia agenda per la prima volta dopo il mio rientro, allo stesso modo in cui avrei voluto farlo la sera precedente. Fui preso da un fremito. Non mi sembrava adeguata la sede, ma le mie dita erano già in procinto di dischiudere le pagine. In una frazione di secondo scelsi di di-rigermi al foglio dell’otto gennaio, martedì.

Suonò la campanella con durata più lunga delle altre, anche lei desiderosa di porre fine alle sopportazioni degli alunni, questa fauna senza desideri che Salviati forse neanche vedeva quando era in classe. Io continuai a contemplare la mia agenda, senza tuttavia aprirla del tutto. Aspettavo che uscisse l’ultimo studente dall’aula. Avevo bisogno di un’assoluta intimità. Ora potevo. Ma la presi alla lontana, posizionandomi sul sette gennaio: in quel lunedì trovai traccia della mia visita in università (9.30: diploma laurea) e della riunione in redazione alla sera (20: giornale). Ma c’era qualcos’altro, uno scarabocchio messo tra i due appunti. Non era chiarissimo, anche se mi sembrò di leggere 16: telef. Andrea.

Entrò la bidella come un treno in corsa, inciampando in un banco e scaraventando una sedia a terra.

– Oh, non l’avevo vista!– Faccia pure. Io sto uscendo.– Scusi, ma devo pulire di corsa l’aula perché poi devo farne

altre tre e poi devo lavare il corridoio.Chiusi l’agenda. Mi ripromisi di continuare la lettura a casa.

Adesso non avrei avuto neanche modo di riflettere. Incappai in Emanuela che stava uscendo dall’ufficio per andare a mangiare un panino al bar. Il suo sorriso mi scosse, come sempre, e per induzione mi provocò un sorriso di risposta. Con queste espres-

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sioni ci riunimmo, come il fratello che, riconoscendo la sorella, le si avvicina per dirglielo con gli occhi. Scendemmo le scale sen-za dire nulla, a distanza di pochi centimetri, ma forse le nostre braccia riuscirono a toccarsi per un istante.

Scendendo i gradini, potevo sentire addosso il sapore del suo sudore; quello sfioramento mi stava rievocando i pochi momenti rubati nei quali ci si trovò in quei mesi e mi spingeva a deside-rare di poterne avere degli altri. Sapevo di provare i suoi stessi sentimenti che lei mi trasmise con i suoi rapidi cenni di intesa quando mi precedette sull’ultimo scalino, quando si voltò verso di me.

Avrei voluto seguirla, ma non lì. Emanuela si stava evolvendo in una necessità, in un impulso al quale rispondere senza pensa-re. Durante il mio tragitto di ritorno verso casa, mi convinsi di avere il suo stesso sangue.

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Mi ritrovai nella mia cucina. La borsina con i libri e l’agenda finirono sul tavolo, e così i due inviti trovati nella cassetta postale insieme alla bolletta della Sip. Ci misi su anche la copia di Tutto Tuscolano che recava i miei ultimi articoli. Decisi che il pranzo poteva aspettare e mi sedetti per consultare l’agenda e quell’ap-punto di lunedì pomeriggio, all’apparenza poco significativo. Mentre il mio sguardo si soffermava sullo scolapasta lasciato nel lavandino la sera prima, cercai di intuire un possibile contenuto di quella telefonata ad Andrea. Cosa avrei dovuto dirgli? O forse doveva essere lui a telefonarmi? Come succedeva in casi come questo, controllai che ore fossero – l’una e mezza: a quest’ora Andrea avrebbe potuto essere a casa per il pranzo – e mi mossi. 057543406.

– Ehi, tutto bene? Hai dimenticato lo spazzolino da denti ad Arezzo?

– No, quello l’ho riportato a casa. Caso mai volevo ancora ringraziarti per l’ospitalità. Mi sono rilassato, prima di riprende-re. Purtroppo al mio ritorno sono successi alcuni intoppi.

– Niente di grave, spero.– Vedi un po’ tu: Giuliana se la fa con il direttore del giornale

e io forse mi licenzio. Tutto qua.– No, cazzo! Di Giuliana forse ne stavi già facendo a meno,

ma del giornale mi pareva tu fossi contento. Non si può fare proprio più niente?

– Non lo so, ho pensato di lasciarlo appena ho saputo come si erano messe le cose.

– Pensaci bene!– E la telefonata di lunedì pomeriggio?La domanda era indefinita come i miei ricordi.– Vuoi parlarmi ancora di quella storia? Sei fissato, però visto

che ti sono successe quelle cose e che sei un amico vedrò di ascol-tarti. Ma solo cinque minuti, che devo mangiare e poi uscire.

Di quale storia parlava? Decisi di fare il sostenuto.– Voglio sapere cosa ne pensi tu. Io ho già parlato abbastanza.

Allora?

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– Ti ripeto che non me la sento di consigliarti. Però ti dico: vai fino in fondo! Ti piace, ti eccita, perché non te la scopi? È così difficile? Vuoi che ti dica come si fa? Guarda che tu te la stai contemplando troppo! Non vorrei che ne facessi una santa. E poi ti stai imbambolando! Non ti ricordi che mentre me ne parlavi, ti sei addirittura perso in casa mia, dove ci sono appena due lo-cali! Ci hai messo una vita prima di capire dove fosse il bagno. Bischero, cosa mi combini?

Gli avevo parlato di Emanuela. Dovevo averlo fatto in uno dei frequenti momenti di confessioni reciproche che avevano co-stellato quella settimana tra natale e capodanno ad Arezzo. Non ricordavo neppure questo, però intuii che si trattava di una cosa simile. Non avevo bisogno di sentire altro.

– Andrea, non ti ho chiesto di spiegarmi ma solo di ascoltare e di darmi un’opinione. L’hai fatto e ora sono contento. Lo sai che ho rivisto Emanuela proprio oggi? Tra una settimana andiamo al concerto di Bob Dylan. Dimmi che mi invidi!

– Amico, io l’ho visto dieci anni fa. Lui e Van Morrison, in-sieme. Non so se mi spiego! Be’, devo lasciarti. Oh, quando vuoi fare una fuga con la tua bella, sono persino disposto a lasciarti la casa per un paio di giorni. Fammi sapere. Ti saluto.

Stavo per chiedergli di Elisabetta, giuro. Mi sembrava che sa-pere le sue sorti mi avrebbe rassicurato. Ma non ne ebbi il tempo perché il telefono era già giù. E poi erano fatti loro.

Che io mi fossi confidato con Andrea, anche se non mi ri-cordavo fino a quale punto, non era preoccupante. Credo che avessi scelto di farlo per la sua esperienza nelle vicende amorose. Andrea mi piaceva per quel suo modo di affrontare gli eventi come venivano, non avendo tattiche precise bensì adattandosi come un elastico. Cercava di non farsi male e per ottenerlo, il più delle volte, zigzagava tra i flutti oppure camminava più alto e raggiungerlo era difficile, anche se da ragazzo una volta credo di aver sognato di essere come lui e fu quella l’unica volta che mi capitò di provare cosa volesse dire essere Andrea: il risveglio mi

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colse pieno di dubbi su me stesso. Mia madre, mentre mi prepa-rava il latte della colazione, aveva intuito che il mio sguardo fisso presagisse possibili delusioni, che il giorno mi avrebbe potuto donare disincanti. La mamma conosce meglio del figlio i suoi sogni perché è la prima persona che gli guarda il viso. Mi diede la scodella e il cucchiaio, aggiunse una carezza lieve tra i miei capelli e, andando verso i fornelli, si limitò solo a canticchiare la canzone che le piaceva tanto da ragazza, quando era corteggiata da mezzo paese.

Ad un ragazzo di sedici anni, lei non poteva più parlare per metafore perché la mia adolescenza era diventata supponente e arrogante nei suoi confronti, e anche ironica: non ne fu sconvolta più di tanto, aveva solo cambiato risposta. Si distraeva consape-volmente e lo sottolineava, generalmente declamando una poesia o intonando un ritornello dei suoi tempi. Anche in questo caso procedeva per inesorabile sottrazione: aveva progressivamente eliminato giudizi e consigli. Sapeva che non avevo voglia di chie-derglieli e lei mi reputò invincibile per questo. Ma aveva anche capito che era giunto il momento che io cominciassi a costruir-mi il mio mondo personale, quell’insieme di atteggiamenti, in parte inventati e in parte derivati dalla sua scarna tavolozza, che avrebbero definito il resto della mia vita. Le disillusioni erano lo strumento necessario per sbozzare la mia massa informe. Lei ci cantava sopra, per dirmi che non avrebbe più potuto intervenire, che il mio destino non le apparteneva, che avrebbe fatto buon viso a cattiva sorte.

Mi aveva avvisato con una piccola fiaba qualche anno prima.– Un giorno una rondine vide un suo piccolo intento a spic-

care il primo volo dal nido. Lei gli chiese se non fosse troppo pre-sto. Lui aveva già le zampette sul bordo e le disse che ce l’avrebbe fatta.

– E lei cosa gli ha detto?– Niente. Ha sorriso.– E lui cosa ha fatto?– Quello che fanno tutte le rondini: ha cominciato a volare.

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Avevo fame. Mi alzai dalla sedia e presi dal frigo lo speck. Fu il mio pasto, durante il quale non mi riuscì di staccare gli occhi dalla pagina del sette gennaio, da quelle poche righe. In mezzo a tutti i casini che avrei dovuto sostenere nelle prossime ore, mi procuravano un forte piacere i piccoli indizi di Emanuela. La ricordai molto durante quella giornata che stava per confezionar-mi le cose migliori, quelle che non ho dimenticato affatto.

L’agenda restò sulla pagina del sette gennaio perché fui distrat-to dal mio occhio destro che inciampò negli inviti su cartoncino. Ancora pittori. Da cestinare al volo. Tuttavia il passaggio alla pattumiera presupponeva ogni volta una veloce lettura, un’at-tenzione istantanea che rendesse almeno giustizia alla persona che aveva impegnato soprattutto i suoi soldi per pagare la tipo-grafia. Perché c’è sempre, dappertutto, un residuo di passione ed io, a questo, tributo il mio omaggio e la mia commozione: un pacchetto di sigarette accartocciato in un angolo di marciapie-de, un’insegna sgargiante di un negozio di abbigliamento in una stradina spopolata di periferia, un chiosco dipinto di verde che vendeva solo cocco e aranciate d’estate, una fotocopia calpestata che recava segni di penna blu.

Tutto mi coglieva di sorpresa e intento a rimirarlo, ogni parti-colare che riuscivo a intercettare emanava una sua impercettibile idea di profumo che mi stordiva improvvisamente, facendo di colpo irrompere nella mia testa quintali di immagini difficili da sostenere, di cui avrei pagato lo sforzo nei secondi successivi.

Il pacchetto di sigarette era stato accartocciato con l’ultimo briciolo di forza da un innamorato crollato all’ennesimo rifiuto, che vagò per due ore senza sosta da piazza Ragusa a San Giovan-ni in Laterano, avanti e indietro, per poi tornare in una casa che sapeva del sugo che sua madre aveva preparato.

L’insegna rappresentava un sole arancione che rideva di gusto e la scritta Sun Look di colore verde acceso, ed era stata dipinta di proprio pugno da una donna entusiasta di aprire un simile em-porio proprio lì dove non passeggiavano che sparute coppi di an-

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ziani, perché la vita per lei era una scommessa e voleva cambiare le regole, salvo che si trovò alle sette di sera sull’uscio a parlare con un signore che si lamentava della pensione.

Il chioschetto verde scuro, dipinto con decine di strati di ver-nice, fu il sogno di un marinaio a riposo che lo volle aprire per i suoi amici, per rinfrescare la gola e i ricordi, e che veniva chiuso d’inverno fino a quando fu chiuso per sempre alla morte del ma-rinaio e chissà cosa ci sarà dietro quella piccola saracinesca ser-rata, quali ultimi gesti saranno registrati dalla disposizione delle cose, quali furono i suoi pensieri mentre chiuse quel lucchetto l’ultima volta, quale camicia indossasse.

La fotocopia degli appunti di storia era sbiadita ma faceva risaltare, per questo, la scritta in blu cercare Sergio, cercare Sergio, come se la studentessa dovesse chiedergli un libro, un disco o il proprio cuore, come un urlo relegato in un rettangolo di carta per giunta disperso su un lembo di asfalto umido e sporco, mace-rato da cento scarpe e ruote di bicicletta e destinato ad evaporare in un inceneritore.

Tutto meritava rispetto, tutto aveva una sua storia, anche quei cartoncini che stavo per lasciare al proprio destino. Su uno c’era un volto in bianco e nero di donna, reso volumetrico da un chia-roscuro, e il nome della disegnatrice. Sull’altro veniva riprodotta una matassa di segni multicolori che non mi avrebbe né fatto gri-dare al miracolo né convinto a confermare il mio lavoro al gior-nale, tuttavia erano il nome e la fotina dell’artista a destare un barlume di interesse: Silvio Pastorelli. Il fidanzato di Elisabetta era pittore? Forse me l’aveva detto, forse no. Squillò il telefono.

– Ciao, sono Monica. Come stai? Cos’hai deciso per il gior-nale? Non ti ho più sentito.

– Non ho avuto il tempo di pensarci. Ho ripreso ad andare a scuola. Ma sto bene, tranquilla.

– Stamattina Petrucci mi ha detto che vuole parlarti con ur-genza! Ti telefono anche per questo. Sono dispiaciuta per quanto stia succedendo. E poi mi piaci come persona, lo sai questo?

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– Ti ringrazio. Sei molto cara. Ma riesco a farcela. Devo par-lare anch’io con Petrucci. Oggi sarà in ufficio?

– Arriva alle quattro, poi si ferma fino all’ora di cena, fino a quando non avrà smesso di parlare al telefono con i suoi assessori che gli diranno che il giornale gli è piaciuto, bla, bla, bla. Passi di qua?

– No, gli telefono a casa adesso.– Giusto, lì ora puoi trovarlo ed il telefono dovrebbe essere

più libero. A casa sua non deve dimostrare nulla, non deve grida-re “Onorevole, buongiorno!” o “Ciao, assessore, ci sono novità per il mio giornale?”. Ma ti rendi conto che potresti lasciarmi da sola con questa gente, che non potrei più avere neanche il conforto delle tue brevi apparizioni, delle tue cortesie? Prendevo a parolacce anche te, d’accordo, ma con te non mi veniva di af-fondare i colpi!

– Monica, davvero ti ringrazio per tutto quello che mi stai dicendo. Ti chiamerò per invitarti a mangiare una pizza la set-timana prossima, così ti dirò come sono andate le cose con Pe-trucci. Ok?

Petrucci abitava in un condominio di lusso in via Archimede, una sorta di albergo con il citofono. L’unica volta che convocò la redazione a casa sua, restammo stupiti di tale lusso. Pensammo l’avesse presa in affitto solo per quella riunione, ma la moglie ci raccontò che l’appartamento fu da lei ereditato e che lì i coniugi risiedevano da tanto tempo, almeno dal loro matrimonio cele-brato in Campidoglio dal solito assessore. Ci stupimmo, dun-que, e lui fu contento di questo, credendo di aver accresciuto le proprie credenziali ai nostri occhi. In realtà tra di noi si radicò l’idea che l’uomo fosse veramente più furbo del previsto, e che anche dal matrimonio avesse tratto i suoi bei vantaggi. Mentre componevo il numero, vidi esattamente il mobiletto del telefo-no collocato accanto all’ennesimo quadro di De Pisis. Da lì mi rispose Petrucci.

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– Moresco! Bravo che mi hai chiamato. Da chi hai saputo che ti cercavo? Da Monica, sicuramente. Voi due siete vecchi amici e non vi tenete nascosto niente. Da ragazzi eravate mica fidanzati? Non importa. Ascoltami, devo parlarti di persona. Io vado al giornale alle quattro: ci possiamo vedere alle tre nel bar di piazza Re di Roma? Ti offro un caffè, ti dico ‘sta cosa e poi torniamo al giornale.

Come al solito, Petrucci disse cento cose alla volta, con il con-sueto piglio da manager da quattro soldi. Ma lo capivo: come era vero che la miglior difesa fosse l’attacco, lui mordeva al collo ogni suo redattore prima che questi potesse reagire, che potesse dimostrare al capo sensibilità e cultura, preparazione e buon sen-so, doti di cui Petrucci era coscientemente privo. Ho creduto che si sia sentito disperato più di una volta per questo, singhiozzando sul suo letto matrimoniale mentre la moglie era al lavoro, con le tapparelle della stanza abbassate.

– Devo parlarle anch’io. Va bene, sarò lì alle tre. A tra poco.Erano le due e decisi di passare ancora mezzora seduto in cu-

cina, a cercare altri segnali di memoria. Una sola sigaretta sarebbe bastata a farmi ritornare la voglia

di girare la pagina e passare a martedì otto gennaio. Presi il po-sacenere nel solito posto e sedetti. Le prime due boccate le dedi-cai a me stesso e al manifesto della mostra di Andy Warhol che vidi nel Palazzo delle Esposizioni diversi anni prima, incantato dalle emulsioni dipinte ad acrilico del maestro americano. Nella locandina sotto vetro, posta in un angolo vuoto accanto alla fi-nestra di quella cucina che ormai non esiste più, o meglio esiste ancora ma chissà come arredata e con quali abitanti, era ritratta l’icona di Marilyn Monroe così come lui l’aveva resa celebre, con le pezzature cromatiche incongrue ed accese a colorare una foto di partenza in bianco e nero. La sua calligrafia mi piacque subito, la sua idea di manipolare le immagini della società consumistica mi sembrò una delle poche forme possibili dell’arte moderna, dopo le ubriacature impressioniste di fine ottocento e l’informità novecentista.

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Non ero veramente rapito da quella riproduzione – la sin-drome di Stendhal la provavo solo per le rappresentazioni fiam-minghe – ma guardarla ogni tanto mi faceva sentire a mio agio, come una musica di sottofondo sulla quale non ci si concentrava se non quando finiva il disco.

La terza boccata di sigaretta la dedicai al fogliettino autogra-fato da Emanuela che sbucò lateralmente dal diario. Me l’aveva consegnato di nascosto due giorni prima della chiusura natalizia della scuola. Auguri per le feste di natale da un’amica che ti ringra-zia. Avvicinai le labbra al lembo di carta così lentamente da sen-tire un leggero profumo di quelli che di solito mi stordivano. Lì dentro c’era Emanuela ed il tremore per l’ennesima sua audacia. Aveva scritto quella frase in chissà quale angolo nascosto, velo-cemente, forse qualche istante prima. Con la stessa ansia l’aveva nascosto nella sua borsetta, o più probabilmente nel portafoglio. Poi l’aveva trasferito in un taschino per poi stringerlo nella sua mano destra e infine, umido di fremiti, me l’aveva donato come un frutto proibito davanti alla macchina del caffè.

– Non leggerlo qui, ti prego! – mi aveva detto a bassa voce. Lo intuiva o no che mi stava dilagando dentro? Che tutti

quei rapidi scambi mi stavano spingendo inesorabilmente verso i suoi occhi, che avrei voluto baciarla davvero? Mi sembrò di essere uno strumento di verifica, che lei volesse condurre con me esperimenti sulle sue capacità di piacere, di suscitare interesse per un uomo. Lo suscitava eccome perché era bella, perché aveva gli occhi verdi, perché la sua voce mi confondeva, perché le sue gonne morbide agitavano l’aria. Il suo biglietto era un altro at-tentato al quale soccombevo con il sorriso, e mi augurai che non fosse l’ultimo, che altri piccoli doni potessero dilaniarmi le carni, perché era questa bramosia l’unica cosa per cui valesse la pena di vivere. A tutt’oggi, è la passione per lei l’evento principale della mia esistenza. Non ho nutrito altri amori, al confronto.

Ora che vivo da solo in queste tre stanze, in un condominio non molto lontano da quello di allora, dopo essermene andato

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via da Roma per poi avervi fatto ritorno dopo tanto tempo, re-spiro tutti i giorni quei ricordi, quei dolci profumi essenziali che ritornano a farsi sentire ogni volta che mi capita di passeggiare nel centro della città e di soffermarmi davanti ad una fontana, di sedermi su una panchina del Pincio, insieme ad altri anziani che come me sono in perenne balìa delle proprie nostalgie, come se solo nel passato si fosse risolta la felicità.

I miei pochi interlocutori non vogliono più vedere ciò che li circonda, non vogliono più stupirsi. Ed io vengo preso per pazzo se li esorto a vedere una mostra o a visitare un’altra città.

– Vacci da solo! – E così faccio, rallegrandomi se mi riesce di vedere cose sconosciute. Ho solamente paura di soffocare di nostalgia, come ogni vecchio che crede di aver perduto per sem-pre chi può condividere le sue scoperte. È l’abbandono che ogni tanto mi spaventa. E mi spinge a cercare conforto negli oggetti.

Mia madre mi avvisò anche di questo quando andarono via i nostri vicini, e tra loro Giuseppe, il mio amico delle sfide con le biglie di vetro, che non avrei più rivisto.

– Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do. E lo vuo-le il suo amichetto, che giocava nel boschetto. E lo vuole questo e quello, perché Rocco è tanto bello. E lo vuole la sua mamma, gli fa fare tanta nanna. E lo vogliono i suoi giochi, tutti insieme non son pochi.

I miei giocattoli mi aspettavano sempre, non mi avrebbero mai lasciato solo. Poi diventarono matite, quaderni, libri, qua-dri, dischi, film. Le donne e gli uomini che si sono affiancati a me sono stati come me, costruiti di materiale morbido, troppo vulnerabili. Ho gioito e pianto con loro per brevi periodi, ma sapevo che non erano quelli che avrei potuto portare con me negli anni a venire.

La perdita di Emanuela, così come quella delle dieci persone che hanno significato molto per me, veniva ad essere quello che era: un momento di umanità.

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Prima di uscire, decisi almeno di dare un’occhiata fulminea alla pagina del martedì. E cosi feci. Lessi in rapida successione quattro righe.

Prima della scuola: telefonare a Giuliana.Dopo pranzo: giornale per floppy.Ore 18: da mamma per regalo nonna.Ore 22: Elisabetta. Viale Jenner 43. L’ultimo appunto, letteralmente barrato, mi fece trasalire. Per

gli altri, decisi di ripensarci al ritorno dai miei impegni pomeri-diani. Ora dovevo raggiungere Petrucci. Non solo. Sul cartonci-no con il quadro astratto vidi che l’inaugurazione della mostra di Silvio era proprio alle 17 di quel giovedì dieci gennaio. Mi decisi ad andarci, non fosse altro che per sapere notizie su Elisabetta e dimostrare che alle telefonate di chi soffriva io rispondevo.

Tre meno un quarto. Presi dall’attaccapanni la giacca a vento ormai ripulita e asciutta. Poi le chiavi dell’auto. No, decisi di prendere la metropolitana. Solo le chiavi di casa, dunque. Le misi in tasca ma mi accorsi con la mano della presenza di un involto di carta. Lo tirai fuori. Era un foglio accartocciato.

Lo stesi e vidi un disegno a matita di un vialetto di campa-gna che si dipanava come un serpente bianco tra il grigio di un campo reso da puntini e tratti veloci. Restai fermo a guardarlo, in piedi davanti alla porta. Mi appoggiai con la schiena al muro. Tutto intorno a me si fermò, per poi scomparire. Entrai nel di-segno e lo vidi a colori. Mi trovai a camminare su quella strada, sentii sulla mia fronte l’umidità della sera invernale che stava arrivando, con la luce che mi lasciava troppo presto: se solo po-tessimo invertire i periodi di ora solare e ora legale, pensai. Allora decisi di fissare l’orizzonte che stava arrossendo. Non riuscii a sostenere tanta vista, al punto che fui costretto a socchiudere gli occhi. Fu allora che vidi definirsi i lunghi filari di alberi spogli sulla destra del paesaggio. Ancor meglio mi accorsi di una zona a me più vicina dove due grandi querce facevano da porta di ingresso ad un campo deserto. Girai lo sguardo verso di loro

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e mi dilettai a seguirne le linee dei rami nudi allo stesso modo in cui indugiavo sui percorsi delle pennellate fini dei quadri di Memling e Van Eyck, di fronte ai quali tributavo ringraziamento inchinandomi per vedere da vicinissimo i segni colorati, facendo suonare gli allarmi e beccandomi i rimproveri dei custodi.

Ero ai piedi dei fusti degli alberi e l’inclinazione del mio capo era aumentata man mano che mi avvicinavo. Mi stesi sul viottolo sterrato e guardai all’insù inquadrando proprio la selva dei rami delle due piante che in alto si intrecciavano tra loro, screziando il cielo con una fitta rete di segmenti, lasciando a malapena in-travedere lo spicchio della luna. Le mani toccavano la terra dura e fredda della sera, nessun rumore disturbava quella stupenda visione in cui mi stavo perdendo come mi capitava da bambino. Nel disegno trovai traccia di queste due maestose querce, proprio sulla destra della composizione. Le pieghe del foglio facevano scorgere a fatica una piccola silhouette orizzontale posta ai loro piedi. Ma nel disegno vidi anche le sagome abbozzate di due per-sone sullo sfondo del viale, ma non si capiva bene cosa stessero facendo.

Il suono del citofono mi riportò in un attimo a casa. Il foglio era ritornato un foglio con un disegno a matita che

appoggiai subito su un ripiano della libreria all’ingresso. – Signor Moresco? Una lettera espresso.– Sto scendendo.Sulla soglia del portone firmai sull’elenco del postino che mi

consegnò una busta giallina che non recava alcun mittente. La misi in tasca e mi avviai verso la fermata di Furio Camillo. Guar-dai l’orologio ma erano ancora le tre meno un quarto. Non avrei fatto tardi all’appuntamento con il direttore.

Sbucai dal basso verso la larga piazza rotonda dove bambini, mamme, passanti e automobili si davano da fare per comporre una rumorosa colonna sonora. Mentre raggiungevo il bar, guar-dai verso l’alto per cercare una finestra qualsiasi: chi abitava lì dietro doveva aver assuefatto il proprio udito a questo tappeto continuo di suoni. Doppi vetri, pensai.

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Petrucci era già seduto ad un tavolino, quello più lontano dall’ingresso, nell’angolo dei videogiochi. Si sbracciò per sicurez-za e mi preparò un largo sorriso.

– Ciao, Moresco! Accomodati. Ti va ‘sto caffè? O preferisci un succo di frutta, un amaro, un...

– Va bene il caffè.Per non perdere tempo, si alzò e andò a ordinare. Tornò, but-

tandosi sulla sedia e compiacendosi. – Allora, veniamo al dunque perché poi devo scappare al gior-

nale. A proposito, Rende mi ha telefonato per fare i ringrazia-menti per la tua recensione. Mi ha detto che è la più bella che gli abbiano mai scritto! Gli ho detto che sei il nostro vate dell’arte, che con te non ci si sbaglia. Non ti ho detto che è il cugino del comandante dei vigili urbani della circoscrizione? Ma passiamo ad altro.

Placò la sua concitazione per cinque secondi al punto che rivolsi lo sguardo verso di lui per sincerarmi che fosse ancora lì. Purtroppo era ancora lì e mi stava fissando.

Incappò nei miei occhi distratti.– Rocco, devo dirti una cosa delicata.Strano, parlava molto lentamente. Ancora cinque secondi di

silenzio.– Ah, ecco i caffè. Grazie, pago subito. Scusa, ma io metto il

Dietor. Qui ci sono le bustine di zucchero. Trangugiò il tutto senza che gli andasse di traverso, come in-

vece succedeva al giornale provocando risate trattenute a stento. Mi accorsi con la coda dell’occhio che mi stava fissando. – Devo parlarti di Giuliana.Posai la tazzina ormai vuota, sistemai il cucchiaino in paralle-

lo con il manico, accesi una sigaretta, gli rivolsi la mia attenzione e lo incoraggiai col mio silenzio.

– Ascolta, Rocco. Non voglio fare giri di parole. Mi sono in-namorato di lei. Adesso picchiami, così almeno la pago! Avanti, facciamola fuori!

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Lo fissai serio ma immobile. Lui aveva serrato le mani sui braccioli della sedia, pronto a rispondere a qualsiasi mio gesto ed aveva gli occhi fuori dalle orbite dallo sforzo. Io diedi una nuova boccata di fumo ed appoggiai meglio la schiena alla sedia. Parlò ancora lui.

– Allora? Forse non è questo il posto adatto, è vero. Dimmi tu dove.

Non riuscivo a capire se volesse liquidare la questione come se fosse una faccenda d’ufficio oppure se mi stesse provocando. In ogni caso avrei dovuto dire qualcosa. E subito, perché la situazio-ne stava diventando ridicola.

– Me n’ero già accorto, cosa credi, imbecille!Dargli del tu: fino a quel momento era un fatto del tutto

inedito per me come per qualsiasi altro redattore. E poi l’offesa. Pensai in una frazione di secondo – praticamente mentre lo stavo dicendo – che me lo potessi permettere. Continuai a fissarlo. E, visto che non accennava alla minima risposta, dissi ancora qual-cosa. Avevo nei polmoni più aria del solito.

– Ma veramente tu pensi che intorno a te vivano esseri senza cervello, senza occhi?

– Tu lo sapevi già. Te l’ha detto Monica, sicuramente!– Cosa te ne frega?– Senti, io non voglio che la cosa si sappia. Cioè, voglio che la

sappia solo tu, che al giornale non se ne parli. E poi, quando ho incontrato Giuliana mi è sembrato di capire che la vostra storia stesse finendo. Le ho chiesto se aveva voglia di rivedermi. È stato spontaneo. Lei mi ha risposto che la cosa le avrebbe fatto piacere. Abbiamo cominciato a frequentarci.

Neanche in quell’occasione perse il vizio di svuotarsi in fretta di tutte le parole che aveva dentro.

– Insomma, mi stai chiedendo il permesso?– Stiamo parlando tra persone civili. Vedo che tu stai capendo

la situazione. Giuliana sa quello che fa. Io volevo che tu lo sapes-si, che tu fossi a conoscenza da me dei fatti. Voglio garantirti che al giornale la cosa non si verrà a sapere!

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Alzai un po’ la voce, meravigliandomi che potessi farlo.– Ancora con la storia del giornale? E se ti dicessi che potrei

andarmene? So anch’io che Giuliana sa badare a se stessa, non dovevi dirmelo certo tu.

Petrucci continuava a fissarmi ma senza più ansia. Aveva aper-to le mani e le aveva portate sulle gambe. Io continuai a fumare, senza il bisogno di guardarlo, interessandomi di più ai listini del-le torte gelato. Sentii una voce sporca.

– Grazie! Io sono una merda, tu sei un bravo ragazzo. Grazie, Rocco, grazie!

La sua mano destra sulla mia spalla mi distrasse dalla lettura dei prezzi dei profitéroles. Lo vidi asciugarsi una lacrimuccia con un fazzoletto dalle righine verdi. Provai compassione anche per lui. Ma io non dovevo assolvere nessuno. Volevo che ognuno andasse verso il proprio destino. Volevo uscire di lì al più presto.

– Rocco, non lasciare il giornale! Questa sarebbe per me una punizione. Se vuoi proprio andartene, lascia che parli con un paio di direttori che conosco. Ti faccio entrare a Portuense News, ti va?

– Ora devo andare.La sua mano mi fermò mentre stavo per alzarmi dalla sedia.– Ho preso un appartamento in affitto per Giuliana! Lei vive

lì da ieri. L’abbiamo deciso pochi giorni fa. Mi pare che abbia risolto anche bene la cosa con i suoi genitori. È felice, lo capisci? Tutto così in fretta ma tutto così bello, mi sembra impossibile!

Riprese a commuoversi. Mi venne da sorridere, ma mi trat-tenni. Non riuscii invece a fermare una mia curiosità inutile.

– Vuoi separarti?Sapevo già cosa stesse per rispondermi.– Scherzi? Nel mio ambiente è meglio evitare cose del gene-

re! Mia moglie continuerà ad avere da me il poco tempo che le dedico. Giuliana mi ha chiesto di salutarti. Lei aveva già previsto come sarebbe andato questo nostro incontro. Me l’ha detto sta-mattina al telefono. Mi ha detto che tu capisci le cose al volo.

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– Saluta pure Giuliana. Per qualche giorno non cercarmi. Mi farò sentire.

– Non ti sto facendo un dispetto! Non parlerò a nessuno di Giuliana e se me lo chiederanno dirò che bisogna rispettare le scelte di ognuno, che sarebbe meglio che tutti si facessero i fatti propri!

Ero già vicino all’uscita. Credo di non aver percepito le ul-time parole di Petrucci, forse me le ero inventate. La piazza era così piena di sole e di aria che il mio primo pensiero fu quello di respirarla tutta.

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L’unica cosa da fare era quella di percorrere a piedi via Appia Nuova verso San Giovanni, a guardare vetrine e ad attraversare incroci. Era un’abitudine che avevo perso da troppo tempo, da quando avevo cominciato a diventare grande e a sostituire l’ozio con il negozio. Non disdegnavo di sentirmi impegnato, anche se di soldi ne vedevo pochi, ma rimpiangevo un po’ le tante ore passate a fare niente e a bighellonare tra un quartiere e l’altro, a non perdere neanche un sorso alle fontanelle che costellavano il percorso.

Avevo voglia di distrarmi, di dimenticare, di chiudere porte, di mettere punti, di pensare ad una nuova frase.

Avrei potuto cominciare con – Telefono a casa di Emanuela – ma anche quella mi sembrò un’intrusione. L’esigenza di ripensa-re alla mia indagine riguardo l’ammollo nella roggia non mi sfio-rò neppure. La mostra di Silvio si sarebbe inaugurata dalle parti di largo Torre Argentina e lì decisi di recarmi con passo lento, convinto che avrei potuto approfittare, in quell’ora e mezza che mancava, di un veloce ripasso dei luoghi della mia adolescenza.

Quasi mi meravigliai che non ci fosse una targa che ricordas-se che lì passarono Rocco Moresco e i suoi amici, tante furono le volte che camminai avanti e indietro su quei marciapiedi. In piazzale Appio mi soffermai all’imbocco di via Sannio e mi riap-parvero quei meravigliosi bagni di folla al mercatino dei vestiti, quando nuotavo tra chi vendeva jeans e magliette. Era tutto così compresso, il passaggio tra i banchi inesistente. Lì dentro mi sen-tivo qualcuno perché mi si dava attenzione.

– Maschio, te piaceno ‘sti jeans? So’ americani davero, mica de Napoli. – E io, mentre cercavo di tirare diritto imbarazzato, non rispondevo o rispondevo di no: il mio scopo non era quello di comprare ma di stare stipato lì, solo per farmi cullare dalla bolgia e poi uscirne invischiato ed esausto e poter apprezzare il contrasto della quiete.

In piazza San Giovanni volli sostare ai piedi della statua di San Francesco, dalle mani in alto. Questo era il luogo in cui

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preferivo dare gli appuntamenti. Mi avvicinai alle pietre del ba-samento perché mi ricordavo di aver scritto in un angolo con un pennarello nero, durante un’attesa snervante, il solito segno della falce e martello e le mie iniziali… E le trovai! Erano ancora lì! Piansi, me lo ricordo ancora adesso e ancora adesso mi viene da piangere. Mi misi in ginocchio per guardarle più da vicino. RM, e accanto, molto sbiadito, il resto di un graffito a forma di falce. Avvicinai gli occhi e il naso: ero Rocco sedici anni prima, mi vedevo tormentare il pennarello, segnare l’angolo di pietra, guardare l’orologio, non perdermi neanche un passeggero che scendesse dagli autobus, rassegnarmi.

Rimasi a guardare quei segni. Il rumore continuo delle auto-mobili amplificava i ricordi. Piccoli tonfi di passi sulla ghiaia mi dicevano che ero circondato dalla vita di altri individui. La loro scorreva via veloce, della mia vi era rimasta invece traccia. Un piccolo segno tra tanti. Mi ero preso la briga di andare a cercarlo. Fui fortunato.

Talvolta le mie passeggiate solitarie passano davanti alla statua di San Francesco, ci sono stato anche ieri. È da tempo che il co-mune ha ripulito le pietre, io però resto sempre qualche istante seduto in quell’angolo e ne accarezzo la superficie. Se è una gior-nata di sole, mi viene da chiudere gli occhi.

Via Labicana non era cambiata di molto da qualche anno prima. C’erano sempre i tram in mezzo alla strada, i soliti pochi negozi, i muri, San Clemente, l’hotel postmoderno e l’ingresso principale dei giardini del Colle Oppio a destra e di fronte la mole dell’Anfiteatro. Anche in quel pomeriggio di giovedì dieci gennaio 1991, mi chiedevo su quale marciapiede camminare, se su quello di sinistra o sull’altro. Era una delle domande più im-pegnative. Generalmente sceglievo il versante con più botteghe, con più elementi di distrazione. In via Labicana non c’era, però, molto da scegliere.

Passare davanti al Colosseo e percorrere via dei Fori Imperiali fu una sorta di passeggiata inutile. I luoghi non mi rievocava-

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no nulla che non fossero studi universitari. Qui non avevo altri ricordi. I mattoni, i marmi, i ferri incrociati delle transenne, i cubetti di porfido, questi materiali erano troppo duri e squadra-ti per adattarsi alle linee curve dei miei pensieri. Avevo sempre maledetto l’incoscienza archeologica di Mussolini e di Muñoz e seppellito sotto una valanga di pregiudizi quella lingua che univa il Colosseo con piazza Venezia. Quello era solo il posto dove portare i parenti che venivano dal paese. Lì portavo zii e cugini in assolate mattine di domenica, con gelati e famiglia a fare da degna cornice. Questo fino ai miei tredici anni, poi papà morì investito da una Lancia blu e per un po’ di tempo i parenti che vennero a Roma non vollero più fare giri turistici.

Di piazza Venezia mi piacevano molto le piccole aiuole messe ad angolo, poste accanto alla chiesa di San Marco e alla colonna di Traiano. Lembi di prato fatti apposta per stendere le membra di giapponesi o degli amici dediti all’immobilismo pomeridiano – ce n’erano di più vasti davanti a San Giovanni, ma qui era tutto più raccolto, una specie di salotto d’erba. Non mi distesi, come avrei avuto voglia di fare. Rimirai soltanto quel pezzo della piaz-za, mi soffermai sulle transenne basse fatte da tronchetti di legno e poi mi dedicai all’attraversamento del grande slargo, una delle operazioni più complicate delle passeggiate in centro.

Via del Plebiscito presentava subito l’incombenza della parete di Palazzo Venezia a ridosso della quale rimanevano perenne-mente folle immense di viaggiatori che attendevano i bus che an-davano alla stazione. Non conoscevo un ingorgo umano simile in tutta la città. Anche in quel pomeriggio fui costretto a cammi-nare sulla sede carrabile, visto l’intasamento del marciapiede. La strada rasentava piazza del Gesù, uno dei passaggi obbligati dei cortei dove potersi scatenare in urla esagerate rivolte verso la sede della Democrazia Cristiana che a malapena si vedeva dietro la schiera dei poliziotti. Quanto di Rocco ci fosse in quei momenti, non sapevo dire. Stavo lì e mi piaceva starci, ci andavano i miei amici, mi piaceva commentare a mia madre quelle avventure du-

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rante il telegiornale della sera.– Guarda, ero lì, vicino all’edicola! Aspetta, forse mi hanno

inquadrato. No, non è successo niente. Abbiamo fatto solo un po’ di casino.

– E quel fumo? Non sono lacrimogeni?– Sì, ma io ero già passato. Non li ho neanche visti.Cioè il corteo era già arrivato in largo di Torre Argentina, poi

ci saremmo diretti verso piazza Navona o piazza Farnese o Cam-po de’ Fiori, a seconda di dove fosse previsto il comizio.

Ero giunto nel largo dal centro sfondato, un’altra di quel-le invenzioni fasciste di necrofilia archeologica che riportò alla luce vestigia romane concludendo in bellezza alcune demolizioni iniziate tempo prima. Tutti i viandanti, una volta messo piede nella piazza, si precipitavano a sporgersi verso quel gruppetto di colonne e muretti. Che bello, affacciarsi sull’antica Roma come dal balcone di casa!

Le sedimentazioni dei livelli della città avevano interessato una mia ricerca geologica svolta per la preparazione di un esame, un lavoro meticoloso e pieno di misure di dislivelli. La città mi apparve come un rettile che non si liberasse mai della propria pelle, che continuasse a produrne di nuove sovrapponendole fino a somigliare ad un ladro di cappotti che esce dal negozio, gonfio come l’omino della Michelin.

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Via Monterone. Qui avrei rivisto Silvio e le sue tele. Mi inte-ressava di più il primo, di meno le seconde. Scelsi di riprendermi dalla lunga passeggiata recandomi da Pascucci a bere un frullato. Non ci mettevo piede da almeno due lustri. Il solito andirivieni di persone indaffarate dietro il banco, nonostante l’inverno non stimolasse la frescura delle miscele a base di latte e frutta. La solita ricerca dello sguardo del ragazzo che mi avrebbe preparato il mix, la solita mano bagnata che si impossessava dello scontri-no, la solita pantomima rumorosa fatta di cucchiai, bicchieri e frullatori.

Con il gomito appoggiato al bancone ripassai il cartoncino colorato, ne scrutai il volto riprodotto di Silvio che guardava as-sorto un punto lontano. L’avevo conosciuto tempo prima duran-te una proiezione estiva all’aperto, me ne aveva parlato Andrea e avevo trovato il suo messaggio disperato la sera prima nella mia segreteria. Questo era ciò che sapevo di lui. Il suo invito rientrava nelle spedizioni postali abituali per gli artisti dilettanti che cer-cavano di costruirsi un book di recensioni. Non importava che le poche che riuscissero a racimolare fossero pressoché simili: gli articolisti inevitabilmente riproducevano estratti, e spesso non vedevano altro che l’immagine del quadro sull’invito. Cominciai a prendere in seria considerazione l’idea di uscire dal giornale.

Iniziai a percorrere via Monterone senza avere alcuna memo-ria passata del luogo. Era una strada breve e stretta, le pareti dei palazzi presentavano in basso aperture riparate da grate e reti me-talliche. Queste piccole finestre aeravano cantine buie e umide, spazi abbandonati così come sembravano disabitati gli apparta-menti che su quella via si affacciavano.

Capitò che alzai lo sguardo per cercare cornicioni, brandelli di intonaco scrostato, davanzali precari, pluviali sconnessi, tutti quei particolari di cui mi cibavo con avidità, in attesa dell’evo-cazione che mi avrebbe portato in un secondo – e che sarebbe durata altrettanto – a inventare storie, ad immaginare vite silenti che io, mi illudevo, avevo la fortuna di catturare. Abbassai gli

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occhi verso un’apertura che emanava un odore inconfondibile di muffa e di aria immota. Mi avvicinai, intravidi attraverso la grata una stanza nerissima dalle pareti spoglie. L’unica presenza era co-stituita da un armadio dalle ante sgangherate che lasciavano sco-perte delle assi e dei panni ammucchiati. Il profumo umido mi stordì. Chiusi gli occhi. Restando in piedi, persi i sensi. Pesanti mazze da tamburo presero a percuotermi la testa, funi corpose mi legarono mani e piedi. Mi ritrovai a dire cose che avevano a che fare con il metabolismo: in sintesi, immaginai che quella bocca mi inghiottisse e mi portasse al cospetto di individui che davanti a lei ebbero la ventura di passare negli anni, nei secoli precedenti.

Credo che quell’istante risolse il mio senso di appartenenza alla città. Roma mi ebbe solo allora, né prima né dopo. Staccò un lembo della mia pelle e io mi feci assaggiare compiaciuto, per poi ritirarmi subito. Mi bastò introdurre nelle sue viscere una particella perché mi ricordasse.

Non ho fatto altro che cercare di essere ricordato, attraverso forme diverse: uno sguardo, una lettera, una carezza, un urlo, un disegno, un ascolto. Così facendo ho lasciato pezzi di me, o almeno mi piace pensarlo. Ho creduto che neanche uno spillo si sia potuto disperdere, così come io non ho gettato mai vera-mente nulla.

– Ahò, te levi?Un Ciao imprevisto era a due centimetri dalla mia gamba e il

guidatore aveva la faccia impaziente dei ragazzini di bottega che venivano mandati dal padrone a consegnare la merce a casa degli anziani abitanti della zona.

Mi scansai di corsa, appoggiandomi con una mano alla parete scrostata del palazzo. La pressione e lo sfregamento mi procu-rarono una lieve ferita che fece fuoriuscire ben presto un pic-colo rivolo di sangue. Ne cosparsi allora un pezzetto di muro, chiudendo definitivamente la cerimonia del legame con questa città, celebrando un patto dalla breve durata perché le mie radici avrebbero continuato a cercare nuovi anfratti.

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Come sempre, il mio mancamento svanì immediatamente, lasciandomi un retrogusto persistente che cercai di cancellare passando alla pagina successiva che in quel momento era la mo-stra di Silvio. Il quale era sull’uscio della galleria ad aspettare i suoi ospiti. Stava discutendo con una signora dalle profonde ru-ghe e dalle vistose collane, quando mi vide. Interruppe di colpo la conversazione e mi salutò raggiante.

– Rocco, che piacere! Non ci speravo. Vieni, entra che ti pre-sento i miei lavori e un paio di persone che mi hanno aiutato ad esporre.

Poi, a voce più bassa.– Sai, sono i gestori della galleria e mi hanno fatto uno sconto

sull’affitto della sala.La sala era un angusto locale dalle pareti azzurre, con quattro

faretti rivolti verso il soffitto di legno dipinto di bianco. Si trat-tava di uno di quegli spazi che magnanimi individui mettevano a disposizione di artisti principianti ma ambiziosi, disposti a scu-cire un milione per tenervi per una settimana i quadri dipinti nel tempo libero.

Silvio mi disse, mentre compivamo il breve tour tra i suoi tra-scurabili astrattismi, che il suo lavoro da dipendente della Sip lo stava stufando, che avrebbe voluto fare solo l’artista e che, chissà, magari in galleria sarebbe passato qualche pezzo grosso, qualche talent–scout folgorato dalla sua action–painting clonata.

– Questo si intitola “Sensi e Recuperi”. Vedi, la linea si dipana libera e curiosa per formare zone chiuse in cui stendo tinte omo-genee, campi cromatici che costituiscano poli visivi di attrazione.

Evitai di elencargli i pittori che erano arrivati ad un tale ri-sultato già un secolo prima. Allo stesso modo non gli espressi la mia opinione riguardo al fatto che l’arte contemporanea dovesse smetterla di rieditare l’informale, che fosse auspicabile la ricerca di nuove forme che superassero questi esercizi di calligrafia. Volli anche evitare di riferirgli che avrei voluto smettere di fare articoli.

Più che altro rimasi in attesa, perché immaginavo che al più presto mi avrebbe parlato di Elisabetta.

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– Quest’altro lavoro si chiama “Le rose che non colsi”. Ho voluto esprimere con questi blu dei vuoti significativi della mia esistenza. Guarda come sono irregolari. I più importanti li ho posti nei quattro angoli. Dimmi se hai novità: hai saputo qual-cosa di Elisabetta?

Parlai fissando la tela e soffermandomi sulle parti non dipinte, forse le più interessanti.

– Non ho nulla da dirti. Ho sentito il tuo messaggio. Sembra che tu non la veda da mesi. Quando è stata l’ultima volta?

Mi prese sotto braccio e mi portò fuori dalla sala. Ci ritro-vammo in strada e lì, tra saluti veloci e sorrisi di circostanza rivol-ti ad altri, Silvio mi parlò di Elisabetta, con tono basso.

– Non la vedo da una settimana, dal due gennaio per l’esat-tezza. Abbiamo passato il capodanno insieme ai miei amici, a Guidonia. La mattina dopo siamo tornati a Roma, siamo stati tutto il giorno a casa mia a riposare. Poi, la sera, è tornata dai suoi. Mi ha telefonato la mattina seguente in ufficio. Ciao, Muz-zi! Scusa, arrivo subito.

Mi abbandonò per correre verso un signore dai baffi a punta, con tanto di loden e sciarpa variopinta. Si sarebbe detto un altro pittore o un critico presenzialista, oppure un gallerista che ci te-neva a farsi riconoscere. Silvio gli strinse la mano e lo abbracciò come se avesse incontrato il suo amico più grande ma in real-tà, pensai, aveva cosparso il malcapitato di mielosità interessata, forse gli serviva per oliare qualche porta di sedi più prestigiose di quel buco in via Monterone. Si scambiarono parole sonore e ovvietà che ascoltai senza prestare attenzione, accendendo una sigaretta e guardando la strada: la prospettiva mi consentiva di vedere l’apertura che poco prima mi aveva tolto il respiro. Silvio mi raggiunse dopo un paio di minuti.

– Scusami, ma quello è Muzzi, quello della galleria in via del Babbuino. Non sai quante telefonate gli ho fatto! Gli ho anche spedito un quadro a casa, tutto impacchettato. Che dici, mi farà esporre da lui? Tu che sei un esperto dovresti capire se le cose che

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faccio siano interessanti. Elisabetta mi ha sempre detto che ci sai fare, che hai intuito. Pensa, esporre da Muzzi!

Figurarsi se io conoscessi Muzzi. Tornai a chiedergli di Elisa-betta.

– Mi ha detto al telefono che avrebbe avuto delle faccende da sbrigare in negozio: mi pare che parlasse di inventario della mer-ce. Da allora non l’ho né vista né sentita. Ho telefonato a poche persone, a quelle che lei conosceva meglio.

– Chi hai sentito, oltre me?– Nicola, quello della palestra; Tiziana, la sua amica di Cento-

celle; Andrea, quello di Arezzo che ci ha ospitato a giugno.Feci un ghigno interiore. Immaginai cosa gli riferì il mio ami-

co al telefono, magari con Elisabetta che nel frattempo gli lecca-va la schiena. Guarda caso, il due gennaio lasciai Arezzo: pensai velocemente che io e lei ci eravamo dati il cambio nella casa di Andrea, proprio in quel giorno.

Cosa avrei potuto dire a Silvio in quell’istante?– Ora ti devo lasciare. Se hai notizie della tua fidanzata, fam-

melo sapere. I quadri mi sono piaciuti.– Aspetta! Mi fai l’articolo? Vieni, ti do un paio di foto.– Non adesso. In bocca al lupo.Silvio rimase immobile, con lo sguardo assente. Voleva essere

lui a chiudere l’incontro, voleva che l’ascoltassi bene perché con-tinuava a tenermi stretta la mano.

– Se senti Elisabetta, dille che le voglio bene, che l’aspetto. Che non mi interessa se lei ha un’altra storia. Non lo voglio sa-pere! Dille solo che le voglio bene.

Lo guardai per un istante negli occhi. Aveva cambiato espres-sione. Adesso mi guardava più intensamente, inarcando verso il basso le estremità centrali delle sopracciglia. Abbassò la voce, continuando a non mollare la mia mano destra.

– Mi hai capito? Dille che le voglio bene e che mi basta sapere che non le sia successo nulla!

Finalmente mi lasciò andare. Mi mossi speditamente, in di-

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rezione del Pantheon. Lì mi lavai accuratamente la mano destra che negli ultimi minuti aveva ricevuto due offese: la ferita sul muro e la stretta umidiccia di Silvio.

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Raggiunsi a piedi piazza San Silvestro. Salii sull’85 che mi avrebbe riportato a casa. Sull’autobus volli rivolgere la mia at-tenzione alla busta giallina, non prima di aver sbirciato il tim-bro postale. Roma EUR. Qualcuno mi scriveva da molto vicino. Aspettai la partenza del mezzo per aprire la busta. Poche righe su un foglio a righe.

Caro Rocco,è successo tutto così in fretta, scusa se te ne parlo solo ora. Il tempo

non mi è mancato, ma non ho avuto il coraggio di affrontare questo argomento con te. Mi sono nascosta per qualche giorno, approfittan-do del fatto che tu non mi cercassi, come capita spesso. Ma adesso è inutile, adesso devo dirtelo. Avrei voluto farlo stamattina. Ti ho telefonato, ma la tua segreteria non era adatta per quello che dovevo dirti. Ho lasciato un messaggio qualsiasi.

Ho deciso che la nostra storia doveva finire. Per me è finita. Mi sembra che fosse da tempo che si andava avanti senza entusiasmo. Mi sembrava anche che tu non mi volessi bene come prima. Io te ne ho voluto. Sappi che ho passato con te momenti dolcissimi che ricorderò per sempre.

Pochi giorni fa ho conosciuto una persona a te nota: Virgilio. È successo tutto per caso e non ho voglia di raccontarlo. Mi ha subito riempito di attenzioni, come non mi succedeva da tempo. Non ar-rabbiarti quando leggerai questa lettera: lo so che è sposato, che la nostra potrà essere una storia difficile, ma non voglio rinunciare in questo momento a questa occasione.

Non voglio dirti altro. Non cercarmi dai miei perché mi sono trasferita di casa.

Spero che la tua vita sia felice.GiulianaNon me l’aspettavo. Cioè non mi aspettavo che la mia ex

fidanzata potesse spedirmi una lettera: non l’aveva mai fatto e credo che quella potesse essere l’unica volta in cui lessi la sua scrittura. Ripiegai il foglio e sorrisi, mentre l’autobus passava di corsa davanti all’Altare della Patria. Avrei voluto accarezzarla solo

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un’ultima volta per dirle che andava tutto bene, che non potevo avercela né con lei né con Petrucci. Piuttosto ripensai agli ap-punti sulla mia agenda che si riferivano ad una telefonata che avrei dovuto farle martedì mattina. A parte che di quel giorno non ricordavo ancora nulla, tranne la consegna degli articoli nel pomeriggio, ma non riuscivo ancora a innescare una relazione qualsiasi tra gli eventi, non mi veniva in mente nessun aggancio. Inutile, il mio puzzle mancava di quasi tutti i pezzi.

Decisi all’istante che era ora di mettersi a tavolino e scoprire le carte. Avevo una serata tutta per me, il giorno dopo non dove-vo andare a scuola, e non avrei dovuto preparare il planning delle mostre da vedere nel fine settimana per il giornale. Mi venne da fare un sospiro liberatorio. Avrei dunque potuto trovare il tempo per mettere insieme le poche tessere che avevo in mano. Avrei potuto cominciare quella sera.

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Poche tracce. C’erano troppe incognite. Dopo una cena a base di fusilli al tonno Nostromo, il tavolo della cucina era ritornato il marasma di sempre. Estrassi da sotto il tovagliolo l’agenda. La riaprii al giorno otto. Ripercorsi quattro appunti.

Prima della scuola: telefonare a Giuliana. Non ricordavo se l’avessi fatto. Di sicuro tutto quello che ri-

guardava la ragazza era stato risolto. Un altro bel punto gran-de come una casa aveva chiuso un segmento. Mi sentivo già in quello successivo, e tra le mani scorrere i capelli di Emanuela, ne intuivo la fragranza e la leggerezza. Con lei avrei parlato solo d’amore, non potendo fare progetti diversi. Non si sarebbe potu-to parlare di una casa insieme, di una famiglia, per esempio. Lei aveva già la sua routine. Perché creare sconquassi? Aveva anche un figlio, per giunta. Tra di noi si era stabilito invece un gio-co con regole da brivido: si doveva correre sul perimetro di alte montagne, su lati opposti, per poi saltare nel mezzo e cercare di raggiungerci e abbracciarci mentre si precipitava. Morbidi come eravamo, non ci saremmo fatti del male, anzi avremmo risalito le vette per ricominciare daccapo.

Dopo pranzo: giornale per floppy. Già fatto. Questa memoria l’avevo archiviata da tempo. Con-

siderai solo che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che vedevo lo stanzone della redazione, e un po’ mi dispiaceva do-vermene privare. Se non altro avrei potuto rivedere Monica in un altro contesto, forse guardarla con una luce migliore e anche lei avrebbe potuto darmi di lei un’immagine meno scellerata di quella che offriva in tale prigione. Dei miei colleghi non avevo nostalgia, di Petrucci non ne parliamo.

Ore 18: da mamma per regalo nonna. Boh, non so assolutamente di cosa scrivessi. Attesi due secon-

di, poi composi il numero di mia madre.– Oh, ti sei ricordato di avere una mamma?– No, è che ho avuto tante cose da fare. Come stai? A propo-

sito, buon anno!

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– Perché non mi fai anche gli auguri di pasqua, così ti togli il pensiero? Non ti preoccupare, lo so che fai tante cose. Auguri anche a te.

Dubito che mi avesse mai fatto rimproveri di un certo spesso-re. Mi ha solo sottolineato a voce alta i pericoli, ma non ricordo sculacciate e scappellotti.

– Cosa hai fatto a natale?– Cosa vuoi, tua nonna mi ha chiesto di invitarla e così siamo

state qui, noi due. Ho fatto le orecchiette con il ragù, un’insalata, poi abbiamo mangiato una fetta di pandoro. È venuta a trovarci la signora Tullia, quella del primo piano. Così abbiamo parlato un po’. E tu? Tutto bene ad Arezzo?

– Sì, mi ci voleva proprio. Mi sono rilassato. Andrea è rimasto un amico. Quando lo inviterò a Roma te lo farò conoscere.

– Gli amici di mio figlio sono miei figli. Ma tu non vieni più a trovarmi? Avevo bisogno di appendere due quadri sopra il diva-no e di scegliere con te il regalo per il compleanno di tua nonna.

– Scusa, ma non ci siamo visti l’altro ieri?– Va bene che tua madre ha sessant’anni, ma non sono ancora

rimbambita! Ho aspettato fino all’ora di cena e poi ho mangiato. Comunque i quadri sono ancora da appendere e al regalo ci ho già pensato io. Sei perdonato.

– Per farmi perdonare meglio, passo domattina. Facciamo alle nove e mezza?

– Non devi andare al giornale?– Ti spiegherò.Scrissi a matita, accanto all’appunto, un no. Non ero andato

da mia madre quel pomeriggio. Di cosa avessi realmente fatto, per il momento non c’era notizia. Il trillo del telefono mi fece sobbalzare.

– Sono Andrea.– Ok, hai ritrovato il mio spazzolino. Me lo darai quando

ripasso da quelle parti.– Non ho voglia di scherzare! Sai che fine ha fatto Elisabetta?

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Ricordo che per qualche secondo mi si inceppò il cervello. – Pronto? Sei ancora lì?– Sì, Andrea. È che non capisco. Vuoi dirmi qualcosa di più?– Non la sento da lunedì! Fammi riordinare le idee perché mi

sto agitando.Stavo assistendo ad una parte inedita del mio amico. Mi stava

aprendo una zona oscura, che conosceva solo lui: quella della paura.

– Elisabetta è venuta ad Arezzo il giorno stesso che sei partito tu. C’eravamo già messi d’accordo tempo prima. Che tu non ne sapessi nulla mi sembra normale.

– Ci mancherebbe.– Abbiamo passato insieme un po’ di giorni. Ti risparmio che

è stata una favola, puoi immaginarlo. Baci e abbracci, il sette mattina è partita. “Ti chiamo domani”, queste le sue ultime pa-role. Io sono tornato al lavoro e lei anche, credo. Ma a questo punto non credo a nulla di preciso. L’ho chiamata a casa sua ieri sera. Mi ha risposto la mamma, preoccupatissima. Cazzo, non volevo creare casini! Mi dice che le aveva telefonato tre giorni prima da Firenze e che andava tutto bene. In realtà Elisabetta l’aveva chiamata da casa mia.

Di sicuro, dopo la telefonata di Silvio, quella di Andrea do-veva aver creato sconquassi nella povera mamma. Intanto accesi una sigaretta, mai così necessaria. Andrea emanò un sospiro ru-moroso.

– Non ti dico cosa ho dovuto inventarmi per tranquillizzar-la! “Ma no, signora, vedrà che richiama. Sa come sono queste figlie...”. Oggi ho aspettato una sua telefonata per tutto il pome-riggio. Dove cazzo è andata a finire? Forse è con quel cretino e di me si è già dimenticata! È tipico del personaggio. Era così da ragazza, non deve essere cambiata.

Stetti in silenzio. Pensai di riferirgli del mio incontro con Sil-vio. Lo feci subito, raccontandogli tutto per filo e per segno.

– Rocco, la cosa si sta ingarbugliando. Noi non si può stare a

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farci le seghe mentali. Ce l’hai un posto lì da te? Vengo a Roma subito!

– Calmati! Vuoi organizzare un safari? Questa città forse non è piccola come te la immagini.

– Ma mi dici che cazzo faccio qui? Almeno, se la trovo, mi dice che se ne vuole stare per i fatti suoi e io me ne torno buono a casa.

Non era da me lasciare cadere nel vuoto le suppliche di un fratello.

– Quanto tempo ci metti?– Grazie, sei un amico! Guarda, adesso metto nella borsa

qualche maglia, insomma quello che trovo, poi parto. Dammi tre ore.

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Ore 22: Elisabetta. Viale Jenner 43. Fissai quell’appunto, cercai di capirne la stratificazione dei

segni. La dicitura era in nero, la barra in blu. Quindi l’appunta-mento fu disdetto in un tempo successivo allo scritto, forse poco prima dell’ora indicata. Ero completamente alla deriva: a parte questa intuizione, per il resto non arrivavo a capo di niente. La cosa che mi stava inquietando era che il nome di Elisabetta non era mai apparso sulla mia agenda e lo faceva proprio ora che c’era tutto ‘sto mistero su di lei.

Mi venne un brivido quando addirittura pensai di stracciare quella pagina ed incenerirla. Se qualcuno avesse visto quell’ap-punto? Se Andrea, mentre dormivo, si fosse messo a rovistare per disperazione tutta la casa e lo avesse scoperto? Cosa avrei potuto dire, io che non la vedevo da chissà quanto, io che non mi ricor-davo nel modo più assoluto perché avessi scritto un appunto del genere?

Non stracciai e non bruciai nulla. Avrei avuto tempo per pen-sarci, probabilmente tutta la notte perché avrei dovuto affrontare ore di ascolto di un Andrea disconnesso. Comunque non potevo neppure prendere in considerazione alcuna idea distruttiva: die-tro la pagina c’era quella del nove gennaio, mercoledì.

Era tempo di girare il foglio, con determinazione. Rimasi sor-preso e deluso. Avevo solo preso nota della visita in redazione, alle dieci. Poi il vuoto. Devo dire che non era da me lasciare così intonsa l’agenda. Forse mi trovavo in un momento fiacco, le mo-stre non erano così numerose, le attività scolastiche erano appena riprese, si stava bene in casa al calduccio. Insomma, nonostante tutto questo, mi riusciva difficile vedere pagine bianche. Sapevo che avrei dovuto prepararmi un caffè.

Mentre la moka da due tazze si stava riscaldando, pensai: – Ti fai il caffè e non mangi? – e poi – Ho voglia di Emanuela.

Alla prima domanda mi risposi che avrei cucinato qualcosa sia per me che per Andrea più tardi, così potevamo anche rilas-sarci. Alla seconda domanda risposi: – Prima bevo il caffè, poi la chiamo.

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– Sono fortunato per la seconda volta!– Ciao! È un buon segno, non trovi? Stasera posso anche par-

larti più a lungo perché mio marito e mio figlio sono andati al circo.

– Vuoi dire che sei sola in casa?Quello che ascoltai fu uno dei sì più stordenti, soffiato dal

vento tra due foglie. Un sibilo da capogiro che solo da Emanuela mi riuscì di ascoltare.

– Emanuela, ho una proposta. Posso fare un salto da te, dicia-mo tra venti minuti? Sto lì proprio il tempo di salutarti, magari ti porto un libro da leggere. Il circo a quale ora finisce?

Mi prese alla sprovvista. – Vengo io da te. Dove abiti?Aveva fame. Non intendevo sottrarmi al suo banchetto che

mi vedeva come unica pietanza.Ricordo, come altre volte ho fatto, quel cuore in gola mentre

la attendevo. Ho ancora ben delineate le forme delle mie mani che cercavano, vorticose, di tentare di fare ordine in cucina, di sistemare le poltroncine nella piccola sala, di accatastare in una pila altissima riviste e libri, di rispondere al citofono.

– Quarto piano.Non potrò più dimenticare quel rumore dell’ascensore ascol-

tato sull’uscio della porta, quell’incedere lento e quello scatto della maniglia.

– Ti avverto, non è una reggia.– Permesso? È la casa di un single. Credo che non sia diversa

da altre. Una casa è solo un involucro. Ma se la caramella è buo-na lo capisci dal ripieno.

Mia mamma non avrebbe saputo far di meglio.– Accomodati. Prendi qualcosa? Un caffè, una Coca Cola,

dell’acqua, un frutto?Intanto lei si era tolta il cappotto e la borsa e si era seduta

sulla poltroncina rossa, quella più vicina alla lampada, la mia preferita.

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Le sorrisi, restando in piedi in attesa di qualsiasi ordine. – Mi sbucci una mela?Mi scusai e andai in cucina per provvedere. Sentii i suoi passi alle mie spalle. Portava degli stivali con un

tacco poco pronunciato. Ogni piccolo colpo sul pavimento era un centimetro di sciabola in più nella mia carne.

– Che cucina spaziosa! Mi sa che qui ci fai tutto. Ci sono anche i libri sul tavolo. Cultura e fornelli! Posso sedermi qui? Mi piace di più stare nei posti vissuti.

– Prego.– Vieni qui a sbucciarla. Voglio vedere mentre lo fai. Ho l’im-

pressione che tu abbia il talento di uno scultore.Sedetti anch’io, recando un piatto bianco con una mela stark

ed un coltello affilato. Le ero di fronte. Mi sentivo sicuro di pia-cerle e tutto mi sembrava così naturale, giusto. Mi parlava e mi penetrava con voce simile ad aghi intrisi di vaniglia.

– Posso stare un’ora, poi devo tornare. Avevo voglia di vederti. Non posso mai parlare con te come vorrei. E poi volevo ringra-ziarti.

– Deve essere importante, visto che è la seconda volta che lo fai. A me sembra di non avere fatto nulla per te.

E intanto le porsi la prima fetta in un piattino più piccolo, insieme ad un tovagliolo di quelli bianchi tramandati dal corre-do delle nozze dei miei genitori. La fiandra era ancora splendida. Credo di non averli mai usati prima. Lei prese la forma sbozzata con tre dita della mano e prima di portarla alle labbra mi perforò il petto.

– Mi hai fatto bere una pozione magica, tu.La fissai, dimenticando di proseguire qualsiasi altro gesto.

Ormai ero nel suo sguardo, ero preda consapevole, ero quella fettina di mela.

Lasciai il coltello e il frutto, avvicinai la mano alla sua, stri-sciando sulla superficie laminata. La cercai, si fece trovare. Ci alzammo entrambi nello stesso momento perché sapevamo che

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le nostre ricerche erano giunte al punto desiderato. Il fratello riconobbe la sorella e le fu riconoscente per essersi fatta ricono-scere. Inclinammo i rispettivi busti, le nostre labbra stavano già scambiandosi parole mute.

Dopo il primo bacio, lei abbassò lo sguardo verso il tavolo e poi di lato, cercando intorno un appiglio. La accompagnai, prendendole la mano, al mio letto che, dannazione, non avevo rifatto. Ma non serviva che fosse ordinato perché ben presto quel materasso assunse le sembianze di una nuvola.

Quella sera non ci stancammo di amarci. Non smetto di com-muovermi a quel ricordo, ed ai pochi altri vissuti con lei. Sono un vecchio che confonde i sogni con la realtà, che prende per presenti fatti già vissuti. In questo, sono uguale agli altri vecchi, ho anch’io la mia scorta di storia appiccicata addosso. Tuttavia ne ho bisogno e, come tutti i vecchi, vivo per i miei ricordi, li col-tivo, forse ne forzo la crescita concimandoli con le mie lacrime.

Quella sera riuscimmo a dire, dopo le parole in cucina, solo un saluto delicato sul mio portone. La vidi allontanarsi, voltarsi per salutarmi prima di scomparire dietro l’angolo. Mi girai verso l’albero più vicino della via, chiusi gli occhi, inspirai ingoiando tutta l’aria che faceva vivere gli abitanti di quella strada. Smisi quando mi accorsi che di fronte una signora stava battendo, con occhi spalancati e bocca socchiusa, i pugni contro i vetri.

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Tornai in casa che erano quasi le dieci. Andrea sarebbe arri-vato a momenti. Avrei dovuto allestirgli un posto per dormire. Bel problema per uno che non aveva mai avuto ospiti. L’unica era che gli dessi il mio letto e che io mi arrangiassi nel sacco a pelo sul tappeto della sala. Mi recai in cucina. La mela residua mi restituiva sentori di Emanuela. La divorai con irruenza, man-giandone anche la buccia, addentandola come lei poco prima mi aveva strappato brandelli di cuore, ingoiandola allo stesso modo in cui avevo succhiato i suoi umori, passandomi il torsolo sugli occhi così come lei mi aveva leccato le palpebre. Cominciai a preparare un sugo per il mio amico.

Il quale giunse di lì a poco. L’irruzione fu impetuosa. Appena entrato mi abbracciò ansimante.

– Hai preso l’aereo?– Spero di non aver incrociato qualche autovelox. Grazie,

Rocco, grazie!– Mettiti tranquillo, che ora mangiamo qualcosa.Sedette al posto di Emanuela. Forse era per via della vicinanza

di quella sedia alla porta della cucina. Al momento mi sembrò che Andrea profanasse un nitore ancora presente in quella stan-za. Avrei voluto dirgli di cambiare posto, che c’erano altre tre sedie a disposizione, che quello era il trono di una principessa e che lui sarebbe stato punito dall’ira degli dei. Invece continuai a girare con un cucchiaio di legno il sugo di pomodoro il cui profumo aveva ormai cancellato del tutto quello di Emanuela. Almeno lì dentro.

– Allora, stasera si mangia, poi andiamo a dormire e domatti-na cominciamo a darci da fare. Sei fortunato perché non vado a scuola. Devo solo fare un salto da mia madre. Ti faccio dormire nel mio letto.

– Sì, meglio dormire un po’, ma io so arrangiarmi. Ho fatto lo scout, non ti ricordi? Quindi mi dai un sacco a pelo e io sono a posto.

– Non esiste.

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– Rocco, va bene così, davvero! Non ho voglia di discutere di ‘ste cose. Piuttosto, senti cos’ho pensato in macchina.

Mi presentò un piano che prevedeva un programma serrato:Sveglia all’alba.Ore 8: piantonamento portone di Elisabetta.Ore 9: interruzione piantonamento per impegno familiare

(questo l’aveva aggiunto in seguito all’informativa su mia ma-dre).

Ore 10.30–11: piantonamento negozio di Elisabetta.– Il resto, dipende dai risultati. Dovremo cercare di scrutare i

movimenti, le persone che entrano ed escono.– Ascolta, adesso sei troppo agitato. Mi metto completamente

a disposizione, su questo siamo d’accordo, ma devi considerare...– Insomma, io non so che pesci prendere. So solo che voglio

capire dov’è Elisabetta! Noi cominciamo così, proviamo qualco-sa, poi vedremo al momento. Non darmi troppa pasta.

Mangiammo velocemente. Nel frattempo si lasciò andare a qualche particolare.

– Sono stati giorni d’oro. Hai presente quando capisci che le donne che hai avuto prima non reggono il confronto? Quando senti di avere di fronte una persona che ti assomiglia, che hai desiderato da anni e che, per giunta, ti dice la stessa cosa?

Avevo presente.– Elisabetta è come l’avevo lasciata. Sempre bella, sfuggente,

pulita, delicata. Se mi sto dannando l’anima è perché ne ho bi-sogno ed è la prima volta che mi succede. Ad Arezzo ci stavamo prendendo gusto a vivere insieme: si è fatto l’amore praticamente quasi sempre, la sera si andava al ristorante, poi al cinema. Una volta l’ho portata a casa di amici, ad Anghiari.

– Dove abbiamo passato il capodanno?– Esatto, proprio lì! Lorenzo mi ha detto che mi ero portato

dietro una persona più affascinante dell’ultima volta. Scherzo! Cinque giorni così, giuro, non li scorderò più. Mi ha sconquas-sato, mi sono lasciato dominare dai suoi assalti, dai suoi capricci.

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Avrei voluto dirgli che capivo benissimo ogni sua parola, che ero stato protagonista a mia volta di eventi simili e con analo-ghe considerazioni. In quel momento, però, non avrebbe aiutato Andrea.

Decidemmo, alle undici, di fumare la sigaretta della buona notte.

– Aspetta, ho un po’ d’erba.– No, grazie. Ho smesso dieci anni fa di fare il ragazzino.

Senza offesa, si intende.– Posso avere il permesso?– Fai pure. Allora, sveglia alle sette?– Alle sei e mezza, per sicurezza. Posso farmi una doccia?Raggiunsi il letto esausto e disfatto, come il letto stesso. Mi

avvolsi nelle lenzuola che conservavano nettamente gli aromi di Emanuela, un misto dolceamaro tra caprifoglio e rosmarino. Inalai con forza, fino a stordirmi e ad addormentarmi.

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– Tu vedi qualcosa?– Mi sembra che sarà difficile che si possa scoprire qualcosa da

qui. È da mezzora che scrutiamo persone, ma chi le conosce? Di sua madre ho un vaghissimo ricordo. L’ho vista solo una volta, a casa sua. E se Elisabetta fosse già tornata a casa stanotte? E se ti avesse telefonato?

– Ascolta, io adesso vado alla cabina qui di fronte e provo a fare uno squillo.

– Per me ti risponde la madre o il papà. Se gli chiedi della figlia, e se lei non è ancora ritornata, questi vanno in crisi defi-nitiva.

– Magari è ritornata o hanno qualche notizia.– Non mi sembra una buona idea. Senti, andiamo al bar a

prenderci un caffè, poi andiamo da mia madre. Stiamo lì una mezzora e poi andiamo davanti al negozio. Casomai, a una certa ora, entrerò io a chiedere di lei, vada come vada.

La mano di Andrea che stringeva la mia spalla destra mi fece capire che non avrebbe sperato di meglio. Aprì la portiera ed io dopo di lui. Attraversammo la strada, già intasata di traffico e rumori. Seguivo il mio amico e ne avevo pietà. Guardavo la sua nuca scapigliata e vedevo i suoi occhi bassi e frustrati. Non mi sembrava ancora sgomento: aveva coscienza di non saper gover-nare la situazione, perché cambiava strategia ogni due secondi, ma conservava anche in quei momenti una disinvoltura nei mo-vimenti, una felicità espressiva che gli invidiavo.

Non avevo smesso di volergli assomigliare un po’. Non era più il mio idolo, a quest’età mi sembrava ridicolo, ma ne ero ancora affascinato al punto che avrei voluto che tutto quel pa-sticcio scomparisse all’improvviso e noi si potesse andare ancora per grandi magazzini a rubare libri e dischi e ammirare la sua destrezza e il suo volto neutro mentre si infilava sotto il cappotto tre volumi o l’ultima raccolta di Tom Petty. Purtroppo il conte-sto anagrafico non era più lo stesso e negli ultimi anni si erano evolute le difese: codici a barre magnetizzati, telecamere, sorve-

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glianti armati che facevano la ronda tra gli scaffali. L’elettronica aveva annientato un piacere adolescenziale che a noi fu dato di conoscere. Gli espropri proletari esaurirono le nostre velleità del proibito, della deroga, al punto che in seguito saremmo diventati integerrimi assertori dell’ordine e della legalità. Conclusi i miei pensieri non appena ci servirono le tazzine.

– Rocco, e se io stessi esagerando? Forse Elisabetta vuole star-sene per i cazzi suoi. Mi ricordo che al liceo non venne per una settimana perché si era rifugiata dalla zia, a Velletri. Mi disse che si era appena lasciata con un tipo: lui le piaceva, erano anche stati bene insieme, ma lei si era stufata ben presto e l’aveva mollato. Ecco, non vorrei che fosse successa la stessa storia con me.

– Ammesso che sia così, come mai neanche i suoi sanno dov’è?– E se fossero d’accordo con lei? Forse Elisabetta gli ha detto

di recitare la parte con chiunque la cerchi, soprattutto con me. O con il suo fidanzato.

– Ma tu ti qualificavi al telefono? Hai detto alla madre il tuo nome?

– Fammi pensare.Mise un cucchiaino di zucchero.– No, dicevo solo che ero un amico.

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– Ciao. Mamma, questo è Andrea. Andrea…– Finalmente ti conosco! Rocco mi ha tanto parlato di te.Arrossii rivolgendo lo sguardo verso un Andrea divertito, for-

se per la prima volta da quando era partito da Arezzo.– Eh, ne abbiamo fatte di cose insieme! Erano i tempi del

liceo. Si era ragazzi, si stava sempre appiccicati.– Entrate! Scusate il disordine, ma qui non viene mai molta

gente e io mi abituo a mettere le cose come mi viene più como-do.

– A me sembra tutto a posto.Intervenni per dare un senso alla nostra visita.– In realtà mancano due quadri. Mi dai due chiodi e il mar-

tello che li appendo? Li volevi sulla parete del divano, no?– Sì, ma non adesso. Vi preparo qualcosa?Andrea era rimasto immobile nell’atrio, a completo disagio,

come un orpello. Si mosse verso mia madre, accennando di se-guirla in salotto.

– No, grazie. Abbiamo già bevuto due caffè. Poi abbiamo un po’ fretta. Dobbiamo sbrigare una faccenda.

– Sei ancora in vacanza, Andrea?– Sono qui per lavoro. Dovevo consegnare un progetto per la

mia ditta e allora ho pensato di passare da Rocco per salutarlo.– Hai fatto bene.Mia madre continuò a suggerire altre parole, mentre Andrea

si accodò al mio piccolo lavoro, che iniziai lo stesso.– Rocco, lo hai portato a vedere dove lavori, a scuola, al gior-

nale? Te l’ha detto che fa due mestieri? Mio figlio non si accon-tenta mai!

Fulminai Andrea con lo sguardo e gli trasmisi telepaticamen-te il messaggio: – Non sa nulla del giornale! E tu non fare nessu-na osservazione!

Andrea le rispose guardandomi.– Sì, me l’ha detto. Ma lui era così anche a scuola. Faceva

sempre dieci ricerche insieme, e qualche volta mi ha anche aiuta-to a fare i compiti di matematica.

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Lo interruppi a bassa voce.– Cazzo dici, che in matematica ero una frana!– Ma se in matematica era una frana! Forse ti avrà aiutato in

italiano. Lì sì che Rocco era bravo! Ti ricordi quando la professo-ressa De Capua ti ha dato dieci per il tema su, su, su… aiutami.

– Su Pirandello, mamma. Andrea, mi passi il martello? Qui vanno bene, a quest’altezza?

– Un po’ più in basso. E tu Andrea, che lavoro fai?– Lavoro nell’azienda di mio padre. Noi si fa carpenteria me-

tallica. Niente di speciale.– Niente di speciale? Almeno stai vicino al tuo papà.Queste le ultime parole di mia madre. Andò a ritirarsi in cu-

cina e da lì sarebbe uscita solo per salutare. – Rocco, cos’ho detto?– Niente, non ti preoccupare. È che ogni tanto gli viene in

mente mio padre. Si intristisce per qualche minuto, si trova un angolo tranquillo per poter cantare una canzone dei tempi suoi, e poi le passa. Guarda se sono dritti.

Andrea annuì, facendo fare alle sue pupille una decina di escursioni orizzontali.

– Mamma, noi andiamo!Sapevo che non mi avrebbe risposto subito. Lasciai il mio

amico all’ingresso ed entrai in cucina. Lei era intenta a pulire dei fagiolini, a toglierne le estremità per poi adagiarli in uno scola-pasta. Intanto continuava a cantare a voce bassa.

– Se verrai con me, sul mio carro tra le nuvole, più avanti del caldo del sol, sull’ultima stella lassù, un mondo nascosto nel blu tutto nuovo per te. La terra, la terra, la terra sarà senza frontiere, la terra, la terra. Ci porterà fortuna la luna, la luna…

Per un secondo sentii un profumo di bucato, le campane del-la chiesa di Santa Maria Ausiliatrice e vidi un moccioso che le tirava la gonna.

– Mamma, noi andiamo.– Sì, arrivo.

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Si asciugò le mani con il grembiule a scacchi che teneva da vent’anni, sempre miracolosamente uguale a se stesso. Abbracciò Andrea, si sorrisero entrambi. Pensai che quella era una delle poche volte che mia madre si poteva concedere di abbracciare un mio amico, quando a lei avrebbe fatto piacere farlo più spesso.

– Auguri per il tuo lavoro. La prossima volta, ti fermi a man-giare? Un piatto di pasta so ancora cucinarlo!

– Rocco mi ha parlato delle sue orecchiette al ragù.– Ecco, ti cucinerò quelle! Ciao. Ciao, Rocco. Quando ci sen-

tiamo?– Ti chiamo domani. Vengo a pranzo domenica.Uscimmo un po’ intontiti. La levataccia e tutte le incognite

che avevamo davanti cominciavano a fare il loro effetto. Forse fu il clima morbido di quella casa a rallentare i nostri ritmi, a farci scendere le scale con moderazione, non dicendoci nulla. Sulla soglia del portone ci aspettava un sole tiepido ed un ruolino di marcia che prevedeva l’appostamento davanti alla boutique di Elisabetta. Lì ci recammo, continuando a non dirci nulla.

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Fummo fortunati a trovare un buco proprio sul marciapie-de di fronte. In genere non mi era mai capitato di parcheggiare dove volessi. Lo dissi subito al mio amico che si limitò solo ad augurarsi che fosse un segno del destino. Lo smentii ben presto, perché mi accorsi di sostare in una zona per disabili.

– Fermiamoci lo stesso. Quando viene qualcuno, ci spostia-mo. Che ore sono?

– Le dieci e un quarto. Stiamo tranquilli per un po’, diciamo per mezzora.

– E tu? La tua crisi mistica con Emanuela continua?Perché parlarne proprio adesso? Mi limitai a disegnare un

bozzetto nel quale si vedevano due farfalle che occasionalmente si intersecavano.

– La vedo ancora, anzi più di prima. Mi piace, anche se dob-biamo incontrarci stando bene attenti.

– È sposata?– Ti sei laureato in ingegneria o psicologia? Sì, è sposata e

non mi pare voglia scombinare la famiglia. Ha un figlio ancora troppo piccolo. Per il momento va bene così.

– Cosa ci hai fatto?Non mi sembrava fosse interessato alla cosa: mi mantenni sul

vago, perché capivo che si stava parlando per perdere tempo, ed Emanuela non meritava di essere materia di intrattenimento.

– Ci stiamo frequentando, te l’ho detto. Vedremo cosa ne uscirà. Io adesso devo pensare a sistemare un po’ la mia vita. Non so ancora se voglio proprio lasciare il giornale. Non è una scelta facile.

– Ah, già. Giuliana e il tuo capo. Com’è finita?Ancora una domanda incongruente. Compresi che Andrea

andava incoraggiato all’azione, che quell’attesa era diventata snervante ancor prima di incominciare a raccogliere indizi. Cer-cai di inventare una pista.

– Guarda, sta entrando una donna.– Ti dice qualcosa? Potrebbe essere una cliente. Guarda come

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è vestita: gonna rossa alla zingaresca e giaccone a righe blu e bianche.

– Ottimo. Per passare il tempo potremmo descrivere gli abiti delle persone che entrano e provare a fare un identikit tipo, non so, se ama il formaggio sui maccheroni, se si fa la doccia o il ba-gno, se fa le vacanze al mare o in montagna.

Andrea intuì, come me, che stessimo facendo una cosa inu-tile. Eravamo lì da un quarto d’ora ed avevamo visto solo tre persone, una delle quali era il postino. Guardavo l’orologio con insistenza. Se ne accorse.

– Tra un quarto d’ora entri, no? Mi sa che è l’unica cosa da fare. Ascolta, facciamo delle ipotesi. Se il negozio è aperto vuol dire che in famiglia non si preoccupano e che forse sanno già qualcosa di Elisabetta.

– A meno che ci stia lavorando una commessa e la mamma sia a casa ad aspettare notizie.

– Giusto. Da qui riesci a vedere chi c’è dentro?Si sporse anche lui verso il parabrezza, abbassando il finestri-

no per evitare il riflesso.– Ci provo, però non dovremmo insistere così, se no ci sco-

prono anche i pali della luce! No, non si riesce a vedere. Forse, se la porta si aprisse…

Si aprì esattamente in quel momento. Intravidi dietro il ban-cone di vetro una ragazza dai capelli a caschetto, mentre rispon-deva alla signora che stava per uscire e che si era soffermata sulla soglia. La notò anche Andrea.

– Rocco, lì dentro la madre non c’è. Ti prego, vai a vedere subito!

– Ok, sta’ calmo! Cosa mi invento? Quella è una boutique femminile.

– Dì che cerchi via… boh, fatti venire in mente una strada da queste parti.

Mi diressi verso la vetrina. Non entrai subito, mi soffermai a guardare gli abiti esposti per sbirciare dentro, in modo da evitare

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l’entrata. Ma l’esposizione era cieca, c’era un pannello che faceva da quinta ai manichini. Respirai forte e misi piede nel negozio. Mi guardai intorno velocemente. Niente mamma di Elisabetta.

– Desidera?– Buongiorno. Sto cercando via Flavio Stilicone. È da queste

parti?– Certo, è proprio qui dietro. Basta che lei vada sulla parallela

a questa strada.Ero già in auto. Riferii la breve scenetta. Andrea ebbe l’impul-

so di ritornare sotto casa di Elisabetta.– Non c’è altro da fare! Tu citofoni, dici alla mamma che sei

un amico e cerchi di capire cosa sta succedendo. Per non spaven-tarla dille che sei passato di lì perché dovevi ritirare un libro che le avevi prestato.

– È strano che io passi a casa sua durante l’orario di lavoro.– Dille che sei andato in negozio ma non l’hai trovata e allora

hai pensato di cercarla a casa!Andrea continuava a scrivere sceneggiature. Colpi di scena,

inganni, tranelli, microspie, inseguimenti. Per un attimo mi ven-ne da pensare che mancasse solo l’assassino.

– Signora, sono un amico di Elisabetta. È in casa?Dal citofono la mamma lanciò un urlo secco.– Venga subito su! Terzo piano.Non mi voltai verso Andrea, rimasto quattro alberi indietro.

Feci le scale a piedi, aggiustandomi i capelli e la giacca a vento. Non volevo dare l’impressione di uno che fosse in giro da tre ore a fare cose scombinate.

– È la mamma di Elisabetta? Sono Rocco. Forse si ricorda di me. Sono venuto qui una volta, ai tempi del liceo.

– Sì, no. Non mi ricordo, abbia pazienza. Entri e scusi la mia confusione, ma non sono bei momenti.

Mi venne un lungo brivido alle gambe mentre camminavo in quel corridoio composto da una successione di mobiletti finto rococò e specchiere curvilinee. La carta da parati era di una tinta

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così scura che non ebbi il benché minimo conforto visivo. Il sa-lone non era da meno, ma lì almeno le pareti erano a strisce gialle e marroni. Mi concentrai sul giallo.

– Cosa è venuto a fare?Non ebbe convenevoli. Stava seduta su una sedia accanto al

tavolo rotondo. Io ero rimasto in piedi, riuscendo a vederle la striscia del colore bianco naturale dei capelli in prossimità della riga centrale che squarciava come una ferita slabbrata la sua testa dipinta di nero. Era una mamma che si presentava a me incuran-te del proprio aspetto fisico forse come non mai, abituata invece a stare ben acconciata per le sue clienti, come lei, sui sessant’anni.

– Tempo fa ho prestato a sua figlia un libro, un saggio. Ora mi serve ed ero passato a riprenderlo. Non c’è Elisabetta?

– Ho finito le parole. No, Elisabetta non c’è.Si alzò di scatto e si catapultò davanti alla finestra per guarda-

re, scansando le tendine, un punto indefinito del cielo assolato. Si portò un fazzoletto agli occhi. Farfugliò qualcosa, non rivol-gendomi lo sguardo.

– La sto aspettando, da quando è partita per Firenze. Firenze. Non ci credo che è andata lì! Mi ha sempre raccontato un sacco di bugie! Questa è un’altra. Trentun’anni e fa ancora i capricci!

Si voltò verso di me, accigliata.– E lei chi è? È un altro di quelli che mia figlia usa come zerbi-

no? È un altro che spera di farle la corte, o forse gliel’ha già fatta ed è venuto qui a implorarla?

Non era il caso di interromperla. Serrai le labbra.– Un amico, ha detto? E che amico è se l’unica cosa che sa di

lei è che ha un libro che le appartiene? Vuole cercare nella sua stanza? Venga con me!

Come un lampo mi prese il braccio e mi scaraventò verso una porta dipinta di fucsia, un vero e proprio attentato in quel buio pesto. La spalancò e mi spinse dentro.

– Avanti, cerchi quello che è suo! Cerchi pure! Butti tutto per aria! Tanto, l’ho già fatto io.

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I libri sugli scaffali erano in un disordine inestricabile, alcuni erano sul pavimento. Il letto era disfatto, il materasso, quasi in verticale, faceva scorgere le doghe in legno sotto le quali erano accatastati riviste femminili. Il comodino aveva l’anta quasi di-velta ed era vuoto. Due poster pendevano dalla parete, sostenuti da una puntina ciascuno. L’armadio era un accumulo di stracci. Fogli facevano da tappeto ai nostri passi.

– Signora, forse è il caso che passi in un altro momento.– No, cerchi il suo libro! Forse lei è più fortunato di me.

Avanti!Mi ero cacciato in un bel pasticcio. Cominciai a maledire

l’amico che mi aspettava di sotto. Come per calmarla, iniziai una perlustrazione senza meta. Toccai due o tre romanzi, feci finta di sapere cosa stessi cercando. Sua madre occupava con il suo ansi-mare tutta quella stanza e mi stava rubando ossigeno.

– Non so se riuscirò...– Non si preoccupi, ha tutto il tempo che vuole! Lasci che

l’aiuti. Passerò tutti i libri uno a uno e le dirò i titoli.Credo che la madre di Elisabetta non aspettasse altro che una

vittima da sacrificare alla sua delusione, un fantoccino da riempi-re di spilli, una persona qualunque: ebbi la sensazione che avesse passato quegli ultimi giorni da sola, che il marito l’avesse man-data al diavolo, lei e quella scavezzacollo perenne di sua figlia.

– Non si fermi! Lo vuole trovare o no questo fottutissimo libro così prezioso?

Si metteva male. Sentivo lingue di fuoco in agguato sotto il parquet. La mia pressione bassa stava giocandomi un brutto tiro, cominciavo a vedere stelline. Avrei aperto volentieri la finestra per lanciarmi e raggiungere Andrea e scappare da questa trappola per topi. La signora mi incalzava sputandomi addosso decine di titoli, senza aspettare da me alcun tipo di riscontro; ben presto prese a lanciarmi con violenza tutti i libri che le riusciva di rag-giungere. Ricordo ancora adesso, perché ne porto il segno, che uno di quei volumi mi centrò l’occhio destro, che mi portai le

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mani al volto, che sentii un bruciore fortissimo, che la madre di Elisabetta si fermò di colpo.

– Oddio, oddio!Mi mise una mano sui capelli. La spostai con forza, iniziando

a piangere. I miei rari conoscenti talvolta, le rare volte che ci guardiamo negli occhi, mi chiedono cos’è questa piccola cicatri-ce gonfia, come un lombrico appena nato, sulla palpebra destra: io, che non mi sono mai battuto con nessun nemico, dico solo che fu un filo spinato.

– Oddio, cosa ho fatto! Non volevo, non volevo. Oh madon-na! Sono una cretina! Vieni in bagno, vieni a medicarti.

Non potevo accorgermi, in quel momento, che era passata dall’omicidio all’assistenza, anche nel tono della voce. Io ero di-ventato un sacco vuoto. Mi prese sotto le ascelle e mi tirò su. Non riuscivo a togliermi le mani dal volto, il bruciore stava smi-suratamente fiaccandomi. Mi accompagnò come un burattino cieco verso il bagno che intuii essere luminosissimo. Sentii uno scroscio d’acqua, la sua mano dietro la mia nuca, una spinta im-provvisa della mia testa dentro il lavabo colmo. Ero sottosopra, il sangue era diventato piombo e stavo affondando in un sanita-rio. Allontanai le mani dal volto per cercare i bordi del lavabo e issarmi da quell’ennesimo tentativo di farmi fuori. Reagii per la prima volta, riaprendo parzialmente gli occhi velati e respirando sonoramente.

Bloccai le mani della signora che non opposero resistenza. La fissai sguainando i denti. Lei implorò perdono.

– Scusa, non volevo farti del male! Scusa. Sono disperata, ca-pisci? Disperata! Dimmi dov’è mia figlia! Le è successo qualcosa? Qui nessuno vuole dirmi niente. Mio marito ha fatto le valigie l’altro ieri. La donna delle pulizie è scappata perché dice che que-sta è una gabbia di matti.

Mollai la presa. Il suo sfogo era terminato. Peccato che vi fossi incappato io. Non era importante che sanguinassi copiosamente. Allo specchio verificai la posizione della ferita. Volevo quasi rin-

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graziarla per avermi sfiorato il bulbo di un millimetro. La pove-rina non aveva bisogno di essere ulteriormente offesa. La guardai clemente, mentre mi sedevo sul bordo della vasca. Lei si mise in ginocchio. Avrei voluto assolverla da tutti i suoi peccati di mam-ma, dal suo destino. Anche in questo caso la commozione mi invase, stavolta accentuata anche da fattori esterni.

Mi mise una mano pesante sul ginocchio.– Mi perdoni? Fallo almeno tu. Ho bisogno di essere per-

donata! Lo so che ho sbagliato tutto, che ho perso mia figlia. E adesso, che potrei dirle che non ce l’ho più con lei, non ho nean-che la possibilità di averla tra le braccia. Non ce l’ho più con lei! Quando glielo potrò dire? Voglio poterlo fare, almeno una volta. Voglio abbracciarla e poi lasciarla andare.

Mi fissò con il volto addolorato di una madonna martirizzata da supplizi e torture.

– Abbracciami. Ti prego, ho bisogno che qualcuno mi ab-bracci! Non voglio far più paura a nessuno!

Le diedi la mano e l’aiutai a rialzarsi. Riuscivo a malapena a intravedere i suoi capelli. Le presi le spalle e la strinsi a me. Un pianto caldo tracimò nel mio orecchio destro. Le accarezzai la nuca. Qualche secondo. Prima di abbandonare quell’abbraccio, mi diede un bacio sulla guancia e sulla mia palpebra insangui-nata.

– Tu sei Rocco, hai detto?– Sì, un amico di sua figlia.– Ciao, Rocco. Dille che ha fatto bene ad andarsene via da

me. Voglio che si salvi. Lo sai? Elisabetta è la ragazza più dolce del mondo.

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– Quanto cazzo di tempo ci hai messo? Oh, ma come sei conciato, cos’è successo?

– Vaffanculo a te, a Elisabetta, a sua madre, a Silvio! Adesso mi accompagni al pronto soccorso.

Lasciai guidare Andrea per continuare a tamponarmi la ferita e bestemmiare senza distrarmi dal mio male. Il mio amico guar-dava me e la strada, ma non fece nessuna domanda. Il medico mi mise due punti sulla pelle tenera. Fui rallegrato di non inondare altri fazzoletti. In macchina mi rimirai nello specchietto, elabo-rando al volo scuse plausibili per i miei futuri interlocutori.

– Puoi dire che ti sei ferito con un filo spinato.– Grazie per il suggerimento!– Insomma, adesso mi vuoi dire cos’è successo?Si era fatta l’ora di pranzo. Istruii Andrea sul percorso per

arrivare sul Lungotevere. Gli dissi di parcheggiare non appena avesse visto Castel Sant’Angelo. Raggiungemmo una piccola trattoria che aveva visto le mie rare cene fuori casa da studen-te universitario. Ci andai altre volte, anche negli ultimi tempi, anche con Giuliana. Era un buco, i muri grondavano umidità scura, i legni erano scivolosi, ma il cuoco preparava dei carciofi alla romana da resurrezione.

Sedemmo in fondo al salone, vicini alla finestra che dava sul cortile: quest’ultimo si presentava come un patchwork di cas-sette del mercato, carretti, damigiane, sedie impagliate, il tutto contenuto in un piccolo perimetro di muri ocra dai quali fuoriu-scivano occasionalmente capitelli compositi, rocchi di colonne scanalate, pezzi di volti di marmo. Una accumulazione degna di Arman.

Raccontai ad Andrea per filo e per segno tutti gli episodi di quel brutto film a casa di Elisabetta. Non so dire se fosse più rammaricato per le percosse che ricevetti o per avere perso l’oc-casione di assistervi. Il vino rosso aiutò la mia pressione a risalire. Di più fece la braciola ai ferri.

– Consideralo il più grande favore che ti ho fatto.

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– Sei stato eccezionale. Ormai non ci sono più dubbi. Eli-sabetta è scappata! Non sappiamo dove, ma se l’è svignata. Ora bisogna scoprire se è ancora qui a Roma. Ti ricordi di qualche sua amica? Potrebbe aiutarci.

– No, scusa. Ho già dato. Al massimo ti ospito a casa mia, ma tienimi fuori, da adesso, da questa storia! Nelle prossime ore devo ritornare a pensare a me stesso.

– Hai ragione. Oh, carciofi così non ne ho mai mangiati! Ne prendo un altro. Guarda, ho pensato, mentre eravamo in ospe-dale, che è meglio se riparto oggi pomeriggio. Qui non arriverei a capo di nulla. Se Elisabetta vuole farsi ritrovare, sarà lei a farsi viva. Dovrò pure rispettare questo suo momento! Io ho la co-scienza a posto: credo che con me sia stata bene. Pensa che mi ha detto, prima di salutarmi, che aveva un piano per andarsene via da Roma e che le sarebbe piaciuto venire a stare da me! Co-nosceva la padrona di quella boutique di Arezzo... ti ricordi, te ne ho parlato.

– Insomma, non aveva motivi per non rivederti.– Così mi è sembrato. Io le ho detto che mi andava bene tut-

to quello che avesse deciso. Ma lì mi sono fermato. Confidavo nella sua determinazione. Sai come è fatta la ragazza. Le piace decidere, prendere le redini, stabilire di quanto affondare il fru-stino nella carne. E se a quest’ora sta mettendo a punto tutto il suo piano per venire ad Arezzo? E se tra poco mi fa la sorpresa di suonare il mio campanello?

– In questo caso, non dovresti essere qui. Che tu parta oggi, mi sembra una cosa sensata. Hai visto che qui non c’è nessuna traccia, anzi si rischia anche di farsi male! Forse potrebbe vera-mente cercarti lei. Prendo anch’io un altro carciofo.

– Come va l’occhio?

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Andrea partì alle quattro del pomeriggio di quel venerdì un-dici gennaio. Ci abbracciammo e lui mi diede la solita e generosa pacca sulla spalla, augurandosi che i punti non si strappassero. Appena lo vidi partire con la sua auto, decisi cosa farmene di quello che restava del giorno. Andai a dormire, non prima di re-carmi in farmacia a comprare un antidolorifico. Visto che c’ero, decisi di comprare anche una confezione di preservativi. Usai gli ultimi due della scatola con Emanuela, anche se lei mi lasciò in-terdetto quando mi disse che potevamo provare a farne a meno.

– Sei sicura?– Ti sentirei di più, e anche tu. Proviamo.Misi la scatola nel cassetto delle magliette e degli slip, per

coerenza. Fu l’ultimo gesto prima di un sonno durato fino a sera.La sveglia segnava le nove e un quarto. Avevo dormito quasi

cinque ore! Con il risultato che quella notte non avrei preso son-no così facilmente. Mi recai dalla mia camera alla cucina dove avrei organizzato le attività successive e avrei iniziato ad appun-tare sull’agenda le cose da fare il giorno dopo.

Passai davanti al telefono e mi accorsi del led luminoso che lampeggiava. Da quanto non sentivo la segreteria? Dall’altro ieri, mi risposi. Due erano i messaggi che bussavano impazienti die-tro quegli impulsi intermittenti. Non indugiai oltre modo.

Primo messaggio:...................Secondo messaggio:..................Pensai si fosse rotto il meccanismo. Mossi i cavi e spinsi gli

spinotti. Riascoltai, ma ancora una volta i due messaggi erano privi di parole. Non di suoni, però. In entrambi i casi, portando il volume al massimo, si sentiva un sottofondo di macchine da scrivere, di borbottii, di sedie che rigavano il pavimento.

Fino a poco tempo prima, il venerdì sera era dedicato all’usci-ta con Giuliana. Pizzeria, cinema, battute con le due coppie che venivano con noi, sbattimento del sottoscritto sul letto fino allo sfinimento. Ricordo bene la foga sessuale di Giuliana. La mia ex non ammetteva deroghe, e quella serata così doveva conclu-

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dersi. I suoi preliminari iniziavano nel buio del cinema. Con una sapiente stratificazione di oggetti – giacche, borse, ombrelli quando pioveva – riusciva a nascondere agli occhi dei vicini di poltrona la sua mano serpentina che giocava perennemente con il mio basso ventre. Ero paziente e la lasciavo fare, interrompen-dola tuttavia quando sentivo i miei testicoli farsi doloranti.

Non ero curioso di sapere cosa stesse facendo in quel mo-mento, mentre stavo preparandomi una camomilla con un filtro residuo scovato in un angolo remoto del pensile. Non riuscivo neppure ad immaginarla avvinghiata a Petrucci. Mi stava sempli-cemente scomparendo dalla mente, così come è sano che accada quando due persone si lasciano.

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Misi un sottofondo di Neil Young che arrivava dallo stereo della sala, e aprii la mia agenda al giorno dopo. Trascrissi i se-guenti propositi:

Ore 15: telef. mamma per pranzo domenica.Ore 17: telef. Andrea.Sera: libera, cercare amici. Furono i primi tre scarni appunti che mi vennero in testa, ma

erano solo spunti, in attesa di eventi e sorprese. Mi andava bene anche solo prendere appuntamenti con me stesso.

Sarà stato l’occhio ancora semichiuso, ma mi accorsi di avere scritto su una pagina sbagliata, su un giorno precedente, visto che c’era già scritto qualcosa. Infatti, era la pagina del sette gen-naio, del lunedì dell’università e della riunione con cena finale. Uffa, mi toccava riscrivere. Mi avvidi però che in fondo, oltre l’ultimo rigo stampato, c’era una dicitura a matita, ma di una matita che doveva scrivere poco. Doveva essere una mina duris-sima se più che il segno delle parole se ne vedeva il solco. Forse fu l’illuminazione del lampadario della cucina a farmela scoprire.

Che palle! Una e mezza: festa lume di candela, articolo, villa Borghese, vicino parcheggio.

Sistemai meglio la sedia e avvicinai il busto al bordo del tavo-lo. Nella mia indagine, questo particolare mi era sfuggito. Che si trattasse di quella ridicola iniziativa dell’assessorato alla cultura? Quella delle letture dei brani di Edgar Allan Poe sotto il tendo-ne? Quella che proprio un devoto discepolo di Nicolini aveva progettato, con coreografia lugubre, orario assurdo e freddo sibe-riano? Della serie: come creare un evento indimenticabile. Infatti l’avevo scordato. Ma quel rigo mi azzannò come il gelo patito quella notte in cui io, e poche decine di incoscienti, assistem-mo ad una sonnolenta e intirizzita sequenza di lettori bardati di mantello nero, rischiarati macabramente da fiochi lumi. Ero lì per prendere spunti per un articolo che sarebbe uscito la settima-na successiva. E in realtà quasi tutti i presenti erano redattori ro-mani che furono precettati dalla ricchezza dell’elegante brochure che presentava la manifestazione.

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Mi recai al parcheggio di villa Borghese subito dopo la cena da Quirino. In auto ripensai a tutto quello che mi aveva vomitato addosso Monica, a Giuliana, a Petrucci. Forse scelsi di andarci per dimenticare, per rincoglionirmi con una combriccola di illu-si acculturati dei quartieri alti, in eterna attesa di partecipare ad uno spettacolo da circo che facesse gridare al miracolo.

I ricordi defluirono daccapo. Rammentai il tendone bianco e rosso puntellato in uno spiazzo in cui i pini fossero sufficiente-mente lontani. Rividi le facce tumefatte più del solito – difficile a dirsi – delle poche signore over sessanta addobbate alla moda turco–romana, cioè con giacconi ricavati da kilim anatolici. In accordo con il tema della serata, tutti si doveva indossare una mascherina patetica da Zorro. Lo squallore si impossessò de-finitivamente dei presenti dopo la lettura dei brani, quando si presentò al microfono un essere inquietante dalla voce piena di fumo di sigarette senza filtro.

– Buona notte! I racconti del mio maestro vi hanno fatto ve-nire i brividi?

Il mio vicino batteva i denti già molto tempo prima che ini-ziassero le sacre letture. Un collega del settimanale di Tor Pignat-tara mi sussurrò in un orecchio: – Chissà se li sente i brividi se je metto un ghiacciolo ner culo!

Il coinvolgimento degli spettatori era totale.– Mi presento. Sono il medium Nascar!Una nuvoletta di fumo uscì dallo scoppio di un mortaretto

acceso da un assistente alle sue spalle. Ci si spaventò per l’igno-biltà della messinscena.

– I miei poteri sono immensi! Posso fare di ognuno di voi ciò che voglio!

Un secondo petardino, stavolta con scintille che colpirono sul viso l’assistente, sottolineò l’apoteosi. Nascar iniziò a urlare come un ossesso.

– Ora iniziate a tremare! Sceglierò uno tra voi e lo ipnotizzerò fino a quando non sarà in mio potere! Ma, mi raccomando, ne

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voglio uno resistente, uno che non crede che tutto questo sia possibile. Solo così darete fede alla mia magia!

Pensai che di scettici, tra gli sparuti presenti, non avrebbe avuto difficoltà a trovarne. Un panzone, visibilmente alterato dai long drink offerti dall’assessorato, non si fece pregare due volte e si precipitò verso il medium. Un applauso liberatorio lo ac-compagnò nel tragitto. Lo vidi zigzagare tra i convenuti. Prima che raggiungesse Nascar impattò in una coppia dalla fisionomia familiare. Almeno la donna mi sembrò di averla già vista. Mi avvicinai curioso. Era Elisabetta. Con Silvio.

Mentre la scena si materializzava sullo sportello del boiler, dovetti interrompere in quel punto la ricostruzione. Chiusi gli occhi, con qualche dolore, e feci una pausa, perché avevo il pre-sentimento di non aver ricordato in queste ultime ore alcuni av-venimenti determinanti. Li stavo, ahimè, recuperando.

– Ciao, Elisabetta! Cosa ci fai in questo convivio di dementi?Si voltò spaventata verso di me.– Rocco! Finalmente una persona normale! Mi ha portata Sil-

vio. Vi conoscete?– Non ricordo.Il suo partner si rivolse a me, spazientito.– Ci siamo visti alla proiezione del Napoleon, a Massenzio.

Non ti viene in mente? Comunque mi ripresento. Sono Silvio.Mi strinse la mano con veemenza. Elisabetta, nel mentre, mi

sorrise e mi pregò di restarle vicino.– Stai qui, che si vede meglio!Mi prese un braccio e mi posizionò tra di loro. Silvio mi su-

però con lo sguardo e le rivolse un’occhiata di disappunto. Dissi qualcosa.

– Vi ho disturbati? Ci vediamo dopo, magari.Elisabetta quasi mi implorò.– Ma figurati! Facci compagnia. Vediamo cosa sa fare questo

impostore. Sei solo?– Veramente sono qui per fare un articolo sulla manifestazio-

ne. Sai, è per il giornale.

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Silvio ebbe una parola per entrambi.– Ah, è vero che scrivi su quel settimanale. Eli, guarda che

questo è un ipnotizzatore famoso! Vedrai cosa è capace di fare!Sparii dal loro dialogo.– Mi hai trascinata qui, nel cuore della notte, per vedere un

altro dei tuoi idoli di cartapesta! Te l’ho detto già mille volte che questi approfittano della debolezza delle loro cavie, che le sug-gestionano a tal punto che cadono come delle pere marce. Sono come quegli imbroglioni che al telefono ti promettono terni e quaterne e ti preparano i filtri per farti guarire dal cancro!

– Non è vero! Questo Nascar è uno serio. L’ho conosciuto l’anno scorso al nostro club.

– Non parlarmi più di quell’accozzaglia di psicopatici, per favore, se no spaventi il mio amico!

Il loro tono mi imbarazzò. Cercai di dire qualcosa che ci por-tasse da un’altra parte.

– Allora, il lavoro? Sei sempre alla boutique?– Già. Di là non mi muovo, per il momento. (Sospiro). Ma

non dura, ho altre cose da fare. Ti ricordi di quei nostri amici del liceo che poi hanno messo su una cooperativa di prodotti biologici? Elio, Deborah e Alan. Hanno visto giusto, loro! Pensa che si sono trasferiti in Toscana e hanno aperto una rivendita di generi alimentari naturali. Stanno andando a gonfie vele. Quasi quasi ci faccio un pensierino.

Il fidanzato volle dire la sua.– Sì, così ti ritrovi a vangare la terra e a parlare con i lombri-

chi! Non dire fregnacce.Non mi piaceva quel modo di manifestare un dissenso. Sil-

vio, lo decisi all’istante, mi stava antipatico. E mi meravigliai che Elisabetta non gli avesse già sferrato un calcio sugli stinchi. Gli rispose, ma più che altro per chiudere la parentesi e farmi senti-re meno a disagio. Mi guardò a intermittenza, mentre emetteva sbuffi di vapore.

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– La mia vita è un fatto privato! Parliamo di cose più allegre. Per esempio di quando finisce ‘sta stupidaggine, che qui si con-gela! Dico, non si poteva fare in estate?

– Vuoi mettere il colpo d’occhio dei mantelli, l’atmosfera da Transilvania?

Dissi le prime idiozie che mi vennero in mente, in sintonia con i pensieri della mia amica, di sberleffo per il cretino che si portava dietro. Il quale mi provocò.

– Ah, non ci credi? Ti sei mai chiesto quanti sensi una persona possegga? Di quali capacità nascoste noi disponiamo? Per te tut-to si risolve in mangiare, dormire, guardare, camminare, sentire distrattamente il rumore che ti circonda e poi commentare con distacco, come se tutto non ti riguardasse?

A parte che avrei anche potuto condividere qualcosa della sua dichiarazione di guerra, ma non ne compresi le finalità. Voleva convincermi? Voleva provare a farmi stare dalla sua parte?

Ricordo che non risposi, favorito dall’acme dello spettaco-lo, giunto ad un punto di non ritorno. Nascar sputò di colpo nel microfono di fare silenzio, che avrebbe dovuto dimostrare al mondo la sua grandezza. Ottenne l’interruzione del chiacchie-riccio – ma non dei sorrisi infreddoliti – e la fuga di due micetti curiosi che si stavano aggirando tra i tavolini.

L’assistente attivò un mangiacassette. Ne uscì una musica da film gotico, che contribuì a rendere l’atmosfera ancor più gelida e patetica. Il crescendo di violini aveva un volume imbarazzante. Lo sguardo del mago fulminò il suo impacciato aiutante, il qua-le si prodigò in un rapido e costernato provvedimento tecnico, smanettando sulle manopole dell’impianto voci.

Dopo alcuni secondi di effetti Larsen, e anche qualche pu-gno sul mangiacassette, l’orchestrazione fu riportata al livello di ascolto desiderato dal medium, cioè quel tanto che bastava per non farci attenzione e allo stesso tempo per instupidire. Venne dato un microfono anche alla cavia sbronza.

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– Qual è il tuo nome? – disse Nascar improvvisamente con-fidenziale, con voce da gatto che vuole ammansire il topo prima di sferrargli la graffiata di grazia.

– Buona notte a tutti! Sono emozionato. È la prima volta che partecipo a un gioco.

Ci guardammo tutti, divertiti, meno il mio vicino, accigliato e impaziente. L’ubriaco era già in trance di suo, il compito dello stregone si sarebbe rivelato facile, ma era necessario ripristinare almeno le decorazioni di quella farsa. Il truffatore col mantello fece tutto da solo.

– Bene, diciamo che ti chiami Bruno. Tu sei Bruno, te lo impongo!

Mise la mano sinistra aperta sulla fronte del malcapitato, ini-ziando a urlare.

– Bruno, guardami! Mi stai guardando? Mi stai ascoltando? Guardami! Ora hai cinque anni!

Gli ordini perentori attecchirono subito sul volontario altic-cio che gettò lo sguardo in quello di Nascar, con faccia da ebete. Abbassò il braccio che teneva il microfono. Tacemmo per vedere meglio i particolari del sacrificio, allungando i colli come avvol-toi che cercano i brandelli liberi della carne della preda esangue.

La voce dell’imbanditore si fece meno severa.– Hai cinque anni. Sei piccolo, non vedi? C’è un barattolo di

Nutella sulla credenza. Ti piace la Nutella, eh?Lo sbronzo annuì con occhi stralunati e bocca aperta.– Perché non provi a prenderla? Sei piccolo, però. Prendi que-

sta sedia. L’assistente allungò una poltroncina pieghevole di plastica. – Se sali, puoi farcela. Che buona, la Nutella! Se sali puoi

prenderla. Sali, avanti!Il sedicente Bruno salì, e sul palco si formò una incongrua

rappresentazione nella quale Nascar, con mantello e mascherina, rimaneva con la mano sinistra a mezz’aria rivolta verso una sago-ma tremolante che lo sovrastava. Stettero così per alcuni secondi,

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così come gli acrobati circensi si fermano a conclusione di un esercizio per attendere l’applauso degli spettatori. Che qui invece non arrivò.

Nascar si aspettava qualche cenno di apprezzamento da parte della platea se nel microfono ringhiò: – Questo è il mio potere, e lo posso usare per ognuno di voi!

Silvio mi prese il braccio per avvicinare le sue labbra al mio orecchio.

– Hai visto? Nascar è un grande ipnotizzatore! Qui non può dimostrare quello che veramente sa fare, ma l’ho visto mentre ha fatto spogliare un signore inglese o quando ha fatto recitare una canzoncina ad un direttore di banca!

C’era evidente ammirazione in questo ragazzo devoto che mi imponeva la sua attenzione. Ma non mi riuscii di dargliene cre-dito. Tacqui. Lo spettacolo non era finito.

– Bruno, prendi il barattolo, te lo impongo! Ce la puoi fare, è appena sopra la tua testa!

Nascar brandiva il braccio sinistro come una sciabola, con gesti enfatici, quasi mestando un brodo. La cavia si era messa in punta di piedi sulla sedia, barcollando mentre cercava di darsi uno slancio e levando le mani al cielo. Era ormai stordito dalle urla del mago e dal buio pesto del cielo e dal suo equilibrio pre-cario quando crollò verticalmente al suolo. Mi preoccupai, come tutti, della sua incolumità emettendo un leggero monosillabo di spavento. Nascar fu implacabile.

– Niente paura! Bruno adesso si rialza, vero Bruno? Non è successo niente! Bruno ha preso la sua Nutella, ci è riuscito. Ed ora se la mangia tutta, col dito. Inzuppa bene il dito, mangiati tutta la cioccolata, avanti! Non lasciarne neanche una goccia!

Il poveretto, forse anche per il colpo preso al capo durante la caduta, mimò il gesto, con faccia compiaciuta. Intinse l’indice più volte nel bicchiere virtuale e più volte lo succhiò con avidità, talvolta pulendosi la bocca dall’inesistente leccornia. Ero stanco, il giorno dopo avevo lezione alle otto e venti, avrei dormito solo cinque ore ad andar bene. Salutai i miei vicini.

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– Bene, adesso devo proprio lasciarvi! Ho visto quello che c’era da vedere. Scusatemi. Ciao, Elisabetta. Ciao, Silvio.

La mia risolutezza meravigliò entrambi. Elisabetta si voltò al-larmata verso di me.

– No, ti prego, stai ancora un poco! Ci beviamo una ciocco-lata in via Veneto, tanto per restare in argomento, e poi andiamo tutti a casa.

Silvio fu più esplicito.– Vi invito a casa mia! Ho una cioccolata strepitosa, con cacao

importato dal Brasile. Se aspetti cinque minuti...– No, davvero. Devo svegliarmi presto. Vi ringrazio, sarà per

un’altra volta.Entrambi mi presero le braccia. Non mi divincolai dalla mor-

sa, e aspettai altri cinque minuti, il tempo necessario per vedere altre meraviglie tipo Bruno che imitava il suono di una loco-motiva, Bruno che piangeva implorando sua madre, Bruno che si flagellava con un bastone. Fu proprio durante quest’ultima performance che l’esibizione si interruppe: il volontario si diede una mazzata così forte sulla fronte che Nascar ritenne opportuno interrompere la performance. Fece finta di risvegliare dal coma vigile la sua vittima – stordito in maniera esponenziale – il quale emise un sorriso inutile prima di essere preso in consegna dall’as-sistente. Qualche applauso, l’inchino di Nascar e lo sventolio del suo mantello posero fine allo spettacolo. Io mi trovai invece ad accompagnare Elisabetta e Silvio al parcheggio di Villa Borghese.

– Tu sai dove abito, Rocco?Silvio mi spiegò, prima che entrassi in macchina, la strada.

Avrei dovuto allungare il mio tragitto. Le ore di sonno che avrei avuto a disposizione sarebbero scese a quattro. I due fidanzati, comunque, vollero farmi da apripista e mi suggerirono di seguir-li. A quell’ora non avrei avuto difficoltà a non perderli di vista.

L’auto dei due si fermò davanti ad un condominio di tre piani, probabilmente senza ascensore, pensai. Scesero. Scesi. Ci riunimmo per entrare in un portone di vetro e alluminio ano-

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dizzato. Il silenzio della notte rendeva tutto più liquido, come i miei pensieri che, se ben ricordo, si limitavano ad un elenco di rimproveri verso me stesso.

Avevo il vizio, da sempre, di ficcarmi in situazioni che non volevo per il puro gusto di non contraddire i miei interlocutori: mi sembrava più comodo e poi non sapevo insistere. Non era per spirito di immolazione. Si trattava anche di amore, credevo e credo tuttora, che di tempo ne è passato per verificarlo.

– Quanti colori, eh? Pensa che ognuno di loro aiuta gli altri ad esistere e gli altri a lui. I colori scuri aiutano quelli chiari ad essere più luminosi.

Quando mia madre mi diede le prime spiegazioni del mon-do in cui avrei vissuto, stilando inconsapevolmente recensioni d’arte, avevo l’impressione che tutto fosse una relazione di tinte giustapposte. Riuscii a giustificare tutte le follie che mi capitò di incontrare, mi venne da prendere come naturali le perversioni e i cambi di umore della gente. Registrai come logica la varietà delle sorti umane. Provai infine compassione, ancora una volta, per tutti coloro che attentarono al mio benessere: in fondo, per loro la cosa avrebbe potuto essere piacevole, e allora perché ne-garglielo? Come spesso accadde, diventavo più luminoso quando si accostavano a me neri e marroni e blu, e questo rappresentava il premio per il mio piccolo sacrificio.

Avrei solo dovuto prestare attenzione ai limiti del quadro. Gli schizzi del colore fuori dalla tela non erano contemplati, anche se facevano parte dei gesti degli esecutori. Amavo le opere di Pol-lock solo perché il caos dei segni era racchiuso in un rettangolo: la vernice che era rimasta sulla parete o sul pavimento, intorno, non era stata tramandata ai posteri perché scartata, fuoriuscita dai bordi, allo stesso modo in cui speravo di accorciare il ricordo di tutti gli sfregi.

Alle due e mezza di quella notte, tra lunedì e martedì, di tanti anni fa, si stava quasi completando quell’ennesimo quadro della mia galleria personale, quel pastiche in cui convivevano le tinte

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fosche di Silvio, i tratti nervosi ed elettrici di Elisabetta e i miei rivoli azzurri e rossi. Tutto questo stava per raggiungere la corni-ce, ancora pochi tocchi. Poi si sarebbe conclusa anche quest’ope-ra, l’avrei archiviata come un’altra memoria.

Nella mia cucina, davanti alla tazza di camomilla e a quell’ap-punto a matita, mi accorsi dell’esistenza di quel quadro sotto col-tri di polvere, che rimossi. Scoprii quella tela proprio nel luogo del suo concepimento, appoggiata ad una parete che ora esibiva anche gli spruzzi delle pennellate finite fuori dai contorni del telaio. Mentre bevevo, il vapore mi inumidì la fronte e sciolse de-finitivamente qualsiasi traccia di sporco. Mi toccò rivedere tutto, quadro e spruzzi.

– Non voglio far tardi. Una cioccolata e via.– Non preoccuparti. Anch’io devo andare in negozio domat-

tina. Anzi, poi ce ne andiamo via insieme!Silvio si intrufolò tra me ed Elisabetta. – Non resti stanotte? Eviteresti la strada, e poi chi ti accom-

pagna a casa?– Rocco! Mi daresti uno strappo?Consapevole che le ore di sonno si sarebbero ridotte a tre,

acconsentii. Silvio andò ai fornelli, io ed Elisabetta restammo seduti sul divanetto blu del salone. La mia amica aspettò che il fidanzato si allontanasse per rivolgermi una sintetica preghiera a voce bassa.

– Senti, questa è l’ultima volta che lo vedo. Poi sparisco, me ne vado da Andrea! Ho già programmato tutto. Domani lo dico ai miei, se ne faranno una ragione soprattutto se gli dico che non vado a divertirmi ma a lavorare. Da quei miei amici che vendono i prodotti biologici!

In quell’istante avrei voluto dirle che ero già a conoscenza dell’amore di Andrea nei suoi confronti, che la scelta mi sembra-va naturale, che... Silvio era già di ritorno con un vassoio carico di tazze e tovaglioli di carta.

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– Allora, ecco qualcosa che vi riscalderà! Prego. Non ho messo molto zucchero. Se volete, potete aggiungerlo o prendere la cioc-colata così com’è. Sentirete che squisitezza!

Porse la tazza ad Elisabetta, fissandola. Poi ne diede una a me, con un mezzo sorriso. Sedette di fronte a noi, guardandoci e attendendo un cenno di apprezzamento per la bevanda, più da me che non dalla sua ragazza. Sostituii il primo sorso con una cucchiaiata. Mi sembrò una cioccolata calda come le altre.

– Buona.Mi fissò.– Non sai dire altro? È la migliore in circolazione, si trova solo

in una bottega dell’Esquilino, vero Eli?La mia amica lasciò il suo atteggiamento paziente per ritorna-

re alla determinazione che ricordavo, quella che la rese famosa ai tempi del liceo, quando decideva i destini dei suoi amanti. Posò la tazza sul tavolino con l’aria di non riprenderla più.

– Ma la fai finita? Io sono anche capace di sopportare la tua supponenza, ma Rocco cosa c’entra? È tutta sera che non gli ri-volgi una parola amichevole! Ti ha fatto qualcosa?

Sorrisi per l’imbarazzo. Evidentemente i due vivevano un mo-mentaccio ed io ero capitato nel bel mezzo di un diverbio che durava da chissà quanto. Ero diventato ben presto un catalizza-tore, il convitato sul quale riversare in modo indiretto tensioni e risentimenti. Mi volevano testimone. Entrambi pretendevano da me la massima attenzione: avrei dovuto giudicare i loro compor-tamenti, e appoggiare una parte piuttosto che un’altra.

Da una parte Elisabetta mi diceva – Hai visto che tipo, que-sto qui? Non faccio bene a mandarlo al diavolo? Posso avere di meglio.

Dall’altra, Silvio voleva fare bella figura, mascherarsi dietro presunte capacità di essere magnifico, pieno di tutte quelle cer-tezze che, tuttavia, mi portavano a rifiutarlo d’acchito, come tut-te le persone alle quali la sicumera limitava la vista. Era, questa, la povertà che non tolleravo negli uomini.

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Decisi di trarmi e trarli d’impaccio. Dovevo andarmene.– Tranquilli, siamo tutti solo un po’ stanchi. Sono quasi le

due e mezza ed è ora che io vada a dormire. Finisco solo la cioc-colata. È buona davvero!

Elisabetta restò immobile e imbronciata sul divano. Li ringra-ziai mentalmente del fatto che mi stessero risparmiando le loro intime aggressioni. Udii negli occhi, per un secondo silenzioso, le immagini rumorose dei loro bisticci, del loro rinfacciarsi rim-pianti. Benedii di gestire in modo blando il mio rapporto con Giuliana: la stanchezza mi aveva portato quasi a dileguarmi da qualsiasi suo progetto, a non investire nulla su di lei, a non con-siderarla fondamentale, e quindi a non avere paura di perderla. Invece Silvio stava impazzendo dalla consapevolezza di vederla sfuggire: Elisabetta, come ai vecchi tempi, aveva ripreso a corre-re. Difficile starle dietro. E lui, che si era appena fatto sorpassare, riusciva solo a cogliere la visione del suo sedere e dei suoi capelli biondi e spettinati dal vento della riscossa. Dopo qualche istante avrebbe perso anche quella prospettiva, poi avrebbe pensato che non aveva senso correre per niente, poi si sarebbe fermato. Ebbi ancora un secondo per provare la mia compassione per Silvio, il cui torto più grande era quello di essersi innamorato della perso-na sbagliata, così come capita a quasi tutti gli innamorati.

Non fu quella la prima volta che mi ritrovassi a fare da spet-tatore a duetti dissonanti. Attribuivo questi eventi alla mia per-sonalità da carta assorbente. A conclusione, cercavo sempre di mettere una buona parola per entrambi. Nel caso di Elisabetta e Silvio, non avrei potuto fare nulla. Le loro prue avevano già coz-zato fragorosamente, e poi lui mi stava antipatico: potevo solo perorare la causa della mia amica, ma questo glielo avrei detto in macchina, fuori da quella casa di questo impiegatuccio appassio-nato di fattucchiere e di cioccolate.

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– Rocco, mi accompagni a casa? Si è fatto tardi.Elisabetta mi comunicò questa supplica che era già in piedi,

con indosso il suo elegante cappotto grigio perla già pronto per il freddo esterno.

Era di venerdì undici gennaio che mi risalirono improvvisi i ricordi di quei momenti di qualche notte prima, come dei ri-gurgiti che avevo cercato di rimandar giù con profondi respiri. Un appunto a matita, un occhio pesto, un momento di inattesa calma, tutto questo stava riportando a galla un relitto.

Silvio la trattenne con un pretesto, ed io rimasi ad osservare. Intanto mi giravo intorno in quel salone ordinato dove persino i quadri appesi alle pareti avevano cornici perfettamente alline-ate e spazi reciproci equidistanti. Mi stava venendo una sorta di nausea, una sindrome da gabbia dalla quale non vedevo l’ora di uscire. Maledissi il mio timore di non deludere il prossimo che mi aveva fatto accettare quell’invito. Aspettavo che si materializ-zasse un’occasione di commiato tra i due. Inutile.

– Sei libera di andare, certo! Quando mai ti ho trattenuta, quando mai non sei stata libera di rincorrere le tue fissazioni? E io, sempre qui ad aspettare. Perché io so che poi ritorni, che qui c’è sempre chi ti accoglie!

Andavamo bene, eravamo all’esibizionismo dei sentimenti. Con poche battute, Silvio aveva iniziato a prodursi in una recita barocca. Che stesse mirando ad altro, lo capii quando cambiò espressione sia nei confronti dell’amata che verso di me. Il bian-co dei suoi occhi iniziò ad essere insopportabile alla vista, così come tutto il resto. Si diresse ad abbracciare goffamente Elisa-betta, che rimase rigidamente senza espressione. Iniziò anche a piagnucolare senza lacrime. Nelle sue parole, la deposizione di un colpevole.

– Ma dove vuoi andare? Vuoi lasciarmi? Non ti ricordi che ti ho tirata fuori dalla dipendenza dei tuoi? Ti ho conosciuta ragaz-za e sei diventata donna. Quanti progetti! Ti ricordi di quando siamo andati a vedere quella casa al Nomentano? E poi gli amici. Cosa penserebbero se tu mi lasciassi? Cosa vuoi? Dimmelo!

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Non so perché, previdi che parlasse di famiglia. Guardai il pavimento di gres, fissando le fughe.

– Volevi un figlio, te lo ricordi? Ti avrei sposata! I tuoi erano d’accordo. Non riesco a capire come tu possa dimenticare ora tutto questo!

Lasciò la presa. Rialzai lo sguardo, auspicandomi un’uscita di scena. Mi sbagliai. Tornò alla carica con ben altra strategia, fis-sando Elisabetta a distanza ravvicinata. Lo spettacolo di Nascar non era ancora terminato. E a me toccava assistere a quel fuori programma.

– Guardami! Tu non vuoi andare via. Stai facendo i capricci, come sempre! Vuoi che tutto il mondo ti segua. Ti credi la mi-gliore, la più bella? Guardami! Credi di essere furba, di fuggire via da me senza che me ne accorga?

Ora, come quella sera di venerdì undici gennaio in cui mi ritornarono nella memoria quelle scene, sono più che mai certo di essere stato stordito. Quei ricordi, da allora, non mi hanno più lasciato, ne ho conservato l’esatta scansione. Se ognuno di noi deve morire con i suoi incubi, allora io ho conosciuto la mia dote. Quella notte tra lunedì e martedì, in casa di Silvio, tanto per cominciare. Casualmente, come sempre: i brutti sogni non danno avviso e ci puniscono tanto più malamente quanto più noi siamo incolpevoli.

– Guardami bene, Eli! Devi sapere! Devi sapere che mi ap-partieni e che io farò qualunque cosa, anche quella di umiliarmi. Ti ho seguita ad Arezzo! Lo sapevo che saresti andata quel tipo!

Non riuscii a staccare lo sguardo dagli occhi spalancati di Sil-vio. La stanza scomparve, coperta dal tono sostenuto delle sue parole.

– È stato da lui che mi avevi umiliato! Tu non sai quanto male mi hai fatto quella notte. Credi che non vi abbia sentiti? Secondo te, cosa ho provato a sentire i vostri godimenti? Ogni rumore attutito, ogni oggetto che cadeva, ogni vostro rantolo, tutto ho ascoltato! Credevo fosse un sogno, fino a quando non

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ho allungato la mano. Ma tu non c’eri, eri nel cesso a insozzarti con il tuo amico!

Silvio urlò disperazione ed io, dalla mia mattonella, ebbi oc-chi caritatevoli per entrambi. Assomigliavano sempre più a due bandoli che si stavano sciogliendo. Lui era fermo al suo posto, lei gli stava scivolando via inesorabilmente, come pelle di serpente che sguscia tra i rami.

Restai fermo senza più chiedermi cosa fare per andare via. La-sciai la posizione del centometrista in partenza per appoggiarmi ad una sedia. Forse ero stanco o forse mi lasciai rapire dall’even-to, che trovai suggestivo, carico di emozione. Lì dentro c’era spessore e lacerazione, tutto si era spezzato in mille brandelli. Un pittore divisionista non avrebbe saputo fare meglio.

Silvio muoveva la voce con sobbalzi, adattandola alle parole. Mi sembrò strano, però, che non mi badasse. Pensai che fosse un fenomeno normale per chi dovesse prendere la mira: ciò che era fuori dal bersaglio era come se non esistesse. Mi sembrò di non esistere, di essere diventato invisibile. Spostai rumorosamente la sedia. Macché, né l’uno né l’altra si voltarono o quanto meno si distolsero dal proprio dramma. Lui, anzi, incrementò i toni: le ricordò che, da quel giugno, non era più riuscito a riprendersi, che tutte le volte che usciva con lei si sentiva morire ripensando a quella notte, che aveva atteso invano una sua confessione, per poi poterla assolvere. Tutto inutile, a suo parere: lei, ormai, si era persa con Andrea che l’aveva plagiata facendole credere di poter rivivere una seconda adolescenza, adulandola e illudendola.

Elisabetta restava immobile nel suo cappotto grigio perla e nel suo viso assente. Silvio le disse di non aver creduto nem-meno per un istante a Firenze, alla visita alle sue amiche dopo il capodanno. Impiegò solo un giorno per intuire che in realtà la fidanzata era fuggita da Andrea. Si recò anch’egli ad Arezzo, sperando di sbagliarsi: si appostò di fronte al portone della casa del mio amico che erano le nove di sera per vederne uscire fuori, dopo mezzora, i due amanti avvinghiati come una sola entità e

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come tali volare verso chissà quale meta celeste. Gli bastò questo per poter deformare definitivamente i propri sentimenti.

– Anche questo ho dovuto vedere! Guardami, te ne rendi conto? Sei soddisfatta oppure ancora non ti basta?

Avrei dovuto intervenire e dirgli di lasciarla stare, di non in-sistere in questo suicidio amoroso. Avrei dovuto interrompere quel monologo monotono, dicendolo ad entrambi. Ma ero an-cora invisibile. Temevo si potesse passare alle mani: in alcuni at-timi Silvio ci fu vicino, anche se non ricordo strattoni o minacce. Mi bastò questo, credo, a convincermi di non mettere parola. Il bisticcio sarebbe finito a momenti, pensai; ora lui la lascia anda-re, non la saluta, lei mi chiede con lo sguardo di accompagnarla, io la seguo, non lo saluto, si chiude la porta alle mie spalle, faccio un sospiro, in macchina non si dice nulla, si arriva al suo porto-ne, ciao, vado a letto.

Invece Silvio le strinse improvvisamente le mani e le impose di guardarlo negli occhi, con ordine perentorio, come avevo vi-sto fare ad un illusionista qualche momento prima, quasi con le stesse parole. Restai imbambolato: non avevo previsto la trasfor-mazione della tragedia in farsa.

– Sei pentita, vero? Ora è tutto passato, non ti ricordi più nulla! Ora ci siamo solo noi due. Tu mi ami! Mi hai sempre ama-to! Non c’è altro davanti ai tuoi occhi. Guardami bene, non c’è nessun altro! Guardami! C’è solo la mia voce! Senti altro?

Elisabetta mimò un diniego con il capo, con sguardo ancora più assente. Il silenzio che seguì a quella magia mi trafisse il cer-vello, fino a produrre un sibilo continuo nell’orecchio destro che iniziò a dolorare. Ma passò ben presto, per fortuna, ed ebbi la prontezza di intervenire, finalmente, staccandomi dalla mia mat-tonella preferita e facendo un passo, non di più, verso il centro dell’improvvisato palcoscenico casalingo.

– La stai stordendo, non lo vedi? Lasciala stare!Silvio si accorse della mia presenza e, non cambiando espres-

sione, mi guardò.

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– Ecco il suo complice! Tu sapevi tutto, non è vero? Maga-ri l’hai anche aiutata. O forse te la sei scopata anche tu? Chi non vorrebbe farlo. Peccato che sia la mia fidanzata, e lo sarà per sempre! Vai fuori dalle palle! Questa è una faccenda che non ti riguarda.

– Voglio solo sapere cosa le stai facendo. Elisabetta, stai bene? Elisabetta!

Lei non mi diede alcuna risposta. Lui sì.– Non farmi perdere tempo! Ora tu te ne vai e ci lasci soli, che

dobbiamo parlare. La porta è davanti a te. Vattene!Continuava a fissarmi con una faccia ridicola. A chi credeva

di far paura? Non ero abituato, non lo sono mai stato, a racco-gliere sfide né a menar le mani. Da piccolo le ho sempre prese, mi sembrava il percorso più veloce per chiudere un discorso con chi non mi ascoltava. Da grande ho cercato di non istigare gli altri a picchiarmi, facendo in modo che anche in questo caso non mi si ascoltasse. Insomma, provai a resistere a quell’ordine dicendo quasi nulla, chiedendo solo una vaga garanzia, ma non sapevo se mi sarebbe bastata.

– Se mi prometti che non le farai nulla. Perché non la smetti e non provi a parlarle senza questi giochetti?

La voce diventò carezzevole.– Vai tranquillo, amico mio. La saluterò io per te. Ora Eli è

impegnata.La guardò muto un istante poi tornò a insultarmi con le

sue incongrue certezze da baraccone. C’era coerenza, in quel momento ero spettatore e lui mi stava spiegando le difficoltà dell’esercizio. Forse si aspettava l’applauso.

– Giochetti... Guarda la tua amica e dimmi se sto giocando! Ah, è vero, adesso mi ricordo che voi sfilavate insieme nei cortei politici, facevate parte della stessa cricca che inneggiava al ma-terialismo. Sei contento ora di vedere con i tuoi occhi qualcosa di completamente diverso? Come lo spiegano, questo, le vostre teorie da borghesucci della rivoluzione? Guarda bene. Io l’ho ip-

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notizzata, semplicemente con la mia voce! Ora lei mi ascolterà perché si è fermata. E ritornerà quella di prima, di quando anco-ra non conosceva quel coglione che me l’ha portata via!

Ebbe per lei un breve sguardo appassionato. Feci un altro pic-colo passo verso di loro. L’apprendista stregone mi fermò con un urlo.

– Fermo! Sei un testone, mi stai facendo perdere un sacco di tempo. Io devo parlare con Eli, lo capisci?

Le ultime parole furono simili a stridori di freni. Decisi di fare altri passi, forse per la prima volta nella mia vita. Allungai le braccia verso le spalle di Silvio, deciso a distoglierlo da quello scempio di suggestione iniettata nella mia povera amica. Ma fu lui il più lesto: mi sferrò un ceffone improvviso che mi fece per-dere l’equilibrio. Caddi, volto a terra, sul tappeto caucasico e ne assaporai il vello. Mi rivolsi ad Elisabetta per cercare il suo volto o almeno un suo cenno di aiuto. Aveva ancora lo sguardo perso. Che cosa potevo fare, soprattutto adesso che quell’invasato mi aveva puntato un piede sul petto? Vedevo lui e il lampadario. Non ebbi il tempo di soffermarmi sull’insieme di quelle piccole luci che aggiungevano altro stordimento. Mi meravigliai appena della novità della situazione, succube com’ero dell’incombenza della sua figura che, da minuta qual era, ora mi appariva enor-me. Un totem mi si era quasi conficcato dentro e avrebbe potuto avere ragione di me. Ne sentii addosso l’oppressione e gli sputi. Si abbassò e mi mise una mano al collo, spingendola.

Tutto questo mi stava sfinendo. Non mi mossi, aspettai il mio destino, e mi preparai ad ascoltare altri vaneggiamenti. Vidi solo i suoi occhi a qualche centimetro dai miei, accompagnati da un odore di alito marcio.

– Guardami bene! Potrei fare di te ciò che voglio, idiota! Hai visto come mi basta poco? Forse mi è più facile farlo con te che con lei. Guardami e ascoltami. Tu non esisti, sei solo un’immagi-ne di te stesso. Tu sei altrove. Sei a dormire, mi senti? A dormire!

Aveva preso a parlare con quella stupida e lenta cadenza nar-

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cotica che ebbe su di me l’effetto immediato di farmi perdere ogni difesa. Continuava a premere sul collo. Ne sarei morto se di colpo non avesse rilasciato la pressione.

– Non qui, cretino! Vai a dormire a casa tua, lasciaci in pace. Ora alzati e sparisci! Ti ordino di andartene, hai capito?

Si rialzò e mi aiutò a fare altrettanto. Ricordo a malapena, ma ricordo, il mio smarrimento e il sangue che tornava a rifluire. Sembrava quasi che dovessi scusarmi agli occhi dei due del mio comportamento perché rimasi a testa bassa, intimidito. Silvio mi avrebbe ancora parlato.

– Tu non ricordi più nulla! Hai solo sognato. Un incubo che domani sparirà al tuo risveglio, ecco di cosa si tratta. Un brutto incubo, caro Rocco. Quindi va smaltito per bene. Vai a dormire, adesso, e dormi tanto perché tanto dovrai dimenticare. Vai!

Pur rintronato, volli un’ultima rassicurazione.– Controllerò che tu non le abbia fatto del male. Tornerò qui

domani sera.– Passa pure dopo cena. Ti aspetto.Non furono veementi le sue ultime parole che ricordavo di

quella notte. Mi venne in mente che addirittura mi riconciliaro-no. L’ultimo sguardo che diedi a Elisabetta me la presentò con la stessa postura del corpo e del viso con le quali l’avevo lasciata poco tempo prima. Non ci feci più caso. Andai via, scrissi in auto l’appunto sulla mia agenda e di quel giorno non ricordai null’altro. Solo che mi svegliai alle tre del pomeriggio del giorno dopo. Poi mi recai in redazione, recapitai gli articoli del martedì, implorai Monica di trovarmi spazio, salutai e tornai a casa. Tra tutte queste abitudini del martedì mancavano le ore di lezione del mattino. Semplicemente perché non ero andato al lavoro.

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La cucina sarebbe stata invasa dal fumo della sigaretta che sta-vo per accendere, spossato dall’invasione dei ricordi. Il primo tiro mi consolò. Avevo rivisto, ero riuscito a rivedere ad occhi aperti quello che mi era capitato e che avrei voluto dimenticare. Non c’era ancora tutto. Avrei anche potuto aggiungere altri appunti per riempire le caselle vuote, ma mi chiesi se ne valesse la pena dopo tutti quei riflussi che mi trasportarono, credo per pochi secondi, nella casa di un mentecatto che aveva compromesso le facoltà della mia amica. Accostai gli eventi a quelli della giornata corrente, delle vicende di Andrea e della mamma di Elisabetta, delle loro aspettative che sfogarono sul mio corpo di testimone.

Andrea, pensai, avrebbe dovuto essere avvisato. A quell’ora l’avrei trovato a casa. Ma non gli telefonai, non ne avevo la for-za. Non volevo neppure riaverlo a casa, almeno non prima di poter ritrovare altre tracce e riprendere le lezioni della mattina seguente. E rivedere Emanuela, la dolce e appassionata segretaria amministrativa del cui pensiero mi ero privato abbastanza. E poi avevo già in programma di chiamare Andrea il giorno dopo.

Decretai che quello dovesse essere un mio momento esclusi-vo, che quella sigaretta fosse il premio della giornata e che questa si dovesse chiudere allo spegnimento della cicca. L’ultimo sorso di camomilla, ormai raffreddata, servì solo a rendermi conto del tempo che passava, senza che io potessi farci nulla. – Il cane che corre non vede che il suo muso, – e io mi ero concentrato troppo su me stesso per non accorgermi che nel mio vicino pas-sato avevo assistito ad un misfatto. Forse avrei dovuto parlarne con mia madre, ma non le avevo mai telefonato dopo le otto di sera. Insomma, avrei dovuto arrangiarmi da solo e continuare le mie ricerche il giorno dopo, nel pomeriggio. Mi addormentai sull’immagine del volto inebetito di Elisabetta. Mi raccomandai di cercare sue notizie. Presi sonno contando i latrati del cane del mio vicino che, dalla sua cuccia sul balcone, cantava la serenata a tutta la piazza.

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– Rocco, per caso il cane ti ha dato fastidio ieri sera? Se ab-baiava è perché non sta bene, ha il naso chiuso. Questi animali non possono soffiarselo, allora lo porto dal veterinario che gli darà qualche intruglio. Tu, tutto bene? Vederti uscire alle sette e mezza di mattina è sempre un avvenimento.

Salutai Nanni che uscì contemporaneamente sul pianerottolo mentre mi richiudevo la porta alle spalle. La sua bestia era meno loquace del solito. Non mi ringhiava contro, aveva il muso ra-soterra, insomma era meno cane. Apprezzai velocemente l’op-portunità, ne previdi l’effimero effetto, salutai il vicino con una battuta rapida e scesi di corsa le scale. Dovevo essere in classe alla prima ora.

Il mattino di quel sabato dodici gennaio 1991 fu gelido come gli altri appena passati. L’abitacolo tardava a raggiungere una temperatura accettabile, l’auto annaspava nelle code del traffico, io ero perso in pensieri e musica, con il mangianastri in cui gira-vano le canzoni dell’ultimo album di Dylan. In particolare Man In The Long Black Coat, dove un’armonica struggente legava i ri-tornelli notturni del menestrello. Grande brano, da volume alto, in modo da sentire anche i grilli in sottofondo.

Non ho mai smesso di sentire quel brano: lo ascolto anche adesso, ho ancora il CD. Una vera e propria reliquia, dato che ha quarant’anni di vita, che non ha mai smesso di suonare. Que-sto cerchio specchiato, con le sue due striscette rosse e i titoli stampati, è ancora custodito nel box originale, dalla copertina che rievoca un dipinto murale di un uomo e una donna in at-teggiamenti indefiniti. Mi viene da sentirlo anche in questo mo-mento. Sta girando su un altro pezzo da museo, quel lettore che acquistai una decina d’anni dopo per rimpiazzare quello vecchio e che, a forza di riparazioni e bestemmie, è giunto fin qui. Non se ne trovano più di oggetti del genere! I supporti sonori sono cambiati, non so dire se in meglio: io addirittura sono ancora un nostalgico che conserva alcuni 33 giri in vinile che mi ricordano che una volta il mondo era più grande di adesso e in gran parte

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irraggiungibile, come quei lunghi solchi in cui cercavo a fatica di inserire la puntina tra un brano e l’altro.

Non ho voluto perdere le cose della mia vita. Vorrei essere bruciato con esse, almeno con un pezzo per ogni categoria. Un long playing (Matching Mole), un CD (Automatic For The People dei R.E.M.), una Smemoranda (quella del 2002), una cartolina di un quadro (uno qualsiasi di Jan Van Eyck), una fotografia di mia madre (quella degli anni ’50 in cui attraversava la strada con il cappotto chiaro), un quaderno di appunti (quello di storia dell’architettura con gli schizzi a china delle chiese rinascimen-tali), una chiave (di una casa tra quelle in cui ho vissuto in gio-ventù), una penna (la Mont Blanc rossa), una diapositiva (una di quelle scattate a Venezia, con i colori saturi), un disegno (uno dei ritratti delle mie amiche), una ricerca dei miei alunni (quella sulla Basilica di San Clemente), una foto di Emanuela.

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Emanuela era assente. – È in malattia, – disse la sua colle-ga fulva, adoperando l’espressione burocratica e sbrigativa che mette uno strato coprente e impersonale sulle più varie vicende personali.

Le telefonai all’ora di pranzo, con la solita apprensione. 7482338.

Libero una volta.Libero due volte.Libero tre volte.Si mette male, non è in casa. Non avrei dovuto chiamare. Se mi

risponde il figlio, metto giù.– Pronto?– Emanuela, sono io. Tutto bene?Non era Emanuela. – Non sono Emanuela, sono la mamma. Con chi parlo, scusi?Forza Rocco, trova in un secondo un’invenzione. Nella fretta

mi rivelai imprudente.– Sono un insegnante della sua scuola. Lo so che è ammalata,

ma dovevo chiederle di una pratica urgente. Se non può venire al telefono, lasci stare. La richiamerò la prossima settimana.

Mi venne da confidare nella discrezione di quasi tutte le ma-dri del mondo che, prima di lanciarsi nelle acrobazie dei sospetti sui figli, prima ne parlavano con loro, o quantomeno ne sonda-vano il cuore. Ma è una scusa che mi do ora, che forse non mi diedi allora. Inoltre il tono severo dell’interlocutrice mi teneva con il fiato sospeso.

– Mia figlia non può venire al telefono. Una voce in lontananza. La sua. – È un professore della tua scuola! La mamma non si stava rivolgendo a me. Emanuela era nei

paraggi.– Ascolti, richiamerò nei prossimi giorni. Non è importante.Da elefante qual ero diventato, ruppi quasi tutti i cristalli del

negozio in cui entrai.

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– Se la sua pratica è urgente, vuol dire che è importante. Come ha detto che si chiama?

Dissi il mio cognome ad occhi chiusi. Lei lo ripeté a voce alta, perché sua figlia lo ascoltasse. Quale imprudenza! Ebbi l’im-pressione di aver rovinato tutto, mentre nella cornetta regnava il silenzio delle voci, rotto da una serie di piccoli passi che si avvicinavano.

– Gliela passo. Buongiorno.– Professor Moresco, buongiorno! Mi dica?Ero arrivato a lei per la strada più impervia, attirando l’at-

tenzione di tutto il quartiere, quando avrei dovuto entrare di nascosto.

– Scusa, ho creato un casino! Credevo fossi sola. Potremo ve-derci ancora?

Per nascondermi, Emanuela mi coprì le spalle distraendo i curiosi.

– Sì, professore, senza alcun dubbio! Non si preoccupi, la set-timana prossima le darò quelle informazioni. Ho dovuto stare a casa perché ho avuto un po’ di febbre. Stia tranquillo, non ho dimenticato la sua richiesta.

Mi sciolsi e la spruzzai di riconoscenza.– Luce mia, lo sai che mi mancano le tue carezze e i tuoi sor-

risi? Cosa mi hai fatto, hai usato una magia? Spero di non averti creato problemi!

– Ma si figuri! Non mi ha disturbato, assolutamente. La salu-to, professore. Buongiorno.

Quelle furono le ultime parole di Emanuela che ascoltai. Per-ché fui io a non poterle più parlare negli anni che seguirono. Avrei tanto voluto farlo. Avrei dato chissà cosa per poterla ac-carezzare ancora una volta, risentire il suo profumo di pulito, toccare i suoi indumenti morbidi, passare tra le mani i fili castani dei suoi capelli, riempirmi le orecchie con i suoi sospiri. Ma non sarebbe stato più possibile. Me ne sarebbe mancato il coraggio. Decisi ben presto di risparmiare al mondo i miei aneliti senti-

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mentali, che divennero ben poca cosa rispetto alla colpa che mi porto dentro dai fatti di quarant’anni fa, quando fui complice, da spettatore, di un delitto.

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Alle quindici, come da agenda, confermai a mia madre la presenza al pranzo domenicale. Il che la stupì. Trovò inusuale che io le telefonassi per ricordarle degli impegni che avevo preso con lei: in genere non li rispettavo, facendo slittare le scadenze e capitandole in casa inaspettatamente con movenze indaffarate, mettendo uno scudo di disponibilità a tempo che non ammet-teva deroghe.

– Vado di corsa, ci vedremo con più calma, non so se potrò venire la settimana prossima, i consigli di classe, il giornale, non ho tempo neanche per me stesso.

Lei assisteva paziente alle mie recite senza insistere. Le andavo bene anche così, sfuggente come lo ero da piccolo. Per lei sono sempre rimasto un po’ bambino. Si ricordava ancora delle mie manie, della mia passione per le olive verdi dolci, delle storpia-ture grammaticali: spesso amava riportare in scena dei flashback, e così capitava che ritrovassi sulla sua tavola scodelle colme di olive oppure che mi rievocasse i modi in cui pronunciavo certe parole all’epoca dei primi dentini. Ed io capivo che si trattava di un pretesto per farla tornare ai suoi tempi passati, quando mio padre era ancora il presunto timoniere della nave di famiglia. Lei non gli si assoggettò in alcun modo, preferendo spesso la mia compagnia alla sua perché, mi rivelò in seguito, io le sorridevo mentre parlava e lui no.

E preferiva i miei cambiamenti di umore e le mie accelera-zioni improvvise nelle passeggiate agli ordini secchi di papà, alla prevedibilità delle gite che pianificava per noi.

– Ti ricordi di quando ci portò per un mese in quel paesino di dieci abitanti sulle Dolomiti? Ogni tanto mi tornano in mente le chiacchiere che tu facevi con le mucche. Le conoscevi tutte! E a ognuna davi un nome. Di come avesse trascorso il tempo tuo padre in quel mese, non ne ho il più pallido ricordo.

Mia madre non parlava più di papà, almeno in mia presenza, già da qualche anno. Era il suo modo di ridimensionare le no-stalgie. Ne avrebbe avute, ma per mio padre meno che per altri. Un giorno le chiesi se gli aveva voluto bene.

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– Sì, se bene vuol dire avere qualcuno da aspettare. Figlio mio, lo sai che tuo nonno mi ha fatta crescere a colpi di cintura sulla schiena? Per me, che ne avevo viste di tutti i colori, che avevo sentito mia madre urlare quando mio padre le rompeva i piatti sulla testa, avere un marito che voleva comandarmi solo con le parole fu un sogno, una grazia piovuta dal cielo.

So che la sua dolce risolutezza a non assoggettarsi diede a mio padre dei grattacapi, fino a quando lui non si rassegnò ad amarla anche per questo, per poi morire sotto una macchina. Mia madre mi raccontava che lo sognava ogni tanto mentre attraversava la strada: nel sogno, lei riusciva a sentire quello che pensava. Ad un certo punto mio padre si accorgeva dell’auto che stava per inve-stirlo. Mia madre riusciva allora a sentire il suo ultimo pensiero:

– Rosa, portami via da qui. Forse Rosa, mia mamma, amò mio padre solo per le ultime

attenzioni che le diede in vita, quelle meno visibili, quelle con minor storia.

– Mi sono lavata con un filo d’acqua, – era l’epitaffio sulla lapide che mise sui resoconti delle sue vicende amorose.

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Era un sabato pomeriggio, a Roma. Mi piaceva passeggiare senza obiettivi, a zonzo tra le botteghe di vestiti usati o nei negozi di dischi. Volli rispettare la tradizione e affondare nei flutti uma-ni, nel gorgoglio dei volti senza sorriso che avrebbero intersecato il mio vagabondare. Avevo tanti dubbi da sciogliere e allora scelsi come zona quella del centro della città. Lì le attrazioni non man-cavano, e poi c’era ancora la mostra di Silvio in via Monterone. Avrei rivisto le sue tele e cercato qualche riscontro. Volevo an-nusare la tana del lupo e scoprire i suoi passaggi segreti. Doveva spiegarmi tante cose, quel tipo. O forse dovevo intuirle da solo.

Era necessario che raccogliessi qualcosa in più da restituire ad Andrea, perché mi ero prefissato di aggiornarlo e di conseguenza di ospitarlo ancora una volta. Quando avrebbe saputo quel che mi ero ricordato la sera precedente, mi avrebbe sicuramente rag-giunto di corsa.

Decisi di raggiungere la mostra da nord, passando per il Pan-theon. Al Sant’Eustachio presi un caffè. E già lì cominciai a fis-sare oggetti e persone per ancorare i ricordi a scogli qualsiasi. Le labbra socchiuse facevano passare le ultime gocce con lentez-za dettata da un accumulo di immagini nitide, finalmente, che aspettavano solo che io le riordinassi. Scelsi con cura un luogo di sosta. Nei paraggi trovai un piccolo gradino. Decisi di sedermi. Da lì si vedeva pure la lanterna ad elica di Sant’Ivo alla Sapienza. Aprii l’agenda.

Andai proprio a quel mercoledì, a quel nove gennaio. La pa-gina era intonsa, e questo lo sapevo. Del foglio precedente rividi l’appunto barrato delle ore 22, quello con il nome di Elisabetta e un indirizzo che non era il suo. Proprio da quella sera comin-ciava il mio buco nero, protrattosi fino al bagno nell’acqua di un torrentello di irrigazione in cui mi risvegliai alle cinque del pomeriggio del giorno dopo.

Martedì 8: dopo giornale? Sera?Mercoledì 9: dopo giornale? Pomeriggio?

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Ecco quale fu il risultato dei miei dubbi. In due righe scrissi ciò che mi mancava. Però era già qualcosa. Mi alzai ritemprato ma allo stesso tempo con dolorosi crampi allo stomaco e una gran voglia di sparire dalla faccia della terra. Prima di costitu-irmi e rivelare le mie mancanze al mondo, non avrei smesso di scavare. E, mentre intraprendevo via Monterone dalla piazza del caffè, mi vestii di un semplice e malandato saio, percuotendomi con un cilicio ruvido. Ero sporco delle offese di Silvio: avevo lasciato che la mia amica rimanesse in sua balìa e avevo voltato le spalle al carnefice e alla sua vittima. Me ne rendevo conto e me ne spaventavo. Mentre contavo i portoni e accarezzavo le scritte sui muri, ebbi il brutto presentimento di aver assistito ad altro ancora.

La mostra era aperta. Due ragazze uscirono da quell’uscio di corsa, forse sfinite dagli scarabocchi di Silvio Pastorelli. Mi av-vicinai a piccoli passi. Non sapevo quali sarebbero state le mie prime parole, come avrei giustificato la mia presenza. Nel dubbio procedetti ed entrai nella sala, non prima di scorgere una targa sul campanello esterno che indicava la sede di un Club Esoterico Lilith. Non ci badai, preso dall’ansia dell’approdo.

L’artista non c’era. Ero da solo, a vagare tra i pochi lavori ap-pesi a quelle pareti poco curate. Attendevo qualcosa, un segno. Addirittura mi illusi di scorgere in qualche quadro un simbo-lo, una scritta che tradisse il mio uomo. La perlustrazione, per quello che mi riguardava, era giunta al termine già dopo pochi minuti. Silvio non si faceva ancora vivo.

Per ingannare l’attesa presi uno dei pieghevoli della mostra. Lo rilessi, rividi le stampe a colori di un quadro e della foto del mostro. Già visto. Cercai di intuire la grammatura della carta, di trovare il nome della tipografia. Insomma, avevo già spolpato tutto di quel posto. E anche quel depliant non diceva nulla se non cose da presentazione: la critica del giornalista sconosciuto, l’anno di nascita del pittore, i suoi studi, le sparute esposizio-ni, l’indirizzo dello studio. Quest’ultimo coincideva con quello

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dell’abitazione visto che Pastorelli citava (testuale): Amo dipin-gere accanto alle cose che amo, nella mia casa piena di ricordi e suggestioni. Abito a Monteverde, in Viale Jenner 43.

Mi venne istintivamente il gesto di barrare quell’indirizzo. Poi rimasi imbambolato a fissare l’unica finestra del locale. Le grate si trasformarono in una rete da pesca che iniziò ad agitarsi nella stanza e a sbattere sulle pareti con rumore di frusta. La catalessi infantile che mi trasportava istantaneamente in luoghi lontani e trasformava gli oggetti in entità favolose doveva essere una mia debolezza permanente se a quest’età non me ne ero ancora libe-rato. Quella via era l’indirizzo barrato sulla mia agenda!

Era l’appunto che presi all’uscita dalla casa di Silvio. Sarei do-vuto ritornare lì la sera dopo, per incontrare lui ed Elisabetta, per sincerarmi dello stato di lei. Del perché l’avessi poi cancellato, non seppi dire al momento.

Non valeva più la pena di aspettare Silvio.

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Un messaggio in segreteria.– Sono Monica! Aspettavo una tua telefonata. Quando mi

inviti a mangiare una pizza? Voglio vederti, sapere come stai! Lo sai che in redazione si è sparsa la voce della tua dimissione e tutti sono dispiaciuti? Ma non mi avevi detto che ci stavi ancora pensando? Io non ci credo che vuoi licenziarti. Giuro che non c’è stato ancora nessun pettegolezzo. Petrucci, stranamente, ha per te parole di gratitudine. Dice che sei il miglior redattore che abbia mai avuto. Ti fai sentire?

Poteva essere ancora in casa. Magari davvero avrebbe potuto essere la mia compagnia serale.

– Pronto, Monica? Sono Rocco. Ho sentito il tuo messaggio. Se ti passassi a prendere alle otto e stasera si andasse da Quirino?

– Ehi, che foga! Mi hai sderenata! Aspetta, che mi riprendo.Permaneva tra noi quel modo carnale di porgere gli argo-

menti. Piaceva ad entrambi perché si sapeva che si trattava solo di parole, di occasioni retoriche colorite ma innocue, come tra bambini che nei loro giochi parlano di cacca e di pipì.

– Fammi pensare. Un secondo di ripasso. – Sì, ti aspetto! Ho tante cose da dirti. Ti sei ripreso? Sono in

pena per te.– Adesso chiedimi anche se frequento cattive compagnie!– Le tue amicizie sono fatti che non mi riguardano. E poi, tu

sei capace di nascondere molto bene la tua vita privata e l’unica volta che ho visto qualche tuo amico è stato per caso, come per la tua ex. Mi correggo. Mi hai fatto conoscere anche quell’altro tuo amico, ti ricordi? Io lo rammento bene perché è stata l’ul-tima volta che mi hai portato i tuoi articoli. Aspetta, come si chiamava? Aiutami!

Io non lo ricordavo proprio. L’ultima occasione per portarle un floppy fu il martedì precedente. Ma di amici con me non ne avevo proprio. Monica faceva confusione, sicuramente. Glielo dissi.

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– No, Rocco bello, sei tu che non ricordi! Guarda che tu sot-tovaluti il mio cervello fotografico. Aspetta, si chiamava Fulvio! No, Sisto! Insomma, non mi viene il nome.

– Chi?– Ma sì! Ti è venuto a prendere perché dovevate andare in

un posto, ti doveva accompagnare a vedere una mostra. No, la mostra era proprio la sua. Mi invitò anche a visitarla. Mi ha dato un cartoncino, ce l’ho ancora in ufficio.

– Una mostra?– Ti chiese se gli davi una mano a sistemare i quadri. Beh,

adesso basta con ‘sto discorso. Ti aspetto sotto il portone alle otto! Quirino va bene. Anche se ho conosciuto un posto al Por-tico d’Ottavia: pare che come cucinino i carciofi lì... Non sono la tua passione?

Le confermai che erano la mia passione, la salutai e rimasi solo con quest’altra scheggia impazzita. Arrivai immediatamente alla conclusione che quel tipo che era venuto a cercarmi non avrebbe potuto essere altri che Silvio. E poi c’era di mezzo quella mostra. Il fatto che non mi ricordassi della sua visita al giornale non mi meravigliò.

Misi in discussione l’ipotesi di telefonare in quel momento ad Andrea e decisi di ritornare fuori a cercare ispirazione. Dopo un’ora, passata sopra un autobus lento e a passeggio tra gli incro-ci del centro città, si erano fatte le sei di quel pomeriggio di sa-bato. Ero stanco ma caparbio, disposto a rifare gli stessi percorsi altre dieci volte. Non avevo altro obiettivo, a quel punto, se non quello di rivedere l’apprendista stregone. A quell’ora non poteva non essere accanto alle sue croste a inventare inutili chiavi di let-tura. E difatti fu lì che lo trovai, intento a discutere con due tipi dall’aria evanescente che annuivano ad ogni sua teoria. Mi feci vedere, dalla parte opposta della sala. Si accorse di me e sgranò gli occhi aggiungendo un cenno di intesa. Non avrei aspettato molto.

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– Scusami, erano due redattori di Arte In. Forse mi pubbli-cheranno una segnalazione. Ma ci pensi? Le cose vanno bene! Nessun acquirente, ma avrò una discreta visibilità. Sapessi quan-te telefonate per farli venire qui!

Continuava a starmi antipatico. Silvio sembrava un illuso ve-stito a festa che credeva che il mercato dell’arte fosse una serie di incastri perfetti di contatti e conoscenze. Il che avrebbe an-che potuto essere, ma non teneva conto della variabile tempo. Avrebbe avuto la costanza di telefonare alle decine di soliti critici e giornalisti per qualche anno, prima di vedere un solo galleri-sta interessato ai suoi capolavori? Mi erano note diverse vicende simili, dall’esito scontato: l’artista faceva una mostra dove non vendeva neanche un quadro ma si faceva fare venti recensioni, poi ne faceva un’altra l’anno successivo dove continuava a non vendere nulla mentre le recensioni scendevano a dieci, poi si te-neva cento tele in cantina a riempirsi di macchie di umidità, salvandone alcune che magnanimamente regalava ad amici sele-zionati i quali anch’essi potevano arredare le proprie cantine. E tutto questo perché non si aveva l’umiltà di dire che quei quadri erano solo delle copie, degli esercizi di carta carbone. Forse di-chiarandolo se ne sarebbe potuta ricavare miglior fortuna.

– Allora, ti piacciono i miei lavori? Se sei qui è perché sei in-teressato. Facciamo un’intervista?

Gli chiesi di uscire da quel cubicolo. Ci recammo per strada e trovammo un anfratto di fronte all’ingresso. Io stavo appoggiato ad un motorino in sosta, lui era in piedi a salutare con un cenno di assenso i rari visitatori. Inspirai con sicurezza.

– Devo chiederti di Elisabetta.Cambiò espressione e mi mise una mano sulla spalla.– Sai qualcosa? Sei riuscito a sapere dove sia finita?– Credo di conoscere la sua sorte fino alla notte tra lunedì e

martedì. E tu sai benissimo a cosa mi riferisco!Lo guardai un secondo con fermezza per poi distogliermi sui

passanti. La sua faccia fece fatica a nascondere la sorpresa. Silvio

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dovette considerare in un secondo l’evidenza che i suoi esercizi non avevano procurato gli effetti sperati. Era stato un discolo, si era limitato a ripassare solo i fondamentali ignorando che la vittima dell’incantesimo avrebbe potuto un giorno risvegliarsi. Persino uno come me, con un po’ di fortuna, era riuscito a gua-stargli l’esperimento.

Lo vidi sorridere e dannarsi allo stesso tempo. – Faccio fatica a capire. Spiegati meglio!– Davvero non ricordi? Parlami di lunedì notte, di quello che

hai fatto a Elisabetta davanti ai miei occhi.– Ma cosa stai dicendo? Non capisco dove vuoi arrivare! Lo

sai che tutti abbiamo a cuore Eli, io per primo, e sto disperan-domi per avere sue notizie! Ti ho chiamato qualche giorno fa al telefono, e anche l’altro ieri ti ho chiesto se tu l’avessi vista. Io le voglio bene, la vorrei aiutare se solo si facesse ritrovare. Ora mi ritrovo davanti uno che insinua delle cose. Lo dici anche con un tono che non mi piace. Spiegati! Cosa avrei fatto?

Ma Silvio aveva già trovato un modo per non attendere la mia risposta perché salutò una avvenente signora impellicciata e si prostrò in un goffo baciamano, farcendolo di complimenti. – Lei è sempre affascinante, è un onore per me ospitare la sua bellezza, – e cose di questo genere. La signora gli sorrise con benevolen-za, guardandosi intorno ed accertandosi che i presenti avessero inteso quelle parole di adorazione. Avrà avuto settant’anni, ma i gioielli, la pelle tirata e i capelli tinti di un nero intenso le restitu-ivano un’immagine di riscatto. Mi rammento, però, che cadeva sul profumo: annusai la stessa forte essenza che mi capitava di sentire sulle donne anziane degli autobus, che si ricoprono con generose spruzzate di flaconi da supermarket.

Non dovevo distrarmi. Silvio non si era allontanato di molto. Da lì non sarebbe fuggito. Intanto un altro inaspettato gruppo di avventori si stava avvicinando all’entrata della mostra, muti e spinti da un rito sconosciuto.

– E così mi accusi di aver fatto qualcosa ad Elisabetta.

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– Non ti sto accusando, voglio solo sapere perché quella notte l’hai ipnotizzata? E poi, perché l’hai fatto anche con me, cos’è successo dopo che me ne sono andato?

– Troppe domande, e troppe accuse. Giudice Prestigiacomo! Lei mi onora, davvero. Con tutte le cose che ha da fare, ha tro-vato anche il tempo per venire a trovarmi! Sono lusingato! Scu-sami, Rocco, ma devo salutare il giudice.

Lo vidi affrettarsi a braccia aperte verso un nano che guidava un piccolo corteo.

– Carissimo, ha portato anche gli altri del club? Che gioia! Sì, dipingo anch’io. No, non è solo un hobby. Mi esprimo così, scegliendo i segni e le tinte, conformandoli ai miei stati d’ani-mo. Non se l’aspettava, eh? Credeva solo che lavorassi dietro la scrivania o mi dilettassi nelle sedute del club? A proposito, devo restituirle il volume sulla vita di Eusapia Palladino. Una medium così nasce una volta sola! Sì, ci sarò lunedì sera. Sarà fantastico fare la seduta tra i miei quadri! Venga, le faccio vedere.

Silvio, il giudice e i cortigiani al seguito di quell’omino in-significante entrarono insieme nella sala. Accesi una sigaretta, sempre dalla mia postazione, e dedussi che quella stanza, dove il novello profeta stava esponendo, coincideva con la sede angusta di quel club il cui nome era indicato sul campanello all’ingresso. Forse gli avevano fatto lo sconto sull’affitto. La classe di alunni si era riunita e Silvio avrebbe dato loro un’improbabile motivazio-ne esoterica a quei pasticci acrilici.

Uscì da lì dopo qualche minuto. Mi raggiunse.– Senti, devi spiegarmi bene ‘sta cosa che vuoi dirmi. Mi stai

agitando, non so dove vuoi arrivare! Guarda, alle sette chiudo la mostra. Aspettami al bar del Teatro Argentina, così ci mettiamo tranquilli e cominci a farmi capire, va bene?

Ebbi l’impressione di procedere nella direzione corretta. Era la prima volta, e credo che quella fosse stata anche l’unica, che mi ritrovassi a fare il segugio. Ma stavolta ero stato chiamato in causa, ed avevo la netta sensazione di essere stato scritturato per

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la parte dello scemo, di quello che era stato usato come uno stru-mento. Questo avrei voluto dire a Silvio.

Appena seduti al tavolino del bar, cominciò a parlarmi del-le visite ricevute, credendo che nella mia carriera di recensore potessi conoscere tutti i ciarlatani che vanno ad ingloriarsi nelle vernici. La signora De Andreis, Mario Foschini, quello di Rai Tre, il direttore del mensile Romart, il signor Roberti e consorte (due eclettici scopritori di talenti che, nel caso di Silvio, andaro-no via senza salutare). Paccottiglia di leggende e ruoli che non mi dicevano nulla, tanto più in quel momento.

All’assenza di qualsiasi mia minima reazione a quei nomi, aprì il palmo della mano e lo stese sul ripiano rotondo, rimirandosela compiaciuto. Sorrise quando iniziò un altro discorso. Attendevo invenzioni.

– Tu ce l’hai con me, vero? Deve essere così, perché non mi spiegherei la tua arroganza. Non è che ti ho soffiato Eli? Guarda che non mi sconvolge l’idea che tu ne fossi innamorato. Dì la verità!

Questo mi disse, concludendo con quel sorrisetto da furbo, che condensava quelli di tutti i furbi che mi avevano giocato un brutto tiro e ai quali finora avevo rivolto benevolenza, tacendo dei lividi e delle fratture interne.

Gli risposi raccontando i miei ricordi ricostruiti di quella not-te, fissando ora i capelli ora le sue spalle ora la bocca, raramente gli occhi (non si sapeva mai). Volevo che mi ascoltasse. Ascoltò, guardandomi ogni tanto. Ed io conclusi tutto il racconto.

Silvio non sembrò scomporsi più di tanto. Si aggiustò la sedia e si mise a braccia conserte, fissandomi con viso obliquo.

– E così io avrei ipnotizzato la mia fidanzata, davanti a te, l’avrei costretta a restare con me, ad allontanarsi da quel bellim-busto? E poi avrei stordito anche te? Ma andiamo, non eri tu quello che credeva che fossero tutti giochetti?

Mancava solo che mi desse un buffetto comprensivo.

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– Sì, mi esercito al club con quelli che hai visto poco fa, ma io sono la più schiappa lì dentro. Magari sapessi piegare al mio volere qualcuno! Sapessi quanti ne ho in mente...

Non mi veniva da credere neanche ad un puntino di sospen-sione di quello che mi stava dicendo. Non appena il cameriere adagiò il vassoio con i due aperitivi rossi sul tavolo, chiamai i testimoni in aula.

– I miei colleghi ti hanno visto in redazione con me: sei venu-to a prendermi per andare dove, per fare cosa?

Facevo poche mosse per colpire il bersaglio attraverso la stra-da più breve. Ma lui rispose con un sorriso beffardo.

– Che grande memoria che hai, se devono essere gli altri a ricordarti quello che hai fatto! Ma andiamo, Rocco. Non ti ac-corgi che sei confuso? Quel che è peggio, è che ti stai inventando che io avrei fatto del male ad Eli! Questo non posso proprio permetterlo. Ed ora direi che lo scherzo è finito. Diciamo che ti perdono, facciamo finta che non sia successo nulla e amici come prima.

Quando mai eravamo stati amici, noi due? – Allora spiegami perché nella segreteria telefonica mi hai

detto che era da una settimana che non avevi più notizie di Elisa-betta. Il messaggio l’hai lasciato mercoledì, Elisabetta l’abbiamo vista entrambi due giorni prima, altro che settimana!

Touché. Pugno sul tavolo e occhi sgranati.– Basta! Non devi più rompermi i coglioni con le tue storie,

capito? Ti stai inventando tutto e io ho cose più importanti da fare che stare a sentire le tue stronzate! Oltre alla morte nel cuore per aver perso la mia fidanzata – (aver perso la sua fidanzata?) – devo anche sopportare tutta la merda che mi stai buttando addosso? Ma non hai pietà?

Non avevo pietà, con mia immensa meraviglia.– Non ho il sospetto, ho la certezza che tu mi abbia spinto in

una storia sporca, e se così fosse non solo faresti schifo ma cor-rerei a denunciarti! A quali altri tuoi giochetti da mago Merlino

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ho dovuto assistere, mi hai fatto assistere? Quella notte, dopo che io sono uscito da casa tua, cos’altro hai detto ad Elisabetta? E il giorno dopo?

Si prese la testa tra le mani e iniziò un lamento attutito. Nel bar, mi accorsi, si era fatto il silenzio. La preparazione della bat-tuta, con quel gesto da cedimento, faceva presagire due strade: un’ammissione di chissà quali misfatti o un pugno in faccia. In realtà Silvio rivelò a denti stretti solo poche cose, semplici devia-zioni.

Sembrò volesse sfogarsi, ma si trattò solo di un puro fatto coreografico.

– Insomma, cosa vuoi da me? Perché stai infierendo? Non ti ho fatto nulla, non ho fatto nulla alla mia Eli! Tu non immagini neppure il bene che ci lega. Ma tu stasera mi hai detto cose tre-mende, sapendo di farmi del male! Potevi anche risparmiarmele!

Si liberò il volto, rosso e senza lacrime, per fissare una sedia e chiudere la parte con voce da approdo.

– Ok, se proprio vuoi saperlo ho usato qualche volta l’ipnosi con lei. O almeno ci ho provato. Ma è stato solo per portarla alla ragione quando lei andava fuori di testa! Tu non la conosci, ma quando si fissa è peggio di un treno senza freni. Mi travolge! Ma è inconsapevole di questo. Anzi, mi ha sempre ringraziato, dopo. Mi ha sempre detto che dovevo farlo appena lei usciva dalle ri-ghe. Voleva che la fermassi! Le dicevo che le volevo troppo bene per prenderla a maleparole o per darle uno schiaffo. Allora ipno-tizzami, mi diceva. Io, all’inizio, la avvisavo che non potevo farlo, non me la sentivo. Ma lei mi impose di provarci, che mi avrebbe anche aiutato a farsi ipnotizzare. Aveva deciso anche questo!

– Anche quella notte?– Sì, anche quella notte.Continuava a non distogliersi dalla sedia. Intuivo che non

avrebbe avuto da fare altre rivelazioni. Si alzò di scatto e fece per raggiungere l’uscita. Feci anch’io lo stesso, afferrandolo per un braccio e interrompendo quella che sapevo essere una fuga. Si voltò per invitarmi pacatamente a lasciare il bar.

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– Usciamo di qua, che stiamo dando spettacolo.Attraversammo la strada, per affacciarci sull’area sacra, con i

gomiti appoggiati alle transenne metalliche. Restammo muti per qualche istante. Silvio fissava uno dei ruderi a caso, io lui.

– Questo è tutto ciò che posso dirti. Ma da qui ad accusarmi di certe cose ce ne corre!

Non mi fidavo. Mi ero autorizzato a insistere. Volevo più tempo. Dimenticai l’appuntamento con Monica.

– Non ti credo! Hai ammesso quello che è successo lunedì notte a casa tua, e allora tutto quello che ho sentito lì è vero. Anche che l’hai seguita ad Arezzo.

Si girò di scatto verso di me.– E tu cosa avresti fatto? Saresti stato con le mani in mano?

Non farmi ridere. Tu forse non sai fino a quale punto può arriva-re l’affetto! Potresti fare cose di cui non ti sentivi capace solo un istante prima, anche le più schifose. Credi che mi sia divertito a vederli uscire insieme? E quella notte, quando hanno scopato come due ossessi senza risparmiarmi i loro gemiti?

Tornò a guardare i ruderi ed i gatti tranquilli di Torre Argenti-na. Ne seguì uno che percorse con incedere lentissimo una breve gradinata, mentre tornai ad insistere.

– Dove siamo andati martedì pomeriggio?Leggevo chiaramente nei suoi occhi, e nelle leggere pieghe

che si formarono sulla sua fronte, la veloce stesura di un ennesi-mo copione.

– Siamo andati a casa mia. Volevo chiederti dei consigli su come allestire la mostra. Non avevo minimamente idea di come disporre i quadri, di quali scegliere. Mi sembrava che potessi dar-mi qualche dritta.

– Visto che non me lo ricordo, mi viene il dubbio che tu mi abbia costretto a fare qualcosa anche lì.

– Sì, ti ho fatto bere un intruglio di ali di pipistrello. Ba-sta con queste fregnacce! Se non te lo ricordi è perché hai poca memoria! Io non c’entro nulla con la tua sbadataggine. Ascolta,

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sono le sette e mezza. Ti accompagno a casa, se non hai qui l’au-tomobile. Poi vado a casa anch’io, che sono stanco. Ti ho detto tutto quello che sapevo!

– Perché non me lo hai detto l’altro ieri, quando sono venuto alla mostra?

– E cosa te lo dicevo a fare? Poi vedo che l’hai ricordato da solo.

Fece per distaccarsi dalle transenne, accompagnandosi con un sospiro. Questa affabilità nei miei confronti era sordida, lo so-spettai d’istinto. Quell’uomo si era beffato di me in più di un’oc-casione. Perché non avrebbe dovuto continuare a farlo?

Forse sarebbe stato meglio telefonare a Monica e rimandare il ristorante, o forse no. Avrei dovuto deciderlo in pochi istanti.

Decisi di accettare il passaggio di Silvio e di prendere una decisione in macchina.

Accettai l’ignoto, tuffandomi di peso in un lago di punti in-terrogativi, impigliandomi negli uncini dei caratteri, non ancora pronto a divincolarmi.

Gli dissi dove abitavo, ma avevo l’impressione che lo sapesse già visto che infilava le strade con disinvoltura, anticipando spes-so le mie indicazioni al punto che alla fine non gli dissi più nulla. Gli ultimi chilometri li intuì da solo.

Non ascrissi il fatto alle sue improbabili doti di chiaroveg-gente.

Ero diventato improvvisamente più duro, nelle ultime ore avevo buttato alle ortiche tutti i disincanti. Me ne dispiacque un poco, perché mi ci trovavo bene, mi sembrava che spirasse perennemente su di me un alito di purezza. Nel tragitto in auto avrei istigato ulteriori provocazioni perché tutto mi riguardava ma troppi erano i buchi in cui cercare. Avevo accanto l’unica persona che potesse rispondermi.

– Sei arrivato? Bene, ti saluto.– Da quanti giorni non vedi Elisabetta?– Ancora sospetti, eh? Da quella notte in cui l’hai vista anche

tu, a casa mia. Poi il nulla.

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– Non mi hai detto cosa è successo dopo che io sono andato via.

– Uffa! Cosa devo raccontarti, anche che siamo andati a letto insieme, anche in quali posizioni abbiamo scopato, se abbiamo bevuto il caffè o il cappuccino a colazione?

– Per esempio, se l’hai svegliata.– Stai ancora provando a costruire accuse? Mi sembrava che il

gioco fosse finito. O ci stai prendendo gusto?Mi sembrò di aver provocato un piccolo colpo di coda. Silvio

strinse le labbra, irritato della mia curiosità quando invece si sa-rebbe aspettato un saluto e via.

– Mi avevi detto che ci saremmo rivisti la sera dopo a casa tua. Questo non è successo! Perché?

– E a me lo domandi? Cerca di ricordartelo da solo! Senti, devo andare. Ho detto veramente tutto. Devi credermi!

Non ci sperare. Ricordai che nei film, quando il protagoni-sta doveva sbloccare la situazione, egli ricorresse a delle mosse a sorpresa, spiazzanti. Mi sentii eroe e diedi una mia versione: sot-trassi all’improvviso le chiavi della macchina, tenendole strette in mano. Non sapevo a quale conseguenza avrebbe portato quel gesto sconnesso. Di sicuro accese un fuoco.

– Cosa ti viene in mente? Ridammi quelle chiavi! Avanti! Adesso sei anche arrivato ai dispetti? Tu sei un pazzo, avrei dovu-to capirlo subito!

Iniziò a prendere la mia mano serrata con entrambe le sue, cercando di aprire un’ostrica tenace. Ero disperato, e questo mi dava forza. Ma ebbe ragione della mia effimera energia solo dopo due o tre tentativi. Forse era più disperato di me.

Senza dire nulla, infilò imbronciato le chiavi sotto il volante e ripartì. Ed io con lui.

– Non so più cosa fare con te! Mi sembri un bambino che si fissa su un ragionamento e da lì non si sposta!

Vero. Stavo seguendo il mio ragionamento. Continuai a tace-re. Mi sembrò che si recasse verso Cinecittà poiché proseguì sulla Tuscolana e già vedevo Porta Furba.

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– C’è bisogno di riposare. Tutti e due siamo sconvolti per Elisabetta. Guarda che è da martedì che non la vedo più, ti giuro!

Ben presto scoprii che purtroppo questa era l’unica verità nel suo florilegio di menzogne.

– Che ne so di quello che è successo dopo! Mi ha detto che sarebbe tornata a casa. Pensa che mi ha abbracciato pregandomi di stare sempre con lei! Mi ha ringraziato per averla compresa, per aver perdonato quella scappatella. E ora sono qui che non so più dov’è, con uno che mi sta respirando addosso.

Feci sforzi indimenticabili per non parlare, per apparire sem-pre più incombente. Ricordai però due appuntamenti. Il primo: Monica tra qualche minuto mi avrebbe chiamato per smadon-narmi dietro; il giorno dopo le avrei portato un regalo per farmi perdonare. Il secondo: Andrea avrebbe dovuto essere avvertito degli eventi; ma gli eventi stessi erano in corso.

– Un giro aiuterà a calmarci. Magari anche un piatto di spa-ghetti. Offro io, ti porto in un posto tranquillo.

L’auto di Silvio superò lo stabilimento cinematografico e pro-seguì verso i Castelli. Io accettai lasciandomi portare, senza dire nulla.

Ricordo che in quel tragitto verso l’indefinito provai, nel silenzio, un accumulo inverosimile di sentimenti contrastanti, come se avessi agitato furiosamente la stanza delle mie emozioni e creato disordine.

Oggetti che cadevano dagli scaffali si mischiavano tra di loro: il fortino, con dentro i soldatini della mia audacia, si era sparso sul pavimento e confuso con le pagine vuote dell’album delle mie paure, il sacchetto delle biglie colorate con i toni dell’inno-cenza si era aperto e le palline di vetro erano rotolate verso il pez-zo mancante della mattonella d’angolo, quella con le decorazioni simili a nodi. Non avevo alcuna intenzione di rassettare, quanto piuttosto di voler provare a vivere in tale promiscuità, così come facevano tutti gli uomini.

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Doveva essere finita, pensai, la fase delle cose riposte in cate-gorie, e avrebbe dovuto cominciare quella nella quale ogni og-getto o persona fanno categoria a sé. Avrei dovuto cominciare ad assorbire ogni evento per quello che era: poi l’avrei sparpagliato sul pavimento, confuso tra gli altri, a ridosso di un indiano con la scure in mano o di un missile a molla. Stetti in questa consa-pevolezza per pochi attimi, quelli che bastarono a farmi crescere per sempre. E non provai più, da allora, alcuna sorpresa.

Tutto mi sembrò inevitabile e possibile. Anche che Silvio po-tesse recapitarmi verso la soluzione di tutto quel mio peregri-nare. L’avrebbe fatto per stanchezza o per farsi assolvere. Ogni assassino prima o poi confessa e lo fa perché possiede lo stesso sangue degli altri uomini. Basta che una sola persona sulla ter-ra provi pentimento che altri, prima o poi, facciano altrettanto. Provai mentalmente a moltiplicare me stesso per il numero degli abitanti di questo pianeta: il risultato fu che avrei potuto essere tutti, anch’io che mi credevo, fino a quel momento, unico.

Intanto il tempo si era fermato, il buio si faceva intenso e la Uno di Silvio si inerpicava su dolci declivi che tagliavano campi e filari. Disse qualcosa, con occhi prostrati.

– Giornata pesante! Domattina mi sveglio tardi. Devo aprire la mostra alle tre del pomeriggio e poi pensare che il giorno dopo dovrò chiudere un inventario in ufficio. Fare l’artista non sarà mai il mio mestiere, però è una bella fuga.

Aggiunsi qualcosa, senza dimenticare il motivo per cui fossi lì e provando per l’ennesima volta a stanarlo. Diedi un colpo debole sperando di assestarlo in un punto debole.

– Adesso potresti dirmi cosa abbiamo fatto veramente mar-tedì pomeriggio. Non ci credo che sei venuto a prendermi per chiedermi dove mettere i chiodi ai muri. Ho rivisto Elisabetta?

Deglutii in attesa di risposta e strizzai gli occhi per attutire una rivelazione devastante. Silvio annuì con alcuni piegamenti alternati della testa. E aggiunse blandamente circostanze.

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– Hai una memoria di merda! Non ricordi nemmeno che ci siamo trovati al club, che abbiamo spostato i mobili e liberato le pareti? Guarda che sei stato tu a decidere la posizione dei quadri!

Io? Dovevo essere davvero fuori di testa se mi ero prestato ad una simile idiozia. No, non era possibile.

– E lì c’era Elisabetta?– Ma certo! Abbiamo finito alle cinque, poi siamo andati a

prendere un caffè, poi ognuno a casa sua. Al prossimo incrocio siamo arrivati.

Vidi la strada davanti a noi che non mi diceva nulla. Non ricordavo di aver mai percorso quell’itinerario. Ci fermammo subito dopo una svolta a destra, su un sentiero di terra, uno di quelli carrabili solo dai trattori e dalle coppiette alla ricerca di appartamenti notturni. L’interruzione del basso continuo del motore ci fece piombare nel silenzio più assordante.

Aprii il finestrino di qualche dito e l’assenza dei riflessi interni del vetro mi fece intravedere, nel buio, alcuni vicini alberi spogli. Mi rivolsi a Silvio, cogliendolo con il capo adagiato sull’appog-giatesta, braccia distese sulle gambe.

– Mi offri una sigaretta? Fumo raramente, quando sono esau-sto.

Avrebbe potuto essere il suo ultimo desiderio. Ma io non feci fuoco.

– Mi dici cosa hai fatto ancora ad Eli? Mi stai raccontando frottole da ore. Voglio sapere la verità!

– E a cosa ti servirebbe la verità? E se la verità ti facesse male?– Mi aspetto di tutto, ormai.Silvio accese la lucina posta sopra lo specchietto retrovisore e

mi rivolse la sua faccia distorta.– Ti ho detto già tutta la verità. Sono stanco, hai capito, stan-

co?Forse fu stanco di tenersi tutto dentro. Dovetti guardare il suo

spruzzo di vomito sul volante e sostenere la nausea perché im-brattò se stesso e invase l’abitacolo di odore marcio. Uscii repen-

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tinamente per il disgusto dall’auto ma scivolai sul ciglio umido del sentiero che portò il mio piede e tutto me stesso in un canale laterale di irrigazione. Per fortuna era vuoto e planai senza ecces-sivi traumi sul fondo dopo poche decine di centimetri. Quando rialzai la testa, il mio volto era al livello del pianale della Uno: Sil-vio si passò un fazzoletto sulla bocca e sui vestiti, rischiarato dalla tenue luce. Non riuscii a sostenere più di tanto quella prospettiva al punto che cercai immediatamente di saltar fuori dal fosso.

– Spostati, che guido io!Silvio si mise al mio posto. Mi sedetti imbracciando il volante

e inserendo una breve retromarcia che ci riportasse sull’asfalto. Quello che avevo accanto sembrava essere un sacco vuoto. Non volli ritornare a Roma ma raggiungere al più presto un luogo di luce, per esempio il primo paese possibile. Non ricordo dove approdammo ma si trattava di una piazza lastricata con cubet-ti di porfido e ben illuminata da lampioni bassi. Il bordo della fontana centrale accolse me e lui che ben presto si bagnò il volto pallido, emergendone rinfrancato, forse deciso a rinnovarsi.

– Elisabetta rimarrà sempre con me, non fuggirà più! Vuoi proprio sapere dov’è? È proprio qui vicino. Anzi, poco fa te l’avrei anche fatta incontrare.

Ero seduto sul bordo mentre ascoltavo queste parole, in po-sizione sfavorevole per qualsiasi suo attacco che puntualmente arrivò. Mi prese di scatto il viso tra le sue mani e mi fece sentire il colpo della sua coda, ringhiando.

– È finita la storia! Non c’è altro da sapere! O forse lo sai già? Certo che lo sai! Tu c’eri quando Eli mi ha giurato fedeltà eterna. Tu hai celebrato le nostre nozze! Non te lo ricordi proprio?

Mi schiacciava le guance fino a farmi male, con una forza che mi sorprese, che non mi aspettavo. E intanto mi sentivo spingere verso lo specchio dell’acqua. Dovevo opporre resistenza. Mi ag-grappai ad un lembo di marmo, ma Silvio era in piedi e avrebbe potuto avere gioco facile. Urlai a fatica, con le labbra deformate in verticale.

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– Cos’hai fatto a Elisabetta? Ti denuncio, te lo giuro!Conservo ancora adesso la netta sensazione di stordimento

quando mi colpì la fronte con una testata secca.– Ma cosa vuoi denunciare, coglione! Non sei mica uno sce-

riffo! Quali prove hai?Stavo per soccombere. Ero nelle sue mani. Non riuscivo a

pensare a nulla, non riuscivo a fare nulla, neanche a sperare.– Ora ci siamo io e te! Non aver paura, voglio solo metterti

tranquillo. Troverai pace nei miei occhi, non è vero? Tu hai biso-gno di dormire, tutti ne abbiamo bisogno!

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Il suo errore fu quello di distrarsi troppe volte mentre cercava di fissarmi. Era esausto, poco convinto, svogliato. Il risultato fu che riuscì a provocarmi un intontimento discontinuo nel quale alternavo attimi di lucidità a visioni.

– Elisabetta è qui vicino!Proprio nei pressi di quel sentiero ai bordi del quale scivolai.

Rividi tra i capelli scomposti di Silvio il volto della mia amica che ci aspettava lì quel martedì pomeriggio. Era bella, come sem-pre, ma distratta. Mi salutò con indifferenza, mentre giocava con i fili d’erba.

– Ciao, Rocco. Cosa mi hai portato?– Veramente non ti ho portato nulla. Avrei dovuto?– Ma certo! Silvio mi ha detto che mi avresti regalato un bel

mazzo di fiori, tutti colorati!Si sarebbe detto che parlasse come una bambina imbronciata

da un precoce risveglio, pronta a inventarsi qualche capriccio. Cercai di stringerle la mano, mentre Silvio si manteneva in di-sparte.

– Non voglio salutarti se prima non mi dai quello che mi avevi promesso!

Mi girai verso il suo fidanzato che allargò le braccia. Poi si avvicinò a lei, abbracciandola.

– Su, non fare così! Rocco l’ha dimenticato. Sai com’è fatto, non ricorda mai tutto quello che deve. Rocco è dispiaciuto e dopo ti farà avere il suo regalo. Vero?

Mi guardava annuendo, esortandomi a rassicurare la mia amica. Cosa che feci subito, senza tuttavia capire in quale stanza degli specchi mi trovassi.

I due mi precedevano mentre si incamminavano verso due grandi piante spoglie, due querce maestose che screziavano il cielo. Li stavo accompagnando senza motivo, come spesso mi capitava di fare con coppie amiche che avevano piacere della mia presenza. Quella volta fu Silvio a insistere, venendomi a prender-mi al giornale. Al momento parlò dei suoi quadri, in macchina mi rivelò che Elisabetta stava male e voleva vedermi.

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Giungemmo a pochi passi dai due alberi, in uno slargo di terra dura e rigata da pochi ciuffi di erba invernale. Restammo in piedi a guardare la campagna nuda, delimitata in basso dall’enor-me distesa ocra e in alto dalla striscia grafica dei segni dei rami senza foglie. Silvio diede inizio alla cerimonia.

– Io ed Eli vogliamo sposarci!Mi sorprese perché mi sembrò subito un’iniziativa non condi-

visa. Infatti notai che Elisabetta continuava a fissare cielo e terra senza alcun entusiasmo. La guardai.

– Mi sembra una bella notizia. E quando vi sposerete?– Eli, diglielo tu, avanti!La luce del pomeriggio si stava affievolendo, come lo sguar-

do di una donna che vedevo lontana, alterata probabilmente da qualche maleficio di quell’imbecille. Ma mi parlò.

– Adesso. Sposaci tu!– Cosa? Io sposarvi? Ma siete matti o mi state prendendo in

giro?Silvio si fece serio.– Rifiuteresti di farlo? Ti chiediamo un atto di amicizia, un

gesto simbolico, mica sei un prete! Eli ricorderà per sempre que-sto momento e si convincerà del bene che le voglio.

Quanto richiesto mi sembrava bislacco. Ma Elisabetta rincarò la dose, fissandomi con veemenza.

– Avanti! – Certo, adesso lo farà, vero Rocco?Come un cretino fra cretini chiesi come avrebbe dovuto esse-

re officiato l’evento.– Scegli tu la formula! Per noi sarà quella giusta.Ricordo che rimasi scioccato per un istante, fino all’ordine

perentorio di Silvio.– Muoviti! Hai capito quello che devi fare?Annui, catturato all’istante dagli occhi spalancati dell’illusio-

nista. Mi rividi – intanto Silvio continuava a far pressione sulla

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mia faccia ai bordi della fontana – mentre dissi poche ma intense parole, inebetito dalla incongruenza dei fatti.

– Sarete sposi, se vi vorrete bene. Se adesso ve ne volete, lo siete.

Silvio ed Elisabetta si diedero un bacio, davanti a me. Dopo un secondo, Silvio estrasse un coltello dal suo cappotto e glielo conficcò tra i seni. Lei si accasciò con gli occhi ancora socchiusi dal bacio, conservando nel petto quell’orribile regalo nuziale.

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Silvio continuava a spingermi verso la vasca della fontana. La sua forza fu tuttavia incerta, continuava a distrarsi e a consentir-mi di recuperare ricordi. Fissandogli la bocca, riuscii a rammen-tare il suo sguardo disperato mentre si inginocchiò a piangere la sua amata appena uccisa. Si lamentò, con enfasi, calcando la mano sull’unicità di quell’amore. Si mise una mano davanti al volto, mentre con l’altra accarezzava i capelli biondi della mia amica, adagiata nel suo cappotto grigio afflosciato come un fiore avvizzito, come uno straccio esaurito.

Io ero rimasto in piedi a rimirare il bel viso di Elisabetta, ne stavo stampando un’immagine eterna che avrei inserito tra tutte quelle che avrebbero dovuto rimanere nella mia galleria perso-nale. Un volto giovane perché era morta giovane, non intaccata dagli anni che per lei si fermarono in quell’istante. Altri volti avrei serbato in questo modo, sforzandomi di soffocare qualsiasi altro ricordo pur di mantenerli con quei connotati freschi. Così è stato per molti miei amici, che non avrei più rivisto. Così fu per Emanuela, che non volli più incontrare.

Silvio mi chiese di aiutarlo a seppellire il corpo della moglie fit-tizia, ai piedi di una di quelle due querce. La presi per le caviglie. Ne potei accarezzare per l’unica volta la morbidezza e stringerla in un commosso commiato. Il carnefice si prodigò, continuando a disperarsi, nello scavare con una pala che estrasse dal bagagliaio dell’auto. Non riuscii più a seguirlo mentre aggiungeva terra a terra per ricoprirla. Mi limitai a sedermi ai piedi di un tronco: qui presi un foglio, che avevo nella tasca della giacca a vento, sul quale disegnai ciò che vedevo, abbozzando quello scenario natu-rale nel quale tre piccole figure assumevano pose indefinite. Una di queste potevo essere io, disteso a guardare il cielo e a sperare che i rami potessero catturarmi come tela di ragno e farmi pagare la giusta punizione.

Poi Silvio mi mise una mano sulla spalla.– Andiamo. Ora Eli sta dormendo. Sono più tranquillo.

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Tranquillizzò anche me, che continuai a permanere in un torpore dal quale il mio padrone non aveva ancora intenzione di rimuovermi. Presi l’agenda che avevo lasciato sul cruscotto e cancellai a malincuore l’appuntamento serale con Elisabetta a casa di Silvio. Quando si fermò davanti al mio portone, mi lasciò con gli ultimi precetti.

– Va tutto bene, vero? Voglio che tu continui a rimanere così! Non vedi com’è bello guardare tutto quello che accade senza sporcarsi? Non devi più fare nulla, lasciati andare. Continua a vivere senza assillo, senza pensare.

Scesi da quell’automobile più leggero, come se quel disgra-ziato mi avesse assolto per non aver commesso il fatto e si fosse autoassolto. Non riuscii né a condannarlo né a giustificarlo. Non riuscii a fare nulla. Io ed Elisabetta sottovalutammo troppi aspet-ti di Silvio. Forse anche lei, da bambina, si incantava davanti alle fontane credendole navi.

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Colui che stava cercando di farmi cadere nella vasca, di affo-gare l’unico testimone che avrebbe potuto farlo scoprire, non ri-usciva più a mettere energia nei suoi propositi omicidi. Mi spin-geva ma a intervalli, ansimava, la sua voce si stava affievolendo.

Questo mi consentì di miscelare per l’ultima volta i ricordi: i suoi occhi oramai non avevano più la funzione di stordirmi bensì di farsi guardare dentro per scoprire, con passo accelerato, le sequenze che mancavano. Non mi ci volle molto a rivedermi entrare in redazione la mattina seguente. Monica, con il pollice della mano destra, confermò che nell’impaginazione aveva potu-to comprendere i miei tre pezzi; io ne fui contento; Monica mi chiese se stessi bene perché mi vedeva un po’ spento; io la rassicu-rai parlandole di una leggera febbre notturna; Petrucci mi parlò con inconsueta supponenza di cose personali; io non gli risposi e lasciai la claustrofobica compagnia.

Poi mi recai fuori città, passando davanti allo stabilimento di Cinecittà, proseguendo per la Tuscolana verso i Castelli. Non vedevo altro che la strada, mi distraevano a malapena tutti quegli alberi denudati dal freddo, con i rami che dormivano ma conti-nuavano a mantenere la propria funzione estetica per ricordare a tutti gli uomini e a tutte le donne che si può certo rinascere ma prima bisogna pagare il prezzo della morte. E che mentre per loro la morte è temporaneità e forma di bellezza ed eleganza, per noi è definitiva e non ha pietà per il nostro involucro. Gli alberi sono la vera sentinella del mondo, le vere ancore di salvezza. Pos-siedono un dono che noi non abbiamo: la doppia vita. Una vita nella terra in cui bevono acqua, una vita nel cielo in cui respi-rano. E così per molto tempo, finché un uomo non li massacra o un fulmine non li incenerisce. Altrimenti continuerebbero a fare quello che hanno sempre fatto: tenere insieme terra e cielo, estendendosi in entrambe le entità, con fitti sviluppi di radici e rami.

Mentre iniziavo ad avere ragione della residua forza del mio attentatore, allentando la presa delle sue mani e riuscendo ad

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alzarmi e a spingerlo per terra, mi vidi ritornare per inerzia il giorno dopo nel luogo del matrimonio e del funerale. Tutto non ricordava nulla di ciò che era successo. Vidi, attraverso il para-brezza sporco di leggere gocce di pioggia, le due querce conti-nuare a vegliare Elisabetta, proprio come due esemplari senti-nelle. Dal finestrino laterale guardai l’orizzonte completamente invaso da tronchi e rami. Mi beai di tanta bellezza ma divenni anche triste per la sorte della mia amica del liceo. Piansi di getto e inclinai il capo sul volante per far tracimare meglio le lacrime. Le vidi fare puntini sul jeans, ne seguii per un attimo l’espansio-ne. Poi rialzai la faccia per darmi coraggio e andare a pregare sulla terra di Elisabetta.

Volevo farmi perdonare, supplicarla che accettasse il mio ri-sarcimento. Sarei scomparso dalla faccia di Roma, avrei cambiato subito residenza per facilitare la penitenza. Forse il giorno stesso. Avrei trovato scuse facili per non farmi più trovare da nessuno, neanche dall’amore della mia vita, dalla dolce Emanuela, la cui mancanza sarebbe stata la punizione.

Tutto questo pensai mentre aprivo lo sportello. Scesi, ma sci-volai ancora una volta sul ciglio del sentiero reso viscido dalla pioggia. Precipitai nella roggia, stavolta piena di un’acqua che attutì la caduta e che ebbe l’effetto di una doccia gelata, risve-gliandomi.

Sovrastai Silvio, ormai spossato. Il nostro furore aveva ri-chiamato alcuni abitanti della piazza che si misero in cerchio a sbraitare di smetterla, che qui c’era gente che voleva riposare, che avremmo dovuto smaltire la sbronza da un’altra parte, che avrebbero chiamato la polizia.

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Per quarant’anni ho vissuto in una città che non avevo cono-sciuto prima. Ne avvisai solo mia madre la domenica, il giorno dopo la zuffa con Silvio, e dopo che lo portarono a Regina Coeli. Mentre lo vedevo arrendersi alle spinte dei poliziotti, cercavo di trovare le poche forze per rendere credibile il verbale. Il commis-sario mi lasciò parlare a ruota libera, chiedendomi di argomenta-re meglio alcuni particolari. Con mia sorpresa, trovò verosimile tutto quello che gli dissi quella notte.

– Lo so che è facile farsi abbindolare! Ieri abbiamo arrestato un mago che telefonava alle vecchiette minacciandole di morte e malefici se non gli avessero versato un milione al mese! Lei, signor Moresco, non è una vecchietta, ma questo non vuol dire nulla. Questi stregoni da strapazzo sono perfidi!

Confermai questa sua sintesi, calcando la mano sulla perver-sione del personaggio, rendendo persino eccessivi alcuni eventi, gettando fango su quell’uomo che si era permesso di rovinare la mia esistenza. Feci quest’ultima cattiveria per uscire vivo da lì, non provando per la prima volta alcuna compassione.

La domenica mattina telefonai a mia madre.– Ascolta, non ho tempo per spiegarti. Domani cambio casa.– Perché, è successo qualcosa?– Tranquilla, non è successo nulla di cui preoccuparsi. È che

ho voglia di cambiare aria. E anche città. Roma mi ha stufato, lo sai.

La mia impazienza non la turbò più di tanto, come sempre. Pensò solo alle prossime mosse, perché quella frase era ormai chiusa e doveva trovare le parole per l’inizio di quella successiva.

Non le dissi molto.– Ti chiedo un favore. Domattina puoi chiamare tu la scuola

e dire che mi licenzio? In quanto al giornale, avevo già pensato di smettere di scriverci. Non te l’avevo detto per non darti pensiero.

Se così avevo deciso, a lei stava bene.– Ma adesso dove vai?– Ti telefono tra qualche giorno, non preoccuparti. Appena

mi sistemo ti chiamo.

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– Ce l’hai qualche soldo?– Ho quello che mi basta. Raggiungo un amico. Mi ha detto

che hanno bisogno di un redattore in un quotidiano. Me la ca-verò, vedrai.

– Vuoi che venga con te? Guarda che non mi costa nulla.– No, tu qui hai le tue amiche, la nonna. Non mi hai sempre

detto che i giovani volano via perché sono più leggeri di età, sono come le foglie?

– Rocco, non fare come tua madre che è andata da un posto all’altro senza mai trovare quello giusto!

La salutai. E così salutai quella casa, Roma, Emanuela. Non cercai più nessuno che appartenesse a quegli anni, tanto meno Andrea che immaginai annientato. Non mi sono mai chiesto cosa avrebbe pensato di me.

Mantenni rapporti solo con mia madre che veniva aggiornata dei miei espedienti più o meno ogni due settimane.

Sono ritornato a Roma solo da qualche mese. L’avevo lasciata da solo, da solo sono tornato, da solo ho vissuto lontano da lei. Nel frattempo l’ho incontrata una volta, quando ho dovuto assi-stere all’ultima settimana di vita malata di mamma. In quell’oc-casione mi rinchiusi nella sua camera di ospedale per tutto il tempo.

– Svagati un po’, esci a farti una passeggiata! Ci sono tanti infermieri qui. Badano loro a me.

Non mi trovavo a Roma, mi sforzai di pensare in ogni atti-mo, ma accanto a mia madre. Presto mi avrebbe rivolto l’ultima preghiera.

– Promettimi che avrai cura di te. Quando sei nato ti ave-vo già perso. E così ho potuto solo guardarti crescere. Ho fatto bene?

– Hai fatto quello che era giusto.Mentre si lasciò andare all’arresto del proprio sangue, la rin-

graziai per la giusta dose di assenza che le avevo chiesto di riser-varmi.

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Ho preso una casa in affitto dalle parti di dove abitavo prima. Così posso passare il tempo a passeggiare tra le strade che percor-si nei momenti più belli, prima della devastazione. Non tutto è cambiato. Ci sono ancora tanti ragazzi in giro.

Io ho dovuto smettere di esserlo, ma me lo ricordo. Da allora la memoria non mi ha fatto più difetto, ho usato grossi chiodi per fissare immagini. Ora ne sono pieno. Non ho più altro da metterci dentro, e allora vado a rovistare nel disordine perché lì nulla si perde. Anzi, spesso ritrovo cose che credevo smarri-te, tornando a sorridere per averle rinvenute, inventando sfide e cacce al tesoro dove l’oggetto cercato è una finestra, il profumo di un cortile, una gonna morbida, i capelli castani di una donna che attraversa la strada, due persone in motorino: lei ha il sorriso che sta per schiudersi, lui guida spavaldo tra le auto in coda, en-trambi senza casco e senza destino.

Roma, 10 maggio 2004

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