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Giuseppe Baretti Delle commedie di CARLO GOLDONI avvocato veneto. Tomo primo. In Venezia, 1761, per Giambattista Pasquali. [Il teatro comico] Dal N.° XII de La Frusta letteraria, Rovereto , 15 marzo 1764. Quando un autore trova il gran segreto di diventar caro con le sue letterarie fatiche a tutti i dotti e a tutti gl’ignoranti, a tutti i nobili e a tutti i plebei, a tutto il sesso maschile e a tutto il sesso femminile d’una numerosa nazione, gli è pur forza che i critici giuochino alla larga con esso, e che badino bene a non lo toccare con la punta delle lor penne, ancorché gli scritti suoi formicolassero de’ piú massicci spropositi. Se, verbigrazia, un qualche critico avesse voluto nel secolo passato dire alcuna cosa contro il Marini, che appunto formicolò di spropositi assai massicci, che bel guadagno avrebb’egli fatto? Ahimè, che i dotti e gl’ignoranti, i nobili e i plebei, i maschi e le femmine, tutti gli avrebbono dato addosso senza la minima misericordia, e tutti a gara l’avrebbono tacciato di goffezza, d’insensataggine, d’invidia, di malignità e di pazzia! In tali casi però fa duopo che un critico non si lasci portar via dal suo inopportuno zelo pel comun bene della società, ma che si stringa nelle spalle, che si taccia, e che rimetta la causa a’ posteri, i quali ben sapranno a suo tempo vendicare, la ragione e il buon gusto dagli sfregi ricevuti da un autore fatto popolaresco da quelle epidemie di capriccio, che talora infettano tutto un paese. E così, per lo contrario, quando un autore, per un’altra epidemia d’ostinata e maligna stupidezza, è maltrattato, e depresso, e vilipeso, e negletto dal suo secolo, malgrado la bontà dell’opere sue, come fu il caso di Milton in Inghilterra, e quasi quasi di Torquato Tasso nella nostra Italia, bisogna che il critico s’abbia altresì flemma, che dia luogo alla furia universale, e che si fidi a’ posteri, i quali sapranno egualmente rendergli quella giustizia che gli fu negata da’ suoi matti contemporanei. Fortunato Goldoni, ché né l’uno né l’altro di questi due casi è il caso tuo! Tu non formicoli di spropositi massicci, come il Marini; eppure, come il Marini, tu sei amato, e riverito, ed onorato dal tuo secolo! Tu non abbondi, come il Milton e come il Tasso, d’ogni perfezione; eppure tu non hai come que’ due poverelli ad aspettare gli anni e gli anni per godere del favore universale! Basta leggere le tue prefazioni e le tue dedicatorie, per essere immediatamente convinti che tutta la tua bella Italia ti esalta sopra ogn’altro tuo contemporaneo, e ti guarda come la sua vera fenice! Da quelle tue dedicatorie e prefazioni, oh come si scorge con ogni chiarezza che sino i più rimoti popoli ti pregiano e t’inchinano e ti hanno per un bacalare più grande che non alcuno de’ loro più grandi bacalari! La Francia, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, la Moscovia, e sino la Mauritania e l’Anatolia, s’affrettano a tradurre le tue teatrali produzioni nelle loro rispettive lingue, o le fanno recitare a dirittura ne’ loro teatri tali e quali come tu le scrivesti, perché tutti i loro abitanti accrescano senza più aspettare la loro sapienza e perché diventino costumati e morigerati! Di questo grand’uomo dunque, di questo autore tanto popolarescamente favorito da ogni classe di persone, io m’accingo oggi a registrare il nome glorioso in queste mie lucubrazioni, poiché se non vel registrassi, e se non parlassi di lui e delle tante e diverse cose prodotte da quel suo non mai esausto cervello, chi sa che qualcuno non mi credesse una persona salvatica, trasportata pur ora a caso in Italia da qualche isola tanto ignota ai geografi quanto quella di Robinson Crosuè? O chi sa che qualcuno non mi attribuisse anche qualche segreto maltalento contr’esso? Poiché chi non parla di coloro dei quali tutta la brigata parla, è cosa molto naturale che sia creduto o molto maltalentato, o molto salvatico. Io m’accingo dunque, senza più tardare, a far passar in rivista sotto la mia Frusta ad uno ad uno tutti i teatrali componimenti del Goldoni; ma i miei leggitori, molti de’ quali mi vanno scrivendo delle anonime lettere, sempre stuzzicandomi a parlare, e a parlare con lode, di questa e di quell’altra commedia di lui, si ricordino che io sono un vecchiaccio settuagenario, difficile da contentare, e più pronto a’ rimbrotti che non agli encomi; onde accendano anch’essi le

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Giuseppe Baretti

Delle commedie di CARLO GOLDONI avvocato veneto. Tomo primo. In Venezia, 1761, per Giambattista Pasquali.

[Il teatro comico] Dal N.° XII de La Frusta letteraria, Rovereto, 15 marzo 1764. Quando un autore trova il gran segreto di diventar caro con le sue letterarie fatiche a tutti i

dotti e a tutti gl’ignoranti, a tutti i nobili e a tutti i plebei, a tutto il sesso maschile e a tutto il sesso femminile d’una numerosa nazione, gli è pur forza che i critici giuochino alla larga con esso, e che badino bene a non lo toccare con la punta delle lor penne, ancorché gli scritti suoi formicolassero de’ piú massicci spropositi. Se, verbigrazia, un qualche critico avesse voluto nel secolo passato dire alcuna cosa contro il Marini, che appunto formicolò di spropositi assai massicci, che bel guadagno avrebb’egli fatto? Ahimè, che i dotti e gl’ignoranti, i nobili e i plebei, i maschi e le femmine, tutti gli avrebbono dato addosso senza la minima misericordia, e tutti a gara l’avrebbono tacciato di goffezza, d’insensataggine, d’invidia, di malignità e di pazzia! In tali casi però fa duopo che un critico non si lasci portar via dal suo inopportuno zelo pel comun bene della società, ma che si stringa nelle spalle, che si taccia, e che rimetta la causa a’ posteri, i quali ben sapranno a suo tempo vendicare, la ragione e il buon gusto dagli sfregi ricevuti da un autore fatto popolaresco da quelle epidemie di capriccio, che talora infettano tutto un paese. E così, per lo contrario, quando un autore, per un’altra epidemia d’ostinata e maligna stupidezza, è maltrattato, e depresso, e vilipeso, e negletto dal suo secolo, malgrado la bontà dell’opere sue, come fu il caso di Milton in Inghilterra, e quasi quasi di Torquato Tasso nella nostra Italia, bisogna che il critico s’abbia altresì flemma, che dia luogo alla furia universale, e che si fidi a’ posteri, i quali sapranno egualmente rendergli quella giustizia che gli fu negata da’ suoi matti contemporanei.

Fortunato Goldoni, ché né l’uno né l’altro di questi due casi è il caso tuo! Tu non formicoli di spropositi massicci, come il Marini; eppure, come il Marini, tu sei amato, e riverito, ed onorato dal tuo secolo! Tu non abbondi, come il Milton e come il Tasso, d’ogni perfezione; eppure tu non hai come que’ due poverelli ad aspettare gli anni e gli anni per godere del favore universale! Basta leggere le tue prefazioni e le tue dedicatorie, per essere immediatamente convinti che tutta la tua bella Italia ti esalta sopra ogn’altro tuo contemporaneo, e ti guarda come la sua vera fenice! Da quelle tue dedicatorie e prefazioni, oh come si scorge con ogni chiarezza che sino i più rimoti popoli ti pregiano e t’inchinano e ti hanno per un bacalare più grande che non alcuno de’ loro più grandi bacalari! La Francia, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, la Moscovia, e sino la Mauritania e l’Anatolia, s’affrettano a tradurre le tue teatrali produzioni nelle loro rispettive lingue, o le fanno recitare a dirittura ne’ loro teatri tali e quali come tu le scrivesti, perché tutti i loro abitanti accrescano senza più aspettare la loro sapienza e perché diventino costumati e morigerati!

Di questo grand’uomo dunque, di questo autore tanto popolarescamente favorito da ogni classe di persone, io m’accingo oggi a registrare il nome glorioso in queste mie lucubrazioni, poiché se non vel registrassi, e se non parlassi di lui e delle tante e diverse cose prodotte da quel suo non mai esausto cervello, chi sa che qualcuno non mi credesse una persona salvatica, trasportata pur ora a caso in Italia da qualche isola tanto ignota ai geografi quanto quella di Robinson Crosuè? O chi sa che qualcuno non mi attribuisse anche qualche segreto maltalento contr’esso? Poiché chi non parla di coloro dei quali tutta la brigata parla, è cosa molto naturale che sia creduto o molto maltalentato, o molto salvatico. Io m’accingo dunque, senza più tardare, a far passar in rivista sotto la mia Frusta ad uno ad uno tutti i teatrali componimenti del Goldoni; ma i miei leggitori, molti de’ quali mi vanno scrivendo delle anonime lettere, sempre stuzzicandomi a parlare, e a parlare con lode, di questa e di quell’altra commedia di lui, si ricordino che io sono un vecchiaccio settuagenario, difficile da contentare, e più pronto a’ rimbrotti che non agli encomi; onde accendano anch’essi le

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loro pipe co’ miei fogli se non li trovano secondo il loro genio, come anch’io accendo la mia co’ fogli di que’ libri che non mi piaciono; ma mi lascino dire onestamente quello ch’io penso, senza farmi romore intorno. A buon conto, comincio a dir loro che ho finito ieri di rileggere il primo tomo del Goldoni, che contiene il Teatro comico, la Bottega del caffé, e le due Pamele, e che nessuna di queste quattro commedie vorrei averla fatta io, per quanto ho cari questi occhiali d’Inghilterra che porto sul mio naso aquilino, e senza i quali non potrei scrivere una riga né al lume del giorno né al lume della mia lucerna. Può darsi che il Goldoni abbia messo tutto quello che ha di cattivo nel suo primo tomo, come il Metastasio mette tutto il cattivo suo nell’ultimo. Può darsi che tutti gli altri tomi del Goldoni m’abbiano a far tramortire dallo stupore, com’ io desidero; e se questo sarà, siate sicuri, leggitori miei, che non gli sarò scarso d’incenso; ma intanto lasciatemi dire di questo primo tomo; e senza più menare il can per l’aia, ecco quello che oggi vi voglio dire della sua prima commedia intitolata Il teatro comico, che mi pare sia stata scritta da lui per avvezzare il popolaccio a giudicare delle sue composizioni come ne giudica egli stesso.

La prima scena, che si finge a mezza mattina, comincia con un dialoghetto tra Orazio, capo di compagnia, e impresario come noi diciamo, ed Eugenio, secondo amoroso della commedia. Nel punto che si tira su la tenda, l’impresario viene sulla scena gridando che non si tiri su, perché «per provare un terzo atto di commedia non ci è bisogno di alzar la tenda». Del qual comando Eugenio fa tosto vedere la sciocchezza, notando semplicemente che se la tenda si tiene calata «non ci si vede più»; onde l’impresario s’accorge tosto che l’ha detta maiuscola, e che sarebbe di fatto cosa ridicola il provare un terzo atto al buio. Non poteva mo’ il Goldoni risparmiare di far dare un comando così sciocco dal suo impresario? O non poteva mo’ far impresario Arlecchino, poiché gli voleva far dire cosi subito una sciocchezza? Per qual causa (dice il secondo amoroso) non volevate che la tenda s’alzasse? «Acciocché (risponde l’impresario) non si vedesse da nessuno a provare le nostre scene»; perché, soggiunge poco dopo, quando gl’impresari hanno de’ personaggi nuovi da metter in grazia, non si deve lasciarli vedere alle prove: conviene farli un poco desiderare, e conviene dar loro poca parte, ma buona. Ma, rispondo io, che diavolo importa all’udienza di tutte queste magre furberie degl’impresarî? E che sorte d’inetti documenti viene qui il poeta a dare al pubblico? Vuol forse il pubblico far l’impresario, o il capo di compagnia, o il primo amoroso, come fa il signor Orazio del Goldoni?

Scena seconda. Placida, prima donna, viene la prima alla prova, e dice che pare a lei se le potesse mandar l’avviso di venire quando tutti fossero ragunati, cioè gli attori; alle quali stizzose parole l’impresario dice piano al secondo amoroso che ci vuol politica e soffrirla; ed io sono obbligato al Goldoni, machiavellista teatrale, di questa sua politica; ma se colla sua commedia egli voleva mettere in ridicolo i difetti de’ suoi attori, anzi che quelli de’ Tizi e de’ Semproni che sono nell’udienza, e i di cui difetti meritano d’esser messi in ridicolo perché ogni Tizio e ogni Sempronio dell’udienza se ne corregga, il Goldoni poteva far tenere calata la tenda, e far recitare la sua istruttiva commedia a’ commedianti stessi, poiché al pubblico fa poco caldo o poco freddo che i commedianti abbiano de’ difetti ridicoli o non gli abbiano. Il pubblico vuole, o dovrebbe volere, che i commedianti sappiano fare il commediante, e che vengano a farlo ridere a spese degl’individui che rappresentano e non a spese delle loro comiche signorie propia persona. Domanda poi la prima donna: «Qual è la commedia che avete destinato di fare domani a sera?» «Il padre rivale del figlio », risponde l’impresario. E qui l’udienza è bellamente informata che il Goldoni ha scritte sedici commedie in un anno. A che proposito si dà mo’ questa informazione del Goldoni dallo stesso Goldoni? Qualcuno dell’udienza gli avrebbe potuto rispondere in greco che il Goldoni ha la d?a????a teatrale. Ma sentite che bel pezzo d’eloquenza comica esce fuori della bocca di questa madonna Pocofila. «Se facciamo le commedie dell’arte (dice la prima donna) vogliamo star bene. Il mondo è annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime; e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino prima ch’egli apra la bocca. Per me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche reciterò. Sono invaghita del nuovo stile; e questo solo mi piace. Dimani a sera reciterò; perché, se la commedia non è di carattere, è almeno condotta bene, e si sentono ben maneggiati gli affetti». Tutta questa goffa pappolata di questa prima donna, non è in

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sostanza che una lode che il Goldoni fa dare a sé stesso da quella sciocca, la quale non capisce neppure che una commedia intitolata. Il padre rivale del figlio bisogna a forza che sia commedia di carattere; altrimente come s’ha a fare per far vedere al popolo che un padre è rivale d’un figlio, se quel padre non comparisce nel carattere d’un rivale? Il Goldoni parla sempre di caratteri, senza avere un’idea del significato di questo vocabolo. Le commedie dell’arte, com’egli le chiama, non erano forse anche quelle di carattere? Non v’erano forse in quelle degli Arlecchini, il di cui carattere è la balordaggine? De’ Brighella, il di cui carattere è la scaltritezza e il saper ruffianeggiare? De’ Pantaloni, il di cui carattere è di operare da vecchi barbogi? degli amanti, il di cui carattere è d’essere amanti? Ma il Goldoni è egli tanto privo di lume naturale da non comprendere che gli Arlecchini, e i Brighelli, e i Pantaloni, e gli amanti che ha nelle sue propie commedie, sono tanto caratteri nel loro genere, quanto le sue Pamele, e le sue Ircane, e i suoi caffettieri nel genere loro? Che diavol di distinzione fa egli? Che diavol di gergo ne vien egli a parlare? Vuol egli mutar l’idea del vocabolo italiano carattere? Ma verrà tempo che gli darò io una definizione della parola carattere. Per ora tiriamo avanti.

Scena quarta. Vien fuori un signor Tonino, che fa la parte di Pantalone. Questo signor Tonino ha la faccia turbata, si sente un certo tremazzo, si sente il polso agitato, pensando che v’è infinitamente maggior pericolo nel recitare nelle nuove commedie del Goldoni scritte con nuovo stile, che non nelle commedie dell’arte; ma l’impresario lo rincuora, facendogli ricordare che il signor Tonino ha riscosso grandi applausi nell’Uomo prudente, nell’Avvocato, e nei Due gemelli, commedie del Goldoni. Queste lodi però, Goldoni mio, sono un poco troppo spiattellate, e la modestia voleva di non farvi tanto bello in faccia a un pubblico, che ha la bontà d’applaudire a’ vostri Uomini prudenti, a’ vostri Avvocati, e a’ vostri Gemelli. Credo bene che sia più difficile, come voi dite, di recitare una cosa studiata che non cosa pensata all’improvviso; ma non credo che il signor Tonino si sentisse poi tanto tremazzo, o che avesse la faccia turbata e il polso agitato, pensando a recitare una parte del vostro Padre rivale del figlio; tanto più che quella non è, come voi sapientemente dite, una commedia di carattere. Il Goldoni tuttavia vuol accostumare l’udienza a credere che non solamente il comporre le sue commedie è un non plus ultra, ma anche il recitarle. Che importa poi all’udienza il sapere che il signor Tonino s’è infranciosato colle donne in Venezia quand’era giovane, e che ne informi di quella stomachevole sua circostanza con questi due versi:

«E porto in me di quelle donne istesse le onorate memorie ancora impresse?» Vi pare, Goldoni mio, che questo sia un farla da riformatore del teatro e de’ costumi, quando

fate dire di queste porcherie a’ vostri attori? Scena quinta. È un miserabil dialogo tra la seconda donna e l’impresario su quelle

commedianti ambulatorie, che pelano i gonzi, cioè che si prostituiscono per dinari. La scena finisce, che la seconda donna sostiene esser gli uomini che insegnano la malizia alle donne, e l’impresario vuole che sieno le donne che l’insegnano agli uomini; e a questo proposito la seconda donna prorompe in questa plebea esclamazione: «Eh galeotti maledetti!» E l’impresario risponde con quest’altra non meno elegante: «Eh streghe indiavolate!» Questa è la filosofia del Goldoni, il quale non sa ancora che la malizia la più parte degli uomini l’imparano gli uni dagli altri quando sono giovanetti, senza troppo aiuto dalle donne, e che le donne fanno lo stesso senza troppo aiuto dagli uomini. Gli uomini poi e le donne scostumate, come sono qualche volta i commedianti, mettono a effetto quella malizia gli uni colle altre; e restano poi loro impresse l’onorate memorie; ma questo non si chiama imparar malizia, Goldoni mio: si chiama metter a effetto o in pratica la già imparata malizia.

Scena sesta. Prepariamoci a ridere, che entra Brighella per dirci che viene un poeta. E che poeta! Miserabile e allegro, perché così tutti i poeti. Che bella facezia! Vorrei sapere se, chi l’ha scritta inchiude pure sé stesso nel numero de’ poeti allegri. In questa sua commedia però trovo molta più miseria che non allegria. Ma sentiamo l’impresario, il quale ne assicura che, se questo

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poeta miserabile e allegro volesse venire a strapazzare i componimenti del Goldoni, il Goldoni se l’avrebbe a male. Lo credo senza che l’impresario me l’assicuri. Ma che «se sarà un uomo di garbo, e un savio e discreto critico» il Goldoni gli sarà amico. Bisognava ancora che il Goldoni, per bocca di questo impresario, ne facesse sapere come bisogna criticarlo per rendersi degni della sua amicizia, o perché egli non se l’abbia a male. Ho gran paura che il Goldoni troverà Aristarco Scannabue un uomo di poco garbo, e un indiscreto e matto critico. Ma flemma vi vuole, e poi ogni cosa va bene. Forse quando verremo a que’ tomi in cui sono le sue buone commedie, io le loderò, e allora sarò savio e discreto critico, e uomo di garbo anch’io.

Scena settima. Non ne dice altro, se non che di «gran novità si sono introdotte nel teatro comico», cioè dopo la riforma o spurgo fattone dal Goldoni.

Scena ottava. Entra Gianni, cioè l’Arlecchino. A questo Gianni il Goldoni mette subito in bocca questa bella facezia: «Signor Orazio, siccome ho l’onore di favorirla colla mia insufficienza, così son venuto a ricever l’incomodo delle so grazie», Mi maraviglio che si trovi un commediante, il quale sia tanto Gianni da lasciarsi metter in bocca di queste scempiaggini da un poeta. Il resto del discorso di questo suo Arlecchino è a un dipresso sul gusto di questa stessa bella facezia. Scena nona. Seconda donna e Dottore. In grazia della sua brevità voglio qui ricopiare questa scena, che servirà per dar un saggio della nobile maniera di dialoghizzare del Goldoni.

BEATRICE. Via, signor Dottore, favoritemi; andiamo. Voglio che siate voi il mio cavalier servente. PETRONIO. Il Cielo me ne liberi! (che galante espressione!) BEATR. Per qual cagione? PETRON. Perché in primo luogo io non sono così pazzo che voglia soggettarmi all’umore

stravagante di una donna (doveva dire all’umore d’una seconda donna, e non pigliar le donne in generale e trattarle tutte da umori stravaganti). In secondo, perché, se volessi farlo, lo farei fuori di compagnia (sentiamo quest’altro savio riflesso); ché chi ha giudizio porta la puzza lontano da casa. E in terzo luogo, perché con lei farei per l’appunto la parte del Dottore nella commedia intitolata La suocera e la nuora (commedia del Goldoni, che vuol sempre far pensare a sé l’udienza).

BEATR. Che vuol dire? PETRON. Per premio della mia servitù (cioè del suo tener la puzza in casa) non potrei attendere

altro che un qualche disprezzo (oh savio Dottore! Ma sentiamo la contrarisposta di madonna Schifalpoco).

BEATR. Sentite: io non bado a queste cose. Serventi non ne ho mai avuti, e non ne voglio; ma quando dovessi averne, li vorrei giovani (brava: battiamo le mani).

PETRON. Le donne s’attaccano sempre al loro peggio (bella sentenza, e molto al proposito! Viva Goldoni).

BEATR. Non è peggio quello che piace (altra sentenza non men bella dell’altra, a proposito di ravanelli).

PETRON. Non s’ha da cercar quel che piace, ma quel che giova (e questa terza sentenza non è ella degna d’un Platone quanto l’altre due?)

BEATR. Veramente non siete buono da altro che da dar de’ buoni consigli (dove sono i consigli che le ha dati? È ella briaca?)

PETRON. Io son buono da dargli; ma ella, a quanto veggo, non è buona da ricevergli (lo spiritoso Dottore ha bevuto troppo anch’egli).

BEATR. Quando sarò vecchia gli riceverò (spiritosissima). PETRON. Principiis obsta: sero medicina paratur.

E così si termina la scena con quest’altra sentenza, che è in latino, perché si sa bene che le

seconde donne di commedia intendono tutte molto bene il latino. Scena decima. Questa scena, a dir vero, non contiene che alcuni goffi complimenti tra due

sciocche commedianti; poi s’avanza il poeta miserabile ed allegro; e il Dottore al suo apparire

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osserva, con un’acutezza da par suo, che il poverino è molto magro. Pure quest’acuta osservazione avrà meritato gli applausi dell’udienza, massimamente se il poeta avrà avuto un abito stracciato, una gran parrucca mal pettinata, le calze rotte, una lunga spadaccia al fianco, un cappello piccino piccino sotto il braccio, e cose simili, che costituiscono una gran parte del faceto goldoniano, e secondo il nuovo stile delle commedie di carattere.

Scena undecima. Entra quel cialtrone confratello di certi poeti teatrali. Si chiama Lelio con nome romano. Questo poeta Lelio s’informa con una goffa franceseria de’ diversi gradi teatrali de’ commedianti; bacia la mano alla primadonna con molto rispetto; e poi con un po’ men rispetto anche alla seconda donna; e poi riverisce con affettazione il primo amoroso; e poi mostra un po’ di petulanza col Dottore. E tutte queste nuove galanterie del Goldoni fanno crepar dalle risa l’udienza, stupefatta da tante belle facezie. Lelio poi parla d’una sua commedia a soggetto che ha tre o quattro titoli; e l’impresario fa il sapiente intorno a’ titoli; e tutta la compagnia, che è tutta ingoldonita, critica con molte osservazioni, che giovano all’autore Goldoni, tutte le antiche commedie dell’arte, e squacchera dottrina non men nuova che buona intorno all’importantissimo mestiero del commediante. Poi il poeta Lelio recita smaniando alcuni insipidi versi della sua commedia a soggetto; ma, intanto che egli smania, tutti i commedianti partono senz’essere da lui visti, perché egli chiude ben gli occhi recitando; e con questo mirabile sforzo d’ingegno e di lepidezza malamente tratto dalla commedia francese detta il Babillard, termina l’atto primo della bella ed istruttiva moralissima commedia intitolata Il teatro comico del signor Carlo Goldoni.

Al secondo e al terzo atto io non voglio fare quella esatta anatomia che ho fatto a questo primo. Trascriverò qui solamente alcuni de’ suoi più rimarchevoli tratti, per sempre più edificare i miei benigni leggitori.

Atto secondo. Scena prima. S’è veduto più su, che il Goldoni non sa il significato del vocabolo «carattere». E chi crederebbe ch’egli non sa neppure i significati de’ vocaboli «dialogo», «soliloquio», «rimprovero» e «disperazione? » Questo pare incredibile; e se non fosse detto dal Goldoni in istampa, non vi sarebbe modo di persuadersene. Il Goldoni in questa scena, istruendo in persona d’Anselmo lo sciocco poeta Lelio delle perfezioni delle commedie moderne, cioè delle goldoniane, dice a tanto di lettere che «dialoghi, uscite, soliloqui, rimproveri, concetti, disperazion, tirade» sono cose che non s’usano più. Le «uscite», i «concetti» e le «tirate» in commedia nel gergo comico sarà vero che non si usano più; ma come diavolo fa mai il Goldoni a far parlare le persone insieme senza «dialogo?» Come fa a far parlare un attore solo senza «soliloquio?» E quando un interlocutore rimprovera all’altro qualche cosa, come fa a rimproverare senza «rimprovero?» E quando, verbigrazia, il milordo si dispera perché Pamela non è nata nobile com’esso, come fa a disperarsi senza «disperazione?» Ecco quattro segreti dell’arte comica moderna, più difficili a indovinare che non il segreto di trasmutare i metalli! Ecco come attente stanno le udienze nostre a quelle commedie che tanto lodano! Tutti vanno alla commedia, tutti vedono gli attori, le scene, i lumi, la gente, i palchi, e tutto ciò che è oggetto dell’occhio; ma a quello che è oggetto dell’orecchio, cioè alle parole, nessuno fa la minima attenzione: tutti sono sordi; e poi tutti escono della commedia e vanno a cena; e durante la cena tutti esagerano le maravigliose cose che hanno udite. Così usano tutti gl’italiani, col buon pro de’ nostri moderni poeti, che vomitano ad ogni parola spropositi grossi come montagne, sicuri che nessuno se n’accorgerà. Ma, Goldoni mio, idolo dolcissimo del nostro secolo, ne hai tu molti di questi spropositacci in questi quaranta tomi che stai stampando? Deh, per l’onore della nostra Italia, deh correggi almen questo in quest’altra edizione che farai in quaranta mila tomi delle cose tue, perché questa de’ dialoghi non dialoghi, de’ soliloqui non soliloqui, eccetera, è veramente troppo troppo grossa! E tu non rassembri qui male a quel goffo introdotto da monsù Molière in una delle commedie sue, il qual goffo aveva parlato in prosa tutto il tempo della sua vita, senza mai accorgersi che aveva sempre parlato in prosa.

Scena terza. Sentite, leggitori, con che bell’arte il Goldoni si pareggia agli autori comici francesi, e si mette anzi più su d’essi. Il poeta Lelio dice all’impresario: «Disprezzate voi l’opere dei francesi?» E l’impresario dottamente risponde a Lelio: «Non le disprezzo: le lodo, le stimo, le venero; ma non sono al caso per me. I francesi hanno trionfato nell’arte delle commedie per un

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secolo intiero. Sarebbe ormai tempo che l’Italia facesse conoscere non essere in essi spento il seme de’ buoni autori, i quali dopo i greci ed i latini sono stati i primi ad arricchire e ad illustrare il teatro. I francesi nelle loro commedie non si può dire che non abbiano de’ bei caratteri e ben sostenuti; che non maneggino bene le passioni; e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi e brillanti. Ma gl’uditori di quel paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione ben maneggiata e condotta raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendono aria di novità. I nostri italiani vogliono molto più. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone che formano gli episodi sieno altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità; vogliono la morale mescolata coi sali e colle facezie; vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle; e solamente coll’uso, colla pratica e col tempo si può arrivar a conoscerle e ad eseguirle».

Questo discorso dell’impresario io ho qualche ragione di sospettare che il Goldoni l’abbia rubato a qualche autor francese, sostituendo solamente la parola «francesi» alla parola «greci», e la parola «italiani» alla parola «francesi ». Checché ne sia di questo mio sospetto, che non ho tempo adesso di verificare, dico che questo discorso, così come sta in questa scena, è della razza di quelli, che acquistarono tanta fama a quel ciarlatano impostore conosciuto pochi anni fa sotto il nome d’Anonimo; voglio dire che è uno di que’ discorsi tanto più ammirati dal volgaccio quanto meno intesi. Il volgaccio nostro, oltre alla sua ignoranza crassa, e disattenzione somma, non può aver idea del teatro francese, e, sentendosi entrar nell’orecchio tutto questo sonoro gergo, apre tanto d’occhi e di bocca, ed ammira come cose stupende il trionfar dell’arte; il seme spento; l’illustrar il teatro; i buoni autori greci e latini; i concetti arguti e brillanti; i caratteri ben sostenuti, forti, originali e conosciuti; la passione ben maneggiata; la quantità de’ periodi; la forza dell’esprimere; gli episodi con l’intreccio mediocremente fecondo; gli accidenti con le novità, con la morale, coi sali, colle facezie, coll’uso, colla pratica e col tempo. Come ha da fare il povero volgaccio a resistere contro un Goldoni che lo innonda con tanta sapienza teatrale! Ma, volgaccio, volgaccio, se tu sapessi quante bestialità sono contenute in queste poche da te ammirate righe, e qual vantaggio cavi questo secondo anonimo dalla tua crassa ignoranza, tu t’anderesti a seppellire per vergogna! Se il Goldoni avesse voluto, o, per meglio dire, se avesse saputo parlare con verità in questa scena, avrebbe fatto parlare il suo impresario in questi termini. «Le commedie francesi piaciono alle colte udienze di Francia, perché in esse molti individui francesi sono vivamente dipinti tali e quali come sono, e perché in esse si criticano piacevolmente e si mettono in ridicolo alcuni vizi e difetti che regnano in Francia. Le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze, perché sono scritte con pura ed elegante lingua: perché ognuna abbonda di molti bei caratteri; perché gli avvenimenti in esse sono naturali, la condotta semplice nel suo artificio, e lo scioglimento pur naturale ed inaspettato; in somma le commedie francesi piaciono a quelle colte udienze perché sono buone commedie. Ma chi vuole piacere con una commedia al grosso del popolo italiano, che in tutta Italia è incolto e pieno d’ignoranza della più crassa, bisogna che prenda in prestito molte volte dalle commedie dell’arte gli Arlecchini, i Brighelli, i Pantaloni e i Dottori, e che li frammischi coi turchi dotti, coi persiani galanti, con gl’inglesi taciturni, coi tedeschi briachi, coi francesi matti, cogli spagnuoli millantatori e genealogisti. Bisogna che una commedia italiana ribocchi di quelle buffonerie che si usano dalla piú vil canaglia; che in essa i cavalieri e le dame parlino colpe parlano le piú sciocche e piú affettate- cómmedianti e virtuose di teatro; che non sia scarsa d’equivoci ribaldi e di gesti osceni; che dia delle botte frequenti alle donne e che metta sempre in ludibrio il matrimonio. Bisogna che in una commedia que’ cavalieri, e quelle dame anch’esse, minaccino sempre di far ammazzare o di far bastonare; che tutti gli accidenti sieno sempre contro natura e da romanzo; che non si lasci mai ben distinguere dall’udienza tra la virtù e il vizio, sostituendo quasi sempre uno all’altra, e l’altra all’uno. Bisogna che la lingua non sia mai buona toscana e grammaticale, perché il popolo non impari mai a parlare con eleganza; ma bisogna che sia un miscuglio pazzo di frasi veneziane, e lombarde, e romagnuole, malamente toscaneggiate. Con queste ed altre simili avvertenze (ha da

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dire un impresario che parla dalla scena) si faranno sicuramente batter le mani a tutte le nostre udienze. Sopra tutto non bisogna mai aver paura dei critici; perché i critici primieramente in Italia son pochi; e que’ pochi, quando volessero fare i permalosi, si trova poi facilmente il modo di farli tacere, ricorrendo a qualche protettore o a qualche protettrice».

Ma ecco qui, tra gli altri spiritosi concetti di Colombina, un suo bel soliloquio pieno di buona morale. «Povera signora Rosaura, povera la mia padrona! Che cosa mai ha che piange e si dispera? Eh lo so ben io cosa vi vorrebbe pel suo male! Un pezza di giovinotto ben fatto che le facesse passare la malinconia. Ma il punto sta che anch’io ho bisogno dello stesso medicamento. Ma de’miei due amanti, Brighella è troppo furbo, Arlecchino è troppo sciocco... Col furbo starò male di giorno, e collo sciocco starò male di notte». Padri e madri, affrettatevi a condurre le vostre innocenti figliuole a sentire le Colombine del Goldoni, che ha riformato il costume corrotto del teatro italiano!

Sentiamo ancora un altro bel pezzo di buona morale, che il Goldoni ci dà per suo in una scena del terz’atto, e che è in versi. È un padre che parla alla figlia vogliosa di maritarsi:

«Figlia, che mi sei cara quanto mai dir si possa, e per te sai quanto ho fatto: prima di vincolarti col durissimo laccio del matrimonio, ascolta quanti pesi trae seco il coniugal diletto. Bellezza e gioventù, preziosi arredi della femmina, son dal matrimonio oppressi e posti in fuga innanzi al tempo.» Ci dica un poco il Goldoni come si fa a mettere in fuga e a opprimere i preziosi arredi? Che

belle metafore! Tiriamo innanzi: «Vengono i figli: oh dura cosa i figli! Il portarli nel seno, il darli al mondo, l’allevarli, il nutrirli son tai cose che fanno inorridir! Ma chi t’accerta che il marito non sia geloso, e voglia a te vietar quel ch’egli andrà cercando? Pensaci, figlia, pensaci; e poi quando avrai meglio pensato, sarò padre per compiacerti, come ora lo sono per consigliarti.» Ecco come gli autori del nuovo stile e delle moderne commedie di carattere sbagliano il vizio

per virtù come ho già additato. Il Goldoni, che in mille luoghi delle sue commedie ha questo difetto in comune coll’altro poeta Chiari, di voler fare il filosofo e il moralista senza avere studiata né la morale né la filosofia, e che, come il Chiari, non distingue mai netto tra il bene e il male, vorrebbe qui distogliere le fanciulle dal pigliar, marito, suggerendo ad esse che in conseguenza di quel durissimo laccio del matrimonio resteranno poi gravide, porteranno con grave incomodo i figli nell’utero per nove mesi, e li partoriranno poi con dolore, e saranno poi obbligate a allevarli e a nutrirli: cose che lo fanno inorridire, come se avesse da partorire egli stesso. E per sopraccarico di malanni, una fanciulla può anche per sua disgrazia pigliare un marito dissoluto, che ami andare adulterando in qua e in là, senza voler permettere che la moglie faccia altrettanto. Ma cosa vorrebbe il Goldoni che le nostre fanciulle facessero, invece di maritarsi? Vuol egli che muoian tutte vergini? E non ved’egli che se queste sue perverse insinuazioni alle fanciulle prevalessero mai ne’ paesi dove dalle scene predica così stoltamente, que’ paesi rimarrebbono presto spopolati e deserti? Ed egli è tanto cieco della mente, tanto poco iniziato nelle conseguenze della costituzione di questa

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nostra umanità, che non sappia ancora come in ogni condizione è forza che ogni donna abbia anch’essa i suoi guai come ogni uomo? Non sa egli che la virtù consiste, non nel cercare di fuggire i mali che sono inevitabili e che non si possono in alcun modo fuggire, perché annessi dal Creatore all’umana condizione; ma che la virtù consiste nell’incontrarli con forte animo, nel minorarli colla prudenza e nel soffrirli con pazienza e con rassegnazione? E non sa egli che il matrimonio è ordinato dalla natura e istituito da Dio? Non sa egli che le donne bisogna che soffrano la gravidanza e il parto, come gli uomini bisogna che soffrano la fatica del guadagnar il pane a sé stessi e alle loro famiglie col sudore del lor volto? Non sa egli che se il matrimonio ha le sue spine, anche il celibato non è tutto sparso di rose? Non sa egli che i figliuoli, se sono ben educati, sono un piacere ineffabilissimo de’ genitori, e un sostegno, e un conforto della loro inevitabile vecchiaia? Chi scrive per dissuadere alcuno da un prudente matrimonio secondo il suo stato, merita il titolo francese d’empoisonneur public, e non di riformatore del corrotto teatro e de’ costumi corrotti, che sono titoli dati dall’ignorante canaglia, la quale di rado sa quel che si dica.

Basti così per oggi; e il Goldoni mi scusi se non approvo nulla in questa sua prima commedia, perché davvero la trovo tutta balorda e tutta cattiva dalla prima sino all’ultima parola. Può darsi che sulla scena faccia bell’effetto all’occhio, ma sotto l’occhio che la legge fa troppo cattivo effetto. Se i suoi ammiratori, che non son volgo, invece di andarla a sentire a teatro, la leggeranno nel loro gabinetto, son sicuro che confesseranno d’essere stati abbagliati dalla rappresentazione scenica, la quale non lascia mai rifletter bene e posatamente, massime se gli attori sono buoni. Intanto io anderò successivamente esaminando una dietro l’altra, se avrò tanta pazienza, tutte le produzioni comiche di questo tanto celebrato poeta, e se troverò in alcuna d’esse qualche cosa di buono, torno a dire che batterò anch’io le mani, e le farò battere al mio don Petronio nel leggerle con esso. Ma ho gran paura che tutte sieno frivole, stravaganti e perniciose al mio prossimo, e che avrò da menar la frusta sino al fine del quarantesimo tomo addosso a chi finisce di guastar la testa e il cuore de’ tanti stolidi e scostumati miei compatrioti.

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By Giuseppe Bonghi