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pagina 8 il manifesto GIOVEDÌ 12 GIUGNO 2014 Sulcis , lotta operaia u n REPORTAGE Angelo Ferracuti I l nostro giro in macchina inizia di matti- no presto da Piazza Roma, che è il cen- tro della città, dove c’è la statua di Po- modoro e la Torre littoria con la finestra, ora murata, da dove si sporgeva per parlare tronfio e impettito il duce: divide in due la cittadella operaia di Carbonia dalla zona più residenziale dei dirigenti con le villette, una netta cesura urbanistica di classe. Quando arriviamo nei pressi della Grande miniera, Marco Grecu, sindacalista storico di queste parti e una delle scatole nere del Sulcis, figlio di minatore anche lui, mentre lavora di sterzo, rallenta l’andatura della Ti- po, mi dice: «Vedi, quella è la lampisteria, dove l’operaio consegnava la medaglia e gli davano la lampada». Piccolo di statura, sguardo serio e fiero, racconta instancabile l’epica del lavoro di questa terra. Viaggiamo nelle piccole arterie che si perdono nel pae- saggio, ci spostiamo in strade strette e poco trafficate, ai nostri lati un territorio selvati- co, fatto di roccia e macchia mediterranea, che stringe fino a soffocare. «Essendo que- sta una prima zona emersa anche dal pun- to di vista geologico, il territorio ha da sem- pre una vocazione mineraria», sostiene mentre transitiamo lungo la statale 126 che porta fino ad Iglesias, e a si- nistra vedo possente l’alto- piano del Monte Sirai. Que- sta è zona di minatori e di miniere, la stessa cittadina è tutta scavata nel sottosuolo (al Museo ho visto un qua- dro con tanti cunicoli che sembra la mappa di una me- tropolitana), a Nuraxi Figus hanno lavorato talmente a largo raggio spingendosi ad- dirittura fino al mare, ma ora l’ultimo sito italiano in attività è fermo, rischia la di- smissione, anche lì si prepa- rano alla lotta. «Sono figlio di un minatore, già da bam- bino vivevo la vita delle mi- niere, qui sono nate le pri- me battaglie sindacali e il primo sciopero nazionale di tutte le categorie, ci sono sta- ti degli eccidi, a Bugerru, Gonnesa, sapere che in Sar- degna non c’è una miniera in produzione è come se sparissero i pastori. Ma è nei momenti difficili che si vede il legame che c’è tra i mina- tori, sono sicuro che uniti riusciremo a tenerla aperta», mi ha detto ie- ri con gli occhi lucidi a 500 metri sotto il suo- lo, nelle viscere della terra, Sandro Mereu, operaio della CarbonSulcis. Un piccolo far west Da questa parte della provincia più pove- ra d’Europa, 130.000 abitanti e 30.000 disoc- cupati, 40.000 pensionati dell’industria, ulti- ma risorsa per la sopravvivenza sociale, c’è il bacino del carbone, e nei siti dell’iglesien- te quello metallifero di Flumini, Bugerru, fi- no ad Arbux e Ingurtoso: da metà dell’otto- cento, con le concessioni regalate a padroni francesi, belgi e tedeschi, è stata terra di con- quista, un piccolo far west del capitalismo europeo, poi sito energetico nevralgico del- l’autarchia mussoliniana, quando la città fu costruita nel 1938 intorno alla miniera di Serbarìu, e da 4000 abitanti la popolazione lievitò fino ai 45000 del 1951, vennero qui da tutte le parti del paese, fino agli anni ’70 quando il distretto minerario che dava lavo- ro a oltre trentamila persone ha cominciato a perdere mercato, sono iniziati i licenzia- menti, le chiusure e la crisi, che qui c’è sem- pre stata insieme alla rara capacità di resi- stenza di questa gente rocciosa, abituata al- la fatica e alle lotte sociali. Quando scorgo la zona industriale di Por- tovesme in lontananza, prima del mare di Portoscuso, mentre Marco continua a gui- dare lento, superati gli spalti con le bianche silhouette delle pale eoliche sulle colline li- mitrofe, appaiono agglomerati in cemento, silos, fumaioli. Secondo una visione indu- strialista, qui molto condivisa, è un puntino insignificante della cartina geografica, an- che se tutta questa zona è considerata ad al- to rischio ambientale e non è certo uno spet- tacolo davanti a un mare così (anche se poi, proprio per questo, le aziende sono state co- strette a investire di più in tecnologie per l’ambiente), ma è stata una necessità, un modo delle Partecipazioni statali per ricon- vertire con il polo dell’alluminio e creare po- sti di lavoro; perché qui non c’era altro: tut- to il resto, dall’agricoltura alla pesca, era sta- to abbandonato o marginale, poco sviluppa- to il turismo, poi con le privatizzazioni degli anni successivi sono arrivate a dettare legge le multinazionali e il mercato globalizzato neoliberista. L’Euroallumina sembra un luogo fanta- sma, c’è un silenzio impressionante, quello delle fabbriche morte. Se non sapessi che dentro ci sono gli operai che lavorano sten- terei a credere che qui si fanno lavori di ma- nutenzione per tenere la fabbrica in attività. Quando parcheggiamo e superiamo il can- cello, poco più avanti ci vengono incontro tre sindacalisti delle Rsu, ci stringono la ma- no invitandoci ad entrare nella piccola stan- za riservata ai sindacati. Uno di loro dice scherzoso: «Non ci sono le tigri e i giaguari, state tranquilli», come a dirci che se uno s’immaginava una giungla, un cimitero del- l’industrializzazione, deve aspettarsi qualco- sa di molto diverso, la proprietà russa, la Ru- sal, è rimasta col suo management, non è fuggita come le molte «mosche del capita- le», e loro non mollano. I caschi con i quattro mori Quando ci sediamo iniziano a racconta- re. «Questa fabbrica è nata negli anni settan- ta come raffineria di allumina, qui si estrae- va l’ossido di alluminio dalla bauxite in un progetto di filiera e affiancava l’Alcoa, che produceva quello fuso, e ancora altre fabbri- che del territorio che realizzavano i lamina- ti e i profilati», mi spiega Gianmarco Mucci, un ragazzo con un pizzo curato e gli occhi svegli, mentre si toglie l’elmetto arancione dalla testa. I caschi dei lavoratori del Sulcis con il distintivo dei quattro mori sono diven- tati il vero simbolo della resistenza in questi anni. Quello che colpisce di questi lavorato- ri è la capacità di conoscenza tecnica della fabbrica e della produzione, le potenzialità di innovazione da loro stessi suggerite. «Qui il ciclo di produzione delle terze lavorazioni non si è mai completato, mancavano i pro- dotti finiti, le pentole, i cerchi in lega,» ag- giunge prendendo la parola Antonio Pirot- to, «una scelta di politica industriale che ha portato le lavorazioni più ricche in altre par- ti d’Italia, a noi hanno lasciato il lavoro spor- co». La fabbrica è ferma dal 2009, con cassa integrazione per i quasi 500 dipendenti e ol- tre 300 dell’indotto, nonostante raffinerie come questa siano ancora attive in Francia, Spagna, Germania, nella verde Irlanda. «Il primo risultato ottenuto dopo anni di lotta è un protocollo d’intesa firmato con quat- tro ministeri italiani, nel quale è individuata la linea per la ripresa della produzione. Il problema principale è quello di produr- re energia a basso costo, allora si è pensato di realizzare una caldaia a carbone ad alta efficienza tecnologica con la metà delle emissioni consentite dalla Comunità euro- pea», spiega ancora Marco. Ci tengono a precisare che la questione ambientale per loro è fondamentale. «Dobbiamo rispettare noi stessi e quelli che ci vivono vicino, non barattiamo il posto di lavoro mettendo a re- pentaglio la nostra salute, quella dei nostri figli e di tutti», continua Antonio, raccontan- do che in molti altri posti scaricano ancora Viaggio nella provincia più povera d’Europa con Marco Grecu, figura storica del sindacalismo. Tra le voci dure delle band Golasecca e Intreccio: il rock metalmeccanico della zona di Portovesme dove gli operai dell’Alcoa sono tornati a presidiare la fabbrica

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pagina 8 il manifesto GIOVEDÌ 12 GIUGNO 2014

Sulcis, lotta operaia un

REPORTAGE

Angelo Ferracuti

I l nostro giro in macchina inizia di matti-no presto da Piazza Roma, che è il cen-tro della città, dove c’è la statua di Po-

modoro e la Torre littoria con la finestra,ora murata, da dove si sporgeva per parlaretronfio e impettito il duce: divide in due lacittadella operaia di Carbonia dalla zonapiù residenziale dei dirigenti con le villette,una netta cesura urbanistica di classe.Quando arriviamo nei pressi della Grandeminiera, Marco Grecu, sindacalista storicodi queste parti e una delle scatole nere delSulcis, figlio di minatore anche lui, mentrelavora di sterzo, rallenta l’andatura della Ti-po, mi dice: «Vedi, quella è la lampisteria,dove l’operaio consegnava la medaglia e glidavano la lampada». Piccolo di statura,sguardo serio e fiero, racconta instancabilel’epica del lavoro di questa terra. Viaggiamonelle piccole arterie che si perdono nel pae-saggio, ci spostiamo in strade strette e pocotrafficate, ai nostri lati un territorio selvati-co, fatto di roccia e macchia mediterranea,che stringe fino a soffocare. «Essendo que-sta una prima zona emersa anche dal pun-to di vista geologico, il territorio ha da sem-pre una vocazione mineraria», sostienementre transitiamo lungo la statale 126 cheporta fino ad Iglesias, e a si-nistra vedo possente l’alto-piano del Monte Sirai. Que-sta è zona di minatori e diminiere, la stessa cittadina ètutta scavata nel sottosuolo(al Museo ho visto un qua-dro con tanti cunicoli chesembra la mappa di una me-tropolitana), a Nuraxi Figushanno lavorato talmente alargo raggio spingendosi ad-dirittura fino al mare, maora l’ultimo sito italiano inattività è fermo, rischia la di-smissione, anche lì si prepa-rano alla lotta. «Sono figliodi un minatore, già da bam-bino vivevo la vita delle mi-niere, qui sono nate le pri-me battaglie sindacali e ilprimo sciopero nazionale ditutte le categorie, ci sono sta-ti degli eccidi, a Bugerru,Gonnesa, sapere che in Sar-degna non c’è una minierain produzione è come sesparissero i pastori. Ma è neimomenti difficili che si vedeil legame che c’è tra i mina-tori, sono sicuro che uniti

riusciremo a tenerla aperta», mi ha detto ie-ri con gli occhi lucidi a 500 metri sotto il suo-lo, nelle viscere della terra, Sandro Mereu,operaio della CarbonSulcis.

Un piccolo far westDa questa parte della provincia più pove-

ra d’Europa, 130.000 abitanti e 30.000 disoc-cupati, 40.000 pensionati dell’industria, ulti-ma risorsa per la sopravvivenza sociale, c’èil bacino del carbone, e nei siti dell’iglesien-te quello metallifero di Flumini, Bugerru, fi-no ad Arbux e Ingurtoso: da metà dell’otto-cento, con le concessioni regalate a padronifrancesi, belgi e tedeschi, è stata terra di con-quista, un piccolo far west del capitalismoeuropeo, poi sito energetico nevralgico del-l’autarchia mussoliniana, quando la città fucostruita nel 1938 intorno alla miniera di

Serbarìu, e da 4000 abitanti la popolazionelievitò fino ai 45000 del 1951, vennero quida tutte le parti del paese, fino agli anni ’70quando il distretto minerario che dava lavo-ro a oltre trentamila persone ha cominciatoa perdere mercato, sono iniziati i licenzia-menti, le chiusure e la crisi, che qui c’è sem-pre stata insieme alla rara capacità di resi-stenza di questa gente rocciosa, abituata al-la fatica e alle lotte sociali.

Quando scorgo la zona industriale di Por-tovesme in lontananza, prima del mare diPortoscuso, mentre Marco continua a gui-dare lento, superati gli spalti con le bianchesilhouette delle pale eoliche sulle colline li-mitrofe, appaiono agglomerati in cemento,silos, fumaioli. Secondo una visione indu-strialista, qui molto condivisa, è un puntinoinsignificante della cartina geografica, an-che se tutta questa zona è considerata ad al-to rischio ambientale e non è certo uno spet-tacolo davanti a un mare così (anche se poi,proprio per questo, le aziende sono state co-strette a investire di più in tecnologie perl’ambiente), ma è stata una necessità, unmodo delle Partecipazioni statali per ricon-vertire con il polo dell’alluminio e creare po-sti di lavoro; perché qui non c’era altro: tut-to il resto, dall’agricoltura alla pesca, era sta-to abbandonato o marginale, poco sviluppa-to il turismo, poi con le privatizzazioni deglianni successivi sono arrivate a dettare leggele multinazionali e il mercato globalizzato

neoliberista.L’Euroallumina sembra un luogo fanta-

sma, c’è un silenzio impressionante, quellodelle fabbriche morte. Se non sapessi chedentro ci sono gli operai che lavorano sten-terei a credere che qui si fanno lavori di ma-nutenzione per tenere la fabbrica in attività.Quando parcheggiamo e superiamo il can-cello, poco più avanti ci vengono incontrotre sindacalisti delle Rsu, ci stringono la ma-no invitandoci ad entrare nella piccola stan-za riservata ai sindacati. Uno di loro dicescherzoso: «Non ci sono le tigri e i giaguari,state tranquilli», come a dirci che se unos’immaginava una giungla, un cimitero del-l’industrializzazione, deve aspettarsi qualco-sa di molto diverso, la proprietà russa, la Ru-sal, è rimasta col suo management, non èfuggita come le molte «mosche del capita-le», e loro non mollano.

I caschi con i quattro moriQuando ci sediamo iniziano a racconta-

re. «Questa fabbrica è nata negli anni settan-ta come raffineria di allumina, qui si estrae-va l’ossido di alluminio dalla bauxite in unprogetto di filiera e affiancava l’Alcoa, cheproduceva quello fuso, e ancora altre fabbri-che del territorio che realizzavano i lamina-ti e i profilati», mi spiega Gianmarco Mucci,un ragazzo con un pizzo curato e gli occhisvegli, mentre si toglie l’elmetto arancionedalla testa. I caschi dei lavoratori del Sulciscon il distintivo dei quattro mori sono diven-tati il vero simbolo della resistenza in questianni. Quello che colpisce di questi lavorato-ri è la capacità di conoscenza tecnica dellafabbrica e della produzione, le potenzialitàdi innovazione da loro stessi suggerite. «Quiil ciclo di produzione delle terze lavorazioninon si è mai completato, mancavano i pro-dotti finiti, le pentole, i cerchi in lega,» ag-giunge prendendo la parola Antonio Pirot-to, «una scelta di politica industriale che haportato le lavorazioni più ricche in altre par-ti d’Italia, a noi hanno lasciato il lavoro spor-co». La fabbrica è ferma dal 2009, con cassaintegrazione per i quasi 500 dipendenti e ol-tre 300 dell’indotto, nonostante raffineriecome questa siano ancora attive in Francia,

Spagna, Germania, nella verde Irlanda. «Ilprimo risultato ottenuto dopo anni di lottaè un protocollo d’intesa firmato con quat-tro ministeri italiani, nel quale è individuatala linea per la ripresa della produzione.

Il problema principale è quello di produr-re energia a basso costo, allora si è pensatodi realizzare una caldaia a carbone ad altaefficienza tecnologica con la metà delleemissioni consentite dalla Comunità euro-pea», spiega ancora Marco. Ci tengono aprecisare che la questione ambientale perloro è fondamentale. «Dobbiamo rispettarenoi stessi e quelli che ci vivono vicino, nonbarattiamo il posto di lavoro mettendo a re-pentaglio la nostra salute, quella dei nostrifigli e di tutti», continua Antonio, raccontan-do che in molti altri posti scaricano ancora

Viaggio nella provincia più poverad’Europa con Marco Grecu, figurastorica del sindacalismo. Tra le vocidure delle band Golasecca e Intreccio:il rock metalmeccanico della zona diPortovesme dove gli operai dell’Alcoasono tornati a presidiare la fabbrica

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GIOVEDÌ 12 GIUGNO 2014 il manifesto pagina 9

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REPORTAGE

Costantino CossuROMA

Da Portovesme alla capi-tale per difendere la fab-brica di alluminio.

Sono arrivati ieri mattina da-vanti al ministero per lo svilup-po economico i cinquantaduelavoratori dello stabilimento Al-coa partiti dal presidio perma-nente allestito davanti all’azien-da del Sulcis. Chiedono un futu-ro per loro e per la strutturaproduttiva sarda. Una delega-zione è stata ricevuta dal vice-ministro per lo sviluppo econo-mico Claudio De Vincenti equalche risultato alla fine è sta-to ottenuto.

Intanto l’attività di manuten-zione dello stabilimento Alcoa

di Portovesme non verrà inter-rotta - come previsto da un pre-cedente accordo - il 30 giugno.L’azienda ha dato disponibilitàin tal senso. E poi il governo tra-sferirà alla Regione Sardegnaun fondo per il pagamento de-gli arretrati della cassa integra-zione in deroga.

In vista del tavolo già convo-cato per il prossimo 24 giugno,ieri a Roma è stata esaminatain particolare la situazione del-l’impianto del Sulcis.

A confrontarsi con De Vin-centi sono stati i rappresentan-ti dei sindacati nazionali e terri-toriali, i sindaci della zona inte-ressata dalla vertenza e alcuniparlamentari. Durante il dibat-tito è emersa la necessità che,all’appuntamento annunciato

di fine mese, vengano sciolti inodi legati alle modalità di ma-nutenzione del sito dopo il 30giugno, alla tempistica per gliammortizzatori sociali, all’op-portunità che si stringano, conla presentazione di un piano in-dustriale per il Sulcis, i tempidella trattativa con Klesch, l’in-vestitore che ha formalizzato lasua manifestazione d’interes-se. Al tavolo saranno presentianche un rappresentante dellapresidenza del consiglio e il mi-nistero del lavoro.

«Abbiamo scongiurato ilblocco della manutenzione eottenuto garanzie sul fondoper la cassa integrazione - spie-ga Franco Bardi, segretario Cgildel Sulcis - La discussione orasi sposta al 24 giugno. In quel-

l’occasione chiederemo rispo-ste su ammortizzatori socialiper l’indotto, dato che i lavora-tori sono da sei mesi senza sol-di e certezza e chiarezza sul per-corso con la Klesch. È necessa-rio capire se la trattativa devefermarsi o continuare». «Oggis’è fatto un passo in avanti -spiega Franco Porcu, portavo-ce del movimento dei sindaci -Adesso bisogna capire, nellariunione del 24 giugno, a chepunto è la trattativa».

E anche la politica regionalesi muove sulla crisi e sulla ver-tenza della Alcoa. «Il punto fon-damentale - dice il presidentedella giunta regionale France-sco Pigliaru (Pd) - è trovare unimprenditore serio disposto arilevare lo stabilimento di Por-

tovesme. Ma lo scouting non lopuò fare la Regione Sardegna ,deve farlo il governo». All’esecu-tivo guidato da Renzi gli operaidella Alcoa chiedono a questopunto risposte rapide e concre-te. La Klesch, il gruppo svizzerointeressato all’acquisto degliimpianti del polo del Sulcis, hain corso con il gigante america-no dell’alluminio una trattativache va avanti da mesi.

Il problema vero, però, l’inve-stitore Klesh lo ha con il gover-no italiano, al quale chiede fon-damentalmente due cose: unosconto sul prezzo dell’energia,che in Sardegna è più alto dellamedia europea, e mano liberasu un eventuale piano di ridu-zione degli organici.

«Aver lasciato tutta la tratta-tiva nelle mani di Alcoa, con ilgoverno spettatore - dice il se-gretario regionale della CgilMichele Carrus - si è rivelatauna strada inutile da percorre-re. Ora non c’è tempo da per-dere».

a mare i rifiuti, ma qui non si fa più datrent’anni: «perché i tonni avevano smessodi passare in queste acque, e noi abbiamol’unica tonnara del mediterraneo». Ogni vol-ta invece di finire il parlatorio ricomincia, sirianima all’improvviso. Si sentono persegui-tati dalla famosa telefonata di Berlusconi aPutin: «Ci hanno fatto passare da allocchi,ma qui lo scetticismo si tagliava a fette, enessuno di noi lo votava».

Gli operai dell’Alcoa da qualche giorno so-no tornati di fronte ai cancelli, davanti aquattro grandi silos, le strutture di tubi del-lo stabilimento. Quando arriviamo, dopoaver parcheggiato sul piazzale, stanno finen-do di montare una grande tenda azzurra, esul prato antistante campeggiano altre cana-desi di diversi colori. Parlano in piccoli grup-

pi quando ci sediamo sulle panche, allora al-tri si avvicinano. Il clima è completamentediverso da quello dell’Euroallumina, i visi diquesti uomini sono tesi, preoccupati, qual-cuno non nasconde l’angoscia. «Siamo in at-tesa» dice un operaio biondo, «la Regione in-tende spostare la nostra vertenza a PalazzoChigi, interessare direttamente il Governo».Un altro operaio robusto, scuro di carnagio-ne, dice stizzito: «Il dramma è che questavertenza si è addormentata». Riprende la pa-rola quello biondo: «Negli ultimi mesi gli in-contri sono stati più volte rimandati, è statonecessario fare questa azione. E stai sicuronon ci fermeremo qui se non ci saranno ri-sultati». Un altro sulla cinquantina, occhiali-ni rettangolari, dice: «Devono capire che inquesto territorio c’è un dramma, abbiamo

la cassa integrazione fino a gennaio, quellidelle ditte d’appalto da sei mesi non ricevo-no un euro, c’è gente disperata che non cela fa più». Si lamentano della scarsa atten-zione dei politici: «Siamo andati da tutti, ab-biamo fatto il giro delle sette chiese, ma dinoi si parla solo quando c’è la campagnaelettorale» dichiara un altro di loro, fuoridalla tenda. Poi ci raggiunge il delegato del-la Cgil Bruno Usai, è il fratello di Sergio, sin-dacalista molto amato e storico militante co-munista scomparso qualche anno fa.

«Schiavi di una multinazionale»Voce pacata, capelli lunghi neri con una

frezza bianca al centro, con pazienza ricom-pone la travagliata storia di questa fabbricache ha chiuso nel 2010 quando la multina-zionale americana ha deciso di ridurre lequote di mercato.

Siccome lo stato italiano non gli garanti-va più determinate condizioni, soprattuttonell’erogazione di energia elettrica, che quicosta il triplo di altre parti d’Europa in quan-to la centrale dell’Enel produce con una cal-daia di concessione obsoleta, ha deciso peril fermo. Il risultato sono quasi mille operaiin cassa integrazione con quelli dell’indot-to, un’assurdità per una azienda che dareb-be ancora utili e non riesce da sola a coprireil fabbisogno nazionale di alluminio.

«Siamo schiavi di una multinazionale, ca-pisci?», mi dice Bruno, senza perdere la cal-ma, gesticolando con le mani. «Perché ci sa-rebbe una vendita in corso, ma non capia-mo se è una vendita reale o mascherata. Se-

condo noi l’Alcoa non vuole cedere questequote di mercato. Per una questione strate-gica vuole chiudere lo stabilimento senzaperò permettere che altri producano allumi-nio in Italia, il governo deve intervenire. Noinon abbiamo altre alternative. Oppure» di-ce sconsolato, «prendi la valigia e parti. Madove vai adesso? Oggi i lavori generici sonoin mano ai lavoratori del terzo mondo, ne-anche un posto da lavapiatti si trova, c’ègente che non arriva alla fine del mese, mol-ti hanno ritirato i figli da scuola. Senza lafabbrica non c’è vita qui».

Le forme di lotta sono state tante, per far-si ascoltare questi lavoratori irriducibili so-no entrati come furie sulle piste all’aeropor-to di Cagliari per fermare gli aerei in atter-raggio, due di loro salirono per protesta suun silos a 70 metri di altezza, hanno dovutopersino bloccare le navi gettandosi corag-giosamente in mare.

La musica come resistenzaUn’altra forma di resistenza è stata quella

della musica. A cominciare da Rockbus,una vecchia corriera di linea parcheggiatada altri operai cassintegrati come presidiodavanti alla fabbrica Rockwool per control-lare che lo stabilimento non fosse smantella-to e portato in India, come poi è accaduto.«Inizialmente non pensavamo dovesse du-rare quattro anni» racconta Tore Corriga nelpomeriggio alla Camera del Lavoro, un ex al-bergo operai della miniera ristrutturato, cheadesso si occupa di siti archeologici per unasocietà della Regione. «Eravamo una trenti-na, ma molto determinati, fissi lì, ogni gior-no, abbiamo dovuto inventarci di tutto. Co-sì è venuta fuori l’idea del bus, poi sono par-titi i concerti ogni sabato, sono venuti grup-pi da tutta la Sardegna. Era un modo per ri-manere vivi, ci dava la carica. Se ogni giornoarriva qualcuno, resisti». Lo chiamano rockmetalmeccanico, gruppi che si sono formatinel cuore della fabbrica, come gli Intreccio,anche loro minacciati dalla crisi. Il loro nuo-vo video, molto inquietante, tocca il temadei suicidi, che qui sono stati diversi tra chiha perso il lavoro, ma quello precedente lohanno realizzato alla Metallotecnica, unadelle prime fabbriche dismesse di Portove-sme, con la canzone «Combattere», che èstata ed è ancora una bandiera nelle manife-stazioni sindacali. Sono musicisti di lungadata, supporter di gruppi pop degli anni ’70e di cover. Marino Usai mi racconta di que-sta energia che sentivano dentro quelle mu-

ra, «quasi quelle delle persone che ancora la-voravano e hanno dovuto subire la fame, ildisagio sociale, lo sfruttamento. Invece lanostra sala prove è da trent’anni proprio sot-to i nastri dell’Eurallumina, da lì dentro ab-biamo sentito spegnersi progressivamentetutti i rumori delle fabbriche e del lavoro» di-ce sconsolato.

Il sound dei tesserati FiomI Golasecca, tutti tesserati Fiom, si sono

incontrati durante le pause pranzo alla men-sa aziendale. All’inizio per il piacere di suo-nare, poi la loro si è trasformata in una rea-zione alla chiusura. «Siamo tutti dipendentiAlcoa in cassa integrazione, ma noi vogliamolavorare non ci piace essere degli assistiti, ladignità prima di tutto, e volevamo dirlo. Ro-berto, addirittura è senza nessuna tutela, es-sendo un interinale» dice il chitarrista MarcoCadeddu. Il cantante barbaricino e istrionicodel gruppo, barba lunga nerissima e tratti so-matici marcati, confessa che quelli come luierano costretti a lavorare di più: «La precarie-tà è un ricatto, eravamo ottanta, sempre inscacco matto, facilmente ricattabili dall’azien-da, contratto ogni tre mesi, sabato al lavoro».Il nome iniziale era Golasecca, viene da suononno, che si è trasferito qui per lavorare inminiera da Barigadu, dal centro Sardegna.Mi racconta che questo suo antenato vivevain un paesino, Ulà Tirso. In sardo ula è la go-la, quindi la gola del Tirso. Quando era bam-bino ci fu la grande crisi idrica nella regione,e il lago in estate si riduceva a una gora. «Luisi avvicinava a mia nonna e diceva: “Zicchi-na, oc annu puru sa ula est sicca", cioè Fran-ceschina, anche quest’anno la gola del fiumeè secca, allora ho proposto questo nome. Setu hai sete vai a cercare l’acqua, e per noi sar-di che siamo radicati in quest’isola significavoglia di cercare, di trovare con la sete che tispinge». Roberto Cossu mi mostra la magliet-ta che indossa, c’è scritto «Meglio banditiche schiavi nella nostra terra».

Come scriveva Paolo Volponi nelle Mo-sche del capitale: «La città è peggio della fab-brica. Anche se la fabbrica è imbattibile co-me cattiveria e prepotenza. Adesso può per-mettersi anche di licenziare. Dopo che ti hasfruttato e istupidito, ti butta fuori. Ti riman-da in una di queste vie». Ma la lotta di questioperai, tutti discendenti da una razza di mi-natori del Sulcis-Iglesiente, per questa forzaantica che viene dal passato non si ferma,continua, senza più classe e senza partito, inquesti tempi cupi di smarrimento e crisi.

ALCOA PROTESTA · Il 24 «piano Sulcis» del governo, niente blocco e fondo per la Cig a rotazione

Da Portovesme a Roma per difendere il lavoro

CAMPOPISANO, ROCKBUSA PRESIDIO DELLA

ROCKWOOL. A SINISTRAL’ALCOA DI PORTOVESME,

A DESTRA RIUNIONEDEGLI OPERAI. SOTTO,MINIERE DI CARBONIA/FOTO A. FERRACUTI

SOTTO LA PROTESTA DIIERI A ROMA/FOTO EIDON