Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

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Università degli Studi di Genova Facoltà di Lettere e Filosofia Anno Accademico 1989/1990 GIOVAN BATTISTA BENEDETTI E LA MECCANICA DEL ‘500 Relatore: Chiarissimo Prof. Freguglia Tesi di Laurea del candidato Giovanni Ferretti

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La fisica aristotelica da un lato, Galileo e la nuova scienza dall’altro, fanno della meccanica del ‘500 una scienza di confine. Vaso di coccio tra vasi di ferro, il suo studio è stato a lungo trascurato, col risultato di trascurarne l’originalità. Emblematico è lo scarso rilievo scientifico che per anni ha circondato il profilo di Giovan Battista Benedetti, studioso che, in quel periodo, più di ogni altro è riuscito ad avvicinarsi allo spirito galileiano. Ottimo esploratore di questa terra di nessuno, Benedetti suscita, oggi, sentimenti di ammirazione e di rabbia, visto che davvero poco è mancato alla sua analisi affinché il suo antiaristotelismo non portasse a quella rivoluzione scientifica che comunque vedrà la luce una cinquantina di anni dopo. Great explorer of this no man's land, Benedetti raises, today, feelings of admiration and anger as very little was missing his analysis that his anti-Aristotelianism did not lead to the scientific revolution that will see the light, however, fifty years later.

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Università degli Studi di Genova

Facoltà di Lettere e Filosofia

Anno Accademico 1989/1990

GIOVAN BATTISTA BENEDETTI

E LA MECCANICA DEL ‘500 Relatore: Chiarissimo Prof. Freguglia

Tesi di Laurea del candidato Giovanni Ferretti

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Sommario

INTRODUZIONE .......................................................................................................... 3

CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO

TEMPO ........................................................................................................................... 7

1.1 GLI INGEGNERI ED IL RINASCIMENTO ...................................................................... 9 1.2 L’ABACHISMO, OVVERO LA MATEMATICA PRET-A-PORTER ................................... 11 1.3 L’INFORMAZIONE SCIENTIFICA.............................................................................. 14 1.4 MISCELLANEA ...................................................................................................... 17

CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO............................................................................ 20

2.1 ….ISMO................................................................................................................. 21 2.2 METODO ............................................................................................................... 30

CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO............... 38

3.1 BIOGRAFIA ............................................................................................................ 38 3.2 GEOMETRIA, ARITMETICA, PROSPETTIVA, OTTICA, GNOMONICA, MUSICA. ............ 41 3.3 PERCHÉ IL FIUME VA AL MARE? ............................................................................ 43 3.4 GUERRE STELLARI................................................................................................. 46

CAP. 4 - LA MECCANICA NEL XVI SECOLO ..................................................... 53

4.1 CENNI SULLA STATICA PRE-BENEDETTINA. ........................................................... 54 4.2 LA STATICA DI BENEDETTI. .................................................................................. 58 4.3 CONATUS ED IMPETUS........................................................................................... 65 4.4 VERSO LA LEGGE D’INERZIA: I CONTRIBUTI DINAMICI DI GIOVAN BATTISTA BENEDETTI. ................................................................................................................. 77

LE OPERE.................................................................................................................... 87

BIBLIOGRAFIA CITATA......................................................................................... 88

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GIOVAN BATTISTA BENEDETTI

E LA MECCANICA DEL ‘500

INTRODUZIONE

La fisica aristotelica da un lato, Galileo e la nuova scienza dall’altro, fanno della

meccanica del ‘500 una scienza di confine. Vaso di coccio tra vasi di ferro, il suo studio

è stato a lungo trascurato, col risultato di trascurarne l’originalità. Emblematico è lo

scarso rilievo scientifico che per anni ha circondato il profilo di Giovan Battista

Benedetti, studioso che, in quel periodo, più di ogni altro è riuscito ad avvicinarsi allo

spirito galileiano.

Ottimo esploratore di questa terra di nessuno, Benedetti suscita, oggi, sentimenti

di ammirazione e di rabbia, visto che davvero poco è mancato alla sua analisi affinché il

suo antiaristotelismo non portasse a quella rivoluzione scientifica che comunque vedrà

la luce una cinquantina di anni dopo.

In cosa consista questa deficienza, e quindi quali siano i caratteri fondamentali

caratterizzanti quella svolta del pensiero umano, diremo in seguito. In questa

introduzione penso sia invece il caso di affrontare quei problemi che sono sottintesi da

questa tesi e dei quali è doverosa almeno una rapida elencazione.

Tutti gli epistemologi e tutti gli storici della scienza si sono divisi (almeno sino a

qualche decennio fa) in posizioni, le quali, se accettate, offrono griglie interpretative

tendenti a sclerotizzare le nostre ricerche in immagini talvolta diametralmente opposte:

ad ogni lente, una diversa visione del mondo.

Vedere in Galileo solo un disciplinato continuatore degli Studi parigini o

esaltarlo a genio assoluto emergente dal mare della mediocrità sua contemporanea,

influisce, ovviamente non poco, sul giudizio che possiamo dare degli sviluppi della

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fisica benedettina. Altrettanto dicasi del vedere i nostri dotti quali torri isolate, tra di

loro e da una società distratta, o come depositari delle esigenze improcrastinabili di una

economia in evoluzione.

E’ quindi necessario schierarsi, rendere chiaro il proprio pensiero, onde

preservarlo da possibili fraintendimenti. Far ciò, per fortuna, è semplificato dal fatto che

gli studiosi tendono, in questi ultimi anni, a non propinare più rigide ricette valevoli per

ogni stagione, ma a dare un’immagine più fluida, dialettica, del divenire scientifico:

continuismo, senz’altro, dato che la storia della scienza è storia di pensatori in diretto

contatto tra di loro (e visto che più si facilita questo scambio di esperienze, più la

scienza progredisce), ma anche rispetto dell’intuizione del singolo, vista, come dice

Ludovico Geymonat, non come metafisica presenza ma come capacità di estrapolare, di

cogliere relazioni ad altri nascoste1; esternismo, ovvio, ma anche cognizione del fatto

che certe scoperte ed invenzioni più che essere stimolate hanno stimolato un progresso

socio-economico.

Un rapporto dinamico lega la storia del soggetto con la storia dell’oggetto

dell’indagine scientifica. A prima vista, sembra che questa mobilità voglia impedirci di

focalizzare il tutto. A nostro favore gioca, però, una carta che potremo definire

psicologica: come si è invogliati a guardare gli sviluppi della fisica cinquecentesca con

gli occhiali dei continuisti, così si è portati a calcare la mano sulla originalità dello

scienziato, quando si tratta di parlare della sua opera. C’è da augurarsi di non cadere in

marchiane contraddizioni.

Quali sono i caratteri fondamentali della nuova scienza? A questa domanda si è

soliti rispondere che la novità sta nel diverso modo di indagare la natura: l’aristotelica

analisi qualitativa viene sostituita dal metodo sperimentale, fondato sull’applicazione

della matematica e sull’osservazione scrupolosa dell’esperienza. Questa svolta

metodologica ha rappresentato “quello che è l’evento più significativo della storia del

1 Quanto comunque sia necessario un maturo humus scientifico alla genialità del singolo è provato dal fatto che altrimenti le intuizioni, impossibilitate ad essere organicamente sviluppate, resterebbero sogni fini a se stessi: Leonardo non è Galileo, né Verne è Einstein.

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pensiero scientifico dal sorgere del cristianesimo”2, tanto da far ritenere ingiustificato

l’attribuire alle grandi scoperte geografiche il merito di essere fondatrici dell’era

moderna. Però, a ben vedere, questa consuetudine ha una ragion d’essere: i viaggi

transoceanici offrono delle date precise; maggiori difficoltà si incontrerebbero nel

cercare una data significativa per la nostra svolta epistemologica.

Questo, perché la rivoluzione scientifica fu “un vasto ed articolato movimento di

ricerche e di operazioni concrete sulla realtà e di elaborazioni teoriche e concettuali”3.

Si potrebbero senz’altro avanzare delle proposte (la data di pubblicazione del Sidereus

nuncius, per esempio) ma far ciò non renderebbe giustizia a quel movimento del

pensiero che rese possibile la stesura di quel libro. A chi, poi, affermasse che non ci

vuole un enorme background culturale per alzare un cannocchiale verso la Luna e per

annotare quelle due o tre cose elementari, immediatamente percepibili, si potrebbero

citare le parole che un padre gesuita ha indirizzato, nel ‘600, a Scheiner: “Figlio mio, ho

passato tutta la notte a guardare se vi siano macchie nel sole: non può essere, vi assicuro

che Aristotele non ne fa menzione”4.

E’ la moderna epistemologia che ci insegna che ogni esperimento, ogni ricerca,

ha alle spalle delle aspettative, quindi idee, teorie, che condizionano e sono nello stesso

tempo messe alla prova dall’esperimento stesso.

Gli studiosi del ‘500 (e del ‘600) si trovavano di fronte ad una potente struttura

scientifica (non matematizzata ma profondamente elaborata), fortemente

interdipendente, con tutti i pregi ed i difetti di una scienza che Kuhn definirebbe

2 Butterfield: Le origini della scienza moderna. 3 A. Carugo: La nuova scienza. Le origini della rivoluzione scientifica e dell’età moderna in Nuove questioni di storia moderna p. 3 4 citato in F.Enriques, G. de Santillana: Compendio di storia del pensiero scientifico; p. 336

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normalizzata. Metterne in discussione una parte significava trovarsi contro il tutto;

voleva dire scontrarsi con la cultura ufficiale. Solo più tardi, la forza del sistema

aristotelico si tramutò in debolezza: una volta crollato un pilastro, crollò, come un

castello di carte, tutto l’edificio. Uno ad uno saltarono tutti i paradigmi e ci si ritrovò,

non più nani sulle spalle di giganti, a fare i conti con un cosmo che non era più tale, con

un universo che aveva perso tutti i connotati sino ad allora familiari.

Prima di accettare l’idea di aver avuto dei Padri fallibili, l’uomo medioevale

dovette scontrarsi con le mille contraddizioni innescate da una realtà socio-economica

in rapida evoluzione.

E’ proprio dall’analisi delle cause che permisero questo terremoto colturale che

bisogna partire per poter comprendere la scienza di Benedetti e dei suoi contemporanei.

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CAP. 1 - L’ESIGENZA DI UNA NUOVA SCIENZA: BENEDETTI ED IL SUO

TEMPO

La rivoluzione scientifica dipese essenzialmente dal nuovo atteggiamento con il

quale l’uomo si pose di fronte alla natura. I mutamenti conseguenti non furono frutto di

nuove osservazioni: gli oggetti dell’indagine scientifica erano più o meno gli stessi dei

precedenti duemila anni.

Fu, quindi, il mutare della qualità delle indagini che permise l’enunciazione di

leggi quali quella d’inerzia, di gravità, del moto ellittico dei pianeti, ecc.

Se il primo a rendersi conto, compiutamente, della potenza conoscitiva del

nuovo metodo fu Galileo (e se, quindi, furono i secoli successivi al 1600 a beneficiare

dei benevoli influssi di tale innovazione), cionondimeno il ‘500 è da considerarsi come

il secolo che ha sancito definitivamente il crollo dell’indagine qualitativa aristotelica.

Ad onor del vero, già da diversi decenni piccole crepe si erano aperte nella

tradizione ma, queste, non scalfirono per nulla il prestigio dello stagirita. Bisognò

arrivare sino al millecinquecento per trovare dei pensatori in grado di valutare

oggettivamente l’operato scientifico di Aristotele. Ciò non fu dovuto al caso: il XVI

secolo rappresentò il punto di arrivo e di fusione di nuove istanze storiche, sociali,

economiche e culturali. L’aristotelismo scientifico non fu più capace di rispondere

soddisfacentemente alle domande poste dai nuovi ceti emergenti.

Elencare, rapidamente, queste situazioni, questi nuovi stimoli, ci permetterà di

capire il perché di determinati sviluppi scientifici o il mancato raggiungimento di certi

obbiettivi. In altre parole: il Rinascimento scientifico fu il frutto della maturazione di

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determinati eventi, alcuni dei quali ebbero radici molto profonde nel tempo. In questo

senso, si può parlare di una certa continuità tra Medio Evo e Rinascimento.

Primo segno della tensione ideale che legò queste due ere fu la crescente

necessità di progettazione e realizzazione di tecnologie legate ad un sempre più

rigoglioso sviluppo economico. Fu l’ascesa della borghesia a fare da volano.

Se la stabilità monetaria e lo sviluppo dei traffici mercantili indussero un

crescente interesse per gli studi aritmetici, lo sviluppo dell’artigianato e delle tecniche

agricole e protoindustriali comportarono l’approfondimento della geometria e della

meccanica classica.

Il rifiorire dell’interesse matematico si scontrò con una cultura ufficiale

dominata ancora da vezzi scolastici, legata ancora com’era ai ceti (leggi: esigenze)

feudali ed ecclesiastici; scarsi furono i loro interessi verso il nuovo; anzi, ogni critica

all’ordine stabilito fu spesso sentita come una minaccia al prestigio istituzionale.

Di conseguenza, si cominciò a sviluppare una seconda cultura, emarginata dalle

Università ma comunque sempre più frequentata da quei giovani destinati a prendere in

mano le redini delle società mercantili paterne e che, quindi, dovevano fare i conti con

quei problemi pratici che ne derivavano.

In tutta Europa, ma soprattutto in Italia, questa seconda cultura si manifestò col

sorgere di due scuole, non sempre distinguibili l’una dall’altra: quella degli ingegneri e

quella degli abachisti.

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1.1 Gli ingegneri ed il Rinascimento

Per Bertrand Gille (del quale il titolo di questo capitolo plagia, clamorosamente,

quello di una sua opera) l’incontro tra scienza e tecnica si ebbe agli inizi del ‘400.

Poche le fonti greco-latine dalle quali i Nostri potevano attingere: Erone,

Vitruvio, Vegezio, Frontino offrivano, comunque, spunti di riflessione circa la trazione

dei corpi pesanti, le condutture idriche, le macchine belliche e poc’altro. Il XIII ed il

XIV secolo non videro un grosso incremento di questo patrimonio conoscitivo.

E’ verso la fine del ‘400 che si ebbe una nuova, forte spinta: altiforni, telai,

orologi, aprirono nuovi campi di indagine, anche filosofica. Un esempio: è sempre

medioevale l’invenzione del sistema biella-manovella (cioè il tornio a pedale, cioè la

possibilità di modificale il moto rettilineo alternato in circolare o viceversa). Significò

porre le basi per quell’abito mentale che permise di trattare i due moti quali uguali, a

dispetto della divisione aristotelica tra moti circolari (celesti) e rettilinei (sublunari).

Non deve sfuggire l’importanza di questo fatto, perché esso ebbe conseguenze

non solo filosofiche, poiché questo pose le basi per una corretta analisi dei moti e,

quindi, per la futura Dinamica rinascimentale.

Vi è un altro particolare che, per così dire, spianò la strada ai nostri ingegneri (ed

abachisti): essi, non solo non entrarono a far parte del corpo accademico tradizionale,

ma furono, pure, di estrazione e formazione estranea a quella stessa cultura. Di

conseguenza, questi uomini senza lettere non furono plagiati dalle problematiche

scolastiche e, postisi di fronte alla natura, formularono domande e diedero risposte

indipendenti dalle necessità sistematiche aristoteliche.

Giocando con immagini neorealiste, si potrebbe dire che la loro palestra di

scienza fu la strada, la vita quotidiana.

Anche Benedetti fu uno scugnizzo, anzi, fu uno scugnizzo orgoglioso delle sue

origini autodidatte (Tartaglia permettendo). E non si può dire che fosse in cattiva

compagnia: Francesco di Giorgio Martini, Mariano Jacopo, Leonardo, Tartaglia stesso,

solo per citare i più famosi, furono i suoi compagni di gioco. Più in generale, ci si

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potrebbe rifare a tutti quei ragazzi di bottega che fecero grande il Rinascimento

pittorico italiano, le origini dei quali erano, al massimo, detto in termini moderni,

piccolo borghesi. Per inciso: il movimento artistico italiano fu importantissimo per la

nuova scienza: lo studio della prospettiva implicò notevoli approfondimenti geometrici,

per non parlare, poi, dei rilevanti studi anatomici.

Ma torniamo ai nostri ingegneri. Il legame tra il versante tecnico e quello

scientifico era comunque ancora molto debole. Importante, però, è che si iniziarono a

cercare non più solo spiegazioni valide ma soluzioni generali: “ricordiamoci che il

problema non era dire che Aristotele sbagliava, ma sostituire a lui qualcosa di più

valido5”.

Fu Leonardo uno dei primi ad imboccare questa strada.

Ultimamente, si sta ridimensionando non poco il valore del Leonardo-ingegnere:

eccezion fatta per l’idraulica, il grande italiano pare non eccellesse nelle scienze, tanto

che Bertrand Gille in Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento sembra preferirgli

Francesco di Giorgio Martina, suo predecessore. Comunque, pur se in modo incompleto

e pur se frustrati da un linguaggio molto oscuro, si notano in Leonardo interesse per le

misurazioni, il cercare riscontro, nella natura, delle proprie formule, il credere l’uomo

capace di conoscenza. Non è cosa da poco, in un mondo dove l’idea agostiniana di una

natura sacramentale (quindi solo da contemplare, quale opera divina) era ancora

radicata.

Il de Ponderibus sotto il braccio, Euclide ed Archimede come modelli, i nostri

ingegneri cercarono lentamente di invertire quella tendenza per la quale “la tecnica

interveniva.. solo come le parabole del Vangelo, per confutare o convalidare

proposizioni costruite per tutt’altra via.. Questa congiunzione dei due metodi di pensiero

[tecnico e scientifico] costituì forse uno dei momenti determinanti dell’evoluzione

scientifica .. [coscienti che] nessuno dei due metodi, da solo, avrebbe potuto pervenire a

tali risultati6”.

5 A. Rupert Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800. 6 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 255

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Non tutti gli storici della scienza la pensano così: Duhem, negando una tale

relazione, afferma, addirittura, che è contro l’esperienza degli artificieri che si sono

spezzati gli sforzi di Leonardo, Tartaglia, Benedetti.

A queste affermazioni ben risponde Gille: dopo aver ammesso che l’esperimento

(in senso moderno) è diretto, provocato, mentre la prima esperienza tecnica è subita, è

frutto del senso comune (e che quindi è legittimo parlare della loro diversità), Gille

afferma che “l’esperienza tecnica, verso la metà del ‘400.. ha pianificato i suoi

problemi, distinte alcune componenti, fatta una prima scelta fra le nozioni, per non dire

concetti, che la pratica quotidiana offriva” e che, comunque, “è in ogni caso curioso

constatare che i problemi dei tecnici e degli scienziati presenteranno un’esatta

coincidenza7”.

E’ sempre Gille a parlare di scienza attratta dalla realtà e di tecnica preoccupata

di darsi spiegazioni più valide e più generali, ed offre due prove dei comuni interessi:

l’identico ideale, rappresentato da Archimede e dalla sua scienza da tecnico, ed il

comune interesse per la matematica.

Prima di iniziare ad indagare quest’ultimo aspetto, alcune ultime considerazioni:

“quando si parla di tappe fondamentali nella strada della scienza moderna, si danno solo

nomi di ingegneri (Leonardo, Benedetti, Galileo, Stevino)8”: “affermare che Benedetti

si avvicinò alla verità non perché artigliere ma perché conosceva Archimede, equivalse

a negare l’accordo che si verificò, in quel preciso momento storico, tra i due ordini di

pensiero9”. E’ da sottolineare che quando un Gille o un Koyrè parlano di accordo tra

tecnica e scienza, non pensano alla scienza ufficiale.

1.2 L’abachismo, ovvero la matematica pret-a-porter

I Teatri di machine non rappresentarono il solo genere letterario-scientifico di

moda agli inizi del ‘500. Essi furono validamente spalleggiati (e non poteva essere

7 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 257 8 Ibidem. p. 271 9 Ibidem. p. 258

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altrimenti) dai manuali d’abaco, espressione cartacea di un vasto movimento culturale

che si protrasse per almeno quattro secoli. La sua nascita è, infatti, fatta risalire al Liber

Abbaci, di Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, redatto attorno al 120010 e sopravvisse

sino ai tempi di Tartaglia e Benedetti.

L’abachismo si sviluppò dietro alla necessità di chi, ingegnere, agrimensore,

mercante o militare, doveva risolvere nel modo più semplice possibile, e con la maggior

approssimazione possibile, i calcoli inerenti alla propria professione, senza avere alle

spalle una adeguata cultura matematica. Questa cultura underground possedeva una sua

lingua, il volgare, ed una sua scrittura, il mercantesco.

“La domanda era così grande che sorse una nuova professione, comprendente

matematici pratici, in possesso di una cultura media, capaci di applicare la geometria e

la trigonometria ai problemi connessi agli strumenti scientifici di misura. Molti di essi

tennero lezioni di matematica in lingua volgare.. e scrissero libri elementari, in

linguaggio piano, semplice e facile”11.

E’ da rimarcare il fatto che a questa arte non si rivolgessero solo i ceti inferiori: i

nobili veneziani, per esempio, stimolati dalla loro lunga tradizione mercantesca,

andavano a scuola d’abaco. L’abaco fu sviluppato ed insegnato anche da esponenti dello

strato dotto: possiamo ritrovare così, vicini, un Tartaglia che si guadagnava dieci scudi

il quesito, e che rischiava di saltare il pasto “se per le lezioni su Euclide invece del

prezzo pattuito gli davano un mantello logoro”12, e Luca Pacioli, che di questi problemi

certo non ne ebbe.

L’abachistica si sviluppò in Toscana nel XIII secolo, anche stimolata

dall’introduzione in Italia del sistema di numerazione indiano, e si propagò nell’Italia

settentrionale, soprattutto nel Veneto.

Nel ‘500, saper fare conti e misure si diceva haver buon abbaco, i numeri arabi

erano cifre abachistiche ed elencare, per punti, nomi ed oggetti era metter per via

10 ache se Marie Boas, nel suo Il Rinascimento scientifico; 1450-1630 afferma che, in realtà, quel testo rese inutile l’abaco. 11 B.Gille: Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento. p. 168 12 E.Zilsel Le origini del metodo scientifico di Gilbert. In Le radici del pensiero scientifico a cura di Ph.P. Wiener, A. Noland. p. 272

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d’abaco13. La nostra fu una scuola di avviamento professionale e, intesa in questo

senso, come mezzo di promozione sociale ed economica, contribuì certamente allo

sviluppo dell’alfabetizzazione.

Lo scopo principale della scuola, la soluzione di problemi pratici, rappresentò

anche il suo limite principale: l’apprendimento mnemonico di talune operazioni non

aiutò di certo una sistematizzazione teorica o “una generalizzazione che si spingesse al

di là delle singole regole”14. Ciononostante riuscì a coagulare un’area di sapere, le

discipline mathematiche15, concepita come un’area di sapere autonoma, all’interno della

quale, come disse il Tartaglia, esse per se medesime si verificano e si approvano, et non

per auttorità .. come fanno altre scientie, ma per demonstratione.

All’interno di questa area si iniziò a distinguere tra una parte theorica, cioè

speculativa, ed una prattica, cioè attiva. La prima attingeva alla forma euclidea

deduttivo-dimostrativa. La seconda era la vera e propria abachistica. Tra i due aspetti di

questo sapere vi fu un profondo interscambio, a dimostrazione della tranquillità con la

quale si accostava il teorico al pratico.

E. Gamba e V. Montanelli definiscono questa seconda matematica induttiva,

perché parte dal caso singolo: è il gusto per il problema, del cercare regole valevoli

all’interno di una certa casistica, senza tentare generalizzazioni logiche di quanto

trovato. “La matematica abachistica prova, non dimostra.. fa vedere che funziona.. non

che il risultato è giusto nel senso logico del termine”16.

Il far vedere che funziona significò lavorare a stretto contatto con la natura e, di

conseguenza, con gli strumenti di misurazione, dei quali si notò l’imprecisione.

E’ del ‘500 la presa di coscienza circa la limitatezza dell’abachistica. Essa ha

ormai fatto il suo tempo: ha stimolato un dibattito che altrimenti non sarebbe forse

cresciuto; ha educato studiosi che hanno sentito la necessità di tradurre classici

13 E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica tra recupero della tradizione e rinnovamento scientifico. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500. Atti del Convegno internazionale di studio Giovan battista Benedetti e il suo tempo. p. 174 14 Ibidem. p. 176 15 Aritmetica, geometria, musica, astronomia, ottica, astrologia, cosmografia, geografia, corografia, perspettiva, specularia, la scienza dei pesi, l’archiettura, ma anche piromanzia, hydromanzia, negromanzia, geomanzia, horospizio, aruspizio, augurio, auspicio, ecc. 16 E.Gamba, V.Montebelli La matematica abachistica.. cit. p. 185

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fondamentali, anche in volgare; ha proposto ai dotti di quattro secoli la figura di

Archimede come punto di intersezione tra le speculazioni di Euclide ed il mondo fisico.

Ora, però, è maturata una seconda fase: quella delle conclusioni universali che superino

i singoli problemi, perché, posseduta la teoria, è conseguente saper risolvere il caso

particolare.

Benedetti è portavoce di questo atteggiamento. Con lui, con Rafael Bombelli, ed

altri, l’abachistica cessa di esistere. Le generazioni future riceveranno da essa una

stimolante eredità. E’ Besson, dotto matematico che scrive: “la contemplazione delle

proporzioni dei numeri, dei punti e delle misure delle cose artificiali è inutile se non è

collegata all’azione; ne consegue che la meccanica è il frutto della geometria, e di

conseguenza ne è il fine”.

Il XVI secolo vide nella costruzione delle macchine un’arte matematica, e di ciò

ne ebbe merito l’abachista. “La scienza soggiacente a quest’arte era la meccanica,

ovvero la fisica matematica: da un lato, lo studio delle leggi delle macchine… dall’altro,

lo studio delle leggi dei corpi, su cui queste macchine si fondavano, ossia lo studio della

Statica e della Dinamica”17

1.3 L’informazione scientifica

Nel capitolo precedente abbiamo parlato di diversi tipi di cultura: tecnica,

scientifica, abachistica, dotta, conservatrice, rinnovatrice, aristotelica, medioevale,

ufficiale, ecc..

Ci rendiamo conto che così facendo si corrono due grossi pericoli: quello di

schematizzare troppo, con la conseguente perdita di tutte quelle sfumature che legano le

varie posizioni, e quello, opposto, di vedere un unico colore là dove, invece, ve ne sono

diversi, anche se in movimento.

Per evitare ciò, sono necessarie alcune precisazioni. La prima, fondamentale: il

movimento dei tecnici e degli abachisti stimolò la nuova scienza, ma non fu la nuova

17 M. Boas, Il Rinascimento scientifico; 1450-1630. p.178

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scienza. Quest’ultima, per essere scienza, dovette basarsi su generalizzazioni, su di un

metodo che alienasse il singolo caso concreto per aprirsi al puro spazio euclideo.

Si è dovuto, sì, partire dalla dura pietra, dal covone di fieno e dalla catasta di

legna, ma solo superando queste cose, solo usando la linea senza spessore o la bilancia

con i bracci senza peso, si poté trarre regole generali, cioè far scienza.

Questo non lo poterono fare gli artigiani superiori: ci vollero delle persone che,

pur pressate dalle esigenze dei tecnici, riuscissero a svincolarsi dalla materialità per

indagare gli aspetti matematici e geometrici di tali questioni.

Neppure lo poterono fare gli scienziati legati alla tradizione scolastica, visto che

la loro ricerca fu basata essenzialmente sull’indagine qualitativa e sulla ricerca delle

finalità di un fenomeno.

Per arrivare alla nuova scienza si dovette creare quel movimento del quale

Benedetti fu elemento di spicco; dapprima furono pochi pensatori eretici, non collegati

tra loro, poi, soprattutto nel 1500, essi diventarono movimento organico, sino a divenire,

nel tardo ‘600, cultura egemone.

Fondamentale per questa ascesa fu la volontà e la capacità dei Nostri di

aggregarsi, di vedere quindi nello scambio di informazioni un fattore determinante per

lo sviluppo della scienza. Ciò fu reso possibile da due eventi: l’invenzione della stampa

e la riproposizione, prima solo estemporanea, poi più sistematica, di cenacoli ambiziosi

di riproporre l’antica Accademia.

Superfluo spendere parole per sottolineare l’importanza che ebbe l’invenzione

della stampa, per lo sviluppo della scienza. Basti ricordare che l’Italia, e Venezia in

particolare, si distinsero per il numero di testi editi, e che questi compresero, oltre che la

traduzioni di classici, anche quei manuali che stimolarono ulteriormente il dibattito e le

richieste dei tecnici. Il dibattito culturale uscì dal chiuso della cella del monaco o anche

dallo studio dell’umanista per offrire anche la possibilità di frantumare lo storico

Quadrilatero della sapienza: Edimburgo, Cracovia, Napoli, Salamanca18.

18 A. R. Hall: La Rivoluzione scientifica. 1500-1800.

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Libri per tutte le esigenze e di tutte le misure. Piccoli dettagli che si rivelarono

determinanti: disegni sempre più accurati e piccoli volumi facilmente maneggiabili, non

fecero altro che stimolare la richiesta. Certo, gli editori non vollero rischiare: prima

pubblicarono le grandi traduzioni o i piccoli manuali di sicuro mercato. Si può

affermare che, sino al XVI secolo, si ristampò materiale già familiare nel ‘300.

E’ del 1500 lo sviluppo del mercato della trattatistica. Furono pubblicati

moltissimi manuali, tanto da far dire che iniziò, con essi, quel movimento che culminò

con l’Enciclopedia di Diderot.

Altrettanto importante fu il formarsi delle Accademie.

Queste fiorirono, spontaneamente, al di fuori delle Università, divenute ormai

“luogo dell’acquisto ripetuto, dell’apprendimento mnemonico, della ruminazione

classificante”, al punto che “lo stesso Galilei, come docente, è piuttosto smorto: la

vivacità e l’inventiva la riserba alle lezioni private”19.

E’ un modo come un altro per dialogare piacevolmente, per confrontare le

proprie idee, per non sopprimere le diversità filosofiche o scientifiche. Anche i testi

scritti assumono la forma di dialogo.

Non è solo platonismo. Certo, il neoplatonismo degli umanisti può aver influito

sulla nuova moda, ma è principalmente la nascita di una nuova forma mentis, è la

condanna della sterilità della cultura ufficiale, incapace di stare al passo delle nuove

esigenze socio-economiche, che sono da rimarcare.

Questo, almeno, fino a che il potere tollerò il dissenso. Poi, lentamente,

l’istituzionalizzazione: prima delle sedi, poi degli statuti, dell’oggetto dei dibattiti, e

così via.

Intendiamoci: il dibattito scientifico restò ai margini del confronto accademico

anche nel suo periodo aureo. Pochi furono i cenacoli scientifici propriamente detti e, tra

questi, pochi andarono al di là di pure dichiarazioni d’intenti. Non dimentichiamoci,

inoltre, che non tutti gli uomini di scienza parteciparono a queste discussioni.

19 G. Benzoni: L’Accademia: un luogo deputato per la cultura. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 31

Page 17: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Questo fu proprio il caso del nostro Benedetti, il quale visse, pare, al di fuori di

questi àmbiti intellettuali, anche se, a ben vedere, il modo ed il luogo in cui nacque la

sua polemica con il Berga possono far pensare che, originale anche in questo, il Nostro,

più che essere membro di una Accademia, facesse accademia dove e quando ne avesse

voglia.

1.4 Miscellanea

E’ ovvio che le motivazioni sino ad ora addotte non rappresentano che la punta

dell’iceberg delle motivazioni tecnico-economiche, sociali e culturali che portarono a

Benedetti e, dopo di lui, a Galileo ed alla nuova scienza. Elencare tutti questi stimoli

sarebbe compito improbo e, soprattutto, esulerebbe dall’oggetto di questa tesi.

Senza partire dall’importanza delle nuove bardature dei cavalli, che consentirono

il surplus agricolo dei primi secoli del nuovo millennio (e del derivante, indiretto

sviluppo, dell’artigianato) o dalla formazione degli Stati cristiani nell’Europa nord-

orientale (che impedirono ulteriori invasioni barbariche), diamo un rapido sguardo a

cosa lasciamo indietro.

Paradossalmente, una notevole spinta alla formazione di una mentalità

scientifica venne dalla magia. Questa, penetrata in occidente insieme alla diffusione dei

culti orientali nella Roma imperiale, ebbe, com’è noto, notevole sviluppo nel Medio

Evo.

Molte delle discipline matematiche allora in auge (quelle che agli occhi di un

moderno possono essere tranquillamente traslate nel regno della parascienza) hanno

contribuito allo sviluppo della matematica propriamente detta. Rischiando la pedanteria,

ricordiamo anche che senza gli alchimisti non si sarebbe, forse, arrivati alla chimica.

Valga, per tutti gli esempi proponibili, una considerazione generale di ordine

metodologico: la magia, con la sua idea di ricerca di formule (mezzi) per il dominio

della natura, contribuì alla creazione di quell’abito mentale per il quale l’uomo non era

più l’Adamo precipitato sulla Terra ad espiare la sua colpa, ma il Prometeo, simbolo di

Page 18: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

scaltro dominio di esseri perfettibili su di una realtà conoscibile (anche se a costo di

grandi sacrifici).

Come i matematici del ‘500-‘600 furono tutti un po’astrologi, gli scienziati del

‘300-‘400, ed oltre, furono tutti un po’ maghi. A distinguere la speculazione dalla

cialtroneria contribuì anche la distinzione sempre più marcata tra magia naturale e

magia pura.

La fortuna degli scritti arabi di al-Kindi, o dell’allora famosissimo Secretum

secretorum, favorì lo sviluppo “di un tipo di scienza che identificò la ricerca delle cause

occulte con l’experentia naturalis e, anzi, i concetti di esperimento e di operazione

magica assunsero poi lo stesso significato”20

Abbiamo parlato di alchimia e chimica. Come non pensare alla polvere da sparo

ed agli effetti dirompenti (è proprio il caso di dirlo) che provocò nella società e nella

cultura medioevale? Direttamente o no indusse sviluppi in chimica (ricerca di polveri

migliori), in medicina (nuove cure per nuove ferite), in architettura (rendendo

inadeguate le vecchie fortezze), in fisica ed aritmetica (balistica), in filosofia contribuì

al crollo della fisica aristotelica e, quindi, dell’aristotelismo in genere).

Secondo Adriano Carugo21 è invece relativamente minore l’influsso della

bussola, dei viaggi transoceanici e delle esplorazioni, sulla mentalità dell’epoca: questi

ebbero, sì, un potente effetto sull’allargamento dell’orizzonte mentale degli europei, ma

il suo influsso si riversò più sull’Illuminismo che sul Rinascimento.

Oltremodo rimarchevole è quella sorta di mecenatismo dei vari Capi di Stato e di

Governo che si creò nel 1500 (del quale Giovan Battista Benedetti usufruì). Questo

contribuì alla creazione della figura di scienziato ufficiale, con conseguente

rivalutazione ed ascesa sociale della categoria (lontani i tempi fiorentini nei quali gli

architetti facevano parte della corporazione dei muratori e dei carpentieri!). Legando il

dotto alla pubblica amministrazione, il mecenate pretese una ricaduta tecnica degli studi

del protetto, con conseguente obbligo dello scienziato alla verifica pratica delle sue

deduzioni.

20 C. Vasoli, Scienza e tecnica nell’occidente cristiano. In Nuove questioni di storia Medioevale. p. 558 21 A. Carugo, La nuova scienza.. cit.

Page 19: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Personalmente, credo che siano le condizioni materiali ad indurre mutamenti del

pensiero. Questa mia convinzione non esclude, però, la possibilità di un effetto

boomerang, di una ricaduta produttiva, frutto di determinate concezioni culturali.

Questo può essere il caso della Riforma e della Controriforma.

Senza dimenticare Calvino e la sua condanna delle tesi copernicane, non è da

sottovalutare il rifiuto dell’autorità, implicito nel Protestantesimo, oltre alla sua

rivalutazione del lavoro manuale, quindi della tecnica, dell’osservazione scientifica e

della scienza in genere.

Decisamente più difficile è trovare un nesso che unisca lo spirito conservatore

della Controriforma e lo sviluppo della scienza. Il processo a Galileo è tanto pressante

da inibire giudizi positivi sull’operato scientifico del Collegio romano dei Padri Gesuiti

(anche se basterebbe citare, ad esempio, il nome di Clavio, per incrinare una tale

valutazione) ed, in ogni caso, Bellarmino segue cronologicamente Benedetti.

Un triste collegamento si può comunque proporre: la persecuzione di certi

filosofi quattrocenteschi ed il rogo di Giordano Bruno possono benissimo aver

contribuito alla teoria della Doppia verità, od alla separazione della speculazione

scientifica da quella teologico-filosofica, fatto da tutti considerato quale elemento

imprescindibile della rivoluzione scientifica.

Dei contributi più prettamente filosofici tratteremo, comunque, nel prossimo

capitolo.

Page 20: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

CAP. 2 - FILOSOFIA E METODO

Demonstratio proportionum motum localium contro Aristotelem et omnes

philosophos: questo il titolo di un’opera di Benedetti.

Quale fu il significato di questo titolo? Condanna dell’aristotelismo? E in nome

di cosa? Del neoplatonismo? O fu un attacco a tutti i sistemi filosofici (omnes

philosophos) a favore, forse, della fede in una razionalità superiore?

Tralasciamo, per il momento, questa seconda eventualità: di essa, semmai,

discuteremo alla fine di questo piccolo excursus.

Concentriamo l’attenzione sulla prima domanda, per constatare, d’acchito, che,

in armonia con il titolo sopra riportato, gli scritti di Benedetti, di Galileo e di altri

scienziati a loro contemporanei, han fatto sì che molti epistemologi parlassero di influssi

umanistici e neoplatonici, determinanti per il buon esito della rivoluzione scientifica.

A prima vista tutto ciò non può che sembrare logico: siamo in presenza di un

sistema di pensiero totalizzante, che copre tutto lo scibile dell’epoca. Chi non è

d’accordo corre il rischio di essere deriso (e poco più tardi gli succederà di peggio); è

mosca bianca circondata non da tanti bravi scienziati che la pensano, purtroppo, in

modo diverso, ma da commentatori, talvolta mediocri, di una lontana autorità. Ovvio

che per dar forza alle proprie posizioni uno si richiami, coscientemente o meno, ad

un’altra autorità, magari di pari grado alla precedente.

Ma accadde proprio questo?

Constatando, insieme al Crombie che comunque “Aristotele è una sorta di eroe

tragico che campeggiò sulla scena del Medio Evo eccitando le passioni e dividendo gli

animi” 22, cerchiamo di analizzare i fermenti filosofici che formarono il substrato

culturale del Benedetti.

22 A. Crombie, Dal razionalismo allo sperimentalismo. In Le radici del pensiero scientifico.. cit. p.138

Page 21: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

2.1 ….ismo

“Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi

sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi

e gli aristotelismi”23. Già questa affermazione mostra quanto sia complicata la vita di un

cultore della filosofia medioevale. Se ad essa aggiungiamo la constatazione che “la

dialettica platonismo-aristotelismo si svolge in una unità di concorrenza culturale che le

contrapposizioni dei singoli platonici o aristotelici non valgono a superare.. perché

ciascun platonico post-aristotelico è aristotelico, come ciascun aristotelico non può non

essere platonico”24, si rischia di cadere nel più profondo sconforto.

Una certa inclinazione al sorriso può tornare ad allietare i nostri studi, al

pensiero di quante orecchie Aristotele avrebbe tirato a chi, rifacendosi al suo nome,

andava cercando patenti di autorevolezza, disattendendo, però, il suo fondamentale

dettame, riassunto nel motto amicus Plato sed magis amica veritas.

Diamo quindi ad Aristotele ciò che è suo e non incolpiamolo dei mancati

sviluppi della sua teoria.

Questo non significa, però, che esse siano esenti da pecche, anzi. Senza entrare

nel dettaglio (questo sarà il compito del capitolo dedicato agli sviluppi della fisica

benedettina), basti ricordare la netta distinzione tra fisica, la quale, per lo stagirita, deve

indagare gli oggetti reali, e matematica, che deve ragionare su astrazioni: questi studi,

per Aristotele, non si potevano confondere e neppure compenetrare. Di fatto, significò

impedire la quantificazione dei fenomeni e la loro conseguente matematizzazione

(almeno per ciò che concerne la fisica sub-lunare).

Indubbiamente, Benedetti dovette abbandonare certi presupposti (fondamentali)

del pensiero aristotelico; ma in nome di cosa lo fece?

Molti studiosi, lo abbiamo già detto, ritengono fondamentale l’influsso

dell’umanesimo neoplatonico, rigoglioso, per esempio, nella Firenze del ‘500.

23 F. Adorno. La filosofia antica. p.287 24 E. Riondato. Giovan Battista Benedetti tra scienza e filosofia. Alcune indicazioni metodologiche condivise con Aristotele. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze – Liceo scientifico G.B. Benedetti Venezia – Celebrazioni del 60° anniversario della fondazione, 1923-1983.

Page 22: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Soprattutto reputano platonica la nuova tendenza alla matematizzazione dei fenomeni

fisici.

A questo proposito, è molto interessante la posizione di E. Berti, secondo la

quale si è sempre sottovalutato, da parte dei moderni epistemologi, la posizione di

Aristotele riguardo alla fisica celeste, “forse perché è la meno originale, visto che, tutto

sommato, lo stagirita riprende le posizioni di Platone, che poi erano quelle dei

pitagorici”25. Per il Berti, in Aristotele è già presente l’esigenza di una forte

matematizzazione della fisica, anche se essa è confinata nell’etereo mondo sovralunare.

Afferma, quindi, che la fisica celeste dell’antichità fu una fisica matematica.

Poco importa se questa esigenza di matematizzazione sia davvero presente in

Aristotele o lo sia tra gli allievi della sua scuola; quello che qui ha significato è che

Copernico, Benedetti, Galileo e Keplero dovettero fare i conti con una fisica celeste

quantificata26. Non si trattava, allora, di matematizzare ex-novo la fisica, “ma di portare

il cielo in terra”27.

A questo proposito, si può parlare, più propriamente, di influsso neoplatonico,

facendo però molta attenzione: il suo fu più che altro un influsso negativo. Esso ebbe

funzione di demolitore di certezze. La sua ricaduta scientifica può essere paragonata a

quella provocata dal movimento ockamista28. Senza disconoscere l’avvallo neoplatonico

ad una concezione unitaria del mondo, riteniamo che andare oltre non sia, forse, lecito.

G. Santaniello afferma che questo mondo è, per i neoplatonici, costruito sul

modello dell’armonia musicale, dominato, cioè, dalle relazioni matematiche29. Niente

da obiettare, se questa è una presa d’atto. Diversamente, se si volesse nuovamente

riproporre il legame matematizzazione della fisica – pitagorismo e platonismo, dovremo

constatare l’opposizione, in merito, di molti studiosi.

25 E. Berti. La concezione del moto nella tradizione aristotelica. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze. Cit. 26 In verità, che questa quantificazione fosse imprecisa, lo si sapeva da tempo, viste le macroscopiche differenze tra realtà e calendario. Ciò non toglie che neppure le tavole prodotte dopo Copernico migliorassero di molto la situazione; si dovette attendere Keplero e le sue orbite ellittiche, le quali, non per nulla, rappresentarono l’ultimo colpo di piccone alla metafisica aristotelica. 27 E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 47 28 “Ockam può aver incoraggiato la tendenza ad immaginare tutti i modi possibili, senza riguardo alla realtà fisica o alla sua applicazione” in E. Grant. La scienza nel Medio Evo. p. 47 29 G. Santaniello. Il pensiero platonizzante a Venezia e a Padova nel ‘500. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500.. Cit. p. 145

Page 23: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

La matematica neoplatonica è una matematica mistica: non quantificazione ma

simbolismo. E’ della rigorosa matematica di Euclide che Tartaglia e Benedetti hanno

bisogno.

“I platonici italiani non nutrivano alcun genuino interesse scientifico verso la

matematica intesa come scienza e le loro concezioni dei numeri erano frutto di confuse

credenze teologiche, se non addirittura teofisiche”30.

Se poi al neoplatonismo aggiungiamo l’umanesimo (suo principale vettore) le

obiezioni si fanno ancora più numerose. E’ vero, sì, che l’umanesimo con la sua

massiccia opera filologica ha restituito all’occidente le opere dei classici (depurate di

almeno tre traduzioni), che ha fatto conoscere, rivelandone l’esistenza, il pensiero di

filosofi polemici con Aristotele e che, infine, ha scosso determinate auctoritates, ma è

anche vero che a quelle auctoritates ne ha sostituite delle altre (più antiche, ugualmente

totalizzanti), tanto che “gli storici della scienza nutrono gravi riserve circa l’effettiva

azione rinnovatrice esplicata dall’umanesimo rinascimentale nel campo della cultura

scientifica31.

Ancora più drastici i giudizi di altri studiosi, quali Randall Jr., per il quale

“l’umanesimo, paragonato alla retorica, assale e scuote la fede, ma nulla più”32; e

ancora: “il platonismo ebbe come unico influsso sul pensiero scientifico quello di

sviarlo e di imporgli concetti degni di critiche drastiche”33. Rincara la dose

Dijkstrerhuis: “il neoplatonismo creò tutte le condizioni psicologiche per l’abbandono, e

persino disprezzo, dello studio empirico della natura”34, viste le propensioni di questa

corrente del pensiero per una identificazione tra materia e privazione, oltre che per la

sua facilità a subire il fascino dell’occulto.

Di nostro vogliamo aggiungere che parlare di platonismo voleva anche dire

parlare di Sant’Agostino, della sua condanna delle scienze e, in generale e senza voler

scomodare Popper, della sua concezione di errore come morte dell’anima. Ricordiamo

30 A. Carugo, La nuova scienza.. Cit. p. 22 31 Ibidem. 32 J.H. Randall Jr. Il metodi scientifico allo Studio di Padova. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. 33 J.H. Randall Jr. Il ruolo di Leonardo da Vinci nella nascita della scienza moderna. In Le radici del pensiero scientifico Cit. p. 223 34 E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai presocratici a Newton.

Page 24: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

che il santo di Tagaste possedeva una visione esclusivamente religiosa del cosmo, con

la inevitabile conseguenza dell’assimilazione della sua fisica da parte della teologia. Per

Agostino il libro della natura è il libro dei simboli: la natura degli oggetti non è nella

loro concretezza fisica ma nell’essere, appunto, simbolo di una realtà trascendente. “La

natura, perduto il suo oggetto, diviene vana curiosità, da cui l’uomo studioso e religioso

deve guardarsi”35.

Non vogliamo certo sminuire il ruolo che certo giocò la matematica nella

filosofia di Platone: il grande filosofo ateniese subì profondamente il fascino della

matematica (probabilmente successivamente ad un incontro con il pitagorico Archita) e,

nello stesso tempo, incoraggiò il suo studio. Neppure scordiamo che per Platone la

matematica è argano al vero, in quanto conduce alla contemplazione delle idee, e che,

nel celeberrimo mito della caverna, è sempre la matematica che scioglie i lacci dei

prigionieri del regno delle ombre e che, quindi, permette loro di presentarsi dinanzi alla

accecante luce della verità.

Tutto questo è senz’altro ben presente. Quel che vogliono far notare i

denigratori della teoria secondo la quale fu il platonismo la vera molla del Rinascimento

scientifico è che la matematica di Platone è diversa dalla matematica del platonismo e

che, comunque, Platone si appellò sempre ad una matematica scevra da applicazioni

pratiche. Una matematica euclidea, quindi, utilissima per elaborare aritmeticamente e

geometricamente delle teorie fisiche quantificate, ma questo solo dopo che si fosse

riconosciuta l’esigenza di misurare la natura, di sporcare con aria, terra, acqua e fuoco il

regno della dianoia.

Se proprio vogliamo trovare un modello di riferimento per gli scienziati del

‘500, bisogna volgere lo sguardo altrove, e, per l’esattezza, verso la figura di

Archimede. Con lui, “dall’assoluta teoreticità della trattazione euclidea si passa al gusto

delle applicazioni: la geometria si rivolge anche alle regole di misura e non vengono

disdegnate le applicazioni numeriche; la matematica trova poi la sua naturale estensione

nella meccanica dei solidi e dei fluidi”36.

35 T. Gregory. L’idea di natura nella filosofia medioevale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. In Interpretazioni del Medio Evo. 36 A. Frajese. Attraverso la storia della matematica. p. 282

Page 25: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

E’ a lui, alla sua Statica, che si rifanno i nostri validi studiosi, Galileo compreso.

E’ a lui che si rivolge Tartaglia, la cui devozione al siracusano è dimostrata dalla sua

traduzione del primo volume dell’opera Della sfera e del cilindro.

Archiemede ha il pregio di coniugare, nelle proprie ricerche, amore per

l’applicazione pratica, il metodo spregiudicato (di esaustione) e, contemporaneamente,

una purezza matematica che gli permise di rinforzare nei posteri “quell’abito mentale di

vedere i corpi come figure perfette che si librano nel vuoto spazio euclideo”37.

Per avere una misura di quanto fosse popolare Archimede nel ‘500, basti

ricordare che Cardano, divertendosi a classificare i grandi uomini in ordine di

superiorità, collocò il siracusano al primo posto, davanti, quindi, ad Aristotele.

La centralità del problema del moto per lo sviluppo della fisica e della scienza

rinascimentale e la revisione dei concetti aristotelici di causalità e di vuoto possono,

infine, far emergere la figura di Democrito e della scuola atomistica greca, foriera di un

quantitativismo meccanico, non misticheggiante, nonché di un invito alla paziente

ricerca della conoscenza del mondo per mezzo dell’osservazione della natura.

Questa tradizione è reinterpretata e conosciuta nel Medio Evo per mezzo

dell’opera dell’epicureo Lucrezio, il quale affermò che la stessa azione virtuosa consiste

nel saper comprendere la natura: cercare, cioè, la propria armonia, la propria sintonia

nella natura.

Anche senza tener conto dei vari sincretismi tentati, il quadro storico-filosofico

che ci si presenta è di non facile interpretazione: risulta indubbiamente complesso

analizzare esaustivamente gli sviluppi filosofici che portarono allo sgretolamento

dell’aristotelismo scientifico.

Pare che non resti altro che l’addentrarci nella tana del lupo, nella speranza di

cogliere qualche spiraglio di luce. Questo cambio di prospettiva ci conferma, purtroppo,

che il voler fare i conti in tasca all’oste non è mai compito agevole: più di una sono le

correnti rifacentesi all’autorità di Aristotele e, quasi tutte, subiscono deviazioni

sincretistiche.

37 H. Butterfield. Le origini della scienza moderna.

Page 26: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

In ogni caso, ci sorregge la sicurezza di Poppi, per il quale “solo a Padova e a

Venezia esistevano le condizioni ottimali per quello straordinario evento che fu la

nascita della scienza galileiana”38.

L’orientamento spiccatamente logico e fisico, l’avversione alle suggestioni

magico-cabalistiche ed alle impostazioni teologiche del sapere, favorirono

indubbiamente lo sviluppo del moderno approccio alle tematiche scientifiche. Di questa

atmosfera innovativa, il Benedetti, pur non frequentando lo Studio di Padova, si

avvalse.

Se Padova e Bologna restarono le roccaforti aristoteliche d’Europa,

cionondimeno bisogna constatare, come prima accennato, che non si trattava di

costruzioni monolitiche. Tommaso, Averroè, Avicenna, Alessandro d’Afrodisia: tutti,

chi più, chi meno fedelmente, interpretarono Aristotele, piegandolo, talvolta, alle

proprie esigenze teoretiche.

L’averroismo penetrò a Padova con Pietro d’Abano, Marsilio, Paolo Veneto. Per

Trailo è già un averroismo diverso, sia da quello originale arabo, sia da quello parigino,

dal quale deriva39.

Sarà comunque con Pomponazzi e Zabarella che acquisterà quei caratteri di

cristianizzazione e di smetafisicizzazione di origine alessandrinista, i quali

permetteranno “di ritrovare l’Aristotele dello spirito scientifico, che sarà l’Aristotele

galileiano, della nuova scienza, da Galileo proposta in Padova averroista”40.

Al di là di ogni dubbio, per Trailo, l’aristotelismo, soprattutto nella sua forma

alessandrinista, maggiormente critica nei confronti del Maestro, è l’unico vero scossone

portato alle istituzioni scientifico-culturali del Medio Evo.

Questa affermazione sembra voler dire che, per il Trailo, l’alessandrinismo fu,

più che altro, una logica conseguenza dell’averroismo, cosa che, probabilmente, non fu.

38 A.Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento; introduzione al problema. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500…. Cit. 39 E. Trailo. Averroismo e aristotelismo “alessandrinista” padovano. In Lincei; rendiconti morali; 1954; serie VIII vol IX 40 Ibidem. p. 205

Page 27: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Se volontà di tutti e due i commentatori fu quella di rifiutare l’interpretazione

platonica dello stagirita, l’Aristotele che emerge dall’opera dello scolarca ha evidenziato

l’aspetto più marcatamente metodologico e naturalista.

In linea di massima, è il concetto-problema dell’anima che decide quale

posizione un filosofo assuma nell’ambito peripatetico.

Se, a prima vista, la controversia tra averroisti ed alessandrinisti sembra limitata

al problema della immortalità (concessa dai primi ad un impersonale intelletto agente,

negata, in toto, dai secondi), essa trovò i suoi maggiori punti di attrito nella diversa

concezione della conoscenza.

Fu Pietro Pomponazzi a ricondurre il problema sul terreno a lui proprio. Per lui,

l’anima non fu né sostanza spirituale (renderebbe inutili le funzioni vegetativa e

sensibile del corpo stesso) né intelletto unico separato degli averroisti (il quale non

faceva altro che annientare la singola personalità umana).

Seguendo Alessandro d’Afrodisia. Pomponazzi e, più tardi, Zabarella videro

nell’anima la capacità intellettiva del singolo, la funzione più alta e complessa del

corpo; riavvicinarono così la conoscenza anche se, per farlo, dovettero pagar salato:

conseguente alla loro teoria è la negazione dell’immortalità dell’anima.

Tutto soggiace alla legge del tempo: se prima fu l’averroismo, scavalcando il

tomismo, che diede nuovo impulso alla formazione di una mentalità scientifica, nel

nome del richiamo alle verità filosofiche indipendenti e addirittura più profonde delle

verità rivelate dai testi sacri, così l’averroismo e l’alessandrinismo stessi, non riuscendo

e non volendo andare oltre i limiti dettati da una custodia gelosa della tradizione

peripatetica, non furono capaci di cogliere gli elementi di novità delle filosofie

naturalistiche cinquecentesche.

“Mentre alcuni scolastici del XIV secolo avevano dimostrato la possibilità di un

universo infinito creato da Dio, ed avevano preparato la via a Cusano e Bruno, gli

averroisti del ‘400 e del ‘500 continuarono a sostenere che il mondo non si estendesse al

di là dell’ottava sfera”41.

41 B. Nardi. La fine dell’averroismo. In Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI. p. 70.

Page 28: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Sarà Cremonini, successore di Zabarella, a rifiutare di guardare dentro il

cannocchiale di Galileo. Triste epilogo per un movimento che offrì grandi momenti di

trasgressione. Fu, infatti, il Pomponazzi a dire “se la verità della ragione sta nell’eresia,

bisogna andare all’eresia”, legando così il destino del filosofo a quello di Prometeo.

Abbiamo prima parlato di filosofie naturalistiche: esse fiorirono nel ‘500, in

aperto contrasto con la filosofia peripatetica.

La coincidenza tra macro e microcosmo ed il nuovo concetto di alchimia di

Paracelso42, la materia positiva e le indagini empiriche di Cardano, il sensismo e

l’avversione al finalismo aristotelico del Telesio, il sapere tecnico-pratico dei solari di

Campanella, l’universo infinito e policentrico del Bruno, indubbiamente stimolarono le

libere coscienze.

I naturalisti non furono certo degli osservatori sistematici alla Galileo (e

neppure alla Benedetti): essi preferirono inquadrare le loro problematiche in un più

tradizionale discorso, spesso mistico, che talvolta si rifaceva anche alla tradizione

teologico-scolastica. Purtuttavia, anche se tra molte contraddizioni, il nuovo concetto di

luogo, del Cardano e del Telesio, oppure “il libro della natura aperto di fronte ai nostri

occhi” del Campanella, portarono il loro contributo alla causa dell’edificazione della

nuova mentalità scientifica.

Tante posizioni, più o meno sfumate ed interfaccianti, si sono presentate ai nostri

occhi; ugualmente diverse si sono dimostrate le interpretazioni del rapporto

intercorrente tra quelle linee di pensiero e la rivoluzione scientifica. Molto

probabilmente queste difficoltà derivano dal fatto che, mai come nel XVI secolo, il

pensiero si trovasse spiazzato nei confronti del susseguirsi degli eventi storico-

economici.

Il modello di scienza greca, basato “sulla prevalenza dell’interesse alla

conoscenza ed alla intelligenza su quello relativo all’utilizzazione pratica”43 non poteva

che crollare di fronte ad una società che non poteva più permettersi di considerare

l’artigiano poco più di uno schiavo (come sosteneva Aristotele).

42 “quello stesso che quanto dalla natura cresce a vantaggio dell’uomo reca colà dove dalla natura è stabilito che vada, è un alchimista”. Dal Paragranum. p. 70. 43 A. C. Crombie. Dal razionalismo allo sperimentalismo.. Cit.

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Nonostante questo, il concetto di filosofia naturale di Aristotele sopravvisse al

declino dell’impianto metafisico peripatetico, “offrendo fiducia nella piena conoscibilità

della natura, da attuarsi con mezzi razionali e con l’ausilio dei sensi”44.

Vi è un altro motivo per il quale la filosofia del XVI secolo sembra rincorrere

affannosamente l’evoluzione tecnico-scientifica sua contemporanea: per la prima volta

nella storia della filosofia, una componente del pensiero ha trovato conferma alle

proprie affermazioni, al di fuori di se stesso.

La scienza si è misurata con la realtà fisica ed ha scoperto che è ad essa che

deve rifarsi per provare la propria verità. I filosofi trovarono difficoltà nel dare le

spiegazioni generali del mondo perché il mondo è sempre più in movimento e perché i

principali fautori di questo movimento vogliono aver sempre meno a che fare con la

filosofia.

Non vi sarà più un solo, unico, sapere: dal XVI secolo in avanti, i rapporti tra

scienza e filosofia si faranno sempre più sottili (e questo, almeno, fino alla moderna

epistemologia).

Per Telesio, la natura va studiata iuxta propria principia: “è la distruzione del

cosmo, del mondo qualitativamente e ontologicamente differenziato e la sua

sostituzione con un universo aperto, indeterminato ed infinito, unito e governato dalle

stesse leggi universali”45.

Lo scienziato della fine del ‘500 rifiuta la filosofia: soprattutto rifiuta la

scolastica, ritenuta palestra per esercizi (logici) inutili. E’ stufo della garrulatio; vuole

misurare la propria bravura misurando i propri esperimenti, la natura, le applicazioni

tecniche che propone. Lo stumentalismo e la fisica quantistica non turberanno i suoi

sonni per almeno tre secoli: lasciamolo godere dei suoi successi.

All’inizio del capitolo ci eravamo chiesti se Benedetti fosse davvero contro

Aristotelem et omnes philosophos. Nonostante il fatto che in maturità il nostro

veneziano modificasse, almeno in parte, il giudizio a proposito dello stagirita, siamo

propensi a rispondere affermativamente: Benedetti crede nel suo titolo. Lo crede perché

44 L. Geymonat. Storia del pensiero filosofico e scientifico; il 1500 e il 1600. p. 135. 45 A. Koyrè. Galileo e Platone. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. p. 160.

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la filosofia, secondo lui, è scienza di recenti natali. Gli omnes philosophos, Aristotele

compreso, non sono philosophos: la patente di filosofo, Benedetti intende rilasciarla solo

a chi possieda un sapere che abbia un superiore carattere di certezza, ovverosia solo al

matematico. E’ per questi motivi che Benedetti prima, e Galilei dopo (pur con qualche

differenza) pretenderanno il titolo di filosofo.

Certo, oggi noi sappiamo che scienza è metodo e che metodo e filosofia

convivono, anche se, talvolta, come separati in casa. Abbiamo già detto che determinati

concetti aristotelici sono tracimati all’interno della nuova metodologia scientifica.

Diciamo ora che non è tutto oro quello che luccica e che, quindi, come dice Einstein,

bisogna pur guardare a ciò che uno scienziato fa più che a quello che uno scienziato dice

di fare.

2.2 Metodo

Indubbiamente, il primo Rinascimento fu caratterizzato da quello che Poppi

chiama “il ritardo epistemologico tra una riflessione teorica, inceppata in metodi

aprioristici e deduttivi, da un lato, e la vivacità degli studi applicativi e l’avanzamento

tecnico, dall’altro”46.

Facile incolpare di ciò lo studioso medioevale ed il suo metodo, appunto

aprioristico, metodo che di scientifico aveva ben poco.

Abituato a ragionare solo il termini di cause finali, il nostro dotto non faceva

altro che piegare i risultati delle sue osservazioni ad una teoria che era già ben ferma

nella sua mente: conseguenza di questo atteggiamento fu che eventuali esperimenti ed

induzioni modificarono, al massimo, solo dei particolari del grande edificio della

conoscenza peripatetica.

Abbiamo già detto che questa frattura intercorrente tra realtà e speculazione

filosofico-scientifica della natura, era avvertita anche dagli esponenti conservatori della

cultura ufficiale. Ciononostante, la notevole sfiducia nelle spiegazioni fisiche in genere

46 A. Poppi. Filosofia e scienza nel Rinascimento.. Cit. p. 87

Page 31: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

impedì loro una spassionata analisi delle cause di questo gap culturale. Metodo

aprioristico: è un modo come un altro per dire che la filosofia (prima) traccia le grandi

linee dell’interpretazione del mondo e la scienza (filosofia seconda) prova la validità di

questa interpretazione.

Diverse furono le griglie interpretative presentate, come più di uno furono i tipi

di approccio alla natura proposti. Carugo parla di osservazioni passive di Platone,

miranti a scoprire, nei fenomeni, l’esistenza di certe strutture, e delle aristoteliche

generalizzazioni delle osservazioni, base per future costruzioni teoriche47. Koyrè

sottolinea, invece, il dissidio intercorrente tra il qualitativo Aristotele ed un Platone

maggiormente propenso all’uso della matematica, all’interno della scienza fisica. “Non

è in discussione l’uso della matematica”, afferma Koyrè, “nessun aristotelico ha mai

negato il diritto di misurare ciò che è misurabile, quanto la struttura della scienza e,

pertanto, la struttura dell’essere”48.

Siamo al punto di ricadere nella polemica descritta nel paragrafo precedente. Su

una cosa, però, penso che tutti siano d’accordo con il Koyrè, cioè sul fatto che è

impossibile fornire una deduzione matematica della qualità. I calculatores del Merton

College provarono a fare anche questo, fallendo su questo fronte, miseramente.

Benedetti e Galileo saranno costretti ad abbandonare la nozione di qualità: essa non ha

diritto di cittadinanza all’interno del moderno metodo scientifico.

Senz’altro più consono alle esigenze della scienza, fu il metodo di Archimede, il

quale “aveva fra l’altro mostrato nelle sue opere di meccanica come sia possibile

procedere matematicamente alla conoscenza della natura, proponendo lo studio dei

fenomeni attraverso la definizione dei rapporti quantitativi”49.

Gli apriorismi non si fermarono certo al qualitativismo; furono molti i tabù che

gli scienziati tardo rinascimentali dovettero infrangere: il concetto di cosmo, primo fra

tutti, e, legati ad esso, il concetto di luogo naturale e dell’impossibilità del vuoto.

Incontreremo di nuovo, più avanti, sia i calculatores che i tabù. Vogliamo ora

parlare dell’altro aspetto sottolineato dal Poppi, quello del deduttivismo, e lo facciamo

47 A. Carugo. La nuova scienza.. cit. 48 A. Koyrè. Galileo e Platone.. cit. p. 176 49 C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p. 88

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calandoci nel XVI secolo. E’ infatti in questo periodo che il deduttivismo aristotelico

iniziò a vedere minacciata la propria egemonia, sia in campo logico, che nel campo

prettamente naturalistico.

E’ della seconda metà del ‘500 il dibattito, fiorente soprattutto tra Padova e

Venezia, circa la natura ed i procedimenti della matematica. I commento di Proco agli

Elementi di Euclide, appena tradotto, tirò in ballo la certezza matematica, la quale

sembrava eludere l’aristotelica dimostrazione apodittica, “onde si dovette concludere

riconoscendo che quella indiscutibile certezza era fondata su una sorta di privilegiata

natura, intrinseca alla stessa disciplina, la quale, in conseguenza, veniva ad essere posta

al di fuori della filosofia e in una posizione ad essa non più subordinata… prende così

corpo l’idea della autonomia e della superiorità del metodo matematico nei confronti dei

puri metodi logico-formali”50.

Ci si rende conto che, nello stesso Euclide, non siamo in presenza di un solo

metodo di procedere, dall’evidenza alle conseguenze ( deduzione – sintesi), ma vi è una

notevole parte, quella dei problemi da risolvere, nella quale si percorre il cammino

inverso (induzione – analisi).

Già Pappo Alessandrino aveva affrontato il problema; saranno ora gli aristotelici

padovani a sviscerarlo. Essi scoprirono che questo procedimento di salita e discesa, da

loro chiamato regressus, non era soltanto presente nell’approccio euclideo ai problemi

matematici (e, seppur in modo approssimativo, anche nello stesso Aristotele), ma che lo

stesso metodo era felicemente applicabile alla costruzione delle teorie della filosofia

naturale: “anche qui si parte dai dati forniti dall’esperienza e, per una via induttiva, si

sale alla scoperta di leggi o, addirittura, di principi, che costuiscono invece il punto di

partenza del percorso che, per via sintetica, arriva a dimostrare ciò da cui nell’altro

percorso si era partiti, e quindi a capirne il senso”51.

E’ un passaggio fondamentale sulla strada della creazione del moderno metodo

scientifico.

50 C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura. In GB Benedetti spunti di storia delle scienze.. cit. p. 92 51 A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 97

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Illuminante, a proposito, il già citato saggio del Crescini. Partendo da un

esempio che vede Aristotele e Benedetti alle prese con un problema di dinamica che li

accomuna nell’approccio analitico alla soluzione, Crescini rimarca le differenze di

metodo dei due filosofi. Tra queste, essenziale quella che vede lo stagirita partire dalla

pura osservazione dei dati empirici, ed il veneziano, invece, rimuginare quegli stessi

dati, al fine di darne una considerazione razionale.

Il regressus, quindi, non è solo l’immagine speculare e complementare della

deduzione peripatetica. Esso va oltre: non ci si limita alla constatazione di una pura

evidenza, ma la si interpreta, sino a che il dato osservato non sarà conforme a ragione.

Già accennate le altre differenze: quantificazione dei dati, eliminazione degli

apriorismi, in primo luogo della dipendenza del sistema scientifico peripatetico dalle

cause finali.

“Aristotele poté accogliere tali cause finali nelle sue considerazioni, perché in lui

non era ancora presente con chiarezza la radicale differenza esistente tra gli aspetti

puramente fisici della natura, i suoi aspetti logici e, infine, ancor più a fondo, quelli

metafisici”52.

Sia Aristotele che gli aristotelici padovani sapevano della necessità di partire dai

dati di senso e della possibilità, in caso di loro non intellezione, di poterli chiarire

ricorrendo alle loro cause (è un regressus in nuce); quello che mancò loro e che, di

riflesso, fece grande Benedetti, fu, oltre a quanto sopra indicato, l’uso “di modelli

spazio-temporali validi universalmente, per tutti i corpi … organo di una autentica,

rigorosa, conoscenza dovrà quindi essere l’immaginazione, con le sue supposizioni di

rapporti spazio-temporali … si avrà così l’incalcolabile vantaggio di poter verificare la

validità (verità) di questi rapporti … saranno le leggi spazio-temporali che esprimono

questi rapporti, i nuovi principi della conoscenza”53.

Questo ebbe come conseguenza che “la logica valida per una scienza reale dovrà

essere la matematica e non una metafisica … a una logica attributiva imperniata sui

52 A. Crescini. Considerazioni sul metodo risolutivo in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche nella Venezia del ‘500... cit. p. 100 53 Ibidem. p. 107

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rapporti sostanza-accidente, essenza-proprietà, si viene a far prevalere una logica

relazionale”54.

Questo, il regressus.

Il dibattito sul metodo non si fermò, comunque, qui. Se di diversità si può

parlare circa il metodi di avvicinarsi alla natura da parte dei grandi Padri della filosofia,

di diversità si può parlare anche a riguardo dei grandi Padri della scienza moderna.

Fu il Benedetti ad intuire la necessità di matematizzare la fisica terrestre (portò il

cielo in terra), partendo dal problema più stressante per i tecnici e per i militari: il moto.

In questo modo, non solo fece compiere alla dinamica medioevale quei progressi che

poi analizzeremo accuratamente ma, da un punto di vista metodologico, rivoluzionò il

modo di porsi di fronte alla natura.

Per Aristotele, il movimento non era solo moto, naturale o violento, ma

cambiamento in genere. Si può dire che Aristotele avsse subito il fascino di un

approccio di tipo biologico, nei confronti del movimento. “Vede l’universo sotto

l’aspetto della vita”55; ne consegue che il movimento fondamentale di questo mondo è

la generazione, sempre legata al ricorso ad una causa. Tipica conseguenza di questo

habitus mentale fu la trattazione peripatetica dei moti locali, e la conseguente difficoltà

nella formulazione della legge di inerzia.

Proseguendo sulla strada di Leonardo e degli Ingegneri del ‘500, la

matematizzazione del Benedetti intaccò, anche se non infranse, questo atteggiamento

culturale, favorendo una interpretazione meccanicistica del mondo, sposando, cioè,

probabilmente in modo inconsapevole, la teoria degli atomisti, per i quali anche la

generazione e la corruzione erano riconducibili ai movimenti locali degli atomi.

Benedetti matematico; Benedetti che rivendica alla matematica il titolo di

filosofia proprio in virtù del carattere di certezza posseduto dal suo sapere; Benedetti

che pensa che solo attraverso la matematica si possa comprendere il pensiero di Dio e se

ne possa emulare la creatività. Benedetti che si differenzia da Galileo, per il quale un

filosofo non può essere solo puro calcolatore.

54 Ibidem. p. 108 55 E. Berti. La concezione del moto.. cit. p. 110

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“L’accentuazione del carattere puramente intellettuale della conoscenza

scientifica giunge, effettivamente, a costituire una peculiarità della figura di Benedetti,

proponendo – come ha indicato il Maccagni – un elemento di chiara differenziazione

nei confronti della nozione galileiana del ruolo scientifico delle sensate esperienze”56.

Vi è diversità di metodo tra Benedetti e Galileo: “lo sforzo maggiore di

Benedetti non è rivolto, come farà invece Galilei, a contrapporsi sul medesimo piano del

riferimento dell’esperienza utilizzato da Aristotele stesso: quanto piuttosto a

neutralizzarne l’efficacia, mettendo in discussione il significato di tale riferimento”57.

Anche l’adesione alla tesi copernicana è sposata dal Benedetti più in riferimento

alla sua, intrinseca, armonica proporzione tra le parti dell’universo, che in riferimento a

qualche dato osservativo.

“Il ricorso all’esperienza nella prospettiva di Benedetti non manca di esser visto

anche come elemento perturbatore nei confronti di quella idea di scientificità che, come

si è visto, ha per lui la massima realizzazione nella filosofia matematica”58.

Vi è molta distanza da un Galileo che si spinge sino ad affermare la necessità di

basare sui sensi anche le verità matematiche, cosa che per il nostro veneziano è

impossibile, anzi “da questo punto di vista non si doveva temere di dare ragione ad

Aristotele, che aveva distinto la scienza dalla conoscenza sensibile”59.

Rivalutazione di Aristotele, ma anche rivalutazione di Benedetti, che si pone

nella storia del metodo scientifico non come precorritore di Galileo ma come originale

esploratore delle strutture della natura.

Fu anche grazie alla sua opera che la quantità diventò primo accidente. Ciò pose

in nuova luce tutta una serie di intuizioni e sperimentazioni già effettuate nel Medio

Evo, soprattutto nel campo dell’ottica (il cui studio fu sempre invogliato dall’esegesi

biblica).

56 L. Olivieri. Giovan Battista Benedetti e la crisi dell’aristotelismo. In Giovan Battista Benedetti – Spunti di storia delle scienze.. Cit. p. 117 57 Ibidem. p. 118 58 Ibidem. p. 125 59 Ibidem. p.128

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Ne conseguì lo scardinamento della divisione aristotelica tra fisica (scienza della

natura) e matematica pura.

Matematica come passepartout: secondo Benedetti “Aristotele non ha capito mai

un bel niente del movimento; il primo suo errore è stato l’aver trascurato o persino

escluso dalla fisica gli inamovibili fondamenti della filosofia matematica … solo

partendo da essi – il che significa partendo da Archimede – è possibile sostituire alla

fisica di Aristotele una fisica migliore”60.

Il metodo matematico e quello sperimentale crebbero in seno alla fisica ed alla

astronomia aristotelica e, dal suo interno, riuscirono a cambiarne drasticamente i

presupposti. Aristotele può aver ragione a dire che quando il moto si esaurisce in calore

si ha un qualcosa di nuovo, la cui conoscenza si aggiunge alla spiegazione quantitativa e

la completa, ma ciò non toglie valore alla tesi dei meccanicisti, per i quali “la

spiegazione ha sempre valore perché vi è corrispondenza tra un certo ordine dei

fenomeni qualitativi e un processo quantitativo”61.

“Viene abbandonata in fisica la ricerca delle cause finali a favore di quelle

materiali (corpuscoli, elementi chimici), delle cause efficienti (forze elastiche, gravità,

leggi della dinamica) e delle cause formali (funzioni matematiche di forza, energia,

ecc.)”62.

Se gli uomini che si affacciarono al Rinascimento furono privi del concetto di

progresso e cedettero, tutt’al più, ad una cultura chiusa in se stessa, limitata e, nello

stesso tempo, difficile da mantenere viva; se, tra di loro, gli stessi studiosi videro la

Terra quale ipostatizzazione dell’antro platonico, fu grazie all’intelligenza ed alla vis

polemica di pensatori quali il Benedetti che si riuscirono ad offrire alternative tali da

modificare radicalmente lo stesso concetto di esistenza umana, laicizzandola, in gran

parte, sia da autorità divine che terrene.

60 A. Koyrè. Studi galileiani 61 F. Enriques, G. De Santillana: Compendio... Cit. 62 Ph.P. Wiener, A. Noland. Le radici del pensiero scientifico Cit.

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La rivoluzione scientifica del ‘500 rappresentò davvero (non solo per il Koyrè)

“la svolta più profonda nel pensiero umano dalla creazione dell’idea di cosmo da parte

dei greci”63.

Non ci resta che vedere in quale modo Benedetti fu condizionato e, nello stesso

tempo, condizionò il clima culturale dei suoi tempi.

63 A. Koyrè. Galileo e Platone. p. 156

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CAP. 3 - GIOVAN BATTISTA BENEDETTI UOMO E SCIENZIATO

In questo capitolo ci proponiamo di dare dei rapidi cenni biografici del nostro

autore, nonché di dare una rapida occhiata ai suoi interessi non propriamente meccanici.

Per far ciò ci avvalleremo dell’unica bibliografia edita sul Benedetti, scritta da Giovanni

Bordiga ed ultimamente ristampata, con l’aggiunta dell’aggiornamento bibliografico

ragionato, a cura di Pasquale Ventrice64. Approfondiremo qua e là il discorso,

ricorrendo ad alcuni saggi monografici.

3.1 Biografia

Poche e disperse le notizia inerenti la vita di Benedetti.

La sua tavola astronomica pubblicata da Luca Gaurico, oltre a darci l’unica

indicazione precisa della sua data di nascita (14 Agosto 1530), mette in risalto la fama

da lui già raggiunta in giovane età: quando aurico pubblicò il suo Tractatus

astrologicus, Benedetti aveva solo 22 anni.

Il lignaggio del suo casato non è valso, purtroppo, a far giungere a noi notizie

attendibili circa la sua famiglia. Il padre è detto, dal Gaurico, Hispano, forse perché,

come commerciante, fu in buoni rapporti con i colleghi iberici.

Molto interessanti anche le relazioni giovanili che Benedetti stesso ebbe a

Venezia con dotti spagnoli. Queste potrebbero aver influito non poco sui suoi futuri

studi di filosofia naturale: sarebbe utile sapere sino a che punto questi studioso fossero a

conoscenza delle tesi di Domingo de Soto e sino a che punto le tenevano in

considerazione.

Dall’età di sette anni fu autodidatta. Unica eccezione, già citata, riguarda i primi

quattro libri degli Elementi di Euclide, che lo videro scolaro del famoso Niccolò

64 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti filosofo e matematico veneziano del secolo XVI.

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Tartaglia. Per il resto, studiò da sé “nulla essendo difficile conoscere ai forti di

volontà”65.

Il giovane Giovan Battista rifuggì le cattive compagnie e si dedicò anima e corpo

allo studio, pubblicando i suoi primi scritti nel 1533.

Già questi prima saggi diedero prova dello spirito antitradizionalista del nostro

autore: da essi partirono le prime critiche ad Aristotele ed in essi dimostrò fierezza nel

difendere le proprie teorie (“mio è il pensiero”).

Dal 1558 fu a Parma, alla corte del duca Ottavio Farnese, forse seguito da una

figlia, la cui vita fu ancor più misteriosa di quella del padre: anche in questo caso

scontiamo il carattere riservato e assolutamente non autobiografico dei suoi lavori.

A Parma restò per otto anni, durante i quali fu lettore di filosofia e matematica.

In questo periodo non pubblicò nulla, ma si occupò di gnomonica (costruì un orologio

solare a Rupielba) e di astronomia (fece lunghe osservazioni su Marte). E’ di quegli

anni il plagio della Demonstratio perpetuato dal Taisner. Sul principio del 1567,

Benedetti si trasferì a Torino, invitatovi dal duca di Savoia Emanuele Filiberto. Da

quella data, fino alla morte, restò al servizio della famiglia sabauda.

Al riguardo, molto interessante è il saggio di Gaetano Cozzi, tendente a

comprendere il perché il nostro studioso abbandonò la Serenissima per non farvi più

ritorno, imitato, cinquant’anni più tardi, da Galileo Galilei66. Per darne ragione, compara

la situazione politico-istituzionale delle Repubblica veneta e del Ducato di Savoia:

consolidata ed intoccabile la prima, disastrata ma, per questo, ampiamente riformabile la

seconda.

Furono la bravura e l’astuzia riformatrice del Principe Emanuele Filiberto di

Savoia che fecero sì che il Ducato divenisse florido economicamente e politicamente.

La monarchia assoluta ivi instaurata offrì ad ogni studioso una sicurezza tale da

far entrare Torino in competizione con la dotta Padova. La scelta stessa di Torino

capitale creò la necessità di modificare ampiamente l’assetto urbanistico ed

65 Ibidem. p. 4. 66 G. Cozzi. La politica culturale della Repubblica di Venezia nell’età di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienze e tecnica.. Cit.

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architettonico della città, al fine di adattarla al nuovo rango. Questo comportò l’arrivo di

molti studiosi. Lo stesso Palladio fu in Piemonte, invogliato dalla carica di Architetto di

Corte, allora vacante.

Non secondario allo sviluppo della credibilità culturale di Torino fu pure

l’atteggiamento di riverenza di Emanuele Filiberto nei confronti del papato e della

Compagnia del Gesù, atteggiamento diametralmente opposto a quello della Serenissima.

Il Cozzi conclude affermando che fu probabilmente la presenza di un monarca

assoluto ed illuminato ad attrarre il Benedetti a Torino (e Galileo a Firenze). Questi

aveva la facoltà di dispensare chiunque dalle costrizioni didattiche, lasciando quindi

liberi di studiare e di creare, cosa che a Venezia era praticamente impossibile.

Stretti furono i rapporti del nobile veneziano con il Duca sabaudo: la stima di

quest’ultimo per Benedetti crebbe sino alla concessione della patente di nobiltà,

concessa nel 1570.

Alla morte del sovrano (1580), successe sul trono torinese il duca Carlo

Emanuele I, che riservò al Nostro l’uguale trattamento del padre.

Benedetti morì il 20 Gennaio 1590, due anni prima di quanto preventivato dalla

propria tavola astrologica, circa dieci anni dopo la morte della figlia e dopo aver

contratto, forse, un secondo matrimonio. Fu sepolto nel capoluogo piemontese, nella

chiesa di S.Agostino, completamente dimenticato (forse è meglio dire ignorato) dalla

sua madre patria.

Questo, in breve, quanto si conosce della sua vita. Per fortuna, ben più esaustiva

è la nostra conoscenza degli studi del veneziano. Sette sono le opere a stampa del

Benedetti, una delle quali, la Demonstratio, fu pubblicata in due edizioni lievemente

differenti: una è l’opera che il Bordiga non è riuscito a rintracciare (De Coelo et

elementis, del 1591); cinque codici, contenenti manoscritti, completano la produzione

benedettina giunta sino a noi.

Le sue opere spaziano nel campo delle discipline matematiche. Vediamo di farne

un rapido sunto.

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3.2 Geometria, aritmetica, prospettiva, ottica, gnomonica, musica.

La prima opera edita da Benedetti (De Resolutione, del 1553) concerne problemi

geometrici inerenti la costruzione di figure geometriche piane, con compasso di data

apertura. Molto diffusi nel ‘500, questi trattati percorrevano in lungo ed in largo una

scienza che era ritenuta compiuta, grazie all’opera di Euclide, di Apollonio e di

Archimede.

Rimarchevole a proposito il giudizio di Moritz Cantor, il quale afferma che il

Benedetti “ha portato quella dottrina particolare alla sua piena perfezione”67.

Altri problemi di geometria si trovano nel Diversarum e sono scritti in forma

epistolare.

Senza entrare nei particolari, leggendo le pagine del Bordiga, salta subito agli

occhi la fiera autonomia del pensiero del nostro matematico: nella disputa (a distanza)

con Aristotele su quali siano le prime figure, non esita a formulare pareri discordi dal

filosofo di Stagira.

In generale, si può affermare che la sua opera evidenzia il limite della

matematica del suo tempo: difficile andare oltre Euclide e compagnia senza il

grimaldello dell’algebra.

Sempre trattati in modo geometrico, furono i problemi di aritmetica (153

teoremi), raccolti nella prima parte del Diversarum. Questo modo di procedere

rappresentò, comunque, “l’anello di congiunzione tra la verifica induttiva delle

equazioni, propria dell’analisi abachistica (se la regola dava esiti positivi, allora si

poteva ritenere sufficientemente sicura) e il vero e proprio calcolo algebrico”68, il quale,

per essere sviluppato, dovette attendere la logistica speciosa del Viète.

Il nostro studioso si dilettò pure di prospettiva, scienza relativamente nuova: se

tale materia fu trattata già da Euclide, è, però, solo con Daniele Barbaro che si ha il

primo trattato completo (anche se non ordinato) di prospettiva. 67 Ibidem. p. 624. 68 P. Freguglia. Niccolò Tartaglia e il rinnovamento delle matematiche nel ‘500. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit.

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Cousin, Barozzi, Guidobaldo dal Monte e Benedetti contribuirono a dare

qualche regola scientifica alla prospettiva: il Benedetti, in particolare, fece uso di metodi

tridimensionali.

Collegata alla prospettiva è la problematica collegata alla vista. L’ottica di

Euclide, influenzata da Platone, sosteneva la teoria secondo la quale i raggi luminosi

muovevano dagli occhi verso gli oggetti. Contro di essa Pietro d’Abano e Leonardo

avevano già rispolverato le più antiche, ed opposte, dottrine pitagoriche.

Legato alla prospettiva, ed all’interesse che da quattro secoli suscitava il De

Aspectibus dell’arabo Alhazen, fu l’interesse che Benedetti stesso ebbe per l’ottica. I

suoi studi sono esposti nella lettera De visu, pubblicata nel Diversarum (Torino, 1585).

In essa il veneziano compara la camera oscura al bulbo oculare, individuandone il

senziente non nel christallinus ma nella retina69.

Così affermando, Benedetti fu il secondo scienziato a parlare di visione retinale

(il primo fu, nel 1583, Felix Platter). A differenza del primo, però, il nostro autore cercò

di offrire una spiegazione geometrica, non arrivando, comunque, ad accettare il

capovolgimento dell’immagine sulla retina (si dovrà attendere Keplero).

Fiorente all’epoca, la gnomonica attrasse l’attenzione di Giovan Battista, il quale

raccolse i suoi studi nel De gnomonum (alcuni studi particolari furono editi, sotto forma

epistolare, nel Diversarum).

E’ il Bordiga ad informarci che, in questo caso, lo scienziato non andò oltre i

suoi contemporanei; anzi, in certi punti, segnò il passo nei confronti di alcuni suoi

colleghi (non tenne conto della parallasse e non usò le tangenti).

In ogni caso, il fatto che il Clavio, in un’opera successiva, parlasse del De

gnomonum sottolineandone le carenze ma anche i pregi, offre un quadro ben preciso

della preparazione e della considerazione del Benedetti.

In ultimo, anche in ordine di importanza (almeno per i nostri studi), citiamo,

seguendo Bordiga, due epistole indirizzate al De Rore, inerenti gli intervalli musicali.

69 T. Frangenberg. Il De visu di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienze e tecniche.. Cit.

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Anche qui, il Benedetti tratta matematicamente l’argomento e suggerisce, nelle

conclusioni, che teoria e pratica vadano insieme congiunte.

Prima di passare allo studio della parte meccanica del pensiero del Nostro,

dobbiamo ancora analizzare due tematiche affrontate dal veneziano, che riteniamo

propedeutiche all’oggetto della tesi: la questione della grandezza della terra e dell’acqua

e, più in generale, l’astronomia benedettina.

3.3 Perché il fiume va al mare?

Perché il fiume va al mare? Vi è più terra o più acqua? Domande che oggi hanno

perso ogni significato ma che nel XVI secolo, e prima, furono al centro di accese

contese, le più fini delle quali celavano ben più pressanti questioni.

Dietro a queste discussioni, che rimandavano alla forma della Terra, vi è

“l’avvallo del modello meccanico dal punto di vista degli esiti sperimentali propri della

scienza moderna … vi è la nascita del nuovo metodo scientifico che infrange

l’universalismo confuso della filosofia naturale e avvia alla costruzione delle scienze

particolari”70.

Tutto sembra risalire alla pubblicazione del De aqua e terra, un’operetta

attribuita a Dante Alighieri: da Aristotele e da essa derivò la diffusa convinzione che

l’acqua fosse quantitativamente maggiore della terra. Terra ed acqua erano conformate

in due sfere distinte, eccentriche, e ciò comportava problemi circa quale fosse il centro

del globo terracqueo e dell’intero universo.

Noi non vogliamo esporre qui le idee di Benedetti in proposito. Quello che ci

preme è far vedere contro quali motivazioni scientifiche Benedetti ed i nuovi scienziati

dovettero scontrarsi.

70 P. Ventrice. La questione della grandezza della terra e dell’acqua e la dottrina delle maree nel secolo XVI, con riferimenti all’ambiente scientifico veneziano e alcune considerazioni sul metodo. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit.

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In generale, comunque, il dotto veneziano si riferì, migliorandole, alle teorie di

Alessandro Piccolomini. E’ del 1558 un opuscolo di quest’ultimo, all’interno del quale

è negata l’interpretazione peripatetica. Le sue convinzioni si fondano “più sulla certezza

della ragione che su quella del senso”, perché “qualunque possa essere la profondità

raggiungibile dall’acqua del mare non potrà mai essere rispetto al volume della terra,

così pure irrilevante sarà qualsiasi elevazione della crosta terrestre rispetto

all’estensione della superficie sferica”71.

Le ragioni avanzate sulla sfericità della Terra sono l’eclisse parziale della luna, i

fusi orari, ecc..

Probabilmente Piccolomini fu influenzato dal De rivolutionibus di Copernico,

per il quale “l’acqua e la terra formano una sola sfera, la massa terrestre è di gran lunga

superiore alla massa dell’acqua e il centro di gravità è anche il centro della

grandezza”72.

Contro queste tesi insorse il Berga, professore all’Università di Torino,

soprattutto perché quelle tesi creavano diffidenza nei confronti delle verità derivanti dai

sensi (soppiantate dalle verità matematiche). “La pretesa dei matematici di definire, in

termini quantitativi, una questione squisitamente naturale è inconsistente, soprattutto

quando venga messa in relazione al problema dell’identificazione del centro di gravità,

la cui localizzazione è possibile solo in base alle procedure razionali proprie della

filosofia naturale”73.

E’ col Berga che Benedetti entra in polemica. Invitato a pronunciarsi

ufficialmente dal principe Carlo Emanuele, il veneziano pubblicò il Consideratione, nel

quale, tanto per cambiare, attaccò le dottrine aristoteliche del collega. Diamo una rapida

occhiata a queste ultime.

Per Aristotele, e per Platone, i quattro elementi si succedevano in progressione

geometrica e, per corruzione successiva, ognuno era il decuplo del precedente (quindi,

l’acqua era dieci volte la terra). Forse questo fu il richiamo principale all’Autorità fatto

71 Ibidem. p. 438. 72 Ibidem. p. 439. 73 Ibidem. p. 439. Come, poi, questa razionalità legata ai sensi fosse precaria, lo notiamo dall’affermazione del Berga secondo la quale le isole non sono più alte del mare che le circonda.

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dal Berga. Lo stesso giustificò le proprie idee anche col dire che “l’acqua, essendo meno

grave della terra, bisogna che ne sia maggiore per equilibrarla e, spingendola, fermarla

al centro del mondo”74. Non manca neppure l’avvallo biblico “dopo il diluvio universale

le acque, dopo aver superato la terra, si sono soltanto ritirate, non consumate, quindi il

loro volume tuttora supera quello della terra”75.

Come si vede, queste motivazioni, eccezion fatta per l’ultima, creano, con

l’aggiunta del metodo esposto dal Berga, una specie di circolo chiuso: si dà ragione di

una evidente contraddizione tra le affermazioni del filosofo della natura e la natura

stessa, negando la contraddizione, richiamandosi ai massimi sistemi e, viceversa, per

sorreggere principi cosmologici in discussione si usano, o meglio, si distorcono, i dati

del senso, badando bene di usarli nella loro forma immediata, oppure cercando di

elaborarli, a seconda delle convenienze.

Per Benedetti queste sono ragioni filosofiche, argumenti sottili, con la prova in

mano”, facilmente confutabili, per esempio, dalle stesse esplorazioni geografiche

“essendosi scoperto per le nove navigationi tante insule e paesi da ogni parte”76.

Non era, però, questo il punto e Benedetti se ne accorse bene. Posti in difficoltà

sulla Terra, gli avversari della nuova scienza si rifugiavano in cielo, eludendo così, in

pratica, il confronto. Non restava che inseguirli in quello che credevano essere il loro

elemento, ed ivi combatterli.

Solo dopo averli sconfitti tra le stelle avrebbe avuto un senso il “portare il cielo

in terra”77.

74 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 88. 75 Ibidem. 76 Per capire meglio quanta presa ebbero, all’epoca, teorie quale quella che vedeva il globo acqueo eccentrico rispetto a quello terrestre (creando così una gibbosità che permetteva a certe terre di emergere) si ricordi che Colombo, giunto presso le foci dell’Orinoco, trovando una forte corrente contraria, credette di essersi avvicinato all’altezza massima dell’oceano. 77 Come già ripetutamente detto, la cosa non fu tanto pacifica. Messi in crisi sui massimi sistemi, i peripatetici cercarono di mettere in dubbio i dati di senso: la scoperta delle gibbosità lunari o, ancora meglio, dei satelliti medicei, furono addebitate alla non affidabilità del telescopio quale strumento di osservazione.

Page 46: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

3.4 Guerre stellari.

“Un fisico incline ad attaccare la teoria aristotelica del moto non poteva non

capire quali fossero i vantaggi che derivano dall’estendere l’attacco anche alla

cosmologia di Aristotele … Benedetti era un fisico-matematico, non un astronomo, ma

elogiò con entusiasmo la teoria di Aristarco, spiegata in modo divino da Copernico”78.

E’ avendo presente questo quadro che si può avvicinare il pensiero di Giovan

Battista Benedetti.

Le questioni astronomiche non spiccano nella sua produzione; rimarchevole è,

però, il tipo di adesione al copernicanesimo, un’adesione che “va al di là della pura e

semplice accettazione del sistema o della difesa delle effemeridi basate sulle più recenti

tavole”79.

Benedetti non fu un astronomo ma, oltre che ad osservare Marte, senz’altro lesse

con attenzione sia Tolomeo che Copernico. La ragione che fece propendere il Nostro

verso le tesi del grande polacco fu la seguente: se Tolomeo avesse avuto ragione, le

velocità lineari dei pianeti sarebbero state enormi, dalle 500 – 1.000 miglia italiche al

minuto della Luna, alle 260.000 di Saturno. Tutto ciò poteva essere eliminato con la

semplice introduzione del moto terrestre.

“Ciò che è alla base del ragionamento del Benedetti è dunque un principio di

economicità della natura, e di armonia … che si basa su un’armonica proporzione tra le

parti dell’universo, verificabile in termini di rapporti numerici”80.

Questo è quanto concerne il Giovan Battista Benedetti astronomo. Vediamo

invece quali conseguenze sortirono gli attacchi all’astronomia tolemaico – aristotelica.

Nel 1500, si sapeva bene che i calcoli astronomici erano sbagliati: congiunzioni

ed eclissi non erano mai tempestive. Prima si cercò di ovviare a queste discrepanze

dando la colpa del tutto alle cattive trascrizioni dell’Almagesto, sino a che le traduzioni

del XV – XVI secolo riproposero, senza più alibi, il problema.

78 M. Boas. Il Rinascimento scientifico.. Cit. p.83. 79 M. Di Bono. L’astronomia copernicana nell’opera di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit. 80 Ibidem. p. 286.

Page 47: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Il De rivolutionibus di Copernico è del 1543.

Questa opera fu, per molti versi, ancora molto lontana dalla moderna scienza:

non è matematizzata, si serve ancora dei concetti di valore, non esce dalla teleologia,

parla sempre di luoghi naturali e di moti naturali e violenti, nell’elencazione delle arti,

infine, pone la meccanica all’ultimo posto “perché abbisogna dell’uso delle mani”81.

Questo testo non ottenne subito un grande successo. “Solo una mezza dozzina di

studiosi seguirono Copernico tra il 1543 ed il 1560: Retico, Gemma Frisio di Lovanio,

Pontus de Tyard, John Dee, Thomas Digges, John Field, Robert Recorde”82.

Non si dovette attendere molto, però, perché si intuisse il carattere rivoluzionario

della tesi eliocentrica.

Indubbiamente, il copernicanesimo dette manforte a chi, sia sul versante

filosofico, sia su quello scientifico, cercava pretesti per attaccare la tradizione. E di

pretesti Copernico ne stimolò molti: “una volta eliminata la rotazione della sfera celeste,

per Benedetti non ha più senso parlare di una qualche superficie delimitante l’universo,

il che significa, in ultima istanza, un’apertura verso l’infinito”83.

Se Copernico, legato com’era alla scienza peripatetica, non riuscì a trarre queste

conseguenze, ciò fu invece possibile al nostro veneziano, il quale, in quanto fisico –

matematico, fu agevolato “dalla polemica vincente contro alcuni cardini

dell’aristotelismo, quali il concetto di vuoto, di luogo e di infinito attuale, ed i problemi

di moto ad essi relativi”84.

Ecco le conseguenze a cui accennavamo prima. Non vogliamo credere, anzi, non

crediamo, ad un Benedetti opportunista: siamo convinti che il dotto veneziano credesse

nell’eliocentrismo. E’ innegabile, però, che le tesi del Copernico servirono a lui, come

ad altri suoi contemporanei, per costruire, poco a poco, quel Grande Sistema da

contrapporre all’aristotelica visione del mondo.

81 Ricordiamoci che Aristotele elevava gli artigiani al di sopra degli schiavi solo per il fatto che i primi accudiscono più persone mentre i secondi una sola. 82 A. Rupert Hall. La rivoluzione scientifica.. Cit. 83 M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 289 84 Ibidem. pag. 290.

Page 48: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Benedetti fu agevolato dalla polemica vincente contro alcuni cardini

dell’aristotelismo e, nello stesso tempo, lo smembrarsi della fisica celeste peripatetica

agevolò la polemica contro quegli stessi cardini. Vediamoli un attimo, questi cardini.

Clamoroso è il tonfo della teoria peripatetica dei luoghi naturali e, di

conseguenza, di quella degli elementi.

Già Aristotele aveva dovuto compiere salti mortali per giustificare la pertinenza

dell’ottava sfera con la teoria dei luoghi naturali: la determinazione del luogo di un

corpo richiede un ambiente la cui immobilità sia stabilita; il centro dell’universo (la

Terra) poteva andare bene per gli astri; ma l’ottava sfera era in nessun luogo? “In senso

improprio, per accidens, è in un luogo, perché ciascuna parte della sfera è circondata

dalle altre parti, le quali, tutte assieme, funzionano come il suo luogo”85.

Dal non aver più la Terra al centro dell’universo, alla pluralità dei mondi, il

passo è breve.

Koyrè afferma che Benedetti, a pagina 184 del suo Diversarum, parli ancora di

luoghi naturali86 ma Benedetti ne parla per quel che concerne il moto di un corpo in

avvicinamento al suo punto di arrivo (e mette in evidenza che Aristotele sbagliava a dire

che in caduta libera un corpo è tanto più veloce quanto più si avvicina alla sua meta;

doveva infatti dire che un corpo è tanto più veloce tanto più si allontana dal suo punto di

partenza), non certo nel senso tipico di Aristotele.

Tolti i luoghi naturali, venivano a mancare totalmente i presupposti della teoria

degli elementi: assurdo parlare di una proporzione tra essi, quantificata a casaccio, ma

anche assurdo parlare di quint’essenza, di moti naturali e/o violenti, di incorruttibilità.

Per Benedetti, ad esempio, l’unica ragione per la quale non notiamo corruzione nei

pianeti è la grande distanza che ci separa da essi. Ad un osservatore posto su uno di essi,

la Terra comparirebbe perfetta, tale e quale agli altri pianeti. Inoltre, se non esiste più la

sfera, se le stelle galleggiano (per usare un termina caro al Bruno) vuol dire che esse si

muovono in uno spazio. Come mai non si fermano? Non vi è resistenza? Esiste il vuoto

nello spazio?

85 Ibidem. p. 57. 86 A. Koyrè. Studi galileiani.. Cit. p. 88

Page 49: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Se il disfacimento delle teorie peripatetiche dei luoghi naturali e degli elementi

rappresentò la conseguenza più evidente dell’indotto eliocentrico, la riproposizione

delle teorie atomistiche circa l’esistenza del vuoto in natura rappresentò la conseguenza

più eclatante e più fertile per la fisica rinascimentale.

Se è vero che “Aristotele ha ragione … uno spazio vuoto (geometrico) distrugge

completamente il concetto di ordine cosmico”87, allora anche la distruzione dell’ordine

cosmico implica un indebolimento delle teorie che negano il vuoto.

Il filosofo di Stagira aberrava il vuoto: esso presuppone un ambiente in cui si

possono collocare corpi ma in cui, non di meno, nessun corpo è presente … dovrebbe

aver la natura di un padre senza figlio, di una bevanda che non può essere bevuta .. in un

vuoto nessun punto può venir distinto da un altro, nessuna direzione può essere preferita

ad un’altra … ma, soprattutto, un corpo messo in movimento nel vuoto non potrebbe

mai fermarsi (perché qui, invece che là?) e, visto che, per Aristotele, la velocità di un

corpo è inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo, avrebbe una velocità

infinita.

Il vuoto nega il movimento. Combattere questo concetto peripatetico

significherà fondare la nuova Dinamica.

Vuoto significa pure che “mancherebbe il motor conjunctus88: crollerebbe

(crollerà) il presupposto per la suddivisione dei moti in violenti e naturali.

I peripatetici, almeno sino al XIII – XIV secolo, non tollerarono alcun tipo di

vuoto, né tra gli atomi, né tra le stelle. Parlarono, addirittura di un horror vacui patito

dalla Natura. Questa monolitica visione scientifica fu incrinata dalla condanna,

pronunciata a Parigi nel 1277, di alcune tesi di origine aristotelica.

Tutti gli epistemologi e gli storici della scienza concordano nell’affermare che

questa fu una delle rare volte nelle quali un tabù religioso aiutò la scienza.

Accettare il vuoto non significò solo dover riconsiderare le leggi della

Dinamica, ma significò pure abituarsi a pensare al vuoto spazio euclideo, con le

conseguenze che abbiamo, più volte, ribadite.

87 A. Koyrè: Galilei e Platone… Cit. 88 E.J. Dijksterhuis: Il meccanicismo.. Cit.

Page 50: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Torniamo un momento alla teoria dei luoghi naturali. La sua scomparsa offrì il

fianco ad un altro attacco al castello peripatetico: per Aristotele, luogo è una certa

superficie. Questa definizione, opposta a quella accettata dal Benedetti, per il quale

luogo è un intervallo, “doveva servire, fra l’altro, a eliminare la possibilità

dell’infinitezza del mondo … la carenza di Aristotele è, da questo punto di vista, una

carenza matematica”89.

Benedetti se ne rese conto ed affrontò senza pregiudizi la questione dell’infinito

attuale e dell’infinitesimo fisico, negando che essi siano solo in potenza.

Per Aristotele, nulla che sia continuo può comporsi di indivisibili, tanto che “per

giustificare la continuità della linea, si basò sulla continuità del moto”90.

L’autorità aristotelica in questo campo non fu, comunque, mai assoluta: il

concetto di infinitesimo esercitò sempre un grande fascino sul pensiero greco.

Democrito ma, soprattutto, Archimede, non erano avversi a considerazioni di ordine

infinitesimale, anche se, come nel caso dello studioso siracusano, sopportavano una

funzione euristica e non dimostrativa.

Non è cosa da poco: l’infinitesimo rimanda alla velocità istantanea, e questa

all’accelerazione ed alla nuova scienza.

Solo un’argomentazione matematica potrebbe convincere Benedetti a negare

l’infinito (e l’infinitesimo) e, poiché su questo piano egli non trovava obiezioni valide,

tutto il resto non conta”91.

Personalmente, cerchiamo di celare l’imbarazzo di chi, solo per ragioni di

tempo, non è riuscito ad approfondire l’argomento (ah, tempo tiranno!), consolandoci

con Galileo, il quale, qualche anno dopo Benedetti, così diceva: “L’infinito è per sé solo

da noi incomprensibile, come anco gli indivisibili: or pensate quel che saranno

congiunti insieme”92.

89 M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 291 90 M.G. Evans. Aristotele, Newton e la teoria del continuo. In Le radici del pensiero scientifico.. Cit. 91 M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 291 92 Dalla Giornata Prima dei Discorsi e dimostrazioni matematiche – VIII 76-77. Per la verità, Galileo continua dicendo: ..e pur se vogliamo compro la linea d punti indivisibili, bisogna farli infiniti; e così insieme apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile.

Page 51: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Non si sa se Benedetti sia stato il primo italiano ad abbracciare le teorie del

Copernico. Più consono ci pare il giudizio di Di Bono, per il quale “si può in definitiva

dire rispetto al modello iniziale molto di più e molto di meno: molto di più, perché le

argomentazioni cosmologiche non hanno nulla della prudenza di Copernico; molto di

meno, perché dal punto di vista tecnico non si va oltre l’affermazione della migliore

qualità delle Tabulae Prutenicae o, detto in altri termini, perché, in definitiva, Benedetti

non è un astronomo”93.

Certamente, il veneziano fu tra i primi a mettere in discussione il tentativo di

Copernico di conservare un universo aristotelico intorno ad una Terra in movimento, e

lo fece cercando di legare in modo più stretto possibile astronomia e fisica.

Per Platone, solo un universo finito può essere perfetto. Per Aristotele,

l’universo, uno e finito, poggia sulla fisica dei luoghi naturali, dei moti naturali,

dell’unicità del primo motore.

Parlare di universo infinito, significò scardinare questi concetti, creare,

insomma, un’astronomia nuova, basata su una fisica nuova.

Parlare di un unico spazio infinito, senza destra e sinistra, alto e basso, nel quale

galleggiano i pianeti-figure-geometriche, significava proporre con forza la matematica

di Euclide (e di Archimede) per la spiegazione dei fenomeni naturali.

In questo paragrafo abbiamo parlato del modo di far scienza degli avversari

dello studioso veneto, nonché della sua abilità ad attaccare, su tutti i fronti, la fisica

tradizionale. Prima di affrontare l’oggetto principe di questa tesi (la meccanica

benedettina) gustiamoci, quale aperitivo, due o tre teorie del Nostro, a proposito dei

problemi che il Bordiga definisce di fisica terrestre.

Iniziamo questo rapidissimo excursus dalla teoria del Benedetti secondo la quale

la scintillazione delle stelle è dovuta alla diversità del movimento dei corpi trasparenti

interposti tra i nostri occhi e le stelle stesse. Sempre prendendo le distanze da Aristotele,

il veneziano affermò pure che il calore del sole non è dovuto al suo movimento

(altrimenti, a stagione diversa corrisponderebbe un uguale calore), che il suono senza

93 M. Di Bono. L’astronomia copernicana.. Cit. pag. 297

Page 52: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

vibrazione non si propaga (niente mezzo, niente suono), che la causa del vento è

conseguente alla varia distribuzione del calore.

Ultima chicca, la confutazione della teoria peripatetica secondo la quale,

attraverso il vuoto (sempre lui!) non passi la luce: anche qui, il Benedetti combatté

l’horror vacui, affermando che “la luce tanto più trova ostacolo nell’attraversare un

corpo, quanto più questo è denso”.

Speriamo che l’originalità e l’acutezza delle soluzioni presentate siano riuscite a

preparare il palato alla degustazione delle ben più delicate portate della Statica e della

Dinamica del ‘500.

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CAP. 4 - LA MECCANICA NEL XVI SECOLO

A questo punto dovrebbe ormai esser chiaro che il XVI secolo fu teatro dello

scontro tra due diversi modi di rapportarsi, scientificamente, con la natura. Ad un

sistema generale tanto elaborato da poter credere di non aver più bisogno del supporto

delle verifiche empiriche, si contrapposero dapprima delle teorie isolate, quindi perdenti

(nei confronti della cultura ufficiale).

Il riconoscere quale fosse l’elemento comune di queste teorie fu il merito degli

scienziati vissuti a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo.

Espletando questo compito, ci si rese conto di essere di fronte a due Meccaniche,

a due diverse interpretazioni dei fatti naturali.

Ovviamente, l’influenza del vecchio sistema, del vecchio approccio alla natura,

si fece sentire ancora per molti anni, impedendo di fatto l’abbattimento di certi

pregiudizi: non dispiaciamoci, dunque, di trovarne traccia nello stesso Galileo.

E’ in quest’ottica che più che definire Benedetti scienziato del suo tempo,

indicandole i limiti, pensiamo sia più giusto parlare di Benedetti forgiatore della scienza

moderna, evidenziando, quindi, i progressi che si sono potuti compiere a partire dalla

sua opera.

Riconoscere questa sua funzione non è cosa da poco. La Meccanica del XVI

secolo è ad una svolta: uno dopo l’altro vengono ad essere creati i capisaldi della Statica

e della Dinamica moderna.

Saranno l’Arsenale o l’assetto idrografico di Venezia, le nuove soluzioni

architettoniche o gli artificieri del ‘600, a misurarne la validità.

Non si può iniziare a parlare di Meccanica senza darne una seppur sommaria

definizione. Il Dizionario critico di filosofia del Lalande, citando il Traitè de Mecanique

rationelle di Appell, alla voce Meccanica, così esplicita: “Teoria matematica di ciò che,

nell’azione delle macchine, può essere posto sotto forma ipotetico-deduttiva”. Questa

definizione sembrerebbe castrare tutta la Meccanica peripatetica. Non è questa

Page 54: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

comunque la sede per stabilire se le teorie aristoteliche potessero o no fregiarsi del titolo

Meccanica.

Più tranquillo il seguito della definizione: “in particolare si chiama Meccanica

razionale la scienza teorica dei movimenti, ridotta alla considerazione delle masse, delle

forze e delle relazioni … da Ampère in poi, divisa in

• Cinematica: studio delle proprietà geometriche dei movimenti nel loro

rapporto col tempo, senza l’intervento delle nozioni di massa e di forza,

• Statica: studio delle forze nello stato di equilibrio,

• Dinamica: studio dei movimenti in rapporto alle forze.

Se la Cinematica ebbe i natali nel secolo dei Lumi (anche se, ovviamente, di

approcci cinematica a problemi meccanici si può parlare anche a riguardo della scienza

antica), è alla Statica ed alla Dinamica che bisogna volgere lo sguardo.

4.1 Cenni sulla Statica pre-benedettina.

La prima considerazione che vogliamo proporre è che, per quel che riguarda la

Statica del XVI secolo, la definizione del Lalande sia ancora insufficiente.

Giuseppe Creazza afferma, infatti, che “nel ‘500 non esiste una Statica tutta

perimetrata in se stessa, esistono piuttosto una Meccanica teorica, che si occupa di

equilibri e movimenti, ed una Meccanica tecnica e tecnologica, che si occupa

dell’oggetto costruito”94; anche a questa seconda Meccanica è stato dato il nome di

Statica.

Bisogna quindi distinguere: Benedetti fu, anche per il Creazza, teorico puro e

non è, quindi, alla Meccanica tecnica e tecnologica che ci rivolgiamo. Concordiamo,

comunque, con l’autore del saggio suddetto, nel considerare quest’ultima disciplina di

pari dignità scientifica della Meccanica teorica, non foss’altro per le influenze

vicendevolmente esercitate (della Meccanica degli ingegneri si è già parlato). 94 G. Creazza. Lettura critica degli aspetti statici nella trattatistica veneziana del ‘500. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit. p. 342.

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Si è già parlato anche delle cause e dei perché il XVI secolo ripropose con forza

lo studio della Statica e della Dinamica.

Una seconda considerazione da farsi, perdonate la banalità, è la seguente: la

Statica non nasce col Benedetti. Al di là dei grandi pensatori del passato, nel ‘500 era

presente una seppur limitata trattatistica e, cosa alquanto rimarchevole, essa era

espressione anche di diverse scuole di pensiero.

Di notevole importanza, e almeno prime per età, le Quaestiones mechanicae, o

Mechanica, attribuite nel Medio Evo ad Aristotele, più recentemente a Stratone; esse

furono riportate al centro dell’attenzione della scienza, dalle traduzioni del Vettor

Fausto (1517), del Tomeo (1525) e del Piccolomini (1530).

Per dare una misura della loro influenza, basti citare Marie Boas, la quale

afferma che esse furono più importanti di Archimede. In esse è presente “la prima

discussione teorica della teoria delle macchine semplici e comprende un approccio

dinamico grazie al quale tutti i casi di quiete venivano trattati in analogia all’equilibrio

delle bilance”95. In esse si riducevano tutte le macchine semplici alla leva (piano

inclinato, verricello, cuneo, puleggia; la vite comparirà con Erone), della quale si dà, in

forma qualitativa, una prima enunciazione della sua legge, importante perché “contiene

una prima applicazione del principio delle velocità virtuali o del lavoro virtuale a un

problema di Statica”96.

La Mechanica, pur se imprecisa, non matematizzata, empirica ed intuitiva nel

metodo, rappresentò l’origine dell’approccio dinamico ai problemi di Statica ed

influenzò profondamente gli studi medioevali.

Accanto a questa tradizione, si sviluppò quello che Dijksterhuis chiama “il

metodo assiomatico di Archimede”97.

Questi, diversamente dallo Pseudo Aristotele, si era interessato unicamente della

quiete ed aveva considerato la Statica come un capitolo della matematica, rivolgendo la

95 M. Boas. Il Rinascimento scientifico… Cit. p. 178. 96 M. Clagett. La scienza della Meccanica nel Medio Evo. Subito dopo, Clagett dà la definizione che il Bernoulli diede di velocità virtuale: elementi di V che ogni corpo guadagna o perde, rispetto ad una V già acquisita, in un tempo infinitamente piccolo, secondo la sua direzione. 97 E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo.. Cit. pag, 328.

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propria attenzione alla trattazione esatta delle grandezze”98, dando vita a quel rigido

approccio statico fatto proprio nel Medio Evo, per esempio, da Guidobaldo del Monte e

dallo Stevino.

Oltre ad introdurre il centro di gravità, Archimede offrì “una dimostrazione

matematica deduttiva della legge della leva, che influenzò certamente la Statica della

tarda antichità, Islam compreso, e condusse alla generale accettazione, da parte dei

meccanici medioevali, della necessità delle dimostrazioni matematiche nella

Meccanica”99.

Sempre il Clagett ci informa dell’esistenza di altri testi di una certa importanza:

il Libro sulla bilancia, dello Pseudo Euclide, del quale esiste una sola traduzione

dall’arabo e che impiega il metodo statico-matematico, l’ellenistico De Canonio,

l’arabo Liber karastonis.

In ogni caso, furono le traduzioni del XII e XIII secolo a ridare slancio agli studi

di Statica.

Spicca in questo periodo la figura di Giordano Nemorario, del quale, in verità,

sappiamo ben poco. Vissuto a metà del XIII secolo, gli vengono attribuiti tre trattati di

Statica: Elementa jordani de ponderibus (Elementa), quasi sicuramente suo, il Liber de

ponderibus e il Liber de ratione ponderis (è questo il famoso de Ponderibus) attribuibili

con ogni probabilità, alla sua scuola100.

Rifacentesi, come tipo di approccio alla pseudo aristotelica Mechanica, la supera

in arguzia: parla di gravitas secundum situm, scompone le forze, approfondisce lo

studio dei piani inclinati, afferma che “qualcosa che sia capace di sollevare un dato peso

per una data distanza è anche in grado di spostare n volte il peso per la ennesima parte

di quella distanza” (assioma di Giordano).

Sempre del 1200 è il De insidentibus in humidum, attribuito ad Archimede,

derivante, in effetti, da antiche fonti latine ed arabe: la grande importanza di questo testo

98 M. Boas. Il Rinascimento scientifico… Cit. p. 179. 99 M. Clagett. La scienza della Meccanica… Cit. p. 31. 100 C. Vasoli, in Scienza e tecnica nell’occidente cristiano.. Cit. p. 571, afferma che tale scuola, che prese il nome di Scuola de ponderibus, fu formata “non da maestri ma da tecnici preoccupati di risolvere l’equilibrio dei pesi.. anche se è già presente il tentativo di offrire un’esauriente dimostrazione geometrica”.

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è dovuta al fatto che, per la prima volta, in esso si cita il Peso specifico, anzi, per

l’esattezza, la Gravità in specie, cioè il peso rapportato al volume dato.

I due diversi approcci ai problemi statici non convissero a lungo nell’antichità:

Archimede ed il suo metodo caddero nell’oblio (più il metodo, che Archimede) e solo le

traduzioni tardo medioevali e rinascimentali ne riportarono alla luce il valore. Di esse

beneficiò soprattutto Galileo, il quale “si accorse che i due metodi potevano essere

combinati”101, facilitato forse dal fatto che le due impostazioni furono già

precedentemente confrontate da Tartaglia.

Avvicinandosi a Benedetti ed alla sua epoca, concludiamo dicendo che la Statica

(Scientia de ponderibus) comprendeva, nel ‘500,

• il principio della leva, contenuto nelle Quaestiones mechanicae,

• la trattazione assiomatica della dottrina della leva e del centro di gravità,

contenuti nei trattati di Archimede,

• la teoria delle macchine semplici di Erone.

Come si nota anche dall’elenco dei problemi affrontati dagli scienziati, “il

principio intuitivo e la dottrina assiomatica convivono, cosicché in tale prospettiva si era

mosso Leonardo ma continuavano a muoversi sia Tartaglia che Benedetti..”, forse

aiutati dalla constatazione che “la meccanica occupa aristotelicamente una posizione

intermedia tra la matematica e la fisica, intesa come filosofia della natura, per la sua

facilità di evitare i metodi esclusivamente empirici, grazie alla sua facile idealizzazione,

ma contemporaneamente, di fare immediato riferimento alla concretezza della realtà

empirica”102. Ci si ricollega qui al già affrontato discorso sul metodo, al quale vogliamo

portare un ulteriore contributo: la traduzione ed il commento della Mechanica del

Piccolomini e la riscoperta del Commento di Proco agli Elementi di Euclide diedero

adito, insieme ad altri testi, ad una accesa discussione sulla efficacia conoscitiva del

101 M. Boas, Il Rinascimento scientifico; 1450-1630. p.182. Di parere lievemente diverso il Clagett: “benché grandissimo ammiratore di Archimede, deve molto all’approccio dinamico” (La scienza della meccanica nel Medio Evo.. Cit. p. 123.) 102 P. Ventrice: intervento, in qualità di Presidente del Comitato organizzatore, alle Celebrazioni del Liceo Scientifico Giovan Battista Benedetti. In Giovan Battista Benedetti; spunti di storia delle scienze.. Cit. p. 28.

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procedimento matematico, confrontato, ovviamente, col procedimento logico della

scuola aristotelica.

Questo dibattito “ha come principale riferimento il concetto di scienza mista e,

nel suo ambito, l’attenzione è rivolta soprattutto ad Astronomia e Meccanica .. su

quest’ultima si delinea una discussione comprendente l’indagine sulla scienza

dell’equilibrio e del movimento … l’opera del Benedetti nasce e si intreccia con queste

polemiche e ne interpreta, in alcuni casi, alcuni esiti in maniera fortemente

innovativa”103.

4.2 La Statica di Benedetti.

Prima di addentrarci nei meandri del pensiero statico benedettino, diamo cenno

delle opere che il veneziano ha dedicato a questo argomento. Esse sono: il trattato De

mechanicis (inserito nel Diversarum) che, ad eccezione di tre capitoli, è dedicato alla

ricerca di solide basi per i principi della Statica, nonché all’esame dei risultati presentati

sia dalla scuola De ponderibus, sia dalle Quaestiones, la prima parte delle Demonstratio

e le epistole De ratione extensionis funis, De aumento ponderis corporis ad stateram

appensi e Considerationes nonnullae in Archimedem, tutte inserite nel Diversarum.

Detto questo, passiamo ad analizzare la produzione scientifica di Benedetti,

riservandoci, in ultimo, di spendere due parole sulla metodologia e sulle influenze,

subite o indotte, del suo pensiero.

Argomento principe nello studio della statica del XVI secolo fu il concetto di

momento: si trattava di capire perché uno stesso peso potesse esercitare maggiore o

minore gravità.

“In Benedetti, la parola momentum non figura mai, anche se, paradossalmente,

sembra riconoscere in lui il primo che non solo avvertì l’importanza del momento

(statico) ma ne dette definizione generale e rigorosa giustificazione”104.

103 Ibidem. pag. 30. 104 E. Benvenuto. La Statica nell’opera di Giovan Battista Benedetti. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit. p. 334

Page 59: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Benedetti usa un altro termine, precisamente gravitas, della quale afferma, si

possono avere variazioni a parità di pondus (peso).

Necessita, a questo punto, una breve pausa di riflessione, stimolata da Mario

Otto Helbing, il quale, dopo aver notato come le opere del Benedetti siano concise,

brevissime e ricche di Matematicae demonstrationes (soprattutto se paragonate alle

Philosophicae garrulationes di altri suoi contemporanei), analizza i termini tecnici usati

dal nostro studioso105.

Helbing afferma che, per Benedetti, pondus sia il peso misurato sulla bilancia,

equivalente, nella Resolutio e nelle due Demonstratio a gravitas.

Nelle Disputationes (e quindi nel Diversarum, che le contiene) specifica meglio:

parla di pondus totale, pondus medio in aere e in aqua. Il peso totale è, quindi, il peso di

un corpo che prescinde dalle spinte idrostatiche. Compare, pure, il termine Totalis

gravitas.

E’ il Diversarum che, come è giusto che sia per l’opera più matura, presenta

l’uso più appropriato dei termini tecnici. Ciò vale anche per Densitas (prima definita

tramite Rarus e Densus) a proposito del Peso specifico, e per Resistentia106.

“Queste osservazioni .. indicano assai chiaramente come nelle Disputationes

[Benedetti] abbia cercato di togliere alcune ambiguità nella espressione di concetti di

origine archimedea e si sia sforzato di elaborare personalmente un nuovo concetto di

resistenza”107, aiutato in questo anche dal clima culturale dell’epoca, che vedeva gli

stessi aristotelici coinvolti in questa operazione di pulizia semantica.

Possiamo tornare ora, più consci delle problematiche cinquecentesche, al

concetto di momento.

Ecco, in proposito, il pensiero del Benedetti:

105 M.O. Helbing. I problemi De Motu tra meccanica e filosofia nel ‘500; Giovan Battista Benedetti e

Buonamici. In Cultura, scienza e tecnica.. Cit. 106 A proposito di Resistentia, è da notare il fatto che il passaggio dalla definizione giovanile (Resistentia identificata con la spinta idrostatica) a quella matura (non più proporzionale al volume, come nella spinta idrostatica, ma proporzionale alla sezione (superficie) del corpo) avvenga tra la prima e la seconda edizione della Demonstratio: M.O. Helbing. I problemi De Motu.. Cit. p. 162. 107 Ibidem. p. 162.

Page 60: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

FB è un braccio di una leva, fisso in

B. BD è l’altro. In F vi è un peso. Questi

incontra ostacolo o resistenza alla potenziale

discesa per la verticale FUM, perché questa

provocherebbe l’accorciamento del braccio

FB.

“Benedetti abbandona subito l’analisi

del moto attuale o virtuale, che aveva

caratterizzato le formulazioni medioevali della Gravitas secundum situm, per

trasformarla in un corrispettivo statico: la Pressione, cioè, che il peso in F esercita sul

sostegno B mediante il braccio FB (o la trazione corrispondente al caso del peso posto

in E)108.

Siamo quindi di fronte al mutuo contrasto tra peso e pressione, quindi tutto

ricondotto ad una partizione del peso. Quantitativamente si tratta di calcolare la forza

che posta in D equilibra la forza posta in F, cioè che i pesi posti rispettivamente in F ed

in D sono inversamente proporzionali a BD e UB, secondo la Legge di Archimede per

le leve rettilinee.

“A tal fine, Benedetti introduce un principio di solidificazione (l’equilibrio di un

sistema non è turbato se l’invariabile distanza tra due suoi due punti è ulteriormente

garantita da una linea rigida che li colleghi) e ribadisce l’ipotesi che uno stesso peso

possa essere liberamente traslato lungo una verticale (ad esempio mediante un filo non

pesante) senza che l’equilibrio ne risenta” 109.

Diversamente dal Benvenuto (e dalla storia della scienza contemporanea), il

Caverni afferma che in questo caso Benedetti “non fa che dare autorità ai teoremi del

Cardano e di Leonardo da Vinci”110: subito dopo, però, continua dicendo “Nessuno, che

108 E. Benvenuto. La Statica nell’opera di Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 334. 109 Ibidem. p. 335. 110 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. III (degli Equiponderanti). p. 183.

Page 61: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

io sappia, aveva risposto a quell’altro quesito: come sia, cioè, da computare il Momento,

quando le forze non agiscano in direzione perpendicolare ma obliqua”111.

Benedetti vi riuscì, ricorrendo di nuovo al principio dei moti composti “quando

però quel modo di risolvere un moto in due non era tra i Meccanici in uso, il determinar

con matematica certezza quanto, dal tirare obliquo, rimetta del suo intero valore una

forza.. Benedetti insegna ora a computar, dovunque ella sia diretta, la intensità che

rimane alla forza e dice debere deprehendi a perpendicularibus, quae a centro librae ad

lineas inclinationis exiliunt”112.

La soluzione proposta dal Benedetti è la seguente:

AC : AE = OA : OH

(visto che I triangoli

AEC e OHA sono

simili)

Caverni conclude affermando che “si trovano dunque tra gli insegnamenti del

Benedetti le regole più sicure per computare i Momenti, e veniva, così, a rendersi

possibile il promuovere o il correggere i falli de’ teoremi più antichi”113.

Concludiamo la parte della nostra tesi legata al concetto di Momento in

Benedetti con qualche ultima considerazione.

Bordiga, subito aver proposto la soluzione del quesito sopra esposto, afferma che

Duhem (oltre che Caverni) ritiene le teorie del Benedetti derivate da Guidobaldo del

Monte e da Leonardo, visto che Giovan Battista benedetti segue Leonardo anche negli

errori (scomposizione di una forza secondo due direzioni).

Dopo aver affermato che l’errore rimproverato dal Duhem non è attribuibile al

Benedetti (“Non ci pare che il N. abbia creduto di risolvere in generale il problema del

111 Ibidem. p. 183. 112 Ibidem. pagg. 183-4 113 Ibidem. p. 184

Page 62: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

parallelogramma delle forze”) e che, anche per Ernesto Mach, Leonardo è stato il primo

a riconoscere il momento statico, chiude il capitolo dedicato alla Meccanica del

veneziano dicendo che “Benedetti, però, svolgendo la teoria della leva in alcuni capitoli

… considera altresì il caso della leva curvilinea e per tal modo dà al problema carattere

più generale”114.

Visto che stiamo analizzando le posizioni dell’avvocato del diavolo, andiamo

ancora avanti, sino a citare il Clagett, il quale afferma che “Giordano e Tartaglia

avevano supposto che la direzione della forza esercitata dai pesi nelle bilance fosse ad

angoli retti rispetto al giogo e che le due lineae inclinationis fossero parallele, mentre

Benedetti supponeva [erroneamente] che, inclinando esse al centro del mondo, non

potessero essere parallele”115; per fortuna, conclude, nella riga successiva, affermando

che questa fu una critica priva di alcuna importanza di fatto.

Torneremo successivamente su alcuni di questi appunti. Vogliamo ora

brevemente accennare ad un’altra acuta osservazione, di carattere idrostatico, del dotto

veneziano: se si vuol far salire l’acqua in un tubo – scrive Benedetti nell’epistola De

macina quae aquam impellit e sublevat, del Diversarum - non è necessario che il

diametro di questo venga eguagliato da quello in cui deve correre lo stantuffo che

spinge l’acqua.

E’ un’anticipazione, molto valida, del paradosso idrostatico che contribuì a

rendere famoso, vent’anni dopo il Nostro, Simone Stevino.

Stiamo ancora gustando questa novità che subito rispunta, sempre più

indesiderato, il Duhem. Lo cita Bordiga: “Il Duhem … scrive che Benedetti formula per

la pompa la stessa legge che aveva formulato Leonardo, non deducendola però

dall’eguaglianza del lavoro motore al lavoro resistente come aveva fatto il Leonardo …

Benedetti ha sostituito uno stantuffo prima all’acqua dell’uno e poi all’acqua dell’altro

[vaso comunicante]: se avesse posto simultaneamente uno stantuffo in ognuno dei due

corpi di pompa, egli avrebbe inventato il torchio idraulico”116.

114 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 723. 115 M. Clagett. La scienza della Meccanica nel Medio Evo.. Cit. p. 122. 116 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. pagg. 719-720.

Page 63: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Duhem... Duhem e Leonardo… Benedetti? Bravo! Sviluppa molto bene alcuni

spunti del vinciano…

Tutte le volte che abbiamo incontrato Duhem, il discorso, più o meno, si è

incanalato su questi binari.

Duhem innamorato di Leonardo? O siamo invece noi che, a forza di studiare

Benedetti, ci siamo infatuati di lui e siamo, di conseguenza, desiderosi di porre la sua

opera nel paradiso dell’originalità?

Facciamo giusto in tempo a rileggere alcuni passi della Premessa (a questo

punto, opportuni), che subito ci ricordiamo di alcune critiche delle quali lo stesso

Duhem è stato fatto oggetto: altro che Leonardo! Il francese, forse proprio perché

francese, esalta sì Leonardo, ma lo fa solo perché vede in lui il continuatore degli Studi

parigini. Se poi Benedetti segue Leonardo, e se Galileo segue Benedetti, se ne deve

dedurre che la Rivoluzione scientifica fu preparata, stimolata, precorsa, dagli Studi

parigini.

Cosa ancor più strana è che Duhem elogi il fiammingo De beghinselen der

weeghconst del Simon Stevin (del 1856, posteriore quindi al Diversarum) con delle

parole che si potrebbero applicare benissimo anche al Benedetti. Fatte salve le

differenze esistenti tra i due scienziati rinascimentali, “resta il comune intento

fondamentale di erigere la scienza della Statica per via strettamente geometrica,

evitando qualsiasi riferimento al moto … la ricerca di Benedetti è volta alla causa

proxima et per sé, che spiega e dimostra ogni aspetto … per giungere a tale meta,

anch’egli, come Stevin, articola la Statica secondo l’ordinamento di un complesso e

sottile sistema deduttivo”117.

Due pesi, due misure. Il Duhem sbaglia doppiamente: sbaglia perché “se nei

mediocri, alcuni pensieri sono semplici derivazioni da altri, nel Benedetti … il pensiero

usciva invece rielaborato da lui”118, ma sbaglia soprattutto perché Benedetti non

conobbe le opere di Leonardo, se mai le conobbe, almeno sino al 1587 (due anni dopo

117 E. Benvenuto. La Statica nell’opera di Giovan Battista Benedetti... Cit. p. 333 118 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 720.

Page 64: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

la pubblicazione del Diversarum) per il semplice motivo che le opere del vinciano

rimasero, fino a quella data, obliate a Vario, in casa di Francesco Melzi.

Sventata così una velata accusa di plagio, e riportato Benedetti ad essere figlio

della scienza del suo tempo - scienza che progrediva fra mille difficoltà, visto che sino

al ‘500 molte scoperte ed osservazioni perirono assieme agli scopritori, lasciando ai

successori il compito di ripartire quasi da zero - guardiamo agli influssi che il veneziano

esercitò sui posteri.

Quando si parla, come in questo caso, di posteri, si tende a dividere, in genere, il

resto del mondo da Galileo.

Per ciò che concerne il resto del mondo è da rimarcare il fatto che Benedetti non

fu conosciuto all’estero tramite la propria produzione scientifica ma tramite il plagio che

di essa diede il Taisner, che nel 1562 pubblicò, all’interno di una miscellanea, la

Demonstratio119.

Nonostante che nel successivo De gnomonum (1574) Benedetti denunciasse con

veemenza il plagio in una lettera Ad lectorem, non abbiamo trovato traccia del

riconoscimento della sua opera da parte di studiosi a lui contemporanei (fa eccezione il

Marsenne).

Il silenzio che circondò il Nostro non venne rotto neppure da Galileo, il quale,

nelle sue opere, non nominò mai il Benedetti. Sembra quasi che, al di là dei Principi

sabaudi, tutti tendano a fargli il vuoto attorno.

Eppure Galileo doveva per forza conoscere Benedetti. Prova ne è il fatto che il

toscano fosse legato da stretta amicizia con Paolo Sarpi, visto come colui che “niuno

avanza in Europa di cognizione delle scienze matematiche” e che il Sarpi, oltre ad aver

letto le opere di Giovan Battista Benedetti, ne citò dei passi “e ci pare che tra le meditate

obbiezioni egli faccia sentir la propria riverenza verso la dottrina del nostro

matematico”120.

119 G. Taisner. De natura magnetis, et eius effectibus. Item de moto continuo. Demonstratio proportionum motuum localium, contra Aristotelem e alios philosophos. Come si vede, il Taisner (che plagiò anche l’Epistola di Pietro Pellegrino sul magnetismo) non si prese neppure la briga di cambiare il titolo dell’opera del Benedetti. 120 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 733.

Page 65: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Altre autorevoli personalità, care o vicine a Galileo, che riverirono il Benedetti,

furono Marsenne, Giacomo Mazzoni (maestro di Galileo a Pisa) ed il Clavio. E’ perciò

chiaro che Galileo tacque di proposito. Difficile darne ragione: forse l’avvertire le

differenze di metodo scientifico, forse i diversi ambienti nei quali maturarono i nostri

due studiosi (ricordiamoci che Venezia non perdonò la fuga di Benedetti), forse una più

umana voglia di emergere, consigliarono a Galileo il silenzio.

Preferiamo concludere immaginandoci una scena ben diversa e, per fa ciò,

diamo di nuovo spazio alla prosa del Caverni: “le porte della verità, rimaste dai

peripatetici insegnamenti per lunghi secoli imprunate, una volta rese così facilmente

sgombre dovevano condurre il Benedetti a consegnare di propria mano allo stesso

Galileo la chiave, da entrare addirittura ne’ più riposti vestiboli del tempio”121.

4.3 Conatus ed impetus.

Passiamo ora ad analizzare l’eredità dinamica alla quale Benedetti attinse ed alla

quale portò consistenti correzioni.

A differenza della Statica, la Dinamica antica e medioevale avevano avuto già

un discreto sviluppo: ne consegue che il substrato culturale del giovane Benedetti, pur

richiamandosi filosoficamente soprattutto ad Aristotele ed a Platone, differì

sostanzialmente dall’insegnamento classico.

I capisaldi della fisica aristotelica sono già stati illustrati: vediamo ora di

approfondire la Dinamica peripatetica.

Soprattutto per quel che concerne il moto, la fisica dello stagirita è debitrice di

quella platonica: la perfezione del moto circolare, contrapposta alla violenza o

limitatezza del moto rettilineo sublunare, ne è esempio.

Proprio questa divisione costrinse Aristotele ad offrire due spiegazioni diverse a

giustificazione del movimento. Il moto naturale era giustificato dalla teoria dei luoghi

121 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. I (della scienza del moto nel secolo XVI). p. 97

Page 66: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

naturali (e quindi degli elementi), integrata in seguito dal conatus, vero e proprio

principio attivo insito nella materia.

Questa teoria, fortemente permeata di elementi filosofici, era sufficientemente

conforme alla esperienza comune e, per queste ragioni, non fu messa in discussione per

molti secoli. Per poterla confutare, si dovette attendere l’abbandono delle idee di peso e

leggerezza assoluta e l’avvento, stimolato dall’idrodinamica di Archimede, del Peso

specifico e della relatività del movimento.

Vi è un altro errore nella teoria del conatus: quello derivante dal calcolo della

velocità dei corpi in caduta libera. La teoria afferma, filosoficamente, che un corpo

accelera, durante la propria caduta, proprio perché più pressante è il desiderio, il

conatus, che il corpo prova nel riunirsi al proprio luogo naturale.

Questa accelerazione non fu, comunque intesa, presa in considerazione. Più

propriamente, di accelerazione proprio non si parlò per diversi secoli, forse in ossequio

ad Aristotele, visto che lo stagirita “nonostante il suo riconoscimento che i moti naturali

fossero accelerati, li considerò uniformi o, al più, di media velocità”122.

Ma veniamo al dunque: la teoria peripatetica affermava che la velocità di caduta

era proporzionale al peso ed inversamente proporzionale alla densità del mezzo.

Vi era, sì, una certa dicotomia con l’esperienza sensibile (due pesi, uno il doppio

dell’altro, non cadono in un tempo l’uno il doppio dell’altro) ma questa non era tanto

pressante da far mettere in discussione tutto l’edificio della Dinamica aristotelica.

Questo soprattutto perché, slegata da necessità pratiche, la teoria, per essere confutata,

poteva esser solo posta al vaglio dell’esperimento, ma ancora troppo lontani si era dal

pensar una tal evenienza (convenienza).

In ogni caso i nodi della Dinamica dei luoghi naturali vennero al pettine nello

stesso momento che furono posti in discussione i capisaldi delle teorie inerenti il moto

violento e, sia nel primo che nel secondo caso, determinante fu il contributo di

Benedetti.

122 E. Grant. La scienza nel Medio Evo… Cit. p. 48.

Page 67: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Se in Aristotele la spiegazione del moto di caduta dei corpi fu abbastanza

imprecisa, forse proprio perché di moto naturale si trattava, la spiegazione dei moti

violenti fu più puntuale e meditata, anche se, per ciò, non meno erronea: ogni

movimento presuppone un motore; l’azione a distanza è bandita dal peripato, alla

stregua del movimento, casuale e non finalizzato, dell’atomismo democriteo.

“Mentre un corpo viene lanciato, il projector è, in un primo momento, ancora in

contatto col corpo stesso e così è esso stesso a funzionare da motor conjunctus”123: fino

a questo punto non sussistono problemi. Questi intervengono quando il projectum non è

più a contatto col projector.

Aristotele afferma che (per usare espressioni figurate) l’aria adiacente al proietto

venga messa in movimento dalla mano stessa che ha scagliato il fatidico sasso; questo

processo comprende anche un trasferimento di una certa virtus movens dal motore al

mezzo che circonda il proiettile “e questo strato, nel momento successivo, ripete

l’azione … così in ogni punto del cammino il projectum trova il motor conjunctus

richiesto per il mantenimento del moto”124. La perdita di potenza motrice, che avviene

ad ogni passaggio, fa si che, ad un certo punto, il mezzo non acquisti più la virtus

movens e che, infine, il proietto si muova di moto puramente naturale (il moto non può

essere, tassativamente, misto!).

Le preoccupazioni che sorsero non sono solo di ordine fisico ma anche di ordine

interpretativo, tanto che non si capì bene cosa lo stesso Aristotele intendesse affermare

con questa teoria.

Per un certo periodo di tempo, gli interpreti moderni cedettero ad un movimento

avvolgente del mezzo che è attraversato dal proiettile: l’aria (mezzo per eccellenza in

Aristotele) si richiude dietro all’oggetto in movimento, sospingendolo in avanti

(ulteriore motivo per negare la possibilità del moto nel vuoto).

Questa antiperistasis, Aristotele la derivò da Empedocle, “il quale la adottò nel

tentativo di render ragione del moto nel pieno parmenideo”125. Sempre dalla stessa fonte

123 E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo…Cit. p. 41. 124 Ibidem. p. 41. 125 M.B. Hesse. Forze e campi; il concetto di azione a distanza nella storia della fisica.

Page 68: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

veniamo a conoscenza del fatto che in Aristotele antiperistasis assunse due significati,

uno di reciproca sostituzione, uno di reciproca repulsione o compressione.

Contro questo modo di interpretare il moto violento si pronuncia anche il

Dijksterhuis, il quale, testualmente, afferma: “questa complicata teoria è stata spesso

intesa nel senso che il projector mette in moto il mezzo, e questo poi trasporta con sé il

projectum in modo accidentale … Aristotele, però, respinge questa interpretazione non

meno energicamente della spiegazione – già nota ai suoi tempi – che ricorreva alla

teoria dell’antiperistasis; secondo questa teoria, l’aria che costringe il projectum ad

andare avanti si precipita nel vuoto lasciato dal suo movimento e così lo spinge avanti

ulteriormente”126.

In ogni caso, la spiegazione offerta non è esente da critiche, anzi. E’ abbastanza

immediata la considerazione, dettata dal senso comune, dell’improbabilità che un corpo

pesante, magari scagliato contro vento, sia da questi aiutato nel proprio movimento.

La critica unanime afferma che Aristotele, quando parlava di movimento, inteso

come spostamento, immaginasse un carro trainato da un cavallo: tanta forza, tanta

velocità; cavallo staccato dal carro, niente movimento.

Partendo da questi presupposti è ben difficile costruire una Dinamica.

A tentar di correggere questa impostazione ci provò, nel VI secolo, Giovanni

Filopono, ideatore della teoria della dynamis, il medioevale impetus.

Rigettando ambedue le teorie aristoteliche o pseudoaristoteliche (mezzo che

trasmette tout court la vis movens del motore ed antiperistasis), Filopono parla di una

forza che viene traslata dal motore all’oggetto lanciato, che è causa della continuazione

del moto e che, al pari del calore presente in un corpo riscaldato, scema nel tempo.

Questa teoria portava in seno profondi mutamenti filosofici: sostituendo la teoria

di Aristotele senza rompere i quadri generali della sua concezione fisica del moto,

attribuiva alla materia, per la prima volta, una vera proprietà fisica; non intaccava la

cosmologia peripatetica ma rendeva inutile (per il moto celeste) le divinità: “apriva la

126 E.J. Dijksterhuis. Il meccanicismo…Cit. p. 42.

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strada ad una trattazione quasi matematica dei fenomeni fisici e sbloccava la situazione

stagnante in cui si trovava la Dinamica qualitativa di Aristotele”127.

Nonostante ciò, la teoria dell’impetus non ebbe un travolgente successo (è

curioso il fatto che non sia citata nella Margarita philosophica del Reish, summa del

sapere tecnico-scientifico del XV secolo).

Fondamentale, però, è l’influenza che ebbe su Avicenna.

Questi presentò addirittura cinque teorie dinamiche (due identiche a quelle

classiche), delle quali mostrò di preferire quella detta del mail, molto simile a quella

dell’impetus: “il moto dei proiettili continua in seguito alla presenza nel mobile di una

inclinazione trasferita nel proietto dalla forza del proiciente originario”128.

Il mail può essere psichico, naturale o violento e diversifica la propria azione a

seconda del peso del corpo a cui viene comunicato.

Per Avicenna, il mail non si esauriva mai del tutto e, inoltre, un corpo poteva

essere soggetto ad un sol mail per volta. Poco dopo, Al Barakat sarà più moderno,

ammettendone più di uno, contemporaneamente.

In ogni modo, l’impetus-mail non negava la distinzione tra moto violento e

naturale e neppure la tesi aristotelica che occorra sempre una causa per spiegare un

moto (anche se, da esterna, la causa diviene interna al proietto): “il movimento continuò

ad essere visto come cambiamento e non come stato”129.

Oltre alla maggior possibilità di stimolare quantificazioni, l’impetus offrì

comunque altri vantaggi: “ammette il moto uniforme anche lungo una retta e fornisce

una vaga idea di accelerazione”130, soprattutto se messo in relazione ad un corpo che

cade di moto naturale. Non scordiamo, infine, che, se l’impetus è collegato al moto

eterno dei pianeti, può anche suggerire l’idea della legge d’inerzia.

Il primo occidentale ad aderire completamente alla teoria, fu Francesco di

Marchia, che le impose il nome di Vis derelicta. Bisogna comunque spostarci in

127 A. Carugo. La nuova scienza… Cit. p. 95. 128 M. Clagett. La scienza della Meccanica… Cit. p. 538. 129 A. Carugo. La nuova scienza… Cit. p. 103. 130 Ibidem. p. 96.

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Inghilterra ed in Francia, nel ‘300, per trovare la base degli ulteriori sviluppi della

Dinamica medioevale.

Fu il terremoto nominalista a scuotere la fisica peripatetica. Le teorie di

Guglielmo d’Ockham ebbero lo stesso effetto di un sasso scagliato nello stagno. A torto

o a ragione, il maestro inglese affermò che l’unica scienza certa e valida è quella che ha

per oggetto la realtà concreta degli individui, rivalutando di conseguenza, l’esperienza.

“Non solo: Ockham, mentre riconosceva la validità della scienza logica, risolta

in un sistema di segni e simboli, ne limitava, di fatto, l’efficacia all’ambito esclusivo del

discorso umano, separando la struttura analitica dei procedimenti discorsivi dalla

complessa ed indefinibile molteplicità del mondo fisico”131.

Terrificanti, per la fisica aristotelica, le conseguenze: “tutto il sistema di cause

necessarie che costituisce la struttura metafisica del cosmo peripatetico è implicitamente

negato … ed in suo luogo si delinea un’immagine di un universo costituito da individui

singoli e particolari … gli stessi concetti di potenza, atto, materia, forma, specie ed

anche di tempo, spazio, moto e mutamento, vengono trasformati … Ockham riduce

anche la struttura temporale degli eventi fisici ad una serie di status, ognuno dei quali si

sostituisce, con moto continuo, a quello che lo precede … rendendo possibile, specie

nell’ambiente inglese, dominato da un fortissimo interesse per la scienza matematica,

l’applicazione di categorie matematiche alla determinazione delle diverse fasi dei

fenomeni”132.

Rimaniamo, dunque, in Inghilterra, per cercare di individuare gli sviluppi

fecondi che l’occamismo ebbe nella matematica di Oxford e, ancor più precisamente,

nel Merton College.

Il primo dotto che incontriamo è Tommaso Bradwardine, contemporaneo di

Ockham che, proprio col proposito di dare una rigorosa struttura matematica a tutte le

forme del sapere, “fu indotto ad accettare alcune ipotesi ed esigenze fondamentali

131 C. Vasoli, in Scienza e tecnica nell’occidente cristiano.. Cit. p. 572 132 Ibidem. p. 572-3.

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espresse dalle dottrine occamiste e, quindi, a considerare i processi di mutamento, di

accrescimento e diminuzione, come suscettibili di un preciso calcolo matematico”133.

Ma il Merton College non fu solo Bradwardine: rimarchevole è l’opera dei vari

Heytesbury, Swinhead, Dumbleton.

Enormi furono i progressi che la Dinamica compì grazie agli oxoniensi del XIV

secolo. Per prima cosa, si chiarì la distinzione tra Dinamica e Cinematica (cioè la

distinzione tra cause ed effetti spazio-temporali); da ciò discese un nuovo approccio allo

studio delle velocità, che diede come esito la definizione di Moto uniformemente

accelerato (moto in cui incrementi uguali di velocità sono acquisiti in intervalli di

tempo uguali), nonché la legge cinematica dell’uguaglianza, rispetto allo spazio

percorso in un tempo dato, di un moto uniformemente accelerato e di un moto uniforme,

considerando la velocità media dell’accelerato-

Heytesbury parlò addirittura di una velocità istantanea, la quale, sempre usando

termini moderni, sarebbe “lo spazio percorso in un tempo dato se un punto in

movimento si muovesse di moto uniforme col grado di velocità con cui si muove

nell’istante assegnato”134, mentre Bradwardine arrivò a distinguere tra una velocità

qualitativa (velocità istantanea o intensiva) ed una velocità quantitativa (velocità totale

per un tempo, in rapporto ad uno spazio).

Pensiamo che non sia il caso di aggiungere altro: dovrebbero bastare questi

pochi passi per evidenziare l’importanza degli studi mertoniani a proposito della

Dinamica medioevale e rinascimentale.

Un’unica, ultima, precisazione, tendente a ricollocare l’opera del College

oxoniense nel suo humus storico-culturale: “i filosofi del Merton applicarono alle

variazioni qualitative … vari metodi e regole numeriche … ma tutto questo non fu

fondato [basato] su una ricerca empirica”135.

I Calculatores del Merton College si mantennero all’interno di una teoria

filosofica “dove gli aspetti matematizzabili sono in sottordine ad un generale

orientamento che privilegia la qualità … la matematica, infatti, che è presente solo come 133 Ibidem. p. 575. 134 M. Clagett. La scienza della Meccanica… Cit. p. 241. 135 Ibidem. p. 236.

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strumento per descrivere una serie di casi, anche nella più favorevole eventualità di un

riscontro di essi con i fenomeni della realtà, rimane sempre esterna al comportamento

della natura stessa”136, visto che la maggior parte dei loro sforzi furono dedicati al

problema dell’Intensio sive remissivo qualitatum, ossia dell’accrescersi o del diminuire

quantitativo di una determinata qualità, in rapporto ad una scala fissa.

Il rischio di sopravvalutare gli sviluppi, innegabili ed importanti, della Dinamica

medioevale, si corre anche con l’analizzare l’opera degli studiosi parigini del XIV – XV

secolo.

La figura che spicca, per prima, tra i Parisienses fu quella dell’Oresme,

conoscitore di Euclide ma anche dell’opera di Bradwardine.

Oresme è soprattutto ricordato per il calcolo geometrico della Latitudine (o

variazione) delle forme. Posti di fronte ad una di queste figure, immediato è il paragone

con le Coordinate cartesiane, delle quali le latitudini sembrano essere strettissime

parenti. Queste rappresentazioni intuitive, che graficamente davano sulla linea di

longitudo l’ampiezza spaziale di una qualità e su una linea ad essa perpendicolare,

l’ordinata, l’intensità di quella data qualità nei singoli punti, “… non erano, però,

ottenute mediante la curva dei punti individuati, bensì da una figura quadrangolare … il

che spiega perché il sistema escogitato dall’Oresme fosse ancora lontano dalla

funzionalità delle Coordinate cartesiane”137.

Ciononostante, Oresme, grazie alla sua Latitudo, provò geometricamente la

Regola mertoniana (lo spazio percorso da un mobile che si muove di moto

uniformemente accelerato in un tempo determinato, è uguale allo spazio percorso da un

mobile che nello stesso tempo si muove di velocità uguale a quella raggiunta dal primo

mobile nel suo percorso medio).

Oresme fu allievo di Buridano, primo, a Parigi, a parlare di Impetus e

promulgatore della teoria secondo la quale, nell’accelerazione in caduta libera, la

velocità acquisita è rappresentata dall’impetus, mentre la gravità produce, in modo

costante, nuovo impeto.

136 C. Maccagni. GB Benedetti filosofo della natura... Cit. p. 89. 137 C. Vasoli, in Scienza e tecnica nell’occidente cristiano.. Cit. p. 578.

Page 73: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Sempre scolaro di Buridano fu Alberto di Sassonia, il quale fece prosperare gli

studi parigini in terra tedesca: sviluppando il pensiero del suo maestro, distinse nei corpi

il centro di grandezza dal centro di gravità; “… cercò pure di definire la velocità di

caduta di un grave, ponendo un rapporto di proporzione diretta tra la velocità ed il

tempo di caduta di un grave … anche se poi concluse che la velocità di caduta è

proporzionale agli spazi percorsi”138.

“In questi sviluppi erano però impliciti altri problemi … anche se la regola

mertoniana forniva un metodo per trattare il moto accelerato, essa non fu applicata al

moto dei gravi prima del ‘500, perché nessuno osava supporre che i corpi in caduta

libera fossero uniformemente accelerati. E quegli stessi matematici che discutevano

l’intensione e la remissione di qualità come la velocità, non la collegavano direttamente

all’impetus”139.

Nonostante tutto questo, i metodi dei Calculatores di Oxford e dei Terministi

parigini si diffusero rapidamente per tutta Europa e, soprattutto, nelle Università

italiane.

Prima di passare al ‘500 ed alla Dinamica italiana, è doveroso spendere alcune

parole sullo spagnolo Domingo de Soto.

Se già al Merton College vi fu una correzione dell’assioma aristotelico, secondo

il quale ad una forza costante, impressa su un mobile, corrisponde una velocità costante,

e si fece corrispondere a quella stessa forza costante un uniforme aumento di velocità,

con Domingo de Soto si iniziò a definire il moto uniformemente difforme (accelerato),

come proporzionale al tempo, arrivando a dire che a forza costante corrisponde

un’accelerazione costante.

Lo spagnolo affermò che “tale specie di moto era propria dei corpi in caduta

libera e dei proietti … non sottopose però a dimostrazione queste proporzioni, né indicò

una formula che mettesse in relazione tempo, velocità, distanza”140.

Anche se è vero che il de Soto fosse ancora lontano da una vera Cinematica, e

che “le sue proposizioni erano pur sempre ricavate in modo dubbio dal concetto di 138 Ibidem. p. 579. 139 M. Boas, Il Rinascimento scientifico. p.186. 140 A. Rupert Hall. La rivoluzione scientifica.. Cit. p. 87.

Page 74: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

impetus”141, la sua opera sta lì a dimostrare che il cerchio si stava per chiudere: abbiamo

quasi tutti gli elementi utili per la costruzione di una nuova Dinamica. A colmare le

lacune ci pensarono Tartaglia e Benedetti; a stimolare la ricerca, ci penserà la nascita di

una nuova scienza; a raccogliere i frutti provvederà Galileo.

Proprio mentre Nifo, agli albori del XVI secolo, concentrava i suoi sforzi nella

conciliazione tra Aristotele e la teoria dell’impetus, dando l’avvio a quel processo di

assimilazione di questa teoria da parte della cultura ufficiale universitaria (la si fece

risalire addirittura allo stesso Aristotele), ai Tecnici, questa stessa interpretazione

appariva sempre più inesatta.

Il motivo della contesa era chiaro: il rinnovarsi della cultura ufficiale arrivava

comunque in ritardo. Esso era soppiantato dal nascere di una nuova scienza (applicata):

la Balistica.

Come nel caso della Statica, con la Balistica apparve sempre più chiara

l’impossibilità della filosofia di cercare sotterfugi, scappatoie che le evitassero il

confronto con la realtà.

Alberto di Sassonia aveva concepito la traiettoria di un proiettile come la somma

di tre forze distinte e giammai sovrapponibili negli effetti: l’impeto, la resistenza

dell’aria e la gravità del proiettile.

“L’impossibilità teorica di combinare queste forze induceva Alberto a

scomporre la traiettoria in tre parti: curvilinea, rettilinea e verticale (quando la gravità

finiva per prevalere sia sulla resistenza che sull’impeto)”142.

I manuali degli artiglieri riportarono, per almeno due secoli, questa tripartizione

del moto di un proietto. Ciò non vietò, comunque, né allo svizzero Ryff, né al nostro

Leonardo, di disegnare scene di guerra nelle quali la traiettoria dei proiettili fosse, se

non proprio parabolica, certamente non tripartita.

Fu Tartaglia ad approfondire questi argomenti, tanto da essere considerato il

Padre della Balistica, alla quale dedicò pure un libro (la Nova scientia, del 1537), “ove

141 Ibidem. p. 87. 142 A. Carugo. Tartaglia, Benedetti, Galileo e le origini della dinamica moderna. In Giovan Battista Benedetti… Cit. p. 63.

Page 75: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

egli per primo sottoponeva ad una trattazione teorica di carattere matematico-

geometrico, una tecnica, un’arte rimasta fino allora empirica … la trattazione ha

innanzitutto uno sviluppo assiomatico geometrico (di tipo euclideo), che muove dalla

enunciazione di definizioni, supposizioni (ossia assiomi) ed opinioni comuni, e da esse

deduce le proposizioni della nuova scienza”143.

Non soffermandosi sulle definizioni filosofiche, “Tartaglia opera una astrazione

semplificatrice della realtà empirica … comincia qui ad affiorare la tendenza del mobile

mentalmente concepito di Galileo”144.

La base di partenza di Tartaglia fu di pretto stampo aristotelico. Tipica è la

tripartizione del moto delle sue opere giovanili, anche se, già da allora, rifiutava il

ragionamento filosofico-matematico degli aristotelici, per prediligere quello logico-

matematico.

Fu con la maturità, sancita dall’opera Quesiti et inventioni diverse del 1546, che

sviluppò le teorie esposte nella Nova scientia. Di quell’opera venne completamente

abbandonata non solo la tripartizione del moto violento, con la conseguente accettazione

dell’esperienza sensibile la quale non scorge discontinuità nella traiettoria di una palla

di cannone, ma viene pure messa in discussione la stessa esperienza dei sensi, debole,

imprecisa, con l’affermazione che un proiettile nel momento stesso in cui esce dalla

canna di una colubrina, non compie nessun movimento in linea retta, subendo da subito

l’influenza del suo peso.

“Questo riconoscimento costituiva il primo passo verso il principio della

composizione dei movimenti e della reciproca assoluta indipendenza dei loro effetti”145.

Fu l’effettivo atto di nascita della Balistica. Quella che sino a quel momento non

era stata che un’arte empirica, fu sottoposta a trattamento teorico. Caddero così

credenze secolari: oltre a scoprire che la traiettoria dei proietti non è mai rettilinea,

Tartaglia intuì pure che non si poteva parlare di aumento iniziale di velocità dei corpi

scagliati (come invece era universalmente ritenuto vero).

143 Ibidem. p. 65. 144 Ibidem. pag. 65. 145 Ibidem. pag. 69.

Page 76: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Fu in questo preciso contesto culturale che si svilupparono gli studi dinamici del

Benedetti. A questi ultimi non resta altro che far riferimento.

Page 77: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

4.4 Verso la legge d’inerzia: i contributi dinamici di Giovan Battista Benedetti.

Tartaglia, forse inconsapevolmente, segnò la fine della teoria dell’impetus.

Applicare quest’ultima allo studio della Balistica, scienza applicata e, perciò, bisognosa

di conferme empiriche, significò porne in primo piano i limiti, dimostrarne la falsità.

Si era all’inizio di una svolta decisiva per la storia della scienza, Il processo che

portò dalla teoria dell’impetus-mail alla legge d’inerzia non fu, però né breve, né

indolore.

Abbiamo più volte sottolineato che la Dinamica aristotelica era uno dei pilastri

del pensiero naturalistico peripatetico. Inoltre, proprio in quanto peripatetica, la teoria

dell’impetus in se stessa era una teoria prettamente filosofica e, perciò, difficilmente

confutabile.

Tra Tartaglia e la legge d’inerzia nella sua esatta formulazione ci fu più di un

secolo di interregno, popolato da un numero considerevole di grandi ingegni.

Se Tartaglia fu quello che più di altri individuò l’edificio da abbattere, se Galileo

fu quello che lo ricostruì, se Newton fu quello che, arredandolo, lo rese definitivamente

vivibile, Benedetti può essere considerato il demolitore del vecchio edificio.

A chi lamentasse l’incapacità del Nostro veneziano di andare oltre, di progettare

la futura teoria egemone, possiamo rispondere che questo fu consono sia al suo

carattere, sia all’epoca nella quale visse, sia al metodo di indagine che perseguiva.

Consono al carattere perché, si è già detto, Benedetti limitava la sua opera ad

un’azione demolitrice dell’autorità aristotelica, precludendosi quasi ogni esito

(filosofico) positivo del suo pensiero.

Consono alla sua epoca, perché chi avesse voluto combattere la teoria

dell’impetus non poteva, nel XVI secolo, far altro che attaccare quei pochi rapporti tra

grandezze (qualche rarissima quantificazione) che Aristotele aveva offerto ai posteri,

tralasciando l’aspetto prettamente filosofico della teoria.

Page 78: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Consono al suo metodo, perché Benedetti, a differenza di Galileo, rivendicava

alla matematica il titolo di Filosofia Prima, ed in questo senso era psicologicamente

invogliato a porre in secondo piano l’aspetto filosofico (in questo caso, la ragione, il

perché, che, ovviamente, non è ma matematizzabile). Agli occhi del veneziano, che

comunque colloca la sua opera all’interno del mondo dell’impetus, poca differenza vi

sarebbe stata tra impetus e gravità, ambedue qualificabili quali forze occulte: questo ci

suggerisce che, più che dare credito alle teorie di Duhem e vedere tutto in chiave

parigina, si potrebbe fare un riferimento ad Ockham ed al suo rasoio.

E’ in questo senso che l’opera di Benedetti “rappresenta un notevole tentativo di

rinnovamento della filosofia naturale, in quanto ha il raro pregio di essere condotto

secondo metodi e schemi inconsueti, ponendosi all’esterno del sistema filosofico

generale, di cui discute alcuni aspetti particolari. Ciò è specialmente significativo perché

la filosofia naturale compie una vera svolta solo quando rifiuta il sistema a cui era

sempre stata appoggiata e di cui veniva in sostanza ad essere parte, per tentare la propria

autonomia, cercando altrove (nella matematica, in Archimede, in Euclide, in Apollonio)

i propri modelli, le ragioni e le garanzie della propria validità: e allora diventa

modernamente scienza”146.

Entriamo nei particolari.

La contestazione principale è indirizzata alla teoria aristotelica secondo la quale

la velocità di un corpo in caduta libera è direttamente proporzionale al peso del corpo

stesso ed inversamente proporzionale alla densità del mezzo (V proporzionale a F/R; ne

consegue che se R = 0, cioè se il mezzo è il vuoto, V impossibile).

Benedetti non fu il primo a constatare l’inadeguatezza di tale teoria. Già

Filopono, affermando la possibilità del movimento nel vuoto, disse che la velocità è

proporzionale alla forza meno la resistenza.

Bradwardine cercò di conciliare le due posizioni, affermando che la proporzione

delle velocità dei moti segue la proporzione della potenza del motore alla potenza

mossa; il che, tradotto in termini moderni (dal Clagett) significa V = loga (F/R).

146 C. Maccagni. Le speculazioni giovanili <De Motu> di Giovan Battista Benedetti. Pag. VII.

Page 79: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

Questa formula ebbe il pregio di stabilire le condizioni di equilibrio (V = 0) in

caso di F ed R equivalenti (se F/R = 1, loga 1 = 0), eliminando così un macroscopico

errore di Aristotele: F/R è sempre un valore positivo, ne consegue che un corpo è

sempre in movimento, pure se infinitesimale, anche se R fosse molto maggiore di F).

Ovviamente, la formula non fu sottoposta a verifiche.

Con Benedetti, cambia completamente il tipo di approccio: il corpo che cade è

visto immerso in un mezzo (Archimede insegna).

Rispolverando Filopono, Benedetti parla di differenza tra Peso specifico del

mobile e Peso specifico dell’ambiente in cui avviene il moto. Se la differenza sarà nulla,

nullo sarà il moto, “e corpi aventi il medesimo Peso specifico si muoveranno con la

stessa velocità, indipendentemente dalle loro dimensioni, purché siano della stessa

forma, per evitare il verificarsi di differenti resistenze alla penetrazione del mezzo”147.

Molte ed importanti le conseguenze. Tra queste, la constatazione che “due corpi

della medesima forma e della stessa specie, tra loro uguali o diseguali, per l’eguale

spazio, nello stesso mezzo, si muovono in egual tempo” è provata tramite esperimento

mentale, ripetuto in modo analogo da Galileo, a prova del fatto che due corpi si

muovono, nel vuoto, con pari velocità: due corpi uguali son visti prima cadere affiancati

e, successivamente, collegati tramite un filo imponderabile, che dei due pesi ne fa uno

solo, con il risultato che noi, oggi, conosciamo.

Benedetti è quindi il primo a parlare di Peso specifico anche se, attenzione, non

di Peso specifico assoluto si tratta (il moderno peso di un corpo rapportato al suo

volume, in riferimento al Peso specifico dell’acqua) ma di un Peso specifico relativo

(riferito al Peso specifico del mezzo, in assenza di ogni riferimento al Ps dell’acqua).

Ne deriva che, se la velocità è proporzionale al Ps relativo, nel vuoto, oggetti di

uguale Ps ma di diverso Peso assoluto, cadono con la stessa velocità.

Questa stessa interpretazione dei Pesi specifici relativi ci permette di affermare

che, concettualmente, Benedetti superi Archimede, per il quale il mezzo aveva

solamente una funzione attiva di galleggiamento, mentre in Benedetti possiede pure una

147 Ibidem. p. XXXIII.

Page 80: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

funzione passiva, di resistenza al moto: “la densità o la rarefazione: ecco quali sono le

proprietà assolute dei corpi. Il peso, cioè la pesantezza e la leggerezza non sono che

delle risultanti”148.

Tutti i corpi sono pesanti, tutti hanno un peso: si aprono le porte della

quantificazione; si estende l’uso dell’idrostatica.

La velocità dei gravi è indipendente dal loro peso: “la prima enunciazione di

questa legge fondamentale spetta incontestabilmente al Benedetti, ed è importante

notare come le ragioni che egli adduce per provarla coincidano perfettamente con quelle

dalle quali Galileo, un quarto di secolo più tardi, asserì esser stato condotto alla stessa

scoperta”149.

Sempre nella Resolutio, Benedetti sostiene “la necessità che qualsiasi

movimento, se non avviene secondo la verticale, sia misto di moto naturale e

violento”150 e questo solo sedici anni dopo che il suo Maestro aveva sostenuto, nella

Nova scientia, l’esatto contrario.

Benedetti aveva allora 23 anni.

Più si va avanti, più ci si dirige verso il cuore del problema: “Il Benedetti

conosceva l’accelerazione dei corpi nella loro caduta … per lui l’accelerazione di un

corpo è dovuta all’aggiungersi via via degli impulsi successivi che esso riceve dal

proprio movente”151. Ciò equivale a dire che l’impetus è soggetto a crescita costante ma,

soprattutto, è dire che l’impetus acquisito si mantiene, si conserva. “Questo tipo di

ragionamento presenta molte analogie con l’idea basilare della Dinamica moderna,

secondo la quale l’azione di una forza costante ha come risultato un movimento

uniformemente variabile. In esso è possibile intravedere una prima intuizione del

principio d’inerzia”152.

148 A. Koyrè. Studi galileiani.. Cit. p. 50. 149 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 703. 150 C. Maccagni. Le speculazioni giovanili <De Motu> di Giovan Battista Benedetti. Pag. XXXIII. 151 G. Bordiga. Giovan Battista Benedetti.. Cit. p. 705. 152 A. Carugo. Tartaglia, Benedetti, Galileo e le origini della dinamica moderna… Cit. p. 71.

Page 81: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

“Aristotele, dunque, non doveva dire che, quanto più si avvicina il corpo al

termine ad quem, ma piuttosto che, quanto più si dilunga dal termine a quo, tanto più

cadendo si fa veloce”153.

E’ comunque chiaro che, pur se ne siamo ai margini, siamo all’interno della

fisica peripatetica. Quando Benedetti si allontana dalle quantificazioni, ecco che la sua

lucidità corre seri pericoli. E’ il caso della pagina 285 del suo Diversarum: in essa si

afferma che una delle capacità dell’impeto è quella di contrastare le altre qualità

naturali: ne deriva, per Benedetti, che l’impeto impresso ad un oggetto rende lo stesso

più leggero.

Un altro limite filosofico di Benedetti derivò dal suo modo di intendere lo

spazio. Se, rispetto a Tartaglia, Benedetti fece notevoli passi in avanti verso la

costruzione dello spazio geometrico, ciononostante, siamo ancora in presenza di uno

spazio non ancora omogeneo: “esistono ancora delle direzioni privilegiate, il basso,

l’alto … il suo spazio è archimedeo o, più esattamente, epicureo”154.

Questo non cancella i meriti di Benedetti, i quali non si esauriscono certo nelle

poche righe sinora menzionate. Tra questi meriti, riveste una certa importanza

l’osservazione per la quale non esiste una quies media nel passaggio da un tipo di moto

ad un altro (per esempio, scagliato un sasso verso l’alto, tra il moto ascendente,

violento, e quello discendente, naturale).

Questo assunto può esser stato suggerito dall’osservazione del moto biella-

manovella, ma Benedetti si impegnò a mostrare, nel Diversarum, come tale teoria sia

giustificabile in chiave prettamente geometrica, precludendosi, cioè, contrariamente a

Galileo, il ricorso ai sensi: “è in effetti sufficiente stabilire una corrispondenza fra il

moto di un puntino su una circonferenza e quello di un punto su un segmento rettilineo.

E’ del resto la situazione che si verifica allorché l’orbita di un pianeta si proietta sul

nostro orizzonte, mostrando di seguire una traiettoria rettilinea, nella quale il moto è

153 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. V (delle libere cadute dei gravi). p. 293. 154 A. Koyrè. Studi galileiani.. Cit. p. 90.

Page 82: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

però soggetto ad inversione: ossia si verifica il fenomeno della cosiddetta

retrogradazione”155.

Maggiormente intrisa di significati filosofici è invece l’affermazione che un

corpo messo in grado di raggiungere il centro del mondo, ivi non arresterebbe la sua

corsa, ma proseguirebbe allontanandosi da esso. Nello stesso momento si ripete che un

moto tende a mantenersi, anche quando cessa la forza che lo produce, e si tratta la teoria

dei luoghi naturali in modo più prossimo a Newton che ad Aristotele.

La Dinamica benedettina è soprattutto nota, però, per un altro motivo.

Affrontiamolo ripartendo dall’intuizione secondo la quale la velocità che un corpo ha

acquistato resta anche se cessa la causa. Questo concetto è spiegato a chiare lettere

nell’epistola a Gian Paolo Capra, sulla ruota del pozzo: “… quando questo corpo si

muove di moto naturale, la sua velocità andrà sempre aumentando, perché in esso

l’impeto e l’impressione sempre aumenteranno, possedendo sempre la virtù movente.

Onde se si toglie la mano che ha dato movimento alla ruota, questa non si ferma subito

ma continua a girare per un certo tempo”156.

Subito dopo, Benedetti ci offre un’altra prova del suo impegno: “… qualsiasi

corpo, mosso naturalmente o violentemente, sempre tende a muoversi per via rettilinea;

il che possiamo verificare lanciando una pietra con la fionda, come si fa col girare del

braccio; le funi tanto più peseranno alla mano, quanto più veloce sarà il movimento; il

che è dovuto alla tendenza naturale del corpo di procedere in via retta”157.

Oltre ad offrire una presa d’atto dell’esistenza della moderna energia centrifuga,

questo passo è molto importante perché in esso Benedetti, per primo, affermò che

l’impeto impresso ad un corpo, muove lo stesso in linea retta, non distinguendo più,

com’era in uso all’epoca, tra impeti rotatori e rettilinei. Fu quindi una gustosa

anticipazione della rettilineità del moto inerziale: “già questa affermazione giustifica

l’assegnazione a Benedetti di un posto nella storia del principio d’inerzia della

meccanica classica”158.

155 L. Olivieri. Giovan Battista Benedetti e la crisi dell’aristotelismo... Cit. p. 124 156 G.B. Benedetti. Diversarum.. p. 286. 157 Ibidem. p. 286. 158 E.J. Dijksterhuis: Il meccanicismo.. Cit. p. 358.

Page 83: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

L’esempio della fune non è l’unico presentato dallo scienziato veneziano: in un

altro esperimento mentale, Benedetti parla di una trottola posta in movimento, rotta in

piccole schegge, le quali, per effetto del movimento precedente e non essendo più

vincolate la movimento rotatorio, partono in linea retta, tangente alla trottola stessa.

“Di qui si vede che il Benedetti aveva fatto un notevolissimo progresso … ma

non perciò era entrato addentro al mistero di queste forze, non penetrabile se non a colui

che avesse saputo decomporre quell’unico moto proiettizio in due: uno che mena il

mobile in giro e l’altro che, nello stesso tempo, lo farebbe rifuggire dal centro”159.

Prima di addentrarci in un’analisi conclusiva dell’opera del Nostro, vogliamo,

però, soffermarci un attimo su due passi, uno del Caverni, uno del Koyrè, che non

trovano riscontro in altre opere.

Caverni, nella Storia del metodo sperimentale in Italia, capitolo I (della scienza

del moto nel secolo XVI), a pagina 97 afferma che, anche se in altri termini, Benedetti

voleva appunto dire che le velocità sono proporzionali ai tempi; Koyrè in Studi

galileiani, a pagina 80 afferma, vagamente, che la constatazione che l’accelerazione

della caduta è la stessa per tutti i corpi è attribuita al Benedetti, insieme

all’affermazione che la velocità di un corpo che cade aumenta proporzionalmente al

tempo.

Queste affermazioni non sono supportate dallo studio di altri storici della

scienza. Vi è, però, una ragione per la quale sono state fatte queste asserzioni, e di essa

si rende conto lo stesso Koyrè quando, poche pagine dopo quella citata, afferma che

“Leonardo, Benedetti e, dopo, Michel Varron non sostengono la proporzionalità della

velocità col tempo impiegato, anche se si ritengono equivalenti le due affermazioni”; di

seguito, rincara la dose: “manca la nozione di velocità istantanea o, in altre parole, la

nozione di flussione o di derivata … era necessario che conoscessero le prime nozioni

del calcolo integrale … è più facile immaginare nello spazio che pensare nel tempo”.

Benedetti non è Galileo. Se anche lo fosse stato, saremo qui ora ad interrogarci

sul perché Tartaglia non fosse arrivato prima di Benedetti a certe conclusioni.

159 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. VIII (dei matematici stranieri). p. 539.

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I concetti di premura e di ritardo sembrano sparire nel contesto della storia della

scienza: Benedetti fu Benedetti, e se non riuscì a trasformare l’impetus e la sua

Meccanica in quella inerziale, se lo concepì come cambiamento e non come stato, come

causa produttrice di movimento e non come effetto (la moderna quantità di moto),

cionondimeno dobbiamo esaltare le sue grandi intuizioni: “la sua concezione del

movimento permette di sopprimere, in teoria se non in pratica, il terminus ad quem … il

mobile sotto l’azione della forza che lo fa muovere, si muove in una certa direzione, non

si dirige verso una certa meta … di conseguenza, il movimento di un mobile è

interamente determinato dal suo stato precedente e per nulla dal suo stato futuro”160.

“Isolò il corpo in movimento dal resto dell’universo”161. Per primo passò,

quindi, da una Dinamica propriamente detta ad una Cinematica, della quale, sempre per

primo, offrì una profonda matematizzazione.

I suoi limiti sono limiti oggettivi, epocali: “pur essendo un risoluto partigiano di

Copernico, non può abbandonare la concezione generale della cosmofisica aristotelica –

con che cosa la sostituirebbe?”162.

Ma la sua epoca fu anche un’epoca di grandi fermenti: da Aristotele alla metà

del 1400 la storia della scienza si misura in secoli; nel 1500, in lustri.

Nel XVI secolo vi fu un’effettiva corrispondenza tra generazione anagrafica

(coorte) e generazione intellettuale (generazione): bastarono 25 anni di quella storia per

passare da Tartaglia a Benedetti, e da Benedetti a Galileo; pochi di più per arrivare a

Newton.

Non vogliamo certo qui contestare una eventuale maggiore acutezza del toscano

nei confronti di Benedetti. Vogliamo solo dire che Benedetti non partì da Benedetti, ma

da Tartaglia, mentre Galileo partì da Benedetti e da Keplero.

E che Galileo partisse da Benedetti è inconfutabile. “Era fra i giovani uditori di

Pisa a que’ tempi, anche Galileo, in cui riconoscendo il Mazzoni una singolare

160 A. Koyrè. Studi galileiani.. Cit. p. 89. 161 Ibidem. p. 88. 162 Ibidem. p. 88.

Page 85: Giovan battista benedetti e la meccanica del 500

attitudine dell’ingegno a penetrare la scienza del moto, raccomandatagli il libro del

Benedetti, e gliene spiegava in privato le speculazioni”163.

Non si può sapere se lo cose andassero effettivamente così, ma sul fatto che

Galileo conoscesse, e bene, Benedetti, non ci possono essere dubbi: “chi dubitasse

ancora se quei primi scritti galileiani De motu siano veramente, come noi li

qualificammo, esercitazioni sopra i libri del Benedetti, può con facilità persuadersene,

rileggendo quel capitolo In quo causa accelerationis motus naturalis in fine, in medio

affertur (Opere, Ediz. Naz. Pagg. 315-323) che è un lungo e luminoso commento delle

parole ultimamente citate dal libro Delle disputationi”164.

Nel De motu, Galileo non supera Benedetti165, ma neppure ne resta indietro: ci

sembra esagerata l’affermazione del Caverni che “secondo la dottrina del Benedetti il

moto accelerato non è altro che lo stesso moto equabile, qui continuo novum impetum

recepit. Or se fosse vero questo supposto, cioè che gli impeti o le velocità crescono

come i tempi, ne conseguirebbe che gli spazi sarebbero proporzionali ai quadrati dei

tempi”166.

Benedetti è Benedetti, Galileo è Galileo. Molto probabilmente esiste realmente

quell’asse Filopono – Avempace – Benedetti – Galileo del quale parla il Clagett, ma ciò

non toglie nulla alla verità del fatto che “l’adozione esasperata della categoria di

continuità, per cui ogni individuo è sempre un precursore o un epigono, ma mai se

stesso”167, toglie respiro ad una serena analisi del cammino della scienza: “E’ vero che

una tradizione ininterrotta ci porta dalle opere dei nominalisti parigini a quelle di

163 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. V (delle libere cadute dei gravi). p. 275. 164 Ibidem. p. 275. 165 Questo succederà, per la Meccanica, nei Discorsi, nei quali viene posta in discussione l’equazione del Benedetti per la quale il rapporto tra le velocità di due corpi è uguale al rapporto tra i rispettivi Pesi specifici relativi (Va/Vb = (a-c)/(b-c), dove a e b sono i Pesi specifici dei due corpi in movimento e c il Peso specifico del mezzo) escludendo “ogni considerazione circa la natura fisica del fenomeno, quale era il principio di Benedetti, ossia esclude ogni considerazione circa la causa della velocità di caduta dei gravi, e si limita alla sola osservazione sperimentale secondo la quale le velocità dei mobili di Peso specifico appaiono sempre più simili quanto più rarefatti o meno resistenti sono i mezzi attraverso i quali i mobili cadono” (A. Carugo. Tartaglia, Benedetti, Galileo… Cit. p. 75.) 166 R. Caverni. Storia del metodo sperimentale in Italia: cap. V (delle libere cadute dei gravi). p. 296. 167 C. Maccagni. Le Scienze: introduzione e coordinamento della sessione. In Cultura, scienze e tecniche … Cit. p. 154.

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Benedetti, Bruno, Galileo, Cartesio … tuttavia … una rivoluzione, per quanto ben

preparata, è pur sempre una rivoluzione”168.

Benedetti non è uno scienziato moderno, però è, forse, l’ultimo scienziato

rinascimentale. E’ ancora un aristotelico. E’ un aristotelico suo malgrado. E’ un

antiaristotelico del XVI secolo ma è un aristotelico in senso lato, e non solo perché

afferma che “ogni filosofo … deve stimare di più dell’autorità o della compiacente

amicizia … la verità … secondo l’esempio di Aristotele (Aristotelis exemplo)169. E’

aristotelico, come mertoniano, come parigino170, come è allievo del Tartaglia. Ma è

soprattutto Benedetti Giovan Battista, patrizio veneto e sabaudo, con le sue intuizioni ed

i suoi limiti, protagonista della rivoluzione scientifica.

168 A. Koyrè. Galileo e Platone. In Le radici del pensiero scientifico. Cit. p. 161. 169 E. Riondato. Giovan Battista Benedetti tra scienza e filosofia… Cit. p. 44. 170 Per inciso, G. Bordiga, nel suo Giovan Battista Benedetti… Cit., offre dieci pagine (da pagina 708 a pagina 717) per confutare le solite tesi del Duhem, circa la derivazione della Dinamica del Benedetti da quella di Buridano, con il tramite di Leonardo.

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LE OPERE

1553 RESOLUTIO omnium euclidis problematum aliorumque ad hoc necessario

inuentorum una tantummodo cercini data apertura.

1554 DEMONSTRATIO proportionum motuum localium contro Aristotelem et

omnes philosophos.

1555 DEMONSTRATIO proportionum motum localium contro Aristotelem et omnes

philosophos [versione riveduta]

1574 DE GNOMONUM umbrarumq. solaris usu liber.

1578 DE TEMPORUM EMENDATIONE opinio.

1579 Consideratione d’intorno al discorso DELLA GRANDEZZA DELLA TERRA

& DELL’ACQUA.

1581 Lettera per modo di discorso all’illustre Sig. Bernardo Trotto. Intorno ad alcune

nuove riprensioni & emendazioni, CONTRA ALLI CALCULATORI DELLE

EFFEMERIDI.

1585 DIVERSARUM speculationum mathematicarum & Phisicarum liber.

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