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III A SCIENTIFICO GIOTTO E LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI RICERCA DI GRUPPO: FUSI GIOVANNI (CAPOGRUPPO) ROCCA GIOELE DE MARCO STEFANO LUCA FALBO

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III A SCIENTIFICO

GIOTTO E LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI

RICERCA DI GRUPPO:

FUSI GIOVANNI (CAPOGRUPPO)

ROCCA GIOELE

DE MARCO STEFANO

LUCA FALBO

Giotto da Bondone, meglio noto semplicemente come Giotto, nasce probabilmente nel 1267, a Colle di Vespignano, presso Vicchio, nel Mugello. Pittore, architetto, scultore, è una delle massime figure dell’arte non solo italiana, ma dell’intero Occidente. E’ ricordato per aver dato un senso del tutto nuovo ai concetti di colore, spazio e volume, “riprendendo” e immortalando i suoi soggetti direttamente dalla realtà, “dal naturale”, come si diceva un tempo. La sua arte segna il passaggio dal Medioevo all’Umanesimo, di cui può ben dirsi il traghettatore, almeno per tutto quanto attiene l’arte figurativa.

Uomo d’affari ed imprenditore, il suo nome è legato alla città di Firenze, di cui diviene nel 1334 “Magistrum et Gubernatorem”, per quanto riguarda i lavori del Duomo e delle parti più importanti della città.

Di famiglia contadina, il suo nome deriverebbe con ogni probabilità da Angiolotto, o al limite da Ambrogiotto, due nomi all’epoca molto usati. Suo padre è Bondone di Angiolino, lavoratore della terra, secondo le cronache dell’epoca. Prendendo per buona la testimonianza di un grande storico dell’arte Giorgio Vasari, l’allora maestro Cimabue l’avrebbe scovato, ragazzino, nel tentativo di disegnare delle pecore, durante una delle sue giornate di lavoro nel campo. In verità, appare ormai certa l’iscrizione del futuro artista nella potente “Arte della lana di Firenze”, dopo l’inurbamento della sua famiglia, di cui si attesta la venuta nella parrocchia di Santa Maria Novella. Ad ogni modo, intorno ai dieci anni, il piccolo Giotto comincia già a frequentare la bottega di Cimabue, dove di lì a poco suo padre finirà per collocarlo in maniera stabile.

Tra il 1285 e il 1288 è molto probabile che l’artista, durante i suoi studi, abbia soggiornato per la prima volta a Roma, forse al seguito del suo maestro Cimabue o, come scrivono alcune cronache, insieme ad Arnolfo di Cambio, altra figura importante di quel tempo. L’influenza di Cimabue è evidente in quelle che sono considerate le prime opere dell’allievo: la “Croce dipinta” di Santa Maria Novella, compiuta tra il 1290 e il 1295, con il volto del Cristo dai lineamenti tardo bizantini, e nella “Madonna col bambino”, conservata a Borgo San Lorenzo e databile anch’essa intorno al 1290. In qusto stesso periodo, Giotto sposa tale Ciuta, da Ricevuta, di Lapo del Pela di Firenze, con data delle nozze probabilmente stabilita nel 1290. Con la donna il pittore avrà otto figli, anche se alcune cronache gliene attribuiscono cinque.

Verso il 1300, dopo alcuni probabili pernottamenti anche ad Assisi, Giotto fa ritorno a Firenze. Realizza nell’arco di un biennio le opere “il polittico di Badia” e la tavola firmata con le “Stigmate di San Francesco”. Frequenti sono i suoi ritorni nella capitale, dove attende i lavori del ciclo papale nella Basilica di San Giovanni in Laterano, oltre ad occuparsi di altre decorazioni, preparando la città ad accogliere il Giubileo del 1300 indetto da Papa Bonifacio VIII. E’ uno dei periodi di massimo splendore e slancio artistico per il pittore toscano. Dal 1303 al 1305 è a Padova, chiamato a realizzare l’affresco della cappella di Enrico Scrovegni. La “chiamata” ricevuta al Nord testimonia la grande considerazione di cui gode a quel tempo l’artista, ormai nettamente superiore al suo maestro Cimabue.

Intorno al 1311 e il 1315, ritornato a Firenze, dipinge una delle opere più importanti della sua carriera di artista: la “Maestà” degli Uffizi, collocata originariamente nella chiesa fiorentina di Ognissanti. L’opera esprime tutta la grande modernità dell’artista, in procinto di stabilire un nuovissimo rapporto con lo spazio, come testimonia la prospettiva del trono. Tra il 1313 e il 1315 cerca di assicurarsi alcuni affari importanti come certi appezzamenti di terreno di un tale ser Grimaldo, di cui si lamenta in alcune lettere, o nominando un procuratore per riavere delle masserizie lasciate nella capitale anni prima, non ancora ritornate all’ovile. Dipinge intanto, probabilmente finendo nel 1322, la Cappella Peruzzi, sita in Santa Croce a Firenze. E’ ormai un uomo ricco che cura con astuzia le proprie finanze e che, nei momenti di assenza dalla sua città, affida al figlio Francesco il compito di gestire gli affari di famiglia, dai poderi alle committenze di lavoro.

Tra il 1322 e il 1328 inoltre realizza il Polittico Stefaneschi alla Pinacoteca Vaticana, il Polittico Baroncelli e l’affresco a secco delle “storie Francescane” della Cappella Bardi, sita in Santa Croce, sempre a Firenze. Il lavoro per Baroncelli rappresenta una vera e propria testimonianza di vita trecentesca ed è una delle sue migliori realizzazioni. Questo per la famigli Bardi, banchieri importanti della città, consta di sette riquadri, incentrati su alcune scene tratte dalla vita di San Francesco. Nello stesso 1328 Giotto si trasferisce nella città di Napoli. Durante questo soggiorno compie diversi studi e lavori, percependo da Roberto D’Angiò una somma di denaro importante, oltre al beneficio dell’esenzione fiscale. Tuttavia, del periodo napoletano non rimane nulla.

Intorno al 1333 Giotto soggiorna anche a Bologna, di ritorno dal Meridione. Nel 1334, a Firenze, dove rientra, le autorità cittadine lo nominano capomastro nell’Opera di Santa Maria del Fiore, oltre che Soprintendente assoluto alle opere del Comune. In pratica, gli viene affidato il Duomo fiorentino, oltre che la costruzione delle mura della città, con uno stipendio di circa cento fiorini l’anno. Il 18 luglio 1334 dà inizio al campanile da lui disegnato, che prenderà il suo nome stesso, per quanto la realizzazione finale non risponderà fedelmente ai suoi voleri iniziali. Il giorno 8 gennaio 1337 Giotto muore a Firenze: viene sepolto con grandi onori in Santa Reparata (Santa Maria del fiore), a spese comunali.

La famiglia padovana degli Scrovegni, che fu una fra le più potenti della città, avrebbe avuto modeste origini. Chi ne fa capostipite un Rinaldo Pota di Scrova, suonatore dapprima, poi usuraio, chi un maniscalco di Brugine, villaggio del Padovano. Nel 1081 figurano ascritti fra i nobili. Nei torbidi anni della dominazione carrarese (1318-1405) furono ora amici ai Signori di Padova, ora acerrimi nemici. Passata Padova sotto i Veneziani, gli Scrovegni fuorusciti rimpatriarono. I documenti li danno a Padova fino al 144; poi gli Scrovegni passarono in Francia dove, verso la metà del sec. XVI, vivevano ancora ricchi e onorati

La famiglia ebbe una rapida ascesa sociale nel medioevo, quando grazie all'attività bancaria e del commercio ottenne ingentissimi guadagni diventando una delle famiglie più ricche della città e del Veneto.

Dante Alighieri la collocò tra gli usurai nell'Inferno (XVII, 64-75),

Lo stemma di famiglia è una scrofa azzurra in campo bianco (lo stemma familiare era infatti "parlante", cioè ricordava il nome della famiglia con quello che rappresentava)

Possiamo osservare come la politica matrimoniale degli S. sia caratterizzata dalla ricerca di casati nobili, per rinvigorire la posizione sociale, e di quelli ricchi, per consolidare la raggiunta potenza economica. A tal fine sono anche mantenuti su un piano amichevole i rapporti col clero.

Ramo principale della famiglia risulta quello derivato da Rinaldo, artefice massimo della fortuna monetaria degli S.: la sua fruttuosa esperienza porta i discendenti a svilupparne

l'attività. Da una serie di documenti dell'archivio della curia di Padova - tutti del 1290 - si sa infatti che Manfredo, Enrico (figli di Rinaldo) e Pietro (figlio del defunto Bellotto, figlio di Rinaldo) svolgono un'attività di prestiti e depositi basata sulla costituzione di un fondo vitalizzato da proprietà solo familiari, in modo che gl'interessi non venissero dispersi

Alcuni hanno indicato in questo personaggio Reginaldo degli Scrovegni, che aveva "strozzato" mezza Padova e la stessa Repubblica di Venezia, il cui figlio Enrico per espiare i peccati del padre, fece costruire e decorare la celebre cappella dell'Arena, capolavoro di Giotto. Enrico fu protettore dello stesso Giotto, dedicando la vita a proteggere le arti e i deboli. Con la sua condotta, tentò di redimere anche il nome del casato; uomo colto, giusto e pio, entrò nel braccio secolare dell'Ordine della Beata Gloriosa Vergine Maria, venendone armato cavaliere.

Il simbolo dell’Ordine, una croce templare a sei punte.

In questo ruolo, lo troviamo più volte citato nelle cronache e negli atti Patavini dell'epoca, in qualità di garante ed intermediario nelle dispute tra le fazioni della sua città. Protesse nella sua casa vedove ed orfani. Come uomo "super partes", teso al mantenimento della pace, fu talmente stimato da essere chiamato a mediare contese anche a Ferrara e Venezia. Fu sepolto a Padova nella Cappella degli Scrovegni.

La Cappella degli Scrovegni (detta anche dell'Arena) si trova nel centro storico di Padova e ospita un celeberrimo ciclo di affreschi di Giotto dei primi del XIV secolo, considerato uno dei capolavori dell'arte occidentale

Intitolata a Santa Maria della Carità, la cappella fu fatta costruire e affrescare tra il 1303 e i primi mesi del 1305 da Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere padovano, a beneficio della sua famiglia e dell'intera popolazione cittadina. Lo Scrovegni, nel febbraio del 1300 aveva acquistato da Manfredo Dalesmanini l'intera area dell'antica arena romana di Padova e vi aveva eretto un sontuoso palazzo, di cui la cappella era l'oratorio privato e il futuro mausoleo familiare. Incaricò di affrescare la cappella il fiorentino Giotto

Giotto dipinse l'intera superficie interna dell'oratorio con un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata competenza, recentemente identificato in Alberto da Padova

La cappella venne dedicata alla "Vergine della Carità", tema caro alla confraternita dei Frati Gaudenti di cui faceva parte Enrico degli Scrovegni: essi infatti si dedicavano a combattere l'usura (Enrico era un banchiere ricchissimo e suo padre, Reginaldo era stato collocato da Dante nell'Inferno proprio tra gli usurai, quindi la grande spesa effettuata per costruire e decorare la cappella permetteva di lavare il peccato di aver accumulato denari con transazioni bancarie, senza la fatica del lavoro); inoltre i Frati erano particolarmente devoti a Maria. L'esterno della cappella si presenta come una costruzione, più volte modificata nel corso dei secoli, con mattoni a vista e tetto a due falde.

La cappella è a navata unica, coperta da volta a botte e con pareti lisce, senza nervature, perfette per la stesura di affreschi; sul lato dell'altare si trova un coretto, affrescato più tardi, verso il 1315-1325, da un giottesco locale.

Giotto stese gli affreschi su tutta la superficie, organizzati in quattro fasce dove sono composti i pannelli con le storie vere e proprie dei personaggi principali divisi da cornici geometriche. La forma asimmetrica della cappella, con sei finestre solo su un lato, determinò il modulo della decorazione: una volta scelto di inserire due riquadri negli spazi tra le finestre, si calcolò poi l'ampiezza delle fasce ornamentali per inserirne altrettanti di eguale misura sull'altra parete.

Il ciclo pittorico, incentrato sul tema della salvezza, comprende più di quaranta scene ed è focalizzato sulle Storie di Cristo e su quelle che lo precedettero (Storie di Gioacchino e Storie di Maria), fino alla Pentecoste. La narrazione si svolge secondo un programma decorativo rigoroso, organizzato su tre registri. Sulla controfacciata si trova poi un grande Giudizio Universale

La lettura prende inizio dalla scena della Cacciata di Gioacchino dal Tempio accanto all'arco trionfale, e prosegue verso l'ingresso con le Storie di Gioacchino e Anna per riprendere sulla parete opposta, in maniera elicoidale, cioè nello stesso senso a girare, con le Storie di Maria fino alla lunetta sopra l'altare dove è raffigurata l'Annunciazione. Scendendo di un livello si trova la Visitazione, conclusione ideale delle storie mariane e inizio delle Storie di Gesù, che si svolgono lungo i due registri centrali. L'ultimo riquadro presenta la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli (Pentecoste). Subito sotto inizia il percorso del registro inferiore, costituito da quattordici Allegorie a monocromo che simboleggiano i Vizi (Stultitia, Inconstantia, Ira, Iniusticia, Infidelitas, Invidia, Desperatio) e le Virtù (quattro cardinali, Prudencia, Fortitudo, Temperantia, Iusticia, e tre teologali, Fides, Karitas, Spes), alternate a specchiature in finto marmo. Il nome del vizio o della virtù è scritto in alto in latino e indica chiaramente che cosa rappresentino queste immagini. Vizi e virtù si fronteggiano a coppia, in modo da simboleggiare il percorso verso la beatitudine, da effettuarsi superando con la cura delle virtù gli ostacoli posti dai vizi corrispondenti.

I vizi capitali.

Le virtù.

La parete Nord della Cappella.

Le scene sono incorniciate con fasce decorative ornate variamente e intervallate da composizioni figurate che rappresentano, in maniera sintetica, episodi dell'Antico Testamento, in parallelo ideale con le scene del Nuovo Testamento nei riquadri principali, o busti di Santi.

Importante è anche lo zoccolo a specchiature marmoree in basso, qui usato per la prima volta, che avrà un grandissimo séguito nei due secoli a venire. Qui si trovano le Virtù e i Vizi a monocromo che pure sono i prototipi di un genere a larghissima diffusione, che va dagli sportelli esterni dei polittici fiamminghi, alle lunette della Camera della Badessa di Correggio.

Chiude il tutto la volta con stelle a otto punte su un cielo blu oltremare, colore simbolo della sapienza divina. Essa è attraversata da tre fasce trasversali che creano due grandi riquadri, al centro dei quali due tondi rappresentano la Madonna col Bambino e il Cristo benedicente; otto Profeti (sette neviìm dell'Antico Testamento e Giovanni Battista) fanno loro corona, quattro per riquadro. Le tre fasce trasversali hanno motivi simili a quelli delle incorniciature della pareti, con inserti che raffigurano Santi e angeli in quella più vicina all'altare, e Santi (probababilmente i precursori di Cristo) nelle altre due.

La tecnica esecutiva degli affreschi registra un uso più marcato degli sfondi nel prezioso blu oltremare (di lapislazzuli), reso probabilmente possibile dalle grandi possibilità economiche del committente, e con un ricorso di ritocchi a tempera.

Rispetto alle Storie di san Francesco, si assiste a un maggiore affinamento dei mezzi espressivi, ad una più forte padronanza della composizione per gli effetti narrativi, dei gesti, della cromia in generale. I preziosi pigmenti che da tutto il bacino del Mediterraneo arrivavano a Venezia furono sicuramente approvvigionati per il lavoro del maestro a Padova: rosa, gialli, arancioni e il costosissimo blu oltremare, che dà un tono intenso agli sfondi dei cieli.

Le figure hanno un volume ancora più reale che ad Assisi, avvolte da ampi mantelli attraverso cui si capisce la modellazione dei corpi sottostanti. La stesura pittorica è più morbida e densa, con un modellato più fuso che dà alle figure un risalto più pieno e meno tagliente. Le figure protagoniste sono sempre maestose e importanti, in un inimitabile equilibrio tra la gravitas della statuaria classica e le eleganze della cultura gotica, con espressioni sempre concentrate e profonde. Più libero è l'approccio alle figure di contorno, vivacissime nelle fisionomie, nei gesti e negli atteggiamenti. Anche le architetture di sfondo, una delle caratteristiche più evidenti di Giotto, non presentano più incertezze e concessioni allo sfondo irreale. Sono chiare e reali, proporzionate con le figure che interagiscono con esse. La tecnica esecutiva degli affreschi registra alcune differenze con quella delle Storie di san Francesco ad Assisi, con uno uso più marcato degli sfondi nel prezioso blu oltremare (di lapislazzuli), reso probabilmente possibile dalle grandi possibilità economiche del committente, e con un maggior ricorso di ritocchi a tempera. Oltre alla storia della Cappella, ciò che la rende speciale è l’affresco del Giudizio Universale di Giotto, databile intorno al 1306 e che occupa l’intera parete di fondo. Giotto cercò di unificare in un'unica scena l'intera rappresentazione del Giudizio, del Paradiso e dell'Inferno, abolendo le suddivisioni e coinvolgendo tutte le figure in un unico spazio.

Al centro campeggia entro una mandorla iridata retta da angeli un grande Cristo giudice che domina un unico grande scenario, non più diviso rigidamente in fasce parallele come nei lavori bizantini. Nell'aureola di Cristo sono stati scoperti nell'ultimo restauro inserti con specchietti. Cristo non siede su un vero e proprio trono, ma su una sorta di nube iridata, sotto la quale si trovano alcune rappresentazioni simboliche, già interpretate come i simboli degli evangelisti. Uno studio più approfondito recente vi ha invece giustamente riconosciuto qualcosa di più complesso: vi si vedono un angelo, un uomo con testa leonina, un centauro, simbolo secondo i bestiari medievali della doppia natura di Cristo, umana e divina, e un orso con un pesce (forse un luccio), simbolo della pesca delle anime oppure, al contrario, del sacrificio di Cristo (il pesce) per redimere la bestialità della razza umana. Gesù rappresenta il fulcro dell'intera scena, che genera l'inferno con la sinistra dell'aura e rivolge lo sguardo e la mano destra agli eletti. Verso di lui (o contro di lui nel caso dei dannati) tendono a orientarsi tutti i nuclei delle figure. Tutto di lui è aperto verso gli eletti, alla sua destra: lo sguardo, la piaga, il costato, mentre la sinistra è chiusa sui reprobi dell'inferno. Intorno alla mandorla stanno i serafini. In trono, a semicerchio intorno a Gesù ci sono i dodici apostoli. Alla destra di Cristo: Pietro, Giacomo, Giovanni, Filippo, Simone e Tommaso. Alla sua sinistra: Matteo, Andrea, Bartolomeo, Giacomo minore, Giuda Taddeo e Mattia.

In alto si trovano nove affollate schiere angeliche, divise in due gruppi simmetrici e in file che scalano in profondità. Ai lati della mandorla angeli suonano le trombe dell'Apocalisse risvegliando i morti, che si levano dai crepacci della terra in basso a sinistra. Poco oltre si trova la rappresentazione di Enrico degli Scrovegni e di un altro personaggio (forse il canonico e arciprete del Duomo di Padova Altegrado de' Cattanei) che offrono un modello della cappella a Maria accompagnata da san Giovanni e santa Caterina d'Alessandria. Maria è mediatrice tra la fragilità umana e la misericordiosa giustizia divina. La forma dell'edificio è fedele a quella esistente. La fisionomia di Enrico è giovanile e riproduce fedelmente le fattezze che, invecchiate, si vedono anche nella sua tomba marmorea presente nella cappella: per questo la rappresentazione di Giotto viene indicata come il primo ritratto dell'arte occidentale post-classico. Nella parte più alta dell'affresco si trovano gli astri del sole e della luna, mossi da due arcangeli che, curiosamente, si affacciano da nubi "staccando" e arrotolando il cielo come se fosse una pesante carta da parati. Essi rivelano dietro di essi le mura dorate e tempestate di gemme della Gerusalemme celeste.

Nelle fasce inferiori, divise dalla croce retta da due angeli, sono messi in scena i paradiso, a sinistra, e l'inferno a destra. Il primo mostra una serie ordinata di angeli, santi e beati (tra cui forse i santi "recenti" come Francesco d'Assisi e Domenico di Guzman), mentre nel secondo i dannati vengono tormentati dai diavoli e avvolti dalle fiamme che si sprigionano dalla mandorla di Cristo. Dalla mandorla sgorgano quattro fiumi infernali che trascinano nell'abisso gruppi di dannati spinti da plumbei demoni. Al caos dell'Inferno, per contrapposizione, a destra stanno gli eletti. Dal basso all'alto si nota una schiera tripartita: anime che escono stupite ed oranti dalla terra; la grande processione degli eletti (clero, popolo, donne e uomini che hanno santificato la loro vita); sopra, guidati da Maria, gli antichi santi dell'Antico Testamento e della Chiesa primitiva.Una tradizione indica nella quarta persona in primo piano nella schiera dei beati, con un berretto bianco in capo, un autoritratto di Giotto.

Giotto, con questo capolavoro, mette tutto sé stesso per adempire allo scopo della Cappella: la Redenzione di Enrico Scrovegni.

L’affresco

GIOTTO: LA VITA DEL MAESTRO – pagine 2,3

LA FAMIGLIA DEGLI SCROVEGNI – pagine 4,5

LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI – pagine 6,7,8,9,10

IL CAPOLAVORO DI GIOTTO – pagine 11,12

www.cappelladegliscrovegni.it

www.wikipedia.it

www.padovanet.it

www.giottoagliscrovegni.it