Giornalismo online: dalla retribuzione alla visibilità

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Thesis about the unpaid work in journalism.

Transcript of Giornalismo online: dalla retribuzione alla visibilità

Università degli Studi RomaTre

Facoltà di Scienze della Comunicazione

Giornalismo Online

dalla retribuzione alla visibilità

Candidato

Emanuele Mastrangeli

Relatore Correlatrice

Prof. Roberto Baldassari Prof.ssa Valentina Cecconi

Anno Accademico 2012/2013

Sessione Invernale

5

Indice

Introduzione 7

1 Breve storia del giornalismo online 15

1.1 La nascita del giornalismo online 15

1.2 Dal sexgate all’11 settembre 2001: l’ascesa 19

1.3 Web 2.0: un nuovo modo di fare giornalismo 27

1.3.1 Come cambia la notizia 33

1.3.2 New journalist 47

1.3.3 La dignità del giornalismo digitale 60

2 Forme e modelli di giornalismo online 67 2.1 Modelli di testate passate sul Web 67

2.2 Modelli di testate nate online 87

2.3 La blogosofera 123

2.4 Microblogging: Twitter e il giornalismo 130

2.5 Citizen Journalism 143

3 Il giornalismo in Italia: la legge e il mondo del lavoro 165

3.1 Essere giornalisti in Italia 165

3.2 Il giornalismo all’estero 196

3.3 Giornalismo e precariato 210

3.4 Gli aspiranti giornalisti e la Rete 227

4 Scrivere online: la ricerca 239

4.1 Qualche centesimo ad articolo: chi offre di meno? 240

4.2 Pagamenti a visualizzazioni e Google AdSense 256

4.3 Vinci un contratto di collaborazione: “il giornalismo del

futuro” secondo Italiano Sveglia 263

4.4 Scrivere gratis: il giornalismo online non retribuito 269

4.4.1 L’analisi del fenomeno: per quali ragioni si scrive

gratis 277

4.4.2 Perché scrivere gratis danneggia la professione e

inquina il mercato 289

4.5 Approfondimento: interviste 297

4.5.1 Carlo Gubitosa 298

4.5.2 Silvia Bencivelli 310

6

4.5.3 Francesco Sellari 320

4.5.4 Valentina Orsini 325

4.5.5 Emanuele De Vito 329

4.5.6 Lorenzo Fusco 332

5 L’estero e la situazione economica e sociale 335

5.1 Who pays writers? Il dibattito fuori dall’Italia 339

5.2 A new economy: cosa è cambiato 356

5.3 The post-employment economy 361

5.3.1 Intervista a Sarah Kendzior 372

Conclusione 379

Bibliografia 389

Sitografia 407

7

Introduzione

Internet è una Repubblica democratica fondata sul lavoro

non retribuito. L’evidente rilettura dell’articolo 1 della

Costituzione italiana1 è la costatazione principale che ha

generato il progetto di questa tesi. La domanda che ne

consegue è limpida nella sua semplicità: perché? E’ intorno a

questo interrogativo che si è sviluppato il lavoro di ricerca,

focalizzando l’analisi sul campo maggiormente caro ad uno

studente di un corso di Laurea come quello di “Informazione,

editoria e giornalismo”. Il giornalismo, per l'appunto. O

quantomeno, dal momento che non sempre è lecito parlare di

giornalismo, la creazione dei contenuti editoriali che

rappresentano il cuore pulsante di ogni sito Web. La conditio

sine qua non di ogni accesso e di conseguenza il mezzo

attraverso cui ottenere guadagni la cui fonte primaria

continua ad essere la pubblicità.

Per cercare di chiarire il proliferare del fenomeno della

mancata retribuzione – o della bassissima retribuzione, come

si vedrà più avanti – dei contenuti editoriali è innanzitutto

necessario delineare le caratteristiche contestuali. La prima

parte di questo lavoro mira quindi a garantire al lettore le

coordinate necessarie per orientarsi poi nella successiva fase

di ricerca, quella che tenta di dare una risposta al quesito

cardine. In primo luogo si traccerà una breve storia del

giornalismo online che mira a ripercorrere alcune tappe

salienti: la nascita negli Stati Uniti, l’arrivo in Italia, le prime

1 “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, art.1

Costituzione della Repubblica Italiana.

8

difficoltà incontrate nell’individuare un modello di business

efficace sino all’ascesa, favorita da due eventi esogeni come

il sexgate, lo scandalo che ha visto coinvolti l’ex Presidente

degli Stati Uniti Bill Clinton e la stagista Monica Lewinski e

gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Si vedrà

tuttavia come si sia dovuto attendere l’avvento del cosiddetto

Web 2.0 per avere da parte del giornalismo online una piena

maturazione, così come una capacità di definirsi autonomo

rispetto alla propria controparte cartacea, tanto da un punto di

vista di prestigio, quanto da un punto di vista di totale

sfruttamento delle caratteristiche del mezzo Internet. Dopo

aver portato a termine un’analisi di tipo storico, si andrà ad

esaminare nel dettaglio gli stravolgimenti provocati

dall’evoluzione tecnologica. La prima domanda che verrà

posta riguarderà i cambiamenti della notizia, ora

caratterizzata da elementi quali la tempestività, l’interattività,

l’ipertestualità e la multimedialità. A queste proprietà vanno

aggiunti l’inserimento nei motori di ricerca, quindi

l’indicizzazione e il posizionamento di ogni contenuto

editoriale e le tecniche di impaginazione ad esso legate. Si

vedrà inoltre come questa serie di stravolgimenti avrà

ripercussioni non solamente sulla notizia concepita, prodotta

e distribuita sul Web, ma anche su quella relegata

esclusivamente ai formati cartacei. Il cambiamento dei mezzi

tecnologici e quello della natura stessa della notizia non

possono che modificare, di conseguenza, l’approccio stesso

alla professione, così come il modus operandi e le abilità

richieste. Verrà tracciato un profilo del cosiddetto new

journalist, il giornalista online, la figura che tra scetticismo e

problemi di adattamento è diventata protagonista del nuovo

modo di fare informazione. A subire maggiori stravolgimenti

è con ogni probabilità – come si vedrà più avanti – il rapporto

9

che il professionista deve intrattenere con i propri lettori, mai

stato così diretto ed immediato in precedenza. Altro aspetto

cruciale a venire riscritto dalle caratteristiche della Rete è uno

dei caposaldi della professione: la verifica della notizia e,

consequentemente, la sua attendibilità. Come viene gestito il

flusso imponente di informazioni? Come il suo

aggiornamento costante? Quali le conseguenze dal punto di

vista della credibilità tanto del mezzo quanto dei

professionisti che su di esso esercitano la propria attività?

Dopo aver risposto a questi interrogativi si cercherà di

delineare i diversi volti del giornalismo online, i formati che

ogni utente/lettore può trovare sulla propria strada durante la

navigazione in Rete. In primo luogo verranno analizzate le

cosiddette testate derivate, ovvero quelle che, forti di un

formato cartaceo in grade di garantire autorevolezza e lettori,

sono approdate sul Web. I casi d’interesse saranno tanto

nazionali (La Repubblica, Internazionale), quanto

internazionali (Daily Mail, New York Times, Guardian) e si

evidenzieranno le caratteristiche distintive della versione

online rispetto a quella cartacea. In seconda battuta si

concederà spazio alle testate nate direttamente sul Web

facendo affidamento su una ricerca pubblicata

dall’Università di Oxford, tramite il suo RISJ, Reuters

Institute for the Study of Journalism, che mira ad indagare la

situazione dell’editoria online. Verranno sottolineate,

attraverso l’analisi di alcuni casi, le difficoltà nel creare un

efficace modello di business in grado di garantire

quantomeno il raggiungimento di un punto di pareggio. Uno

spazio a sé stante verrà infine dedicato al fenomeno

dell’Huffington Post e alle sue innumerevoli controversie, di

particolare interesse – come si vedrà – per i temi trattati da

questa ricerca. Infine sarà la volta di quei formati giornalistici

10

più direttamente figli del Web 2.0: la blogosfera, Twitter e il

citizen journalism. Analizzando queste diverse tipologie si

avrà modo di soffermarsi in particolar modo sul rapporto

sempre più stretto venutosi a creare tra giornalismo

professionista ed amatoriale. Quali le conseguenze per la

professione in seguito alla nascita e al successo di piattaforme

che consentono l’accesso alla produzione dei contenuti

editoriali ad un pubblico precedentemente relegato al ruolo di

spettatore passivo? Come considerare da un punto di vista di

legittimità il lavoro di un blogger? E’ autorevole un portale

di citizen journalism (o giornalismo partecipativo)? Quali le

ripercussioni generate da uno strumento quale è Twitter?

Perché sembra essere il social network preferito dall’universo

giornalistico?

La prima parte di questo lavoro verrà conclusa da una

sezione dedicata alla situazione della professione in Italia:

dalle leggi che la regolano alle modalità di accesso alla

professione; dal fenomeno del precariato al rapporto tra il

sistema editoriale italiano e la Rete. Ho ritenuto fosse

assolutamente necessario, in modo da fornire un quadro

completo in vista della seconda parte di questo lavoro,

soffermarsi su questi aspetti. Si partirà con un’analisi

dell’Ordine dei Giornalisti in Italia: la legge che lo istituisce,

la sua organizzazione, le sue funzioni, la sua legittimità, i suoi

rapporti con la Rete. Ha ancora senso parlare di un Albo

professionale quando chiunque può diventare autore

semplicemente disponendo di un computer e di un accesso a

Internet? L’Ordine è un’anomalia tutta italiana? Quali sono i

criteri d’accesso alla professione nel resto del mondo? In

seguito si delinereanno i rapporti tra l’universo giornalistico

e il fenomeno del precariato. L’analisi farà affidamento sui

11

dati raccolti da Pino Rea ne Il Rapporto sulla professione

giornalistica in Italia, redatto per Lsdi. Uno degli elementi di

maggiore interesse è la constatazione di come l’asse della

professione si stia spostando dal giornalismo dipendente,

tutelato dai contratti e dalle leggi, dalla previdenza e

dall’assistenza sanitaria di categoria, al lavoro autonomo, alle

collaborazioni coordinate e continuative, al lavoro dei

freelance. Si vedrà come le ricadute più pesanti vadano a

finire sulle spalle dei giovani, di tutti coloro che aspirano e

cercano di trasformare il giornalismo in un lavoro di cui si

possa vivere. In questo senso verranno tracciati nel dettaglio

i rapporti che intercorrono tra l’universo degli aspiranti

giornalisti e Internet e che in qualche modo anticipano i temi

della seconda parte di questo lavoro di ricerca. Quali sono le

opportunità a disposizione dei giovani che si ritrovano a

navigare nel mare magnum della Rete in cerca di una

collaborazione che possa garantire loro quei requisiti richiesti

dall’Ordine dei Giornalisti per entrare a far parte dell’Albo

professionale? Quali i compromessi, quali i ricatti? Come si

vedrà, purtroppo, da questo punto di vista i dati raccolti sono

tutt’altro che confortanti e in un contesto dove il celebre

tesserino professionale diventa merce di scambio in uno

scenario spesso d’illegalità, è lecito chiedersi quale sia la

risposta delle istituzioni in tal senso.

Delineato il quadro di riferimento in ogni suo aspetto, la

seconda parte di questo lavoro si concentrerà sull’analisi del

fenomeno del lavoro non retribuito in tutte le sue molteplici

sfaccettature. La prima sezione di questa parte sarà frutto di

un vero e proprio viaggio nel mare magnum della Rete. Cosa

incontra realmente un aspirante giornalista nel momento in

cui si pone alla ricerca di una collaborazione? Quali le

12

opportunità, quali le offerte, i pericoli? Lo scandaglio del

Web porterà alla luce diversi modelli di proposta, nessuno dei

quali particolarmente accattivante per gli aspiranti giornalisti.

Offerte a bassissima retribuzione – pochi centesimi ad

articolo -, pagamenti vincolati, cioè legati al numero di

visualizzazioni ottenuti dal singolo contenuto (sotto quella

soglia il lavoro viene svolto gratis), sino ad arrivare

all’hardcore delle collaborazioni gratuite, quelle dove nella

migliore delle ipotesi viene indicata una possibilità di

retribuzione futura in base al successo del progetto. Nel

mezzo – si vedrà – c’è anche dell’altro: dalla curiosa idea del

portale ItalianoSveglia di pagare i propri collaboratori

attraverso premi – è possibile vincere un contratto di

collaborazione – alle offerte poco trasparenti, dove di fronte

ad elementi non del tutto chiari – come la natura del portale

o la presenza o meno di una retribuzione –, viene garantita

comunque la possibilità di ottenere il tesserino da pubblicista.

In seconda battuta, la ricerca sposterà la propria analisi

sulle ragioni che favoriscono e sorreggono il fenomeno in

questione. Diverse le domande che verranno poste in questa

sede: cosa spinge una persona ad accettare di lavorare gratis?

Perché il fenomeno trova terreno particolarmente fertile

nell’universo delle prestazioni intellettuali? Si tratta di una

scelta consapevole o del prodotto di un sistema tutt’altro che

perfetto? A queste domande verrà affiancata una

considerazione di tipo economico: il lavoro non retribuito

inquina il mercato. Tra i sostenitori di questi tesi due

professionisti come Carlo Gubitosa e Silvia Bencivelli, con i

quali ho avuto il piacere di realizzare un’intervista che troverà

spazio assieme ad altre testimonianze: due blogger, Valentina

Orsini e Francesco Sellari, e due giovani aspiranti giornalisti,

13

entrambi con una storia da raccontare. Ad ogni modo, dalla

ricerca emergerà come il mercato editoriale online si sia

andato a plasmare su di una nuova moneta: quella della

visibilità.

L’ultimissima parte di questa tesi poserà lo sguardo oltre i

confini nazionali cercando di capire se il fenomeno sia

un’anomalia tutta italiana oppure una realtà priva di

attenzione nei confronti di bandiere e culture diverse. Si avrà

modo di vedere come il dibattito fuori dall’Italia sia molto più

vivace: nel momento in cui mi sono trovato a ricercare delle

fonti, la disponibilità delle stesse provenienti dall’estero, in

particolar modo dagli Stati Uniti, era incredibilmente

maggiore rispetto a quella nostrana. Come si vedrà, sono

soprattutto i palcoscenici a cambiare radicalmente: l’analisi

del fenomeno e le diverse posizioni a riguardo sono ospitate

da testate autorevoli come Atlantic o The New York Times. In

questa sezione della ricerca troveranno inoltre spazio i

cambiamenti strutturali, di carattere tecnologico, economico

e sociale, che caratterizzano il proliferare del fenomeno. La

cosiddetta new economy, il dominio di una domanda che

trova nell’incredibile abbondanza dell’offerta il crollo del

valore di quest’ultima, nonché la sua arma di controllo. La

conclusione di questo lavoro sarà affidata ad una riflessione

di carattere più ampio, che partendo dall’universo

giornalistico arriverà ad inserire quest’ultimo in un contesto

economico e sociale definito dall’antropologa e ricercatrice

americana Sarah Kendzior, post-employment economy.

Ovvero, il rimpiazzo di lavori sicuri che permettono il

sostentamento con altri temporanei sottopagati o non pagati

affatto – e l’idea che questo sia normale e che queste posizioni

siano un passaggio inevitabile per raggiungere un “vero

14

lavoro”. Infine ci sarà spazio per l’intervista che ho realizzato

alla gentilissima Sarah Kendzior, dove viene lanciato anche

un importante messaggio da parte dell’antropologa

americana: quello che sprona alla lotta. Gli sfruttatori

dovrebbero vergognarsi, non gli sfruttati.

Questa tesi è il frutto di un utilizzo incrociato di materiale

bibliografico e, soprattutto, articoli pubblicati online. Il

lavoro di ricerca è stato svolto esclusivamente su Internet, ad

ulteriore dimostrazione delle straordinarie potenzialità di

questo mezzo, il cui contributo nel proliferare del fenomeno

descritto in queste pagine dev’essere inquadrato come neutro.

La discriminante in tal senso rimane sempre l’utilizzo che ne

fanno le persone. Non mancano, nella scelta dell’argomento,

un discreto fardello di esperienza personale e il desiderio di

salvaguardare ad ogni costo tanto il mercato, quanto in primo

luogo la dignità inalienabile di qualsiasi tipo di lavoro.

15

1 Breve storia del giornalismo online

1.1 La nascita del giornalismo online

Era il 1992 quando il giornalismo e la Rete si avvicinarono

per la prima volta. L’incontro avvenne negli Stati Uniti, dove

il quotidiano dello stato dell’Illinois, il Chicago Tribune,

tentò un primo approdo online in primavera. Furono piccole

e medie testate, con l’intento di attirare nuovi lettori ed

allargare la propria diffusione territoriale, ad affacciarsi

inizialmente verso lo sterminato universo di Internet. Uno

sbarco meritevole di essere segnalato e raccontato è quello

del San Jose Mercury News. Spettò infatti a questa testata

californiana il ruolo di antesignano del giornalismo online.

Nel 1993, tramite il portale America On Line, il giornale di

San Jose si trasferì sulla Rete con il nome di Mercury Center

(figura 1).

(figura 1 – un’immagine della versione online del San Jose

Mercury News)

16

Il costo del servizio era pari a 9,95 dollari al mese, ma

nonostante ciò un buon numero di utenti decise di abbonarsi.

I punti di forza della versione elettronica erano l’archivio e

l’email. L’archivio storico del giornale consentiva infatti agli

utenti di reperire e consultare qualsiasi numero del quotidiano

cartaceo a partire dall’anno 1985. Il servizio email, invece,

riuscì ad instaurare uno scambio interattivo tra pubblico e

testata, tra lettore e giornalista. Oltre a queste due accattivanti

innovazioni, il Mercury Center offriva agli abbonati anche

delle rubriche non presenti nella versione cartacea. Questi

elementi assicurarono al giornale californiano un discreto

successo, nonostante il canone mensile e l’interfaccia grafica

piuttosto povera. Non passò naturalmente molto tempo dopo

questo esperimento affinché fossero le grandi testate

statunitensi a considerare l’approdo online. Fu a partire dal

1994 che i più importanti cartacei americani incontrarono la

Rete. Come facilmente deducibile, l’obiettivo era quello di

ricercare opportunità economiche alternative per affrontare il

calo di vendite e di introiti di quegli anni. Le strategie

imprenditoriali adottate dagli editori possono essere divise in

due tipi: da una parte c’era il tentativo di concedere i

contenuti online previa sottoscrizione di un abbonamento

mensile; dall’altra si tentò invece di sfruttare gli introiti

derivanti dalle pubblicità, che su Internet prendono il nome

di banner2. L’avvento dell’editoria online non fu inizialmente

2 Il termine banner significa letteralmente bandiera, vessillo o striscione.

Si tratta di un annuncio pubblicitario inserito in una pagina web: un

banner può essere statico oppure attivo o interattivo: quest’ultimo, il più

diffuso, consente, una volta cliccato, di raggiungere un'altra pagina web.

Il pagamento dell’azienda pubblicizzata verso il sito che ospita la

pubblicità avviene in base al numero di click che il banner ha ricevuto

(click through rate). Fonte: Wikipedia.

17

molto fortunato. In primo luogo le risorse disponibili in Rete

non differivano granché da quelle fruibili nella versione

cartacea. Inoltre, come fa pertinentemente notare Emilio

Carelli3, l’utente di Internet è da sempre stato abituato a

reperire le informazioni in forma gratuita (escludendo il costo

del servizio). Infine bisogna ricordare che in quegli anni la

penetrazione del Web non era ancora particolarmente

capillare. Per molti dei grandi gruppi editoriali americani

l’avvento online fu figlio di un errore di valutazione. Si

sopravvalutarono le potenzialità del nuovo canale, mentre i

ricavi si rivelarono inferiori alle aspettative. Emblematico fu

il caso di USA Today. Come racconta Marco Pratellesi nel suo

New journalism, Teorie e tecniche del giornalismo

multimediale4, il quotidiano della Virginia lanciò il proprio

sito (USA Today Online) nell’aprile del 1995. Venne allestita

una redazione web composta da 75 giornalisti e da circa 200

collaboratori, ma in tre mesi di attività vennero raggiunti

solamente 1000 abbonamenti al costo di 12,95 dollari

mensili. Gli editori si resero così conto che, fatta eccezione

per giornali specializzati e settoriali5, la via da perseguire

fosse quella della concessione gratuita dei contenuti editoriali

e il conseguente sfruttamento pubblicitario.

Quest’avvio non esaltante dell’editoria online negli Stati

Uniti fece sì che fuori dai confini americani si guardasse alla

Rete con prudenza. E’ l’inizio della seconda delle quattro fasi

del giornalismo online che Marco Patellesi descrive in New 3 Carelli E., Giornali e giornalisti nella rete, Milano, Apogeo 2004. 4 Pratellesi, M., New Journalism, Teorie e tecniche del giornalismo

multimediale, Mondadori, Milano 2008 5 Il Wall Street Journal, specializzato in economia e finanza e presente sul

web dal 29 aprile del 1996, ottiene un ottimo seguito nonostante richieda

ai propri lettori la sottoscrizione di un abbonamento mensile.

18

Journalism e che vede anche la carta stampata italiana

sbarcare sul Web. Fu l’Unione Sarda a fare da apripista nel

luglio del 1994. L’editore del quotidiano isolano, Nicola

Grauso, affascinato dalle potenzialità del nuovo mezzo e

avvalendosi delle competenze tecniche del centro studi CRS4

(Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna),

fondò a Cagliari il primo grande Internet provider italiano,

terzo al mondo per dimensioni: Video On Line. La prima

pagina dell’Unione Sarda (figura 2), sviluppata con il

linguaggio HTML, presentava una grande novità per quegli

anni: i collegamenti ipertestuali, i link.

(figura 2 - la prima homepage della versione online dell’Unione

Sarda)

Un’altra importante novità arrivò nuovamente dagli Stati

Uniti: si trattava di Msnbc, il primo giornale online, seppure

19

legato alla rete televisiva NBC. Dietro questo progetto c’era

una redazione di 150 giornalisti che si occupava di costruire,

riprendendo in modo originale i contenuti delle news

televisive, un vero e proprio giornale online. Fu tuttavia nel

1996 che approdò la prima testata completamente ideata per

la Rete, slegata da qualsiasi edizione cartacea o televisiva: si

chiamava Slate. Inizialmente concepito per essere fruito

esclusivamente dagli utenti in possesso di abbonamento

mensile (19 dollari il costo), si tramutò poi in sito gratuito

dato lo scarso successo della fase a pagamento. Nonostante le

grandi testate internazionali (il New York Times, il

Washington Post) e italiane (La Repubblica, Il Corriere della

Sera, La Stampa) intrapresero l’avventura dell’editoria

online, fu solo nel 1998 che la storia del giornalismo online

ebbe una svolta netta. Fu il cosiddetto sexgate, la vicenda che

vide come protagonisti l’allora Presidente degli Stati Uniti

d’America Bill Clinton e la stagista Monica Lewinsky ad

assurgere al ruolo di spartiacque e a segnare il passaggio tra

quelle che Pratellesi definisce seconda e terza fase della storia

dell’editoria online.

1.2 Dal sexgate all’11 settembre 2001: l’ascesa

del giornalismo online

Scrive Pratellesi riguardo al caso Lewinksy: «Al di là delle

considerazioni etiche da fare per la prima volta, in modo

palese, è l’informazione on line a dettare i tempi della

20

notizia6». Lo scandalo scoppiò online, poi venne ripreso e

analizzato sul formato cartaceo; ma solamente dopo essere

già stato portato all’attenzione del pubblico sulla Rete. Fu una

rivista scandalistico-politica ad accendere la miccia. Il 17

gennaio 1998 Drudge Report, guidata da un giornalista

indipendente di Los Angeles chiamato Matt Drudge, creò il

sexgate inviando una email agli abbonati del magazine, il cui

testo era: «NEWSWEEK KILLS STORY ON WHITE

HOUSE INTERN X X X X X BLOCKBUSTER REPORT:

23-YEAR OLD, FORMER WHITE HOUSE INTERN, SEX

RELATIONSHIP WITH PRESIDENT7». Il messaggio

venne pubblicato alle 21:32 del 17 gennaio 1998. Ma Drudge

Report non si fermò qui: esattamente due ore più tardi (alle

23:32) vennero pubblicati ulteriori dettagli e Newsweek, che

aveva tentennato in attesa di ottenere altri riscontri sulla

vicenda, si trovò ormai inesorabilmente anticipato.

«Web Posted: 01/17/98 23:32:47 PST --

NEWSWEEK KILLS STORY ON WHITE HOUSE

INTERN

BLOCKBUSTER REPORT: 23-YEAR OLD,

FORMER WHITE HOUSE INTERN, SEX

RELATIONSHIP WITH PRESIDENT

6 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 22. 7«Newsweek non pubblica un pezzo su una stagista della Casa Bianca. Il

reportage bomba: il Presidente ha avuto una relazione sessuale con una

ex stagista ventitreenne della Casa Bianca»

(http://www.drudgereportarchives.com/data/2002/01/17/20020117_1755

02_ml.htm).

21

**World Exclusive**

**Must Credit the DRUDGE REPORT**

At the last minute, at 6 p.m. on Saturday evening,

NEWSWEEK magazine killed a story that was

destined to shake official Washington to its

foundation: A White House intern carried on a sexual

affair with the President of the United States!

The DRUDGE REPORT has learned that reporter

Michael Isikoff developed the story of his career, only

to have it spiked by top NEWSWEEK suits hours

before publication. A young woman, 23, sexually

involved with the love of her life, the President of the

United States, since she was a 21-year-old intern at

the White House. She was a frequent visitor to a small

study just off the Oval Office where she claims to

have indulged the president's sexual preference.

Reports of the relationship spread in White House

quarters and she was moved to a job at the Pentagon,

where she worked until last month.

The young intern wrote long love letters to President

Clinton, which she delivered through a delivery

service. She was a frequent visitor at the White House

after midnight, where she checked in the WAVE logs

as visiting a secretary named Betty Curry, 57.

The DRUDGE REPORT has learned that tapes of

intimate phone conversations exist.

The relationship between the president and the young

woman become strained when the president believed

that the young woman was bragging about the affair

to others.

22

NEWSWEEK and Isikoff were planning to name the

woman. Word of the story's impeding release caused

blind chaos in media circles; TIME magazine spent

Saturday scrambling for its own version of the story,

the DRUDGE REPORT has learned. The NEW

YORK POST on Sunday was set to front the young

intern's affair, but was forced to fall back on the dated

ABC NEWS Kathleen Willey break.

The story was set to break just hours after President

Clinton testified in the Paula Jones sexual harassment

case.

Ironically, several years ago, it was Isikoff that found

himself in a shouting match with editors who were

refusing to publish even a portion of his meticulously

researched investigative report that was to break Paula

Jones. Isikoff worked for the WASHINGTON POST

at the time, and left shortly after the incident to build

them for the paper's sister magazine, NEWSWEEK.

Michael Isikoff was not available for comment late

Saturday. NEWSWEEK was on voice mail.

The White House was busy checking the DRUDGE

REPORT for details8».

Da questo momento le consuete tempistiche giornalistiche

vennero completamente stravolte. Iniziò un’affannosa e

frenetica caccia allo scoop, dove il desiderio di anticipare la

concorrenza portò anche grandi e prestigiose testate ad

incappare in clamorosi colpi a vuoto. Tutti i giornali ritennero

che per evitare di essere tagliati fuori dall’incredibile

8 Ibidem.

23

macchina di interesse pubblico che era il sexgate dovessero

privilegiare la pubblicazione delle notizie sui propri siti,

piuttosto che attendere l’uscita delle versioni cartacee, alle

quali veniva invece demandata l’analisi degli eventi. Scrive

ancora Pratellesi:

«Il sexgate è uno sfacelo dal punto di vista della

credibilità e della serietà del giornalismo, ma ha

l’indubbio merito di aiutare a capire che qualcosa è

cambiato nel mondo dei media. Con Internet, le

vecchie regole del giornalismo non sono più

sufficienti: la possibilità di editare notizie in tempo

reale rimescola le carte e scardina un sistema dei

media ormai consolidato nelle proprie rigide certezze

dal Dopoguerra, con televisione e radio a dare le

notizie del giorno, e le dirette e i giornali a fornire

commenti, approfondimenti e notizie del giorno

prima9».

Gli anni che seguirono il sexgate furono caratterizzati da

una grande euforia nei confronti di Internet e gli editori

italiani non restarono a guardare. Nel luglio del 1999 sbarcò

online un portale chiamato Quotidiano.net, che consentiva

l’accesso ai giornali della Poligrafici Editoriale: lanazione.it,

ilrestodelcarlino.it, ilgiorno.it. Quasi un anno più tardi, nel

giugno del 2000, fu il Corriere della Sera a rivedere

completamente la propria politica e il proprio approccio alla

Rete. Il sito del quotidiano milanese venne ridisegnato e

trasformato in un vero e proprio giornale online con una

9 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 22.

24

redazione autonoma che pubblicava le notizie in modo

indipendente rispetto alla versione cartacea. La direzione

intrapresa da una testata del prestigio del Corriere della Sera

fu un segnale importante: in quegli anni nacquero

innumerevoli iniziative editoriali che avevano come obiettivo

primario l’avvicinamento al Web. Nacquero portali come

Kataweb (gruppo Espresso), Caltanet (Il Messaggero e Il

Mattino, entrambi riconducibili all’editore Caltagirone) o

Ciaoweb (La Stampa).

Un’altra data cruciale per l’evoluzione e l’affermazione

del giornalismo online è quella dell’11 settembre del 2001.

Come riporta The Pew Internet & American Life Project10,

nei giorni immediatamente successivi agli attentati

terroristici verso il World Trade Center e il Pentagono, da una

parte il numero complessivo di americani che utilizzavano

Internet calò, dall’altra invece un grande numero di utenti –

molti di più che prima dell’11 settembre – si affidarono al

Web per essere aggiornati in merito all’attentato. The Pew

Internet & American Life Project rivelò che oltre due terzi di

utenti americani (il 69%, esattamente) utilizzò la Rete per

ottenere notizie e informazioni relative a quanto accaduto.

Circa la metà invece, qualcosa come 53 milioni di persone,

acquisì informazioni sull’attentato navigando nel Web.

Inoltre, molti cittadini utilizzarono Internet per tenersi

10 Il The Pew Internet & American Life Project è uno dei sette progetti

portati Avanti dal Pew Research Center. La sua funzione è quella di

fornire informazioni riguardo alle problematiche, le attitudini e le

tendenze che caratterizzano l’America e il resto del mondo («a

nonpartisan, nonprofit "fact tank" that provides information on the issues,

attitudes and trends shaping America and the world»).

http://www.pewinternet.org/.

25

aggiornati: alcuni si registrarono per ottenere le news

direttamente via email o sul desktop; altri si affidarono a chat,

forum o siti commemorativi per esprimere la propria rabbia,

il proprio patriottismo o semplicemente per dibattere quanto

accaduto con altri utenti. Dopo il sexgate, l’11 settembre

2001 diede un’ulteriore svolta affinché il giornalismo online

si affermasse e ottenesse credibilità e prestigio. La richiesta

di aggiornamenti costanti e dall’accesso immediato persuase

le testate a riservare alle loro rispettive versioni elettroniche

un’autonomia e un ruolo diverso e complementare al formato

cartaceo, delegato invece all’approfondimento. Non solo:

l’11 settembre 2001 fece emergere un altro fenomeno

destinato ad ottenere un enorme successo nel corso degli anni,

il Citizen Journalism11. Si tornerà successivamente ad

analizzare questa forma di giornalismo, sarà ora sufficiente

darne una definizione ed esaminarne la diffusione in merito

agli attentati terroristici contro gli Stati Uniti. Jay Rosen,

professore della New York University, afferma: «When the

people formerly known as the audience employ the press

tools they have in their possession to inform one another,

that’s citizen journalism12». E questo è ciò che avvenne

11 Conosciuto in italiano come giornalismo partecipativo o collaborativo,

in inglese può essere definito anche come public, participatory,

democratic, guerrilla o street journalism. Fonte: Wikipedia. 12 « Citizen journalism è quando la gente, in altri tempi detta pubblico,

usa gli strumenti della stampa che sono in suo possesso per informarsi

l’uno con l’altro ». Jay Rosen è considerato uno dei maggiori sostenitori

del public journalism. Sul suo sito (http://archive.pressthink.org/) oltre

alla definizione riportata poc’anzi aggiunge: «It's mine, but it should be

yours. Can we take the quote marks off now? Can we remove the "so-

called" from in front?» («E’ mio, ma dovrebbe essere vostro. Possiamo

togliere le virgolette ora? Possiamo rimuovere il cosiddetto “da”

davanti?»).

26

immediatamente dopo e nei giorni successivi all’attentato.

Sia sufficiente pensare che fu grazie ai cittadini (e non tramite

i media, che si limitarono a riprendere e in seguito ad

approfondire) che arrivarono ai nostri occhi le immagini degli

aerei che si schiantavano contro le Torri Gemelle. L’11

settembre 2001 diede per la prima volta autorevolezza a

produzioni giornalistiche amatoriali. I video girati dai

cittadini che si trovavano nei paraggi dei luoghi delle

esplosioni rimbalzarono su tutti i circuiti mediatici

diventando le uniche testimonianze reali di quanto accaduto.

Vennero ribaltati i normali rapporti gerarchici tra pubblico,

non più ricevente passivo e mondo giornalistico. Anche la

blogosfera13, già attiva negli Stati Uniti nel periodo a cavallo

tra 1997 e 1998, vide in seguito agli attentati di New York un

incremento del suo utilizzo e della sua popolarità. I blog

assunsero la doppia funzione di contenitore di notizie

provenienti direttamente dai cittadini e di spazio dove poter

esternare angosce e paure. Da quel momento la fortuna dei

blog continuò a crescere a dismisura, ma questo verrà

analizzato più avanti. Il citizen journalism e l’universo dei

blog sono elementi che caratterizzano una nuova fase del

Web, che coincide con quella che Pratellesi chiama la quarta

fase del giornalismo online.

13 Termine che indica l’insieme di tutti i blog presenti su Internet e le loro

interconnessioni. Si tornerà più avanti a trattare nel dettaglio la

blogosfera.

27

1.3 Web 2.0: un nuovo modo di fare

giornalismo

Negli anni tra il 1998 e il 2001 l’editoria online riuscì a

ritagliarsi un proprio spazio emancipandosi dalla presenza

ingombrante dei cartacei. Il caso Lewinksy e gli attentati

dell’11 settembre 2001 mostrarono le potenzialità del

giornalismo sul Web, oltre a mettere a nudo i limiti della carta

stampata di fronte alle nuove esigenze di un pubblico

affamato di aggiornamenti in tempo reale. Anche le grandi

testate compresero che fosse il momento di affidare alle

controparti online il compito di soddisfare la domanda di

un’utenza sempre più desiderosa di interagire e occupare un

ruolo più attivo all’interno del mercato dell’informazione. A

partire dal 2002, la diffusione della banda larga e la

conseguente alfabetizzazione digitale della popolazione

favorirono questa crescita. Furono quindi molti fattori a

creare le premesse per quella che può essere considerata una

rivoluzione per Internet: il Web 2.0. La caratteristica

principale di questo stato evolutivo della Rete fu il grande

aumento del livello di interazione tra il Web stesso e l’utente.

Il cosiddetto Web 1.0 non consentiva invece al navigatore

alcun tipo di interazione che non fosse l’ipertestualità offerta

dalle diverse pagine, l'uso delle email e dei motori di ricerca.

Ciò che caratterizzava il Web 1.0 era la presenza grossomodo

esclusiva di siti web statici, mentre la versione 2.0 si basava

(e si basa) su siti web dinamici14. Il concetto di Web 2.0 deve

14 Il Web statico indica un paradigma di progettazione nel web che

prevede un'interazione sostanzialmente unilaterale: l'utente può

visualizzare i contenuti di un sito, ma non modificarne lo stato né le

28

i propri natali a Tim O’Reilly15 e alla Web 2.0 conference di

O'Reilly Media tenutasi alla fine del 2004. O’Reilly non

diede una definizione di Web 2.0, ma delineò piuttosto una

serie di principi che caratterizzavano questo stato evolutivo

della Rete e che consentivano di riconoscere un qualcosa

come appartenente o meno a questa nuova versione. O’Reilly,

parlando del Web 2.0, disse: «Like many important concepts,

Web 2.0 doesn't have a hard boundary, but rather, a

gravitational core. You can visualize Web 2.0 as a set of

principles and practices that tie together a veritable solar

system of sites that demonstrate some or all of those

principles, at a varying distance from that core16» (figura 3).

Un altro importante contributo arrivò da Dario De

informazioni. Il linguaggio di marcatura padre del web statico è l'HTML.

Il Web dinamico invece indica tutte quelle applicazioni Web che

interagiscono attivamente con l'utente modificando le informazioni

mostrate all'utente in base alle informazioni ricevute dall'utente stesso e

che consentono anche un più rapido aggiornamento del sito web da parte

dell'amministratore. Fonte: Wikipedia. 15 Tim O’Reilly è un editore irlandese. È il fondatore della O'Reilly Media

(ex O'Reilly & Associates). 16 «Come molti importanti concetti, il Web 2.0 non ha un confine definito,

ma piuttosto un nucleo fluttuante. E’ possibile visualizzare il Web 2.0

come un insieme di principi e pratiche che tengono insieme un sistema

solare di siti che rispettano alcuni o tutti quei principi». O’Really T., What

Is Web 2.0, Design Patterns and Business Models for the Next Generation

of Software in o’really.com, 30 settembre 2005,

(http://oreilly.com/pub/a/web2/archive/what-is-web-20.html?page=1).

29

Judicibus17, che nel suo articolo World 2.018 partendo da

quanto già circostanziato da O’Reilly cercò di arrivare ad una

definizione più concisa del Web 2.0. Emblematico l’incipit

del suo articolo: De Judicibus, pur essendo italiano, scrisse in

inglese e motivò la sua scelta definendo la lingua

d’oltremanica come una lingua franca del web. Aggiunse che

la maggior parte delle persone che utilizzavano Internet

capivano l’inglese; inoltre, secondo De Judicibus un articolo

in inglese aveva maggiori probabilità di essere letto ed

eventualmente tradotto rispetto ad articoli scritti in altre

lingue (come l’italiano)19. I punti a sfavore di questa

decisione – ad esempio, l’impossibilità di competere con dei

madrelingua sotto diversi punti di vista – non furono

sufficienti a persuadere De Judicibus a scrivere in italiano.

17 Dario de Judicibus è un consulente certificato di direzione aziendale

della IBM Italia. Inoltre è un inventore (con 5 brevetti) e uno scrittore (2

manuali, 3 saggi, un romanzo, due storie brevi oltre a più di 250 articoli

pubblicati su cartaceo).

http://www.lindipendente.eu/wp/it/author/dejudicibus/ 18 De Judicibus D., World 2.0 in lindipendente.eu, 2 gennaio 2008,

(http://www.lindipendente.eu/wp/it/2008/01/02/world-2-0/). 19 «English is not my first language, and even if I am an Italian writer, I

am not so fluent in English as I am in my own language. So, why did I

write this article in English? Because today English is a sort of lingua

franca of the web. Most of people who use Internet are able to read

English, even if it is not their own first idiom. If you write an article in

English, a lot of people will be able to read it and, if the article is a good

one, someone may decide to translate it to other languages too. But if you

write it in another language, especially a language which is not well-

known in the world as Italian, you have little chances it will be translated

to English even if is an excellent text». Ibidem.

30

(figura 3 – “meme map” del Web 2.0, mostra idee e principi che

si irradiano dal nucleo centrale)

Il Web 2.0 veniva visto da De Judicibus come qualcosa in

continuo movimento e per questo motivo riteneva fosse

necessaria una definizione più generale che delineasse i

caratteri distintivi di questa versione della Rete. Venne mossa

un’altra critica ad O’Reilly: il suo articolo era troppo

incentrato su specifici siti e società20. Invece, scriveva De

Judicibus, il Web 2.0 era piuttosto una piattaforma dove i

20 O’Reilly per chiarire il passaggio tra Web 1.0 e 2.0 e sottolineare le

differenze tra le due versioni si ritrovò ad elencare l’evoluzione di alcuni

software o siti. Ad esempio, da Netscape a Google, da mp3.com a Napster,

da Britannica Online a Wikipedia ecc.

31

cosiddetti prosumers21 diventavano sempre più gli attori

principali: «The user is no more external to the system, but

integral part of it22». Con queste premesse si giunse ad una

definizione: «Web 2.0 is a knowledge-oriented environment

where human interactions generate contents that are

published, managed and used through network applications

in a service-oriented architecture23». Ma quali sono queste

applicazioni che consentono lo scambio dei contenuti

prodotti dagli utenti? Ve ne sono di innumerevoli. A partire

dai blog, le chat, i forum, i wiki24, passando per piattaforme

di condivisione di media come Flickr, YouTube o Vimeo fino

a giungere a social network come Facebook, Myspace,

Twitter, Google+, Linkedin o Foursquare. L’editoria

muovendosi in questo scenario non poteva restare a guardare,

una rivoluzione era in atto e richiedeva la capacità da parte

delle testate di compredere il fenomeno e inserirsi come

meglio possibile. Da questo punto di vista si individuano due

correnti opposte nel mondo del giornalismo. Come scrive

Pratellesi i due fronti schierano gli “apocalittici” da una parte

e gli “ingegneri” dall’altra. I primi vedevano il mezzo

21 Prosumer si forma con l’unione di termini inglesi: producer e consumer.

La parola sta ad indicare un utente che, svincolandosi dal classico ruolo

passivo, assume un ruolo più attivo nel processo che coinvolge le fasi di

creazione, produzione, distribuzione e consumo. Fonte: Wikipedia. 22 «L’utente non è una parte esterna al sistema, ma una parte integrante».

Ibidem. 23 «Il Web 2.0 è un ambiente orientato alla conoscenza dove le interazioni

umane generano contenuti che vengono pubblicati, organizzati e usati

attraverso delle applicazioni in Rete in un’architettura orientata al

servizio». Ibidem. 24 Il wiki è un sito web che permette ai propri utenti di aggiungere,

modificare o cancellare contenuti attraverso un browser web. Fonte:

Wikipedia.

32

elettronico come una minacca per la professione: «troppa

velocità nell’elaborazione delle notizie, scarsa affidabilità

delle fonti, nessuna possibilità di verificare e controllare i

contenuti affidati alla Rete25». I secondi invece erano

incuriositi dalle potenzialità del nuovo mezzo e dalle

prospettive che si aprivano per la professione: «un

giornalismo moderno, rapido, interattivo, multimediale e

ipertestuale26». Fu di fondamentale importanza per le testate

capire che il giornale cartaceo e quello online non fossero

concorrenti, bensì complementari, in grado di soddisfare

rispettivamente momenti diversi della stessa domanda di

informazione. L’editoria online dovette quindi in primo

luogo affrancarsi dalla carta stampata creando delle redazioni

autonome capaci di offrire dei modelli di notizie differenti ed

originali. In seguito, l’evoluzione del Web portò con sé

l’esigenza di allinearsi alla nuova veste della Rete e di

attrezzarsi per soddisfare le richieste di un’utenza non più

passiva, ma desiderosa di recitare un ruolo da protagonista.

L’homepage dei diversi siti cominciò ad essere aggiornata

continuamente affiancandola a sezioni di flash news in

costante cambiamento. Accanto alla parola scritta trovarono

sempre più spazio immagini e video, con questi ultimi spesso

delegati a raccontare una notizia con il solo

accompagnamento di poche righe di didascalia. Venne

incrementata l’ipertestualità con l’inserimento di link anche

all’interno degli stessi articoli che rimandavano a vecchi

contenuti o a pagine esterne. Sul modello del blog, ogni

produzione editoriale ebbe presto la possibilità di venire

commentata e giudicata dagli utenti. Tutte le grandi testate si

25 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 24.

26 Ibidem.

33

dotarono di una pagina Facebook o di un profilo Twitter: un

modo più diretto di raggiungere il lettore. Al piede di ogni

articolo fecero la loro comparsa i cosiddetti sharing buttons

(pulsanti di condivisione social), in grado di consentire

all’utente la condivisione del contenuto editoriale tramite i

diversi social networks. Una vera rivoluzione colpì l’universo

dell’editoria online, uno Tsunami che non risparmiò niente:

la notizia, la professione di giornalista, la redazione.

1.3.1 Come cambia la notizia

«Il medium è il messaggio27». Secondo il sociologo

canadese Marshall McLuhan, a cui va ricondotta la citazione

che apre questo paragrafo, non solo il messaggio, ma anche il

mezzo che veicola il messaggio stesso deve essere oggetto di

studio. Il medium, dice McLuhan, porta con sé un certo tipo

di significato al di là del messaggio che trasmette e questo fa

sì che la percezione del destinatario finale sia in qualche

modo influenzata dal tipo di medium utilizzato. Di

conseguenza mezzi diversi (carta stampata e Internet, nel

caso specifico) richiedono messaggi e prodotti diversi, così

come una fruizione differente. L’informazione veicolata

tramite la Rete si è dovuta inevitabilmente adattare al medium

che la ospitava plasmandosi di conseguenza.

Il giornale cartaceo e quello online, pur prefiggendosi lo

stesso obiettivo informativo, perseguono questa meta

27 «The medium is the message», McLuhan M., Understanding Media:

The Extensions of Man, 1966.

34

secondo logiche e modalità completamente diverse. Dopo

aver difficoltosamente imparato a convivere, le due realtà

editoriali si sono ritagliate i rispettivi spazi. In realtà,

l’informazione elettronica è andata avanti per la propria

strada seguendo un’evoluzione costante di pari passo a quella

del mezzo che la ospitava. La carta stampata invece si è

dovuta, volente o nolente, reinventare in base alla voracità

della controparte online. L’onere del lancio della notizia è

diventato così dominio della Rete, in virtù della capacità del

mezzo di essere aggiornato in qualsiasi momento. Al cartaceo

è rimasto l’approfondimento. La tempestività del giornale

online è stata una delle qualità che hanno riscritto le regole

dell’informazione annullando il gap che allontanava la parola

scritta dalla radio o dalla televisione. Collegandosi sul sito

della principale agenzia di stampa italiana, l’Ansa, è possibile

notare come – ad esempio sfogliando le news del 25 ottobre

2013 – la prima notizia, dal titolo “007 Usa, file su operazioni

con alleati”, sia stata pubblicata alle ore 07:58 (escludendo

quelle pubblicate durante la notte). Il sito è stato poi

aggiornato alle 08:36 (“Spread Btp-Bund apre stabile a 239

punti”); e ancora alle 09:07 (“Moto: Giappone, prove

annullate”), alle 09:10 (“F1: India, prime libere, e' sempre

Vettel”), alle 09:11 (“Borsa: Milano apre in calo -0,6%”) e

alle 09:13 (“Calcio: crac Dos Santos, fermo 6 mesi”): quattro

volte in appena sei minuti. Complessivamente durante la sola

giornata del 25 ottobre 2013 il sito dell’Ansa è stato

aggiornato 69 volte. Questo non vale solo per le agenzie di

stampa, allo stesso modo le versioni online delle testate

cartacee vengono aggiornate ogniqualvolta si presenti la

necessità. Il palese e incolmabile gap della carta stampata

rispetto alla tempestività del mezzo elettronico costringe il

“vecchio giornalismo” principalmente a riportare notizie che

35

il pubblico ha già avuto modo di apprendere. L’editoria

offline punta così sull’approfondimento e sul prestigio del

proprio nome o delle proprie firme.

Strettamente collegata alla tempestività dell’informazione

online è la caratteristica dell’interattività. La possibilità data

all’utente di emanciparsi da uno stato passivo è tipica della

Rete e del Web 2.0 in particolare. In questo senso il mondo

editoriale non fa eccezione, tutt’altro. Non è solamente la

pubblicazione delle notizie ad essere in tempo reale, ma

anche le reazioni dei lettori. E’ il processo stesso di

produzione dell’informazione ad essere sottoposto

nell’immediato al controllo dell’utenza. Il pubblico può ora

commentare immediatamente una notizia, condividerla

tramite i diversi social network, esprimere un parere

articolato a riguardo o semplicemente uno stato d’animo. Si

prenda ad esempio un articolo del Corriere della Sera online:

“Caso Berlusconi e incandidabilità, alt dell’Anm”28. Si tratta

di un pezzo pubblicato il 26 ottobre 2013 dalla redazione

online del Corriere. L’occhiello recita: “Il congresso

dell’associazione magistrati”; mentre il sottotitolo è: “La

necessità della norma dimostra la debolezza della politica

Vietti (Csm): «Basta invasioni di campo da parte delle

toghe»”. Continuando a scendere con lo sguardo (figiura 4),

subito dopo il sottotitolo si può leggere un elenco: etica,

processo Mediaset, Silvio Berlusconi e politica. Si tratta dei

quattro topic29 che è possibile astrarre dall’articolo.

28 Caso Berlusconi e incandidabilità, alt dell’Anm in corriere.it, 26

ottobre 2013, (http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_26/berlusconi-

anm-incandidabilita-questione-etica-6b4fe710-3e52-11e3-bd5b-

1a8e5e5a5692.shtml). 29 Temi o argomenti.

36

Cliccando sulla stelletta presente accanto a ciascuno dei temi

si segnala il proprio interesse verso quel determinato

argomento (le cifre indicano il numero di utenti che l’ha

fatto). Cliccando invece direttamente sui topic si viene

rimandati ad un elenco comprensivo di tutti gli articoli che in

passato hanno trattato il medesimo argomento30: una sorta di

aggregatore semantico. Sulla destra, invece, campeggia uno

smile con accanto una percentuale – 62% – e uno stato

d’animo. Sotto al piede dell’articolo (figura 5), al lettore

viene data la possibilità di esprimersi riguardo a quanto

appena letto potendo scegliere tra cinque opzioni: indignato,

triste, preoccupato, divertito, soddisfatto. Questo significa

che il 62% degli utenti si è detto soddisfatto di quanto scritto

nell’articolo. Un sistema di feedback31immediato e bilaterale.

Da una parte la testata può sondare l’umore dei suoi lettori;

dall’altra il pubblico viene gratificato dalla possibilità di

esprimersi e dal semplice fatto che il giornale si preoccupi di

conoscere la sua opinione. Scendendo con lo sguardo rispetto

all’indicatore d’umore (figura 4), si trovano prima una

freccia, poi un’icona di una finestra di dialogo. Cliccando

sulla freccia si apre un rettangolo che mostra quattro simboli

diversi. Il primo dà la possibilità di condividere il contenuto

con la community di Corriere.it; il secondo attiva la

condivisione su Facebook; il terzo rimanda a GooglePlus;

l’ultimo invece a Twitter. Si tratta dei cosiddetti sharing

buttons, un ponte tra un determinato link e il mondo dei social

network. Cliccando invece sulla finestra di dialogo si viene

reindirizzati nella stessa pagina, al piede dell’articolo, nella

sezione commenti (figura 5). Poco più sotto (figura 4) viene

30 Si tratta di un esempio dell’ipertestualità di Internet e del giornalismo

online, su cui si tornerà più avanti. 31 Commento od opinione.

37

data la possibilità – se registrati al sito – di salvare l’articolo

in una lista per poi leggerlo in un’altra occasione. Infine, il

lettore può ascoltare il file audio dell’articolo, stamparlo o

inviarlo per posta elettronica. Tornando al piede dell’articolo

(figura 5), è doveroso soffermarsi nuovamente sulla sezione

commenti. Si tratta di un sistema d’espressione articolato che

consente ai lettori di pubblicare la propria opinione e di

discutere con altri utenti. Il giornale offre così uno spazio che

permette al pubblico di uscire dalla ricezione passiva32.

(figura 4 – Il titolo, i topic, l’indicatore d’umore, gli sharing

buttons)

32 Gli utenti possono inoltre votare i commenti degli altri: il contributo più

votato ottiene uno spazio di rilievo al di là dell’ordine cronologico.

38

(figura 5 – l’indicatore d’umore e la sezione commenti)

Altra importante caratteristica della notizia online è

l’ipertestualità. Il termine ipertesto venne coniato nel 1965 da

Ted Nelson33, il quale diede questa definizione: «By

hypertext I simply mean non-sequential writing. Text that

branches and allows choices to the reader, best read at an

interactive screen. As popularly conceived, this is a series of

text chunks connected by links which offer the reader

different pathways34». La prima comparsa dell’ipertesto è nel

33 Theodor Holm Nelson è un sociologo, filosofo e pioniere

dell'informatica statunitense. Oltre alla coniazione del termine

ipertesto,Nelson fondò il progetto Xanadu nel 1960 con l'intento di creare

una rete di computer collegati e dotati di un'interfaccia utente semplice.

Fonte: Wikipedia. 34 «Un tipo di scrittura non sequenziale, un testo che si dirama e concede

delle scelte al lettore, meglio se letto su di uno schermo interattivo. Come

generalmente concepito, si tratta di una serie di pezzi di testo connessi

tramite dei collegamenti che offrono al lettore differenti percorsi». Nelson

T., Literary Machines, Mindful Press, 1980.

39

saggio chiamato A File Structure for the Complex, the

Changing, and the Indeterminate; ««Let me introduce the

word “hypertext” to mean a body of written or pictorial

material interconnected in such a complex way that it could

not conveniently be presented or represented on paper35».

Altro importante contributo nella definizione di ipertesto

viene da George Landow36: «Text composed of blocks of

words (or images) linked electronically by multiple paths,

chains, or trails in an open-ended, perpetually unfinished

textuality described by the terms link, node, network, web,

and path37». Simile alla definizione di Landow e molto

pertinente rispetto all’ipertestualità di Internet è quella che

Jakob Nielsen38 inserisce nel suo lavoro The Art of

Navigating Through Hypertext: «Hypertext is non-sequential

writing: a directed graph, where each node contains some

amount of text or other information[…]. True hypertext

should also make users feel that they can move freely through

the information according to their own needs. This feeling is

hard to define precisely but certainly implies short response

35 «Lasciatemi introdurre il termine “ipertesto” per indicare un corpo di

materiale scritto o visivo interconnesso in un modo così complesso che

non potrebbe venire presentato o rappresentato convenientemente su

carta». Nelson, T., A File Structure for the Complex, the Changing, and

the Indeterminate. 36 Professore della Brown University e tra i principali teorici

dell’ipertestualità. 37 «L’ipertesto è un testo composto da blocchi di parole (o immagini)

connessi elettronicamente secondo percorsi molteplici in una testualità

aperta e perpetuamente incompiuta descritta dai termini collegamento,

nodo, rete, tela, percorso». Landow G., The Definition of Hypertext and

Its History as a Concept. 38 Jakob Nielsen è un informatico danese, autore di Hypertext and

Hypermedia.

40

times and low cognitive load when navigating39». Sono

diversi gli aspetti che distanziano testo e ipertesto. In primo

luogo la non sequenzialità della struttura dell’ipertesto e della

fruizione degli utenti. Questi ultimi possono costruire i propri

percorsi interpretativi originali muovendosi attraverso i

diversi collegamenti ipertestuali (in inglese hyperlink, spesso

abbreviati in link) che consentono di sposarsi da un’unità

informativa ad un’altra. La possibilità di scegliere

consapevolmente come fruire l’ipertesto descrive un’altra

qualità invece assente nel testo tradizionale: l’interattività. Un

ipertesto è inoltre caratterizzato da indefinitezza in quanto

concepito per essere modificato e personalizzato. Bisogna

infine sottolineare come, rispetto al testo, l’ipertesto possa

includere non solo la parola scritta ma anche componenti

sonore (linguaggio verbale orale, musica o qualunque altro

tipo di suono) e visive (statiche come le immagini o dinamici

come i filmati). Per questa sua componente multimediale,

l’ipertesto può essere anche chiamato ipermedia40.

Restringendo l’analisi al campo editoriale, un giornale online

ha qualità ipermediali, così come ogni articolo in esso

contenuto. Si prenda ad esempio un articolo pubblicato su

Corriere.it il 28 ottobre 2013: “«San Giuda» terrorizza Gb,

Olanda e Francia. «Tempesta perfetta»: caos trasporti e black

39 «L’ipertesto è scrittura non sequenziale: un digrafo dove ogni nodo

contiene un certo quantitativo di testo o altro tipo di informazione[…]. Un

vero ipertesto dovrebbe sempre far sentire gli utenti che possono muoversi

liberamente attraverso l’informazione in base ai loro bisogni. Questa

sensazione è difficile da definire precisamente ma certamente implica

tempi di risposta brevi e uno sforzo cognitivo non eccessivo». Nielsen J.,

The Art of Navigating Through Hypertext. 40 Anche questo termine fu coniato da Ted Nelson nel 1965.

41

out”41. L’ipermedialità del contenuto è mostrata in entrambe

le immagini che seguono (figura 6 e figura 7). Nella prima

(figura 6), in basso a destra, si può notare un collegamento

ipertestuale che rimanda ad un articolo del 29 ottobre 2012

(“Due milioni senza luce. Sandy è a New Yotk. Cuomo:

«Almeno cinque morti»42). Si tratta di una notizia correlata:

la tempesta che un anno prima si abbatté su New York.

L’immagine mostra inoltre un contenuto visivo e un link per

uno contenuto audio: cliccando su “Ascolta” è infatti

possibile ascoltare la lettura dell’articolo nella sua interezza.

Nella seconda invece (figura 7) viene mostrata la presenza di

un video nel corpo dell’articolo. Mentre sulla destra si

trovano i collegamenti per la sezione “Multimedia” dove

sono raccolti altri filmati che trattano la stessa notizia.

41 «San Giuda» terrorizza Gb, Olanda e Francia. «Tempesta perfetta»:

caos trasporti e black out in corriere.it, 28 ottobre 2013,

(http://www.corriere.it/esteri/13_ottobre_28/san-giuda-terrorizza-

francia-gran-bretagna-tempesta-perfetta-caos-trasporti-black-out-

80b06d06-3fa5-11e3-9fdc-0e5d4e86bfe5.shtml). 42 Due milioni senza luce. Sandy è a New Yotk. Cuomo: «Almeno cinque

morti» in corriere.it, 29 ottobre 2012,

(http://www.corriere.it/esteri/12_ottobre_29/sandy-raggiunge-new-

york_178c5b50-220f-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml).

42

(figura 6 – contenuti scritti, visivi, sonori e link ipertestuali)

(figura 7 - filmati nel corpo dell’articolo e sezione multimedia)

In Rete la notizia diventa multimediale. Un nodo di un

ipertesto – il giornale – che è a sua volta parte di un altro

ipertesto: il Web. La fruizione da parte dell’utente non è più

rigida come quella offerta dalla carta stampata: il lettore ha il

43

potere di scegliere il proprio percorso interpretativo e di

personalizzare la propria esperienza.

Data la natura sconfinata di Internet e l’ipermedialità che

consente all’utente di costruire il proprio modello di

fruizione, il rischio sarebbe quello di smarrirsi in

quest’universo di dati e di nodi tra loro collegati. Sono i

“motori di ricerca” (search engine in inglese) ad aiutare il

navigatore nel reperimento delle informazioni desiderate

(information retrieval, spesso abbreviato in IR). In primo

luogo un motore di ricerca scandaglia il Web (o una porzione

dello stesso) tramite dei bot43 chiamati crawler (o spider). Il

lavoro dei crawler si basa su una lista di indirizzi fornita dal

motore di ricerca stesso (il search engine sfrutta a sua volta

liste create tramite gli indirizzi suggeriti dagli utenti o liste

stilate dai programmatori stessi). Mentre analizzano un sito, i

crawler acquiscono gli indirizzi di tutti i collegamenti

ipertestuali presenti, i quali vengono a loro volta aggiunti alla

lista di URL44 da visitare. Le pagine analizzate vengono

inseriste nel database e nell’indice del motore di ricerca.

Questi bot acquisiscono inoltre una copia testuale di quanto

visitato, che viene poi utilizzata per fornire risposte alle

ricerche degli utenti. Le fasi di scansione, indicizzazione e

risposta vengono così sintetizzate da Google, il principale

motore di ricerca presente attualmente sul Web:

«Il Web è come una biblioteca pubblica in costante

espansione con miliardi di libri e senza gestione

43 Un programma o script che automatizza delle operazioni 44 Uniform Resource Locator o URL è una sequenza di caratteri che

identifica univocamente l'indirizzo di una risorsa in Internet.

44

centralizzata. Fondamentalmente Google raccoglie le

pagine durante la procedura di scansione, dopodiché

crea un indice per sapere esattamente come cercare le

informazioni. In modo del tutto simile all'indice in

fondo ai libri, l'indice di Google include informazioni

sulle parole e sulle loro posizioni. Quando esegui una

ricerca, i nostri algoritmi, per dirla in modo molto

elementare, cercano i termini di ricerca nell'indice per

trovare le pagine appropriate.

Da questo momento il processo di ricerca diventa

molto più complesso. Se cerchi la parola "cani"

sicuramente non ti interessa trovare una pagina

contenente centinaia di volte la parola "cani". Potresti

voler trovare immagini, video o un elenco di razze. I

sistemi di indicizzazione di Google rilevano tanti

aspetti diversi delle pagine, ad esempio la data di

pubblicazione, se contengono o meno foto e video e

tanti altri fattori. Con il Knowledge Graph45

continuiamo ad andare oltre la corrispondenza delle

parole chiave per comprendere meglio le persone, i

luoghi e gli argomenti che ti interessano46».

Un sito Internet deve essere visitato per sopravvivere. In

questo senso l’indicizzazione e una posizione di rilievo nelle

45 Per Knowledge Graph (in italiano “grafico della

conoscenza”) si intende una funziona introdotta da Google

nel 2012. Grazie a questa funzione, il motore di ricerca di

Google associa alle parole cercate un oggetto e metterà in

relazioni oggetti in modo da avere una ricerca più veloce e

accurata: un primo passo verso la ricerca semantica. 46

http://www.google.it/intl/it/insidesearch/howsearchworks/

crawling-indexing.html

45

ricerche dei search engine assumono una grande importanza.

Se questo discorso può adattarsi alla realtà di grandi testate,

ancor meglio descrive la situazione di siti che non godono

della stessa fama. Il posizionamento nei motori di ricerca può

cambiare radicalmente il destino di un progetto. Non

sorprendono di conseguenza gli sforzi compiuti in tal senso.

Negli ultimi anni è entrato nel linguaggio comune un

acronimo: SEO, search engine optimization. SEO indica una

serie di attività volte ad aumentare il traffico di un sito

attraverso un miglior posizionamento nei motori di ricerca. Si

tratta di una branca della più ampia SEM, search engine

marketing (marketing per i motori di ricerca). SEO è

innanzitutto keyword (parole chiavi):

«L’attività del motore di ricerca è, principalmente,

analizzare le pagine web, assimilarne il contenuto,

separarlo in keyword e assegnare ad ognuna di loro un

punteggio che, complessivamente, sarà il punteggio

della pagina stessa

La prima analisi da effettuare è quindi lo studio di

quale contenuto informativo vogliamo e possiamo

offrire e progettarlo in modo da ottenere la maggior

attenzione possibile dal motore di ricerca47».

47 Le basi della SEO in seosempmi.it, 25 aprile 2011,

(http://seosempmi.it/seo-base/).

46

Altro aspetto cruciale è rappresentato dalle cosiddette

metatag:

«Tutti abbiamo presente come funziona Google.

Inseriamo una keyword, inviamo e ne leggiamo i

risultati. La prima cosa su cui cade la nostra attenzione

è il titolo. Il titolo viene descritto dal metatag TITLE

all’interno dell’HEAD della pagina. E’ fondamentale

avere dei titoli esplicativi, comprensibili, chiari, con

le keyword cercate dall’utente e che siano formattate

secondo un modello che Google possa capire e

restituire al meglio. Stessa cosa per le descrizioni. Il

tag DESCRIPTION, sempre nell’HEAD della pagina,

è un tag che deve contenere dalle 5 alle 15 parole

chiave che voi avete identificato come principali per

quella pagina48».

Esistono altri aspetti SEO altrettanto importanti (la scelta

del dominio o la scrittura del codice HTML, ad esempio), ma

non strettamente correlati a questa ricerca. Keyword, metatag

e il loro corretto impiego invece assumono un ruolo di primo

piano nella stesura di un contenuto editoriale in Rete. Si è

visto in che modo sia cambiata la notizia una volta approdata

online: il medium ospitante ha innanzitutto richiesto diverse

tempistiche; i contenuti si sono fatti più interattivi,

un’apertura al giudizio e all’intervento del pubblico,

precedentemente relegato ad un ruolo passivo; la notizia è

inoltre diventata un nodo di un ipertesto non sequenziale e

dalle proprietà multimediali; infine la necessità dei siti di

48 Ibidem.

47

essere ben pozionati nei motori di ricerca ha fatto sì che

l’informazione si plasmasse anche in accordo all’inserimento

di keyword e metatag. Come hanno modificato il mestiere di

giornalista questi cambiamenti nella struttura e nella stesura

di una notizia? Qual è l’approccio del professionista rispetto

al nuovo medium? Quali le differenze rispetto al lavoro del

collega della carta stampata? Si cercherà di rispondere a

queste ed altre domande nelle prossime pagine, dedicate alla

figura del new journalist.

1.3.2 New journalist

Nel corso della sua storia ultracentenaria, la professione

giornalistica si è dovuta adattare a molteplici situazioni figlie

di nuove scoperte e dell’evoluzione tecnologica.

Dall’invenzione della stampa, passando per l’avvento dei

quotidiani, la rivoluzione industriale, la nascita delle agenzie

di notizie, fino all’invenzione del telegrafo prima, del

telefono poi. La radio, la televisione, infine quella che Marco

Pratellesi chiama “la prima rivoluzione digitale49”. Iniziata

negli anni ottanta con l’introduzione dei videoterminali nelle

redazioni, si trovò suo malgrado ad essere spartiacque tra

“vecchio” e “nuovo”. Molti giornalisti, racconta Pratellesi,

non vollero adattarsi, in particolar modo quelli più anziani.

Troppo affezionati alla macchina da scrivere attraverso cui

avevano raccontato l’Italia del Dopoguerra, voltarono le

spalle all’evoluzione tecnologica. Altri, comunque diffidenti

ma più malleabili, accettarono l’introduzione dei

49 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 27.

48

videoterminali utilizzandoli però né più né meno che come

macchine da scrivere. Le funzionalità più rivoluzionarie dei

pc, in grado di cambiare le regole del mestiere, vennero

sfruttate principalmente dai giovani giornalisti provenienti

dalle università. Negli anni novanta, poco prima

dell’esplosione del mezzo che avrebbe stravolto per sempre

la professione, la digitalizzazione aveva già preso il

sopravvento. L’avvento di Internet poco prima della fine del

millennio viene considerata da Pratellesi la “seconda

rivoluzione digitale”. «Le prospettive di un cambiamento così

radicale e profondo […] spaventarono non poco la categoria.

Tra gli apocalittici si iscrissero anche giornalisti di ampie e

aperte vedute, come Giorgio Bocca, che vedevano nella

nuova dimensione la fine della professione50». La professione

non è certo morta, ma è innegabile che sia cambiata e abbia

dovuto fare i conti con l’avvento del Web. Al giornalista

online è stato richiesto di coltivare capacità e apprendere

nozioni che non erano necessarie per svolgere lo stesso lavoro

sulle testate cartacee. A tal proposito è interessante riportare

quanto pubblicato da Mindy McAdams51 sul suo blog52 il 7

ottobre del 2008. La professoressa ha chiesto ai suoi lettori di

aiutarla nella compilazione di una lista di cose che uno

studente al termine di un corso di giornalismo online

dovrebbe saper fare53. L’articolo è stato ripreso anche da

50 Ibidem. 51 Mindy McAdams è una professoressa dell’Università della Florida,

dove insegna giornalismo online. 52 http://mindymcadams.com/ 53 Mindy McAdams sottolinea come non si parli di semplici abilità,

quanto di un “saper fare”. «Rather than a vague list of skills, we’re trying

to write what we would expect the student to be able to do. You know —

actually DO». http://mindymcadams.com/tojou/2008/stuff-to-teach-the-

next-journalists/

49

Mario Tedeschini Lalli54 nel suo blog55 l’8 ottobre 2013.

Secondo Mindy McAdams uno studente dovrebbe quindi

essere in grado di:

«scrivere un articolo di 40/50 righe in stile

Associated Press56, con titolazione adatta al

web57, sottotoli e link ipertestuali dove utili;

creare un servizio audio di due minuti che

contenga suono naturale (effetti), narrazione

dell’autore e materiale tratto da interviste, che

sia montato digitalmente e compresso in

formato web;

riprendere, montare e comprimere un video di

due minuti e mezzo;

creare e alimentare per almeno otto settimane

un blog su un singolo, specifico argomento

con almeno due post a settimana;

54 Vicedirettore, direzione Innovazione e Sviluppo, Gruppo Editoriale

L’Espresso. Fino all’ottobre 2008 caporedattore Multimedia, Kataweb,

Gruppo Espresso. Da oltre 35 anni in tv, agenzie di stampa, quotidiani e

sul web. Docente di Giornalismo digitale, Istituto per la Formazione al

Giornalismo a Urbino e di Storia del Giornalismo e delle Comunicazioni

di massa all’Università Roma Tre.

http://mariotedeschini.blog.kataweb.it/chi-sono/ 55

http://mariotedeschini.blog.kataweb.it/giornalismodaltri/2008/10/08/gior

nalisti-online-che-cosa-debbono-saper-fare/ 56 Notizia in testa, citazioni delle fonti, astensione da giudizi e

aggettivazioni personali, struttura a piramide rovesciata. 57 Titoli che siano interpretabili facilmente dai motori di ricerca (SEO,

tagging, e che significhino ancora qualcosa quando vengono letti fuori dal

contesto della pagina originaria).

50

creare una presentazione con Soundslides58 di

un minuto e mezzo/due minuti che racconti in

modo coerente una storia di interesse

giornalistico59».

Mario Tedeschini Lalli raccoglie anche alcuni commenti

dei lettori, i quali hanno inoltre proposto:

«Microblogging (Twitter)

Computer assisted research (CAR), uso di

fogli di calcolo e database.

Gestione dei metadati ai fini di ricerca e di

promozione dei propri materiali.

58 Soundslides è un software che consente la creazione di

Slideshows, una combinazione di immagini statiche e

registrazioni audio. Fonte: Wikipedia. 59 Traduzione da

http://mariotedeschini.blog.kataweb.it/giornalismodaltri/2

008/10/08/giornalisti-online-che-cosa-debbono-saper-

fare/. Testo originale: «Write a 12-inch story (400–450

words) in AP print style w/ Web-appropriate head,

subheads and suitable hyperlink(s). Create a 2-minute

audio clip with clear nat sound, narration and interview

material, edited digitally and compressed for the Web.

Shoot, edit and compress a video of 2 min. 30 sec. Create

and maintain a single-subject blog for at least eight weeks

(minimum 16 posts), with at least two posts per week.

Create a 1:30 to 2 min. Soundslides presentation that tells a

coherent journalistic story». McAdams M., Stuff to teach

the next journalists in mindymcadams.com, 7 ottobre 2008,

(http://mindymcadams.com/tojou/2008/stuff-to-teach-the-

next-journalists/).

51

Narrazioni che comprendano materiale

generato dagli utenti (UGC) e mashup, come

sondaggi, mappe cliccabili, grafici e timelines

— se c’è tempo.

Scrivere una notizia tipo ultimora, massimo

di tre frasi, senza errori, in cinque minuti con

il materiale a disposizione60».

E’ sufficiente leggere questo elenco per comprendere

quanto la professione si sia rinnovata nel passaggio dalla

carta stampata alla Rete. Al giornalista che lavora per delle

testate online si richiedono competenze e conoscenze che con

ogni probabilità non sono in possesso di molti professionisti

che operano offline. Emblematiche le parole di Luca De

Biase61:

«In questo contesto, il giornalista deve avere qualità

specifiche da artigiano (saper fare, originalità,

affidabilità), conoscere le tecnologie digitali perché

queste sono il suo nuovo contesto operativo, imparare

a parlare con designer e softwaristi, essere efficiente

60 Tedeschini M., Giornalisti online: che cosa debbono

saper “fare”? in mariotedeschini, 8 ottobre 2008,

(http://mariotedeschini.blog.kataweb.it/giornalismodaltri/2

008/10/08/giornalisti-online-che-cosa-debbono-saper-

fare/).

61 Luca De Biase insegna “Giornalismo e nuovi media” in

diverse università italiane tra cui lo Iulm di Milano. E’

inoltre Editor di innovazione al Sole 24 Ore e Nova24 (del

quale è stato fondatore) ed editor della Vita Nòva, magazine

per tablet.

52

per adeguarsi al sistema di costi limitati che il nuovo

contesto impone, avere una sorta di significato

pubblico (dalla notorietà al carisma), svolgere un

servizio che ne motiva l’adozione e conoscere le

proprie responsabilità civiche. Soprattutto deve

sincronizzarsi con il movimento generato

dall’innovazione e se ci riesce partecipare attivamente

a tale movimento. Una professionalità profondamente

rinnovata, non nuova nelle sue finalità di fondo, ma

aggiornata per avere un posto nella contemporaneità.

Si ha l’impressione che tutto questo sia perfettamente

possibile. Certo, si tratta di un cambiamento che

richiede una profonda umiltà62».

Il giornalista online lavora innanzitutto con tempestiche

completamente diverse rispetto al collega del cartaceo. La

ristrettezza dei tempi e l’esigenza di essere costantemente

aggiornati, oltre alla forsennata ricerca dell’anticipo rispetto

alla concorrenza mettono a serio rischio la possibilità di

revisionare un articolo e di conseguenza la qualità dello

stesso. Il flusso di informazioni è inoltre quantitavamente

imponente. Alle fonti tradizionali si aggiungono quelle del

Web, come possono essere il social network Twitter o

l’enciclopedia libera di Wikipedia. Il rischio di incappare nel

disorientamento e nell’errore è dietro l’angolo. Diviene di

fondamentale importanza la capacità del giornalista di

districarsi nell’universo della Rete, oltre che nella realtà di

tutti i giorni. Il professionista deve fuggire le trappole della

62 De Biase L., Chi vuole fare il giornalista: un mestiere da

innovatori in blog.debiase.com, 3 dicembre 2012,

(http://blog.debiase.com/2012/12/chi-vuole-fare-il-

giornalista-un-mestiere-da-innovatori/).

53

velocità e della copiosità del flusso di informazioni. Come

sostiene Richard Rogers63, intervistato da Lettera43.it64 il 22

ottobre 2013 in occasione dell’Internet Festival di Pisa, «i

reporter devono saper discernere, anziché fare eccessivo

affidamento su fonti sbagliate e dare un'informazione poco

accurata65». Ancor più che in passato il lavoro di verifica

ricopre un ruolo cruciale nella selezione, nell’organizzazione

e nella stesura delle notizie. Gerarchizzare diviene uno dei

compiti principali del giornalista, come sottolinea Emilio

Carelli nel suo Giornali e giornalisti nella rete: «L’overload66

dei flussi informativi, che male si concilia con la scarsa

disponibilità di tempo a disposizione degli utenti per

informarsi, potrebbe rimettere in gioco la centralità del

giornalista nella sua funzione di selezione e creazione di una

gerarchia delle notizie».

Rivoluzionato sotto molteplici aspetti, il ruolo del

giornalista online è caratterizzato da un rapporto con i lettori

completamente stravolto rispetto al passato. L’utente non ha

solamente la possibilità di inserirsi nel processo informativo

“costruendo” un ponte che possa collegarlo alla testata (ad

esempio la sezione commenti); giornalisti e pubblico possono

instaurare un rapporto direttto sfruttando quanto offerto dai

63 Richard Rogers è un epistemologo di Internet, tra i maggiori esperti di

metodi digitali. Rogers è docente di New media dell'Università di

Amsterdam, ex ricercatore di Harvard in Computazione strategica e

autore di Digital Methods. 64 Lettera43.it è un quotidiano online. http://www.lettera43.it 65 Ciolli B., Internet e informazione, come cambia il giornalismo secondo

Richard Rogers in lettera43.it, 22 ottobre 2013,

(http://www.lettera43.it/tecnologia/web/internet-e-informazione-come-

cambia-il-giornalismo-secondo-richard-rogers_43675111299.htm). 66 Letteralmente “sovraccarico”.

54

social network. Tra questi, il più amato dai professionisti è

Twitter67. Il termine deriva dall’inglese to tweet, che significa

cinguettare68 (il sostantivo tweet significa cinguettio) e sta ad

indicare la modalità di funzionamento del sito. Si tratta infatti

di un servizio gratuito di social network e microblogging69

che consente agli utenti registrati di gestire una pagina

personale e di inviare brevi messaggi di testo dalla lunghezza

massima di 140 caratteri (i tweet). Presentato al pubblico il

15 luglio del 2006, ha avuto bisogno di tempo per affermarsi.

L’inizio dell’ascesa è da collocarsi nel 2007, quando in

occasione della South by Southwest Interactive conference70

Twitter riuscì a triplicare il proprio flusso di messaggi

passando da 20.000 a 60.000 tweet giornalieri. Un evento

epocale per il social network inerentemente all’Italia si è

verificato il 29 gennaio 2012, in concomitanza con la morte

dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Come riporta un articolo di Corriere.it, la notizia della

scomparsa è stata data tramite Twitter con largo anticipo

rispetto ad ogni altro mezzo d’informazione: «Il presidente

emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è morto nella

notte nella sua abitazione di Roma. Aveva 93 anni. La notizia

67 https://twitter.com/ 68 Il simbolo del social network è difatti un uccellino. 69 «Il microblogging (o micro-blogging o micro blogging) è una forma di

pubblicazione costante di piccoli contenuti in Rete, sotto forma di

messaggi di testo (normalmente fino a 140 caratteri), immagini, video,

audio MP3 ma anche segnalibri, citazioni, appunti. Questi contenuti

vengono pubblicati in un servizio di rete sociale, visibili a tutti o soltanto

alle persone della propria comunità». Fonte: Wikipedia. 70 South by Southwest (SXSW) è un festival musicale e cinematografico,

composto anche di un insieme di conferenze e mostre interattive, che ha

luogo ogni primavera ad Austin, la capitale del Texas, dal 1987. Fonte:

Wikipedia.

55

del decesso è stata diffusa inizialmente via Twitter, alle 8.07,

da Alberto Gambino, un giurista, che è stato anche

collaboratore dell'ex capo di Stato71». Con Twitter si assiste

ad uno slittamento in cui la voce informativa non è più quella

delle testate (pur presenti sul social network), bensì quella dei

singoli giornalisti. La personalizzazione dell’informazione è

un fenomeno già piuttosto diffuso e non riconducibile

solamente a Twitter (si pensi ai blog). A tal proposito è

interessante segnalare il panel tenutosi durante il Festival

Internazionale del Giornalismo al Centro Servizi Alessi dal

titolo: “Twitter e Giornalismo personale: lo scenario

italiano”72. Andata in scena durante la prima giornata del

Festival, il 24 aprile 2013, al discussione ha visto come

protagonisti Fabrizio Goria, de Linkiesta73; Andrea Iannuzzi,

direttore AGL74; Dennis Redmont, giornalista e scrittore. A

moderare il dibattito Mauro Turcatti, di Edelman75, il quale

propone un sondaggio: “Twitter ucciderà le agenzie di

stampa?”. L’incontro ha fatto affidamento su di una ricerca

condotta da Edelman che ha aperto il panel presentando dei

dati riguardanti l’utilizzo di Twitter su un campione di 2000

71 È morto l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro in corriere.it, 29 gennaio

2012, (http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_29/morto-oscar-luigi-

scalfaro_7d0ca31e-4a55-11e1-bc89-1929970e79ce.shtml). 72 Twitter e giornalismo personale: lo scenario italiano, 24 aprile 2013,

in festivaldelgiornalismo.com

(www.festivaldelgiornalismo.com/programme/2013/twitter-and-

personalised-journalism-the-italian-scenario). 73 Un quotidiano online, testata registrata dal 2010.

http://www.linkiesta.it/ 74 Agenzia Giornali Locali, un’agenzia giornalistica del gruppo Espresso. 75 «Edelman è la più grande azienda di pubbliche relazioni al mondo»

(«Edelman is the world’s largest public relations firm»)

http://www.edelman.com/.

56

giornalisti iscritti. Queste alcune informazioni raccolte76: il

70% dei giornalisti presenti sul social network è di sesso

maschile, solo il restante 30% è invece di sesso femminile; la

grande maggioranza dei professionisti utilizza la lingua

italiana per comunicare (solo 1 su 6 tenta la via dell’inglese);

gli account verificati rappresentano appena lo 0,4% del

campione totale (stessa percentuale per i profili privati

rispetto a quelli pubblici); il 40% degli account non rimanda

a link Url: tra questi il 45% inserisce il link di una pagina

personale; il 24% , meno evoluto nell’attività di personal

branding, rimanda alla rubrica in cui scrive, mentre il restante

5% al profilo su Facebook e il 6% è composto dai direttori

dei giornali; la maggior parte degli iscritti è presente su

Twitter da circa 2 anni; la frequenza per il 75% si attesta a

cinque tweet al giorno. L’incontro ha tracciato virtù e vizi

del social network: Sei sono le virtù: breaking news; fonti; i

fact checking; i testimoni di un evento attraverso twitter e la

facilità con la quale si distribuiscono contenuti. Sette invece

i vizi “capitali” del social: superbia, avarizia, lussuria,

invidia, gola, ira ed infine accidia. Un intervento di grande

interesse è stato quello di Andrea Iannuzzi, che ha parlato

delle diverse tempistiche dei nuovi media, dei rischi e delle

precauzioni da seguire quando si lavora sul Web:

«I singoli giornalisti hanno la libertà di twittare notizie

o presunte notizie non verificate, prima delle agenzie,

perché quest’ultima deve fare verifiche che il singolo

giornalista può non fare, con un basso rischio di brutta

figura. Il concetto di concorrenza, con la rete, deve

cambiare a vantaggio della collaborazione, per avere

76 http://www.slideshare.net/mauro.turcatti/edelman-twitterijf13

57

una informazione migliore. Non c’è motivo per farsi

la guerra, consapevole che non sia un concetto

diffuso. L’utente consulta più fonti. Non si ricorda

nessuno chi ha twittato per primo. Vale di più la

fiducia. Nel metodo di lavoro le notizie mi arrivano su

Twitter e poi guardo le agenzie per trovare

conferme77».

Concretamente, come lavora il giornalsita online? Come

scrive Pratellesi78, nonostante spesso non godano di grande

stima da parte dei colleghi della carta stampata, le redazioni

delle testate presenti sul Web svolgono grossomodo lo stesso

lavoro di quelle offline. Anzi, «le redazioni online sono uno

dei pochi luoghi dove ancora i giornalisti partecipano in

prima persona alla creazione del giornale. Un divertimento

che molti avevano dimenticato, stritolati nei meccanismi da

catena di montaggio che si sono impossessati delle

redazioni79». Allo stesso modo dei giornalisti delle testate

cartacee, quelli online seguono le agenzie di stampa,

navigano sui siti e sui giornali online internazionali in cerca

di spunti e articoli da riportare, fanno interviste, utilizzano il

telefono o si recano sul posto a seconda delle esigenze. E’

cambiato il modo di lavorare, prosegue Pratellesi, non la

professione, che si svolge sostanzialmente seguendo lo stesso

fil rouge: cercare, verificare, dare le notizie. C’è bisogno di

tempo per superare la diffidenza verso il nuovo mezzo, a quel

77 Twitter e giornalismo personale: lo scenario italiano, 24

aprile 2013, in festivaldelgiornalismo.com

(www.festivaldelgiornalismo.com/programme/2013/twitte

r-and-personalised-journalism-the-italian-scenario). 78 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 41 79 Ibidem.

58

punto, sostiene Pratellesi, non ci sarà più bisogno di utilizzare

l’aggettivo “online”. Tutti saranno indistintamente

giornalisti. Tuttavia, come già accennato in precedenza, la

vita delle redazioni online è diversa da quella delle redazioni

cartacee. Sono spesso i caporedattori a guidare le redazioni

online. La differenza principale con le controparti offline è

l’apertura 24 ore su 24: i giornali in Rete non hanno infatti

una versione definitiva ma vengono costantemente aggiornati

in base alle esigenze informative. Altra caratteristica delle

redazioni online, come sottolinea Pratellesi, è la mancanza di

una rigida divisione delle mansioni. Ogni componente del

gruppo deve essere in grado di prendere delle decisioni, per

questo si cerca di avere strutture il più orizzontali possibile.

Pratellesi descrive le due figure professionali che insieme

contribuiscono alla realizzazione dei giornali online:

giornalisti e tecnici-operatori web, i quali si ritrovano a lavoro

fianco a fianco80. I primi devono aggiungere alle fonti

tradizionali (agenzie, fonti dirette, sia ufficiali che

confidenziali) quelle tipiche della Rete (motori di ricerca,

giornali, fonti di informazione ufficiali nazionali e

internazionali). I giornalisti, aggiunge Pratellesi, sono anche

responsabili dell’adattamento della notizia all’ipermedialità

del Web: sono loro a scegliere le immagini ed eventualmente

i filmati da inserire, così come i link ipertestuali. Gli operatori

web invece si occupano della componente tecnica e grafica

lavorando con i vari linguaggi del Web: Html, Xml, Flash,

Javascript. Queste figure professionali realizzano grafici

interattivi, predispongono i sondaggi online suggeriti dalla

redazione, curano il motore di ricerca, l’archivio e gestiscono

80 Sottolinea giustamente Pratellesi (New Journalism, cit., p. 58) come nel

giornale tradizionale la redazione e la tipografia siano rigidamente

separate.

59

in generale tutti gli aspetti inerenti alla fruibilità e alla

leggerezza del sito.

Secondo Pratellesi la divisione tra giornalisti online e della

carta stampata è destinata a scomparire: «sarà la stessa

evoluzione tecnologica ad abbattere divisioni e steccati tra

giornalisti di carta e giornalisti online81». La divisione – dice

Pratellesi – esiste sono nel momento in cui i primi non sanno

usare il sistema che consente di editare i giornali su Internet,

mentre i secondi sì. «Nella sfida dell’aggiornamento in tempo

reale, gli editori hanno sempre più bisogno di contenuti

online. Non per questo vorranno creare redazioni così

numerose da risultare un doppione di quelle che lavorano per

la carta82». La strada – sostiene Pratellesi – è quella di mettere

a punto sistemi editoriali che consentano di editare articoli e

foto tanto per il Web quanto per la carta stampata. Al direttore

resterebbe la scelta del medium su cui pubblicare un pezzo: a

quel punto la distinzione tra online ed offline verrebbe meno.

Tuttavia, ad alcuni anni di distanza dalla pubblicazione di

New Journalism, la situazione non sembra avere ancora

raggiunto lo stato previsto da Pratellesi. La Rete e la carta

stampata si muovono secondo logiche differenti e la

distinzione tra giornalista digitale e professionista

dell’inchiostro permane. Soprattutto, esiste un universo

editoriale intricato in Internet al di fuori delle grandi testate.

Lo individua anche Pratellesi, definendolo come la “terza

via”83. Il dibattito riguardante la dignità del giornalismo

81 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 42 82 Ibidem. 83 «Tra giornalisti di carta e giornalisti online sta nascendo una terza figura

con scarsa o nessuna esperienza giornalistica, ma molto abilità

internettiana. Questa terza via sembra entusiasmare alcuni editori,

60

online appare quindi ancora vivo e per questo verrà affrontato

nelle pagine che seguono.

1.3.3 La dignità del giornalismo digitale

La Rete ha creato nuove figure professionali. Il giornalista

che si trova a lavorare su Internet vede i propri contorni

sbiadirsi, perso tra blog, citizen journalism, social network,

piccole realtà editoriali. E ancora articolisti, web writers,

freelance. La commistione tra professionale ed amatoriale

non aiuta i giornalisti online a rivendicare la propria

legittimità, specie se il lavoro viene svolto per realtà nate in

Rete, prive di qualsivoglia connessione con altri media. La

differenza tra il Web e altri media che si sono imposti nel

passato nei confronti della carta stampata è rappresentata

dall’accessibilità e dalll’interattività che offre agli utenti.

Nello sterminato mare di Internet i navigatori possono

incappare tanto nell’informazione veicolata da giornalisti

professionisti, quanto in quella che affonda le proprie radici

su terreni diversi. Yannick Estienne, un ricercatore francese,

autore di Le journalisme après internet84, parla di

professionalizzazione dei lettori e de-professionalizzazione

soprattutto i più piccoli, che vorrebbero giornali online senza regole, o

quantomeno, fuori dal contratto giornalistico». Ibidem. 84 Il giornalismo dopo Internet.

61

dei giornalisti85 per descrivere questo fenomeno86. La Rete,

dice Estienne, viene vista dai giovani come un veicolo

d’ingresso nel mondo del giornalismo, una rampa di lancio,

un tunnel da attraversare con il solo obiettivo di arrivare

dall’altra parte: la carta stampata. La specializzazione del

giornalista online continua ad incontrare difficoltà

nell’imporsi nel campo del giornalismo tout court. Vengono

definiti come poco numerosi, invisibili e pressoché

sconosciuti al pubblico, privi di una coscienza di gruppo, così

come di rappresentanti, portavoce od organi rappresentativi.

C’è innanzitutto una grande divisione che viene fuori

dall’inchiesta del ricercatore francese: da una parte ci sono i

giornalisti delle aziende Internet (cioè testate nate online e

non collegate ad altri media); dall’altra i giornalisti delle

testate derivate. «Se fra i manager si parla sempre di più di

sviluppare sinergie fra carta e web, fra le redazioni dei

giornali e quelle dei siti le paratie sembrano ancora solide e

la comunicazione fra le persone e i settori resta difficile87». Il

lavoro dei giornalisti online – prosegue Estienne – si articola

principalmente intorno a informazione di seconda mano. Le

tempistiche della Rete obbligano inoltre a reattività e

produttività, esigenze che rendono il processo informativo

più meccanico e assoggettato a dinamiche esterne. Una

85 Estienne Y., Le journalisme après Internet, L’Harmattan, Parigi 2007.

Pino Rea, collaboratore del gruppo di lavoro Lsdi – Libertà di Stampa

Diritto all’Informazione, si è occupato della traduzione di alcune

osservazioni su questo testo francese curate da Guillaume Narvic, blogger

francese. Rea P., Il giornalismo dopo internet: un mestiere “al ribasso”?

in lsdi.it, (http://www.lsdi.it/2008/il-giornalismo-dopo-internet-un-

mestiere-%E2%80%9Cal-ribasso%E2%80%9D/). 86 Estienne si riferisce naturalmente alla situazione francese, ma non

risulta essere esercizio scorretto la trasposizione all’Italia. 87 Ibidem.

62

replica all’articolo pubblicato su Lsdi – e quindi

indirettamente all’inchiesta di Estienne – è poi arrivata da

Vittorio Pasteris, blogger88 e giornalista apparentente alla

redazione de lastampa.it. Scrive Pasteris:

«[…] molte redazioni in rete delle testate dei media

tradizionali sono costituite da giornalisti che vivono

un disagio legato al mancato riconoscimento formale,

spesso forzoso e forzato, della loro effettiva

professionalità. Le ragioni di questo sono da ricercare

ovviamente non nei giornalisti stessi, soggetti passivi

di discriminazione, ma nelle diverse funzioni

manageriali, sindacali e professionali che tentano di

posizionare questi giornalisti in aree grigie spesso

soggette a ricatto89».

L’accusa di Pasteris nei confronti di Estienne è quella di

banalizzare il problema. Il ricercatore francese accusa il

giornalismo online di svolgere principalmente un lavoro di

desk, in cui è assente un impegno reale di scrittura o

produzione di articoli. Ma la replica di Pasteris è decisa,

allargando il cono visivo il giornalista de lastampa.it arriva a

sostenere che il limite dell’informazione sul Web «è una

conseguenza dell’organizzazione aziendale e delle scelte

strategiche delle aziende editoriali, non è una caratteristica

costitutiva dei media digitali90». Il punto focale – dice Pasteris

88 www.pasteris.it/blog/ 89 Pasteris V., Della dignità del giornalismo digitale in lsdi.it, 30 giugno

2008, (http://www.lsdi.it/2008/06/30/della-dignita-del-giornalismo-

digitale/, 30 giugno 2008). 90 Ibidem.

63

– è rappresentato dalle risorse: «con risorse, budget e tempo

a disposizione le redazioni on-line potranno senza problemi

dedicarsi a inchieste, approfondimento, analisi, opinioni91». Il

Web 2.0, tuttavia, ha creato nuove figure nel campo

dell’informazione. Non esiste solamente una

contrapposizione tra giornalisti della carta stampata e

giornalisti online (a loro volta divisi tra quelli appartenenti a

testate interamente digitali e quelli legati a testate derivate).

Il Web 2.0 – scrive Estienne – è il terreno dove prolifera «l’

indifferenziazione crescente fra giornalismo professionale e

giornalismo non-professionale. Giornalista, dilettante,

pubblico: queste categorie si accavallano perdendo a poco a

poco la loro pertinenza92». Autopubblicazione, blogosfera,

citizen journalism, giornalismo “pro-am” (professionale-

amatoriale) – dice Estienne – «tali concetti suggeriscono uno

scivolamento surrettizio verso una concezione del

giornalismo in cui i giornalisti professionisti non sono più

necessari93». Prosegue Estienne: «Di fronte allo sviluppo

dell’autopubblicazione e all’evoluzione dei comportamenti

dei loro lettori, i giornalisti del web possono legittimamente

temere di venire alla fine privati della loro esperienza e di

dover abbandonare il loro ruolo tradizionale di gate keeper»94.

Dello stesso avviso di Estienne era Emilio Carelli, che

qualche anno prima del ricercatore francese si chiedeva se

avesse ancora senso la professione giornalistica data la

perdita dell’esclusività del racconto da parte dei giornalisti a

91 Ibidem. 92 Rea P., Il giornalismo dopo internet: un mestiere “al ribasso”? in

lsdi.it, (cit.). 93 Ibidem. 94 Ibidem.

64

favore del grande pubblico95. Per tracciare una linea tra

giornalismo, giornalismo online e giornalismo partecipativo

in termini di rispettabilità e dignità del lavoro svolto,

dell’informazione trasmessa, bisognerebbe cercare di dare

una definizione il più semplice e chiara possibile di cosa è un

giornalista. Dice Rebecca Blood96, appoggiandosi a una

definizione data da Paul Andrews97, che la quintessenza del

giornalismo è la verificabilità dei fatti. Questa la conditio sine

qua non, questo l’elemento distintivo dell’attività

giornalistica. «So, that word "verifiable", it seems to me, is

crucial to the practice of journalism, whether it be in a

newspaper or in a blog98». Rebecca Blood, partendo da

quanto scritto da Paul Andrews, riesce a proporre una propria

definizione di giornalismo: « Journalism is any third-party

account that adds to the record of verifiable facts99». La

blogger americana propone anche degli esempi chiarificatori

tracciando un parallelismo tra l’attività di un blogger e quella

di un professionista:

95 Carelli E., Giornali e giornalisti nella Rete, cit. 96 Celebre blogger americana. 97 Paul Andrews è un giornalista online e blogger. Egli definisce il

giornalismo come «il far conoscere fatti verificabili ad un pubblico

attraverso un medium». Il testo originale è: «the imparting of verifiable

facts to a general audience through a mass medium». La definizione è data

in Is Blogging Journalism?, Harvard University's Nieman Reports, Fall

2003». 98 « Quindi, quella parola “verificabile”, mi sembra sia cruciale per il

giornalismo, sia in un giornale, sia in un blog ». Blood R., A Few Thoughts

on Journalism and What Can Weblogs Do About It in rebeccablood.net,

15 aprile 2004,

(http://www.rebeccablood.net/essays/what_is_journalism.html). 99 «Qualsiasi resoconto di terzi che contribuisce alla testimonianza di fatti

verificabili». Ibidem.

65

«When a blogger writes up daily accounts of an

international conference […] that is journalism. When

a magazine reporter repurposes a press release

without checking facts or talking to additional

sources, that is not. When a blogger interviews an

author about their new book, that is journalism. When

an opinion columnist manipulates facts in order to

create a false impression, that is not. When a blogger

searches the existing record of fact and discovers that

a public figure's claim is untrue, that is journalism.

When a reporter repeats a politician's assertions

without verifying whether they are true, that is not100».

Una concezione di legittimità e dignità basata sulla

condotta, più che sulla forma o sul riconoscimento di un titolo

che, tra le altre cose, in Italia è legato ad una legge

anacronistica del 1963101 che concentra esclusivamente nelle

mani degli editori il potere di scegliere le sorti degli aspiranti

giornalisti. Si tornerà ad analizzare nel dettaglio quanto

100 «Quando un blogger riporta accuratamente una conferenza

internazionale[…], quello è giornalismo. Quando un reporter di una

rivista ripropone un comunicato stampa senza controllare i fatti o senza

parlare con ulteriori fonti, quello non è giornalismo. Quando un blogger

intervista un autore riguardo il suo nuovo libro, quello è giornalismo.

Quando un opinionista manipola i fatti in modo tale da creare

un’impressione sbagliata, quello non è giornalismo. Quando un blogger

cerca i documenti ufficiali di un evento e scopre che la dichiarazione di

una figura pubblica non è vera, quello è giornalismo. Quando un

giornalista ripete le asserzioni di un politico, senza controllare se quelle

stesse sono vere, quello non è giornalismo». Ibidem. 101 Legge n. 69/1963.

66

appena accennato in altre sezioni di questa tesi. Nelle pagine

che seguono invece si affronteranno le diverse tipologie di

giornalismo online: dalle testate derivate a quelle nate sul

Web, dai blog al diffusissimo fenomeno del citizen

journalism.

67

2 Forme e modelli di giornalismo online

Categorizzare la Rete è esercizio, per la stessa natura del

medium in questione, tutt’altro che semplice. Nello spazio

che segue si tenterà tuttavia di tracciare i confini del campo

d’indagine andando a delineare le diverse tipologie di

giornalismo che è possibile incontrare nel mare magnum del

Web. Si partirà con quei modelli che per primi hanno

incontrato l’universo di Internet: le cosiddette testate

derivate, nate offline e poi approdate online.

2.1 Modelli di testate passate sul Web

Piccoli e grandi gruppi editoriali hanno cercato di sfruttare

le potenzialità della Rete sin dal suo avvento. L’apripista fu

il californiano San Jose Mercury News con il suo Mercury

Center (1993), mentre spettò all’Unione Sarda il ruolo di

antesignano limitatamente alla penisola italiana (1994). Non

furono poche le difficoltà incontrate, specie fino a quando i

gruppi editoriali non compresero la necessità di abbandonare

la strada degli abbonamenti a pagamento e non aprirono alla

fruibilità gratuita dei contenuti presenti online, che nella

maggior parte dei casi si limitavano ad essere riproposizioni

di quanto già pubblicato nei giornali cartacei. Una volta

delegata alla pubblicità ogni fonte di introiti, presto o tardi,

più o meno agevolmente, tutte le grandi testate nazionali ed

estere si dotarono di un proprio sito web seguendo quel

processo di “rimediazione” di cui parlano Jay David Bolter e

68

Richard Grusin102. I due accademici statunitensi, riprendendo

il concetto espresso da Marshall McLuhan secondo cui «il

contenuto di un medium è sempre un altro medium»,

definiscono il processo di rimediazione come quel processo

di reinterpretazione che un medium compie sul contenuto di

un altro medium. Il riferimento è principalmente ai media

digitali e al modo in cui questi ultimi hanno riadattato i

contenuti dei vecchi media. Un punto di partenza per

un’analisi sulle testate passate sul Web può essere

rappresentato da dei dati statistici. Secondo quanto raccolto e

pubblicato da ComScore103 in un’indagine sul traffico nei

giornali online su scala mondiale, limitatamente al mese di

ottobre del 2012 (figura 8), ben 644 milioni di persone hanno

visitato delle testate digitali (il 42,6 % dell’utenza totale di

Internet). Tra questi, una cifra vicina al 10%, ha scelto il Mail

Online104 (poco più di 50 milioni di utenti unici). Al secondo

posto si trova invece il sito di un giornale statunitense: il New

York Times105, con quasi 49 milioni di visitatori. Di nuovo

una testata britannica al terzo posto, occupato dal The

Guardian106, con poco meno di 39 milioni di utenti. Sembra

102 Bolter J. and Grusin R., Remediation: Understanding New Media.

Cambridge, MIT Press, 1999. 103 Most Read Online Newspapers in the World: Mail Online, New York

Times and The Guardian in comscoredatamine.com, 23 dicembre 2012,

(http://www.comscoredatamine.com/2012/12/most-read-online-

newspapers-in-the-world-mail-online-new-york-times-and-the-

guardian/). 104 Versione online del britannico Daily Mail.

http://www.dailymail.co.uk/ 105 http://www.nytimes.com/ 106 http://www.theguardian.com/uk

69

allora doveroso analizzare più nel dettaglio i casi specifici di

questi colossi dell’informazione digitale.

(figura 8 – I dati raccolti da ComScore nell’ottobre del 2012)

Mail Online. Il Daily Mail nasce nel 1896, fondato dal

giornalista ed editore inglese Alfred Harmsworth. La

versione cartacea ha adottato dal 1971 il formato tabloid, che

oltre ad indicare delle dimensioni ridotte rispetto al formato

standard (430 mm x 280 mm rispetto a 749 mm × 597 mm),

si riferisce al taglio della testata, come ad esempio la tendenza

ad enfatizzare le notizie di cronaca nera o quelle di cronaca

rosa legate alla vita delle celebrità. La linea editoriale del sito

non si discosta da quella della versione cartacea, entrambe di

stampo conservatore. Accedendo al Mail Online ciò che

colpisce maggiormente è la predominanza delle immagini

rispetto al testo scritto (figura 9).

70

(figura 9 – Notizia principale della homepage del Mail Online,

07/11/2013, ore 12:31)

Le notizie sono accompagnate da titoli scritti con caratteri

piuttosto grandi e da poche righe di descrizione che

anticipano il contenuto dell’articolo. Sono gli elementi visivi

i protagonisti, tanto della homepage quanto dei singoli link.

Scendendo poco sotto la notizia principale (figura 10), è

possibile ottenere l’immediata conferma. La colonna di

sinistra mostra un altro articolo, anch’esso caratterizzato da

un titolo scritto con un carattere grande e corredato da una

foto. Al centro, le immagini sono protagoniste della

narrazione giornalistica: «Click through today in pictures»,

recita la didascalia posizionata in alto (“scorri le immagini del

giorno”). Si tratta di notizie accompagnati da svariate

immagini in cui il contenuto testuale svolge una funzione

prevalentemente didascalica. Le vicende raccontate

riguardano la vita delle celebrità: ad esempio, la notizia

71

visibile in figura 10 parla del celebre cantante Justin Bieber e

di una sua fan che lo ha fotografato e filmato mentre dormiva

con accanto il suo cappello da baseball. Per confermare

ulteriormente lo spazio dedicato dal Mail Online al gossip

basti scostare lo sguardo sulla colonna di destra. Qui vengono

riportate le notizie accorpate dalla didascalia «Femail

Today». Femail è una sezione del sito107 in cui vengono

raccolte tutte le news che riguardano la cronaca rosa, il

gossip, il benessere ecc.

(figura 10 – un’altra sezione della homepage del Mail Online)

La versione online del Daily Mail e il suo enorme successo

hanno generato diversi dibattiti in giro per la Rete. Scrive

James Robinson: « MailOnline is littered with pictures of

scantily-clad starlets, many of which would never be

107 Il nome Femail è un gioco di parole tra il termine inglese female

(significa sia femmina che femminile) e mail.

72

published in the paper108». Viene quindi tracciata una linea di

demarcazione tra il Daily Mail, il cartaceo e la sua versione

digitale109. L’articolo di Robinson pubblicato sul Guardian

rivela come il 25% del traffico generato dal sito derivi dalla

sezione dedicata allo spettacolo e al gossip: «One advantage

of being a middle-market title is we can stretch our legs either

way110», afferma ironicamente il direttore esecutivo del Mail.

Battuta che potrebbe essere tradotta come: “Vogliamo

soddisfare una fetta più grande possibile di pubblico, quindi

ci adeguiamo di conseguenza”. Un altro articolo meritevole

d’attenzione è firmato da Brian Wheeler per il sito della

BBC111, dove si analizza la fortuna del Mail Online

soprattutto in territorio americano. Vengono individuati

cinque fattori di successo della versione online del celebre

tabloid britannico. Innanzitutto le news legate al patinato

mondo dello spettacolo. « A lot of the gossip blogs and the

gossip websites look to the Daily Mail for how to package

celebrity news. They are just that good at it 112». Un altro

fattore di successo è rintracciabile, secondo Brian Wheeler

108 « Il Mail Online è disseminato di fotografie di celebrità dai vestiti

succinti, molte delle quali non vorrebbero mai pubblicate su carta».

Robinson J., MailOnline: what is the secret of its success? In

theguardian.com, 15 novembre 2010

http://www.theguardian.com/media/2010/nov/15/mailonline-daily-mail-

website 109 «The products are distinct but complementary». Ovvero, «I prodotti

sono diversi ma complementari». Ibidem 110 « Un vantaggio dell’essere una testata generalista è che possiamo

allungare le nostre gambe sia da una parte sia dall’altra». Ibidem 111 Wheeler B., How the Daily Mail stormed the US in bbc.co.uk, 27

gennaio 2012, (http://www.bbc.co.uk/news/magazine-16746785). 112 « Molti blog e siti di gossip osservano il Daily Mail per capire come

preparare notizie sulle celebrità. Sono semplicemente bravi nel farlo». La

frase è stata detta da Jo Piazza, giornalista americano. Ibidem.

73

nel design non ortodosso del sito («Unorthodox design113»).

La pagina principale, come già evidenziato in precedenza,

presenta decine e decine di notizie, corredate con foto enormi;

ma nonostante ciò il suo utilizzo risulta molto semplice. Sono

proprio le grandi fotografie un altro punto di forza del Mail.

Prosegue Wheeler delineando un quarto fattore di successo: i

titoli lunghi, lunghissimi. Afferma Jakob Nielsen114 a tal

proposito: « But Mail Online has taken Search Engine

Optimisation to a whole different level. Its headlines are so

long they are like mini stories in themselves115». E’ lo stesso

Nielsen ad aggiungere che « One side-effect of this approach

is that readers will probably not feel "disappointed" when

they click on a story, which may help to build loyalty to the

site 116». Il quinto ed ultimo fattore elencato nell’articolo della

BBC è rappresentato dalla separazione tra versione cartacea e

sito Web e dalla cura dedicata a quest’ultimo. Si tratta di

un’entità completamente differente rispetto alla versione

cartacea. «It's an entirely different entity to the print edition.

They created this as a business model for what works online

and they know what's going to get eyeballs and traffic, and

bring in advertisers, and they have created a website around

113 Ibidem. 114 Jakob Nielsen è un consulente della fruibilità di Internet. 115 « Il Mail Online ha portato il SEO ad un livello totalmente differente.

I suoi titoli sono così lunghi che sembrano delle vere e proprie mini-

storie». Ibidem. 116 «Un effetto collaterale di questo approccio è che i lettori con ogni

probabilità non si sentiranno disorientati una volta che avranno cliccato

su una storia, cosa che potrebbe aiutare a costruire un legame di

fidelizzazione». Ibidem.

74

that, not around their print edition117», l’opinione del

giornalista Jo Piazza.

New York Times. L’autorevole giornale statunitense è

arrivato sul Web il 19 gennaio 1996118. Relativamente tardi

rispetto ad altre realtà editoriali meno importanti, il New York

Times scelse un modello di fruizione ibrido. L’accesso alla

homepage era gratuito, ma per visualizzare i vari contenuti,

agli utenti veniva richiesta una registrazione, anch’essa

gratuita. Il giornale americano è riuscito così a creare un

database con i profili di oltre 10 milioni di utenti che

forniscono i dati demografici per la vendita di spazi

pubblicitari mirati119. Nel 2005, tuttavia, la registrazione al

sito cominciò a diventare a pagamento, sino a giungere

all’introduzione del cosiddetto paywall120 nel 2011.

L’annuncio arrivò il 17 marzo tramite una lettera diretta

dall’editore al pubblico: «This week marks a significant

transition for The New York Times as we introduce digital

subscriptions. It’s an important step that we hope you will see

as an investment in The Times, one that will strengthen our

ability to provide high-quality journalism to readers around

117 «Hanno creato il tutto come un business model per quello che funziona

online e sanno cosa attira gli occhi e il traffico, e porta i pubblicitari, e

hanno creato un sito Web intorno a questo, non intorno alla versione

cartacea». Ibidem. 118 Pratellesi M., New Journalism, cit, p. 20 119 Ibidem. 120 «Il paywall è un sistema che impedisce agli utenti di Internet di

accedere a contenuti di pagine web senza pagare una sottoscrizione». Il

testo originale è «A paywall is a system that prevents Internet users from

accessing webpage content without a paid subscription», fonte Wikipedia.

75

the world and on any platform121». Ai lettori sprovvisti di

abbonamento, rimaneva possibile la visualizzazione di 20

articoli al mese gratuitamente, poi diventati 10 nell’aprile del

2012. La politica del Times sembra funzionare, come

conferma un articolo di Margaret Sullivan. «In 2012,

something remarkable happened at The Times. It was the year

that circulation revenue — money made from people buying

the paper or access to its digital edition — surpassed

advertising revenue 122». Il successo del Times scardina una

certezza che ha sempre accompagnato le analisi della Rete:

gli utenti non sono disposti a pagare per accedere a dei

contenuti Web. Accedendo alla homepage del giornale

statunitense, si notano immediatamente le enormi differenze

rispetto ad un sito come quello del Mail Online. Come è

possibile vedere dalla figura 11 è il testo scritto l’indiscusso

protagonista della prima pagina del Times online. I vari

articoli sono presentati da titoli sintetici e dal carattere solo

121 «Questa settimana segna un significativo cambiamento per il New

York Times dal momento che introduciamo la sottoscrizione di un

abbonamento. E’ un passo importante che speriamo vedrete come un

investimento per il Times, che rinforzerà la nostra abilità di fornire

giornalismo di alta qualità a lettori in ogni parte del mondo e tramite ogni

mezzo». Sulzberger A., A Letter to Our Readers About Digital

Subscriptions in nytimes.com, 17 marzo 2011,

(http://www.nytimes.com/2011/03/18/opinion/l18times.html). 122 «Nel 2012, qualcosa di straordinario è successo al Times. E’ stato

l’anno in cui i guadagni derivanti dalla tiratura – soldi che vengono dalle

persone che comprano il giornale o dall’accesso alla versione digitale –

hanno sorpassato quelli provenienti dalla pubblicità». Sullivan M., A

Milestone Behind, a Mountain Ahead in nytimes.com, 19 gennaio 2013,

(http://www.nytimes.com/2013/01/20/public-editor/a-milestone-behind-

a-mountain-ahead.html?ref=opinion&_r=2&).

76

leggermente più grande rispetto alle poche righe di

presentazione del pezzo.

(figura 11 – la homepage del New York Times, l’8 novembre 2013

alle 11:57)

Grande importanza è affidata agli autori dei contenuti, i

cui nomi compaiono anche nella pagina principale. I temi che

hanno precedenza nell’agenda della redazione sono la

politica (sia americana, sia estera) e l’economia. Il sito del

New York Times non trascura le potenzialità del Web 2.0:

contenuti multimediali, link ipertestuali, sharing buttons e

possibilità di inserire commenti. La peculiarità del giornale

statunitense è di carattere gerarchico: il fulcro del processo

informativo è ancora la notizia, il testo scritto. Questo non

significa che vengano sottovalutate le opportunità offerte

dalle nuove tecnologie, tutt’altro; ma queste ultime sono

sempre al servizio del testo. E’ proprio il New York Times tra

i pochi giornali a sfruttare a pieno i nuovi media per offrire

77

un differente tipo di giornalismo, in italiano chiamato di

precisione, in inglese data journalism. Si legge

nell’introduzione di Data Journalism Handbook123: «Data

can be the source of data journalism, or it can be the tool with

which the story is told – or it can be both124». Ovvero, «I dati

possono essere la fonte del data journalism, oppure possono

essere lo strumento attraverso cui la storia viene raccontata –

o può essere entrambe le cose». Nel dicembre del 2012 il New

York Times online si è distinto attraverso una narrazione che

ha stupito il mondo giornalistico, tanto dalla parte dei

professionisti, quanto da quella dei lettori. Bisogna fare un

passo indietro, sino al 19 febbraio 2012. Tre sciatori vengono

uccisi da una valanga a Steven Pass, un passo di montagna

delle Cascade Mountains, non lontano dalla città di Seattle,

nello stato americano di Washington125. Come di consueto,

una notizia di questo tipo esaurisce la propria efficacia

narrativa nel giro di qualche ora, non più di pochi giorni.

Invece, a distanza di quasi un anno, nel dicembre del 2012, il

New York Times ha ripreso in mano l’accaduto costruendo

123 «Il Data Journalism Handbook è un libro gratuito, di pubblico dominio

per chiunque sia interessato al campo emergente del giornalismo di

precisione». «The Data Journalism Handbook is a free, open source

reference book for anyone interested in the emerging field of data

journalism». Nato durante un workshop di 48 ore al MozFest 2011 di

Londra, ha successivamente visto la partecipazione di illustri

professionisti provenienti da testate come la BBC, il Chicago Tribune,

The Guardian, The Financial Times, La Nacion, The Washington Post e

molti altri, compreso il New York Times.

http://datajournalismhandbook.org/ 124 http://datajournalismhandbook.org/1.0/en/introduction_0.html 125 Avalanches kill three in Washington state ski resorts in

theguardian.com, 20 febbraio 2013,

(http://www.theguardian.com/world/2012/feb/19/avalanche-washington-

state-kills-three).

78

attorno ad esso una narrazione rivoluzionaria. Chiamato

Snow Fall126 e realizzato dal reporter John Branch, il progetto

è stato sviluppato in 6 differenti capitoli127. La storia non è

semplicemente corredata da elementi multimediali – video,

grafiche animate, immagini, grafici –, essi sono invece parte

integrante della narrazione, che segue logiche differenti

anche per quanto riguarda il testo scritto, che non si limita a

riportare un fatto di cronaca. I realizzatori hanno cercato –

riuscendovi – di fare immergere il lettore nell’universo

multimediale da loro ideato, ad esempio tramite immagini

della montagna e del punto in cui si trovavano gli sciatori

rimasti uccisi dalla valanga. «It feels like you know the

people and can imagine what they went through. Of course

this can partly be attributed to the personal writing style. But

more than a mere text could achieve the multi-medial

approach creates a feeling of having been there128». Oltre a

regalare al New York Times il premio Pulitzer 2013 per il

feature writing, Snow Fall è stato anche un successo di

pubblico. Soprattutto, l’ambizioso progetto realizzato dal

126 http://www.nytimes.com/projects/2012/snow-

fall/?_r=0#/?part=tunnel-creek 127 Tunnel Creek (primo capitolo, Tunnel Creek è il nome dell’insenatura

del passo di montagna Steven Pass); To the peak (secondo capitolo, Verso

la cima); Descent begins (terzo capitolo, La discesa inizia); Blur of white

(quarto capitolo, Confusione bianca); Discovery (quinto capitolo, La

scoperta); Word spreads (sesto capitolo, La parola diffonde). Ibidem. 128 «Sembra come di consocere le persone e di potere immagini quello che

hanno vissuto. Naturalmente, questo può essere parzialmente attribuito

allo stile di scrittura personale. Ma più di quanto un semplice testo può

riuscire a fare, l’approccio multimediale crea una sensazione di essere

stati lì». Snow Fall, the future of online journalism? in Masters of Media

11 settembre 2013, (http://mastersofmedia.hum.uva.nl/2013/09/11/snow-

fall-future-of-online-journalism/).

79

giornale statunitense ha aperto un dibattito sul futuro del

giornalismo, sempre più a suo agio nell’universo

multimediale della Rete, in grado di offrire possibilità

narrative prima impensabili. «The New York Times debuted a

new multimedia feature Thursday so beautiful it has a lot of

people wondering — especially those inside the New York

Times — if the mainstream media is about to forget words and

pictures for a whole lot more129». Snow Fall ha rappresentato

fonte di stimuli e ispirazione per il Times, che ha segnato in

agenda diversi progetti legati all’universo digitale: «Una

rivista solo per tablet, l’introduzione di un direttore per i

contenuti digitali a basso prezzo, riuniti sotto il nome di Need

to know e nuova ricetta tutta digital per le notizie

gastronomiche130».

129 «Il New York Times ha esordito con una nuova funzione multimediale

giovedì, così bella che ha portato molte persone a domandarsi –

specialmente persone all’interno del New York Times – se i mass-media

siano in procinto di mettere da parte parole e immagini per molto di più».

Greenfield R., What the New York Times's 'Snow Fall' Means to Online

Journalism's Future in theatlanticwire.com, 20 dicembre 2012.

(http://www.theatlanticwire.com/technology/2012/12/new-york-times-

snow-fall-feature/60219/). 130 Thoman F., L’eredità di Snow Fall: un New York Times sempre più

digitale in corriere.it, 15 luglio 2013,

(http://piazzadigitale.corriere.it/2013/07/15/leredita-di-snow-fall-un-

new-york-times-sempre-piu-digitale/).

80

(figura 12 – La prima pagina di Snow Fall)

The Guardian. Altro caso che offre diversi spunti d’interesse

è quello del Guardian, quotidiano inglese nato a Manchester

nel 1821. Il giornale del Lancashire si è avvicinato a piccoli

passi alla Rete a partire dal 1995. Ad esempio, nel 1996 venne

lanciato un sito dedicato agli Europei di calcio del 1996,

chiamato eurosoccer.com. Il debutto online vero e proprio

arrivò invece tre anni più tardi, nel gennaio del 1999, quando

venne creato il The Guardian Unlimited network of

websites131 (figura 13). Nel settembre dello stesso anno il sito

131 Il network includeva inizialmente quattro sezioni (News Unlimited,

Football Unlimited, Cricket Unlimited and Jobs Unlimited), a cui poi ne

vennero aggiunte altre cinque (Film Unlimited, Education, Books,

Shopping and Money). http://www.theguardian.com/gnm-

archive/guardian-website-timeline

81

può vantare già un milioni di utenti. Un anno più tardi,

nell’aprile del 2000, il Guardian si inserì nelle dinamiche di

un altro fenomeno in grandissima ascesa, la blogosfera, con

uno spazio chiamato Guardian Weblog. Il 2004 vide invece

l’arrivo della versione digitale del giornale cartaceo: gli

articoli dell’edizione stampata erano ora disponibili online

tramite un’interfaccia grafica sviluppata all’interno del

Guardian stesso.

(figura 13 – Il Guardian Unlimited al momento del lancio, nel

gennaio del 1999)

Un anno cruciale per il rapporto tra il quotidiano inglese e

il Web fu il 2006. La sezione Comment Is Free venne aperta

con l’intento di creare uno spazio dedicato al dibattito, alla

discussione, spronando il pubblico a commentare qualunque

cosa venisse da loro letta. Nello stesso anno, il direttore del

82

Guardian, Alan Rusbridger lanciò il motto Web first. Fu un

cambiamento epocale, che stravolse la logica di

pubblicazione delle notizie e i normali rapporti gerarchici tra

i media digitali e quelli offline: «Per la prima volta, uno dei

principali giornali nazionali inglesi ha deciso di pubblicare

gli articoli delle sue firme, inviati e corrispondenti, subito sul

web, senza aspettare di andare in edicola132». A conferma

della posizione di Rusbridger nei confronti della Rete, è

interessante riportare il suo intervento avvenuto in occasione

dell’incontro Esiste il giornalismo? dedicato a Hugh Cudlipp,

ex direttore del Daily Mirror133. Le parole del direttore del

Guardian hanno trattato in particolar modo la diatriba tra

l’accesso gratuito ai contenuti e quello a pagamento.

«As an editor, I worry about how a universal pay wall

would change the way we do our journalism," he

continued. "Journalists have never before been able to

tell stories so effectively, bouncing off each other,

linking to each other (as the most generous and open-

minded do), linking out, citing sources, allowing

response […]. If ever there was a route to building

audience, trust and relevance, it is by embracing all

the capabilities of this new world, not walling yourself

away from them134».

132 Pratellesi M., New Journalism, cit., p. 51 133 L’incontro si è tenuto nel gennaio del 2010. 134 «In qualità di edtore, mi preoccupo di come un paywall univerale

cambierebbe il modo in ci facciamo giornalismo. I giornalisti non sono

mai stati in grado prima di ora di raccontare delle storie in modo così

efficace, appoggiandosi l’un l’altro, facendo riferimento all’altro (come

fanno i più generosi e aperti di mente), creando collegamenti, citando

fonti, permettendo risposte […]. Se mai ci fosse una strada per costruire

83

Nel dicembre del 2010 il Guardian lancia Datastore e

Datablog. « The Data Store is an online directory providing

a selection of datasets on topics of public interest

(government data, education, culture, population) and tools

to explore them135». Il Datablog, invece, raccoglie le analisi

di questi dati. Scrive il creatore e curatore della sezione Data

del Guardian, Simon Rogers: «Dal momento che il web

produce un numero sempre maggiore di dati, i lettori di tutto

il mondo sono più interessati ai meri fatti dietro le notizie di

quanto lo fossero mai stati prima136». Un momento cruciale,

tanto per il data journalism, quanto per quello promosso dal

Guardian, è stato secondo Rogers legato alla prima

un seguito, per costruire fiducia e pertinenza, questa strada

prevede l’apertura a tutte le possibilità di questo nuovo

mondo, non l’isolamento da loro». Guardian's Alan

Rusbridger on why his paper will remain free online in

editorsweblog.org, 26 gennaio 2010,

(http://www.editorsweblog.org/2010/01/26/guardians-

alan-rusbridger-on-why-his-paper-will-remain-free-

online). 135 «Il Datastore è una sezione online che fornisce una

raccolta di set di dati su argomenti di pubblico interesse

(governo, educazione, cultura, popolazione) e strumenti per

esplorarli». The Guardian Data Store in

datadrivenjournalism.net, 30 agosto 2011,

(http://datadrivenjournalism.net/resources/the_guardian_d

ata_store). 136 «As the web pumps out more and more data, readers

from around the world are more interested in the raw facts

behind the news than ever before». Behind the Scenes at the

Guardian Datablog,

(http://datajournalismhandbook.org/1.0/en/in_the_newsro

om_3.html).

84

pubblicazione di dati da parte di Wikileaks137, che nell’aprile

del 2010 pubblicò del materiale riguardante l’intervento

militare in Afghanistan138. «Before Wikileaks, we were sat on

a different floor, with graphics. Since Wikileaks, we have sat

on the same floor, next to the newsdesk. It means that it’s

easier for us to suggest ideas to the desk, and for reporters

across the newsroom to think of us to help with stories139».

Repubblica.it. La versione online de La Repubblica è,

secondo i dati Audipress140, il giornale italiano più letto su

Internet. La testata nata nel 1976 è approdata sul Web nel

1997. Redazione cartacea e redazione online sono

rigidamente separate141: la prima è diretta da Ezio Mauro, la

seconda da Vittorio Zucconi. La hompage del sito mostra un

buon equilibrio tra testo ed elementi multidimediali.

Vengono meno alcune possibilità di interazione per i lettori:

Repubblica.it non offre un forum di discussione, mentre i

commenti sono abilitati solamente per alcuni articoli. L’altro

lato della medaglia vede invece un grande utilizzo

dell’universo dei social network, in particolar modo di

Twitter. Il servizio Repubblica Domani142 è una delle

rubriche più interessanti presenti nel sito, nonché un ottimo 137 http://wikileaks.org/ 138 Behind the Scenes at the Guardian Datablog, (cit.). 139 «Prima di Wikileaks, noi eravamo seduti in un piano differente, con i

grafici. Dopo Wikileaks, siamo stati seduti sullo stesso piano, accanto alla

redazione che si occupa delle news. Significa che è più facile per noi

suggerire loro delle idee, mentre per i reporter è più facile pensare a noi

per essere aiutati nella costruzione delle loro storie». Ibidem 140 Dati di lettura – Quotidiani – 2013/I in primaonline.it, 27 maggio

2013, (http://www.primaonline.it/2013/05/27/118185/dati-di-lettura-

quotidiani-2013i/). 141 Le redazioni si trovano addirittura in due edifice diversi. 142 http://video.repubblica.it/rubriche/repubblica-domani

85

esempio di integrazione tra sito Web e giornale cartaceo. Le

telecamere di RepubblicaTV entrano all’interno della

redazione della testata per assistere alla riunione della

redazione del mattino. Dall’intervento del direttore Ezio

Mauro, a quelli dei vari responsabili di settore. I vari fatti del

giorno presentati ed analizzati in vista della stesura del nuovo

numero del quotidiano.

Internazionale. Nel panorama editoriale italiano merita di

essere analizzato il caso di Internazionale. Si tratta di una

rivista con uscita settimanale nata nel 1993, diretta da

Giovanni De Mauro. La peculiarità di questo prodotto

giornalistico di Roma sta nel modo in cui utilizza la Rete. Si

proceda con ordine. Internazionale ogni settimana seleziona

un certo numero di articoli provenienti da testate di tutto il

mondo. Una volta scelti vengono tradotti e presentati al

pubblico italiano. La versione online offre dei servizi

aggiuntivi ai lettori del cartaceo, con cui vive un rapporto di

stretta simbiosi. L’homepage del sito accoglie il navigatore

con una slideshow di 10 immagini provenienti da ogni angolo

del globo143. C’è la possibilità di sfogliare il sommario della

versione cartacea ma per accedere ai contenuti è necessaria la

sottoscrizione di un abbonamento. Il sito offre anche dei

contenuti gratuiti: alcune news, la sezione delle “opinioni”,

ovvero dei blog curati dai collaboratori di Internazionale e la

sezione “Paesi”. Quest’ultima è una sorta di grande archivio

che, suddiviso per continenti, oltre a raccogliere contenuti 143 Alle 17:19 dell’11 novembre 2013, ad esempio, le fotografie racconto

nell’ordine: Scontri tra palestinesi e soldati israeliani a Hebron, in

Cisgiordania, per l’anniversario della morte di Yasser Arafat; La fiera

annuale di cammelli a Pushkar, nello stato indiano del Rajasthan; La

fiera annuale di cammelli a Pushkar, nello stato indiano del Rajasthan; e

così via.

86

presenti sul sito della rivista stessa, rimanda a tutti i giornali

di quel determinato paese. Ad esempio, cliccando sull’Italia,

si trovano prima di tutto delle informazioni di carattere

generale (la capitale, l’ora locale, il meteo ecc.). Poco più in

basso c’è spazio per l’ultima ora, delle flash news che

scorrono e a cui è possibile accedere cliccandoci sopra. Si

trovano poi foto, articoli (tanto delle news quanto dei blog),

una mappa dell’Italia, un link alla pagina di Wikipedia e

molto altro. Sul fondo della pagina si trova la sezione “Oggi

in edicola”, dove vengono mostrate le prime pagine dei

maggiori quotidiani nazionali. Poco più in basso, c’è l’elenco

di tutte le testate italiane divise per categorie con i link che

rimandano ai loro rispettivi siti Web. Qual è dunque il punto

di forza di Internazionale? «Quello che noi offriamo al lettore

è la selezione – dice il direttore De Mauro in un’intervista

rilasciata alla rivista Studio144 –. La nostra esistenza è la

dimostrazione di quello che anche Google ha capito, e cioè

che la straordinaria massa di informazioni disponibile è

sostanzialmente inutilizzabile se non è filtrata e selezionata.

Sono convinto che un giornale, più ancora da ciò che

pubblica, derivi la sua identità da ciò che non pubblica, dalla

scrematura145». Il lavoro svolto dalla redazione di

Internazionale si divide fondamentalmente in tre fasi: lettura,

scelta e traduzione. Il successo ottenuto – come ha

pertinentemente sottolineato il direttore della rivista – deriva

144 Studio è una rivista bimestrale di attualità culturale nata nel marzo del

2011. Dentro Internazionale, l’articolo da cui è tratta l’intervista a De

Mauro, è stato pubblicato nel numero 8. Momigliano A., Dentro

Internazionale in rivistastudio.com, 28 giugno 2012,

(http://www.rivistastudio.com/editoriali/media-innovazione/nella-

fabbrica-di-internazionale/). 145 Ibidem.

87

dall’opera di selezione svolta dalla redazione. Internazionale

si inserisce nel mercato online entrando da una porta

secondaria, sfruttando il rovescio della medaglia della grande

quantità d’informazione presente sulla Rete: la difficoltà nel

selezionare e scegliere. Il lavoro svolto dal settimanale

consente all’utente di risparmiare tempo ed energie preziose.

(figura 14 – la homepage di Internazionale, il 5 dicembre 2013

alle 15:55)

2.2 Modelli di testate nate online

Nel paragrafo precedente sono state analizzate delle realtà

editoriali che, forti del loro retroterra cartaceo, hanno messo

piede nel mondo dell’informazione digitale. Pur seguendo

logiche differenti ed ottenendo risultati altrettanto diversi,

88

queste testate sono accomunate da un nome, che in questo

senso può essere inteso come un marchio, che offre nella

dinamica del rapporto tra giornale e pubblico un’opportunità

di riconoscimento e fidelizzazione. Cosa cambia invece per

quegli editori che abbiano deciso o decidano di dare vita a

testate concepite per il Web e nate direttamente nel mare

magnum di Internet? Si cercherà di delineare in questo

paragrafo le dinamiche che caratterizzano queste realtà, le

difficoltà a cui vanno incontro e le diverse vie intraprese.

Il 19 aprile del 2012, l’Università di Oxford, tramite il suo

RISJ, Reuters Institute for the Study of Journalism, ha

pubblicato una ricerca dal titolo Survival Is Success146. I due

ricercatori, il danese Rasmus Klaus Nielsen e l’italiano

Nicola Bruno, hanno lavorato studiando la situazione di nove

realtà del giornalismo indipendente europeo. Tre le

caratteristiche condivise da queste nove imprese editoriali:

dovevano essere vere redazioni giornalistiche con contenuti

che fossero tali, essere nate esclusivamente sul web e per il

web (versioni mobili incluse), infine non dovevano essere in

alcun modo collegate a precedenti edizioni cartacee. La

domanda che si sono posti i ricercatori è stata la seguente:

vsto il lancio di un numero consistente di realtà giornalistiche

sul Web, quali sono i modelli di giornalismo online

sostenibile? Il titolo della ricerca – Survival Is Success,

ovvero La sopravvivenza è un successo – anticipa la

conclusione a cui sono giunti i due ricercatori, che hanno

potuto vedere come al proliferare di nuove testate e

146 Survival is Success: Journalistic Online Start-Ups in Western Europe

in reutersinstitute.politics.ox.ac.uk, 19 aprile 2012,

(https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/about/news/item/article/survival

-is-success-new-risj-chal.html).

89

all’ingenza degli investimenti non corrisponda poi un ritorno

economico: solamente due delle nove realtà prese in esame

hanno raggiunto il cosiddetto break even, ovvero il punto di

pareggio147. Un’altra conclusione tratta dai ricercatori è stata

l’impossibilità di sopravvivere facendo affidamento

esclusivamente sugli introiti pubblicitari148. La ricerca del

RISJ individua due sfide per il lancio di testate su Internet: la

prima è legata all’egemonia delle testate che derivano da altri

media, le quali sfruttano la forza del loro nome per attirare

grandi fette di pubblico149; la seconda invece riguarda gli

investimenti pubblicitari, che da una parte dovrebbero essere

ripartiti tra migliaia e migliaia di siti, dall’altra sono

monopolizzati da colossi come Google, Yahoo, Microsoft e

Facebook150. Le nove realtà analizzate dai ricercatori sono

equamente ripartite tra tre grandi paesi europei: Germania,

Francia e Italia. Al di là delle differenze tra questi stati, due

sono i tratti comuni, d’interesse per la ricerca del RISJ. Il

primo è che i loro mercati nell’ambito mediatico sono

principalmente nazionali: a differenza di testate di lingua

inglese, quelle di lingua tedesca, francese o italiana (così

147 In economia aziendale, il punto di pareggio (break even point o break

even, abbreviato in BEP) è un valore che indica la quantità, espressa in

volumi di produzione o fatturato, di prodotto venduto necessaria a coprire

i costi precedentemente sostenuti, al fine di chiudere il periodo di

riferimento senza profitti né perdite. Fonte: Wikipedia. 148 «Not one of the cases we look at has been able to function on the basis

of online advertising only». Bruno N., Nielsen R., Survival Is Success,

Journalistic Online Start-Ups In Western Europe, RISJ, University of

Oxford, 2012 – p.6

(https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/fileadmin/documents/Publicatio

ns/Challenges/Survival_is_Success.pdf). 149 Ibidem. 150 Ibidem.

90

come il resto dell’Europa) si orienteranno principalmente su

mercati di scala nazionale151. Il secondo tratto comune

riguarda l’estensione del mercato di riferimento: questi tre

paesi hanno una popolazione tra i 60 e gli 80 milioni e

investono miliardi di euro ogni anno nella pubblicità e nei

media. La logica conseguenza dovrebbe essere l’esistenza di

un buon bacino, quantomeno potenziale, tanto di utenti,

quanto di pubblicitari152. In aggiunta e in conferma di quanto

detto poc’anzi, Germania, Francia ed Italia vedono l’utilizzo

di Internet in grande crescita: oltre metà della loro

popolazione può essere considerata utenza attiva sul Web153.

Costante è anche la crescita degli investimenti pubblicitari su

Internet, in particolar modo per Germania e Francia, dove

circa il 20% degli investimenti è indirizzato online (in Italia

è il 6,5%)154. Partendo da queste basi i ricercatori hanno

analizzato queste nove realtà focalizzandosi su tre aspetti

principali: la loro collocazione nel mercato editoriale, il loro

pubblico di riferimento, il loro modello di business155.

Germania. Il mercato tedesco, il più attivo d’Europa, è

caratterizzato dalla forte egemonia dei media tradizionali e

delle loro controparti online. Una delle figure più autorevoli

della Rete è quella di Spiegel, che oltre a sfruttare il proprio

nome e le proprie risorse economiche, ebbe l’abilità di

muoversi in anticipo nel passaggio sul Web, avvenuto nel

1994, molto prima di gran parte della concorrenza. Spiegel è

stato il punto di riferimento dell’informazione digitale

151 Ivi, p. 9 152 Ibidem. 153 Ibidem. 154 Ivi, p. 10. 155 Ivi, p. 12.

91

tedesca fino al 2009, quando il tabloid Bild l’ha superato156.

La forza dei grandi gruppi editoriali ha rappresentato la

ragione principale che ha vanificato elementi che avrebbero

invece favorito la nascita e il successo di testate online: ad

esempio la capillare diffusione di Internet nel territorio

tedesco e il grande utilizzo della Rete nella ricerca di

notizie157. Netzeitung è la prima realtà trattata dai ricercatori.

Questo sito venne lanciato nel 2000 prendendo a modello uno

dei primi siti di informazione esclusivamente online, il

norvegese Nettavisen, lanciato nel 1996 e in grado di ottenere

un ottimo riscontro di pubblico pubblicando contenuti

disponibili in forma gratuita158. L’obiettivo di Netzeitung era

ambizioso: creare un quotidiano online sul modello di quelli

cartacei in grado di competere apertamente con questi ultimi.

Venne tuttavia commesso un errore strategico: vennero

sottovalutate le differenze tra il mercato norvegese e quello

tedesco, notevolmente più grande e competitivo. Così,

quando tra il 2003 e il 2004 la maggior parte dei media

tradizionali si dotarono di un sito Web, l’identità debole di

Netzeitung e le risorse limitate emersero159. La risposta del

sito tedesco fu quella di abbandonare il modello cartaceo per

costruire una realtà maggiormente orientata verso le

potenzialità della Rete. Venne individuata nella

multimedialità la risposta alla crisi, ma la sopravvivenza del

sito dipese principalmente dai frequenti cambi di proprietà

che consentirono l’innesto di nuovi capitali160. Il fallimento

del progetto Netzeitung arrivò nel 2009, quando il sito venne

156 Ivi, p. 16. 157 Ivi, p. 19. 158 Ivi, p. 20-21. 159 Ivi, p. 22. 160 Ivi, p. 23.

92

convertito a semplice aggregatore di notizie161. La seconda

realtà tedesca analizzata nella ricerca dell’Università di

Oxford è Perlentaucher. Si tratta di un progetto

completamente differente rispetto a quello appena riportato.

Lanciato nel marzo del 2001, questo sito non cercò di

competere con i media già esistenti, bensì di basare la propria

forza sulla ricerca di un’identità alternativa e originale. Il

nome del progetto è emblematico: Perlentaucher in italiano

significa “pescatore di perle”. Il sito si occupa infatti di

selezionare le migliori storie a sfondo culturale provenienti

dai media tedeschi e di ripubblicarle, mettendole a

disposizione dei lettori e concedendo la possibilità di

discuterne162. Il lavoro svolto dalla snella redazione di

Perlentaucher (4 componenti) è simile a quello che compie

l’italiano Internazionale, di cui si è parlato nel paragrafo

precedente. Il sito ha negli anni cercato anche di produrre

contenuti originali, per quanto possibile vista l’esiguità dello

staff. Altri interessanti servizi offerti sono ad esempio la

gestione di un database di recensioni di circa 40.000 libri, che

ha consentito al progetto tedesco di ben posizionarsi nelle

ricerche di Google163. La sopravvivenza di Perlentaucher è

anche garantita dai costi di gestione non altissimi (tra i

200.000 e i 300.000 € l’anno) e da una buona trovata

pubblicitaria: un banner posizionato sulla sinistra di ogni

pagina che pubblicizza un libro di recente uscita,

accompagnato da un piccolo abstract e dal link diretto per il

161 Ivi, p. 24-25. 162 Ivi, p. 27 163 Ivi, p. 28.

93

sito dell’editore e le relative pagine Facebook e Twitter164

(figura 15).

(figura 15 – la homepage di Perlentaucher il 12 novemnbre 2013

alle 14:20, sulla sinistra è possibile vedere il banner

pubblicitario)

Altre fonti di introiti sono le partnership con le librerie

online165, altri banner o servizi extra come la pubblicità

tramite newsletter166. Dopo oltre 10 anni Perlentaucher è

ancora attivo, anche se nel 2011, per fronteggiare la crisi, si è

trovato costretto a lanciare una campagna di raccolta fondi

che ha portato circa 22.000 € di donazioni nell’arco di due

164 Ivi, p. 29. 165 Quando un utente che viene dal database di Perlentaucher acqusita un

libro, il 10% della vendita va ai gestori del sito tedesco. Ivi, p. 30. 166 Ibidem.

94

settimane167. A conferma della fidelizzazione dei suoi lettori.

L’ultimo esempio della realtà tedesca è il giovane The

European, nato nel settembre del 2009. Il sito, fondato da

Alexander Görlach, basa la propria esistenza su una

considerazione: la Rete è invasa dalla sterminata disponibilità

di informazioni, ma manca di analisi in profondità. Questo il

settore dove The European vuole inserirsi: fornire

approfondimenti a notizie di carattere politico e culturale168.

Un altro punto di forza del sito è il prestigio delle firme:

professori universitari, politici, giornalisti, esperti di finanza.

Il target di riferimento della creatura di Görlach è

dichiaratamente una nicchia acculturata, ma non si

possiedono dati del traffico del sito al di fuori di quelli

dichiarati da Görlach stesso (circa 300.000 utenti al mese)169.

Gli introiti di The European derivano in gran parte dalla

pubblcità, composta sia da normali annunci che da

advertorials170, oltre che dall’organizzazione di eventi e dalla

consulenza legata ai social media171. Trattandosi di una realtà

molto giovane, resta da vedere se The European sarà in grado

di attrarre un pubblico più ampio, costruendosi una propria

nicchia al di fuori del sistema mediatico tradizionale, magari

facendo affidamento alle nuove possibilità narrative offerte

dalla Rete.

Francia. Nel 2009 la carta stampata francese ha attraversato

una profonda crisi, dovuta dall’ascesa di Internet da un lato,

167 Ivi, p. 31. 168 Ivi, p. 33. 169 Ivi, p. 35. 170 In italiano si chiama pubbliredazionale, o articolo pubbliredazionale,

ed è un'informazione pubblicitaria impaginata e redatta similarmente ad

un normale articolo della testata giornalistica. Fonte: Wikipedia. 171 Ibidem.

95

dalla crisi economica dall’altro. Le imprese editoriali hanno

richiesto l’aiuto statale, ottenuto dal governo Sarkozy con lo

stanziamento di oltre 200 milioni di euro addizionali ai

normali finanziamenti. Molti giornali, a causa di queste

difficoltà, sono stati costretti a muoversi verso la Rete, non

senza molta diffidenza172. Il fattore che diversifica la

situazione francese da quella tedesca e da quella italiana è che

i siti maggiormente seguiti dagli utenti a caccia di

informazioni non sono quelli dei giornali, ma di emittenti

come TF1 e France Televisions. Il modello più diffuso per

quanto riguarda le testate online prevede una rigida

separazione tra le redazioni della carta stampata e online,

fenomeno che coinvolge colossi come Le Monde.fr o Le

Figaro.fr173. Nonostante le difficoltà incontrate dai media

tradizionali, questi ultimi continuano ad essere anche in

Francia i siti più visitati per ottenere informazioni. Tuttavia,

la distanza tra le nuove realtà nate online e le trasposizioni

digitali di testate cartacee è molto più sottile rispetto a quanto

lo sia in Germania174. Il primo esempio descritto dai

ricercatori dell’Università di Oxford è AgoraVox. Nato nel

marzo del 2005, AgoraVox è uno esempio di citizen

journalism. L’ambizione del suo fondatore Carlo Revelli era

quella di rivoluzionare il comportamento dell’individuo nel

Web portando l’utente ad una modus operandi più attivo e

consapevole, ad esempio trovando dell’informazione non

ancora pubblicata o verificando una voce di corridoio175.

Negli anni AgoraVox è cresciuto arrivando a lanciare delle

172 Ivi, p. 42. 173 Ibidem. 174 Un progetto indipendente come Rue89 vanta poco più di 2 miloni di

utenti rispetto ai 6,3 di Le Figaro e ai 5,8 di Le Monde. Ivi, p. 44-45. 175 Ivi, p. 48.

96

versioni in inglese e in italiano, una piattaforma di

condivisione video (AgoraTV), dei canali tematici (dedicati

all’ambiente, al benessere e alla salute). La creatura di Revelli

concede la possibilità agli utenti, previa registrazione, di

pubblicare autonomamente i contenuti sul sito. Il compito dei

nove gestori di AgoraVox è quello di controllare ed

eventualmente modificare quanto viene reso pubblico sul

sito, seguendo però una logica collaborativa e

partecipativa176. Il grande successo iniziale è stato seguito da

una crisi arrivata sul finire del 2009, che ha ridotto

considerevolmente il traffico degli utenti e costringendo il

team di AgoraVox a fare affidamento a campagne di raccolta

fondi per integrare gli introiti pubblicitari177. Le difficoltà

incontrate dal sito francese vanno comunque viste come parte

di una fase di stallo che vive il citizen journalism nel suo

complesso. Un’altra realtà francese è quella di Rue89, un sito

lanciato nel maggio del 2007 che si proponeva come modello

di integrazione tra giornalismo professionale e citizen

journalism. Sin dagli esordi la creatura dei reporter Pierre

Haski e Pascal Riché si è distinta per la sua apertura, la sua

spinta all’innovazione e la sua indipendenza. Nonostante la

possibilità data ai lettori di inoltrare proposte al management

del sito, il potere decisionale su cosa pubblicare o meno

rimane in mano al vertice della piramide. Accanto ai

commenti degli utenti, trovano spazio quelli accademici,

avvocati o esperti di economia178. Si può dire quindi che pur

incoraggiando la partecipazione del pubblico e pur cercando

di costruire una comunità fidelizzata intorno al sito, Rue89

non verte verso il giornalismo partecipativo, il sito cerca

176 Ivi, p. 49. 177 Ivi, p. 50. 178 Ivi, p. 53.

97

piuttosto di trovare un punto di incontro tra i professionisti e

i lettori. Il riscontro a livello di seguito è stato più che buono,

con una crescita costante fino al 2011 (2 milioni di utenti

unici al mese). Tuttavia, nonostante il successo, la forbice tra

spese e introiti è ampia179. Sono state molte le iniziative

messe in atto da Rue89 per integrare i ricavi derivanti dalle

pubblicità: dall’e-commerce al fundraising, sino ad arrivare

alla versione cartacea della testata180. Nel dicembre del 2011

il sito è stato acquistato dal gruppo di Le Nouvel Observateur,

posseduto da Claude Perdriel, un settimanale nato come

cartaceo e divenuto tra i più letti di Francia anche nella sua

veste digitale181. I prossimi anni diranno come Rue89

affronterà la convivenza con un colosso dell’editoria

tradizionale, quel che la ricerca di Nielsen e Bruno ha

evidenziato è come nonostante questa testata online avesse

dimostrato di poter competere sul mercato dal punto di vista

dell’originalità dei contenuti, del seguito, della

partecipazione degli utenti e dell’uso dei nuovi formati

disponibili sul Web, il modello di business non fosse

sostenibile e come l’attività fosse in perdita. L’ultimo caso

preso in esame per quanto concerne la Francia è quello di

Mediapart. Lanciato nel 2008, Mediapart si distingue dalla

maggior parte delle realtà presenti sul Web per una ragione: i

suoi contenuti sono accessibili solamente previa

sottoscrizione di un abbonamento (figura 16). I costi – escluse

eventuali offerte – sono di 9 € al mese o 90 € per tutto

179 Nel 2010 una spesa pari a circa 2,2 milioni di euro di fronte a dei ricavi

di circa 1,8 milioni di euro. Ivi, p. 56. 180 Ibidem. 181 Ivi, p. 57-58.

98

l’anno182. La linea della testata, diretta da Edwy Panel, si

fonda sulla presa di distanza rispetto a qualsiasi tipo di

influenza politica o economica183, influenza da cui – sostiene

Mediapart – non sono invece esenti gli altri media. Il team di

questa realtà francese si compone di 25 giornalisti, molti di

loro provenienti da altre importanti testate come Le Monde.

Lo stile che caratterizza Mediapart è aggressivo, si cerca di

investigare nel mondo politco ed economico per portare alla

luce verità scottanti. Un caso emblematico si verificò nel

giugno del 2010, quando il giornale francese decise di

pubblicare integralmente delle intercettazioni riguardanti

Liliane Bettencourt, una delle principali azioniste de L’Oreal.

Le registrazioni svelavano che quest’ultima aveva aggirato il

pagamento di tasse tenendo una certa somma di denaro in

conti bancari svizzeri, il tutto favorito dalla complicità del

partito dell’allora Presidente Sarkozy, l’Union pour un

Mouvement Popoulaire184. La pubblicazione da parte di

Mediapart, arricchita di giorno in giorno con costanti

aggiornamenti, creò un dibattito frenetico, oltre allo sdegno

dell’opinione pubblica. Nonostante le reazioni legali del

Partito, lo scandalo era ormai scoppiato185. La ricerca del

RISJ rivela come gli introiti derivanti dalle sottoscrizioni

coprano la maggior parte dei ricavi186, con il resto di questi

182 Il sito offre anche la possibilità di essere testato dall’utente per 15

giorni al costo di 1 € https://www.mediapart.fr/abonnement. 183 Plenel E., Le prix de la liberté in mediapart.fr, 16 marzo 2008,

(http://www.mediapart.fr/journal/france/100308/le-prix-de-la-liberte). 184 Bruno N., Nielsen R., Survival Is Success, Journalistic Online Start-

Ups In Western Europe, cit., p. 60. 185 Ibidem. 186 Dopo lo scandalo Bettencourt, le sottoscrizioni sono raddoppiate. Ivi,

p. 62.

99

affidati alla vendita di e-books o a sussidi statali187. Dopo

anni in perdita, Mediapart ha raggiunto il break even nel 2012

facendo affidamento quasi esclusivamente sui ricavi

provenienti dai propri abbonati188. Tuttavia, non sono poche

le critiche che sono state mosse a questa intrigante realtà

francese. In primo luogo, al di là dei proclami, l’innovazione

non è un carattere predominante nella logica di Mediapart.

La struttura della testata ricorda quella dei formati cartacei,

manca un utilizzo delle nuove tecnologie offerte dalla Rete.

Soprattutto, la sua accessibilità limitata vanifica la

concezione stessa della Rete come scambio libero di

informazioni. Un’altra critica accusa Mediapart di essere

stata troppo apertamente anti-Sarkozy e di essere invece

vicina alla sinistra francese189. Al di là di queste

considerazioni, l’esperimento di Mediapart e la sua scelta del

paywall stanno al momento funzionando. La testata di Plenel

è riuscita a trovare la propria fetta di pubblico, altamente

fidelizzata. Fintanto che i lettori saranno disposti a pagare per

accedere a questi contenuti, Mediapart potrà portare avanti le

investigazioni e le battaglie che lo hanno fino a questo

momento caratterizzato.

187 Ivi, p. 63. 188 Ibidem. 189 Ivi, p. 64.

100

(figura 16 – un articolo di Mediapart del 14 novembre 2013.

L’immagine mostra la scritta “La lecture des articles est réservée

aux abonnés”, che significa “La lettura degli articoli è riservata

agli abbonati”. In basso si nota come l’incipit del pezzo vada via

via sfumando fino a sparire)

Italia. E’ giunto il momento di prendere in esame la realtà

italiana, l’ultima analizzata dalla ricerca dell’Università di

Oxford. Appare un evidente ritardo rispetto agli altri paesi,

fino al 2010 infatti l’unica testata online meritevole di essere

considerata è stata Dagospia. Lanciato nel maggio del 2000,

Dagospia prese a modello l’americano Drudge Report, di cui

si è parlato in precedenza in merito al sexgate. Pettegolezzi e

voci di corridoio, in particolar modo riguardanti il mondo

della politica. Dagospia è stato in grado di ottenere un buon

riscontro di pubblico e di mettere in piedi un modello di

101

business sostenibile fino al 2010, anno in cui il fondatore

Roberto D’Agostino ha deciso di applicare un paywall

all’archivio del sito190. Per quasi un decennio Dagospia è

stata l’unica realtà italiana di un certo rilievo nel campo delle

testate giornalistiche nate online, fenomeno da ricollegarsi al

ritardo con cui, rispetto ai principali paesi europei, l’Italia ha

visto crescere la diffusione e l’utilizzo di Internet nel proprio

territorio. I ricercatori di Oxford hanno individuato un altro

motivo in grado di spiegare il gap che l’Italia si è vista

costretta a colmare. Il sistema mediatico italiano vede degli

intrecci con il mondo politico, così come quello economico o

industriale, che non presentano affinità con nessun’altra

situazione in Europa191. Tuttavia, nel corso degli anni, i

grandi gruppi editoriali si sono mossi con lentezza nel mondo

del Web, ritardo che potrebbe in qualche modo favorire

l’inserimento e la crescita di altre realtà. Ma è presente

un’altra criticità nel sistema italiano: i costi di gestione sono

infinitamente più alti. Questo significa che i siti necessitano

di flussi di traffico particolarmente copiosi. A tal proposito i

ricercatori riportano che un sito come il tedesco

Perlentaucher, in grado di raggiungere il break even in

Germania, avrebbe approssimativamente bisogno in Italia di

un traffico 10 volte superiore a quello che ha attualmente per

sopravvivere192. Nonostante le molte difficoltà, a partire dal

2010 qualcosa si è iniziato a muovere. Il 20 aprile del 2010 è

stato lanciato Il Post. Creato da Luca Sofri, blogger e

giornalista, il modello scelto è stato quello dell’americano

Huffington Post. L’obiettivo di questo sito è di trovare un

equilibrio tra la selezione e la raccolta di notizie di altri media

190 Ivi, p. 69. 191 Ivi, p. 70-71. 192 Ivi, p. 74.

102

e l’analisi, la critica, il tutto condito dalla partecipazione

dell’utenza. Sofri non vuole inserirsi nel mercato come

concorrente dei media tradizionali, si mira piuttosto ad

attirare una nicchia di pubblico in cerca di orientamento nel

sovraccarico informativo della Rete193. La redazione de Il

Post ripropone notizie altrui accompagnadole con una breve

introduzione ed un link alla fonte, ma produce anche

contenuti originali, approfondimenti, soprattutto in materia di

blog194. Tuttavia, la creatura di Sofri non è ancora riuscita a

far crescere la propria nicchia di pubblico, che sembra essere

limitata principalmente alla blogosfera195. Altro interessante

progetto italiano è quello di Lettera43. Nato pochi mesi dopo

Il Post (ottobre 2010), questo sito si propone come un mix tra

notizie di attualità, approfondimenti e gossip. Il fondatore è

Paolo Madron, giornalista che ha a lungo collaborato con

testate di economia e finanza come Il Sole 24 Ore, oltre ad

essere stato vice-direttore del settimanale Panorama e

direttore della rivista Economy. Le conoscenze di Madron nel

mondo finanziario hanno consentito a Lettera43 di partire con

un budget di gran lunga superiore a quello di testate

concorrenti, oltre a garantirgli importanti accordi

pubblicitari196. La redazione è composta da circa 20 persone,

oltre a circa 50 collaboratori esterni. Con oltre 80 notizie

pubblicate giornalmente, il prudente utilizzo di elementi

multimediali e un approccio tradizionale, il sito si propone

come un competitor dei grandi gruppi editoriali. L’obiettivo

è raggiungere un pubblico di massa, non una nicchia.

193 Ivi, p. 76. 194 Il sito ospita infatti una rete composta da circa 50 blogger non

retribuiti. 195 Ivi, p. 77. 196 Ivi, p. 80.

103

Nonostante i buoni risultati ottenuti sia a livello traffico

generato, sia per quanto riguarda gli investimenti dei

pubblicitari, il break even è un obiettivo non facilmente

raggiungibile in virtù del desiderio di Madron di competere

con i colossi del giornalismo italiano197. E’ Linkiesta l’ultimo

caso preso in esame dai due ricercatori del RISJ. Il progetto è

ambizioso, come si può leggere sul sito stesso nella sezione

“chi siamo”:

«Linkiesta.it è un giornale digitale indipendente, pro-

market, libero da ideologie e posizioni precostituite.

Dal punto di vista editoriale Linkiesta.it si posiziona

come organo di approfondimento e inchieste su

politica, economia e finanza, temi sociali. Linkiesta.it

è un’iniziativa innovativa che intende sfruttare

appieno il potenziale delle tecnologie digitali per

superare il concetto tradizionale di giornale,

promuovendo anche in Italia il concetto di citizen

journalism. Per questo motivo intende dare spazio

nella produzione editoriale ad una nuova generazione

di commentatori, provenienti dalla associazioni,

dall’università, dalla scuola e dalle professioni, che

oggi, purtroppo, non hanno spazio sulla stampa

tradizionale198».

A conferma della ricerca di indipendenza del sito, la

Società è divisa tra 84 soci, i quali – ai sensi dello Statuto –

non possono detenere quote superiori al 5% del capitale199.

197 Ivi, p. 82. 198 http://www.linkiesta.it/chi-siamo 199 Ibidem.

104

Linkiesta non si propone, a differenza di Lettera43, come

competitor dei grandi gruppi editoriali, l’obiettivo del

progetto è bensì quello di fornire al pubblico degli

approfondimenti, accompagnati da commenti ed inchieste. I

contenuti sono accessibili gratuitamente, ma Linkiesta chiede

supporto ai propri lettori tramite la sottoscrizione di un

abbonamento200, un’opzione che qualora ricevesse un buon

seguito consentirebbe al sito di integrare gli introiti

pubblicitari con altri, indispensabili ricavi. Quantomeno per

sopravvivere, risultato – dice la ricerca dell’Università di

Oxford – da considerare già come un successo.

Huffington Post. Oltreoceano la situazione sembra essere

differente. Negli Stati Uniti esistono progetti che sono stati in

grado di imporsi sul mercato ben oltre la semplice

sopravvivenza. Il caso più eclatante è quello dell’Huffington

Post201. Definire i confini delle realtà presenti sulla Rete non

è semplice: cos’è l’Huffington Post? Un giornale online? Un

blog? Un aggregatore di notizie? Una piattaforma social?

Come scrive Luca Sofri nel suo blog Wittgenstein202, «sono

soprattutto un grande editore, capace di vendere i suoi

prodotti molto diversi tra loro e di individuare la domanda del

mercato203». L’Huffington Post nasce nel maggio del 2005,

fondato da Arianna Huffington con la collaborazione di

Kenneth Lerer, Andrew Breitbart e Jonah Peretti204. «L’idea

200 Tre opzioni disponibili: 6 mesi a 54 €, 12 mesi a 90 € o 12 mesi a 500

€ in qualità di sostenitore. http://www.linkiesta.it/abbonati-linkiesta 201 http://www.huffingtonpost.com 202 http://www.wittgenstein.it 203 Sofri L., Cosa è lo Huffington Post, davvero in wittgenstein.it. 24

settembre 2012, (http://www.wittgenstein.it/2012/09/24/cosa-e-lo-

huffington-post/). 204 Fonte: Wikipedia.

105

per l’Huffington Post – sostiene la Huffington in un intervista

su Corriere.it – è nata dall’osservazione di come molte delle

discussioni più importanti su politica e società si stavano

spostando sulla Rete, ma tante personalità importanti, con

idee forti, erano tagliate fuori dal mondo di Internet. Così ho

deciso di creare una piattaforma che permettesse anche a

queste voci di partecipare al dialogo online205». La crescita

del sito è stata costante, nel 2008 l’Huffington Post ha iniziato

ad espandersi attraverso delle versioni locali206, mentre nel

2011 la creatura di Arianna Huffington si è spinta oltre i

confini statunitensi207. Nello stesso anno, ma in febbraio,

qualche mese prima della nascita di HuffPost Canada

(maggio), la prima edizione internazionale del sito, il colosso

americano AOL208 decide di investire circa 300 milioni di

dollari per comprare l’Huffington Post, partito con un

investimento iniziale di 1 milione di dollari209. In seguito

all’acquisizione da parte di AOL, Arianna Huffington,

205 Cella F., Arianna Huffington: “Pronta a portare il mio Post anche in

Italia”, in corriere.it, 1 ottobre 2011,

(http://vitadigitale.corriere.it/2011/10/11/arianna-huffington-pronta-a-

portare-il-mio-post-anche-in-italia/). 206 Le prime sono state HuffPost Chicago e HuffPost New York, seguite

da altre come HuffPost Denver o HuffPost Los Angeles. Fonte: Wikipedia. 207 L’Huffington Post è arrivato in Canada, Germania, Spagna, Francia,

Giappone, Maghreb, Regno Unito. Esiste anche una versione italiana in

collaborazione con il Gruppo Espresso, diretta da Lucia Annunziata e

nata nel settembre del 2012. 208 AOL Inc. (in precedenza America Online, Inc. e AOL, LLC) è una

multinazionale mass media che si sviluppa, cresce e investe in marchi e

siti web ed è, dato 2006, il più grande internet service provider del mondo

con i suoi 30 milioni di utenti. Fonte: Wikipedia. 209 Aol, 315 milioni per l'Huffington Post, in corriere.it, 7 febbraio 2011,

(http://www.corriere.it/economia/11_febbraio_07/aol-acquista-

Huffington%20Post_2148d7be-3287-11e0-8ce8-00144f486ba6.shtml).

106

diventa presidente e redattore capo del nuovo gruppo (The

Huffington Post Media Group), che integra i contenuti delle

due aziende210. Alla domanda se l’acquisizione da parte di

AOL possa rappresentare un problema per il carattere

“ribelle” che ha caratterizzato il sito fin dalla sua creazione,

Arianna Huffington risponde: «Stiamo seguendo un percorso

molto simile a quello generale di Internet. Il Web è cresciuto

e con lui i navigatori, non sono più degli adolescenti ma un

pubblico più maturo: non prendono più appuntamenti al buio

con centinaia di siti né si accontentano di mangiare “junk

food”. Tendono a concentrarsi su pochi siti di qualità per

leggere autori e contenuti di valore211». La risposta della

Huffington esprime in maniera puntuale la capacità del sito

di plasmarsi in base alle domande di mercato, uno dei motivi

che spiega il successo straordinario ottenuto da questo

progetto. Un altro importante traguardo viene raggiunto

l’anno successivo, nel 2012, quando il premio Pulitzer, il

massimo riconoscimento in campo giornalistico, viene

assegnato proprio ad un inviato dell’Huffington Post212. A

vincere il prestigioso premio, categoria National Reporting, è

stato David Wood, il quale ha raccontato nel suo lavoro

Beyond the Battlefield (in italiano, Oltre il campo di

battaglia) la vita di alcuni veterani di guerra rimasti ferirti in

Afghanistan e in Iraq e delle loro famiglie. Strutturato in 10

episodi, il premio ricevuto dal reportage di Wood ha suscitato

la reazione entusiasta di Arianna Huffington: «We are

delighted and deeply honored by the award, which recognizes

210 Ibidem. 211 Cella F., Arianna Huffington: “Pronta a portare il mio Post anche in

Italia”, in corriere.it, 1 ottobre 2011, (cit.). 212 Per la prima volta nella storia un Pulitzer viene assegnato ad un

giornalista di un media online.

107

both David’s exemplary piece of purposeful journalism and

HuffPost’s commitment to original reporting that affects both

the national conversation and the lives of real people213». Il

successo non è mai casuale, resta da capire quindi quali sono

state le strategie vincenti messi in atto dalla Huffington e dai

suoi collaboratori. Un’analisi molto accurata è stata

pubblicata da Vittorio Veltroni su Prima Comunicazione.

«Non per tutti è chiaro cosa sia effettivamente la corazzata

Huffington Post214», scrive Veltroni nell’incipit del suo

articolo. In realtà, le domande che ruotano intorno al

fenomeno Huffington Post derivano da un senso di

incomprensione generata dall’apparenza tutt’altro che

rivoluzionaria del sito. Come si spiega allora il suo successo?

Scrive Sofri su Wittgenstein: «Lo Huffington Post non ha

avuto nessuna idea rivoluzionaria: a guardarlo e leggerlo non

è un oggetto diverso, in termini di contenuti e di forma, da

moltissimi siti di news. La sua unica e vincente idea

rivoluzionaria è stata quella di sfruttare […] ogni opportunità

nuova offerta dalla rete: fare tutto, farne tanto, farlo

professionalmente215». Come lo definisce Veltroni,

l’Huffington Post non è un giornale, non è un editore, non è

un produttore di contenuti, bensì una technology company

213 «Siamo felicissimi e profondamente onorati per il premio, che

riconosce sia il valore esemplare degli articoli di David, sia l’impegno

dell’HuffPo verso un’informazione originale che riferisce sia del dibattito

nazionale che della vita delle persone comuni», Calderone M., Huffington

Post Awarded Pulitzer Prize in huffingtonpost.com, 16 aprile 2012,

(http://www.huffingtonpost.com/2012/04/16/huffington-post-pulitzer-

prize-2012_n_1429169.html). 214 Veltroni V., “HuffPost”, un gioiello di piattaforma tecnologica, 1

settembre 2012. Prima Comunicazione. 215 Sofri L., Cosa è lo Huffington Post, davvero in wittgenstein.it. 24

settembre 2012, (cit.).

108

impegnata nel campo del social networking216. «Il cuore

dell’impresa Huffington Post non è tanto nei diversi prodotti

che presenta al consumatore (il sito, il magazine iPad, la

televisione digitale), ma nella piattaforma tecnologica che

permette alle molecole di contenuto di trasformarsi in

elementi di scambio sociale217». L’Huffington Post è una

macchina orientata verso la condivisione social218 che sfrutta

la potenza dell’aggregazione di contenuti altrui e l’attività dei

blogger plasmando il tutto in base all’ottimizzazione per i

motori di ricerca. Il SEO come una bibbia: «Hanno capito la

scienza del SEO (search engine optimization) e ne sono

diventati scienziati: nei titoli, nei testi, nei tag, nella stessa

scelta delle notizie da pubblicare219». In questo senso,

l’informazione non è il fine ultimo del meccanismo creato da

Arianna Huffington, ma lo strumento, da modificare ed

adattare costantemente in base alle necessità, per andare

incontro alla domanda del pubblico. Un’offerta – i contenuti

216 Veltroni V., “HuffPost”, un gioiello di piattaforma tecnologica in

primacomunicasione, 1 settembre 2012,

(http://www.ufficiostampa.rai.it/pdf/2012/2012-09-

01/2012090122696950.pdf). 217 Ibidem. 218 «Le notizie sono diventate “sociali”, nel passato la gente le leggeva

sul divano, oggi gli articoli si ricevono mentre si galoppa a cavallo.

Cambiano i mezzi con cui l’informazione ci raggiunge, ma rimane sempre

giornalismo, buono o cattivo. Chi legge però non si accontenta più di

assorbire le informazioni ma vuole anche commentarle, mettere il “Like”

». Cella F., Arianna Huffington: “Pronta a portare il mio Post anche in

Italia”, in corriere.it, 1 ottobre 2011, (cit.). 219 Sofri L., Cosa è lo Huffington Post, davvero in wittgenstein.it. 24

settembre 2012, (cit.). A tal proposito, nello stesso articolo, Sofri racconta

un episodio emblematico: «quando mi mostrarono la redazione, la prima

volta che andai, mi dissero: “quei venti sono la redazione, gli altri

cinquanta fanno SEO”».

109

– che si plasma in accordo alle richieste degli utenti, recepite

tramite parametri quali la frequenza con cui un termine

compare in un motore di ricerca o i like social ricevuti da un

determinato argomento. Spiega Veltroni: «Ciascun contenuto

– scritto, filmato, fotografato, prodotto, aggregato, linkato o

bloggato che sia – deve essere scomponibile in modo da poter

essere utilizzato più volte, in versioni differenti e infunzione

dei trend di ricerca e di scambio sociali che dominano in quel

preciso momento. Nessun contenuto è dunque compiuto,

finito, cristalizzato in nessun momento220». La piattaforma

che regge l’Huffington Post offre da questo punto di vista

opportunità incredibili. Infatti, come scrive Veltroni nel suo

articolo, la piattaforma è concepita per ottimizzare i singoli

contenuti per i motori di ricerca quanto più meticolosamente

possibile. Vengono mostrati continuamente i termini più

utilizzati nei motori di ricerca, così come i like social che

sono correlati agli argomenti del contenuto che sta per essere

inserito. A quel punto la piattaforma consente due

opportunità all’editor o al blogger che sta per pubblicare

qualcosa: la prima è quella di creare titolo, sottotiolo e

didascalia adattandoli in base alle informazioni messe a

disposizione dalla piattaforma stessa; la seconda prevede

invece la possibilità di affidarsi alla generazione automatica

di titolo, sottotiolo e didascalia, plasmati in modo da ottenere

un eccellente piazzamento nei motori di ricerca e un interesse

alla condivisione social (figura 17).

220 Veltroni V., “HuffPost”, un gioiello di piattaforma tecnologica in

primacomunicasione, 1 settembre 2012, (cit.).

110

(figura 17 – Il titolo principale dell’Huffington Post il 14

novembre 2013 alle 15:57)

Proprio quest’ultimo aspetto è un’altra chiave del successo

dell’Huffington Post.

«Per generare scambio e condivisione, la piattaforma

integra l’elemento sociali al contenuto stesso, così

come il modello editoriali prevede il costante

riferimento ai trend social e di ricerca. Ciascun

articolo, notizia breve, fotogallery o video permette il

commento, la condivisione o il salvataggio per la

lettura ritardata. Ciascun commento è a sua volta

commentabile o segnalabile, con un meccanismo che

evidenzia i commentatori preferiti o più letti e li eleva,

a loro volta, al ruolo di blogger […]221».

221 Ibidem.

111

Viene meno la separazione tra notizia e commento, tra

articolo e opinione. Tutto si fonde in un ambiente polifonico

che annulla qualsiasi tipo di gerarchia e che mischia «voce

editoriale e voce amatoriale, racconto e

commercializzazione222». Lo stesso intreccio tra

professionale e amatoriale è rintracciabile nelle fonti dei

contenuti che vengono postati sul sito. La parole d’ordine in

tal senso è repackaging, ovvero rielaborazione. Tutti i

contenuti pubblicati su Huffington Post, indipendentemente

dalla loro provenienza223, subiscono un processo di

riconfezionamento (che è gran parte del lavoro del team del

sito) in modo tale da renderli appetibili per i motori di ricerca

e per i social network. Vittorio Veltroni porta ad esempio un

caso che vale la pena riproporre integralmente:

«Il caso tipo è quello raccontato da Farhad Manjoo,

un noto blogger tecnologico americano, che racconta

come un suo post su un pessimo telefono sia stato

ripreso da un editor dell’HuffPo che, oltre a linkare

l’articolo originale, ha aggiunto 160 parole di

riassunto (parole scelte per ottimizzare la ricerca e lo

scambio sociale), una fotogallery (taggata per essere

ottimizzata su Pinterest224) di altri pessimi telefoni

222 Ibidem. 223 Siano essi contenuti che nascono dalla riaggregazione di

notizie prese da altri siti o agenzie, oppure contenuti

originali prodotti dai blogger che scrivono per l’Huffington

Post. 224 Pinterest è un social network fondato nel 2010 da Evan

Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarra dedicato alla

condivisione di fotografie, video ed immagini. Pinterest

112

(scelti tra i telefono più odati su Fb) e cambiato il

titolo per scatneere il dibattito social (il titolo era

diventato: “Qual è il peggior telefono in

circolazione”). Questa attività viene svolta in

continuità su ogni pezzo di contenuto e la piattaforma

permette questo livello di flessibilità agli editor che

spesso non hanno preparazione tecnica, ma solo

editoriale. E si consideri un altro dato: questo lavoro

viene ripetuto anche più volte sullo stesso articolo per

riflettere i cambiamenti nelle parole più ricercate o

scambiate socialmente225».

Figura 18 e 19 mostrano rispettivamente l’articolo del

blogger Farhad Manjoo e il contenuto rielaborato

dall’Huffington Post.

permette agli utenti di creare bacheche per gestire la

raccolta di immagini in base a temi predefiniti o da loro

generati. Il nome deriva infatti dall'unione delle parole

inglesi pin (appendere) e interest (interesse). Fonte:

Wikipedia. 225 Ibidem.

113

(figura 18 – l’articolo postato da Farhad Manjoo su Slate)

(figura 19 – il contenuto pubblicato sull’Huffington Post dopo il

lavoro di repackaging)

114

Il pezzo di Farhad Manjoo è una recensione completa e

dettagliata, mentre il sito americano si limita a riportarne

alcuni stralci. E’ sufficiente tuttavia guardare gli sharing

buttons per notare come il primo sia stato condiviso

solamente su Facebook (appena 3 volte); il secondo invece,

oltre a 70 condivisioni sul social network di Mark

Zuckerberg226, ha raggiunto 120 condivisioni su Twitter ed è

stato inoltrato per 17 volte via email. Non manca la

componente interattiva nella rielaborazione degli editor

dell’Huffington Post. In fondo all’articolo si legge: «Now we

want to hear from you: What phone would you pick as the

worst and why? Click “Add a Slide” to submit it below»

(ovvero, «Ora vogliamo sentire la vostra: quale telefono

pensate sia il peggiore e perché? Cliccate su “Aggiungi una

Diapositiva” per inviarlo più in basso»). Agli utenti viene

data la possibilità di partecipare attivamente al dibattito su

quale sia il peggior telefono cellulare al mondo non solo

tramite commenti testuali, ma anche attraverso delle foto.

Non è tutto, le immagini possono essere a loro volta condivise

sui social network. Secondo Veltroni l’Huffington Post non è

tuttavia una macchina perfetta: «i frequenti cambiamenti

degli algoritmi di ricerca, uniti al fatto che sempre più i

motori, nella loro gerarchia, cominciano a includere elementi

di successo social (quindi prediligono risultati che sono stati

condivisi o “liked” a seguito della ricerca), rendono sempre

meno efficaci alcuni dei trucchi seo maggiormente in

voga227». C’è un’altra criticità che potrebbe in futuro mettere

a rischio il meccanismo creato da Arianna Huffington.

Nessuno tra i blogger che producono contenuti per il sito è

226 Fondatore di Facebook. 227 Ibidem.

115

retribuito direttamente dal colosso statunitense. Tanto i

blogger amatoriali, quanto quelli più famosi, non

percepiscono alcun compenso, fatta eccezione per coloro che

vengono pagati da corporation o associazioni che

intervengono nelle discussioni che vertono sui temi che li

riguardano228. Ai blogger viene offerto, in cambio dei loro

post, l’accesso ad un’audience enorme, traducibile in termini

di visibilità. Il problema sottolineato da Veltroni è legato alla

molteplicazione dei contenuti disponibili, unita alla velocità

della loro rielaborazione e alla profondità delle conversazioni

che vengono generate e che si sviluppano intorno a questi

contenuti. «[…] il che comporta che la leggibilità del sito

diminuisce e, quindi, la promessa fatta ai collaboratori

gratuiti di accesso diretto a una audience colossale viene a

mancare a fronte di una crescente difficoltà di esposizione. Il

che produce un […] paradosso: il principale motivo di

reclutamento dell’armata di collaboratori gratuiti viene messa

sotto pressione dal successo stesso del sistema229».

Nell’aprile del 2011 il blogger Jonathan Tasini230 ha lanciato

una battaglia legale nei confronti dell’Huffington Post. Tasini

non ha esitato a definire Arianna Huffington, in una

conferenza stampa, come una schiavista: «The Huffington

bloggers have essentially been turned into modern-day slaves

on Arianna Huffington’s plantation231». La causa iniziata da

228 Ibidem. 229 Ibidem. 230 Per oltre vent'anni ha lavorato negli Stati Uniti come authors' advocate

nel mondo dell'informazione e dell'editoria; ha guidato e vinto la decisiva

battaglia per i diritti digitali contro The New York Times. 231 «I bloggers dell’Huffington Post sono essenzialmente diventati gli

schiavi dei nostri tempi che lavorano nella piantagione di Arianna

Huffington». Peters J., Huffington Post Is Target of Suit on Behalf of

Bloggers, in nytimes.com, 12 aprile 2011,

116

Tasini si è presto trasformata in una vera e propria class

action con oltre 9.000 blogger a chiedere un risarcimento di

circa 100 milioni di dollari. Circa un terzo del ricavato

dall’acquisizione dell’Huffington Post da parte di AOL, una

delle ragioni che hanno spinto i blogger a passare alle vie

legali232. La reazione da parte del giornale online è stata di

totale chiusura rispetto alle rivendicazioni di Tasini e degli

altri blogger: «[…] our bloggers use our platform[…] to

connect and help their work be seen by as many people as

possible233», ha dichiarato un portavoce di Arianna

Huffington, Mario Ruiz. La replica della stessa Arianna

Huffington non si è fatta attendere, arrivata proprio tramite le

pagine dell’Huffington Post. L’incipt del post è emblematico:

«The lawsuit filed Tuesday by Jonathan Tasini is so utterly

without merit, and has been so thoroughly eviscerated in the

media -- including being ridiculed as the "dumbest lawsuit

ever" -- I am hesitant to take any time away from aggregating

adorable kitten videos to respond234». Arianna Huffington

traccia anche una linea di demarcazione tra i blogger e alter

figure facenti parte della redazione del Post. Questi ultimi,

(http://mediadecoder.blogs.nytimes.com/2011/04/12/huffington-post-is-

target-of-suit-on-behalf-of-bloggers/?_r=1). 232 Ibidem. 233 «I nostri blogger usano la nostra piattaforma per connettersi e aiutare

il loro lavoro ad essere visto da più persone possibile». Ibidem. 234 «La causa presentata martedì da Jonathan Tasini è così totalmente

priva di valore, ed è stato così accuratamente sviscerata dai media – così

come è stata ridicolizzata e definita come “l’azione legale più stupida di

sempre” – che mi fa essere titubante nel portar via tempo alla

pubblicazione di video di gattini adorabili per rispondere». Huffington A.,

About That Lawsuit... in huffingtonpost.com, 13 aprile 2011,

(http://www.huffingtonpost.com/arianna-huffington/huffington-post-

lawsuit_b_848942.html).

117

retribuiti, hanno però degli incarichi da portare a termine, così

come delle precise scadenze, a differenza dei blogger che

possono postare quando vogliono, scrivendo di qualsiasi cosa

sia di loro interesse, oltre a mantenere i diritti sui loro pezzi,

che consente loro di ripubblicarli dove meglio credono o

riformularli in base ai loro desideri235. «The key point that the

lawsuit completely ignores (or perhaps fails to understand) is

how new media, new technologies, and the linked economy

have changed the game, enabling millions of people to shift

their focus from passive observation to active

participation236». Prosegue Arianna Huffington: «Free

content – shared by people who want to connect, share their

passions, and have their opinions heard – fuels much of what

appears on Facebook, Twitter, Tumblr, Yelp, Foursquare,

TripAdvisor, Flickr, and YouTube237». Viene poi citato un

giornalista del New York Times, John Hrvatska, che in merito

all’azione legale di Tasini scrive: «So, does this mean when

YouTube was sold to Google that all the people who posted

videos on YouTube should have been compensated?238».

Nella conclusione del suo articolo, Arianna Huffington torna

235 Ibidem. 236 «Il punto fondamentale che l’azione legale ignora completamente (o

perlomeno fatica a comprendere) è come i nuovi media, le nuove

tecnologia e la linked economy hanno cambiato il gioco, abilitando

milioni di persone a spostare il loro punto di vista dall’osservazione

passiva alla partecipazione attiva». Ibidem. 237 «Contenuti gratuiti – condivisi da personen che che vogliono

connettersi, condividere le loro passioni e far ascoltare le loro opinioni –

riforniscono la maggior parte di ciò che appare su Facebook, Twitter,

Tumblr, Yelp, Foursquare, TripAdvisor, Flickr, and YouTube». Ibidem. 238 «Questo significa che quando YouTube è stato venduto a Google tutte

le persone che hanno postato video su YouTube sarebbero dovute essere

pagate?». Ibidem.

118

con risentimento sul parallelismo formulato da Tasini tra la

condizione di scrivere per il Post e la schiavitù. «There is a

key difference between "slavery" and "choosing voluntarily

to write for free for one of the country's most popular political

websites”239», afferma Arianna Huffington citando Matt

Welch, direttore di Reason. Dal punto di vista legale la

posizione della giornalista greca, poi naturalizzata

statunitense, è inattaccabile. Non essendo stato firmato alcun

contratto che prevedesse una retribuzione per i contenuti

forniti dai blogger, le rivendicazioni di Tasini e gli altri

perdono qualsiasi tipo di valore. E’ vero che queste persone

hanno scelto liberamente di collaborare a titolo gratuito per

l’Huffington Post, accettando di non essere retribuiti in

cambio della cassa di risonanza offerta dal sito. E’ probabile

che lo straordinario successo del sito, culminato nella vendita

plurimilionaria ad AOL, abbia creato frustrazione nel

constatare come quella cifra, incassata da pochi, abbia in

realtà visto il coinvolgimento di molti, rimasti invece fuori

dal ristretto circolo del guadagno. L’errore di Tasini e di tutti

gli altri blogger è stato quello di accettare di collaborare

gratuitamente, attirati dalla pubblicità garantita dal sito. Nel

momento in cui nessun blogger avesse accettato di offrire i

propri articoli senza un ritorno economico, all’Huffington

Post non sarebbe che rimasta una scelta tra il rinunciare a loro

e l’offrire un compenso. Ma venuta a mancare questa presa di

posizione e accettata la collaborazione a titolo gratuito,

qualsiasi rivendicazione dal punto di vista legale è priva di

fondamento. Così come appurò il giudice John Koeltl circa

un anno dopo, nell’aprile del 2012, respingendo le richieste

239 «C’è una differenza chiave tra la “schiavitù” e “scegliere

volontariamente di scrivere gratuitamente per uno dei siti politici più

popolari del paese” ». Ibidem.

119

di Tasini. I blogger erano, sostiene Koeltl, pienamente

consapevoli che il loro lavoro non sarebbe stato retribuito, per

questo motivo un compenso rappresenterebbe una modifica

retrospettiva degli accordi presi in precedenza240. «The

principles of equity and good conscience do not justify giving

the plaintiffs a piece of the purchase price when they never

expected to be paid, repeatedly agreed to the same bargain,

and went into the arrangement with eyes wide open241», ha

scritto il giudice nella sentenza. Nonostante la sconfitta,

Jonathan Tasini ha immediatamente dichiarato di voler

continuare a battersi contro il lavoro non retribuito di tutti

coloro che forniscono dei contenuti editoriali sul Web. Il

fenomeno dei mancati compensi per coloro che scrivono su

Internet è il fulcro di questa ricerca e si tornerà più avanti,

nella seconda parte della tesi, ad analizzare tutte le

componenti di quello che Tasini definisce un cancro242. Sarà

240 Pilkington E., Huffington Post bloggers lose legal fight for AOL

millions in theguardian.com, 1 aprile 2012,

(http://www.theguardian.com/media/2012/apr/01/huffington-post-

bloggers-aol-millions). 241 «I principi di equità e buona coscienza non giustificano il dare ai

querelanti una parte dei ricavi della vendita dal momento in cui loro non

hanno mai pensato di venire pagati, hanno ripetutamente accettato lo

stesso accordo e hanno raggiunto l’intesa con piena consapevolezza».

Stempel J., Unpaid bloggers' lawsuit versus Huffington Post tossed in

reuters.com, 30 marzo 2012,

(http://www.reuters.com/article/2012/03/30/us-aol-huffingtonpost-

bloggers-idUSBRE82T17L20120330). 242 «[…] this idea that all individual creators should work for free is like

a cancer spreading through every media property on the globe» (ovvero,

«[…] questa idea che tutti gli autori dovrebbero lavorare gratuitamente è

come un cancro che si propaga in ogni media del mondo»). Pilkington E.,

Huffington Post bloggers lose legal fight for AOL millions in

theguardian.com, 1 aprile 2012, (cit.).

120

sufficiente dire in questo frangente che Tasini ha poi

partecipato, il 28 aprile 2012, ad un panel del Festival del

Giornalismo di Perugia dal titolo La sostenibilità economica

del giornalismo digitale: problemi e prospettive, che verteva

sul trovare «un efficace modello di business per valorizzare i

contenuti e retribuire in misura adeguata chi contribuisce al

processo editoriale243». Qualche giorno prima, poco dopo la

sconfitta legale contro l’Huffington Post, Jonathan Tasini

aveva rilasciato una interessante intervista244 per il sito del

festival, di cui si riporteranno alcune parti salienti.

«DOMANDA: Quali sono i problemi principali per

un giornalista digitale oggi?

RISPOSTA: Dipende se si intende un giornalista web

che ha un lavoro a tempo pieno presso una testata o

un giornalista freelance. I giornalisti che lavorano full

time presso una testata hanno visto incrementare

notevolmente la loro mole di lavoro negli ultimi anni,

normalmente senza un compenso aggiuntivo. Le

scadenze quotidiane proprie dell'era della carta

stampata si sono tramutate in una richiesta continua di

nuovi post e di tweet costanti. Ci sono enormi

aspettative: è la nuova versione del giornalista a tutta

velocità in catena di montaggio. Per il giornalista

freelance si riduce tutto più semplicemente a “lavora

per noi gratuitamente”. Se il giornalista freelance poi

lavora per il suo blog personale, allora nasce la

243 http://www.festivaldelgiornalismo.com/programme/2012/the-

economic-sustainability-of-digital-journalism-problems-and-prospects 244 Tasini: “Huff Post sta diffondendo la malattia del ‘lavora gratis’ in

tutto il mondo” in festivaldelgiornalismo.com, 18 aprile 2012,

(http://www.festivaldelgiornalismo.com/post/24316/).

121

questione di come monetizzare i contenuti: c'è della

pubblicità da qualche parte là fuori?

D: Cosa ci può dire della sua causa legale con

l'Huffington Post? Come saprà, arriverà presto anche

la versione italiana dell'HuffPo grazie a un accordo

con uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, cosa ne

pensa?

R: L'Huffington Post è un cancro che sta diffondendo

la sua malattia del “lavora gratis” in tutto il mondo.

Produce benefici solo per i suoi proprietari. Deve

essere debellato. Vorrei davvero raccomandare a tutti

i giornalisti di boicottare l'Huffington Post ovunque

voglia aprire, inviando un messaggio chiaro anche

agli inserzionisti: perderai parte del tuo business se vai

a fare pubblicità sull'HuffPost finché questo

sfruttatore della manodopera dei giornalisti non

inizierà a retribuire le persone.

D: Cosa ne pensa di “efficaci modelli di business” per

valorizzare adeguatamente i contenuti on line prodotti

dai giornalisti? C'è una soluzione a questo problema?

R: L'espressione “modelli efficaci di business” è un

eufemismo per indicare che è necessario spremere il

più possibile la produttività delle persone per ottenere

profitto. Credo che l'unico modo per compensare i

modelli di business sia quello di formare dei “nuovi

sindacati” per controbilanciare il mercato, grazie a

organizzazioni collettive che possano assicurare a chi

lavora una giusta retribuzione245».

245 Ibidem.

122

Nonostante il monito di Tasini, l’Huffington Post è

sbarcato anche in Italia, il 25 settembre 2012. AOL detiene il

51%, mentre il restante 49% è nelle mani del Gruppo

L’Espresso. La direzione è del giornale è andata a Lucia

Annunziata, che tra le innumerevoli esperienze passate può

vantare la presidenza della RAI, la direzione del TG3, il ruolo

di inviato per Repubblica e quello di corrispondente da

Washington per il Corriere della Sera. Stesso format, stesso

successo. La versione italiana ha seguito le orme di quella

statunitense e dopo il primo anno di vita il Gruppo

L’Espresso ha annunciato che il mese di settembre 2013 ha

registrato un traffico di 3 milioni 232mila utenti unici, 30

milioni di pagine viste e 3mila commenti in media al giorno,

oltre a circa 170mila fan su Faceook e oltre 100mila follower

su Twitter246. «L’Huffington Post Italia ha accompagnato i

lettori italiani in un anno ricco di avvenimenti, raccontati con

tempestività e autorevolezza grazie alla copertura

giornalistica degli eventi in tempo reale della redazione

guidata da Lucia Annunziata, e alle opinioni di 495 blogger

espressione di diverse convinzioni e condizioni politiche,

economiche e religiose247». Ma tutti uniti nella concessione

di lavoro gratuito, si potrebbe aggiungere.

246 L’Huffington Post Italia, compleanno da record, in gruppoespresso.it,

3 ottobre 2013. (http://www.gruppoespresso.it/it/sala-stampa/gruppo-

espresso-informa/documento/lhuffington-post-italia-compleanno-da-

record.html). 247 Ibidem.

123

2.3 La blogosfera

Giuseppe Granieri, autore di Blog Generation, ritiene che

i blog siano, da un punto di vista strumentale, il modello più

semplice di sistema per la gestione dei contenuti248, tanto da

far coincidere il primo blog con il primo sito Web in assoluto.

Del resto, prosegue Granieri, l’idea del creatore di Internet,

Berners-Lee, era di realizzare uno spazio in cui la

pubblicazione dei contenuti fosse facile quanto la loro

consultazione249. Ma cos’è un blog? Bisogna innanzitutto

dire che il termine, abbreviazione di web log, è stato coniato

Jorn Barger, blogger statunitense conosciuto per essere

l’autore di un sito, Robot Wisdom, che ebbe una certa

influenza fin dalla fine degli anni ’90. In Rete è possibile

trovare un numero infinito di definizioni per la realtà del blog,

ma una delle più pertinenti è quella riportata nella pagine

inglese di Wikipedia: «A blog (a truncation of the expression

web log) is a discussion or informational site published on the

World Wide Web and consisting of discrete entries ("posts")

typically displayed in reverse chronological order (the most

recent post appears first)250». Nati inizialmente come forme

di espressione individuale, i blog hanno poi seguito

un’evoluzione che li ha portati ad essere realtà polifoniche.

Scrive Andrew Sullivan, giornalista e blogger statuinitense:

«[…] The key to understanding a blog is to realize that it’s a

248 Granieri G., Blog generation, 2009, Laterza, p. 25. 249 Ivi, p. 26. 250 Un blog (troncamento dell’espressione web log) è un sito di

discussione o informazione pubblicato su Internet e costituito da voci

separate (i post) solitamente esposti in ordine cronologico inverso (il post

più recente appare per primo).

124

broadcast, not a publication. If it stops moving, it dies251». La

diffusione del blog nella Rete ha rappresentato una piccola

rivoluzione inserita nel contesto più ampio della nascita del

Web 2.0: «grazie a questo strumento la Rete è cambiata: la

diffusione dei weblog ha finalmente connesso milioni di

persone, trasformandola da rete di contenuti in infrastruttura

di discussione252». Il blog è stato lo strumento che ha

consentito agli utenti di Internet di passare da una condizione

di passività ad una di più attiva partecipazione nel

modellamento dell’universo del Web. Un altro elemento

fortemente caratterizante è la semplicità di utilizzo, che

spiega il successo e la capillare diffusione del blog. «Il

processo di apprendimento è alla portata dell’utente meno

competente perché non richiede né conoscenze tecniche né

capacità di impaginazione. Il blog, infatti, è già pronto per

l’uso: per cominciare è sufficiente avere qualcosa da scrivere

e da condividere con i propri lettori253». Non richiedendo

competenze, né un impegno particolare, la creazione di un

blog è stata presa in considerazione da un numero sterminato

di persone, che ha usato questa piattaforma anche per

condividere semplicemente i propri pensieri, come una sorta

di diario online. Ma a differenza del diario, «[…] a blog,

unlike a diary, is instantly public. It transforms this most

personal and retrospective of forms into a painfully public

251 «La chiave per comprendere un blog è realizzare che si tratta di una

trasmission, non di una pubblicazione. Se si ferma, muore». Sullivan A.,

Why I Blog in theatlantic.com, 1 novembre 2008

(http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2008/11/why-i-

blog/307060/). 252 Granieri G., Blog generation, cit., p. 25. 253 Maistrello S., Come si fa un blog, Edizione Tecniche Nuove, 2004, p.

15.

125

and immediate one. It combines the confessional genre with

the log form and exposes the author in a manner no author

has ever been exposed before254». Non è semplice dare una

forma alla blogosfera, tracciarne i confini, perfino quando si

tratta di spazi molto personali. Scrive a tal proposito Di Fraia

nel suo Blog-grafie:

«I confini del diario elettronico risultano

particolarmente labili, sia perché è prevista la

partecipazione dell’altro in qualità anche di redattore,

attraverso il commento, sia perché sono frequenti i

rimandi all’esterno attraverso le tracce che l’autore

lascia sugli altri blog. È l’uso dei link a rappresentare

l’espressione massima di questa connettività che

trasforma il blog in un territorio al contempo

personale e tentacolare che abbraccia più nodi della

Blogosfera255».

La connettività è uno degli elementi fondanti della

blogosfera, oltre che il proprio carattere distintivo rispetto al

mondo mediatico. I due universi sono regolati da logiche

diametralmente opposte. «Per la sua stessa natura il blog è un

atto di generosità: essendo un nodo in un sistema di lettura,

254 «Un blog, a differenza di un diario, è immediatamente pubblico. Esso

trasforma questa forma principalmente personale e retrospettiva in una

dolorosamente pubblica ed immediata. Esso combina il genere

confessionale con la forma del registro ed espone l’autore in una maniera

in cui nessun autore è stato mai esposto in precedenza». Sullivan A., Why

I Blog in theatlantic.com, 1 novembre 2008 (cit.). 255 Di Fraia G. (a cura di), Blog-grafie. Identità narrative in rete, edizioni

Angelo Guerini, Milano 2007, p. 32.

126

sposta l’attenzione (e il lettore) su altre fonti invece di cercare

di trattenerlo sulle sue pagine256». Contro ogni consueta

logica competitiva, è la natura stessa della blogosfera a porsi

su un piano diverso rispetto alle dinamiche di mercato

seguite dai media: «The links not only drive conversation,

they drive readers. The more you link, the more others will

link to you, and the more traffic and readers you will get257».

L’espansione e la crescita costante del modello del blog,

divenuto nel tempo anche mezzo per la divulgazione di

informazione, hanno fatto sì che, nonostante una iniziale

diffidenza258, i giornali online si avvicinassero a questa realtà,

pur tracciando una profonda linea di demarcazione tra

blogging e giornalismo. Come scrive Granieri: «Sebbene i

materiali da costruzione siano gli stessi (ovvero le

informazioni) e alcune procedure di composizione siano

simili, i weblog non sono giornalismo. Informano, ma non

sono giornalismo come lo conosciamo, anche quando a tenere

un blog è un professionista riconosciuto dall’Ordine259». Un

256 Granieri G., Blog generation, cit., p. 38 257 «I link non solo guidano le conversazione, guidano anche i lettori. Più

linki, più verrai linkato e più traffico e lettori otterrai». Sullivan A., Why

I Blog in theatlantic.com, 1 novembre 2008 (cit.). 258 Scrive a tal proposito Jay Rosen: «Alcuni dei sospetti che ho incontrato

sono legati al fatto che dei professionisti si avvicinino ad un’attività che,

molto prima che I professionisti la conoscessero, era non solamente aperta

agli amatory – persone che mettono a disposizione il proprio tempo – ma

era stata inventata, sviluppata e resa popolare da loro». Il messaggio

originale era: «Some of the suspicion I found also has to do with

professionals coming toward an activity that, long before the pros even

knew about it, was not only open to amateurs—people volunteering their

time—but had been invented, developed and first popularized by them».

Rosen J., Brain Food for BloggerCon in pressthink.org,16 aprile 2004,

(http://archive.pressthink.org/2004/04/16/con_prelude.html.). 259 Granieri G., Blog generation, cit., p. 28.

127

blog, rispetto ad un giornale, viene facilmente accomunato

alla pubblicazione di opinione, più che di notizie, ma questo

non è totalmente vero. Forse sarebbe sufficiente, come

puntualizza Rebecca Blood, «chiedere alti standard da coloro

che fanno giornalismo, sia se scrivono per un giornale sia se

scrivono su un blog260». Blog e giornali sono due realtà

diverse sotto molteplici aspetti, ma questo non significa che

da alcuni blog non possa arrivare dell’informazione valida e

verificata quanto quella reperibile sulle testate, cartacee o

digitali che siano. La prima grande differenza di carattere

ontologico è ben sottolineata da Jay Rosen, professore di

giornalismo all’Università di New York, che scrive come il

giornalismo sia una professione chiusa e piena di regole,

mentre il blogging è un’attività aperta a tutti261 e

fondamentalmente priva di regole, soggetta alla discrezione

dell’autore262. Prosegue Rosen: «Blogging is one universe. Its

standard unit is the post, its strengths are the link and the low

costs of entry, which means lots of voices. Journalism is

another universe. Its standard unit is “the story.” Its strengths

are in reporting, verification and access263». Rosen sostiene

260 «[…] demand high standards from those who practice journalism,

whether they write for a newspaper or on a blog» Blood R., A Few

Thoughts on Journalism and What Can Weblogs Do About It in

rebeccablood.net, 15 aprile 2004 (cit.). 261 «Nella blogosfera si nasce tutti uguali e si diventa ciò che si è in grado

di diventare attraverso il proprio concreto fare comunicativo. In teoria

ognuno ottiene ciò che merita, in rapporto alle proprie possibilità

comunicative, intellettuali, creative, relazionali». Di Fraia G. (a cura di),

Blog-grafie. cit, p. 102. 262 Rosen J., Brain Food for BloggerCon in pressthink.org,16 aprile 2004,

(cit). 263 «Il blog è un universo. La sua unità di misura è il post, i suoi punti di

forza sono i link e i bassi costi di ingresso, che significa molte voci. Il

128

come il miglior modo di nobilitare tanto il giornalismo quanto

il blogging, sia separandoli264. Di conseguenza, bisognerebbe

concentrarsi, piuttosto che tentare di inserire la blogosfera

nell’universo giornalistico (o di allontanarla), di capire come

queste due realtà coesistano e collaborino a plasmare

l’informazione online e la Rete tout court. Come sottolinea

Granieri:

«Il weblog, a differenza di modelli a noi più familiari

come il quotidiano o la rivista, non ha nessuna pretesa

di essere esaustivo […] Anzi, al contrario, un weblog

tende per definizione a portare «fuori da sé» il lettore,

dirigendolo verso altre fonti, verso altre voci. Il

risultato è che nessuno legge un solo weblog, poiché

si tratta di un singolo nodo in un’opera collettiva

ipertestuale che tende a configurarsi come un

«sistema di contenuti265».

Le potenzialità della blogosfera sono state, come si è

accennato in precedenza, comprese dagli altri media. Si pensi

all’importanza che i bloggers rivestono in una realtà come

l’Huffington Post, ma anche testate derivate, ad esempio

Corriere.it (figura 20), non hanno tardato a dotarsi di un

insieme di blog266, dove scrivono professionisti di ogni

giornalismo è un altro universo. La sua unità di misura è la storia. I suoi

punti di forza sono il riportare le notizie, la verifica e l’accesso». Ibidem. 264 «Blogging is not journalism. When we separate these two things, we

honor both». Ibidem. 265 Granieri G., Blog generation, cit., p. 36 266 Va sottolineato come tuttavia i blog presenti sulle testate derivate

rispondano meno alle logiche di interconnessione tipiche della blogosfera.

129

genere, da giornalisti a professori universitari, esperti di

politica, economia e quant’altro. E’ in questo senso che la

blogosfera può quindi diventare occasione di spunto ed

approfondimento per il mondo giornalistico, che può

interagire con importanti personalità di settore.

(figura 20 – alcuni dei blog di Corriere.it)

Negli ultimi anni un nuovo fenomeno ha preso piede,

chiamato microblogging. Si tratta di una forma di

pubblicazione costante di piccoli contenuti in Rete, sotto

forma di messaggi di testo (normalmente fino a 140 caratteri),

130

immagini, video o audio MP3. Questi contenuti vengono

pubblicati in un servizio di rete sociale, visibili a tutti o

soltanto alle persone della propria comunità267. Nel prossimo

paragrafo si affronterà questa realtà e in particolar modo i

rapporti tra la forma di microblogging più celebre – Twitter

– e il mondo del giornalismo.

2.4 Microblogging: Twitter e il giornalismo

Affine alla realtà della blogosfera, ma ancor più personale

ed immediato è l’universo del microblogging, di cui Twitter

è esempio più celebre e, giornalisticamente parlando, più

pertinente. Il fenomeno è stato già brevemente descritto, ma

è interesse di questo paragrafo andare ad analizzare il

dibattito che imperversa riguardo alla legittimità

professionale di Twitter, oltre a riportare qualche caso

eclatante in cui questo strumento ha dato prova delle proprie

potenzialità.

Un botta e risposta di grande attualità è quello che è andato

in scena tra il The Australian e il The Guardian. Il 13

novembre 2013 il giornale australiano pubblica un editoriale

sul proprio sito dal titolo Lost in the Twitterverse268. La critica

mossa dal The Australian è forte e diretta: «Hard-core media

values - truth, accuracy, fairness, balance, perspective,

objectivity - are being lost at precisely the wrong time, as the

267 Fonte Wikipedia. 268 Lost in the Twitterverse, 13 novembre 2013, The Australian.

http://www.theaustralian.com.au/opinion/editorials/lost-in-the-

twitterverse/story-e6frg71x-1226758522447

131

news media faces the challenges of falling revenue, distracted

audiences and a loss of skilled practitioners. For newspapers,

the danger is that many are abandoning their core mission in

a democracy, bounding towards meaningless info-tainment

and fleeting fashions269». Pur riconoscendo l’utilità di questi

strumenti limitatamente a certi contesti, il giornale

australiano ritiene che i social media non possano in alcun

modo sostituirsi all’informazione dei media tradizionali:

«Platforms such as Twitter and Facebook are wonderful tools

for journalists and the industry as a whole in terms of

marketing. They can be used to promote stories, maintain

contacts with readers and pass the time on the bus for those

with short attention spans. But social media is neither a

substitute for reporting nor a reflection of what is important

in our democracy270». Le prime critiche all’editoriale sono

state mosse proprio da ex-giornalisti del The Australian. Ad

esempio Amanda Meade risponde con un Tweet, ironizzando

sull’affermazione della testata australiana che definisce i

giornalisti che usano Twitter un “path to ruin”, ovvero “il

sentiero che porta alla rovina” (figura 21).

269 «I valori tradizionali dei media – come la verità, l’accuratezza, la

correttezza, l’equilibrio, l’obiettività – si sono perse esattamente nel

momento sbagliato, mentre i mezzi d’informazioni affrontano le sfide del

calo delle vendite, del pubblico distratto e della perdita di professionisti

capaci. Per i giornali, il pericolo è che molti stiano abbandonando la loro

missione cruciale in una democrazia, affrettandosi verso infotainment

privo di significato e mode passeggere». Ibidem. 270 «Piattaforme come Twitter e Facebook sono magnifici strumenti per i

giornalisti e l’industria nel suo insieme in termini di marketing. Possono

essere usati per promuovere storie, per mantenere contatti con i lettori e

per passare il tempo sull’autobus per coloro con una breve curva

d’attenzione. Ma il social media non è né un sostituto del giornalismo, né

un riflesso di cosa è importante nella nostra democrazia». Ibidem.

132

(figura 21 – il tweet ironico di Amanda Meade, pubblicato il 12

novembre 2013 alle 15:01)

Un’altra reazione decisa è arrivata dalla testata britannica

The Guardian, affidata all’articolo Brownen Clune, So

Twitter is ruining journalism? Really?271. «Twitter is one of

the most powerful journalistic tools available to newsrooms,

and inherent to their survival. That the only national

Australian daily newspaper would publicly fail to understand

that is alarming. We need newsrooms. We need professional

journalists. We need a diverse media landscape. Twitter and

social media play a vital role in that future272». Brownen

271 Clune B., So Twitter is ruining journalism? Really? in

theguardian.com 13 novembre 2013,

(http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/nov/13/so-twitter-is-

ruining-journalism-really). 272 «Twitter è uno degli strumenti giornalistici più potenti che hanno a

disposizione le redazioni, e fondamentale per la loro sopravvivenza. Il

133

Clune porta a sostegno della propria posizione alcuni casi in

cui Twitter ha dato il proprio contributo al giornalismo, nel

duplice senso dell’atto in sé e della professione. Verranno

analizzati in questa sede quattro casi: l’utilizzo di Twitter per

analizzare la polarizzazione politica della società egiziana, le

rivolte di Londra del 2011, la morte di Osama Bin Laden e

l’incidente aereo avvenuto all’aeroporto di San Francisco il 6

luglio 2013.

Twitter e la polarizzazione politica in Egitto. Durante le

rivolte del Nord Africa e del Medio Oriente, che si accesero

a cavallo tra 2010 e 2011, Twitter, così come altri social

network (Facebook su tutti), ricoprì un ruolo di fondamentale

importanza. Da una parte venne usato dagli attivisti come

strumento di organizzazione e di contatto, dall’altra fu una

straordinaria fonte d’informazioni per i giornalisti che erano

altrimenti impossibilitati a recarsi di persona sui luoghi delle

rivolte. Twitter ha continuato a rivestire un ruolo da

protagonista nell’analisi della situazione politica e sociale dei

paesi coinvolti, ad esempio l’Egitto, di cui è stato studiata la

polarizzazione politica proprio partendo da dati e

informazioni raccolte dalla piattaforma di microblogging. La

ricerca è stata svolta da Ingmar Weber e Kiran Garimella con

l’obiettivo di misurare la tensione politica del paese. «We are

interested in gauging political tension through online data to

have a “barometer” that indicates how charged and explosive

the situation is at a given point in time. Our research shows

solo fatto che l’unico quotidiano nazionale australiano possa

pubblicamente non riuscire a capire questo è allarmante. Abbiamo

bisogno di redazioni. Abbiamo bisogno di giornalisti professionali.

Abbiamo bisogno di un diverso senario mediatico. Twitter e i social media

giocano un ruolo vitale in quel futuro». Ibidem.

134

that simply looking at whether Islamists and secularists use

the same hashtags goes a long way towards this goal273». I

due ricercatori hanno in primo luogo identificato circa due

dozzine di attivisti politici vicini sia agli islamisti, sia ai

laici274. In seguito sono stati invece individuati migliaia di

utenti Twitter che avevano pubblicamente retwittato qualsiasi

degli attivisti descritti poc’anzi275. «In the week from June 29

to July 5, 2013 the hashtag #MuslimsForMorsi was used far

more commonly among retweeters of Islamists than seculars

and would be assigned a polarity score of 90 percent Islamist,

whereas #tamarrod, referring to the Egyptian political

movement founded in protest against then-president Morsi

would be almost 100 percent secular on the same axis276».

Questa ricerca, che mira semplicemente ad avere un quadro

273 «Siamo interessati nella misurazione della tensione politica attraverso

i dati reperibili online in modo da avere un “barometro” che indichi

quanto carica ed esplosiva sia la situazione ad un certo momento. La

nostra ricerca mostra che semplicemente osservando se gli islamisti o i

laici utilizzano lo stesso hashtag otteniamo molte informazioni in tal

senso». Ingmar W., Using Twitter to track political polarisation in Egypt

in aljazeera.com 4 ottobre 2013,

(http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/09/utilising-twitter-

track-political-polarisation-egypt-201392714215315617.html). Gli

hashtag sono un tipo di tag utilizzato in alcuni social network per creare

delle etichette. Essi sono formati da parole o combinazioni di parole

concatenate precedute dal simbolo # (cancelletto), inseriti come

commenti alle immagini. Fonte: Wikipedia. 274 Ibidem. 275 Ibidem. 276 «Nella settimana che va dal 29 giugno al 5 luglio 2013, l’hashtag

#MuslimForMorsi è stato usato molto più comunemente tra i retweeters

degli islamisti, piuttosto che dei laici e si potrebbe assegnare una

percentuale di popolarità tra gli islamisti del 90%, viceversa #tamarrod,

riferito al movimento politico egiziano fondato in protesta dell’allora

presidente Morsi avrebbe quasi il 100% di popolarità tra i laici». Ibidem.

135

orientativo della situazione politica e sociale dell’Egitto,

rappresenta un eccellente esempio del connubio tra data

journalism e Twitter.

London Riots. Tra il 6 e il 10 agosto del 2011, a Londra prima,

in altre città inglesi poi, si sono verificati dei disordini:

rivolte, atti di vandalismo e saccheggi. Il tutto scatenato

dall’uccisione di Mark Duggan, uno spacciatore di cocaina,

da parte della polizia277. Scrive il Guardian: «For many

people, the England riots began with a flurry of curious

Twitter messages shortly before 9pm on Saturday 6 August.

"There is a photo of a police car burning circulating, claiming

it's outside Tottenham police station #markduggan

#tottenham shooting," one of the messages read. Users were

sharing news of a police car ablaze outside Tottenham police

station278». Questi messaggi vennero rapidamente seguiti da

un’altra foto, quella di un autobus in fiamme nel quartiere di

Tottenham, nel nord di Londra e dalla creazione di un

277 Man dead and police officer hurt in Tottenham shooting in bbc.co.uk,

5 agosto 2011, (http://www.bbc.co.uk/news/uk-england-london-

14412752); Bracchi P., Violence, drugs, a fatal stabbing and a most

unlikely martyr in dailymail.co.uk, 8 agosto 2011,

(http://www.dailymail.co.uk/news/article-2023556/Mark-Duggan-

Violence-drugs-fatal-stabbing-unlikely-martyr.html). 278 «Per molte persone, le rivolte inglesi sono cominciate con un turbinio

di strani messaggi su Twitter poco prima delle 9 di sera di sabato 6 agosto.

“C’è una foto di una macchina della polizia in fiamme che circola, si

sostiene sia fuori la stazione di polizia di Tottenham #markduggan

#tottenham shooting,” uno dei messaggi letti. Gli utenti condividevano

notizie di una macchina della polizia in fiamme fuori dalla stazione di

polizia di Tottenham». Ball J. e Lewis P., Twitter and the riots: how the

news spread in theguardian.com, 7 dicembre 2011,

(http://www.theguardian.com/uk/2011/dec/07/twitter-riots-how-news-

spread).

136

hashtag, #TottenhamRiots, divenuto poi il cuore del

susseguirsi degli eventi su Twitter279. Quel che più conta in

questa sede è che ben prima dei tradizionali mezzi di

diffusione giornalistica, fu da Twitter che arrivarono le prime

notizie e i primi aggiornamenti di quanto stava accadendo a

Tottenham. «The England riots were a seminal moment for

Twitter. With mainstream media organisations often

struggling to keep up with the fast-moving and unpredictable

spread of the unrest, millions of people turned to the social

networking site for information280».

La morte di Osama Bin Laden. L’operazione condotta dalle

forze statunitensi che ha portato all’uccisione del leader di Al-

Qaeda Osama Bin Laden è un altro straordinario esempio

dell’informazione giornalistica veicolata tramite Twitter. La

prima persona a riportare quanto stava accadendo,

inconsapevolmente e in tempo reale, è stata Sohaib Athar

tramite il suo account su Twitter @ReallyVirtual, un

consulente d’informatica che viveva ad Abbottabad, la città

pakistana dove si rifugiava Bin Laden281. Sohaib Athar twittò

il passaggiò di un elicottero poco prima dell’inizio

dell’operazione, senza che in realtà sapesse cosa stesse per

accadere. In seguito arrivarono altri tweet, che man mano

descrivono la presa di coscienza rispetto a quello cui Athar

stava assistendo. Il Post ha raccolto, tradotto e messo a

279 Ibidem. 280 «Le rivolte inglesi furono un momento cruciale per Twitter. Con i

media tradizionali spesso in difficoltà nel tenere il passo del veloce e

imprevidibile propagarsi del malcontento, milioni di persone si affidarono

ai social network per ottenere informazioni». Ibidem. 281 Bin Laden raid was revealed on Twitter in bbc.co.uk, 2 maggio 2011,

(http://www.bbc.co.uk/news/technology-13257940).

137

disposizione molti dei tweet pubblicati da Sohaib Athar

durante l’operazione contro Bin Laden:

«Elicotteri sopra Abbottabad all’una del mattino (è

una cosa piuttosto rara)

Andatevene, elicotteri, prima che prenda il mio

acchiappamosche gigante :-/

Una grossa esplosione qui ad Abbottabad. Spero non

sia l’inizio di qualcosa di brutto :-S

Tutto tace dopo l’esplosione, ma un mio amico dice

di averla sentita a sei chilometri da qui. Anche

l’elicottero è andato.

L’acchiappa mosche gigante ha funzionato!

Dato che i talebani non hanno elicotteri, e dato che

stanno dicendo che non era “loro”, dev’essere una

cosa complicata.

Sembra che l’elicottero sia stato abbattuto vicino

all’area di Bilal Town. La gente dice che forse era un

drone.

Devo scusarmi con il pilota, per le battute

sull’acchiappamosche.

Circolano voci interessanti riguardo l’incidente di

Abbottabad.

Mi sa che Abbottabad sta per diventare incasinata

come la Lahore che mi ero lasciato alle spalle in cerca

di pace e tranquillità. *sigh*

138

Uh oh, ora sono il tizio che ha fatto il liveblogging del

raid contro Osama senza saperlo.

E già arrivano le email dai mainstream media…

*sigh*

La sparatoria è durata 4-5 minuti, per quello che ho

sentito. Ormai sono passate circa dieci ore. Da quel

momento non ho sentito nessun altro colpo.

“Ti sta seguendo su Twitter” era il logico passo

successivo282».

Sfruttando le potenzialità di Twitter Sohaib Athar ha

potuto trasmettere la notizia dell’assalto statunitense contro

Bin Laden, il tweet «ora sono il tizio che ha fatto il

liveblogging del raid contro Osama senza saperlo» è

straordinariamente efficace nel descrivere come questo

strumento dia la possibilità a chiunque di diventare testimoni

di eventi di portata mondiale e storica. Ma Twitter non si è

fermato alla cronaca di Sohaib Athar, infatti anche l’annuncio

dell’uccisione di Bin Laden è stata data tramite la celebre

piattaforma di microblogging. Keith Ubrahn, il capo dello

staff del Segretario della Difesa sotto la presidenza di George

W. Bush, è stata infatti la prima persona a rendere pubblica

la morte del leader di Al-Qaeda. Tramite Twitter, ovviamente

(figura 22).

282 L’uomo che ha twittato la morte di bin Laden (senza

saperlo) in ilpost.it, 2 maggio 2011,

(http://www.ilpost.it/2011/05/02/luomo-che-ha-twittato-

la-morte-di-bin-laden-senza-saperlo/).

139

(figura 22 – Il tweet di Keith Urbahn, il primo annuncio

dell’uccisione di Bin Laden)

«So I'm told by a reputable person they have killed Osama

Bin Laden. Hot damn», il tweet di Keith Urbahn283. Ovvero,

«Ebbene mi è stato detto da una persona affidabile che hanno

ucciso Osama Bin Laden. Incredibile». Come riporta il The

Guardian, il tweet arrivò quando il presidente Obama stava

ancora scrivendo il discorso che avrebbe annunciato agli Stati

Uniti e al mondo intero l’uccisione del nemico numero uno

della Casa Bianca284. Il grande entusiasmo nei confronti di

283 https://twitter.com/keithurbahn/statuses/64877790624886784 284 «At the time President Obama was still writing his speech in which he

would announce the killing of the US's most-sought enemy». Arthur C.,

140

Twitter e dei social media in generale come mezzi capaci di

fare informazioni secondo altre logiche venne frenata dallo

stesso Keith Urbahn, che in un altro tweet scrisse: «As much

as I believe in rise of "citizen journalism," blogs, twitter etc

supplanting traditional media, my tweet isn't great evidence

of it285».

L’incidente aereo di San Francisco. Un ultimo caso, accaduto

il 6 luglio del 2013. «Un Boeing 777 della compagnia

sudcoreana Asiana in arrivo da Seul si è schiantato al suolo

sabato sera all'aeroporto di San Francisco mentre era in fase

di atterraggio e si è incendiato, venendo avvolto in una palla

di fuoco. Il bilancio, reso noto dai vigili del fuoco, è di almeno

2 morti - entrambi d cittadinanza cinese - e 182 feriti, di cui

49 in condizioni critiche286». Questa la cronaca di quanto

accaduto, ma in queste sede è di maggiore interesse riportare

come fu – in un incredibile esempio di citizen journalism –

uno dei passeggeri a dare la notizia dello schianto. David Eun,

manager della Samsung, ebbe la freddezza di affidare al

Twitter first with news of Osama bin Laden's death via ex-Bush staffer in

theguardian.com, 2 maggio 2011,

(http://www.theguardian.com/technology/blog/2011/may/02/twitter-

osama-bin-laden-death-leaked). 285 «Per quanto io stesso creda che l’ascesa di “citizen journalism”, blog,

twitter possa soppiantare i media tradizionali, il mio tweet non dimostra

molto in tal senso». Bin Laden raid was revealed on Twitter in bbc.co.uk,

2 maggio 2011, (cit.). 286 San Francisco, aereo finisce fuori pista Almeno 2 vittime, 182 feriti in

corriere.it, 6 luglio 2013,

(http://www.corriere.it/esteri/13_luglio_06/san-francisco-aereo-si-

schianta-in-pista-passeggeri-intrappolati_411a7170-e670-11e2-ad19-

4496ac8ff7bf.shtml).

141

proprio smartphone il resoconto di quanto era appena

accaduto (figura 23).

(figura 23 – Il tweet di Eun dopo lo schianto)

«Mi sono appena schiantato in atterraggio con

all’aeroporto di San Francisco. La coda si è staccata. La

maggior parte delle persone sembra stare bene. Io sono a

posto. Surreale…». Questo il tweet, corredato da una

fotografia dell’aereo, pubblicato dal manager della Samsung

immediatamente dopo l’incidente. I media non tardarono a

trasmettere a loro volta la notizia data da Eun, che ha poi

alimentato la voracità dei mezzi d’informazione con altri

tweet. Uno straordinario esempio di come i social media

142

possano stravolgere le regole del giornalismo rendendo

semplici cittadini – in questo caso un protagonista

dell’accaduto – dei reporter. Probabilmente il dibattito sulla

legittimità nel definire Twitter come una forma di

giornalismo dovrebbe cambiare la sua prospettiva. Questi

strumenti non devono necessariamente soppiantare

l’industria dell’informazione tradizionale, ma le due realtà

possono convivere, sfruttando ognuna i punti di forza

dell’altra con il solo obiettivo di garantire delle notizie

accurate e fondate.

Questo esempio di citizen journalism anticipa il soggetto

del prossimo paragrafo, ma prima di voltare pagina è il caso

di lasciare spazio ad un’ultima riflessione, che verte sui

motivi che fanno sì che Twitter sia lo strumento preferito dai

giornalisti, ad esempio rispetto ad un altro celebre social

network come Facebook. Uno studio di Shareholic287, basato

su dati raccolti per 13 mesi (da settembre 2012 a settembre

2013) inerenti a 200mila editori che generano un traffico

mensile di oltre 250 milioni di utenti unici, mostra come i

rimandi a Facebook, e quindi il suo traffico, siano di gran

lunga superiori a quelli di Twitter288. Scrive Ezra Klein sul

Washington Post: «Yet journalists -- and, quite often, the

organizations that employ them -- clearly prefer Twitter.

They put enormous effort into building Twitter brands and

coming up with Twitter strategies289». L’articolo del giornale

287 Shareaholic’s Social Media Traffic Report. https://shareaholic.com/ 288 https://blog.shareaholic.com/social-media-traffic-trends-10-2013/ 289 «Tuttavia i giornalisti – e, molto spesso, le aziende che li assumono –

preferiscono chiaramente Twitter. Compiono grandi sforzi per costruire

marchi per Twitter e per programmare strategie per Twitter». Klein E.,

Why do journalists prefer Twitter to Facebook? in washingtonpost.com,

11 novembre 2013,

143

statunitense prova a chiarire anche i motivi di questa

predilezione: «The reason, I think, is that Twitter is simply

more useful for our jobs. For better or worse, it's where news

breaks today. It's also where a lot of real-time reporting

happens. […] As a journalist, if you wanted to stay on top of

much of the best reporting you simply have to be on

Twitter290». Un’altra componente da sottolineare è che la

fama si autoalimenta. Come giustamente afferma Ezra Klein,

il solo fatto che così tanti giornalisti siano presenti su Twitter

dona alla piattaforma un’aura di grande professionalità.

«Tweeting your articles ensures they're seen -- and discussed,

and retweeted -- within a community that includes not just

your friends and peers, but the people who might hire you

someday291».

2.5 Citizen journalism

«When the people formerly known as the audience employ

the press tools they have in their possession to inform one

(http://www.washingtonpost.com/blogs/wonkblog/wp/2013/11/11/why-

do-journalists-prefer-twitter-to-facebook/). 290 «La ragione, penso, è che Twitter è semplicemente più utile per i nostri

lavori. Giusto o sbagliato, è dove le notizie arrivano oggi. È anche dove

si sviluppa l’informazione in tempo reale. […] Come giornalista, se vuoi

essere aggiornato da un’informazione di qualità devi essere su Twitter».

Ibidem. 291 «Twittando i tuoi articoli ti assicuri che siano visti – e discussi, e

retwittati – all’interno di una comunità che non include solamente i tuoi

amici e i tuoi colleghi, ma persone che potrebbero assumerti un giorno».

Ibidem.

144

another, that’s citizen journalism292». Questa è la definizione

di citizen journalism data da Jay Rosen e già riportata

precedentemente in questa ricerca. Un punto di partenza

imprescindibile per andare ad analizzare nel dettaglio questa

forma di giornalismo che ha, più di altre, scardinato i processi

informativi tradizionali. È interessante notare come il

giornalista Daniel Bennett chieda a Jay Rosen, tramite un post

sul proprio blog Mediating Conflict, di integrare la sua

definizione: «Merely informing one another is not

journalism. This happens all the time. Teachers inform

children in classes all the time, but this isn't journalism is

it?293». Bennett ritiene che vadano fatte due aggiunte: la

prima atta a sottolineare come lo scambio di informazioni

coinvolga un grande numero di persone; la seconda

indirizzata ad evidenzare invece come l’informazione debba

essere comunque degna di nota, meritevole d’essere riportata.

Questa la versione di Bennett della definizione di Rosen:

«When the people formerly known as the audience employ

the press tools they have in their possession to inform many

292 «Quando le persone precedentemente conosciute come pubblico

utilizzano gli strumenti della stampa che hanno in loro possesso per

informarsi l’un l’altro, questo è citizen journalism». Rosen J., A Most

Useful Definition of Citizen Journalism in pressthink.org, 14 luglio 2008

(http://archive.pressthink.org/2008/07/14/a_most_useful_d.html). 293 «Informarsi semplicemente l’un l’altro non è giornalismo. Questo

accade in qualsiasi momento. Gli insegnatni informano I loro alunni nelle

classi in ogni istante, ma questo non è giornalismo, no?». Bennett D., The

definition of citizen journalism considered (ignore my previous post!) in

dsbennett.co.uk, 17 luglio 2008

(http://www.dsbennett.co.uk/2008/07/ignore-that-last-post-defintion-

of.html).

145

others of a newsworthy event, that’s citizen journalism294».

E’ lo stesso Rosen invece a spiegare cosa intende con “le

persone precedentemente conosciute come pubblico”. «The

people formerly known as the audience are those who were

on the receiving end of a media system that ran one way, in a

broadcasting pattern, with high entry fees and a few firms

competing to speak very loudly while the rest of the

population listened in isolation from one another— and who

today are not in a situation like that at all295». Jay Rosen

introduce i suoi lettori di fronte ad una vera e propria

rivoluzione copernicana, che ha però il sapore di una rivalsa

proletaria, giornalisticamente parlando. Il ribaltamento dei

rapporti di dominanza tra un élite che deteneva l’esclusivo

diritto all’informazione e una massa che non poteva che

accettare passivamente. Questa svolta è stata resa possibile

grazie all’avvento dell’era digitale: «What became known as

citizen journalism is the result of the digital era’s

democratization of media — wide access to powerful,

inexpensive tools of media creation; and wide access to what

294 «Quando le persone precedentemente conosciute come pubblico

utilizzano gli strumenti della stampa che hanno in loro possesso per

informare molte altre persone riguardo ad un evento degno di nota, questo

è citizen journalism». Ibidem. 295 «Le persone precedentemente conosciute come pubblico sono quelle

che si trovavano al termine del sistema mediatico unidirezionale in qualità

di riceventi, in un modello di comunicazione di massa, con alte quote

d’ingresso e poche firme abilitate a parlare molto forte mentre il resto

della popolazione ascoltava isolatamente – e che oggi non si trovano

assolutamente in più in una situazione come quella». Rosen J., The People

Formerly Known as the Audience in pressthink.org, 27 giugno 2006

(http://archive.pressthink.org/2006/06/27/ppl_frmr.html).

146

people created, via digital networks296». Il pubblico si è

trasformato esso stesso in un media indipendente: «The

audience has now transformed to an independent media. We

have now our printing press – the blog; our own radio station,

the podcasting, our own TV station, the vlog; our own

gallery, the photoblogs; our own alerts, the twitter feeds and

so on297». Anche i rapporti con i media tradizionali, che in

ogni caso sopravvivono, subiscono delle profonde modifiche:

«The users are deciding what the point of their engagement

will be — what application, what device, what time, what

place298». I media tradizionali non si mostrano ciechi di fronte

ai cambiamenti che definiscono il nuovo pubblico come un

pubblico attivo che desidera creare, comunicare, dibattere,

condividere299. Del resto, la svolta è epocale e allerta anche i

296 «Quello che è diventato noto come citizen journalism è il risultato della

democratizzazione dei media dell’era digitale – ampio accesso a strumenti

di creazione mediatica potenti ed economici; e ampio accesso a quello che

le persone creavano, attraverso le reti digitali». Gillmor D., Where Did

"Citizen Journalist" Come From? in citmedia.org, 14 luglio 2008

(http://citmedia.org/blog/2008/07/14/where-did-citizen-journalist-come-

from/). 297 «Il pubblico è ora trasformato in un media indipendente. Abbiamo la

nostra carta stampata – il blog; la nostra stazione radio, i podcast, la nostra

emittente televisiva, il vlog; la nostra galleria fotografica, i photoblog; i

nostri allarmi, i feeds di twitter e così via». Citizen journalism and Rising

Voices in rising.globalvoicesonline.org, 20 luglio 2008

(http://rising.globalvoicesonline.org/blog/2008/07/20/citizen-journalism-

and-rising-voices/). 298 «Gli utenti decideranno quale sarà il livello del loro coinvolgimento –

quale impegno, quale strumento, quale ora, quale posto». Rosen J., The

People Formerly Known as the Audience in pressthink.org, 27 giugno

2006, (cit). Lla frase appartiene a Tom Curley, amministratore delegato

della Associated Press. 299 Ibidem.

147

più conservatori, come il docente Nicholas Lemann della

Columbia University: «the category that inspires the most

soaring rhetoric about supplanting traditional news

organizations is ‘citizen journalism’, meaning sites that

publish contributions of people who don’t have jobs with

news organizations but are performing a similar function300».

Come accade spesso, scemata l’ondata rivoluzionaria, arriva

il tempo del ripristino dell’ordine, che nel caso del citizen

journalism significa incastonarlo, categorizzarlo, inserirlo nel

linguaggio quotidiano con le sue caratteristiche e sfumature.

A tal proposito il giornalista Tony Rogers su About.com ha

diviso il giornalismo partecipativo (così chiamato in Italia) in

due macro categorie: quello semi-indipendente e quello

indipendente. Il semi-indipendent citizen journalism vede i

cittadini contribuire in diversi modi ai siti di informazione

tradizionale già esistenti: la pubblicazione di commenti

relativi a notizie scritte da giornalisti professionisti,

l’aggiunta di ulteriori informazioni rispetto a quelle inserite

in un pezzo redatto da un reporter, la collaborazione tra

lettore e autore nella stesura della storia (ad esempio un

consulto tecnico) e infine l’incorporazione di blog degli utenti

nei siti dei media tradizionale. L’indipendent citizen

journalism vede i cittadini muoversi in maniera del tutto

indipendente rispetto al mondo del giornalismo

professionista. Rientrano in questo caso blog in cui delle

300 «La categoria che più ispira la retorica che le tradizionali

organizzazioni di news possano essere soppiantate è il citizen journalism.

Con citizen journalism si intendono quei siti che pubblicano i contributi

di quelle persone che non lavorano con le aziende giornalistiche, ma che

ugualmente compiono una funzione simile». Lemann N., Amateur Hour

in newyorker.com, 7 agosto 2006

(http://www.newyorker.com/archive/2006/08/07/060807fa_fact1).

148

persone riportano gli eventi delle loro comunità, siti di notizie

con la medesima funzione o siti ibridi in cui professionisti e

citizen journalist lavorano fianco a fianco301.

Il dibattito sulla dignità del citizen journalism è vivace. E’

interessante la posizione del già citato Nicholas Lemann,

perché – pur scettico – inserisce il giornalismo partecipativo

in una nicchia in cui si muove a proprio agio, molto più di

quello professionista: la testimonianza di eventi inaspettati.

«The best original Internet journalism happens more often by

accident, when smart and curious people with access to

means of communication are at the scene of a sudden disaster.

Any time that big news happens unexpectedly, or in remote

and dangerous places, there is more raw information

available right away on the Internet than through established

news organizations302». Lemann non crede però nel citizen

journalism tout court, sostiene anzi che «as journalism moves

to the Internet, the main project ought to be moving reporters

there, not stripping them away303». I processi informativi

devono rimanere nelle mani dei professionisti, sostiene

Lemann, pur potendo questi ultimi sfruttare delle integrazioni

che vengono dai cittadini e dale nuove tecnologie. La 301 Rogers T., What Is Citizen Journalism? in about.com

(http://journalism.about.com/od/citizenjournalism/a/whatiscitizen.htm) 302 «Il miglior giornalismo di internet avviene quasi sempre per caso,

quando persone curiose e intelligenti, con accesso agli strumenti di

internet, sono sulla scena del disastro. Ogni volta che gli eventi succedono

inaspettatamente, o in posti remoti e pericolosi, c’è più possibilità di avere

informazione immediatamente disponibile su internet che dalle

organizzazioni consolidate». Lemann N., Amateur Hour in The New

Yorker, 7 agosto 2006, cit. 303 «Nel momenti in cui il giornalismo approda su Internet, l’obiettivo

principale dovrebbe essere far arrivare lì anche i reporter, non portarli

via». Ibidem.

149

posizione critica nei confronti del citizen journalism da parte

dei media tradizionali si basa spesso anche sul fatto che i

cittadini coprano il bisogno informativo di piccole comunità:

«Citizen journalists may be activists within the communities

they write about. This has drawn some criticism from

traditional media institutions such as The New York Times,

which have accused proponents of public journalism of

abandoning the traditional goal of “objectivity”304». L’errore

è in questo caso dettato dal timore con cui spesso i media

tradizionali guardano alle novità, sintomatico di una paura di

venire soppiantati che appare infondata. Media tradizionali e

citizen journalism sono due realtà che possono

tranquillamente coesistere ognuna con i proprio punti di forza

e le proprie lacune cercando laddove possibile di integrarsi

vicendevolmente. Del resto, la peculiarità del giornalismo

partecipativo non risiede meramente nella copertura delle

notizie, quanto piuttosto nella portata rivoluzionaria della sua

stessa esistenza: l’appropriazione degli strumenti di

trasmissione dell’informazione. I media tradizionali

dovrebbero considerare il citizen journalism come una fonte

ulteriore a cui attingere, non come una minaccia.

«Vi sono ancora importanti discriminanti che lo

distinguono dal giornalismo mainstream, aldilà

304 «I citizen journalist possono essere attivisti della comunità su cui

scrivono. Questo ha portato ad alcune critiche da parte delle istituzioni del

giornalismo tradizionale, come The New York Times, che hanno accusato

i proponenti del public journalism di perdere di vista lo scopo tradizionale

dell’obbiettività». Rosen J., The Weblog: An Extremely Democratic Form

in Journalism, in PressThink, 8 marzo 2004

(http://archive.pressthink.org/2004/03/08/weblog_demos.html).

150

dell'imitazione di tono e narrazione e dell'adozione del

concetto di newsworthness: il tempo di verificare la

notizia e la gerarchizzazione delle stesse, anzitutto.

Nella stessa scelta terminologica della definizione,

“citizen” c'è l'elemento che aiuta a ricostruire quella

dimensione sociale del racconto giornalistico che

appare il suo tratto più caratterizzante: un mondo

autonomo, creato e gestito dagli utenti stessi, dove i

grandi cataclismi si alternano, senza soluzione di

continuità, ai piccoli accadimenti della

quotidianità305».

A tal proposito è interessante analizzare un articolo

dell’Economist che sottolinea come, piuttosto che mettere a

rischio il futuro del giornalismo professionista, il citizen

journalism abbia l’incredibile capacità di creare nuovi posti

di lavoro. Si tratta di tutte quelle persone preposte allo

scandaglio della Rete in modo tale da trovare, controllare,

autenticare e riproporre materiale pubblicato da normali

utenti. «Far from shunning “shaky footage”, audiences think

users’ videos more intimate and authentic than broadcasters’

slick shots306», sostiene Claire Wardle, di Storyful, una

305 Biasio M., Dal reporter al "citizen journalism": come

cambia il racconto dei fatti, in unipd.it 11 novembre 2013

(http://www.unipd.it/ilbo/content/dal-reporter-al-citizen-

journalism-come-cambia-il-racconto-dei-fatti). 306 «Invece di respingere quelle ‘’riprese mosse’’ dei video

amatoriali o occasionali, tra l’ altro, il pubblico pensa che

le immagini dei cittadini siano più autentiche e ‘’intime’’

di quelle ‘’lucide’’ delle emittenti». Amateur journalists

create jobs for professional ones in economist.com, 1

giugno 2013,

(http://www.economist.com/news/international/21578662-

151

azienda che verifica e pubblica i contenuti generati dagli

utenti. L’articolo dell’Economist sottolinea come le imprese

editoriali si stiano muovendo in due direzioni: da una parte,

superato lo scetticismo iniziale, stanno puntando sull’utilizzo

delle reti sociali come fonti di informazioni; dall’altra si

stanno impegnando nella creazione di piattaforme che

incoraggino i lettori a fornirgli direttamente i loro materiali.

Appartengono a questa categoria iReport di CNN, il

capostipite del genere, che può ora vantare 1,3 milioni di

collaboratori, numero aumentato di ben 6 volte rispetto al

momento del lancio, nel 2008. Di grande originalità il sistema

proposto dal quotidiano svedese Aftonbladet, che chiede ai

propri lettori di fornire il loro indirizzo in modo tale da

avvertirli di eventuali avvenimenti nelle vicinanze della zona

segnalata e chieder loro dei contributi (immagini, video o testi

che siano) in cambio di un piccolo compenso. Anche il

Guardian, sempre attento alle novità offerte dalla Rete, si è

dotato di una piattaforma (Guardian Witness) che consente

agli utenti della versione mobile di pubblicare dei video

d’interesse. Tuttavia, a spaventare le imprese editoriali è la

tendenza dei citizen journalist di postare i propri contenuti

direttamente sui social network, piuttosto che utilizzando le

testate giornalistiche come tramite. «In 2005 nearly all of the

BBC’s user-generated content was submitted directly to the

organisation; now it has to hunt down half of it from social

networks. That means sifting a lot of dross. Every day 7,000

hours of news-related videos are uploaded to YouTube, an

online-video site owned by Google, much of it created by

amateurs. News organisations are hiring ever bigger teams to

amateur-journalists-create-jobs-professional-ones-foreign-

correspondents).

152

scavenge for the best307». Ad esempio la BBC News è tra le

testate meglio attrezzate da questo punto di vista, con circa

20 dipendenti che lavorano a tempo pieno occupandosi della

selezione dei materiali provenienti dagli utenti. Altri

quotidiani importanti si affidano solitamente a gruppi di

lavoro che vanno tra le 5 e le 7 unità. La fase successiva è

rappresentata dalla verifica dell’attendibilità di quanto

trovato sul Web secondo modalità differenti rispetto al

processo che si mette in atto per le fonti tradizionali:

«conscientious reporters will examine users’ past posts to see

if they have obvious political biases and to check that they are

where they claim to be. They use Google’s satellite maps to

certify the location of a photograph or video, and search

image banks to ensure that a photograph is not doctored308».

L’ultimo passaggio, quello della pubblicazione, prevede

l’ottenimento del permesso da parte di chi detiene i diritti sul

materiale in questione. Questa fase non è così immediata

come si potrebbe pensare. Infatti, nella maggior parte dei casi

l’utente chiede alle testate solamente di essere citato, senza

pretendere un compenso economico. Ma proprio rintracciare

307 «Nel 2005 quasi tutti i contenuti prodotti dagli utenti della BBC erano

stati sottoposti alla testata. Ora invece l’ emittente deve dare la caccia ad

almeno la metà di quei contenuti che vanno sui social network. E quindi

significa spulciare un sacco di materiali inutili. Ogni giorno 7.000 ore di

video-notizie vengono caricate su YouTube e varie testate giornalistiche

stanno assumendo sempre più addetti alla ‘’pulizia’’ e al filtraggio delle

reti sociali». Ibidem. 308 «Giornalisti coscienziosi devono esaminare i precedenti post dei

singoli utenti per vedere se hanno dei pregiudizi politici evidenti e

verificare se sono davvero dove dicono di essere. Devono usare delle

mappe satellitari per certificare la posizione di una fotografia o un video,

e scavare nelle banche dati per garantire che una immagine non sia stata

ritoccata». Ibidem.

153

queste persone fa sì che i redattori preposti perdano spesso

moltissimo tempo. «Many journalists want to see simpler

licensing rules. They would like YouTube and Twitter to

make it easier for web users to grant rights to news firms,

perhaps by ticking a box when they first upload their

content309». Offrendo la possibilità di snellire questo

processo macchinoso alcune aziende stanno creando un

nuovo settore di mercato. La già citata Storyful ad esempio

propone un servizio di individuazione e contrattazione dei

diritti sui contenuti prodotti dagli utenti a cui una testata può

accedere pagando un canone di abbonamento mensile tra i

750 e i 15.000 dollari. Esistono inoltre siti come il francese

Citizenside che si pongono come intermediari con l’obiettivo

di aiutare gli utenti a vendere i propri materiali alle testate

giornalistiche.

Non rimane che esaminare più da vicino alcuni esempi di

citizen journalism, sia italiani che internazionali.

OhmyNews. La storia di questo sito koreano comincia con

l’oppresione del regime del paese asiatico. Un articolo del

Guardian firmato da Sarah Hartley spiega come diversi

fattori favorirono la nascita e la fortuna di questa realtà. In

primo luogo si parla della grande crescita economica che

attraversò la Corea a partire dal 1961, che venne tradotta in

grandi investimenti a livello di infrastrutture tecniche. Il

paese si fece trovare preparato di fronte all’evoluzione

tecnologica e ora l’accesso a Internet è altamente pervasivo.

Dall’altro lato, il regime ha calcato pesantemente la mano

309 «Molti giornalisti quindi vorrebbero una semplificazione delle norme

sui diritti. Ad esempio che YouTube e Twitter rendessero più semplice la

procedura per la cessione dei diritti alle testate, per esempio barrando una

casella specifica prima di caricare i propri contenuti». Ibidem.

154

contro la libertà di stampa, al punto che ben 49 dei 64

quotidiani che circolavano nel 1961 sono stati chiusi.

Prosegue l’articolo del Guardian: «But while both factors

were important reasons why so many citizens document their

daily experiences, there was another reason why the news

organisation has grown to its current position. One of the big

pieces of magic isn't digital at all, it's a really good

understanding of their audience, that politically active

audience310». Esaminati i fattori che ne hanno favorito

l’affermazione, è il momento di entrare nel merito della

questione. The Knight Community News Network311 ha

pubblicato una bella intervista fatta a Jean K. Min, direttore

delle comunicazioi di OhmyNews International, di cui è il

caso riportare alcuni stralci312.

310 «Ma mentre entrambi i fattori furono importanti ragioni grazie alle

quali così tanto cittadini ora documentano le loro esperienze

quotidianamente, ci fu un’altra ragione che spiega la crescita

dell’organizzazione di notizie. Uno dei punti di forza non è affatto

digitale, bensì si tratta di una capacità di capire il pubblico, in particolar

modo quello attivo politicamente». Hartley S., Korea's OhmyNews: how

oppression inspired citizen journalism in theguardian.com, 19 gennaio

2011 (http://www.theguardian.com/media/pda/2011/jan/19/ohmynews-

korea-citizen-journalism). 311 «The Knight Community News Network is a self-help portal that

guides both ordinary citizens and traditional journalists in launching and

responsibly operating community news and information sites». («The

Knight Community News Network è un portale fai-da-te che guida tanto I

cittadini quanto I giornalisti professionisti a lanciare e gestire

responsabilmente siti di informazione»).

http://www.kcnn.org/about/about_kcnn/ 312 La versione originale, in inglese, è disponibile all’indirizzo

http://www.kcnn.org/principles/ohmynews. (OhmyNews: ‘Every citizen

can be a reporter’).

155

«DOMANDA: Per favore ci dica qualcosa riguardo a

OhmyNews. Come è partito il sito e quali sono i suoi

obiettivi?

RISPOSTA: In qualità di un ex-giornalista di una

piccola rivista liberale chiamata Mahl dal 1988, Oh-

Yeon-ho, il fondatore e amministratore delegato di

OhmyNews, avevo affrontato innumerevoli rifiuti

mentre cercava di accedere a fonti di informazione più

importanti. Le porte erano chiuse e le domande non

trovavano risposta.

In qualità di persona che paga le tasse, si sentì in

diritto di chiedere alle agenzie governative di

garantiere l’accesso alla vasta riserva di informazione

pubblica. Quello fu il momento in cui gli venne l’idea

dell’”ogni cittadino è un reporter”. L’idea rimase con

lui per diversi anni finché non cominciò i suoi studi di

giornalismo alla Regent University negli Stati Uniti.

Durante i suoi studi alla Regent University, uno dei

professori chiese alla classe di preparare un progetto

di un lancio immaginario di un nuovo media. Preparò

un dettagliato progetto di lancio di un media di

informazione online, costruendo il business model

intorno all’idea che “ogni cittadino è un reporter”.

Dopo essere tornato in Corea nel 1997, ha iniziato a

persuadere alcuni investitori a credere nel suo

progetto e alla fine lasciò il suo lavoro presso Mahl.

Con i fondi iniziali raccolti tramite questi investitori e

una somma addizionale proveniente dalle sue stesse

casse, lanciò OhmyNews nel febbraio del 2000. Il

resto è storia di oggi.

156

D: Cosa rende OhmyNews diverso dai media

tradizionali come ad esempio il South China Morning

Post?

R: Nella sua recente biografia pubblicata in Corea, Oh

ha scritto della sua visione originale e del suo “voler

iniziare una tradizione libera da una informazione

elitaria dove le notizie vengano giudicate in base alla

qualità, senza dare importanza se provengono da un

giornale importante, piuttosto che un reporter locale,

da un giornalista professionista o da una casalinga di

quartiere…così ho deciso di fare un tuffo nel mare di

Internet, anche se temevo che fosse differente rispetto

a quello a cui ero abituato”.

Internet consente alle persone di avere una

comunicazione bilaterale e Oh voleva trarre il meglio

da questo nuovo mezzo. […].

“Ogni cittadino può essere un reporter. I giornalisti

non sono delle strane specie esotiche, sono chiunque

cerchi dei nuovi eventi, li scriva e li condivida con gli

altri”.

E data la natura unica dei suoi partecipanti,

“OhmyNews non riguarda principalmente articoli

puramente infomativi. Articoli che includono sia fatti

che opinioni sono accettabili quando sono ben fatti”.

D: OMN è stato definito il primo sito di citizen

journalism. È vero?

R: Non è certo se siamo il più grande sito di citizen

giornalismo ma siamo il primo sito di citizen

journalism che ha scardinato significativamente il

lucchetto dei media tradizionali sull’agenda setting

nazionale. Dal momento che nessun sito di citizen

157

journalism al mondo fa affidamento su storie originali

fornite da oltre 47mila citizen reporter, potremmo

essere il più grando sito di citizen journalism in

termini di partecipanti. […].

[…]

D: Per favore spieghi come funziona il processo

editoriale di OhmyNews. Come fanno i citizen

journalist a pubblicare gli articoli sul sito? La vostra

redazione lavora con i cittadini per quanto concerne la

realizzazione della storia e dopo vengono pagati se

sono accettati?

R: I citizen journalist scrivono una o due storie per

settimana. Dopo che la inviano, possono controllare il

loro stato. Le storie rimangono come articoli “in

sospeso” finché non vengono accettate dai redattori di

OhmyNews. Una volta accettate, i citizen journalist

possono seguire lo stato delle loro parole in tempo

reale, controllando il numero di visitatori per ognuno

delle loro storie, il numero di commenti o i soldi

raccolti nel “vasetto delle mance”.

[…].

D: Quali sono i principi che formano secondo voi la

base del citizen journalism?

R: OhmyNews apprezza le notizie che sono raccolte e

scritte attraverso la prospettiva dei semplici cittadini.

[…].

OhmyNews inoltre incoreggia i nostril citizen

journalist a selezionare storie di cui hanno una buona

conoscenza e nel riportarle con la loro stessa voce. Li

informiamo che non devono necessariamente seguire

la logica e le regole della professione giornalistica

158

anche se possono esseri utili a volte. In breve, gli

diciamo di essere loro stessi.

Infine, OhmyNews ha a cuore l’accuratezza e la

credibilità delle loro storie. Abbiamo dei redattori che

monitorano, controllano e modificano le storie

mandate dai citizen journalist prima che vengano

pubblicato. Questo è il motivo per cui continuamo a

raccomandare loro una “partecipazione responsabile”.

Per concludere, la politica editoriale di Ohmynews è

la perfetta cooperazione e armonia tra il giornalismo

professionistico e i citizen journalist. […].

[…]».

Il modello proposto da OhmyNews è estremamente

interessante, in particolar modo per quanto concerne la forma

di retribuzione tramite la tip-jar. «The site operates a tipping

system where readers can make donations paid via a mobile

phone for articles they value».313 Un sistema bidirezionale

nella sua interezza, anche per quanto concerne la

retribuzione. Una forma di pagamento democratico basato

sulla qualità percepita e l’apprezzamento degli articoli. Non

uno stipendio fisso, ma qualcosa in più della totale remissione

313 «Il sito funziona tramite un sistema di mance dove i

lettori possono fare delle donazioni tramite telefono

cellulare per gli articoli che apprezzano». Hartley S.,

Korea's OhmyNews: how oppression inspired citizen

journalism in theguardian.com, 19 gennaio 2011 (cit.).

159

alla collaborazione a titolo gratuito. Specie nel momento in

cui «the largest tip ever received was worth US$20,000314».

YouReporter. Nel 2006 Angelo Cimarosti, insieme a Luca

Bauccio e Stefano De Nicolo, inizia a pensare ad una

piattaforma che consenta ai cittadini di pubblicare le proprie

testimonianze di fronte a svariati tipi di eventi tramite foto o

video. Tuttavia l’Italia di quegli anni non possedeva ancora

una capillare diffusione della banda larga, così come non

rappresentavano uno strumento alla portata di tutti gli

smartphone. In partenza YouReporter deve accontentarsi di

ricevere testimonianze fotografiche: «when the earthquake in

l’Aquilia hit in 2008, hundreds of photos were uploaded to

the site; had it been just video based, YouReporter would

have never gotten off the ground315». Il successo grazie alle

piccolo cose, spiega Cimarosti in un’intervista telefonica per

10.000 Words: «The success of YouReporter is about the

small things, especially in a country like Italy, made up of

small towns. People already have an outlet for the big news

events — an earthquake, a cruise ship crash, even a big snow

storm. What YouReporter users share and want to know

about are the small things — suspended trash pick-up, the

traffic sign on the corner that needs to be replaced316». Non

314 «La mancia più generosa mai ricevuta è stata pari a 20.000 $». Ibidem. 315 «Quando ci fu il terremoto a L’Aquila nel 2008, centinaia di foto

vennero caricato sul sito; fosse stato semplicemente basato sui video,

YouReporter non avrebbe mai avuto successo». Fratti K., Dispatch From

Italy: Citizen Journalism and YouReporter Making Waves in

mediabistro.com, 3 ottobre 2013

(http://www.mediabistro.com/10000words/youreporter-citizen-

journalism-abroad_b23092). 316 «Il successo di YouReporter riguarda le piccolo cose, specialmente in

un paese come l’Italia, fatto di piccolo città. Le persone hanno già una

160

solamente le notizie di carattere locale, la diffusione della

banda larga e degli smartphone hanno consentito alla creatura

di Cimarosti di crescere esponenzialmente grazie ai video e

di allargare il proprio raggio d’azioni fino a coprire anche

eventi di portata nazionale, come ad esempio l’alluvione che

ha colpito e devastato la regione Sardegna nel novembre del

2013 (figura 24). La crescita del sito, che in presenza di

notizie di rilievo arriva a caricare fino a 1.000 video al giorno,

è passata anche attraverso la creazione di app per Android e

iOS, così come la nascita di YouReporter NEWS:

«YouReporter NEWS è la testata giornalistica

indipendente di YouReporter.it. Un nuovo progetto

che, dopo un periodo di sperimentazione, entra ora nel

vivo.

Una squadra di giornalisti professionisti è pronta a

coprire ogni giorno i principali eventi italiani ed

internazionali. Le breaking news e i fatti in evoluzione

sono seguiti con particolare attenzione, con vere e

proprie dirette testuali non-stop.

Non solo cronaca, però. Il team giornalistico di

YouReporter NEWS mira ad approfondire le notizie

del momento. La redazione lavora instancabilmente

per proporre mappe, documenti grafici,

approfondimenti interattivi. E ci saranno anche molti

copertura per le notizie importanti – un terremoto, un incidente di una

nave da crociera, perfino una grande tormenta di neve. Quello che gli

utenti di YouReporter condividono e di cui vogliono essere informati è

legato alle piccole cose – la sospensione della raccolta di rifiuti, il

semaforo all’angolo che ha bisogno di essere rimpiazzato». Ibidem.

161

video inediti, che non trovate altrove. Alcuni, per la

prima volta in Italia per l’informazione in Hd317».

(figura 24 – la homepage di YouReporter del 21 novembre 2013

alle 18:52)

Il sito viene mandato avanti tramite algoritmi, non

vengono quindi neppure corretti errori di ortografia. «But if

something is ‘fake’ or very wrong, the users and the

algorithms fix it. It’s like any other networked

community318». I cosiddetti media tradazionali non hanno

tardato a riproporre i contenuti pubblicati su YouReporter.

317 http://www.youreporternews.it/il-progetto/ 318 «Se però viene caricato un video falso o palesemente

artefatto gli algoritmi della piattaforma lo eliminano o gli

utenti possono rimuoverlo, come accade con altri tipi di

comunità sul web». Ibidem.

162

Come riporta lo stesso sito di Cimarosti, molte tra i più

importanti organi di informazione del mondo hanno

ritrasmesso i video dei citizen journalist della piattaforma

italiana: dalla BBC alla CNN passando per Reuters e Al-

Jazeera; senza dimenticare tutti i principali telegiornali

italiani. Infine, per quanto concerne la retribuzione degli

utenti del sito, al momento i video vengono caricati senza

alcun ritorno economico. Nell’intervista rilasciata a 10.000

Words, Cimarosti si è detto pronto ad inserire un sistema

revenue sharing, ovvero un tipo di remunerazione condivisa

tra autore ed editore in base ai ricavi ottenuti dai singoli

contenuti.

Realtà come quelle comprese nella categoria del citizen

journalism, o giornalismo partecipativo, fanno riflettere sulla

situazione legislativa italiana in merito alla formazione delle

figure professionali nel campo dell’informazione. «Did you

know that in Italy, to be a practicing journalist, you take

exams and get certified? That’s what my Roman friend, a

senior digital editor at one of the country’s largest publishing

groups told me over lunch this week during my Italian

holiday. It’s like being a lawyer, or an architect319», scrive

nell’incipit dell’articolo Karen Fratti per 10.000 Words.

Prima di voltare pagine e passare alla seconda parte di questa

ricerca, è forse necessario soffermarsi su questi aspetti. Nelle

pagine che seguono verranno dunque analizzate le

componenti legislative del mondo giornalistico, così come le 319 «Lo sapevate che in Italia, per essere un giornalista che esercita la

professione, bisogna sostenere un esame e prendere un attestato? Questo

è quello che il mio amico romano, redattore digitale per una dei più grandi

gruppi editoriali del paese mi ha detto a pranzo questa settimana durante

la mia vacanza italiana. È come essere un avvocato, o un architetto».

Ibidem.

163

figure professionali che gravitano nel mercato del lavoro,

alcune figlie della rivoluzione digitale.

164

165

3 Il giornalismo in Italia: la legge e il

mondo del lavoro

3.1 Essere giornalisti in Italia

Nelle pagine che hanno preceduto questa parte della tesi si

sono analizzati gli innumerevoli stravolgimenti che ha dovuto

affrontare la professione giornalistica. Internet, il Web 2.0, la

blogosfera, i social network, il citizen journalism, per citarne

alcuni. L’Italia di fronte al susseguirsi delle spinte

rivoluzionarie risponde con la prontezza tipica delle forze

conservatrci, lasciando che sia una legge del febbraio del

1963 a regolare la formazione dei professionisti. La legge n.

69/1963 sancisce la creazione dell’Ordine dei Giornalisti,

l’organo che gestisce l’iscrizione all’albo professionale. «È

istituito l'Ordine dei giornalisti. Ad esso appartengono i

giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi

elenchi dell'albo. Sono professionisti coloro che esercitano in

modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista.

Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica

non occasionale e retribuita anche se esercitano altre

professioni o impieghi320».

Organizzazione dell’Ordine. L’Ordine dei Giornalisti è

organizzato territorialmente su base regionale o

interregionale, con ogni Consiglio che detiene il proprio albo

professionale. I consigli sono formati da 6 professionisti e 3

320 Art. 1, Ordinamento della professione di giornalista – Legge 3

febbraio 1963, n. 69. (http://www.odg.it/content/legge-n-691963)

166

pubblicisti con almeno 5 anni di anzianità di iscrizione. I

membri vengono eletti dagli appartenenti all’albo con

scrutinio segreto e a maggioranza assoluta di voti. Le cariche

hanno durata di 3 anni con possibilità di rielezione, come

sottolinea l’art. 9 della 69/1963 «ciascun Consiglio elegge nel

proprio seno un presidente, un vicepresidente, un segretario

ed un tesoriere. Ove il presidente sia iscritto nell'elenco dei

professionisti, il vicepresidente deve essere scelto tra i

pubblicisti, e reciprocamente321». Per quanto concerne invece

il Consiglio nazionale, questo ha sede presso il Ministero

della giustizia ed è composto da due professionisti e un

pubblicista per ogni Ordine regionale o interregionale. Anche

qui le cariche sono triennali e consentono la rielezione, ma

non è possibile far parte contemporaneamente di un Consiglio

regionale o interregionale e del Consiglio nazionale. Oltre a

un presidente, un vicepresidente, un segretario ed un

tesoriere, il Consiglio nazionale elegge un Comitato

esecutivo composto da sei professionisti e tre pubblicisti (tra

gli stessi sono compresi il presidente, il vicepresidente, il

segretario e il tesoriere).

Funzioni dell’Ordine. Per quanto concerne i Consigli

regionali e interregionali, diverse sono le attribuzioni

esercitate:

«a) cura l'osservanza della legge professionale e di

tutte le altre disposizioni in materia;

b) vigila per la tutela del titolo di giornalista, in

qualunque sede, anche giudiziaria, e svolge ogni

321 Art. 9, Ibidem.

167

attività diretta alla repressione dell'esercizio abusivo

della professione;

c) cura la tenuta dell'albo, e provvede alle iscrizioni e

cancellazioni;

d) adotta i provvedimenti disciplinari;

e) provvede alla amministrazione dei beni di

pertinenza dell'Ordine, e compila annualmente il

bilancio preventivo e il conto consuntivo da

sottoporre all'approvazione dell'assemblea;

f) vigila sulla condotta e sul decoro degli iscritti;

g) dispone la convocazione dell'assemblea;

h) fissa, con l'osservanza del limite massimo previsto

dall'art. 20, lettera g), le quote annuali dovute dagli

iscritti e determina inoltre i contributi per la iscrizione

nell'albo e nel registro dei praticanti e per il rilascio di

certificati;

i) esercita le altre attribuzioni demandategli dalla

legge322».

Il Consiglio nazionale invece:

«a) dà parere, quando ne sia richiesto dal Ministro

della giustizia, sui progetti di legge e di regolamento

che riguardano la professione di giornalista;

322 Art. 11, ibidem.

168

b) coordina e promuove le attività culturali dei

Consigli degli Ordini per favorire le iniziative intese

al miglioramento ed al perfezionamento

professionale;

c) dà parere sullo scioglimento dei Consigli regionali

o interregionali ai sensi del successivo art. 24;

d) decide, in via amministrativa, sui ricorsi avverso le

deliberazioni dei Consigli degli Ordini in materia di

iscrizione e di cancellazione dagli elenchi dell'albo e

dal registro, sui ricorsi in materia disciplinare e su

quelli relativi alle elezioni dei Consigli degli Ordini e

dei Collegi dei revisori;

e) redige il regolamento per la trattazione dei ricorsi e

degli affari di sua competenza, da approvarsi dal

Ministro della giustizia;

f) determina, con deliberazione da approvarsi dal

Ministro della giustizia, la misura delle quote annuali

dovute dagli iscritti per le spese del suo

funzionamento;

g) stabilisce, ogni biennio, con deliberazione da

approvarsi dal Ministro della grazia e giustizia, il

limite massimo delle quote annuali dovute ai Consigli

regionali o interregionali dai rispettivi iscritti323».

L’albo professionale. Ogni Consiglio regionale o

interregionale ha il proprio albo, dove sono iscritti i

giornalisti che hanno la loro residenza o il loro domicilio

professionale nel territorio compreso nella circoscrizione del

323 Art. 20, ibidem.

169

Consiglio. Come riporta l’art. 27, ad ogni iscritto viene

rilasciata una tessera. L’albo è ripartito in due elenchi: uno

dei professionisti l'altro dei pubblicisti. Per entrare a far parte

dell’albo dei professionisti ci sono innanzitutto dei requisiti

da soddisfare, in primo luogo l'età, che non deve essere

inferiore ai 21 anni. In secundis l'iscrizione nel registro dei

praticanti, dove a loro volta possono essere iscritti tutti coloro

che intendano avviarsi alla carriera giornalistica e che

abbiano compiuto almeno 18 anni. Per inoltrare la domanda

d’iscrizione al registro dei praticanti bisogna, oltre a fornire

il certificato di nascita e di residenza, presentare attestazione

di versamento della tassa di concessione governativa, nella

misura prevista dalle disposizioni vigenti per le iscrizioni

negli albi professionali (requisiti necessari anche per

l’iscrizione all’albo dei professionisti). Bisogna inoltre

presentare una dichiarazione del direttore presso cui viene

svolta la pratica che dia prova dell’effettivo inizio della

pratica stessa324. Il praticantato, secondo l’art. 34, deve essere

svolto «presso un quotidiano, o presso il servizio giornalistico

della radio o della televisione, o presso un'agenzia quotidiana

di stampa a diffusione nazionale e con almeno 4 giornalisti

professionisti redattori ordinari, o presso un periodico a

diffusione nazionale e con almeno 6 giornalisti professionisti

redattori ordinari». Al termine di 18 mesi di pratica il

direttore responsabile della pubblicazione può rilasciare la

dichiarazione che descrive e attesta l’attività svolta dal

praticante, necessaria per l’iscrizione all’albo325. Infine è

324 Coloro non in possesso di un titolo di studio non inferiore alla licenza

di scuola media superiore devono inoltre sostenere un esame di cultura

generale. Art. 33, ibidem. 325 L’alternativa ai 18 mesi di praticantato è rappresentato dalle scuole di

giornalismo riconosciute dall’Ordine.

170

necessario, come descrive l’art. 32, superare un esame

composto da una parte orale ed una scritta di tecnica e pratica

del giornalismo. «L'esame dovrà sostenersi in Roma, innanzi

ad una Commissione composta di sette membri, di cui cinque

dovranno essere nominati dal Consiglio nazionale dell'Ordine

fra i giornalisti professionisti iscritti da non meno di 10 anni.

Gli altri 2 membri saranno nominati dal presidente della

Corte d'appello di Roma, scelti l'uno tra i magistrati di

tribunale e l'altro tra i magistrati di appello326 […]». Per

quanto concerne invece l’iscrizione all’albo dei pubblicisti,

oltre a dover soddisfare i requisiti quali la presentazione dei

certificati di nascita e di residenza e l’attestazione di

versamento della tassa di concessione governativa, bisogna

«presentare gli articoli, a firma del richiedente, pubblicati in

giornali e periodici e i certificati dei direttori delle

pubblicazioni, che comprovino l'attività pubblicistica

regolarmente retribuita da almeno due anni327». Se per potersi

iscrivere all’albo dei giornalisti professionisti bisogna

svolgere un praticantato di almeno 18 mesi, per entrare a far

parte di quello dei pubblicisti è invece necessario svolgere

attività giornalistica regolarmente retribuita per almeno due

anni. Solamente una volta iscritti all’albo si è giornalisti ed è

possibile esercitare la professione, come spiega l’art. 45 della

legge 69/1963: «Nessuno può assumere il titolo né esercitare

la professione di giornalista, se non è iscritto nell'albo

professionale328».

326 Art. 32, ibidem. 327 http://www.odg.it/content/albo. 328 Art. 45 Ordinamento della professione di giornalista – Legge 3

febbraio 1963, n. 69. (http://www.odg.it/content/legge-n-691963)

171

Sull’esistenza e la legittimità dell’Ordine in Italia. Perché

esiste l’Ordine dei Giornalisti? Come si legge sul sito

dell’Ordine: «l'attività giornalistica è un'attività intellettuale

a carattere professionale, caratterizzata quindi da

quell'elemento di "creatività" che fa del giornalista non un

impiegato o un operatore esecutivo, ma, appunto, un

professionista329». Viene poi sottolineata la rilevanza sociale

dell’attività: «La legge riconosce poi la rilevanza sociale del

giornalismo e impone, a chi lo eserciti in forma professionale,

di iscriversi obbligatoriamente in un Albo dettandone

condizioni e modalità; tutto ciò, soprattutto a garanzia della

pubblica opinione e del lettore che è il destinatario

dell'informazione. La legge, inoltre, prevede l'autogoverno

della categoria […]330». La conditio sine qua non è

rappresentata dalla sentenza n. 11/1968 con cui la Corte

stabilisce che quella dei giornalisti è una professione e non un

mestiere331. Questa posizione trova però una larga schiera di

329 http://www.odg.it/content/la-storia 330 Ibidem. 331 Occhetta F., L’Ordine Nazionale dei Giornalisti in laciviltacattolica.it,

19 settembre 2013

(http://www.laciviltacattolica.it/articoli_download/3216.pdf). Dice la

sentenza n. 11/1968 della Corte Costituzionale: «I giornalisti vengano

associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere

economico dei datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto

della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che

supera di gran lunga la tutela sindacale dei diritti di categoria e che perciò

può essere assunto solo da un Ordine a struttura democratica, che, con i

suoi poteri di ente pubblico, vigili, nei confronti di tutti e nell’interesse

della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale

che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di

informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano

comprometterla». Carta di Firenze: approvata a larghissima

maggioranza Fondamentale il ruolo delle rappresentanze sindacali in

172

oppositori. Ad esempio il costituzionalista Paolo Barile

sostiene che «la professione non si presenta come “sapere

specifico” ma come l’esercizio continuativo, esclusivo e

retribuito, della libertà di pensiero a favore di un’impresa

editoriale332». Invece «gli altri Ordini hanno diritto di esistere

in quanto sono ancorati a conoscenze tecniche

imprescindibili e a saperi specifici che vengono accertati

attraverso un titolo universitario e un esame di Stato333». E’

innegabile che il giornalista «vive da sempre di occupazione

subordinata […], non ha rapporti economici diretti con il

cittadino come i medici e gli avvocati obbligati a dare

garanzie […]334». Condivide questo punto Francesco

Occhetta: «I giornalisti stessi dipendono da aziende editoriali

in cui esiste un potere gerarchico che vincola l’attività del

dipendente335». Non è di questo avviso il presidente onorario

dell’Ordine dei Giornalisti, Lorenzo del Boca, intervistato da

i-Italy: «Ci sono delle attività professionali che, avendo un

riverbero sociale molto accentuato, hanno necessità di

garantirsi presso il loro pubblico. Un medico o un avvocato

non possono esercitare le loro professioni senza fornire

fnsi.it, 22 novembre 2011,

(http://www.fnsi.it/esterne/Fvedinews.asp?AKey=13986). 332 Occhetta F., L’Ordine Nazionale dei Giornalisti in laciviltacattolica.it,

19 settembre 2013 (cit). 333 Abruzzo F., La riforma della professione giornalistica in

Impresa&Stato n.46 (http://impresa-

stato.mi.camcom.it/im_46/abruzzo.htm). 334 Bartolini R., Ordine dei giornalisti, un peso morto da pensionare in

europaquotidiano.it, 2 marzo 2012

(http://www.europaquotidiano.it/2012/03/02/ordine-dei-giornalisti-un-

peso-morto-da-pensionare/). 335 Occhetta F., L’Ordine Nazionale dei Giornalisti in civiltacattolica.it,

19 settembre 2013 (cit).

173

garanzie ai propri clienti. Allo stesso modo un giornalista

deve poter dare alla persona alla quale si rivolge […] la

garanzia che quello che gli comunica è la verità […]336».

Appare poco chiaro come il possesso di una tessera possa

tradursi in garanzia di verità, che dovrebbe essere piuttosto

figlia della professionilità del singolo, più che frutto

dell’appartenenza ad un gruppo. Secondo del Boca tuttavia

«occorre un’istituzione che sia in grado di costruire una

deontologia e assicurarsi che venga rispettata337». Prosegue

Del Boca: «L’Ordine non impone niente, stabilisce solamente

quali sono i limiti che il giornalista deve darsi per la propria

professionalità. Questi limiti non sempre vengono rispettati,

però che vengano stabiliti all’interno della stessa categoria è

un elemento di ulteriore miglioramento della libertà del

giornalismo338». Rimanendo nella sfera etica, non si riesce a

capire per quale motivo – come sostiene Occhetta – la

deontologia del giornalista non possa venir giudicata e

regolata dal lettore prima (esprimendo dissenso, cambiando

testata), dal direttore poi (sanzionando o sollevando

dall’incarico) e debba essere sottoposta ad un organo come

l’Ordine. La domanda è stata posta da i-Italy a Marica

Spalletta, docente di Cultura, etica e deontologia della

comunicazione presso l’Università LUISS Guido Carli di

Roma. La posizione della docente si pone al di fuori della

diatriba legata alla legittimità dell’Ordine collocandosi

piuttosto all’interno della necessità di un cambiamento di

mentalità: «Finché l’etica del giornalista non troverà un punto

336 Giuliani F. A cosa serve l'Ordine dei Giornalisti? Professione e

accademia a confronto in i-taly.org (http://www.i-italy.org/18705/cosa-

serve-lordine-dei-giornalisti-professione-e-accademia-confronto). 337 Ibidem. 338 Ibidem.

174

d’incontro e di dialogo con l’etica dell’editore il sistema non

troverà mai il proprio equilibrio […]. Perché le regole siano

applicate non è sufficiente che esse siano fissate in un codice:

occorre che esse siano condivise. Scrivere delle regole è

infatti per molti versi assai semplice, applicarle lo è molto di

meno […]339». C’è chi invece vede nell’abolizione

dell’Ordine un primo passo imprescindibile per risolvere

alcune delle problematiche dell’universo giornalistico

italiano. Infatti, il dibattito tanto sulla necessità quanto sulla

legittimità dell’esistenza di un Ordine dei Giornalisti è

vivace, ma ancorato al piano dialettico, incapace di portare

all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica il

bisogno di cambiamento che il tempo impone. Tuttavia, il

processo di liberalizzazione delle professioni

regolamentate340, tra le quali rientra il giornalismo, ha

riacceso l’attualità della questione poiché ha costretto anche

l’Ordine stesso a riformarsi, seppur in minima parte. Il

processo deciso dall’allora Ministro dell’Economia Giulio

Tremonti aveva come «criteri ispirativi […] la formazione

continua, la divisione tra deontologia e attività

amministrativa degli enti, l’assicurazione obbligatoria, le

regole di accesso, la libertà di pubblicità informativa341». Le

ripercussioni per quanto concerne l’Ordine dei Giornalisti

339 Giuliani F. A cosa serve l'Ordine dei Giornalisti? Professione e

accademia a confronto in i-taly.org, (cit.). 340 Confluito nel regolamento delegato emanato con D.P.R. 7 agosto 2012,

n. 137. Grisolia M., Libertà di informazione e ordine dei giornalisti alla

luce della riforma degli ordinamenti professionali in AIC (Associazione

Italiana Costituzionalisti) rivista n. 4/2012, 12 dicembre 2012

(http://www.rivistaaic.it/sites/default/files/rivista/articoli/allegati/Grisoli

a.pdf) 341 Occhetta F., L’Ordine Nazionale dei Giornalisti in civiltacattolica.it,

19 settembre 2013 (cit).

175

furono principalmente due: in primo luogo, «la gestione della

giustizia deontologica non verrà più esercitata dai Consigli

regionali e nazionale, ma da un Collegio territoriale di

disciplina, la cui nomina è definita dal Presidente del

tribunale sulla base di una rosa fornita dal Consiglio regionale

[…]. Finora, invece, il Consiglio giudicante era composto

dall’intero Consiglio nazionale342». Il secondo cambiamento

concerne invece la formazione permanente: «tutti gli iscritti

all’albo, a partire dal 2014, avranno l’obbligo di acquisire in

un triennio 60 crediti […] attraverso attività riconosciute

come aggiornamento dall’Ordine […]. Ci sarà la possibilità

di conoscere nuove modalità lavorative, materia

deontologica, aspetti fiscali, di economia, ma anche aspetti

culturali e tecnologici (nuovi media, internet…) che

richiedono un continuo aggiornamento343». Nonostante

queste modifiche, come sottolinea l’AIC rimane però

«l’irrisolta questione della stessa esistenza dell’ordine e della

sua compatibilità con i principi costituzionali344». Del resto, i

tentativi di abolire l’Ordine dei Giornalisti sono stati diversi.

Come riporta Linkiesta, i primi a battersi contro il sistema

corporativo rappresentato dall’Ordine furono nel 1972 «tre

deputati del Partito repubblicano italiano, Francesco

Compagna, Pasquale Bandiera e Adolfo Battaglia che

presentarono una proposta in sette articoli per chiedere la

soppressione della legge approvata dalle Camere appena

342 Ibidem. 343 Ibidem. 344 Grisolia M., Libertà di informazione e ordine dei giornalisti alla luce

della riforma degli ordinamenti professionali in AIC (Associazione

Italiana Costituzionalisti) rivista n. 4/2012, 12 dicembre 2012 (cit.).

176

nove anni prima345». Negli anni successivi furono diverse

realtà politiche (dal Partito radicale al Movimento sociale

italiano passando per il Partito liberale e l’Ulivo) a tentare,

senza successo, di abolire l’obbligatorietà dell’iscrizione

all’albo, quantomeno sostituendola – un’idea di un gruppo di

deputati del Partito radicale tra cui Marco Pannella e

Francesco Rutelli – con una “carta d’identità professionale”

sul modello francese. Tutte le proposte non riuscirono, per un

motivo o per un altro, a diventare legge. Nel 1997 l’Ordine

dei Gironalisti scongiurò l’attacco più pericoloso, inferto dai

radicali. Il partito di Pannella avanzò la proposta di abolizione

dell’Ordine tramite un referendum il cui quesito era il

seguente: «I sottoscritti cittadini italiani richiedono

referendum popolare abrogativo, ai sensi dell'art. 75 della

Costituzione della Repubblica e in applicazione della legge

25 maggio 1970 n. 352, sul seguente quesito: “Volete voi che

sia abrogata la legge 3 febbraio 1963, n. 69, recante

‘Ordinamento della professione di giornalista’?”346». I

votanti si espressero favorevolmente all’abolizione con una

percentuale pari al 65,5%347, ma non venne raggiunto il

quorum e di conseguenza la posizione dei cittadini non potè

tramutarsi in azione legislativa. Come sottolinea l’AIC, le

posizioni che si mantengono contrarie all’Ordine basano la

propria tesi sul conflitto tra l’Ordine stesso e l’art. 21 della

Costituzione Italiana (in particolar modo sulla parte che dice

345 De Martino G., Giornalisti, l’ordine che nessuno riesce a cancellare

in linkiesta.it, 15 aprile 2013, (http://www.linkiesta.it/abolizione-odg). 346 Lettera aperta del presidente dell'Ordine dei giornalisti della

Lombardia in radioradicale.it, 6 gennaio 1997

(http://www.radioradicale.it/exagora/lettera-aperta-del-presidente-

dellordine-dei-giornalisti-della-lombardia) 347 http://www.radicali.it/obiettivi/referendum-radicali

177

che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio

pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di

diffusione. La stampa non può essere soggetta ad

autorizzazioni o censure348»). Recentemente è stato il

Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo a proporre un disegno di

legge per l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, firmato da

53 senatori. Sono molteplici le ragioni che hanno mosso

all’azione il M5S; si legge: «le criticità relative al sistema di

accesso alla professione, la situazione complessa di quanti

pur non essendo giornalisti professionisti svolgono attività

giornalistica non occasionale e retribuita, la insostenibile

situazione di precariato con cui molte migliaia di giornalisti

sono costretti a convivere ogni giorno, costituiscono nodi

imprescindibili349». Del resto, sostiene il disegno di legge dei

grillini, la Corte costituzionale ha già riconosciuto la

legittimità dell’abolizione dell’Ordine nel momento in cui

definì come ammissibile la richiesta di refrendum del Partito

radicale nel 1997350.

L’Ordine e la Rete. La nascita e l’evoluzione di Internet,

culminata con l’avvento del Web 2.0, hanno rivoluzionato il

mondo giornalistico. In questo contesto è d’interesse

analizzare come la capacità della Rete di fornire sia la

possibilità agli utenti di produrre e pubblicare dei contenuti

con grande facilità, sia l’opportunità alla piccola

imprenditoria di aprire siti web e portali attraverso sforzi

economici accessibili, vadano ad entrare nell’orbita della

348 La Costituzione in senato.it

(http://www.senato.it/1025?sezione=120&articolo_numero_articolo=21)

. 349 http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00703074.pdf 350 Ibidem.

178

legge italiana e dell’Ordine. In primo luogo è necessario

ricordare che in Italia non esiste una definizione legale di

giornalista, ma alcune sentenze della Corte di Cassazione

possono colmare questo vuoto giuridico definendo l’attività

giornalistica come «l'attività, contraddistinta dall'elemento

della creatività, di colui che, con opera tipicamente (anche se

non esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta,

elaborazione o commento delle notizie destinate a formare

oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi

d'informazione, mediando tra il fatto di cui acquisisce la

conoscenza e la diffusione di esso attraverso un

messaggio351». Dal punto di vista legale esiste invece la

351 Alcune sentenze della Cassazione: A) «La nozione dell'attività

giornalistica, in mancanza di una esplicita definizione da parte della legge

professionale 3 febbraio 1963, n. 69 o della disciplina collettiva, non può

che trarsi da canoni di comune esperienza, presupposti tanto dalla legge

quanto dalle fonti collettive, con la conseguenza che per attività

giornalistica è da intendere l'attività, contraddistinta dall'elemento della

creatività, di colui che, con opera tipicamente (anche se non

esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o

commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione

interpersonale attraverso gli organi d'informazione, mediando tra il fatto

di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un

messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo) necessariamente influenzato

dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e

ideologica» (Cass. civ., 23 novembre 1983, n. 7007; Riviste: Mass. 1983).

B) «E' di natura giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale volta

alla raccolta, al commento e all'elaborazione di notizie destinate a formare

oggetto di comunicazione interpersonale (che può indifferentemente

avvenire mediante l'apporto di espressioni letterali, o con l'esplicazione di

espressioni grafiche, o ancora mediante la collocazione del messaggio)

attraverso gli organi di informazione» (Cass. 1/2/96 n. 889, pres. Mollica,

est. De Rosa, in D&L 1996, 687, nota Chiusolo, Il giornalista grafico e

l'iscrizione all'Albo dei giornalisti). C) «Per attività giornalistica deve

intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al

179

distinzione tra giornalista professionista e pubblicista, sancite

nell’articolo 1 della legge 69/1963, che definisce il primo

come colui che esercita la professione in modo esclusivo e

continuativo, il secondo come colui invece che esercita la

professione in modo non occasionale e retribuito, ma

nell’esercizio anche di altre professioni o impieghi. Come è

stato visto in precedenza, l’Ordine riconosce come giornalisti

solamente coloro iscritti all’Albo e in possesso della tessera

professionale. Questo sistema di riconoscimento

condizionato può difficilmente convivere con la realtà della

Rete in cui ogni utente ha la possibilità di pubblicare i propri

contenuti. Internet ha reso i confini della professione più

vaghi: tutti possono produrre informazione giornalistica al di

là della presenza di un titolo di cui fregiarsi o di un tesserino.

Sono addirittura le testate stesse – come è stato visto nei

paragrafi dedicati alla blogosfera, a Twitter e al citizen

journalism – a cercare e riproporre il materiale fornito dai

semplici cittadini. In un contesto come quello appena

descritto ha ancora senso la separazione tra i professionisti e

gli amatori? Chi produce e diffonde informazione può essere

un ottimo o un pessimo giornalista independentemente dal

possesso di una tessera professionale, che dovrebbe però

rendere più pressante il rispetto dei codici deontologici. Quel

commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di

comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione; il

giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la

diffusione della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione

giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una

tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere

conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della

dovuta attenzione e considerazione» (Cass. Civ., sez. lav., 20 febbraio

1995, n. 1827). Abruzzo F., I giornalismi in francoabruzzo.it

(http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=99).

180

che appare evidente è la necessità, alla luce dell’accesso

semplificato agli strumenti di diffusione giornalistica, reso

possibile da Internet, di snellire il processo di

professionalizzazione, ad esempio valorizzando il sistema

universitario o conferendo valore e prestigio all’attività

online portata avanti secondo le regole della professione.

L’altro aspetto da analizzare nei rapporti tra l’Ordine e la Rete

è legato all’accessibilità di intraprendere un’avventura

editoriale, sia tramite una testata registrata, sia tramite un

semplice blog. Innanzitutto è necessario chiarire cosa

comporta la registrazione di una testata, in quali circostanze

si è tenuti a farlo e come. Il testo di riferimento è redatto da

Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della

Lombardia, il quale dà una lettura della legge 62/2001 alla

luce della delibera n. 236/2001 dell'Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni, che sancisce, nell’articolo 1,

l’istituzione del registro degli operatori di comunicazione. In

quest’ultimo sono tenuti a registrarsi «solo gli editori, che

prevedono di conseguire ricavi dalla loro attività e che,

comunque, puntano a ottenere dallo Stato “benefici,

agevolazioni e provvidenze”352». Invece, «le testate

giornalistiche on-line - in quanto "prodotto editoriale" -

devono obbligatoriamente essere registrate nei tribunali e

avere un direttore responsabile, un editore e uno stampatore,

ma solo quando hanno una regolare periodicità (quotidiana,

settimanale, bisettimanale, trisettimanale, mensile,

bimestrale, etc)353». Il punto di partenza è l’articolo 1 della

legge 62/2001 che chiarisce come «per “prodotto editoriale”,

ai fini della presente legge, si intende il prodotto realizzato su

352 Abruzzo F., Registrazione delle testate on-line e R.O.C. in altalex.com,

16 luglio 2001, (http://www.altalex.com/index.php?idnot=3182). 353 Ibidem.

181

supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto

informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla

diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo,

anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o

televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o

cinematografici354». Inoltre, bisogna ricordare come il

comma 3 dell’articolo 1 della 62/2001355 rimandi agli articoli

2 (Indicazioni obbligatorie sugli stampati)356 e 5

(Registrazione)357 della legge 47/1948. L’articolo 16 della

354 Legge 7 marzo 2001, n.62, Nuove norme sull’editoria e sui prodotti

editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416, pubblicata nella

Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2001 in camera.it

(http://www.camera.it/parlam/leggi/01062l.htm). 355 «Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’ articolo

2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Il prodotto editoriale diffuso al

pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata,

costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli

obblighi previsti dall’articolo 5 della medesima legge n. 47 del 1948».

Ibidem. 356 «Ogni stampato deve indicare il luogo e l'anno della pubblicazione,

nonché il nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell'editore. I

giornali, le pubblicazioni delle agenzie d'informazioni e i periodici di

qualsiasi altro genere devono recare la indicazione: del luogo e della data

della pubblicazione; del nome e del domicilio dello stampatore; del nome

del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile. All'identità

delle indicazioni, obbligatorie e non obbligatorie, che contrassegnano gli

stampati, deve corrispondere identità di contenuto in tutti gli esemplari».

Legge 8 febbraio 1948, n. 47, Disposizioni sulla stampa, diffamazione,

reati attinenti alla professione e processo penale in odg.it

(http://www.odg.it/content/legge-n-471948). 357 «Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato

registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la

pubblicazione deve effettuarsi. Per la registrazione occorre che siano

depositati nella cancelleria: 1) una dichiarazione, con le firme autenticate

del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale

risultino il nome e il domicilio di essi e della persona che esercita

182

stessa legge 62/2001 invece sottolinea come «i soggetti tenuti

all’iscrizione al registro degli operatori di comunicazione, ai

sensi dell’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della

legge 31 luglio 1997, n. 249358, sono esentati dall’osservanza

degli obblighi previsti dall’articolo 5 della legge 8 febbraio

1948, n. 47. L’iscrizione è condizione per l’inizio delle

l'impresa giornalistica, se questa è diversa dal proprietario, nonché il titolo

e la natura della pubblicazione; 2) i documenti comprovanti il possesso

dei requisiti indicati negli artt. 3 e 4; 3) un documento da cui risulti

l'iscrizione nell'albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle

leggi sull'ordinamento professionale; 4) copia dell'atto di costituzione o

dello statuto, se proprietario è una persona giuridica. Il presidente del

tribunale o un giudice da lui delegato, verificata la regolarità dei

documenti presentati, ordina, entro quindici giorni, l'iscrizione del

giornale o periodico in apposito registro tenuto dalla cancelleria. Il

registro è pubblico». Ibidem. 358 «Cura la tenuta del registro degli operatori di comunicazione al quale

si devono iscrivere in virtu' della presente legge i soggetti destinatari di

concessione ovvero di autorizzazione in base alla vigente normativa da

parte dell'Autorita' o delle amministrazioni competenti, le imprese

concessionarie di pubblicita' da trasmettere mediante impianti radiofonici

o televisivi o da diffondere su giornali quotidiani o periodici, le imprese

di produzione e distribuzione dei programmi radiofonici e televisivi,

nonche' le imprese editrici di giornali quotidiani, di periodici o riviste e le

agenzie di stampa di carattere nazionale, nonche' le imprese fornitrici di

servizi telematici e di telecomunicazioni ivi compresa l'editoria

elettronica e digitale; nel registro sono altresi' censite le infrastrutture di

diffusione operanti nel territorio nazionale. L'Autorita' adotta apposito

regolamento per l'organizzazione e la tenuta del registro e per la

definizione dei criteri di individuazione dei soggetti tenuti all'iscrizione

diversi da quelli gia' iscritti al registro alla data di entrata in vigore della

presente legge». Legge 31 luglio 1997, n. 249, Istituzione dell'Autorità

per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle

telecomunicazioni e radiotelevisivo in agcom.it,

(http://www2.agcom.it/L_naz/L_249.htm#01-c6).

183

pubblicazioni359». E’ l’articolo 1, comma 2, della delibera

dell’Agicom che spiega come i soggetti obbligati

all’iscrizione al registro degli operatori di comunicazione

siano: i soggetti esercenti l’attività di radiodiffusione; le

imprese concessionarie di pubblicità; le imprese di

produzione e distribuzione di programmi radiotelevisivi; le

imprese editrici di giornali quotidiani, periodici o riviste; le

imprese che editano agenzie di stampa di carattere nazionale;

i soggetti esercenti l’editoria elettronica e digitale; le imprese

fornitrici di servizi di telecomunicazioni e telematici360. Si

può dedurre, come sottolinea Abruzzo, che «le finalità delle

due registrazioni sono divergenti: quella presso i tribunali

serve a individuare le responsabilità (civili, penali,

amministrative) collegate alle pubblicazioni anche

telematiche; quella presso l’Agcom tutela la trasparenza del

settore editoriale tradizionale e digitale361». Tanto la legge

62/2001, quanto la delibera 236/2001, si impegnano a

delineare quindi due tipi di prodotti editoriali. Il primo, senza

periodicità, non è tenuto a rispettare l’articolo 5 della legge

47/1948 inerente alla registrazione in tribunale, ma deve

invece mantenersi fedele all’articolo 2 della stessa legge. Le

testate, comprese quelle online, caratterizzate invece dalla

periodicità della pubblicazione362 devono attenersi sia

359 Legge 7 marzo 2001, n.62, Nuove norme sull’editoria e sui prodotti

editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416, pubblicata nella

Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2001 in camera.it (cit.). 360 Delibera n. 236/01/CONS, Regolamento per l’organizzazione e la

tenuta del registro degli operatori di comunicazione in agcom.it,

(http://www2.agcom.it/provv/d_236_01_cons.htm). 361 Abruzzo F., Registrazione delle testate on-line e R.O.C. in altalex.com,

16 luglio 2001, (cit.). 362 «Le testate (da registrare secondo lo schema della legge 47/1948) sono,

come già sottolineato, quelle quotidiane, settimanali, bisettimanali,

184

all’articolo 2, sia all’artcolo 5 della legge 47/1948. In merito

all’articolo 2, i giornali online devono mostrare alcuni

elementi identificativi quali il luogo e la data della

pubblicazione; il nome e il domicilio dello stampatore; il

nome del proprietario e del direttore o vice direttore

responsabile363. Delineato il quadro di riferimento, è ora

possibile analizzare i rapporti tra le leggi, l’Ordine dei

Giornalisti e la Rete. In tal senso un esempio può essere

chiarificatore. Il protagonista di questa vicenda è Francesco

Vanin, amministratore delegato di una società – Pn Box – che

gestisce una piattaforma, una web tv omonima, che consente

agli utenti di pubblicare video da essi girati in autonomia o

con il supporto di una telecamera messa loro a disposizione

dalla stessa società. Nel 2012 Vanin è stato accusato dal

Tribunale di Pordenone, a seguito di un esposto dell’Ordine

dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia, di “esercizio

abusivo della professione”, articolo 348 del codice penale,

punibile con sei mesi di galera. L’Assostampa FVG,

quindicinali, mensili, bimestrali o semestrali caratterizzate (secondo

l’insegnamento costante della Cassazione): a) dalla raccolta, dal

commento e dall'elaborazione critica di notizie (attuali) destinate a

formare oggetto di comunicazione interpersonale; b) dalla tempestività di

informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e

coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta

attenzione e considerazione». Ibidem. 363 «Il direttore responsabile deve essere iscritto negli elenchi dell’Albo

tenuto dai Consigli dell’Ordine (norma legittima secondo la sentenza n.

98/1968 della Corte costituzionale). Il tribunale è quello nella cui

circoscrizione la testata on-line ha la redazione. Lo stampatore è il

provider, che "concede l'accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio

server per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore

di informazioni" (Trib. Cuneo, 23 giugno 1997)». Ibidem.

185

schieratasi a fianco dell’Ordine, ha rilasciato un comunicato

che chiarisce le motivazioni dell’azione legale:

«L’Assostampa Fvg è al fianco dell’Ordine regionale

dei giornalisti, nella vicenda che riguarda la web tv

pordenonese PnBox, che svolge attività giornalistica

senza aver mai depositato in tribunale una propria

testata, dunque in maniera di fatto illegale. La vicenda

è approdata nelle aule di giustizia dopo un esposto

dell’Ordine dei giornalisti del Fvg.

In ballo non c’è la libertà di informazione, garantita

dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato. C’è

piuttosto il rispetto della legge sulla stampa, che

prevede l’obbligo di aprire e depositare una propria

testata per chiunque svolga un’attività giornalistica, e

ciò proprio a tutela dell’utenza. Se una piattaforma

web trasmette notizie di politica e attualità con

regolarità, allora si configura come canale

informativo, come conferma il presidente nazionale

dell’Ordine, Enzo Jacopino.

Posizione rafforzata dal commento di Piero Villotta,

presidente regionale dell’Ordine, che ha segnalato il

caso: “Esiste una zona grigia tra l’articolo 21 della

Costituzione e la legge sulla stampa, dentro la quale

rientrano blog e piattaforme online. Anche chi

pubblica i video su YouTube fa divulgazione. Tutto

dipende dalla periodicità. Il nostro esposto è a tutela

dell’utenza, oltre che della categoria. Se viene meno

la garanzia della legge sulla stampa siamo nella

giungla”.

La questione è dunque aperta, in attesa di un

intervento del legislatore, oggi più che mai necessario.

186

Le leggi si possono cambiare, ma fino a che sono in

vigore vanno rispettate. E secondo noi lo deve fare

anche la web tv di Pordenone, attiva da tempo con

attività a tutti gli effetti giornalistica, con servizi di

politica, cronaca, sport e spettacolo. Senza avere una

propria testata giornalistica364».

L’accusa lanciata verso Vanin e la sua web tv è stata

quindi quella di aver svolto attività giornalistica non

occasionale pur non essendo un professionista iscritto

all’Albo dell’Ordine e senza registrare la testata presso il

Tribunale. Ma la replica dell’amministratore delegato di Pn

Box è chiara: «Non vogliamo fare i giornalisti perché non

siamo giornalisti. Io sono un imprenditore, non mi sono mai

definito giornalista. Siamo solo un mezzo per far dire

qualcosa. Il giornalista invece prende un’informazione, la

elabora e media tra fonte e lettore. Noi non diamo una nostra

visione della realtà. Solo chi vede i filmati che postiamo dà

una visione alla realtà365». La questione messa in risalto dalla

disputa tra l’Ordine dei Giornalisti e la web tv friulano che

trascende il caso in sé e va ad abbracciare la modernità della

legislazione italiana rispetto all’editoria digitale. Quanto

imputato a Pn Box «è, esattamente, quanto accade ogni

giorno sulle centinaia di migliaia di blog che popolano – per

fortuna – la blogosfera italiana e sugli oltre 20 milioni di

364

https://www.facebook.com/giornalistifreelancefvg/posts/3

59339054109485 365 Baratta L., Canetta T., L’Ordine dei Giornalisti porta le

web tv in tribunale in linkiesta.it, 4 aprile 2012,

(http://www.linkiesta.it/webtv-ordine-giornalisti).

187

profili facebook. Senza parlare dei tanti italiani che, ormai

[…] nell’era degli smartphone e delle webcam, pubblicano

centinaia di migliaia di contenuti audiovisivi sui canali di

YouTube. Stiamo tutti esercitando abusivamente l’attività di

giornalisti?366». Cosa si cela dietro l’azione legale

dell’Ordine? Tutto questo significa forse che se il sottoscritto,

tramite la propria pagina Facebook, si ritrovasse ogni lunedì

mattina a riportare i risultati del weekend calcistico della

Serie A italiana sarebbe imputabile di “esercizio abusivo

della professione” e rischierebbe fino a 6 mesi di reclusione?

Il fulcro della questione non è la legittimità dell’azione

dell’Ordine dal punto di vista legale, tanto più che Vanin è

stato assolto dal giudice del tribunale di Pordenone, Eugenio

Pergola, dall'accusa di esercizio abusivo della professione

giornalistica367. Quello su cui bisognerebbe soffermarsi è il

rapporto tra la situazione legislativa italiana e la libertà

dell’informazione online. Il citizen journalism, la blogosfera

e i social network sono realtà che, come mostrato in altre

sezioni di questa tesi, non possono più essere ignorate e la cui

portata informativa rappresenta una preziosa risorsa di

integrazione e supporto per i canali tradizionali. In questo

senso, se come sembra, esistono delle zone d’ombra nella

legislazione italiana in rispetto alle novità nel campo

giornalistico legate all’evoluzione tecnologica, piuttosto che

366 Scorza G., Allarme informazione online in ilfattoquotidiano.it, 29

marzo 2012, (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/29/allarme-

informazione-online/200904/). 367 «Il Pm, Del Tedesco, ha chiesto l'assoluzione ritenendo che l'attività di

Vanin non sia assimilabile al lavoro giornalistico perché non prevede

lavoro intellettuale e mediazione dei contenuti». Assolto Vanin, Pnbox

non è una testata giornalistica in pordenoneoggi.it, 11 luglio 2012,

(http://www.pordenoneoggi.it/notizie/assolto-vanin-pnbox-non-

%C3%A8-una-testata-giornalistica-005799).

188

intestardirsi in un cieco appello alle norme368 - dietro cui forse

si nasconde altro, come la chiusura reazionaria di una casta

rispetto ai cambiamenti -, bisognerebbe impegnarsi affinché

le leggi fossero al passo con i tempi, capaci di rappresentare

lo stato delle cose per come è, non per come fu.

Accedere all’Albo. Come visto in precedenza, l’Albo è

ripartito in due elenchi, quello dei professionisti e quello dei

pubblicisti. Per accedere al primo è condizione

imprescindibile il praticantato di 18 mesi o la frequenza delle

scuole di formazione riconosciute dall’Ordine; mentre per il

secondo è necessario dimostrare l’avvenuta attività

giornalistica continuativa per un minimo di due anni e

regolarmente retribuita. Entrambe le categorie pongono

inoltre come conditio sine qua non il superamento dell’esame

di Stato. Per quanto concerne il praticantato, l’analisi di

Francesco Occhetta sottolinea come «oltre il 70% dei

neogiornalisti professionisti arriva da un praticantato

d’ufficio; il praticantato tradizionale giunge al suo

capolinea369». Questo perché le aziende editoriali hanno tutti

gli interessi a favorire la precarizzazione: basti pensare che

come riporta Occhetta solamente il 10% dei mille giovani che

ogni anno tentano di superare l’esame di Stato proviene da un

contratto di praticantato370. Quello che emerge è un tentativo

di incanalare l’aspirante giornalista verso le scuole

368 «Le leggi si possono cambiare, ma fino a che sono in vigore vanno

rispettate».

https://www.facebook.com/giornalistifreelancefvg/posts/359339054109

485 369 Occhetta F., L’Ordine Nazionale dei Giornalisti in civiltacattolica.it,

19 settembre 2013 (cit). 370 Ibidem..

189

riconosciute dall’Ordine, che hanno però costi esorbitanti371

e sono anch’esse in crisi372. Nascono di conseguenza due

considerazioni. In primo luogo, nel momento in cui le scuole

di formazione richiedono uno sforzo monetario così

importante, si viene a creare una prima selezione tra i giovani

dettata dalle possibilità economiche delle famiglie. Come

dire: chi può investire 7.000 € per iscriversi ad una scuola

riconosciuta dall’Ordine avrà certamente più possibilità di

farsi strada rispetto a chi non dispone di una simile somma di

denaro. Lapalissiano, ma importante da sottolineare perché

strettamente connesso a questo tassello è il ruolo

dell’università pubblica. Al di là della qualità dei singoli corsi

di laurea, quello che emerge è la subalternità degli studi

universitari rispetto alle scuole di giornalismo, la cui

esistenza, potrebbero sostenere i più maligni, sembra legata

principalmente ai guadagni in grado di generare e alle

cattedre che vengono così occupate. Per quanto concerne

l’elenco dei pubblicisti, la situazione è differente. Questi

ultimi non devono infatti affrontare né il praticantato né le

scuole riconosciute dall’Ordine, bensì svolgere un’attività

giornalistica continuativa, documentabile e retribuita per

almeno due anni presso una testata regolarmente registrata e

il cui direttore sia iscritto all’Albo dei giornalisti. In questo

senso il desiderio del giovane aspirante che si trova a cercare

una collaborazione in grado di garantire l’accesso all’esame

371 Da 5.000 a 9.000 €, ibidem. 372 «Quella più gloriosa e antica, l’Ifg di Milano (Carlo de Martino), è

stata incorporata nell’università statale perché non c’erano i soldi per

mantenerla così com’era». Armano A., Un italiano su 550 è giornalista.

Riformiamo l’Ordine? in ilfattoquotidiano.it

(http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/30/un-italiano-su-550-e-

giornalista-iscritto-allordine-lo-riformiamo/579213/).

190

di Stato può diventare una pericolosa arma a doppio taglio.

L’editore di turno può infatti approfittare della debolezza

contrattuale della controparte sia offrendo retribuzioni non in

linea con il lavoro svolto sia – un’ipotesi ancora peggiore –

proponendo l’emissione di fatture false (che consentirebbero

poi l’accesso all’esame di Stato) in cambio di lavoro gratuito.

A tal proposito sarà sufficiente ricordare l’inchiesta della

Procura di Napoli Onde Rotte. Nel 2008 quattro imprenditori

di alcune tv private campane del gruppo Teleregione-

Italiamia si vedono recapitare delle ordinanze di arresti

domiciliari con l’accusa di truffa e falso per aver falsificato

le fatturazioni e gonfiato gli organici della redazione

giornalistica attraverso assunzioni rivelatesi fittizie, con lo

scopo di beneficiare di contributi pubblici non dovuti373.

L’ordinanza raccoglie le testimonianze di due giornalisti:

«Uno afferma che durante il periodo di assunzione nel gruppo

Teleregione, ha in realtà lavorato per un paio di testate di

Sergio De Gregorio “senza retribuzione, solo per un rimborso

spese simbolico”. Un altro mette a verbale che, nonostante

l’assunzione, in redazione non c’è mai andato. Quel contratto

era, testuale, “un contentino” per aver lavorato gratis per anni

nei giornali di De Gregorio374». L’esame di Stato diventa così

moneta di ricatto nei confronti degli apiranti giornalisti nel

momento in cui le condizioni che ne consentono l’accesso

373 «Fatturato e organico sono infatti i criteri utilizzati dal Corecom, il

comitato regionale per le comunicazioni, per redigere la graduatoria delle

tv campane utilizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico per

erogare le provvidenze pubbliche di sostegno all’editoria televisiva

locale, così come stabilito dalla legge 488 del 1988». Iurillo V.,

Giornalista ti assumo ma solo per finta in ilfattoquotidiano.it, 10

settembre 2010 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/10/giornalista-

ti-assumo-ma-solo-per-finta/59173/) 374 Ibidem.

191

sono totalmente nelle mani degli editori. L’altro aspetto che

emerge è il circolo vizioso che si viene a creare e che rende i

giovani alla ricerca di affermazioni tanto colpevoli quanto gli

editori che sfruttano illegalmente le legittime aspirazioni di

coloro che sognano di diventare un giorno giornalisti:

«l’inflazione di “professionisti”, molti dei quali lo diventano

solo per curriculum ma in realtà fanno altro, rende i

giornalisti “veri” più deboli di fronte agli editori. E più

esposti al rischio sfruttamento375». Tanto per i professionisti

quanto per i pubblicisti, l’ultimo ostacolo prima

dell’iscrizione all’Albo è rappresentato dall’esame di Stato.

Anche qui, il primo aspetto da segnalare è quello economico,

come scrive Il Fatto Quotidiano: «devi sborsare quasi 500

euro tra tasse e bolli vari, iscriverti obbligatoriamente a un

corso preparatorio – quello online, per esempio, costa 200

euro -, andare a Roma due volte per fare scritto e orale nel

bunker burocratico dell’hotel Ergife. Siamo sui mille euro

come ridere376». In base ad una ricerca condotta da

giornalismoedemocrazia sui risultati degli esami

professionali, si può notare come sia solitamente una

percentuale che si aggira intorno al 25% a fallire la prova377

e a doverla quindi sostenere nuovamente (con l’esborso che

ne consegue). A volte non mancano le polemiche, come

quella generata dalla 115esima sessione d’esame di Stato

tenutasi lo scorso 15 ottobre. L’episodio ha ricevuto

375 Ibidem. 376 Armano A., Un italiano su 550 è giornalista. Riformiamo l’Ordine? in

ilfattoquotidiano.it (cit). 377 Roidi V., Esami di stato: troppi bocciati ma realmente a qualcuno

interessa? in giornalismoedemocrazia.it

(http://www.giornalismoedemocrazia.it/2012/05/15/esami-di-stato-

troppi-bocciatima-realmente-a-qualcuno-interessa/)

192

l’attenzione dei media perché caratterizzata dalla bocciatura

di Giulia Innocenzi, conduttrice di Servizio Pubblico. La

sessione ha visto un numero di non idonei di gran lunga

superiore alla media con il 44% dei partecipanti che non ha

superato lo scoglio della prova orale. Le proteste di coloro

che non ce l’hanno fatta sono nate in virtù di alcune

imprecisioni presenti nella traccia d’esame:

«L'Espresso ha avuto il documento originale

consegnato ai candidati lo scorso 15 ottobre, ossia la

traccia destinata a chi avesse voluto scegliere

l'articolo di cronaca, in genere il più gettonato tra gli

aspiranti professionisti. Una serie di lanci di agenzia

(inventati) da trasformare in un pezzo. Ebbene, se il

pm protagonista della vicenda immaginaria viene

chiamato prima in un modo (Galese) e poi in un altro

(Galesi) - segno di un refuso non corretto - a un certo

punto la traccia indica che è il pubblico ministero

stesso “a decidere se convalidare o meno il fermo” di

alcuni sospetti. Anche i cronisti alle prime armi sanno

che - come indica il codice di procedura penale - è il

giudice per le indagini preliminari a poter ordinare la

convalida del fermo. Il magistrato può solo fare la

richiesta. Strano - e grave - che i commissari

giudicanti di un esame di Stato non conoscano la

differenza tra un gip e un pm.

Accortisi dell'errore, sul sito dell'Ordine dei

giornalisti sono corsi ai ripari, pubblicando la traccia

193

"sbianchettata": la frase incriminata è scomparsa, e a

penna è stata aggiunta la frase “chiederà al gip”378».

La presenza di simili imprecisioni in un’esame di Stato ha

giustamente generato vibranti polemiche, soprattutto da parte

di chi, per poter sostenere nuovamente la prova, deve

affrontare un esborso economico non indifferente. A tal

proposito Il Fatto Quotidiano ha chiesto al presidente

dell’Ordine dei Giornalisti quali spese copre la somma

sborsata dai partecipanti. Interessante la risposta di Iacopino:

«Tutte le quote di iscrizione all’esame servono per sostenere

i costi della commissione e della sala dell’Ergife379. A volte

l’Ordine deve anche integrare le quote con fondi propri. Un

commissario che viene da Milano, ha l’arrogante pretesa di

cenare oltre che di lavorare380».

L’iscrizione all’Ordine e il lavoro. E’ giunto il momento di

occuparsi di quel 75% che in media riesce a superare l’esame

di Stato, ad iscriversi all’Albo e ad ottenere la tessera che

attesta l’appartenza all’Ordine dei Giornalisti. Come vengono

378 Fittipaldi E., Giornalisti, tracce d'esame con errori. E la

gaffe viene "sbianchettata" online, in

espresso.repubblica.it, 1 novembre 2013,

(http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/11/01/news/gi

ornalisti-tracce-d-esame-con-errore-il-pm-convalida-gli-

arresti-1.139692). 379 Un hotel a 4 stelle di Roma. 380 Martelli F., Esame giornalisti professionisti, gli errori

nelle tracce e la difesa dell’Ordine in ilfattoquotidiano.it, 2

novembre 2013,

(http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/02/esame-

giornalisti-professionisti-errori-nelle-tracce-e-difesa-

dellordine/764593/).

194

premiati gli sforzi, economici e non, compiuti? Cosa

comporta la possibilità di fregiarsi del titolo di giornalista e il

diritto ad esercitare la professione? Il Rapporto sulla

professione giornalistica in Italia (anno in esame 2011) a

cura di Pino Rea per Lsdi dice che «i giornalisti iscritti all’

Ordine in Italia sono oltre 112.000 (il triplo di quelli francesi

e il doppio di quelli che lavorano nel Regno Unito) ma solo

il 45% sono attivi ‘’ufficialmente’’. E solo 1 su 5 (il 19,1%

degli iscritti) ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato,

che gli porta un reddito, in media, 5 volte superiore a quello

di un freelance (e 6,4 volte maggiore nel caso dei

Co.co.co)381». Diversi gli elementi che emergono dalla

ricerca condotta da Pino Rea. In primo luogo il divario nei

redditi tra giornalisti dipendenti, autonomi e parasubordinati,

pur con qualche miglioramento da segnalare per le categorie

con le retribuzioni più basse. Un dato al tempo stesso

interessante ed allarmente è relativo ai 14.800 giornalisti

autonomi (quindi oltre il 10%) che hanno un reddito annuo

inferiore ai 5.000 euro lordi. Un altro dato da evidenziare è

quello relativo alla disoccupazione, che vede coinvolti 1514

giornalisti (un dato stabile), mentre aumenta il ricorso agli

ammortizzatori sociali: la spesa dell’Inpgi, l’Istituto

nazionale di previdenza dei giornalisti italiani, è aumentata

del 18,9% rispetto all’anno precedente. Un ultimo elemento

che può venire estrapolato dal Rapporto curato da Pino Rea è

legato a quelli che vengono definiti i “giornalisti invisibili”.

Ma di chi si parla esattamente? Si tratta di circa 48.000

giornalisti iscritti all’Ordine che, all’1 ottobre del 2012, non

avevano nessuna posizione Inpgi. Pur non disponendo di

381 La fabbrica dei giornalisti in lsdi.it, 23 novembre 2012,

(www.lsdi.it/2012/la-fabbrica-dei-giornalisti/).

195

ulteriori dati a riguardo, Rea suppone che tra i cosiddetti

“giornalismi invisibili” una buona percentuale sia

rappresentata da precari. Inoltre auspica una riforma

dell’Ordine che in primo luogo «cancelli la distinzione tra

professionisti e pubblicisti, prevedendo che è giornalista chi

fa prevalentemente il giornalista e versa i contributi all’ Inpgi,

imponendo l’ accesso universitario alla professione, ecc.382».

Ma se la vita non è così semplice essendo iscritti all’Albo,

ancora più difficile è la realtà di tutti coloro che si trovano

esclusi dai privilegi dell’Ordine.

«Quel mondo che tracima a cerchi concentrici anche

al di fuori del bacino dell’Ordine, in territori dove si

intuiscono centinaia centinaia e centinaia di aspiranti

giornalisti che sperano in una tessera come viatico al

Giornalismo con la G maiuscola: una miriade di

giovani (e meno giovani) inseriti in qualche modo

nella macchina della produzione e della distribuzione

dell’informazione giornalistica – soprattutto nel

segmento dell’online – che premono verso l’alto nella

speranza di raggiungere almeno il traguardo di uno

sbocco nel pubblicismo383».

Prima di andare ad analizzare nel dettaglio il fenomeno del

precariato nell’universo giornalistico, è necessario affrontare

una breve digressione inerente alle situazioni presenti fuori

382 Rea P., La fabbrica dei giornalisti / Il Rapporto completo in lsdi.it, 30

novembre 2012 (http://www.lsdi.it/2012/la-fabbrica-dei-giornalisti-il-

rapporto-completo/). 383 Ibidem.

196

dall’Italia. L’Ordine dei Giornalisti è un’anomalia tutta

italiana?

3.2 Il giornalismo all’estero

Su Tabloid, la rivista dell’Ordine dei Giornalisti della

Lombardia, è comparsa una interessante inchiesta384 sul

percorso che gli aspiranti giornalisti devono seguire per

diventare professionisti fuori dall’Italia. La ricerca è stata

condotta da Paolo Pozzi (Tabloid) e Pino Rea (Lsdi) e mira a

riportare, in assenza di un organismo come l’Ordine,

particolarità tutta italiana, le leggi che regolamentano la

natura e l’attività dei giornalisti all’estero.

Francia. Il Codice del Lavoro francese sancisce che «è

giornalista professionale chiunque svolga come attività

principale, regolare e retribuita l’esercizio della sua

professione in una o più aziende editoriali giornalistiche,

pubblicazioni quotidiane e periodiche o agenzie di stampa e

ne ricava la parte principale delle proprie entrate385». In

Francia sono considerati alla stregua dei giornalisti

professionisti anche collaboratori di redazione come

«redattori-traduttori, stenografi-redattori, redattori-revisori,

reporter-disegnatori, fotoreporter, esclusi gli agenti di

pubblicità e tutti coloro che collaborano solo a titolo

occasionale386». Nel paese transalpino esiste una tessera

384 Pozzi, P., Rea P., Ordine dei giornalisti. Dove c’è e dove non c’è, in

Tabloid, luglio 2013, (http://www.lsdi.it/assets/Lsdi-Tabloid-Ordini.pdf). 385 Ibidem. 386 Ibidem.

197

professionale assimilabile a quella italiana, chiamata carte de

presse, la quale viene rilasciata da una commissione statale,

la Commission de la carte d’identité dei giornalisti

professionali, composta da rappresentanti degli editori e dei

giornalisti. I requisiti da soddisfare per poter ottenere la carte

de presse sono in primo luogo l’aver esercitato la professione

giornalistica per almeno tre mesi consecutivi, inoltre più del

50% dei propri redditi deve derivare da questa attività. Il

prerequisito è che il datore di lavoro sia un’azienda

giornalistica di stampa o audiovisiva, o un’agenzia di stampa

accreditata. Le stesse condizioni sono applicabili anche al

giornalista che lavora su Internet. L’accesso alla professione

in Francia è assolutamente libero: non è necessaria una

Laurea, né generica né tantomeno specifica e non è necessario

aver frequentato scuole apposite come quelle che in Italia

sono riconosciute dall’Ordine. Inoltre, la carte de presse, non

è obbligatoria ma il Contratto nazionale di lavoro proibisce

agli editori di tenere per più di tre mesi (il periodo di tempo

necessario per poter inoltrare la richiesta per la tessera

professionale) dei collaboratori sprovvisti della carta. Infine,

«il possesso del tesserino consente di beneficiare più

facilmente di una serie di garanzie sociali associate allo status

di giornalista, come la tredicesima, le ferie pagate o le

indennità di licenziamento387». Riassumendo la situazione

francese è possibile notare come dall’altra parte delle Alpi

non esista un organo assimilabile all’Ordine dei Giornalisti

italiano. La tessera professionale sembra rappresentare uno

strumento di tutela piuttosto che di appartenenza ad una casta.

L’accesso alla professione è molto più snello rispetto al

sistema italiano: tre mesi di praticantato rispetto ai 18 o ai 24

387 Ibidem.

198

richiesti nel nostro Paese e nessuna distinzione tra

professionisti e pubblicisti. Così come in Italia, invece, il

sistema universitario non concede lo status di giornalista, che

viene ottenuto tramite l’esercizio della professione, così come

non costituisce condizione necessaria allo svolgimento

dell’attività. Bisogna però aggiungere che anche in Francia

esistono delle scuole di formazione, che non rappresentano

un requisito per l’accesso alla professione ma un’opportunità

e un ponte con il mondo del lavoro: sono previsti due anni di

corso con frequenza obbligatoria e stages presso aziende

editoriali.

Regno Unito. Il Regno Unito è la patria del liberismo: «non

esiste un contratto collettivo di lavoro per giornalisti, né

l’obbligo di registrazione di una testata, neppure particolari

requisiti per fare il direttore di testata e così via. Prima del

1965 praticamente non esisteva un cursus di studi

giornalistici e i professionisti cominciavano dalla stampa

locale388». Il ruolo del sindacato è stato molto forte fino al

governo della Thatcher, dopo il quale sono venute meno le

battaglie sindacali ma non gli iscritti: la National Union of

Journalists conta 35.000 membri e «raccoglie tutti i

lavoratori del settore giornalistico dai reporter agli editori, dai

fotografi allo staff di redazione, dai membri degli uffici

stampa agli esperti in pubbliche relazioni, come pure chi

lavora su Internet389». La NUJ garantisce assistenza legale

gratuita ai suoi iscritti così come corsi di aggiornamento e

altri privilegi. Ma soprattutto si occupa di tutelare il rispetto

388 I giornalisti nello scenario europeo in Ordine dei Giornalisti della

Sardegna, (http://www.odg.sardegna.it/documenti/censis07.pdf). 389 Ibidem.

199

di alcune condizioni di lavoro imprescindibili390. L’accesso

alla professione è totalmente libero: nel Regno Unito per

esercitare la professione di giornalista è sufficiente

raggiungere un accordo con un editore e lavorare. Tuttavia,

anche nella patria del liberismo esistono dei percorsi di

accesso meno lineari ma che garantiscono l’imbocco di corsie

preferenziali. L’alternativa all’accesso diretto391 è

rappresentata da corsi preliminari392, i cui costi sono variabili

ma esiste la possibilità di richiedere delle borse di studio.

«Perciò nel Regno Unito conviene iscriversi ad un

corso e contemporaneamente chiedere un colloquio

con più editori possibili. Se ti viene offerto un posto,

390 «Qualunque sia il tipo di contratto, comunque il lavoratore, dopo non

più di due mesi dall’inizio del rapporto di lavoro riceva un contratto

scritto, in cui si citino precisamente una serie di elementi: dalle ore di

lavoro, alla malattia, dalla descrizione del tipo di mansione svolta, ai

contributi pensionistici, le ferie, la durata del contratto e così via. Il

minimun rate viene comunque contrattato con il singolo editore e non

sono pochi i casi in cui non viene rispettato, non esistendo alcuna legi

slazione né alcun accordo a livello nazionale. Anche l’orario di lavoro

deve rispettare alcuni accordi sindacali: non più di 48 ore settimanali, 4

settimane di ferie annuali, un riposo di 24 ore settimanali. È tutelata anche

la maternità, con regole dettagliate, la condizione dei giovani lavoratori,

le minoranze. La legislazione tutela anche i diritti delle donne a non essere

discriminate e, in base al Human Right Act, la privacy familiare e le

convinzioni politiche o religiose dell’impiegato». Ibidem. 391 Sarà poi l’editore ad occuparsi della «tua formazione o mandandoti

presso un college o con il programma di insegnamento a distanza, i cui

costi sono in genere sostenuti dal giornale». Ibidem. 392 «La maggioranza dei giornalisti in formazione viene reclutata

dall’industria editoriale dopo aver completato corsi

di formazione per studenti di livello A e laureati (questo percorso è

chiamato “pre-entry”)». Ibidem.

200

probabilmente ti viene proposto un contratto di

formazione di durata biennale, di cui i primi sei mesi

sono di prova per entrambe le parti. Una volta

superata la prova di sei mesi, il giornale ti dovrebbe

registrare presso il National Council per gli esami

preliminari e mettere in moto tutta la procedura di

formazione. Successivamente passerai 12 mesi al

lavoro prima di sostenere il National Certificate

Examination, la qualifica finale del National

Council393».

Irlanda. In Irlanda è presente dal 2007 un Organismo

indipendente di autoregolamentazione della stampa, non

espressamente riconosciuto dalla legislazione, oltre a non

rappresentare una condizione obbligatoria l’iscrizione presso

lo stesso per i giornali. «La normativa prevede l’indipendenza

del consiglio, sia dallo stato che dalle testate giornalistiche,

con una maggioranza di membri indipendenti che

rappresentano l’interesse pubblico394». L’Organismo si

occupa della regolamentazione per quanto concerne: le

norme etiche e pratiche, le regole sull’accuratezza e il rispetto

della reputazione delle persone, le regole tese a garantire la

riservatezza, l’integrità e la dignità delle persone.

Germania. Non esiste una definizione ufficiale per il

giornalista in Germania. L’accesso è fondamentalmente

libero: così come nel Regno Unito, può essere sufficiente un

contatto diretto con l’editore per iniziare a scrivere. Tuttavia,

anche in Germania esistono delle vie alternative che

393 Ibidem. 394 Pozzi, P., Rea P., Ordine dei giornalisti. Dove c’è e dove

non c’è, in Tabloid, luglio 2013, (cit.).

201

costituiscono dei pre-requisiti, nonché delle risorse ulteriori

per gli aspiranti giornalisti. Una di queste è il Volontariat, un

praticantato di due anni regolarmente retribuito in vigore fin

dagl inizi del 1900. L’altra strada è rappresentata da corsi

universitari395 e scuole di giornalismo, le quali possono essere

direttamente di proprietà degli editori o indipendenti. Ad

esempio «presso la Henri-Nannen-Schule, di proprietà

dell’impero editoriale Gruner + Jahr, (editore di Die Zeit) il

praticante riceve un sussidio per la formazione che si aggira

attorno agli 800 euro mensili ed ha ottime possibilità di

trovare un lavoro subito dopo aver completato gli studi396».

Per quanto riguarda invece il sistema universitario è rinomato

il cosiddetto “modello Dortmund”, poiché rappresenta un

ottimo esempio di connessione tra studi accademici e

preparazione al mondo del lavoro397. Mettendo da parte i

percorsi formativi e focalizzando invece l’attenzione

395 In Germania esistono da 25 anni. 396 I giornalisti nello scenario europeo in Ordine dei Giornalisti della

Sardegna, (cit.). 397 «Il programma di studi si articola in tre fasi, la prima delle quali si

conclude dopo i primi due anni e l’acquisizione di un diploma intermedio.

Si comincia con le conoscenze di base per un buon giornalismo

(Grundstudium). La seconda fase prevede dodici mesi di training

professionale, con un internato full-time presso imprese editoriali. In

questo periodo quindi si interrompe la frequenza universitaria. L’istituto

di giornalismo di Dortmund coopera con 30 imprese nel campo dei media

sia a livello regionale (Westdeutsche Allgemeine Zeitung, Bonner

General-Anzeiger ecc.) che nazionale (Deutsche Welle, n-tv, Zdf ecc.). La

fase conclusiva, di studi avanzati (Hauptstudium), prevede due anni di

preparazione della tesi di laurea. Ed è a questo livello che si può scegliere

di specializzarsi in un ambito specifico. Il titolo che si ottiene alla fine –

Diplom – equivale ad un Master’s Degree. L’accesso alla professione per

chi ha seguito un cursus di studi in giornalismo è infine il volontariat (cioè

lo stage), che dura due anni ed è remunerato». Ibidem.

202

sull’accesso alla professione, è possibile notare come

l’aspirante giornalista si trovi di fronte a tre possibilità dal

punto di vista contrattuale. Due di queste sono classiche: una

è rappresentata dal contratto come dipendente fisso398 (tempo

indeterminato), l’altra dal contratto come freelance. La terza

via è caratteristica del sistema tedesco e prende il nome di

fester freier, ovvero “libero-fisso”. Riservato solo al settore

pubblico, al lavoratore viene riconosciuto il carattere di

collaboratore prevalente e vengono garantiti diretti riservati

ai dipendendti (pur non essendolo): dai 31 giorni di ferie

annue alla malattia, la maternità ecc. Il contratto “libero-

fisso” svolge la funzione di garantire al lavoratore precario

un qualche tipo di stabilità399. In Germania esistono

associazioni dei giornalisti e la più famosa è la Deutscher

Journalisten-Verband, o DJV400. Per quanto riguarda invece

il rispetto della deontologia, esso viene assicurato dal

Consiglio tedesco della stampa, «un organo di autocontrollo

che valuta anche le proteste dei cittadini nei confronti degli

organi di informazione e che ha elaborato un codice

deontologico401». Rispetto all’Italia, in Germania non esiste

quindi né un Ordine dei Giornalisti, né una tessera

398 Questo tipo di contratto è sempre più difficile da ottenere. 399 «Questo contratto può comunque essere rescisso senza motivo in

qualunque momento e dà diritto all’assunzione se dura già da dieci anni e

il lavoratore è sotto i 40, quindici anni se il lavoratore ne ha più di 40».

Ibidem. 400 «La DJV è nello stesso tempo un sindacato e un’organizzazione

professionale, fissa gli obiettivi della professione e tratta i contratti

collettivi di lavoro – conta quasi 40.000 associati, tutti giornalisti a tempo

pieno, a cui viene fornita una tessera professionale». Pozzi, P., Rea P.,

Ordine dei giornalisti. Dove c’è e dove non c’è, in Tabloid, luglio 2013,

(cit.). 401 Ibidem.

203

professionale. Non esistendo una definizione legale di

giornalista, quest’ultimo è accomunabile con chiunque scriva

per una testata. L’accesso è libero e diretto, seppure la

frequenza di corsi di formazione o l’università possano

rappresentare delle armi ulteriori per i giovani aspiranti.

Belgio. Così come per quanto riguarda la Germania, anche il

Belgio non dispone di una definizione legale del giornalista.

Tuttavia una legge del 30 dicembre 1963 sancisce che è

“giornalista professionista” «una persona che lavora in un

mezzo di informazione generale (quotidiano, magazine

generalista, radio, televisione, sito Internet di attualità o

agenzia di stampa) e non può occuparsi di pubblicità402». Il

titolo di giornalista professionista viene concesso da una

Commissione di ratifica istituita nel 1965 e composta

paritariamente di giornalisti professionisti e direttori di testate

giornalistiche. La conditio sine qua non è l’aver esercitato la

professione per un periodo non inferiore ai due anni. Così

come in Francia, anche in Belgio viene rilasciata una sorta di

Carte de presse, meglio desrivibile come un lasciapassare

nazionale che ha la funzione di facilitare i rapporti con le

istituzioni politiche, la procura, polizia e le aziende private.

Questo lasciapassare non può essere rilasciato ai giornalisti

della stampa periodica, che possono però ottenere un pass

“stampa periodica” che copre grossomodo le stesse necessità

della tessera che viene consegnata ai giornalisti

professionisti. Per poterla ottenere questi giornalisti devono

aver avorato per almeno due anni in una redazione di un

mezzo di informazione specializzato, firmando almeno sei

402 Ibidem.

204

volte l’anno, e dimostrando di aver scritto almeno 20 articoli

ogni anno.

Norvegia. La Norsk Journalistlag, l’Unione dei giornalisti

norvegesi, si carica dell’onere di assegnare la tessera stampa

ai suoi membri: 9.500, la quasi totalità dei professionisti del

paese scandinavo. I requisiti per il suo ottenimento sono

l’esercizio della professione come attività principale e il

rispetto del Codice etico della stampa.

Svezia. In Svezia esiste una sola organizzazione che ha diritto

a rappresentare la professione e a parlare in suo nome: si tratta

della Svenska Journalistförbundet, l’Unione dei giornalisti

svedesi. I requisti d’accesso variano a seconda della tipologia

di lavoratore in questione. Quello dipendente deve aver

lavorato per un periodo di almeno quattro settimane, mentre

quello autonomo deve certificare un reddito giornalistico

durante almeno quattro mesi. Questa organizzazione

distribuisce le tessere di stampa, ma anche altri organismi

sono legittimati ad assegnarle, pur possedendo minor

prestigio. Dal punto di vista deontologico è presente un

Codice etico dal 2001, che è stato condiviso e accettato dalle

quattro grandi associazioni di editori svedesi.

Svizzera. Nel paese elvetico lo status di giornalista non è

riconosciuto legalmente, di conseguenza ogni persona che

esercita la professione ha diritto a rivendicarne il titolo.

Tuttavia, anche in Svizzera esistono le tessere professionali,

la più diffusa delle quali è la RP, il Registro Professionale dei

giornalisti, essa facilita l’accesso ad un discreto numero di

avvenimenti. I requisiti per il suo ottenimento sono

rappresentati dal riconoscimento della Dichiarazione dei

diritti e dei doveri dei giornalisti (la Dichiarazione di Monaco

205

del 1971) e dalla dimostrazione che almeno il 50% del reddito

del professionista in questione nel corso degli ultimi due anni

provenga da attività giornalistica. La RP può essere rilasciata

solo dai tre sindacati nazionali403, che sono abilitati anche al

rilascio della Carte de presse della Federazione

internazionale dei giornalisti. Il caso svizzero ha la sua

particolarità in quella che nell’inchiesta pubblicata su Tabloid

viene definita la “guerra delle tessere stampa”: «Presse

Suisse, l’organizzazione degli editori della stampa quotidiana

e periodica della Svizzera romanda, ha lanciato (nel 2006)

una sua propria tessera, seguendo l’esempio della Schweizer

Presse, il suo pendant germanofono, che aveva lanciato l’idea

vari anni prima404». La convenienza della carta rilasciata da

Presse Suisse è principalmente di natura economica: «80

franchi svizzeri nel 2010 per la Carte Presse Suisse, contro

355 per Impressum e 150-750, a secondo del salario annuale,

per quella di Comedia405». Questa tessera concede a tutti i

possessori sconti e facilitazioni presso grandi aziende ma

viene contestata dai sindacati per l’assenza di un Codice

deontologico associato alla carta.

Spagna. Nel paese iberico è considerato giornalista chiunque

possegga una laurea in giornalismo. Negli anni settanta, sono

stati gli stessi giornalisti a richiedere una

professionalizzazione del loro mondo e a richiedere la nascita

di specifici corsi di studi. Così, all’interno delle facoltà di

Scienze della comunicazione sono inizati a nascere corsi di

periodismo pressoché in ogni angolo del paese, senza

403 «Impressum, ex FSJ (5.500 membri), Comedia (13.000 membri) e il

Sindacato svizzero dei mass media (3.500 aderenti)». Ibidem. 404 Ibidem. 405 Ibidem.

206

esclusione degli atenei più piccoli406. Nella maggior parte dei

casi questi corso di studi è un biennio universitario (la nostra

Laurea Magistrale) che segue un triennio di preparazione in

materie quali la giurisprudenza, le scienze politiche, la

comunicazione407. Esistono anche dei master per la

formazione in giornalismo, alcuni proposti da grandi editori

e il cui accesso richiede una laurea e il superamento di un

esame di ammissione408. Questi master hanno una durata

variabile che va da uno a due anni e rappresentano un

importante ponte con il mondo del lavoro consentendo a

coloro che portano a termine il percorso una “borsa di

lavoro”, cioè uno stage. L’esercizio della professione è

tuttavia caratterizzato da un’altissima percentuale di

406 «La percentuale di laureati tra i giornalisti è notevole (78%), con una

lieve maggioranza di uomini e un’età media di 37 anni. La stampa

quotidiana assorbe ancora la maggior parte degli occupati, seguita dalla

radio-televisione e dagli uffici stampa. Mentre agenzie e periodi ci sono

più distanziati. Coloro che lavorano su internet (4,8%) sono in numero

maggiore dei freelance (2,3%)». I giornalisti nello scenario europeo in

Ordine dei Giornalisti della Sardegna, (cit.). 407 «C’è anche il caso dell’Università Carlos III di Madrid che, come una

novità, propone ai suoi iscritti un triennio in giurisprudenza o scienze

politiche già specificamente orientati al successivo biennio in

giornalismo, mirando con ciò a formare dei veri professionisti

dell’informazione, un po’ alla maniera francese». Pozzi, P., Rea P.,

Ordine dei giornalisti. Dove c’è e dove non c’è, in Tabloid, luglio 2013,

(cit.). 408 «Tutti i grandi gruppi editoriali spagnoli (il gruppo Prisa, cioè l’editore

di El Pais, Abc, El Mundo, Efe – l’agenzia di stampa nazionale) ne offrono

e il comune denominatore è una forte selezione iniziale. Quello presso il

più grande quotidiano nazionale – El Pais – costa attorno ai 9000 euro per

una durata di un anno e mezzo, per 150 posti e come requisiti d’ingresso

si richiedono una laurea (non strettamente in giornalismo) e due lingue».

I giornalisti nello scenario europeo in Ordine dei Giornalisti della

Sardegna, (cit.).

207

precariato: «anche quando si riesce ad entrare come stagisti

spesso si inizia senza neppure un rimborso spese. Poi

l’editore può offrire di restare come collaboratore part-time,

cioè con un contratto part-time ma che nasconde un impegno

a tempo pieno409». Dal punto di vista legislativo non esiste

uno statuto per la professione di giornalismo. L’articolo 20

della costituzione spagnola del 1978 si limita a contemplare

il diritto fondamentale alla libertà di espressione e

informazione, diritto che si converte nel dovere di informare

correttamente, mentre la legge organica 2/1997 regola la

clausola di coscienza e il principio del segreto professionale.

L’organismo più rappresentativo del giornalismo spagnolo è

la Fape, Federaciòn de asociaciones de la prensa de Espana,

che riunisce 13.000 professionisti di 45 associazioni. Questa

associazione, «vista la situazione di precarietà e l’assenza di

protezione in cui versano molti giornalisti, specialmente i più

giovani, ha approvato un Codice per la contrattazione dei

giovani giornalisti, che contiene le norme di base da rispettare

per tutte le parti interessate: imprese, editoriali, giornalisti,

praticanti o stagisti410».

Australia. Anche in nel paese oceanico non esiste uno statuto

del giornalista, con l’esercizio della professione come unico

requisito per professarsi tale. L’anomalia del modello

australiano è legata al fatto che «la Costituzione australiana

non garantisce esplicitamente la libertà di espressione, cosa

che crea una certa aria di sospetto nei confronti del governo,

dal momento che in teoria la censura sarebbe possibile411».

409 Ibidem. 410 Ibidem. 411 «Le autorità tra l’altro hanno evocato l’ipotesi di una legge che instauri

un filtro obbligatorio per alcuni siti Internet, cosa che è valsa tempo fa

208

Questa assenza rende quindi l’universo giornalistico piuttosto

vulnerabile, solo parzialmente protetta dalla possibilità di

iscriversi al Media, Entertainment & Arts Alliance, un

sindacato che si impegna a garantire e proteggere i diritti dei

giornalisti, che però rimangono scoperti a causa del vuoto

legislativo.

Brasile. La situazione nel paese sudamericano è cambiata

radicalmente negli ultimi anni. Per essere considerato

giornalista prima del 2009 era necessario avere un diploma

superiore in giornalismo e iscriversi al Registro Profissional,

condizioni che consentivano di ottenere una tessera

professionale412. Nel 2009 invece il Tribunale supremo

federale si è espresso a favore dell’incostituzionalità

dell’obbligo del possesso del diploma di giornalista e

dell’iscrizione al ministero del Lavoro come condizioni per l’

esercizio della professione. Ora è la a Fenaj, Federazione

nazionale dei giornalisti brasiliani, a rilasciare una propria

carta.

Stati Uniti. Il 12 settembre 2013 il Senato statunitense, per

approvare una legge che proteggesse i giornalisti dal dover

rivelare le proprie fonti confidenziali, si è trovato costretto a

dare una definizione di “giornalista”: «an employee,

independent contractor or agent of an entity that disseminates

news or information … [who has been] employed for one

year within the last 20 years or three months within the last

all’Australia la presenza nell’elenco dei ‘’Nemici di Internet’’ curato da

Reporters sans frontières». Pozzi, P., Rea P., Ordine dei giornalisti. Dove

c’è e dove non c’è, in Tabloid, luglio 2013, (cit.). 412 «Mentre il giornalista ‘’autodidatta’’ o ‘amatoriale’ era considerato

illegale». Pozzi, P., Rea P., Ordine dei giornalisti. Dove c’è e dove non

c’è, in Tabloid, luglio 2013, (cit.).

209

five years413». Il primo emendamento della Costituzione

americana, oltre a garantire la libertà di stampa, vieta

l’interferenza del governo nell’esercizio della professione.

Questo principio, in virtù della definizione che il Senato si è

visto costretto a fornire, garantisce un alto livello di

protezione per i professionisti. Questo soprattutto in relazione

alle cosiddette shield laws, delle leggi applicate nella maggior

parte degli stati americani che dicono che il giornalista non

può essere costretto a comparire o a testimoniare in relazione

alle informazioni contenute in una notizia o a divulgare le

proprie fonti. Per questo motivo l’azione del Senato ha

provocato tanto reazioni favorevoli quanto apertamente

contrarie. Non esistono tessere professionali ufficiali negli

Stati Uniti, ma ogni datore di lavoro fornisce ai propri

dipendenti una tessera. Esiste la Society of Professional

Journalists, un’organizzazione professionale che conta oltre

10.000 associati e si pone l’obiettivo di incoraggiare la libertà

di stampa e promuovere fra i giornalisti un comportamento

aderente ai principi deontologici. Essa propone un Codice

etico ma non rilascia alcuna tessera professionale e non è

quindi in alcun modo paragonabile all’Ordine dei Giornalisti

italiano. Nonostante la definizione data dal Senato sia

ampiamente inglobante, l’accesso alla professione è tutt’altro

che semplice da un punto di vista strettamente pratico. «As

digital media gave more writers a voice, qualifications for

413 «Un impiegato, un libero professionista o un agente di una entità che

pubblica notizie o informazioni… [che è stato] impiegato per un anno

negli ultimi 20 anni o per tre mesi negli ultimi cinque anni». Kendzior S.,

Who is a 'journalist'? People who can afford to be in aljazeera.com, 17

settembre 2013,

(http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/09/2013917643128064

87.html).

210

journalism jobs became more stringent and dependent on

wealth. This is true worldwide. In 2009, the average cost of

journalism school, often a prerequisite for hire in the US, was

$31,000. Some universities charge over $50,000, along with

living expenses the total bill can be above $80,000 (median

US income is $52,000)414». Inoltre, le posizioni che

consentivano l’accesso iniziale al mondo del lavoro sono

state sostituite da tirocini, la maggior parte dei quali non

pagati: «Today people work for the possibility of working,

waiting to be considered good enough to be hired by the

employers under whom they already labour415». Il risultato è

che l’accesso alla professione diventa ad appannaggio

principalmente di persone con alle spalle una situazione

economica più che solida, in grado di affrontare le spese delle

scuole di formazione o di potersi permettere di portare avanti

tirocini non retribuiti.

414 «Nel momento in cui i media digitali hanno dato voce a più autori, le

qualifiche richieste per i lavori legati al giornalismo sono diventate più

alte e dipendenti dal benessere economico. Questo è vero in tutto il

mondo. Nel 2009, il costo medio di una scuola di giornalismo, spesso un

prerequisito per essere assunto negli Stati Uniti, era di 31.000 $. Alcune

università costano oltre 50.000 $, la spesa complessiva calcolando anche

i costi della vita può essere superiore agli 80.000 $ (il reddito media

statunitensi è di 52.000 $)». Ibidem. 415 «Oggi le persone lavorano per la possibilità di lavorare, aspettando di

essere considerati abbastanza bravi per essere assunti da datori di lavoro

per i quali già lavorano». Ibidem.

211

3.3 Giornalismo e precariato

In Italia ci sono circa 110mila iscritti all’Ordine dei

Giornalisti, questo significa, come fa pertinentemente notare

Il Fatto Quotidiano416, che un italiano su 550 è un giornalista,

professionista o pubblicista che sia. Si tratta di un numero che

stupisce specie in relazione ad altri importanti paesi europei:

nel Regno Unito ci sono circa 40mila giornalisti, quindi uno

ogni 1650 abitanti circa, in Francia invece circa 38mila,

grossomodo uno ogni 1740 abitanti417. Come già analizzato

in precedenza, solo una parte, circa la metà, versa

regolarmente i contributi e può dire di lavorare regolarmente.

Per quanto riguarda gli altri «o non sanno che l’iscrizione alla

previdenza è obbligatoria, o sono evasori contributivi oppure

hanno cambiato mestiere. “Vista la natura dell’industria dei

media in Italia è probabile che nella grande maggioranza dei

casi si tratti di quest’ultima ipotesi”, spiega Guido Besana,

componente della giunta esecutiva della Fnsi, il sindacato

unico dei giornalisti418». Un altro interessantissimo incrocio

di dati è quello tra il numero degli iscritti all’ordine in Italia

e l’estensione del mercato editoriale. «Secondo una ricerca

Ocse419 del 2010 in Germania ogni 100 mila copie di

quotidiani o periodici ci sono 75 giornalisti di carta stampata.

In Francia per vendere lo stesso numero di copie ne bastano

416 Armano A., Un italiano su 550 è giornalista. Riformiamo l’Ordine? in

ilfattoquotidiano.it (cit.). 417 De Luca D., Italia: il paese dei giornalisti invisibili in ifg.uniurb.it 27

gennaio 2012, (http://ifg.uniurb.it/2012/01/27/ducato-online/italia-il-

paese-dei-giornalisti-invisibili/17001). 418 Ibidem. 419 http://www.mondaynote.com/2010/07/11/too-many-journalists/

212

72. In Italia ne occorrono ben 127. […] Anche nella classifica

di diffusione dei periodici l’Italia è il fanalino di coda. In

Germania ogni mille abitanti si vendono 244 giornali al

giorno, in Francia 117. Nell’Italia delle penne solo 88420».

Questo elemento di squilibrio nel mercato del lavoro è

comune anche ad altre professioni, dove gli iscritti all’Ordine

segnano allo stesso modo cifre esorbitanti comparate agli altri

paesi europei. Ad esempio, per quanto riguarda i medici,

secondo dati Istat del 2011421, l’Italia è al terzo posto nel

rapporto tra medici e abitanti, con oltre 410 medici ogni

100mila abitanti (il Regno Unito ne ha circa 260). Per quanto

concerne gli avvocati, invece, se la media europea si attesta

su 127 avvocati ogni 100mila abitanti, quella italiana è di

406422. Tornando all’universo giornalistico, la spiegazione a

quest’ondata di professionisti non è semplice. Il sindacalista

Besana, ad esempio, punta il dito contro l’Ordine, i cui

Consigli regionali non avrebbero interesse a revisionare gli

elenchi cancellando gli iscritti che non esercitano più la

professione: «Dico una cattiveria, per un Ordine regionale

avere tanti iscritti vuol dire avere tante quote. Se non svolgo

attività giornalistica, per l’Ordine non sono un costo, ma una

quota che arriva423». Inoltre secondo Besana, «avere tanti

iscritti significa avere maggior peso nel Consiglio nazionale

420 Ibidem. 421 http://noi-

italia2011.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=86&cH

ash=6c8089e674dee3073c9c8cfb3ea1dd6a 422 Avvocati: in Italia sono il triplo della media Ue. E fanno troppe cause

per incidenti in blitzquotidiano.it, 4 luglio 2013,

(http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/avvocati-italia-triplo-

media-ue-cause-incidenti-1610853/). 423 De Luca D., Italia: il paese dei giornalisti invisibili in ifg.uniurb.it 27

gennaio 2012, (cit.).

213

dell’Ordine (Cnog)424». La posizione dell’Ordine è, come

previdibile, diametralmente opposta. Secondo Enzo

Iacopino, il presidente del Consiglio nazionale il problema «è

una legge antica che prevede una procedura per diventare

giornalisti. L’Ordine non ha discrezionalità quando qualcuno

rispetta i parametri per ottenere l’iscrizione425». Per quanto

riguarda le revisioni, invece, Iacopino ammette che «possono

esserci ritardi in alcuni casi. Certe realtà, come Lazio e

Lombardia, possono essere più severe di altre, ma che il

problema degli iscritti sia legato a questo è falso. Dopo

quindici anni di iscrizione all’elenco dei pubblicisti non è

possibile essere cancellati. Fino a che questa norma è nella

legge noi la dobbiamo rispettare426». Al di là della logica tutta

italiana che si esprime nel consueto allontanamento delle

responsabilità, quello che emerge da questi dati è la

saturazione di un mercato che non è in grado di soddisfare

una richiesta di lavoro troppo grande rispetto alle posizioni

disponibili. L’avvento di Internet e la nascita di tante realtà

editoriali anche appartenenti alla piccolissima impresa da un

lato ha garantito maggiori possibilità di trovare un impiego,

dall’altra ha però frammentato il mercato, consentendo

l’ingresso di figure per cui lo scrivere non è visto come un

mestiere che, tra le altre cose, serve anche per arrivare alla

fine del mese e contribuendo di fatto a far scoppiare e

diffondere l’epidemia del precariato. Il Rapporto sulla

professione giornalistica in Italia curato da Pino Rea per

424 «Il Consiglio è eletto su base proporzionale: più iscritti ha un Ordine

regionale, più consiglieri può mandare al Cnog». Ibidem. 425 Ibidem. 426 Ibidem.

214

Lsdi427, stilato su dati del 2012, è in grado di offrire

un’eccellente fotografia della situazione. Le prime

conclusioni sono riportate nell’incipit dell’analisi:

«Si riduce il lavoro dipendente (meno 1,6%), cresce

quello autonomo (+7,1%; 6 attivi su 10, quasi il

doppio di 13 anni fa), e aumenta in modo sempre più

marcato il gap nei redditi fra i due segmenti della

professione. Nel 2012 la media annua delle

retribuzioni dei dipendenti era di 62.459 euro (+0,4%

sul 2011) : 5 volte più di quella degli autonomi e quasi

7 volte superiore a quella dei Co.co.co. La media dei

soli autonomi era infatti di 11.278 euro. E la media

generale (dipendenti + autonomi) era quindi di 33.557

euro428».

Un primo elemento da considerare è che il numero di

giornalisti continua a crescere, sia complessivamente (+1%),

sia limitandosi a quelli attivi (+3,2%), mentre diminuisce il

numero di lavoratori dipendenti (-1,6%). Come facilmente

intuibile, la crescita del numero globale dei giornalisti è

quindi dovuta al lavoro autonomo, che vede aumentare le

proprie fila del 7,1% (da 26.524 a 28.408 unità). Su un

campione di 10 giornalisti iscritti all’Ordine e attivi, 6

svolgono lavoro autonomo. I contratti a tempo indeterminato

coinvolgono un solo professionista su 5 (in realtà meno, visto

che la percentuale è del 18,8%). Rea mostra un

427 Rea P., Il paese dei giornalisti

(http://www.fnsi.it/Download/RAPPORTO_LSDI_2012.pdf). 428 Ibidem.

215

interessantissimo quadro diacronico degli ultimi 13 anni. Dal

2000 a al 2012 (periodo che racchiude perfettamente

l’avvento, l’evoluzione e la diffusione del giornalismo

online), la popolazione attiva è raddoppiata, «da 21.373

giornalisti del 2000, il 26,5% degli iscritti all’ Ordine

(compresi elenco speciale e stranieri), a 47.227 giornalisti del

2012, pari al 43,9% degli iscritti all’Ordine429». Non solo, se

nel 2000 i lavoratori autonomi era circa un terzo della totalità

dei professionisti, nel 2012 hanno abbondantemente superato

la metà430. Gli anni cruciali nei quali è avvenuto il sorpasso

sono il 2008 e il 2009431, quando il numero dei dipendenti

inizia un calo destinato a proseguire e gli autonomi compiono

un importante balzo in avanti passando da 19.486 a 23.213

unità. L’altro dato da prendere in considerazione vede

coinvolti i redditi. Come già riportato in precedenza, ciò che

si evince è innanzitutto l’enorme gap tra i redditi dei

lavoratori dipendenti e quelli degli autonomi. Il salario medio

di un giornalista italiano è di 33.557 euro annui lordi, ma il

dato è risultato di una forbice molto ampia. Se un lavoratore

dipendente guadagna infatti in media 62.459 euro all’anno

(dato in lieve crescita – 0,4% - rispetto al 2011), un autonomo

arriva invece a 11.278 euro lordi. Quest’ultima cifra è a sua

volta la media tra il reddito dei freelance (12.810 euro, una

crescita di 354 euro rispetto al 2011) e quello dei Co.co.co

(9.703 euro, una diminuzione di 730 euro rispetto al 2011).

La differenza tra i lavoratori dipendenti e gli autonomi è

429 Ibidem. 430 Rea lancia il proprio j’accuse: «E a questo punto viene il dubbio che

gli istituti della categoria stiano colpevolmente sottovalutando quello che

è accaduto». Ibidem. 431 Sono gli anni dell’esplosione dei social network e dei blog. La maturità

del Web 2.0.

216

evidente, ancora più marcata se vengono presi in esame i

Co.co.co. Ma Rea riporta dati ancor più allarmanti.

All’interno della fascia dei lavoratori autonomi infatti esiste

un 48,9% (14.042 lavoratori) che hanno redditi annui inferiori

ai 5.000 euro. Addirrittura circa 1 su 5 (18,7%) ha dichiarato

nel 2012 redditi compresi tra 0 e 1.000 euro annui432, dato

sconcertante che fotografa la drammaticità della situazione

per buona parte dei lavoratori autonomi. Anche la situazione

all’interno della categoria dei lavoratori dipendenti mostra un

allargamento della forbice tra “ricchi” e “poveri”. Se le fasce

medio-alte – andamento che si ripercuote in generale su tutto

il gruppo – vedono aumentare il proprio salario, quelle basse

lo vedono invece diminuire. Il risultato, in poche parole, è che

chi godeva di una posizione privilegiata continua a farlo, o

addirittura vede la propria situazione migliorare; chi invece

appartiene alla fascia più povera del lavoro dipendente

compie un ulteriore passo indietro. I problemi legati ai

subordinati sono ben identificabili nelle richieste dei

professionisti nei confronti del Fondo complementare di

previdenza, che viene spesso utilizzato come ammortizzatore

sociale, piuttosto che come strumento di integrazione per la

futura pensione433. «Un altro elemento di cui tener conto è il

fatto che oltre 8.000 dei 19.319 subordinati (8.006, pari al

432 433 euro per 2.096 Co.co.co, 447 euro per 3.231 ‘’liberi

professionisti’’. Ibidem. 433 Spiega Ignazio Ingrao del consiglio d’amministrazione: «I bilanci del

Fondo consente di fare una facile previsione: tra 20 anni si presenterà il

problemacdei giornalisti pensionati con redditi pericolosamente bassi. Per

questo stiamo varando una importante campagna di sensibilizzazione da

per cercare di indurre i colleghi, soprattutto i più giovani, a non

impoverire le proprie posizioni contributive nel Fondo complementare e

anzi a cercare di rafforzarle con versamenti maggiori: altrimenti la loro

prospettiva dopo la pensione sarà davvero difficile». Ibidem.

217

41,4%, nel 2011 era il 40%) hanno anche un reddito da lavoro

autonomo, che non entra nel calcolo della media annua della

sua retribuzione come dipendente, ma che di fatto allarga il

divario con la condizione reddituale del lavoro autonomo e

parasubordinato434». La situazione dei rapporti di lavoro

subordinati mostra un calo, dovuto anche ad un sostanziale

blocco di assunzioni, soprattutto per quanto concerne i

quotidiani (-2,8% di rapporti di lavoro rispetto al 2011), le

agenzie di stampa (-6,6%), l’emittenza locale (-2,8%) e la Rai

(-2,4%). Gli unici settori che mostrano una crescita sono

quello dei periodici (+1,8%), l’emittenza nazionale

commerciale (+3,4%) e altri tipi di aziende private (+1,1%).

La saturazione del mercato viene messa in risalto anche da un

dato che mostra come il lavoro subordinato sia molto

invecchiato negli ultimi anni. Prendendo ancora come base i

13 anni dal 2000 al 2012, è possibile notare come i giornalisti

di età inferiore ai 35 anni siano passati dal 28,9% al 19,9%

(gli ultracinquantenni sono passati dal 17,3% al 29,6%).

Riassumendo la situazione del lavoro dipendente è possibile

quindi segnalare un blocco delle assunzioni che sfocia in un

mancato ricambio generazionale e in un invecchiamento della

categoria. Aumentano le richieste di ammortizzatori sociali

con conseguente impoverimento delle pensioni, se da una

parte le fasce medio-alte vedono rimanere stabili o migliorare

le proprie entrate, quelle basse risentono maggiormente la

crisi. Ma questi anni sono caratterizzati soprattutto

dall’esplosione del lavoro autonomo, tanto i freelance quanto

i parasubordinati (o Co.co.co435). Questa categoria presenta

434 Ibidem. 435 I collaboratori coordinati e continuativi (c.d. co-co-co) sono anche detti

lavoratori parasubordinati, perché rappresentano una categoria intermedia

fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente. Essi lavorano infatti in

218

alcune caratteristiche affini ai dipendenti, ad esempio

l’invecchiamento: gli autonomi sotto i 30 anni sono passati

dal 12,2% del 2009 al 9,4% del 2012, mentre gli

ultracinquantenni sono passati dal 16,3% al 17,7%. Ma se la

situazione dei freelance mostra un pur lieve miglioramento, è

il lavoro parasubordinato a farsi carico degli elementi

maggiormente allarmanti, dove il 53,4% (5.260 posizioni)

non raggiunge i 5.000 euro annui, dato in crescita rispetto al

2011 (50,7%). La debolezza complessiva dei Co.co.co è

evidenziabile anche riportando un altro dato riguardante i

redditi più alti: solo l’1,8% dei parasubordinati (173) supera

i 50.000 euro annui, a differenza del 5,12 degli autonomi

(765) e del 39,6% dei subordinati (8.189).

Il quadro della situazione mostra come «l’asse della

professione si sta spostando dal giornalismo dipendente,

tutelato dai contratti e dalle leggi, dalla previdenza e

dall’assistenza sanitaria di categoria (Inpgi, Casagit436 e

Fondo di previdenza complementare), al lavoro autonomo,

alle collaborazioni coordinate e continuative, al lavoro dei

freelance437». La mancanza di tutela in cui scivola la

piena autonomia operativa, escluso ogni vincolo di subordinazione, ma

nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente del

lavoro. Sono pertanto funzionalmente inseriti nell’organizzazione

aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del

committente, al quale viene riconosciuto un potere di coordinamento

dell’attività del lavoratore con le esigenze dell’organizzazione aziendale.

Fonte: Inps

(http://www.inps.it/portale/default.aspx?lastMenu=5654&iMenu=1&iN

odo=5654&p1=2) 436 Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani. 437 Camporese A. (presidente Inpgi), Interventi efficaci e rapidi per

superare una crisi epocale in fnsi.it,

(http://www.fnsi.it/Download/RAPPORTO_LSDI_2012.pdf).

219

professione getta i giovani aspiranti in una giungla intricata

dove spesso vige la legge del ricatto. Sostiene ad esempio

Daniele Cerrato, presidente di Casagit, che «l'editoria italiana

è affollata da mestieranti di varia estrazione, per questo non

sempre possiamo attenderci […] persone dotate di una

professionalità definita. L' utilizzo disinvolto di ogni

spiraglio di risparmio offerto da Contratto e consuetudini fa

sì che cresca, ad esempio, il numero dei pubblicisti assunti

come praticanti e per i quali si realizzano risparmi, da parte

dell'editore, sui contributi da versare anche a Casagit438». Ed

è dello stesso avviso Enzo Jacopino, presidente dell’Ordine

dei Giornalisti: «Gli editori continuano a passare come una

schiacciasassi sopra alla vita di decine di migliaia di giovani

i quali, per di più, debbono periodicamente subire lezioni sul

loro stesso diritto di dirsi, essere o sperare di diventare

giornalisti439». Una volta delineato il contesto, rimane da

vedere cosa è stato fatto concretamente per risollevare le

condizioni di tanti precari e restituire qualche speranza ai

giovani che aspirano a diventare giornalisti. Qualcosa si è

mosso a cavallo tra 2011 e 2012, quando è stata approvata la

cosiddetta Carta di Firenze, entrata in vigore il 1° gennaio del

2012. Questa la premessa del documento redatto di comune

accordo dall’Ordine dei Giornalisti e la Fnsi:

«Mai come negli ultimi anni il tema della qualità del

lavoro si è offerto alla riflessione pubblica quale

argomento di straordinaria e, talvolta, drammatica

attualità. A preoccupare, in particolare, è la crescente

precarizzazione lavorativa di intere fasce della

438 Ibidem. 439 Ibidem.

220

popolazione che, per periodi sempre più lunghi,

vengono costrette ai margini del sistema produttivo e

professionale, con pesanti ricadute economiche,

sociali, psicologiche ed esistenziali. Il giornalista,

infatti, costretto nel limbo di opportunità capestro, per

lo più prive di prospettive a lungo termine, è a tutti gli

effetti un cittadino serie B, che non può costruire il

proprio futuro, e nemmeno contribuire allo sviluppo

del Paese, e ciò in netto contrasto con quanto stabilito

dalla Costituzione440 […]. Un giornalista precarizzato,

poco pagato, con scarse prospettive e tavolta, per

carenza di risorse economiche, anche poco

professionalizzato, è un lavoratore facilmente

ricattabile e condizionabile […]441».

Secondo questa premessa, l’intento della Carta

deontologica di Firenze è quello di vigilare affinché sia

garantito un equo compenso a tutti i giornalisti e affinché

vengano bloccati lo sfruttamento e la precarietà. Per

raggiungere tale obiettivo la Carta di Firenze promuove la

costituzione di un “Osservatorio permanente sulle condizioni

440 «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di

ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà

e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo

della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i

lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale

del Paese». Costituzione della Repubblica Italiana in

quirinale.it,

(http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzi

one.htm). 441 Carta di Firenze in odg.it

(http://www.odg.it/files/carta%20di%20firenze_def_0.pdf

).

221

professionali dei giornalisti” con il compito di vigilare

sull’effettiva applicazione della carta e segnalare condizioni

di sfruttamento professionali (articolo 3). In realtà, come

riporta Il Fatto Quotidiano, non si è andati oltre le buone

intenzioni: «perché, contrariamente al previsto, non è stato

istituito un osservatorio per vigilare sulle violazioni. E perché

l’Ordine non può muoversi d’ufficio. Si deve aspettare che

sia il singolo giornalista, sfruttato e ricattabile, a muoversi.

Alcune realtà regionali si stanno attivando per denunciare le

condizioni di sfruttamento dei collaboratori442». Discorso

simile quello riguardo alla legge sull’equo compenso. «La

schiavitù è abolita per legge443», dice la sezione dedicata al

precariato del sito dell’Ordine dei Giornalisti,

nell’annunciare l’approvazione della legge che potrebbe

contribuire alla fine dello sfruttamento di tanti giornalisti

autonomi: «è stata necessaria una norma, quella sull’equo

compenso, per creare condizioni che consentiranno di porre

fine allo sfruttamento selvaggio dei giornalisti. Giovani di

tante età, compensati con mancette per i loro articoli […].

Cinquanta centesimi per il web, due-tre-cinque euro per la

carta stampata, vessazioni senza fine444». Ma la legge

233/2012, entrata in vigore il 18 gennaio 2013, resta ancora

inapplicata in attesa dell’emanazione delle norme attuative.

Bisogna innanzitutto dire che la legge sull’equo compenso,

fondandosi sull’articolo 36 della Costituzione445, riconosce ai

442 Armano A., Un italiano su 550 è giornalista. Riformiamo l’Ordine? in

ilfattoquotidiano.it (cit.). 443 L’equo compenso è legge in precariato.odg.it, 5 dicembre 2012

(http://precariato.odg.it/lequo-compenso-%C3%A8-legge). 444 Ibidem. 445 «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità

e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla

222

giornalisti lavoratori autonomi il diritto a un equo

compenso446. L’articolo 1 della 233/2012 definisce l’equo

compenso come «la corresponsione di una remunerazione

proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto,

tenendo conto della natura, del contenuto e delle

caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i

trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale

di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di

lavoro subordinato447». L’articolo 2 della legge invece

istituisce la “Commissione per la valutazione dell'equo

compenso nel lavoro giornalistico448” con il compito di

definire quantitativamente l’equo compenso e di redigere un

elenco di tutte le testate (anche online), le agenzie di stampa,

le emittenti che garantiscono l’equo compenso di cui sopra.

Come pena, invece, la legge nell’articolo 3 prevede per la

mancata iscrizione per un periodo superiore a sei mesi a

decadenza dal contributo pubblico in favore dell’editoria,

nonché da eventuali altri benefici pubblici, fino alla

successiva iscrizione. Il proseguio della storia è facilmente

famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Costituzione della Repubblica

Italiana in quirinale.it, (cit.). 446 I dati del Rapporto di Lsdi mostrano come buona parte dei lavoratori

autonomi non godano di quanto garantito dall’articolo 36 della

Costituzione. 447 Legge 31 dicembre 2012, n. 233 in normattiva.it

(http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2012;233). 448 Composta da: un rappresentante del Ministero del lavoro e delle

politiche sociali; un rappresentante del Ministero dello sviluppo

economico; un rappresentante del Consiglio nazionale dell’Ordine dei

Giornalisti; un rappresentante delle organizzazioni sindacali dei

giornalisti comparativamente più rappresentate sul piano nazionale; un

rappresentante delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei

committenti comparativamente più rappresentate sul piano nazionale nel

settore delle imprese; un rappresentante dell’Inpgi.

223

intuibile. Per entrare veramente in vigore la legge necessita

che venga prima stabilito esattamente l’ammontare dell’equo

compenso, poi che venga redatto l’elenco di cui sopra. Ma

questo non è ancora stato fatto. Come scrive Maurizio Bekar,

freelance, consigliere nazionale della Fnsi, membro e

coordinatore della Commissione nazionale lavoro autonomo

Fnsi, la Commissione «è stata insediata solo a metà giugno, e

i suoi lavori paiono ancora nella fase istruttoria.

L’impressione è che l’iter di questa legge, dopo una

contrastata gestazione parlamentare, preceda con il freno a

mano sempre tirato. Tanto che continuano ad emergere

opposizioni, distinguo e tentativi di sue interpretazioni

restrittive449». Ad oggi, tanto la Carta di Firenze quanto

l’equo compenso sono rimasti allo stato delle buone

intenzioni. Questi due provvedimenti sono tra i temi che sono

stati trattati agli Stati Generali dell’informazione precaria,

che si sono tenuti a Roma l’11 e il 12 luglio 2013, convocati

dalla Fnsi su proposta della Commissione e dall’Assemblea

nazionale lavoro autonomo Fnsi. Convocati con l’obiettivo di

porre fine allo sfruttamento della categoria e restituire dignità

e futuro alla professione, gli Stati Generali si sono svolti con

l’intento di porre le basi per una mobilitazione che coinvolga

tutti gli organismi coinvolti nel mondo giornalistico.

Andando ad esaminare nel dettaglio i temi trattati, oltre a

richiedere l’applicazione della legge sull’equo compenso450 e

449 Bekar M., Che fine ha fatto l’equo compenso per i giornalisti

freelance? in articolo21.org, 12 agosto 2013,

(http://www.articolo21.org/2013/08/che-fine-ha-fatto-lequo-compenso-

per-i-giornalisti-freelance/). 450 «L’applicazione della legge sull’Equo Compenso comporta la

soluzione di tre nodi cruciali: a) definizione dell’Equo Compenso; b)

tracciabilità del lavoro che rende possibile l’individuazione degli editori

224

della Carta di Firenze451, viene ritenuta imprescindibile la

contrattualizzazione delle varie forme di precariato.

«Occorre costruire con la contrattazione collettiva

un’impalcatura di regole e modalità di lavoro corrette

per ampliare il campo dei diritti e delle tutele per chi

non li ha e, allo stesso tempo,contrastare l’abuso

sempre più diffuso di forme di lavoro autonomo o

parasubordinato che dissimulano prestazioni di lavoro

dipendente. Più si rendono forti i processi di tutela e

di rappresentanza collettiva, inoltre, più diventa

esigibile la tutela individuale basata su regole

contrattuali riferite a un corretto utilizzo delle forme

di lavoro autonomo452».

Se è vero che qualcosa si sta muovendo, dall’altra parte

bisogna dire che il tutto è purtroppo ancorato allo stato delle

buone intenzioni, o poco più. L’obiettivo principale per tutte

virtuosi; c) i benefici da cui sono esclusi i soggetti che non rispettano

l’Equo Compenso». Stati generali dell'informazione precaria: i

documenti finali approvati (12 luglio 2013, Roma) in giornalistifreelance,

12 luglio 2013, (https://www.facebook.com/notes/giornalisti-freelance-

httpfreelance20ningcom/stati-generali-dellinformazione-precaria-i-

documenti-finali-approvati-12-luglio-/10151721772224904). 451 «Ferma restando la disponibilità a discutere proposte migliorative per

l’effettiva efficacia di questo strumento, con lo spirito di collaborazione

che deve contraddistinguere l’azione di tutti gli enti di categoria, è

necessario provvedere quanto prima alla formazione dell’Osservatorio

Nazionale previsto dalla Carta con la nomina di tutti i suoi componenti e

si auspica che analoghi osservatori vengano istituiti in ogni realtà

regionale». Ibidem. 452 Ibidem.

225

le parti in causa deve essere innanzitutto restituire dignità al

lavoro, che sembra aver completamente perso il suo valore.

«C’è chi viene pagato 2 euro per una notizia, se questa

però raggiunge almeno duemila visualizzazioni, cioè

viene cliccata sul sito almeno duemila volte. Ma se la

notizia è al di sotto delle 800 battute non viene pagata.

Il compenso scatta dalla 801esima riga in su. Al di

sotto il lavoro viene di fatto regalato all’editore. Se

invece si tratta di un “pezzo” vero e proprio, il

compenso può salire anche a 15 euro, sempre che

raggiunga le duemila visualizzazioni web. Altrimenti

non si vede una lira. Come se andassimo dal medico e

gli dicessimo: ti pago solo se mi guarisci453».

Questo è divenuto possibile come risultato di diverse

componenti. Tra queste c’è la compartecipazione tra il gioco

a ribasso degli editori e l’inquinamento del mercato da parte

di coloro che forniscono prestazioni giornalistiche gratuite.

«Gli editori, si sa, guardano al proprio tornaconto e

hanno capito che affidarsi al lavoro esterno in fondo

paga. Perché sanno di poter contare su degli “schiavi”

che sono per lo più presi dal sacro fuoco di vedere la

propria firma su un pezzo di carta. E l’Ordine dei

453 Ferrigolo A., “Due euro a pezzo”. Un’inchiesta sul

giornalismo precario in reset.it, 4 luglio 2013

(http://www.reset.it/caffe-europa/precari-nei-giornali-

uninchiesta).

226

giornalisti non è riuscito a fermare il fenomeno di quei

colleghi che facendo altri lavori forniscono anche

prestazioni giornalistiche gratuite. Gli editori sanno

che possono sempre contare su un esercito di riserva

di professionisti disposti a tutto e se ne

approfittano454».

Se lo sfruttamento e il precariato si sono trasformati in

consuetudine per chi fa parte dell’Ordine e possiede il

tesserino (professionista o pubblicista che sia), per coloro che

ne sono sprovvisti e aspirano a diventare giornalisti

ufficialmente riconosciuti, la situazione è perfino peggiore.

Trovare un’azienda dove svolgere – regolarmente retribuiti –

i 18 mesi di praticantato (necessari per diventare

professionisti) o i 24 mesi di esercizio dell’attività (necessari

invece per iscriversi nell’Albo dei pubblicisti) è impresa

tutt’altro che agevole. Su Internet esiste una costellazione di

siti che fanno informazione, ma molti di questi non sono

testate registrate essendo sprovvisti dell’elemento della

periodicità, quindi una eventuale collaborazione, anche se

pagata (una chimera), non rientrerebbe nei parametri richiesti

per l’iscrizione all’Albo. Tuttavia, pur imbattendosi in una

testata registrata diretta da un giornalista facente parte

dell’Ordine, la situazione risulterebbe tutt’altro che comoda.

In primo luogo perché trovare una collaborazione retribuita

risulta essere un esercizio paragonabile alla ricerca di un ago

in un pagliaio. Ma anche qualora si ottenesse un compenso

questo sarebbe comunque totalmente inadeguato perfino per

la semplice sopravvivenza mensile. Questo significa che nella

gran maggioranza dei casi i mesi richiesti dall’iter per poter

454 Ibidem.

227

svolgere l’esame di Stato possono essere affrontati – anche in

base al tempo da dedicare all’attività – solamente da persone

coperte economicamente, oppure da coloro che svolgono

contemporaneamente un altro lavoro. L’impervio sentiero

dell’aspirante giornalista è però minacciato da una

condizione intrinseca alla sua stessa situazione: il desiderio

di diventare professionista (o pubblicista che sia),

l’irrefrenabile brama di ottenere il tesserino. Come già

evidenziato quando si è parlato dell’inchiesta della Procura di

Napoli Onde Rotte, il fenomeno dell’emissione di fatture

false da poter poi presentare per sostenere l’esame di Stato

non è una rarità. Nel momento in cui l’editore non può e non

vuole offrire una retribuzione si passa all’offerta indecente.

Ovvero: tu lavori gratis, ma poi puoi diventare pubblicista. I

ricatti di tanti editori disonesti spesso sortiscono i loro effetti

su giovani dalle spalle troppo strette per rispedire la proposta

al mittente. Da una parte c’è la disperazione, dall’altra è ancor

più evidente lo smarrimento della dignità del lavoro. Nel

prossimo paragrafo si analizzerà quindi la realtà degli

aspiranti giornalisti, giovani sprovvisti di tesserino gettati

come carne da macello nel mercato delle collaborazioni, in

particolar modo online.

3.4 Gli aspiranti giornalisti e la Rete

Il tesserino da pubblicista rappresenta una sorta di sacro

Graal per tanti giovani desiderosi di affermarsi e disposti a

passar sopra a qualunque cosa pur di ottenerlo. Lo sanno bene

gli editori, altrettanto pronti a qualsiasi scorciatoia pur di

228

massimizzare le entrate e tagliare i costi. La

compartecipazione di questi due fattori, unita alla

moltiplicazione degli accessi generata da Internet, ha creato

un fenomeno divenuto preoccupantemente diffuso, che vede

il tesserino trasformarsi in arma di ricatto. Il risultato è che il

lavoro finisce con il perdere il proprio valore.

Avventurandosi per la Rete si può trovare di tutto:

collaborazioni a titolo gratuito, retribuzioni legate alle

visualizzazioni dell’articolo, addirittura l’ultima trovata

consiste nello scrivere dei pezzi in cambio di premi455. Il tutto

in bilico tra legalità ed illegalità, con quest’ultima che spesso

avanza nel silenzio generale. «Non sono rari, purtroppo, i casi

di giovani aspiranti giornalisti costretti da aziende truffaldine

a pagarsi da soli i contributi, falsificando documenti e

ricevute fiscali per dimostrare l’esistenza di un’attività

remunerata e poter ottenere così l’ambito tesserino456», scrive

la Repubblica degli Stagisti, che si interroga sulla possibilità

di arginare il fenomeno attraverso un innalzamento del livello

dei controlli. La realtà è che, in assenza di una denuncia

proveniente dalle parti coinvolte, è complicato smascherare

questa pratica. L’azione preventiva è resa vana dal momento

che gli Ordini vengono a conoscenza delle situazioni dei

singoli giovani solo nel momento in cui viene inoltrata la

domanda di iscrizione all’Albo, ma a quel punto pur

disponendo della documentazione fiscale è impossibile

455 www.italianosveglia.com, segue approfondimento nella seconda parte

della ricerca. 456 Curiat A., Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti:

anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano? In

repubblicadeglistagisti.it, 27 aprile 2010,

(www.repubblicadeglistagisti.it/article/articolo-finti-pubblicisti-

contromisure-ordini).

229

stabilire se la procedura si è svolta o meno nell’ambito della

legalità457. Spiega Gianni Rossetti, presidente dell’Ordine dei

Giornalisti delle Marche alla Repubblica degli Stagisti:

«Per l’iscrizione all’albo elenco pubblicisti bisogna

dimostrare una collaborazione “continuativa” e

“retribuita” relativa agli ultimi due anni. Per quanto

riguarda i compensi non è sufficiente la dichiarazione

del direttore o dell’editore, ma chiediamo una

documentazione certa, cioè il Dpr 600, che sarebbe il

modulo riepilogativo che ogni azienda manda

all’interessato per la denuncia dei redditi, oppure il

versamento della ritenuta d’acconto. Noi chiediamo la

documentazione certa dell’avvenuto pagamento e del

versamento della ritenuta d’acconto. Se poi il

collaboratore restituisce i soldi all’editore e paga lui

stesso la ritenuta d’acconto, noi non abbiamo

strumenti per verificarlo458».

L’Ordine si limita quindi a misure di controllo che paiono

insufficienti per arginare la deriva, come la presentazione da

parte del candidato di ricevute fiscali emesse a cadenza

regolare nel tempo. Nessun Ordine accetta infatti versamenti

sanatori biennali. Ad esempio Sergio Miravalle, presidente

dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, fa affidamento

sull’etica individuale, forse non sufficiente per combattere

457 «Le contromisure potrebbero essere legate all'attribuzione di un potere

ispettivo anche all'Ordine, come già avviene per l'Inpgi, ma questo può

avvenire soltanto con legge dello Stato. E nel progetto di riforma non pare

sia prevista un'eventualità del genere». Ibidem. 458 Ibidem.

230

questo fenomeno: «Invitiamo molti dei ragazzi che

presentano la domanda a parlarci di persona, per conoscerli,

sentire direttamente le loro testimonianze: la verità cartacea è

un conto, quella che emerge da un colloquio diretto è un altro.

E poi, ci auguriamo che l’etica media della categoria sia

migliorata e stia migliorando, e che non ci siano così tanti

direttori disposti a dichiarare il falso nei documenti ufficiali

presentati all’Ordine». Se gli editori sono colpevoli, non

esenti da colpe sono gli aspiranti giornalisti che accettano di

sottostare al ricatto decidendo, a conti fatti, di acquistare di

tasca propria il tesserino professionale. L’avvocato

Gianfranco Garancini, esperto di diritto giornalistico, è

categorico: «Gli aspiranti giornalisti sono correi e, in quanto

tali, teoricamente vanno incontro a pene di tipo economico e

detentivo. In pratica, poi, è difficile che si vada in prigione

per reati del genere, ma si può arrivare a sanzioni pecuniarie

molto elevate […]. Senza contare il fatto che la domanda da

pubblicisti è destinata ad essere respinta e, così, l’aspirante

giornalista vedrà vanificarsi due anni di lavoro non

riconosciuto.459». Al di là delle dinamiche legali, ancora più

mortificante è la disponibilità a svilire il proprio lavoro. E’

vero che la malattia del sistema e le poche soluzioni

alternative rappresentano un’attenuante, ma questa non può

che essere terribilmente parziale. La stessa Repubblica degli

Stagisti riporta due testimonianze interessanti a tal proposito,

che vale la pena riportare. La prima vede come protagonista

459 Curiat A., L'avvocato Gianfranco Garancini: «Chi falsifica la

documentazione pur di entrare nell'albo dei giornalisti pubblicisti

commette reati penali» in repubblicadeglistagisti.it, 27 aprile 2010,

(http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/intervista-avvocato-franco-

garancini-cosa-rischia-chi-falsifica-documentazione-iscrizione-albo-

giornalisti-pubblicisti).

231

Carlo (un nome fittizio), diventato pubblicista presso

l’Ordine regionale del Lazio dopo aver lavorato presso una

testata aziendale, cioè un giornale pubblicato da un’impresa

e incentrato prevalentemente su tematiche aziendali, di cui

non fa il nome. «La mia era di fatto una collaborazione a

distanza: scrivevo gli articoli da casa e non sono mai entrato

direttamente a contatto con l’editore. Diventare pubblicista

era per me il modo più semplice e meno oneroso per

conoscere un mestiere che mi affascinava fin dai tempi del

liceo. Avere il tesserino, poi, non mi avrebbe impedito di

svolgere altri lavori460», rivela Carlo alla Repubblica degli

Stagisti. Il tutto, ovviamente, non retribuito: «pezzi scritti e

non pagati, in barba alla legge, che parla di “attività

regolarmente retribuita”. Retribuzione ovviamente

certificata, dichiarando il falso, dall’editore nell’attestato

richiesto dall’Ordine per l’iscrizione all’albo. A completare

la documentazione, la ritenuta di acconto sui soldi che

teoricamente avrei dovuto ricevere461». Quel che colpisce

maggiormente della testimonianza di Carlo è che, nonostante

tutto, si ritiene un privilegiato. Poteva andare peggio, come

successo a tanti altri: «[…] ho avuto dei privilegi in più

rispetto a tanti colleghi: un rimborso spese per i miei

spostamenti e per alcuni acquisti […], il regolare pagamento

dei contributi. Posso assicurare che non è poco: diversi amici

e conoscenti hanno intrapreso l’attività giornalistica

460 Del Priore C., La testimonianza di Carlo: «Sono diventato pubblicista

scrivendo gratis: ma almeno le ritenute d’acconto me le hanno pagate»

in repubblicadeglistagisti.it, 27 aprile 2010,

(http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/testimonianza-carlo-

diventato-pubblicista-scrivendo-gratis-su-testata-giornalistica-

aziendale). 461 Ibidem.

232

completamente a spese loro. Che tradotto significa non solo

non essere pagati, ma anche versare i contributi di tasca

propria, altrimenti niente tesserino462». Beati monoculi in

terra caecorum463, si potrebbe dire. L’altra storia riportata

dalla Repubblica degli Stagisti vede come protagonista

Franca (altro nome fittizio), che fa parte dei meno fortunati

descritti da Carlo.

«Per diventare pubblicista, ho accettato di pagarmi da

sola i contributi scrivendo per un blog online con

incarichi da freelance ufficialmente retribuiti. In

realtà, il mio direttore mi rilascia le ritenute d’acconto

e io gli restituisco i soldi in contanti. Ovviamente non

ho nessuna retribuzione: di fatto, pago in tasse circa

160 euro ogni sei mesi e in più lavoro gratuitamente

per scrivere gli 80 articoli in 2 anni richiesti

dall’Ordine del Lazio464».

Franca è approdata a questo blog (di cui non viene fatto il

nome) dopo varie esperienze, tutte non retribuite, fatta

eccezione per uno stage per occuparsi della rassegna stampa;

ma anche lì è arrivata la crisi, i tagli del personale e il ritorno

della disoccupazione. Quasi nessun soldo guadagnato, ma

esperienza e contatti, dice Franca. Alla fine, per ottenere il

462 Ibidem. 463 Una locuzione latina traduciile come “Beati i monòcoli nel paese dei

ciechi”. 464 Curiat A., La testimonianza di Franca: «Dopo una serie di stage

logoranti, la scelta di pagarmi da sola i contributi da pubblicista» in

repubblicadeglistagisti.it, 27 aprile 2010,

(http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/testimonianza-pubblicista).

233

tesserino da pubblicista (definito come «un punto saldo,

un’ancora simbolica che voglio raggiungere come obiettivo

personale465»), ha accettato la proposta del direttore del sito:

«Per mantenere l’indipendenza del blog, ha rifiutato di avere

qualsiasi finanziamento e adesso se la deve cavare con le sue

forze. “Quindi, per la pratica da pubblicista non c’è problema,

purtroppo però non posso pagarti. Facciamo così: io ti faccio

le ritenute d’acconto, e tu mi dai i soldi per pagarle”. Cosa

avrei dovuto fare? Ho accettato466».

Al di là della disonestà di alcuni editori e della scarsa

tenacia di qualche aspirante giornalista, per bloccare questa

pericolosa deriva è necessaria una riforma in grado di

restituire dignità al lavoro ed evitare che si creino i

presupposti per il mettersi in moto di questa macchina. In

primo luogo togliendo dalle mani degli editori il potere di

ricattare le nuove leve. Questo può avvenire – escludendo le

costose scuole di giornalismo – solamente puntando

sull’università pubblica. Se non si vuole abolire l’Ordine dei

Giornalisti, quantomeno lo si aggiorni. Devono essere le

facoltà a sfornare i giornalisti, tramite corsi di studio nei quali

teoria e pratica abbiano eguale importanza. Insegnare il

mestiere nelle università, piuttosto che disperdere crediti in

una miriade di materie se non superflue, certo poco attinenti

e creare un collegamento diretto con il mondo del lavoro.

Privando gli editori del privilegio di decidere chi diventerà

giornalista e attraverso quale percorso, questi si troveranno

costretti a svolgere un ruolo di semplici datori di lavoro di

fronte ad un professionista già formato, che non avrebbe più

bisogno di inseguire ad ogni costo il tanto agognato tesserino.

465 Ibidem. 466 Ibidem.

234

Rimarrebbe la non meno gravosa questione della dignità del

lavoro e di un equo compenso che è merce sempre più rara.

Questa è un realtà più complessa, non limitata alla sola Italia.

Le collaborazioni a titolo gratuito rappresentano un

fenomeno sempre più comune, una malattia che Internet ha

senza dubbio aiutato a diffondere e che non riguarda, come si

potrebbe supporre, solamente le piccole realtà

imprenditoriali. Si è già visto che un colosso come

l’Huffington Post non paga neppure un centesimo i blogger

che hanno contribuito a renderlo uno dei portali più famosi al

mondo. Del resto, i siti vivono principalmente di pubblicità;

e gli spazi pubblicitari sono tanto più richiesti e costosi,

quanto più visitato è uno spazio: e i navigatori di Internet si

muovono tra un sito e l’altro alla ricerca di contenuti. Senza

questi non c’è traffico, non c’è pubblicità, non c’è di

conseguenza il sito. Il paradosso è quindi quello che coloro

che producono ricchezza (a seconda delle realtà,

naturalmente) sono gli stessi che non percepiscono nulla.

Rimane da capire perché così tante persone accettino di

scrivere gratuitamente. Buttar giù un articolo che sia ben fatto

e non un semplice “copia e incolla” richiede tempo e fatica,

conoscenza dell’argomento trattato e capacità espositive,

verifiche e organizzazione. In una parola: lavoro. Eppure il

lavoro sembra non valere più nulla. Specie sul Web, dove

richiedere un pagamento rispetto ad una prestazione appare

come una pretesa assurda. Ma al di là dei ricatti, delle

proposte indecenti dei datori di lavoro rimane un punto

cruciale: se nessuno accettasse di scrivere gratis, le aziende

sarebbero inevitabilmente costrette ad offrire qualcosa. E’

vero che questo già avviene, nella maggior parte dei casi con

proposte che insultano in egual maniera di quelle prive di

compenso. Perlomeno, però, non si leggerebbe più di editori

235

a tal punto certi di trovare il collaboratore sfruttato di turno

da offrire in cambio nulla. Zero. Perché così tante persone

accettano di scrivere gratis? Per ottenere illegalmente il

tesserino da pubblicista? Per passione467? Per il narcisimo di

vedere la propria firma in giro per il Web? Per ottenere

visibilità e farsi conoscere? Perché scrivere, per alcuni, non è

un lavoro ma un passatempo?

Oppure perché tutto questo è diventato consuetudine?

Normalità? Del resto, se l’Huffington Post può permettersi di

non pagare i propri collaboratori, perché lo dovrebbero fare

realtà ben più modeste del colosso americano? Ma è

allargando il campo dell’indagine che si può notare come il

fenomeno del lavoro non retribuito non sia esclusiva del solo

giornalismo (professionista o meno che sia, digitale o

cartaceo). Sembra trattarsi piuttosto di una creatura di

quest’epoca che ha precarizzato tanto il presente quanto il

futuro. Un’epoca che ha sradicato troppe fondamenta e che

mette nelle condizioni in cui la speranza di ottenere un

qualcosa domani fa sì che si accetti di avere poco o niente

oggi. Sia che si tratti di 50 centesimi per un articolo, sia che

si tratti di una semplice speranza. Un investimento per il

futuro. Come scrive l’antropologa Sarah Kendzior riferendosi

agli americani che vivono in quella che lei definisce post-

employment economy468, «they compete for the privilege of

467 Il lavoro non retribuito svilisce e toglie valore a qualsiasi passione,

specie se portato avanti per imprese con scopo di lucro. 468 «You live in the post-employment economy, where corporations have

decided not to pay people. Profits are still high. The money is still there.

But not for you». Ovvero, «Tu vivi nell’economia del dopo-impiego, dove

le società hanno deciso di non pagare le persone. I profitti sono ancora

alti. I soldi sono ancora lì. Ma non per te». Kendzior S., Surviving the

post-employment economy in aljazeera.com, 3 novembre 2013,

236

working without pay. They no longer earn money - they earn

the prospect of making money. They are paid in

"connections" and "exposure"469». E’ questo quello che si sta

verificando? Lavorare gratis viene visto come un passaggio

inevitabile nel tentativo di costruirsi una posizione? Nella

coscienza collettiva sembra essersi instillata la convinzione

che la crisi richieda dei grandi sacrifici, come lavorare senza

vedere un soldo. L’idea che bisogna adeguarsi alla situazione

contingente, stringere la cinghia, tirare avanti. Scrive ancora

Sarah Kendzior: «When survival is touted as an aspiration,

sacrifice becomes a virtue. But a hero is not a person who

suffers. A suffering person is a person who suffers. If you

suffer in the proper way - silently, or with proclaimed fealty

to institutions - then you are a hard worker "paying your

dues". If you suffer in a way that shows your pain, that breaks

your silence, then you are a complainer - and you are said to

deserve your fate470». Delineato in ogni suo aspetto il quadro

(http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/11/surviving-post-

employment-economy-201311373243740811.html). 469 «Loro competono per il privilegio di lavorare senza venire pagati. Non

guadagnano più soldi, guadagnano la prospettiva di fare soldi. Vengono

pagati in “agganci” e “visibilità”». Kendzior S., Managed expectations in

the post-employment economy in aljazeera.com, 12 marzo 2013

(http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/03/2013311164235608

86.html). 470 «Quando la sopravvivenza viene promossa come un’aspirazione, il

sacrificio diviene una virtù. Ma un eroe non è una persona che soffre. Una

persona che soffre è una persona che soffre. Se soffri in maniera adeguata

– silenziosamente, o con aperta fedeltà verso le istutuzioni – allora sei un

grande lavoratore che sta facendo quanto dovuto. Se soffri in modo tale

da mostrare il tuo dolore, questo spezza il tuo silenzio, diventi una persona

che si lamenta, ti viene detto che meriti il tuo destino». Kendzior S.,

Surviving the post-employment economy in aljazeera.com, 3 novembre

2013, (cit.).

237

di riferimento, è giunto il momento di passare alla seconda

parte di questa ricerca, che mira ad indagare il fenomeno

appena descritto.

238

239

4 Scrivere online: la ricerca

Questa sezione della tesi è frutto di un viaggio nella Rete,

alla ricerca di opportunità lavorative, collaborazioni,

possibilità di scrivere per testate registrate e non. Cosa offre

realmente il mondo del lavoro online? La figura di spicco è

quella dell’articolista. Il dizionario di Corriere.it lo definisce

semplicemente come autore di articoli di giornale471, ma la

realtà è differente. Come scrive Bruno Ugolini su L’Unità, gli

articolisti «sono migliaia di giovani donne e uomini che

vendono il loro lavoro intellettuale sul web per pochi miseri

euro472». Una figura «a metà tra il giornalista e l’operaio alla

catena di montaggio... Non ha sindacato né ordine di

appartenenza e nella scala gerarchica della professione

occupa il posto dopo l’ultimo perché l’ultimo è già troppo

affollato dai collaboratori473». All’articolista viene richiesta

la produzione di un numero di contenuti editoriali più alto

possibile nel minor tempo possibile. Il tutto di fronte ad

offerte economiche estramemente basse, dove spesso si

innesta un gioco a ribasso tra i diversi “pretendenti”. Oppure,

più semplicemente, la posta in palio è la visibilità,

l’oppurtunità di vedere la propria firma online, insomma

niente. Zero. La navigazione della Rete ha portato a scoprire

quattro tipi di offerte per coloro che desiderano scrivere

online: una retribuzione minima, il pagamento in base alle

471 http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/A/articolista.shtml. 472 Ugolini B., Articolisti nella giungla del web in unita.it, 11 ottobre

2010, (http://www.unita.it/commenti/brunougolini/articolisti-nella-

giungla-del-web-1.247709). 473 Ibidem.

240

visualizzazioni del pezzo, il pagamento attraverso premi o la

collaborazione totalmente gratuita.

4.1 Qualche centesimo ad articolo: chi offre di

meno?

Recita l’articolo 36 della Costituzione della Repubblica

Italiana: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione

proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni

caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza

libera e dignitosa474». Ma non sempre è così; in particolar

modo su Internet. Vediamo cosa si trova inserendo su Google

la chiave di ricerca “articolista retribuito”, esplorando i

portali che raccolgono offerte di lavoro475 o visitando i forum

che si occupano nello specifico di compravendite di servizi

editoriali476. Il primo annuncio in cui mi sono imbattuto

recita: «[CERCO] Copywriter settore Immobiliare con reale

esperienza».

«Salve,

come da oggetto cerco copywriter CON

ESPERIENZA REALE nel settore immobiliare da

474 La Costituzione in senato.it

(http://www.senato.it/1025?sezione=122&articolo_numero_articolo=36)

. 475 Kijiji.it, Indeed.com, InfoJobs.it, Bakeca.it, per citarne alcuni. 476 AlVerde.net, GiorgioTave.it.

241

selezionare per collaborazioni durature per la scrittura

di articoli nel settore sopracitato.

Il testo dovrà essere scritto in ottimo italiano e senza

errori. Gli articoli doranno essere discorsivi, con una

corretta impostazione (introduzione, corpo e

chiusura) e di piacevole lettura.

L'impegno potrà variare tra i 5 e i 20 articoli inediti al

mese di minimo 400 parole (numero di massima) e

saranno retribuiti 3 euro LORDO al pezzo.

Gli articoli dovranno essere consegnati in formato

word entro 72 ore dalla richiesta (esclusi festivi). Non

sarà richiesta alcuna formattazione né alcuna

competenza SEO, desideriamo soltanto articoli ben

scritti.

Gli articoli verranno verificati per qualità e per evitare

contenuti duplicati. Garantiamo e pretendiamo

massima professionalità.

La retribuzione verrà corrisposta mediante bonifico

bancario o paypal.

Per chi non fosse in possesso di partita iva la stessa

verrà corrisposta con ritenuta d’acconto o, nel caso di

professionisti con partita iva, richiederà il rilascio di

regolare fattura.

Per inviare la vostra candidatura potete contattarci all

seguente mail: […], indicando nell'oggetto "Risposta

annuncio [CERCO] Copywriter settore Immobiliare

con reale esperienza". Inviare inoltre minimo 3

articoli del settore Immobiliare (in formato word o

pubblicati sul web) e qualsiasi altra informazione si

ritiene utile.

242

Ringrazio per l'attenzione […]».

3 euro lordi ad articolo sono 2,40 euro netti, 60 centesimi

ogni 100 parole, neppure un centesimo a parola. Si supponga

per assurdo che per portare a termine un articolo di circa 400

parole basti un’ora, la retribuzione sarebbe di 2,40 euro l’ora.

In realtà, perlustrando la Rete, si nota piuttosto celermente

come un’offerta di questo tipo sia perfino più generosa della

media. Infatti, raramente la retribuzione di un articolo online

supera l’importo di un 1 euro.

«Ciao a tutti,

cerco articolista per il mio blog che tratta di seo,

wordpress, webmarketing, guadagno, web,

informatica ecc

chi fosse interessato puo contattarmi alla mail […]

il sito è stato aperto da poco, ma ho buone conoscenze

nel campo web e sono molto ottimista, per i compensi

quindi offrirò un minimo di 20 cent per articolo, la

paga crescerà ovviamente, al crescere del sito477».

«Cerco articolisti per le categorie:

- Apple

- Calcio

477 Il titolo dell’annuncio è « [CERCO] Articolista per blog

di tecnologia».

243

- Cinema

- Gossip

Minimo 300 parole. 10 Articoli al giorno per

categoria.

(Gli articolisti saranno valutati per una collaborazione

con maggiore retribuzione a lungo termine)

Retribuzione: 0,50 ( la stessa che prendo io per

scrivere ) Pagamento: Paypal […]478».

«Cerco articolisti esperti di calcio e calciomercato

disponibili a scrivere con continuità.

Si richiedono 3 articoli al giorno di 200/250 parole

ciascuno.

Retribuzione:

0.40€ per 200 parole

0.50€ per 250 parole

Richiesti 3 giorni di prova nei quali verrà valutata

serietà e qualità degli articoli redatti.

Info richieste: Nome, Cognome, Contatto Skype,

precedenti esperienze

[…]479».

478 Il titolo dell’annuncio è «[CERCO] articolisti categoria

Gossip - Cinema – Sport». 479 Il titolo dell’annuncio è «[CERCO] Articolista calcio».

244

«Cerco articolista calciomercato per BREVI NEWS

(100 parole indicativamente come MINIMO). Ho

bisogno di popolare la sezione del mio sito in

wordpress per il calciomercato di gennaio.

Indicativamente 10-15 news al giorno, budget di 100-

110 euro al mese (da vedere bene in privato).

Retribuzione a fine collaborazione (i miei feedback

sono una garanzia solida...).

SOLO GENTE AFFIDABILE E PUNTUALE, IN

GRADO DI SCRIVERE IN ITALIANO

CORRETTO.

Pagamento paypal.

Contatti qui sul forum, gradito contatto skype.

NO COMMENTI, grazie.

[…]480».

Il tenore di questi annunci – scelti casualmente in mezzo

ad una miriade di esempi pressoché identici – è uno dei

leitmotiv della compravendita di servizi editoriali su Internet.

Tuttavia, non tutte le offerte di lavoro presentano una

retribuzione chiara. Non di rado è possibile imbattersi in

annunci che mirano a creare una lotta al ribasso tra i candidati

per accaparrarsi la posizione. Non venendo indicato un

prezzo fisso per articolo – pur variabile in base alla lunghezza

480 Il titolo dell’annuncio è «[CERCO] ARTICOLISTA

CALCIO - Speciale calciomercato, 10 articoli al giorno».

10 news al giorno per 100 euro al mese corrispondono a

circa 30 centesimi ad articolo.

245

dello stesso – si chiede invece agli articolisti stessi di indicare

il proprio tariffario. Una sorta di asta rovesciata dove a

spuntarla è il peggiore offerente (o il migliore, a seconda dei

punti di vista).

«Cerco articolisti retribuiti per la realizzazione di

contenuti su vari argomenti.

Il pagamento avviene settimanalmente tramite paypal

o bonifico.

Gli articoli devono essere semplicemente inviati

tramite mail senza immagini.

Vengono fornite fonti e quindi non sono richieste

conoscenze particolarmente avanzate ma è importante

sapere scrivere bene.

Gli interessanti possono inviarmi una mail

all'indirizzo […] con le seguenti informazioni

-Retribuzione richiesta per articoli rispettivamente di

200 - 300 e 400 parole.

-Argomenti su cui si è scritto in passato e si è disposti

a scrivere.

-Eventuali link a lavori già pubblicati online.

-Informazioni sulla possibilità di fatturare.

Grazie481».

481 Il titolo dell’annuncio è «[CERCO] Articolisti retribuiti

vari argomenti».

246

«Come da titolo cerco un articolista per scrivere brevi

recensioni (auto e accessori), in un primo momento

saranno 10 da 300 parole circa.

Si prega di rispondere specificando il costo x articolo

e inserendo un link con una referenza o confermando

l'intenzione di effettuare un test (in caso negativo) non

retribuito.

Pagamento alla consegna tramite paypal482».

«Ciao a tutti,

stiamo ricercando articolisti che conoscano

perfettamente la lingua italiana e che siano disposti a

consegnare da 1 a 5 articoli al giorno.

E' importante per noi che la qualità sia al primo posto

e per questo vogliamo che siate voi a fare il prezzo per

ciascun articolo.

Chiediamo a tutti gli interessati di inviare una mail a

[…] indicando nel corpo del messaggio i seguenti

dati:

Nome:

Email:

Specizzato in: (inserire le aree in cui siete più esperti

- esempio. sport, musica, turismo, ecc)

Numero Articoli per giorno: (indicare quanti articoli

potete inviare al giorno)

482 «[CERCO] Articolista per settore auto e affini».

247

Prezzo 300 parole:

Prezzo 400 parole:

Prezzo 500 parole:

Link Articoli: (facoltativo - indicare le URL degli

articoli già realizzati o, in alternativa, allegare un

articolo già realizzato)

In relazione al budget che l'articolista ci richiede,

selezioneremo i migliori in ottica

tempistiche/qualità/quantità/prezzo.

Inviate pure le vostre candidature all'indirizzo e-mail

[…] includendo tutte le informazioni richieste483».

L’ultimo annuncio riportato è estremamente interessante.

La mancanza di una retribuzione chiara e la proposta che

viene fatta ai candidati di stabilire loro stessi il proprio

tariffario sono presentati come un mezzo attraverso cui

raggiungere un certo livello qualitativo, piuttosto che come

una mera gara al ribasso («E' importante per noi che la qualità

sia al primo posto e per questo vogliamo che siate voi a fare

il prezzo per ciascun articolo»).

Tra gli annunci che in linea teorica propongono un

compenso per il lavoro svolto, due hanno in particolar modo

attirato la mia curiosità. Il primo è il seguente, intitolato

«Articolisti per The Social Post» e pubblicato su kijiji.it:

483 Il titolo dell’annuncio è «[CERCO] Canditatura

Articolisti per Vari Temi - Fate voi il Prezzo!».

248

«La redazione di The Social Post è alla ricerca di

collaboratori che si occupino di redigere articoli

giornalistici, fotografi e video makers.

Le sezioni per le quali è richiesta la collaborazione

sono Cronaca, Politica, Cultura, Esteri e Sport.

Requisiti fondamentali dei candidati saranno:

- Ottima padronanza della lingua italiana

- Ottime capacità di scrittura

- Affidabilità

- Rispetto delle scadenze

Costituiranno titolo preferenziale nella selezione dei

candidati la conoscenza di tecniche SEO e utilizzo

piattaforma Wordpress.

Il candidato affronterà un periodo di prova di 2

settimane, durante il quale si potranno constatare

impegno e qualità. La collaborazione prevista per gli

articolisti comporterà la stesura di almeno 2 articoli a

settimana per la categoria prescelta. Per i fotografi e

video makers la collaborazione si concorderà in base

alle disponibilità fornite.

The Social Post offre ai candidati la possibilità di

effettuare la pratica giornalistica di 2 anni per

richiedere il tesserino da pubblicista.

Per candidarsi inviare una mail corredata di cv, lettera

di presentazione e autorizzazione al trattamento dei ai

sensi del D. lgs. 196/03 a […]».

249

Il sito in questione è impostato ricalcando il modello del

celebre Huffington Post, già ampiamente trattato in questa

ricerca, come è possibile evincere dalla figura 25.

(figura 25 – La prima pagina di The Social Post, il 21 dicembre

2013 alle 15:00)

Nell’annuncio non viene esplicitato nulla riguardo alla

retribuzione dei collaboratori, ma d’altro canto viene invece

sottolineato come «The Social Post offre ai candidati la

possibilità di effettuare la pratica giornalistica di 2 anni per

richiedere il tesserino da pubblicista». Questo significa, come

si è visto nelle pagine precedenti, che la collaborazione deve

essere necessariamente retribuita. Non è tutto, affinché

l’attività venga riconosciuta dall’Ordine, questa dev’essere

stata svolta presso una testata regolarmente registrata presso

il tribunale. Ma la realtà non è questa. Perlustrando il sito mi

sono infine imbattuto in una pagina chiamata “Staff”, dove è

250

possibile leggere quanto segue: «The Social Post è un blog

(Ha avviato le procedure per la registrazione della testata

giornalistica) e salvo eventuali accordi scritti o contratti di

cessione di copyright, la collaborazione a questo sito è da

considerarsi del tutto gratuita e non retribuita484». E’ evidente

come qualcosa non torni. Nell’annuncio viene esplicitato

come la collaborazione possa consentire all’articolista di

maturare i requisiti necessari all’ottenimento del tesserino da

pubblicista, ma sul sito si sottolinea invece come non sia

prevista una retribuzione. Inoltre, trattandosi di un blog e non

di una testata registrata, anche un eventuale compenso non

garantirebbe la possibilità di sostenere l’esame per diventare

pubblicista. I dubbi che sorgono in maniera legittima non

sono stati chiariti nonostante abbia tentato di mettermi in

contatto con il sito, dal momento che è stato impossibile

ricevere una risposta.

L’altro annuncio a cui si faceva riferimento è il seguente,

intitolato «Articolisti o Blogger da casa - 4/5 Articoli all'ora

140 parole» e anch’esso pubblicato su kijiji.it.

«LEGGERE BENE PER FAVORE ALTRIMENTI

VENITE CESTINATI

Newsgo è un nuovo progetto editoriale che sta

ricevendo un grande successo, attualmente abbiamo

una media accessi di quadi 6000 accessi (il sito è stato

creato il 10 ottobre).

484 http://www.thesocialpost.it/staff/.

251

Il progetto è quello di creare un punto di riferimento

per le aziende della provincia di roma offrendo

visibilità e tanti altri servizi.

Il progetto editoriale è frutto di uno studio e di un

lavoro che va avanti da oltre un anno, non riguarda

solo il sito di notizie ma anche una WEB-RADIO, una

WEB-TV e tanti altri servizi.

Chi cerchiamo:

- Conoscenza avanzata dei social network.

- Conoscenza di wordpress.

- Ottima velocità nel rielaborare gli articoli assegnati.

- Blogger che voglio instaurare una collaborazione

con il sito (scambio gratuito)

Si richiede una velocità di inseriemento di almeno 4/5

notizie all'ora (minimo 140 parole).

Le notizie NON DEVONO ESSERE COPIATE e

incollate, ma devono essere rielaborate.

Le notizie vengono fornite, quindi il candidato deve

andare sul link indicato e rielaborare l'articolo.

Il nostro obbiettivo è di trovare persone che ci

garantiscono 16/20 articoli per il par time e 32/40

articoli per il full time. Con una presenza costante

almeno di 4 ore al giorno per 5 giorni a settimana

(orari e giorni a scelta).

Il nostro obbiettivo è di avere dalle 9 alle 13 almeno

due persone ogni ora. La nostra redazione ideale è

composta da un numero massimo di 10 elementi.

252

Come candidarsi (leggere bene):

- Inviare una lettera di presentazione mettendo in

evidenza esperienze passate in questo campo.

- Disponibilità durante la giornata e il tempo che

potete dedicare al progetto.

- Indicare una Gmail.

- Avere installato hangout nel vostro pc

I cv selezionati verranno radunati a gruppi di 5

persone dove verrà fatta un pò di formazione. Verrà

effettuata tramite hangout. La formazione consiste

nella linea editoriale e non a conoscenze informatiche.

Dopo una breve formazione online si simulerà quindi

2-3 giornate tipo di lavoro per vedere la bravura del

candidato. Il candidato lavorerà quindi da casa, con la

scelta dei suoi orari ideali

I colloqui inizieranno appena questo annuncio verrà

pubblicato, continuerà anche sabato e domenica (è un

quotidiano e ogni giorni ci sono notizie) a fare

colloqui e formazione. Le persone verranno testate

fino a Venerdì 22 Novembre

Sabato 23 novembre i candidati prescenti verranno

convocati (insieme agli altri componenti della

redazione) per una riunione a Fontenuova.

RETRIBUZIONE

Le persone che parteciperanno al progetto essendo la

testata registrata potranno prendere il tesserino da

giornalista.

253

Per scelta aziendale è stato scelto di non stabilire un

fisso mensile, questo non significa che le persone non

verranno pagate. Molto semplicemente a fine mese si

divide quanto guadagnato dal sito + i vari progetti e si

dividono i ricavi in base a chi ha fatto più articoli.

Quindi non c'è fisso mensile e gli articoli non vengono

pagati a pezzo anche perchè 140 parole non è un

articolo :-) Per me un articolo è almeno 500 parole.

Un altro motivo per cui non è stato scelto il fisso

mensile, perchè vogliamo persone che non si

accontentano di un fisso quando possono guadagnare

molto di più e contribuire alla crescita del Progetto.

Abbiamo preferito scrivere questa cosa nell'annuncio

per maggior chiarezza ed evitare di far perdere tempo

alle persone, capiamo che alcune persone

preferiscono avere una sicurezza sapere che a fine

mese guadagneranno quella cifra, ma questo tipo di

persone non è adatto al nostro progetto.

Sito web: http://newsgo.it».

Il sito richiede un impegno costante, 4 o 5 articoli ogni ora

e un minimo di 20 ore settimanali. Quando l’annuncio entra

nel merito della retribuzione del lavoro da svolgere,

subentrano alcune perplessità. Il primo punto poco chiaro è

legato al fatto che i collaboratori non riceveranno né un fisso

mensile né tantomeno un compenso per ogni singolo articolo.

L’annuncio parla in maniera piuttosto vaga di una divisione

degli introiti del sito in base al numero di pezzi pubblicati. La

motivazione è duplice: da una parte viene sottolineato come

il pagamento ad articolo non venga preso in considerazione

254

poiché la lunghezza minima richiesta dal sito – 140 parole –

non è sufficiente a garantire dignità al pezzo stesso (viene da

chiedersi – seguendo questa logica – perché si propongano

contenuti che per loro stessa natura non sono meritevoli

neppure di venire chiamati “articoli”); dall’altra parte si fa

leva sul desiderio dei collaboratori di non accontentarsi della

sicurezza offerta dal fisso mensile, quanto piuttosto di

aspirare a molto di più. Non si ha ovviamente alcun indizio

riguardo alle cifre in ballo, del resto un altro elemento cardine

del collaboratore ideale dovrebbe essere la sua devozione

verso la crescita del “Progetto”. C’è un altro passaggio

dell’annuncio che merita un approfondimento: «Le persone

che parteciperanno al progetto essendo la testata registrata

potranno prendere il tesserino da giornalista». Abbiamo già

ricordato in questo paragrafo i requisiti necessari per

l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti. In primo luogo, la frase

appena riportata parla genericamente di “tesserino da

giornalista”, senza specificare qualora si tratti di quello da

professionista o di quello da pubblicista. Inoltre, una testata

online regolarmente registrata, come si presuppone essere

newsgo.it, dovrebbe, in accordo all’articolo 2 della legge

47/1948, mostrare degli elementi identificvativi quali il luogo

e la data della pubblicazione; il nome e il domicilio dello

stampatore; il nome del proprietario e del direttore o vice

direttore responsabile. Non è stato invece possibile reperire

queste informazioni navigando nel sito che si occupa di

riportare notizie legate al territorio di Roma e Provincia. Di

conseguenza, viene meno anche la certezza che newsgo.it sia

effettivamente una testata registrata, come invece sostiene

l’annuncio. Quel che invece è stato possibile evincere dalla

navigazione di newsgo.it è che il sito offre la possibilità a

chiunque lo desideri di vedere i propri articoli pubblicati

255

tramite la pratica del Guest post485 (figura 26). Il proprio

lavoro offerto in cambio di visibilità, una moneta che sul Web

sembra essere diventata valuta ufficiale.

(figura 26 – Il Guest post di newsgo.it)

485 «Un guest post è un articolo, un contenuto scritto da un blogger o un

copywriter che viene ospitato su un altro sito».

http://www.newsgo.it/collabora-con-noi-guest-post/

256

4.2 Pagamenti a visualizzazioni e Google

AdSense

La retribuzione del lavoro su Internet, seppur minima, non

è tuttavia così scontata. Una delle strategie preferite dagli

editori per diminuire i rischi di perdita è legata a quello che

si potrebbe definire un compenso vincolato. Ovvero,

l’articolo viene pagato solamente nel momento in cui la

pagina raggiunge un certo numero di visualizzazioni da parte

di utenti unici. Altrimenti il lavoro svolto dal collaboratore,

che in ogni caso genera un certo traffico e degli introiti

pubblicitari, non viene retribuito, trasformandosi in gentile

concessione al sito di turno. A tal proposito posso riportare

un’esperienza personale che si colloca perfettamente in

questa tipologia di situazioni. Nel 2011 ho collaborato per

alcuni mesi con una testata online regolarmente registrata

presso il tribunale. Il sito in questione si occupava – e si

occupa tuttora – di sport e mi avrebbe consentito, qualora

avessi lavorato in questa redazione per un periodo non

inferiore ai 24 mesi, di maturare i requisiti necessari per

sostenere l’esame di Stato per ottenere il tesserino da

pubblicista. La collaborazione era infatti regolarmente

retribuita e vincolata da contratto: 4 euro lordi ad articolo.

Una cifra che il sottoscritto riteneva sufficientemente

dignitosa in relazione al lavoro svolto e al tempo che

effettivamente richiedeva. Un giorno, senza alcun preavviso,

ricevetti una email nella quale si faceva presente la necessità

di firmare un nuovo contratto che avrebbe stravolto gli

accordi precedentemente raggiunti in virtù dell’intenzione di

ridurre dei costi gestionali. Secondo il nuovo contratto gli

257

articoli avrebbero previsto un compenso solamente nel

momento in cui avessero raggiunto un certo numero di

visualizzazioni, 300 per l’esattezza. Una cifra non

esorbitante, ma certo non scontata per una piccola realtà come

quella per la quale collaboravo. Posto di fronte ad un bivio,

scelsi di non accettare il nuovo accordo e abbandonai quella

che a distanza di anni rimane la migliore opportunità in

ambito giornalistico che ho avuto modo di trovare. La

motivazione è piuttosto elementare: raggiungere il numero di

visualizzazioni richiesto dal nuovo contratto non sarebbe

stato impossibile, ma la mia ferma opposizione era legata

all’idea di dovere, anche fosse successo una sola volta, cedere

il mio lavoro in forma gratuita.

Un’altra forma di retribuzione simile al compenso

vincolato è quella di Google AdSense, sistema che ha

riscosso e continua a riscuotere un enorme successo tra gli

editori. Di cosa si tratta? «Google AdSense è un programma

gratuito che consente ai publisher online di guadagnare dalla

visualizzazione di annunci pertinenti in una vasta quantità di

contenuti online486». In altre parole, questa funzione dà la

possibilità di pubblicare annunci pubblicitari sul proprio sito

Web e di guadagnare dalle entrate pubblicitarie da essi

generate, derivanti tanto dal numero delle esposizioni

(impression), quanto dal numero di click. «Il rapporto tra

click sui banner/annunci e le impression degli annunci è

espresso in percentuale ed è chiamato CTR della pagina 486 Adsense in google.com,

(https://accounts.google.com/ServiceLogin?service=adsense&rm=hide&

nui=15&alwf=true&emr=1&ltmpl=adsense&passive=true&continue=htt

ps%3A%2F%2Fwww.google.com%2Fadsense%2Fgaiaauth2%3Fhl%3

Dit&followup=https%3A%2F%2Fwww.google.com%2Fadsense%2Fga

iaauth2%3Fhl%3Dit&hl=it).

258

(Click Through Rate). In base al CTR, AdSense calcola l'RPM

della pagina ovvero l'efficacia degli annunci (costo per mille

impression), ossia il ricavo che l'utente ottiene ogni 1000

visite della pagina487». Naturalmente, così come è possibile

pubblicare l’annuncio pubblicitario sul proprio sito, allo

stesso modo il banner può essere posizionato altrove previa

la concessione dello spazio. E’ esattamente questo che viene

offerto da molti editori: viene data la possibilità di inserire il

proprio annuncio pubblicitario sulla pagina dell’articolo e di

guadagnare tramite il Click Through Rate del banner. In altre

parole, qualsiasi ricavo non viene elargito dall’editore, ma da

Google stesso, azzerando in questo modo tanto la percentuale

di rischio quanto i costi della manodopera del sito. Annunci

di lavoro che offrono di guadagnare tramite Google AdSense

sono tra i più comuni su Internet, eccone alcuni esempi.

«Sto cercando degli aspiranti blogger per la creazione

di un sito internet. Gli argomenti trattati verranno

decisi in seguito.

Il candidato dovrà scrivere 1 articolo al giorno (5 a

settimana) di lunghezza variabile (in base

all'argomento) per garantire un numero molto alto di

pubblicazioni sulla piattaforma.

Il sito verrà creato e ottimizzato per i motori di ricerca.

Spiegherò come è meglio scrivere un articolo per

ottenere una maggiore indicizzazione e entrare tra i

migliori risultati di google.

Proponete gli argomenti.

487 AdSense in wikipedia.org, (http://it.wikipedia.org/wiki/AdSense).

259

I pagamenti saranno adeguati al traffico generato dal

sito e direttamente corrisposti da google adsense

(banner pubblicitari).

Sul sito verrà inserito anche un mio banner

Contattatemi per maggiori informazioni488».

«Nota testata giornalistica online ricerca un articolista

dalla conoscenza poliedrica e dalla grande velocità di

lettura e di scrittura di notizie.

NON è necessaria essere laureati MA è indispensabile

soddisfare i requisiti sopracitati.

Il candidato ideale dovrà visitare costantemente le

principali fonti d'informazione (tgcom mediaset,

eurosport yahoo, ansa, adnkronos, games.it, la

repubblica, etc.), leggere velocemente le notizie che

sembrano più interessanti per il grande pubblico, e

riscriverle sotto forma di articoli di una lunghezza di

almeno 500 parole.

Si richiedono almeno 500 articoli al mese, ossia

almeno 100 articoli al mese per ognuna di queste

tematica: sport, spettacolo, economia, informatica,

politica.

Si richiede di NON pubblicare più di 30 articoli al

giorno al fine di non abbassare la qualità.

Non si tratta di copia/incolla di articoli altrui, ma di

scrivere in parole diverse gli stessi concetti.

488 Il titolo dell’annuncio è «Blogger/Articolista».

260

La grande utilità della figura che ricerchiamo è quella

di riscrivere solo le notizie veramente più ricercate dal

grande pubblico e quindi di fare già per i lettori

un'operazione di selezione e rewriting.

Il guadagno dell'articolista che ricerchiamo sarà

direttamente proporzionale all'audience che

riceveranno i suoi articoli.

L'articolista deve avere o un suo blog e/o un account

Adsense attivo.

Non è necessario conoscere i codici informatici, ma

conoscere il linguaggio html costituisce un requisito

preferenziale.

Non vogliamo risposte generaliste e copia/incolla

utilizzati per rispondere a vari annunci o dei "vorrei

più info", ma vogliamo una specifica risposta alla

nostra inserzione.

È previsto un periodo di prova di 7gg non retribuito

ed un immediato inizio collaborazione se gli articoli

in questi giorni inviati saranno pubblicati. Durante il

periodo di prova dovranno essere inviati (usando il

modello html base da noi fornito) almeno 2 articoli al

giorno per ognuno delle 5 sezioni tematiche

sopracitate. Questi verranno attentamente letti e nel

caso pubblicati.

Se la prova verrà superata, l'articolista pubblicherà da

solo i suoi articoli.

Tali articoli non dovranno mai essere pubblicati su

altre fonti d'informazione (di qualunque formato

siano) e dal momento della pubblicazione diverranno

proprietà della nostra testata giornalistica.

261

Non si millantano facili guadagni. Si tratta di un vero

lavoro meritocratico ove chi ha le qualità può

guadagnare davvero bene489».

«Prestigioso Giornale Online (regolarmente iscritto al

Tribunale) ricerca articolisti che scrivano OGNI

giorno per il settore INFORMATICA.

Tale sezione consiste nelle categorie: Cellulari,

Games, Web, Motori di Ricerca, PC e Informatica,

Adsl, etc..

Il lavoro si può svolgere da casa e NON ci sono

vincoli di orario.

Non è necessaria la laurea o essere Giornalisti, ma

richiediamo GRANDE entusiasmo e NO perditempo.

L'offerta è rivolta in particolar modo a giovani ed a

studenti universitari; a blogger che con i loro siti non

hanno abbastanza visibilità; ad amanti della scrittura

e del settore informatico.

Requisiti Indispensabili:

a) essere maggiorenni;

b) ENORME volontà di crescita da piccoli ad elevati

guadagni meritocratici;

c) saper scrivere in italiano corretto.

489 Il titolo dell’annuncio è «Articolista/Rewriter per

Giornale Online».

262

Requisiti Preferenziali (non indispensabili

inizialmente):

a) Avere già un account Google Adsense e

conoscenza del suo regolamento (in mancanza di tale

account, avere un proprio blog/sito);

b) Avere Conoscenza delle keyword e delle tecniche

di indicizzazione degli articoli nei motori di ricerca;

c) Grande velocità ed amore per la scrittura;

d) Ottima conoscenza degli editor Joomla e

Wordpress.

Ricerchiamo articolisti veramente motivati e SERI in

quanto questo non è un annuncio di SPAM ma una

vera opportunità di lavoro da sfruttare in piena

autonomia.

Ai sensi della Legge n. 903/77 e della Legge. n. e

125/91, tale offerta di lavoro si intende estesa ad

entrambi i sessi490».

Internet concede l’opportunità agli utenti di trasformarsi

piuttosto agevolmente in piccola editoria, d’altra parte il

budget a disposizione è spesso molto esiguo, con la

consegenza che l’obiettivo principale diventa quello di

abbattere qualsiasi spesa laddove è possibile farlo. In questo

senso Google AdSense rappresenta l’opzione più fruttuosa

per i gestori di un sito, i quali scaricano sul singolo

490 Il titolo dell’annuncio è «Articolisti di INFORMATICA

per Giornale Online».

263

collaboratore ogni rischio imprenditoriale e su Google

l’onere della retribuzione.

4.3 Vinci un contratto di collaborazione: “il

giornalismo del futuro” secondo Italiano Sveglia

L’ultima idea partorita dalla Rete è quella di Italiano

Sveglia, un sito che fa parte di un network formato da altri 9

blog di informazione491. Come viene chiaramente esplicitato,

non si tratta di una testata registrata, ma di un semplice blog.

La creatura è figlia di Alberto Nardella, responsabile della

ProgrammaWeb di San Marco in Lamis (Foggia), l’azienda

che gestisce il network di 10 blog. La novità proposta dal sito

è rappresentata dal sistema di retribuzione concepito: gli

articolisti non ricevono alcun compenso, ma possono

accumulare dei punti scrivendo dei pezzi per il blog. Una

volta raggiunti 20000 punti si ottiene un contratto di

collaborazione a progetto. Recita quello che potrebbe essere

definito il “manifesto” di Italiano Sveglia:

«Sei un appassionato di scrittura e ti piacerebbe

approfondire temi di attualità ma non trovi spazio per

le tue idee? Oppure sei semplicemente interessato a

ciò che ti succede intorno e vorresti cimentarti nella

redazione di un articolo? Questo è il posto giusto per

te, ItalianoSveglia.com ti offre la straordinaria

491 Blog Italiano, Blog Notizie, Giornale di Oggi, Informarsi, Italia Blog,

Leggendo, Notiziario Italiano, Notizie Blog, Notizie di oggi.

264

possibilità di mettere a disposizione

dell’informazione sul web la tua capacità critica e di

scrittura.

Su ItalianoSveglia.com, dopo esserti registrato, potrai

attingere ad un bacino di news da cui potrai prendere

spunto per sviluppare un testo originale e inedito. In

questo modo potrai così fornire il tuo punto di vista

sul tema in questione e ripercorrere le vicende di

attualità con spirito di analisi e in modo totalmente

libero.

Saranno accettati solo articoli conformi a quanto

previsto da Termini e condizioni.

Grazie ad Italiano Sveglia, potrai sia avere la

possibilità di scrivere e pubblicare articoli sul web, sia

guadagnare crediti per ogni pezzo pubblicato. Una

volta raggiunti i 20000 punti potrai ottenere un

contratto di collaborazione a progetto per la redazione

di articoli sul network Italiano Sveglia. Insomma,

potrai dare sfogo alla tua passione per la scrittura e

allo stesso tempo guadagnare, dando al mondo

dell’informazione il tuo contributo personale.

Cosa aspetti, registrati e inizia subito a scrivere!492».

Qual è il meccanismo del blog? Semplice: ogni articolo –

minimo 500 parole – inviato dagli utenti, in seguito

all’approvazione dell’amministrazione del sito, fa

492 Premiati Scrivendo in italianosveglia.com,

(http://www.italianosveglia.com/Premiati+Scrivendo-a-

5.html).

265

guadagnare 10 punti493, si ottiene inoltre 1 punto per ogni

commento ricevuto. Di conseguenza, 2000 articoli al netto

dei commenti consentono di sottoscrivere un contratto con

Italiano Sveglia. In realtà, il blog era nato seguendo altre

logiche, come testimoniano alcuni articoli reperiti online.

Esisteva un vero e proprio catalogo di premi494 dove

figuravano spazzolini elettrici, spremiagrumi, macchine

fotografiche, smartphone, console, televisori e molto altro.

Tutti questi premi sono stati soppressi, fatta eccezione per il

contratto di collaborazione, che ha però visto raddoppiare la

propria soglia di punti passando da 10000 a 20000. Un

articolo de Linkiesta495 del 25 luglio 2013 calcolava come un

articolo pubblicato su Italiano Sveglia valesse grossomodo 2

euro: uno spazzolino elettrico, il premio più modesto, valeva

100 punti, quindi 10 articoli ed il suo costo online era di 19,15

euro, spedizione inclusa. «Di fatto noi premiamo chi scrive

mentre tantissimi giornali ti fanno scrivere e non pagano.

Anzi, me lo dica lei se c’è qualcuno che paga, che gli mando

un po’ di gente!496», sosteneva il responsabile Alberto

Nardella nel luglio del 2013. Aggiungendo: «Finora i nostri

utenti sono arrivati a vincere degli spazzolini, ma se vanno

avanti così farò fatica a dare tutti i premi. Insomma, a partire

da settembre potrei aver bisogno di sponsor, perché brutte

493 «L’articolo verrà pubblicato su tutti i 10 blog informativi appartenenti

al network ItalianoSveglia.com, ma verranno riconosciuti all’utente 10

crediti complessivi», ibidem. 494 La pagina esiste ancora

(http://www.italianosveglia.com/catalogo_premi.html), ma non è

presente un collegamento diretto all’interno del sito, né alcuna menzione

nel regolamento o in qualsiasi altra pagina del blog. 495 Trevisani A., “Se scrivi tanti articoli ti regaliamo uno spazzolino” in

linkiesta.it, 25 luglio 2013 (http://www.linkiesta.it/italiano-sveglia). 496 Ibidem.

266

figure non ne voglio fare…497». Tuttavia, proprio l’intervista

rilasciata da Nardella a Linkiesta ha costretto il sito a rivedere

i propri piani. Alessandro Trevisani, autore del pezzo, aveva

infatti avvisato il numero uno di Italiano Sveglia che il

presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, Enzo

Iacopino, aveva iniziato a vigilare sull’attività del blog498. La

reazione di Nardella, arrivata tramite un post del 3 settembre

2013, è stata la sospensione della raccolta punti: «Carissimi

utenti, la redazione di Italiano Sveglia comunica con

rammarico che, da questo momento, non potremo più

accettare articoli e commenti da parte di utenti registrati e, di

conseguenza, assegnare punti e premi499». Meglio arrendersi,

piuttosto che iniziare una guerra contro l’Ordine dei

Giornalisti, l’opinione del blog: «il progetto Italiano Sveglia

ha deciso di tutelarsi e di tutelare soprattutto il titolare

dell'azienda che lo gestisce per evitare ripercussioni sulla sua

persona fisica e la sua attività imprenditoriale. Entrare in

meccanismi che portano a scontri con realtà come quella

dell'Ordine dei Giornalisti, casta che esiste solo in Italia e

sappiamo tutti perché, non conviene perché significherebbe

497 Ibidem. 498 «Il lavoro va retribuito. Inoltre la materia dei concorsi a premi è

disciplinata da una legge specifica (per creare un concorso ne va data

notizia ai ministeri dell’Economia e delle attività produttive, ndr), mi

auguro per lui che lo abbia fatto… Infine sarei curioso di capire se nella

vicenda sono coinvolti dei giornalisti», Ibidem. 499 Comunicato a tutti gli utenti di Italiano Sveglia: sospensione della

redazione di articoli e raccolta punti in italianosveglia.com, 3 settembre

2013,

(http://www.italianosveglia.com/comunicato_a_tutti_gli_utenti_di_italia

no_sveglia__sospensione_della_redazione_di_articoli_e_raccolta_punti-

b-29616.html).

267

andare oltre le nostra capacità500». La chiosa, invece, lasciava

dubbi sul proseguimento del progetto: «valuteremo come

riproporre la possibilità a tutti voi di partecipare con i vostri

contributi, per realizzare un'informazione libera.

Diversamente, come spesso succede in Italia, saremo costretti

a riproporre la nostra idea altrove, fuori dalle frontiere italiane

chiuse e bigotte501». Ipotesi, quella estera, che era già stata

avanzata nell’intervista per Linkiesta502. Invece, piuttosto che

chiudere i battenti, salutare l’Italia e provare l’avventura fuori

dai confini nazionali, Italiano Sveglia ha modificato il

proprio modello riproponendelo in una versione più asciutta:

niente più premi, ma solamente la possibilità di ottenere un

contratto a progetto. Ma prima di raggiungere l’agognata

soglia dei 20000 punti, tanti articoli non retribuiti, come da

prassi dell’editoria online. E’ forse lecito domandarsi se la

data del comunicato in cui è stata annunciata la sospensione

del sistema dei premi (3 settembre 2013), sia solamente una

coincidenza rispetto all’affermazione di Nardella

nell’intervista per Linkiesta: «Finora i nostri utenti sono

arrivati a vincere degli spazzolini, ma se vanno avanti così

farò fatica a dare tutti i premi. Insomma, a partire da

settembre potrei aver bisogno di sponsor, perché brutte figure

non ne voglio fare…503». Nessuna brutta figura, invece: il sito

è ancora attivo e un utente, pubblicando un paio di articoli al

500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 «Da quanto capisco, le innovazioni in Italia sono viste male, perciò è

logico che poi la gente se ne va all’estero… Ed è quello che farò anch’io:

al primo attacco che subisco me ne vado all’estero con la mia famiglia,

poi voi vi riempite di immigrati…». Trevisani A., “Se scrivi tanti articoli

ti regaliamo uno spazzolino” in linkiesta.it, 25 luglio 2013 (cit.) 503 Ibidem.

268

giorno per due anni, può ancora ottenere un contratto di

collaborazione a progetto di 6 mesi per la redazione di articoli

sul network Italiano Sveglia. Premiarsi scrivendo è ancora

possibile (figura 27).

(figura 27 – il banner di Italiano Sveglia)

269

4.4 Scrivere gratis: il giornalismo online non

retribuito

Esiste infine un’ultima forma di collaborazione che non

prevede alcun tipo di compenso. Scrivere gratuitamente su

Internet è un fenomeno in continua espansione che coinvolge

tanto la piccola quanto la grande editoria online504, tanto i

blog quanto le testate regolarmente registrate. Inoltre, al

contrario di come si potrebbe credere, non si tratta – lo si

vedrà più avanti – di una situazione unicamente italiana, ma

di un virus diffuso su scala internazionale. La navigazione

della Rete ha consentito di trovare diversi annunci di lavoro

che condividono caratteristiche comuni sia per quanto

concerne le richieste, sia per quanto riguarda invece ciò che

viene proposto in cambio. Per giustificare la mancanza di una

retribuzione, le aziende molto spesso enfatizzano la natura

primordiale del blog o della testata di turno, promettendo un

eventuale compenso futuro vincolato alla crescita del sito.

«Blog emergente attivo a livello nazionale da oltre 4

anni, con un buon numero di visite cerca

collaborazione per la stesura degli articoli da

pubblicare.

Il candidato ideale dovrà visitare costantemente le

principali fonti d'informazione (tgcom mediaset,

eurosport yahoo, ansa, adnkronos, games.it, la

repubblica, etc.), leggere velocemente le notizie che

sembrano più interessanti per il grande pubblico, e

504 Si pensi al caso citato dell’Huffington Post.

270

riscriverle sotto forma di articoli di una lunghezza di

almeno 300 parole

Al momento sono particolarmente interessanti le

seguenti tematiche:

sport (calcio e altri sport)

spettacolo

videogiochi

Moda

Salute e bellezza

Non si tratta di copia/incolla di articoli altrui, ma di

scrivere i testi in modo originale mantenendo gli stessi

concetti.

Inizialmente NON è prevista retribuzione. In base alla

crescita del blog con conseguenti introiti, all'impegno

dell'articolista sarà valutato un futuro compenso fisso.

Proprio per questo non si richiede impegno costante

(circa 4/5 articoli a settimana se possibile) ma è

richiesta la massima serietà.

Se interessati, dovrete inviare un articolo di prova ed

effettuare periodo di valutazione di sette giorni per di

entrare a far parte dello staff505».

«Un Ambizioso progetto per giovani che vogliono

dare voce alla propria "mano".

505 Il titolo dell’annuncio è «Articolisti e collaboratori per

blog di notizie».

271

L'offerta consiste nell'offrire a giovani aspiranti

giornalisti anche senza esperienza, l'opportunità di

cimentarsi nel ruolo di redattore, con la massima

flessibilità.

Il nostro network si occupa di:

-Mondo Mobile ( Android, Tablet, ecc)

-Apple (iPhone,iPad, Mac ..)

-Calcio

Inizialmente il lavoro non sarà retribuito, ma se

riusciamo a trovare un buon numero di collaboratori

che ci permettono di andare avanti riusciremo presto

a retribuire tutti i collaboratori506».

In questi casi la promessa di un compenso futuro assume

caratteri aleatori. Non vengono mai esplicitate chiaramente

né la condizione che deve essere raggiunta affinché la

collaborazione muti da gratuita a retribuita, né l’ammontare

dell’ipotetico compenso di cui sopra. In questi termini la

strategia delle aziende sembra principalmente atta a non

scoraggiare eccessivamente quei collaboratori meno propensi

a lavorare senza venire retribuiti. Altre offerte di lavoro non

prevedono neppure quest’orizzonte di speranza. La moneta

con cui gli editori intendono pagare il lavoro svolto dal

blogger, l’articolista, l’aspirante giornalista di turno si chiama

visibilità. Scrivere per farsi conoscere, per far circolare il

506 Il titolo dell’annuncio è «Redattore, blogger , aspirante

giornalista, articolista».

272

proprio nome nei circuiti della Rete e riuscire in un futuro a

migliorare qualitativamente la propria posizione.

«TGC, nuovo portale che tratta di Street Style, Urban

Fashion e Made in Italy cerca collaboratori articolisti

capaci di scrivere articoli sul tema "sneakers".

Al momento non è prevista retribuzione, ma offriamo

visibilità ed esperienza.

Contattateci per ulteriori informazioni507».

«Ciao, se ti piace scrivere ma non hai la possibilità di

pubblicare i tuoi articoli potresti collaborare con noi

inserendo i tuoi articoli nel blog del nostro portale di

prenotazione turistica in Puglia.

Non abbiamo la possibilità di riconoscerti un

compenso, avrai comunque la visibilità dei tuoi

articoli firmati sul blog del portale.

Gli argomenti sono vari: la Puglia, il Salento, un

evento o manifestazione, ecc. quello che ti viene in

mente!

Grazie in anticipo per l'interesse508».

507 Il titolo dell’annuncio è «Articolista blog Urban

Fashion». 508 Il titolo dell’annuncio è «Articolista collaborazione

gratuita».

273

«Cercasi Articolista per blog di Grafica avviato da

poco. Vi porterà via poco tempo (1/2 articoli a

settimana) e in più avrete la possibilità di farvi

conoscere (ogni articolo avrà la vostra firma).

Il blog in questione è: GraficAzzardo.it.

Per qualsiasi altra informazione non esitate a

contattarmi!

[…]509».

«Ciao a tutti.

Cerchiamo articolisti per Prima Pagina on line,

giornale gratuito con un'unica pagina, la prima

appunto. Il giornale esce dal lunedì al venerdì tranne i

weekend. Gli articoli sono sintetici ma essenziali. Le

comunicazioni con la redazione avvengono tramite

mail e social network. Al momento non sono previsti

compensi poiché non ci sono rientri economici. La

testata è iscritta al tribunale di Bologna. Vi offriamo

la possibilità di fare un'esperienza costante nonché la

possibilità di essere letti da circa 700 persone al

giorno.

Le sezioni del nostro giornale sono: attualità, cultura

e spettacolo, moda, sport, cinema, scienza e

tecnologia.

Per altre informazioni, non esitate a contattarci

[…]510».

509 Il titolo dell’annuncio è «Articolista Blog Grafica». 510 Il titolo dell’annuncio è «Articolisti per Prima Pagina on

line».

274

Come è stato precedentemente visto esaminando il caso

dei blogger dell’Huffington Post, la visibilità è considerata un

compenso di valore non solo nell’ambito della piccola

editoria, ma anche per quanto concerne colossi come il sito

americano. Potrebbe risultare un esercizio banale sottolineare

come la visibilità non consenta né di pagare un affitto, né

tantomeno di fare la spesa in un supermercato. A fronte di

offerte non irrinunciabili, le richieste degli editori risultano

spesso tutt’altro che modeste. Serietà, puntualità, esperienza,

conoscenza di una lingua straniera, conoscenze delle

tematiche trattate, titoli di studio, disponibilità in determinate

fasce orarie e garanzia di un certo numero di articoli tra i vari

requisiti che le aziende richiedono.

«Stage gratuito e volontario:

L'offerta è indirizzata ad operatori culturali o grandi

appassionati della Canzone italiana d'autore, Jazz,

Blues, R&B.

Profilo della candidata/o ideale:

1) Articolista

2) Videoreporter al femminile

* Curiosità Intellettuale

* Residente a Roma

* Età superiore ai 23 anni

* Ottima capacità espositive

275

* Corretto uso dei sistemi informatici

* Cultura musicale e generale.

* Minima esperienza come articolista.

* Telegenia e dizione italiana corretta (prof.2)

* Conoscenza video/foto

* Gradita fotovideocamera (prof.2)

Verranno valutati soltanto i Cv inviati attraverso la

sezione WORK del nostro sito vivalaradio.fm

Le candidature provenienti dalle altri comuni e prive

dei requisiti richiesti verranno cestinate.

Astenersi soliti perditempo, assoluta serietà511».

«Social Media Life, magazine online specializzato su

tematiche legate ai Social Network, è alla ricerca di

nuovi collaboratori. Nello specifico stiamo valutando

profili di Web Copywriter e Blogger per la redazione

di articoli relativi ai Social Media. Ci rivolgiamo a

persone appassionate di Web, Marketing e

Comunicazione che abbiano competenze redazionali

e una particolare inclinazione verso il mondo dei

Social Network.

L’attività potrà essere svolta in remoto e in totale

autonomia.

511 Il titolo dell’annuncio è «Viva La Radio! Network 2014

redazione Roma».

276

Non è prevista alcuna forma di Retribuzione al

momento.

Requisiti obbligatori:

- Ottime capacità scritturali

- Conoscenza approfondita dei principali Social

Media

- Tempestività nella pubblicazione delle ultime news

Requisiti preferenziali:

- Conoscenza della lingua inglese

- Conoscenza di Social Media nuovi o poco conosciuti

(Pinterest, Ning, QQ, Picotea) […]512».

La navigazione della Rete ha consentito di appurare come,

in ambito editoriale, le offerte non retribuite rappresentino

una prassi consolidata. La ricerca ha inoltre evidenziato come

spesso le richieste delle aziende siano tutt’altro che

uniformate al compenso proposto. Si cercherà ora di

delineare le ragioni che spingono molte persone, soprattutto

giovani, ad accettare queste condizioni e a scrivere gratis.

Non solo, scrivere gratis per aziende che traggono profitti

anche grazie a quel lavoro non retribuito.

512 Il titolo dell’annuncio è «Blogger Articolista per

magazine online».

277

4.4.1 L’analisi del fenomeno: per quali ragioni si scrive

gratis

«Se ti senti una ostetrica che partorisce un nuovo

giornalismo, sappi che sei solo il becchino che sta scavando

la fossa a quello vecchio513». Con queste parole lo scrittore e

giornalista Carlo Gubitosa sintetizza il proprio appello rivolto

a tutte quelle persone che accettano di scrivere gratuitamente

sul Web contribuendo nella maggior parte dei casi ai

guadagni di terzi. Il dibattito a riguardo è vivace e di

straordinaria attualità. In queste pagine si cercherà di

delineare le ragioni che possono spingere blogger, articolisti

o aspiranti giornalisti ad offrire i propri contributi

gratuitamente.

Un idraulico riparerebbe un tubo senza essere pagato? In

un ristorante, un cameriere ci servirebbe gratuitamente? Uno

chef preparerebbe i diversi piatti se non fosse retribuito? Se

portassi la mia macchina da un meccanico e mi rifiutassi di

pagare, quale sarebbe la sua reazione? E’ evidente come

queste domande siano puramente retoriche: nessuno tra

questi lavoratori offrirebbe i propri servizi senza percepire un

compenso. L’idea di lavorare gratis verrebbe non solo

respinta con sdegno, ma tacciata di sfruttamento, se non

addirittura di schiavismo. In questo quadro il giornalismo, ma

più in generale la prestazione intellettuale, sembra vivere

secondo logiche proprie, del tutto slegate da quelle

appartenenti alle altre professioni. Affinché un accordo si

513 Gubitosa C., Appello a chi scrive gratis tanto per farsi leggere: e' il

momento di smetterla in giornalismi.info, 26 settembre 2012

(http://web.giornalismi.info/gubi/articoli/art_9600.html).

278

concretizzi è evidente come siano necessarie due condizioni:

deve esserci qualcuno che lo propone da una parte e qualcuno

che lo accetta e sottoscrive dall’altra. Nello specifico, se

esiste il fenomeno della scrittura non retribuita, si presuppone

che esistano delle realtà editoriali che propongono di lavorare

gratuitamente e dei collaboratori che accettano quest’offerta.

In assenza di una di queste due precondizioni, il fenomeno

non può divenire reale514. Di fronte ad una realtà che appare

bizzarra, specie in relazione alle logiche che regolano le altre

professioni, nascono due domande. Rispondere al primo

interrogativo non è complicato. Perché le aziende non offrono

una retribuzione? Ritengo che anche coloro completamente

all’oscuro delle logiche editoriali online possano trovare una

risposta sfruttando la logica. L’obiettivo di tutte le aziende

con scopo di lucro è quello di massimizzare le entrate. Per

poter perseguire questo scopo la strategia primaria è quella di

ridurre quanto più possibile le spese e tra le voci in cui è

possibile effettuare il maggior numero di tagli spicca il

comparto umano. Tuttavia, affinché questa strategia si

concretizzi, ad esempio tramite un’offerta di lavoro che non

preveda una retribuzione, è necessario – come già evidenziato

– che ci siano delle persone disposte a lavorare (è importante

utililizzare questo verbo) gratis. Sintetizzando: perché le

aziende editoriali non offrono una retribuzione? Perché il loro

obiettivo è massimizzare le entrate riducendo i costi e perché

possono sfruttare una manodopera che non viene retribuita.

Rispondere alla seconda domanda risulta invece molto più

complesso. Perché molti tra blogger, articolisti, giornalisti

(aspiranti e non) scrivono gratis? Quali sono le ragioni che

514 Un’altra precondizione potrebbe essere l’assenza di una legislazione

che proibisca il lavoro non retribuito.

279

spingono queste persone a dedicare il proprio tempo e le

proprie energie verso un’occupazione che non produce alcun

guadagno? Ritengo che le ragioni siano molteplici e che a

volte più di una concorra nel rendere questo fenomeno una

realtà tangibile. Nell’elencare e analizzare le diverse ragioni

che possono partecipare al consolidamento di questo

processo si seguirà un ordine che muoverà dall’ambito

professionale verso un contesto e un orizzonte di attese

sempre più amatoriale.

La prima ragione è rappresentata dal sempre agognato

tesserino professionale, nello specifico quello da pubblicista.

Si è già visto come affinché la collaborazione svolta venga

riconosciuta dall’Ordine dei Giornalisti sia necessario – tra le

altre cose – che il lavoro sia retribuito. L’apparente

contraddizione viene risolta dall’illegalità in cui si muove

questo aspetto dello scrivere gratuitamente su Internet.

Esistono due scenari in questo senso. Da una parte la proposta

che mira all’inganno totale: gli articoli non vengono retribuiti

e non si potrà mai ottenere il tesserino. Dall’altra parte la

collaborazione consente, nonostante i pezzi non vengano

pagati, di presentare la necessaria documentazione all’Ordine

tramite l’emissione di fatture false. Un esempio di quanto

appena descritto può essere un annuncio di questo tipo

pubblicato su kijiji.it:

«Testata online femminile cerca in tutta Italia

aspiranti redattori/articolisti AMBOSESSI.

La risorsa si occuperà di redigere articoli 1/2 volte a

settimana (mattina o pomeriggio secondo

280

disponibilità) e lavorerà in sinergia con un team di

esperti e professionisti del settore.

REQUISITI INDISPENSABILI:

-voglia di cimentarsi con una realtà dinamica, in

costante crescita;

-ottima padronanza della lingua italiana;

-disponibilità (eventuale) a seguire direttamente

eventi e convegni;

-preferibile conoscenza tecniche SEO per

implementazione testi su Internet e motori di ricerca

(inserimento banner, iperlink, ecc).

La collaborazione è da intendersi a TITOLO

GRATUITO. Possibilità di conseguire il tesserino

dopo periodo di prova515».

Un’altra ragione che persuade molti aspiranti giornalisti ad

accettare proposte di collaborazione gratuita è rappresentata

dalla speranza di vedere la propria situazione come

temporanea. In quest’ottica il lavoro non retribuito è visto

come un investimento per il futuro, un sacrificio necessario

per una fortuna da ottenere un domani. Delle fatiche che

verranno un giorno ricompensate. Sono stati esaminati nel

paragrafo precedente alcuni annunci che promettono una

retribuzione futura a fronte di una mancanza momentanea. In

realtà è stato analizzato come queste prospettive siano

piuttosto nebulose, prive di un carattere definito e di un

qualsiasi punto fermo. In tal senso il leitmotiv è: “quando il

515 Il titolo dell’annuncio è «Giornalisti/articolisti».

281

sito crescerà, i collaboratori verranno retribuiti”. Proposta che

riesce in ogni caso ad esercitare un certo fascino su diverse

persone516. Fare esperienza e arricchire il proprio curriculum

vitae è un altro motivo che spinge verso il lavoro non pagato.

Della serie: “tanto la disoccupazione quanto l’occupazione

non fruttano denaro, ma nel secondo caso perlomeno viene

impreziosito il curriculum”. Un ottimo biglietto da visita per

tutti quegli editori che sono poco interessati alla qualità e

molto attenti ai costi: l’aver lavorato gratis sarà senza dubbio

presente tra i requisiti preferenziali. Tra le ragioni principali

che possono essere delineate per spiegare il fenomeno del

giornalismo non retribuito è il valore inestimabile che è stato

assegnato alla visibilità sul Web. Nel paragrafo precedente è

stato visto come molte realtà editoriali sottolineino come la

mancanza di un riitorno economico venga compensata dalla

visibilità offerta dal blog o la testata di turno. Richiamando

ancora una volta il celebre caso dell’Huffington Post, è stato

visto come la visibilità fosse considerata la moneta attraverso

cui venivano pagati i numerosissimi blogger che offrono i

loro contributi gratuitamente. Naturalmente, con il crescere

dell’importanza e della fama di un sito, cresce il valore della

moneta stessa – la visibilità – offerta dall’editore. Avere una

vetrina dove mettere in mostra il proprio operato viene vista

come una grande opportunità per ottenere guadagni futuri, sia

inerentemente all’ambito giornalistico – farsi conoscere,

ottenere incarichi -, sia per sponsorizzare attività esterne

come ad esempio la pubblicazione di un libro. Sin qui si è

rimasti nell’ambito della professionalità, situazioni che

vedono coinvolte persone che per differenti ragioni vedono la

516 A tal proposito è sufficiente sfogliare alcuni annunci presenti su siti

come AlVerde.net o GiorgioTave.it e notare quanti utenti si propongano

per collaborazioni improntate sulla prospettiva di una retribuzione futura.

282

collaborazione gratuita come necessaria per il

raggiungimento di altri obiettivi (il tesserino da pubblicista,

una retribuzione futura, l’esperienza, la visibilità). Esistono

tuttavia realtà che poggiano le proprie radici in terreni

maggiormenti amatoriali, dove la scrittura è considerata non

un lavoro ma un hobby, o piuttosto una passione da coltivare

ad ogni costo. In questi casi una componente essenziale, oltre

a quella del desiderio di condividere le proprie opinioni e

idee, è rappresentata dal narcisismo. Il fascino di vedere la

propria firma in calce ad un articolo pubblicato su un blog o

una testata, la soddisfazione di ricevere commenti, essere

condivisi sui social network, fare collezione di “mi piace” su

Facebook sono motivi che contribuiscono a ingolosire quella

fetta di collaboratori meno interessati all’aspetto

professionale della scrittura giornalistica. Come sostiene

Carlo Gubitosa:

«Il profilo che mi viene in mente non è quello del

Narciso che si compiace di sé stesso, ma della persona

con un ego talmente smisurato da avere bisogno di

continue conferme. Cioè, se io sono una persona

osannata e celebrata, se io sono continuamente

dopato, se la mia autostima è continuamente

alimentata da stimoli che mi arrivano dall’esterno; nel

momento in cui passa una settimana senza che mi

arrivi un complimento, ma anche un insulto di un

avversario politico, nel momento in cui passa una

settimana senza che io mi senta al centro della scena,

purtroppo – siccome siamo essere umani – crolla

anche la fiducia che ho di me stesso, l’autostima e

vado di nuovo in ricerca di quella visibilità che mi

283

permette di mantenere i normali livelli di attenzione

su di me517».

Per chiarire ulteriormente le ragioni che spingono blogger

e articolisti ad offrire il proprio lavoro gratuitamente, sarà

interessante riportare alcune testimonianze trovate in Rete.

Scrive Vincenzo Iurillo su IlFattoQuotidiano.it:

«C’è chi scrive gratis o quasi perché in fondo in fondo

pensa che il giornalismo sia una missione sacra che

non può essere sporcata con una cosa vile come il

denaro. Senza capire che senza le spalle larghe di una

tranquillità economica non si possono intraprendere

sacrosante campagne stampa, qualsiasi esse siano.

C’è chi scrive gratis perché si sente sufficientemente

gratificato dal sentirsi dire quanto è bravo, senza farsi

sfiorare dal dubbio che forse gli dicono che sei bravo

solo per farlo continuare a lavorare gratis.

C’è infine chi scrive gratis solo perché gli piace dire

in giro che è un giornalista. E’ il peggiore, non c’è

verso di guarirlo. Forse può riuscirci soltanto

qualcuno davvero bravo518».

517 Questo è un estratto di un’intervista che ho fatto a Carlo

Gubitosa. 518 Iurillo V., I ‘giornalisti’ a cui piace (o conviene)

scrivere gratis in ilfattoquotidiano.it, 30 marzo 2012

(http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/30/troppi-

giornalisti-piace-conviene-scrivere-gratis/).

284

In risposta al post di Carlo Gubitosa citato in precedenza e

che verrà ripreso più avanti, Valentina Orsini, una giovane

blogger romana, ha pubblicato una replica sul suo blog

Criticissimamente. Il pezzo sottolinea come ai blogger sia

negata la possibilità di scegliere e come coloro che

desiderano scrivere siano costretti ad accettare di sottostare

ad accordi non retribuiti.

«Se io avessi davvero la possibilità di fare una

scelta, di certo non farei quella della povera blogger

che scrive per passione e non scenderei a

collaborazioni misere e vergognose con testate o siti

bombardate da annunci pubblicitari. Gli stessi che

sappiamo benissimo, "finanziano". L'appello che lei

fa non ha ragione. Proverei a invertire le parti. Date a

noi l'opportunità di lanciare un appello, dateci la

possibilità di scegliere. Me lo trovi lei un sito o una

testata che paghi i miei pezzi...io sono qui. Il mio

nome e cognome ce l'ha. Nel frattempo, sà com'è, IO

VOGLIO SCRIVERE. E non smetto certo perché

qualcuno dall'alto trovi vergognoso e immorale

questo mio bisogno e questa mia ambizione con cui

vado avanti, nonostante tutto, nonostante

"NIENTE"519».

519 Orsini V., Caro Gubitosa, il tuo appello a chi scrive

gratis, non mi sta bene. Ti spiego perché in

criticissimamente.blogspot.it, 27 settembre 2012

(http://criticissimamente.blogspot.it/2012/09/caro-

gubitosa-il-tuo-appello-chi-scrive.html).

285

Questo esempio mostra come spesso sia il semplice

desiderio di scrivere a guidare alcuni blogger verso la

collaborazione gratuita. Il problema in tal senso non è

scrivere gratuitamente, ma scrivere gratuitamente per realtà

che traggono un profitto da quel lavoro non retribuito. La

testimonianza appena riportata si inserisce anche nel solco del

giornalismo visto come il “lavoro dei sogni”. «La storia dei

sogni, il lavoro dei sogni è una stronzata. Io faccio il mio

lavoro ed alle volte faccio delle cose assolutamente pallose,

ma io ci devo campare, il lavoro non è un hobby. Non credo

che per inseguire il lavoro dei tuoi sogni puoi ritrovarti a 40

anni ancora a scrivere gratis520». Un’altra testimonianza

interessante è quella della blogger Sara Rocutto che affida ad

un post dall’emblematico titolo «Ho scritto un nuovo post:

gratis» la sua posizione riguardo allla scrittura non retribuita

sul Web. «Ebbene si ho scritto un nuovo post sul blog che ho

su Linkiesta. L’ho scritto gratis e l’ho corredato pure di foto,

scattata da me521», sentenzia nell’incipit la blogger italiana.

Sara Rocutto ritiene che non ci sia differenza tra la

pubblicazione dei suoi articoli sul suo stesso blog e la

pubblicazione su altre piattaforme, ma sottolinea come la

scrittura non sia la sua fonte di sostentamento522. Di

520 Questo è un estratto di una intervista che ho fatto a Silvia Bencivelli. 521 Rocutto S., Ho scritto un nuovo post: gratis in

dopolapioggia.wordpress.com, 3 ottobre 2012

(http://dopolapioggia.wordpress.com/2012/10/03/ho-scritto-un-nuovo-

post-gratis/). 522 «E certo qualcuno potrà obbiettare che posso benissimo farlo sul mio

solito blog: cosa cambia? Oppure mi si potrebbe ribattere che beh, perché

non mi dovrebbero pagare per i miei pensieri? Posso capire se questi

discorsi li fanno gli “esperti di comunicazione” i “giornalisti

professionisti”, i web expert per i quali anche scrivere un tweet è un

286

conseguenza, non è il guadagno ad interessare la blogger:

«scrivo per fare si che una storia trovi il suo spazio, abbia vita,

scrivo perché una mia opinione trovi confronto con altre,

scrivo come esercizio di stile (anche) […]. Scrivo per far sì

che qualcosa che interessa a me trovi spazio anche nel mondo

di altri. E proprio non capisco come così facendo si svilisca

una professione523». Ma in realtà, Sara Rocutto non svolge la

professione giornalistica in modo continuativo, ma saltuario,

senza scadenze di alcun tipo524. La situazione cambia

drasticamente nel momento in cui il lavoro viene svolto

secondo logiche diverse, come sottolinea la testimonianza

della blogger LaStancaSylvie sul suo blog Downshifting

Baby:

«Niente soldi ma mille scadenze da rispettare. C’è

stata la neve e non l’ho vista perché stavo scrivendo

gratis per qualcuno che pensa che quello che stavo

facendo ha valore pari a zero.

Bene, con le occhiaie blu, il fidanzato triste e io per

nulla felice sebbene scrivessi, ieri ho inviato tre mail:

Ciao,

lavoro, ma io che nella vita guadagno da altre cose, beh, ho un altro punto

di vista». Ibidem. 523 Ibidem. 524 «Certo, ci spendo tempo, ore a volte a scrivere e cercare, ma proprio

per questo scrivo quando voglio (una volta al mese) e finora quello che

voglio. Mi si ponessero delle regole diverse, dei paletti, beh riterrei la cosa

meno interessante. Avessi la percezione che grazie a me altri diventano

ricchi cambierei idea. Ma finché le cose stanno come stanno non capisco

dove stia il problema». Ibidem.

287

sono troppo vecchia e troppo poco ricca per scrivere

gratis, se devo farlo lo faccio per me, sul mio blog

[…]525».

Un altro contributo interessante proviene da una

discussione nata su un forum, quello della nota webzine

musicale OndaRock. Il sito diretto da Claudio Fabretti è

aperto a collaborazioni esterne alla propria redazione: questo

qualora vengano soddisfatti alcuni requisiti e si accetti di

scrivere senza alcuna retribuzione.

Il topic in questione è intitolato «Perchè Scrivere

Recensioni Gratis?526» e secondo le intenzioni dell’autore la

discussione al suo interno verte verso i motivi che spingono

gli utenti a scrivere recensioni musicali senza ricevere un

compenso. I due punti su cui si basa la posizione dell’utente

che ha dato il via al dibattito sono i seguenti: in primo luogo

egli ritiene che «se un collaboratore si facesse pagare, si

rischierebbe di parlare solo di certe etichette/uffici stampa e

magari parlare bene anche se non lo meritano527». Secondo

l’utente la non retribuzione garantirebbe quindi l’integrità di

quanto viene scritto, ribaltando l’idea che la ricattabilità e la

corruttibilità siano invece minacciate – oltre che dall’etica e

dalla morale individuale – dalla solidità economica. Inoltre,

525 Scrivere Gratis o della Capacità di Incasinarsi Sempre

la Vita in downshiftingbaby.wordpress.com, 28 febbraio

2012

(http://downshiftingbaby.wordpress.com/2012/02/28/scriv

ere-gratis-o-della-capacita-di-incasinarsi-sempre-la-vita/). 526 http://forum.ondarock.it/index.php?/topic/18057-

perche-scrivere-recensioni-gratis/ 527 Ibidem.

288

l’autore del topic sostiene che la retribuzione andrebbe contro

lo spirito polifonico della Rete e delle webzine, che mira a

dare voce a tutti coloro che solitamente sono tagliati fuori dai

cosiddetti canali ufficiali. Altri utenti sottolineano invece il

carattere narcisistico della decisione528. L’intervento del

direttore del sito merita di essere menzionato: «Secondo me

la differenza sostanziale, finora, è che chi dirige riviste

cartacee spesso qualcosa ci guadagna […] e sfrutta la

manodopera a basso costo (o a zero costo) dei recensori; chi

dirige riviste online, come nel nostro caso, non percepisce

guadagni e quindi lavora gratis come gli altri. Non è tanto, ma

non è neanche poco, come differenza529». In realtà, pur non

disponendo dei dati di traffico, è possibile sostenere come

OndaRock sia un sito che ha scopo di lucro e che ha introiti

pubblicitari quantomeno derivanti dai banner che compaiono

tanto nella pagina principale, quanto in quelle secondarie e

che sponsorizzano importanti aziende. Ma secondo il

direttore del sito la webzine «è un misto di passione,

masochismo, narcisismo e genuino desiderio di informare in

modo libero530».

Come è stato visto, passione, narcisismo e desiderio di

partecipare all’informazione sul Web sono tra i motivi che

spingono – in particolar modo coloro meno attratti dalla

prospettiva professionale del giornalismo – a scrivere

528 «Boh forse perchè in molti lo vedono più come un hobby, un piacere...

conte di più la narcisistica condivisione delle proprie idee su un disco che

non il possibile guadagno che potrebbe esserci dietro. E chissà magari nel

momento in cui diventasse un lavoro commissionato forse verrebbe meno

anche il piacere». O ancora: «Quello che mi spinge è un'esigenza quasi

fisica di condividere ciò che mi piace». Ibidem. 529 Ibidem. 530 Ibidem.

289

gratuitamente online, favoriti dalle potenzialità della Rete. Il

masochismo, tuttavia, non è elemento di minore impatto nel

momento in cui la collaborazione gratuita viene svolta presso

un editore che ha come scopo ultimo il guadagno e che sfrutta

quella manodopera per i propri interessi.

4.4.2 Perché scrivere gratis danneggia la professione e

inquina il mercato

«Dopo il dubbio, ecco l’inganno: la favola della passione-

per-il-lavoro a volte conduce a una falsa morale, quella per

cui si può anche lavorare gratis. E ci si casca, oh se ci si casca.

Perché si pensa: il mio lavoro è così bello che lo farei gratis.

Ennò! Fermo, fermo e non ti muovere. Tu non devi fare niente

gratis! È difficile, lo so, ma gratis niente. Niente531». Apre

così il suo articolo pubblicato su Linkiesta Silvia

Bencivelli532, intitolato emblematicamente «La generazione

“lavoro gratis per avere una vetrina”». Il proliferare del

fenomeno del lavoro non retribuito ha mosso alcuni esponenti

– non troppi, a dire il vero – dell’universo giornalistico a

531 Bencivelli S., La generazione “lavoro gratis per avere una vetrina” in

linkiesta.it, 10 giugno 2013 (http://www.linkiesta.it/lavorare-gratis). 532 L’articolo raccoglie degli estratti del libro Cosa intendi per domenica?

– La mia (in)dipendenza dal lavoro, edito da LiberAria editrice. Silvia

Bencivelli è nata nel 1977. È laureata in medicina: giornalista scientifica

freelance, conduttrice radiofonica e saggista. Ha collaborato con la

trasmissione di Rai 3 Presa diretta e con altri programmi Rai ed è membro

del board di SWIM (Science writers in Italy). Ha pubblicato Perché ci

piace la musica (Sironi 2007, 2012) e Il sesso a test (Alpha test editore

2008). Fonte: Linkiesta.

290

parlare apertamente contro questa pericolosa deriva. Silvia

Bencivelli fa parte di questo gruppo piuttosto ristretto, in cui

entra a pieno merito anche Carlo Gubitosa, già citato in

apertura del precedente paragrafo. Il suo post intitolato

«Appello a chi scrive gratis tanto per farsi leggere: e' il

momento di smetterla» e pubblicato sul suo sito

giornalismi.info ha rappresentato una dura presa di posizione

contro tutti coloro che scrivono in Rete gratuitamente533.

Entrambi i pezzi appena citati muovono dall’assunto che il

problema non sia semplicemente scrivere online senza essere

retribuiti, ma farlo per aziende che generano un profitto da

quel lavoro non pagato. Il punto, che potrebbe apparire come

dato per scontato, è di cruciale importanza. In tal senso il caso

dell’azione legale dei blogger guidati da Jonathan Tasini

contro l’Huffington Post è emblematica. Queste persone

avevano deciso liberamente di offrire i propri contributi

gratuitamente al colosso americano, ma una volta resisi conto

del profitto che il loro lavoro non retribuito aveva partecipato

a generare – la vendita per oltre 300 milioni di dollari ad AOL

-, hanno compreso che la visibilità offerta dal sito non poteva

più essere una moneta sufficiente. In questo senso, le ragioni

analizzate nel paragrafo precedente che spingono blogger,

articolisti o giornalisti a concedere i propri contributi senza

ricevere un compenso passano in secondo piano; qualsiasi sia

la ragione, è necessario focalizzarsi sulle conseguenze

generate da questo comportamento534. Tanto Carlo Gubitosa

quanto Silvia Bencivelli inquadrano alla perfezione il

problema nei loro scritti, sottolineando come il danno per

533 Come si è già visto non sono mancate le reazioni polemiche in risposta

a quanto scritto da Gubitosa. 534 Questo tralasciando per un momento l’inalienabile dignità del lavoro

che inevitabilmente risulta svilita da questo fenomeno.

291

ogni scelta individuale sia poi collettivo. «Anche a me –

scrive Gubitosa – e' capitato di scrivere gratis per questo

maledetto prurito alle mani che mi perseguita da una ventina

d'anni, e perche' il piacere di pubblicare un editoriale su un

quotidiano nazionale puo' mettere in ombra il compenso che

ne corrisponde. Ma poi ho cominciato a interrogarmi sulla

responsabilita' sociale delle mie azioni535». La responsabilità

di aver contribuito al crollo del valore della professione che

si è verificato negli ultimi anni, a cui hanno compartecipato

diversi fattori. Da un sistema d’accesso alla professione che

andrebbe riformato passando per lo sviluppo del Web, sino

ad arrivare a editori interessati principalmente (se non

esclusivamente) alla riduzione dei costi e a concludere con

tutte le persone che per svariate ragioni hanno accettato di

lavorare gratis. Affermazioni quali «me ne frego se non mi

pagano. finché posso esprimere ciò che penso senza vincoli,

e finché qualcuno mi legge e magari apprezza quello che

scrivo536», non sono eticamente e socialmente accettabili. Il

perché si cela dietro ad una semplice legge di mercato che

Silvia Bencivelli descrive in maniera magistrale nel suo

articolo pubblicato su Linkiesta.

«Se accettassi, farei molto male al mio investimento

numero uno, cioè al mio lavoro. E farei un danno

importante al mercato. Perché lavorando gratis è quasi

certo che si venga scelti senza una valutazione della

professionalità, ma solo per il prezzo. In questo modo

si innesca un meccanismo viziato di ribasso continuo

535 Gubitosa C., Appello a chi scrive gratis tanto per farsi leggere: e' il

momento di smetterla in giornalismi.info, 26 settembre 2012 (cit.). 536 Ibidem.

292

e implacabile della qualità del lavoro, a detrimento di

chi quel lavoro lo fa e di chi dovrebbe goderne i frutti.

Mi spiego.

Un editore poco interessato alla qualità di quel che

pubblica, tra un lavoratore bravo che costa X e uno

medio che costa X/2, preferirà quest’ultimo. E il costo

di quel servizio sarà fissato a X/2, così come,

probabilmente, la sua qualità. Se l’editore deciderà di

abbassarlo a X/3, il lavoratore medio potrà fare due

cose: accettare e quindi essere complice

dell’abbassamento del valore di quella prestazione. O

rifiutare, lottando per il mantenimento del valore a

X/2, che peraltro è comunque bassino visto che

eravamo partiti da X.

Se poi ci sarà uno stagista con esperienza (figura

professionale sempre più diffusa, corrispondente a un

lavoratore intorno ai 28 anni plurititolato e ricco di

famiglia) che accetterà di farlo gratis, il valore di

quella roba diventerà zero. Il primo lavoratore e il

secondo si troveranno disoccupati e soprattutto

vedranno il loro lavoro svalutarsi fino allo zero: quel

patrimonio di competenze e credibilità non varrà più

niente, nessuno pagherà più per le loro prestazioni. E

il pubblico avrà un servizio di qualità più bassa537».

Gubitosa pur non ritenendo coloro che hanno accettato o

accettano di scrivere gratis come i principali colpevoli della

537 Bencivelli S., La generazione “lavoro gratis per avere

una vetrina” in linkiesta.it, 10 giugno 2013 (cit.).

293

situazione538, non li assolve. «Persone che amano

considerarsi "scrittori puri" amanti dell'arte per l'arte e lontani

dalla preoccupazione della vil pecunia, mentre in realtà sono

solo pedine di un nuovo tecnocapitalismo che monetizza sugli

aggregatori la tua voglia di farti leggere […]539». Ma c’è chi

respinge ogni accusa, come Francesco Sellari, che nel suo

blog Postille risponde a Gubitosa: «Ho scritto gratis e non mi

sento di consigliare a nessuno di farlo. Ma non mi va di

sparare a zero, con sprezzo e sarcasmo, su chi oggi, per le

motivazioni più disparate (ego, passione, gratificazione,

competenze inespresse, volontà di trattare temi di nicchia e

poco seguiti, desiderio di fare informazione libera e

indipendente), accetta collaborazioni gratuite. Per me il

nemico sta da un’altra parte540». Il “nemico” secondo Sellari

è il datore di lavoro, l’editore: «Nessuno mi venga a dire che

anche per colpa mia, per il fatto di aver accettato di scrivere

gratis, oggi i “colleghi” se la passino male. Io non mi sento d

aver affossato i precari, né di essere stato un crumiro541».

538 «Non credo che la responsabilita' piu' grave sia quella di chi ragiona

come fai tu e come facevo anch'io in passato con responsabilita' che

all'epoca non percepivo: le omissioni piu' pesanti sono quelle di un

sindacato che ha accettato un contratto di lavoro dove i freelance del web

semplicemente non esistono, lo stesso sindacato che dovrebbe denunciare

per esercizio abusivo della professione i portali registrati come testate

giornalistiche che fanno profitti pubblicitari o di altra natura sfruttando il

lavoro gratuito di anime belle». Gubitosa C., Appello a chi scrive gratis

tanto per farsi leggere: e' il momento di smetterla in giornalismi.info, 26

settembre 2012 (cit.). 539 Ibidem. 540 Sellari F., Dello scrivere gratis e dei miei nemici in

postille.wordpress.com, 29 settembre 2012

(http://postille.wordpress.com/2012/09/29/dello-scrivere-gratis-e-dei-

miei-nemici/). 541 Ibidem.

294

Eppure, senza per questo motivo decolpevolizzare chi sfrutta,

come minuziosamente spiegato da Silvia Bencivelli, i

lavoratori hanno contribuito ad inquinare il mercato e di

conseguenza a dequalificare la professione542. Secondo

Sellari non è così e lascia spazio ad un’ipotesi differente:

«Non posso neanche escludere che gli editori potrebbero

scegliere di continuare a risparmiare sul costo delle risorse

umane, aumentando il carico di lavoro sui giornalisti in

organico, pregiudicando ulteriormente la qualità

dell'informazione543». La domanda posta da Sellari in

conclusione del suo post è legittima ed è il punto cruciale

intorno a cui ruota la questione, il nodo che andrebbe sciolto:

«come far si che chi vuole fare questo mestiere non sia

costretto ad accettare di lavorare gratis?544». Una risposta

secca e risolutrice con ogni probabilità non esiste, poiché

molte sono le azioni che andrebbero portate avanti. In primo

luogo una riforma del sistema di accesso alla professione,

accompagnata da un controllo rigido del sindacato sul

fenomeno. Tuttavia, ritengo che qualcosa possa essere fatto

anche partendo dal basso; utilizzando le parole di Carlo

Gubitosa, «non mi illudo che si possa rispolverare la "lotta di

542 «Ragionamenti come quello che fai tu, e che purtroppo ho fatto anche

io in passato, hanno fatto crollare il valore della professione giornalistica

negli ultimi 5 anni da 100 euro a pezzo (quanto prendevo io nel 2003 per

scrivere articoli da freelance sul sito di un grande gruppo editoriale) a

zero», scrive Carlo Gubitosa rivolgendosi ad un blogger che scrive senza

essere retribuito. Gubitosa C., Appello a chi scrive gratis tanto per farsi

leggere: e' il momento di smetterla in giornalismi.info, 26 settembre 2012

(cit.). 543 Questa affermazione è tratta dall’intervista che ho realizzato a

Francesco Sellari. 544 Sellari F., Dello scrivere gratis e dei miei nemici in

postille.wordpress.com, 29 settembre 2012 (cit.).

295

classe" per farsi valere come categoria professionale, ma

almeno si potrebbe concordare sul fatto che il lavoro gratuito

che genera profitto per altri è cosa negativa che non

danneggia solamente chi lo pratica545». Ad esempio, mi sono

imbattuto in una campagna di sensibilizzazione per il rispetto

dei lavori creativi chiamata #coglioneNo, portata avanti dal

collettivo Zero, un gruppo formato da tre ragazzi italiani che

attraverso il proprio manifesto si presenta così: «Zero perché

il mondo è finito e non ce ne siamo accorti. Perché è finita la

nostra fiducia nei confronti di qualsiasi istituzione, di

qualsiasi forma di rappresentazione[…]. Zero perché i soldi

sono finiti. Da un pezzo. E noi di soldi nostri non ne abbiamo

mai avuti. Zero perché quando sono cadute le maschere delle

mille opportunità che doveva darci il terzo millennio, ci

siamo ritrovati senza scelta546». Il collettivo ha prodotto tre

brevi video intitolati «Lo diresti al tuo idraulico?», «Lo diresti

al tuo giardiniere?», «Lo diresti al tuo antennista?», in cui, al

termine di una prestazione lavorativa, colui che riceve il

servizio si mostra restio al pagamento. «Per questo progetto

non c’è budget – viene ad esempio detto all’idraulico – però

mi è venuta un’idea: appena tu vai via mi faccio una foto

mentre sto cagando sulla tazza che tu hai appena sistemato e

poi te la metto su Facebook, più Twitter, Instagram e

Pinterest! E poi ti taggo547». L’ironia fotografa e denuncia la

situazione vissuta da tanti lavoratori creativi, alla difesa dei

quali si rivolge la campagna #coglioneNo.

545 Gubitosa C., Appello a chi scrive gratis tanto per farsi leggere: e' il

momento di smetterla in giornalismi.info, 26 settembre 2012 (cit.). 546 http://zerovideo.net/manifesto/ 547 Il video è disponibile all’indirizzo

https://www.youtube.com/watch?v=sd5mHHg1ons#t=123.

296

«#coglioneNo è la reazione di una generazione di

creativi alle mail non lette, a quelle lette e non risposte

e a quelle risposte da stronzi.

È la reazione alla svalutazione di queste

professionalità anche per colpa di chi accetta di

fornire servizi creativi in cambio di visibilità o per

inseguire uno status symbol.

È la reazione a offerte di lavoro gratis perché ci

dobbiamo fare il portfolio, perché tanto siamo

giovani, perché tanto non è un lavoro, è un

divertimento.

Questo gennaio ZERO vuole unire le voci dei tanti

che se lo sentono dire ogni volta. Vogliamo ricordare

a tutti che siamo giovani, siamo freelance, siamo

creativi ma siamo lavoratori, mica coglioni548».

Come si vedrà in seguito, il fenomeno non è limitato alla

realtà italiana e non coinvolge solamente l’universo

giornalistico. Quanto descritto in queste pagine è anche figlio

di cambiamenti sociali ed economici, di un capitalismo che

ha trovato nella crisi un parafulmini e nella Rete un alleato

dal doppio volto. In questo senso, una presa di coscienza

collettiva potrebbe davvero essere un passo imprescindibile

per la guarigione di questa malattia piuttosto propensa al

contagio, ma «se era difficile creare una coscienza di classe

all’interno di una fabbrica FIAT […] figuriamoci quanto oggi

è difficile creare questa coscienza di appartenere ad una

548 http://zerovideo.net/coglioneno

297

stessa categoria professionale tra gente che non lavora nello

stesso posto, non si è mai vista in faccia, si percepisce in

competizione reciproca perché siamo entrati nella cultura

dove non c’è più la solidarietà tra lavoratori549». Inoltre, come

sottolinea ancora una volta Carlo Gubitosa, l’inquinamento

del mercato editoriale, la trasformazione della professione in

un hobby partorisce una selezione classista della professione:

«se il giornalismo diventa un hobby per chi campa d’altro, si

sta già facendo una selezione classista della classe

giornalistica, nel senso che i giornalisti che […] hanno poche

risorse economiche […] li perderemo perché non ci potrà

essere più spazio […] per chi cerca un giusto compenso dalla

scrittura. Ci sarà solo posto per le classi medio-alte dove non

fa problema dare contenuti gratuiti perché tanto il reddito

arriva altrove550».

Prima di analizzare la situazione fuori dai confini italiani,

si riserverà il prossimo paragrafo ad alcune interviste che ho

realizzato e che contribuiranno a delineare ancor più

accuratamente il quadro della situazione.

4.5 Approfondimento: interviste

Questo paragrafo è dedicato ad alcune interviste fatte a

professionisti e aspiranti giornalisti, da cui sono già stati

estratti alcuni stralci nei precedenti paragrafi. Ringrazio tutte

549 Questo è un estratto di un’intervista che ho fatto a Carlo Gubitosa. 550 Questo è un estratto di un’intervista che ho fatto a Carlo Gubitosa.

298

le persone che hanno accettato di collaborare nella

realizzazione di questa ricerca.

4.5.1 Carlo Gubitosa

La prima serie di domande che viene proposta è quella che

ho presentato a Carlo Gubitosa, citato già numerose volte

nelle pagine precedenti. Ripropongo testualmente la

narrazione che Gubitosa propone di sé sul suo sito

giornalismi.info: «Ingegnere delle Telecomunicazioni,

giornalista freelance e saggista, dal 1995 collabora con i

principali periodici italiani di informazione indipendente,

fino a ricoprire nel 2003 il ruolo di caposervizio per la sede

di corrispondenza di Milano dell'agenzia di stampa

"Redattore Sociale". Dal settembre 2009 e' direttore

responsabile di "Mamma!" (www.mamma.am) la prima

rivista italiana di giornalismo a fumetti. A partire dal 2003

realizza seminari e attivita' didattiche sul giornalismo e le

nuove tecnologie dell’informazione presso il corso di laurea

in Scienze della comunicazione dell’Università di Bologna,

all'interno dei corsi di Teoria e tecniche del linguaggio

giornalistico e Comunicazione giornalistica. Ha al suo attivo

numerose pubblicazioni, tra cui "Telematica per la Pace".

(Apogeo, 1996); "L’informazione alternativa" (EMI, 2002);

"Viaggio in Cecenia" (Nuova Iniziativa Editoriale 2004):

"Elogio della pirateria". (Terre di Mezzo, 2005); "Carovane.

Esperienze di strada contro le guerre e le mafie", (EMI,

2006); "Ricettario della pace". (Meravigli, 2009);

"Propaganda d'autore. Guerra, razzismo, P2 e marchette: un

299

atto d'accusa ai giornalisti VIP", (Stampa Alternativa,

2011)551».

Emanuele Mastrangeli: Perché per un periodo hai scritto

anche senza venire retribuito? Quando e per quale motivo hai

smesso di farlo?

Carlo Gubitosa: Ho scritto gratis in due periodi. All’inizio

facevo circolare i miei articoli che poi qualcuno pescava su

Internet e li ripubblicava. Io all’epoca non avevo l’istinto di

adeesso di andare da quello che li pubblicava, tirargli le

orecchie e dirgli “sì, sono contento che lo hai pubblicato, però

adesso mettiamoci d’accordo sul compenso”. Ero contento

che ciò che seminavo in Rete venisse utilizzato. Dopodiché

c’è stato un lungo periodo di scrittura giornalistica

professionale dove sembrava normale sia a me che alla

controparte il fatto che alla prestazione corrispondesse un

compenso. Poi c’è stato un periodo in cui sembrava assodato

che se un editore pubblicava qualcosa di una persona, quella

persona doveva avere un compenso. Indipendentemente dal

fatto che lo scrittore fosse giornalista o blogger, poi in quegli

anni, agli inizi del 2000, non c’era neppure questa definizione

di blogger. Ci sono stati dei periodi in cui il giornalismo

freelance dava delle possibilità. Io all’epoca ero ancora uno

studente universitario e avevo un reddito tutto sommato

dignitoso, se pensiamo che il Corriere della Sera poteva

pagare all’epoca un articolo per le sue testate online anche

sulle 200.000 lire, ovvero 100 euro di oggi, cifre che

sembrano incredibili. Dopodiché, col passare degli anni, è

successo che la scrittura, il suo valore professionale, per la 551 http://web.giornalismi.info/gubi/indici/ind_373.html.

300

legge della domanda e dell’offerta è crollato al punto che

ormai il valore di un articolo è praticamente nullo. Anche le

persone che venivano retribuite, stipendiate nei grandi gruppi

editoriali non esprimono un valore professionale

necessariamente diverso da chi scrive online, i cosiddetti

blogger. Magari ci sono dei blogger che fanno articoli più

approfonditi di persone che stanno stabilmente in redazione.

L’unica cosa che definisce lo spartiacque tra una categoria

professionale e l’altra non è più il fatto di avere un mestiere,

di avere delle tecniche, di rispettare una determinata

deontologia, di usare più o meno rigore nella verifica delle

cose. Prima erano questi gli spartiacque tra il giornalismo

professionale retribuito oppure no. Adesso lo spartiacque è

semplicemente essere interno o esterno alla struttura

redazionale. Se sei interno vieni stipendiato anche se passi la

giornata a fare tweet rilanciando cose altrui, se sei esterno non

sei stipendiato anche se scrivi articoli da premio Pulitzer.

Questo andazzo è arrivato al culmine quando si è chiusa una

stagione di collaborazione retribuita con il quotidiano

Liberazione. Ho scritto degli articoli per questo quotidiano

come collaborazione militante, ho scritto anche degli

editoriali, che sono il genere più prestigioso e autorevole del

giornalismo, uno spazio che richiede un certo impegno anche

da parte della testata nel sostenere il giornalista. Quando ho

visto che perfino gli editoriali su una testata nazionale

conosciuta in tutta Italia, sovvenzionata sia da un Partito, sia

dallo Stato, non avevano valore di mercato mi sono convinto

di aver valutato male il problema. Ovvero, il problema non

era tanto dell’editore o del padrone di riferimento che gestiva

quella testata, ma che anche io con quegli articoli gratuiti, con

quella coppia di editoriali avevo contribuito ad affermare

l’idea che nel mercato del giornalismo perfino un editoriale è

301

un prodotto, un servizio, una prestazione, un’opera che può

essere ottenuta con pochi soldi o addirittura gratis. Quindi nel

momento in cui tu scopri di essere in un certo senso un

collaborazionista di un sistema di sfruttamento decidi di

tirarti fuori. Io ho poi voluto con degli scritti, con delle

riflessioni pubbliche chiamare chi scrive alla presa di

coscienza del valore del proprio lavoro. I casi sono due: o

quello che scrivi non vale niente e quindi non serve, oppure

vale e quindi merita di essere retribuito. Inoltre, anche se

rinunci a degli spazi, anche se rinunci a quella moneta

intangibile che oggi si chiama visibilità, anche se pensi

avendo pochi lettori sul tuo sito individuale di avere meno

possibilità di carriera rispetto alla grande vetrina del grande

blog, cerca di capire quale è la responsabilità sociale del tuo

mestiere di scrivere. Perché magari stai scrivendo delle cose

bellissime però il modo in cui le scrivi, per come consenti ad

altri di fare profitti anche tramite la pubblicità online anche

grazie al tuo contributo di volontariato stai alimentando un

male oscuro che rischia di ridurre la professione giornalistica

ad un hobby. Un hobby che si può permettere solo chi vive di

altro. Questo vuol dire che se il giornalismo diventa un hobby

per chi campa d’altro, si sta già facendo una selezione

classista della classe giornalistica, nel senso che i giornalisti

che vengono dalla strada, che hanno poche risorse

economiche, che potrebbero dare al giornalismo la

prospettiva delle classi meno agiate li perderemo perché non

ci potrà essere più spazio per chi vive, per chi cerca un salario,

per chi cerca un giusto compenso dalla scrittura. Ci sarà solo

posto per le classi medio-alte dove non fa problema dare

contenuti gratuiti perché tanto il reddito arriva altrove.

Dunque questa è stata la mia parabola: gli esordi in cui

disseminare i propri scritti, la parte della professionalità

302

matura e il crollo del mercato con il valore delle prestazioni

giornalistiche che è crollato a zero, anche in funzione alle

relazioni che uno ha. Perché se si è così fortunati da avere un

contratto di praticantato o di entrare nelle grazie di qualche

testata o editore, poi una volta assunti si entra in quel sistema

di posizioni blindate che ormai riguarda un numero sempre

più sparuto di professionisti.

EM: Tralasciando le ragioni maggiormente legate all'ambito

professionale come possono essere la speranza di ottenere

una retribuzione in futuro, il desiderio di fare esperienza o di

ottenere visibilità, credi che il narcisismo giochi un ruolo

importante nel processo decisionale di coloro che scrivono e

non vengono pagati?

CG: Il narcisismo è compiacersi di sé stessi: c’è Narcisio che

si guarda specchiato nel fiume e rimane ipnotizzato da quanto

è bello. Credo che i meccanismi siano altri. Nel senso che,

pensando ai giornalisti – volendo tracciare un profilo

psicologico –, il profilo che mi viene in mente non è quello

del Narciso che si compiace di sé stesso, ma della persona

con un ego talmente smisurato da avere bisogno di continue

conferme. Cioè, se io sono una persona osannata e celebrata,

se io sono continuamente dopato, se la mia autostima è

continuamente alimentata da stimoli che mi arrivano

dall’esterno; nel momento in cui passa una settimana senza

che mi arrivi un complimento, ma anche un insulto di un

avversario politico, nel momento in cui passa una settimana

senza che io mi senta al centro della scena, purtroppo –

siccome siamo essere umani – crolla anche la fiducia che ho

di me stesso, l’autostima e vado di nuovo in ricerca di quella

visibilità che mi permette di mantenere i normali livelli di

attenzione su di me. Invece il problema non è tanto di questi

303

normali meccanismi che sono nel carattere dell’uomo, nel

senso che tutti noi siamo tentati dalle lusinghe e spaventati

dall’essere insignificanti; il problema sta proprio nella cultura

italiana dove la persona è sempre predominante rispetto al

contenuto. Cioè, se un tempo si parlava di lotta di classe da

una parte, di capitalismo dall’altra, di destra da una parte, di

sinistra dall’altra. Adesso si parla di Travaglio da una parte,

di Sallusti dall’altra. Non ci sono più scontri tra idee, ci sono

scontri tra persone che degenerano in scontri tra personaggi.

La colpa è di una cultura dilagante in Italia tale per cui si cerca

come isola rassicurante un personaggio di riferimento, poi

tutto quello che dirà per noi sarà verità di fede: le grandi

rivelazioni come le bufale, le leggerezze come le grandi

inchieste. Noi non ci schiereremo dalla parte della verità,

dalla parte di un ideale, dalla parte di un pensiero ma dalla

parte di una firma. Questa è una degenerazione sociale, una

malattia sociale che ha molto a che fare con quel culto del

capo, quel culto della personalità, la ricerca dell’uomo forte,

la ricerca del leader, la ricerca del pastore che ti guida come

una pecorella smarrita, che è proprio quella debolezza

caratteriale delle popolazioni su cui si riversano i regimi

autoritari, non solo militari o politici, ma anche regimi

culturali. Regimi per i quali abbiamo 3 o 4 grandi gruppi

editoriali in Italia, ovvero RCS, Gruppo L’Espresso

Repubblica, Gruppo Mondadori Mediaset e Gruppo Il Sole

24 Ore. Questo è un regime editoriale, tale per cui a noi fa

anche piacere che siano pochi, perché se ci fossero tante firme

coraggiose, se ci fossero tanti giornalisti che seguono

ciascuno delle idee forti, noi ci sentiremmo spaesati e sperduti

e ci chiederemmo: chi è che dice la verità? Chi è il mio

oracolo? Chi la mia guida, il mio riferimento umano,

spirituale e politico? Quindi, sicuramente c’è anche una

304

componente narcisistica di autocompiacimento del

giornalista, c’è anche l’altro fattore che dicevo, cioè degli ego

che vengono alimentati dal pubblico e cercano sempre

continue conferme.

EM: Molte persone sembrano non capire una semplice legge

di mercato: le aziende possono permettersi di offrire "zero"

perché ci sono persone che accettano di lavorare pur non

venendo retribuite. Ovvero, in altri termini, se nessuno

accettasse di scrivere gratis, gli editori sarebbero costretti ad

offrire un compenso. Perché quest'argomento spesso non

viene recepito?

CG: Perché c’è, peggio di come c’era prima, il conflitto tra il

particolare e l’individuale. Se io riesco ad ottenere una bella

vetrina su un blog famoso, che poi magari mi permette di

avere i contatti giusti tali per cui ottengo anche una rubrica

pagata, a me che cazzo ne frega della solidarietà con la mia

categoria di lavoratori? Allora, se era difficile creare una

coscienza di classe all’interno di una fabbrica FIAT, dove

c’erano persone tutti i giorni gomito a gomito che laovravano

per lo stesso padrone, che avevano grossomodo delle

lamentele comuni, delle aspirazioni comuni; figuriamoci

quanto oggi è difficile creare questa coscienza di appartenere

ad una stessa categoria professionale tra gente che non lavora

nello stesso posto, non si è mai vista in faccia, si percepisce

in competizione reciproca perché siamo entrati nella cultura

dove non c’è più la solidarietà tra lavoratori. Ognuno lavora

da casa sua, i rapporti con le redazioni sono legati alla

contrattazione individuale, i sindacati dei giornalisti

compaiono solo a difesa dei contrattualizzati, strappandosi gli

occhi sui freelance, sui liberi professionisti che oggi

rappresentano la maggior parte della prestazione giornalistica

305

in Italia. Se non c’è neanche solidarietà sul contratto

nazionale, se perfino il contratto di lavoro nazionale non

contempla la figura del freelance, ma riconosce solo i diritti

di chi è sotto contratto, quindi con un rapporto di lavoro

dipendente e subordinato, che solidarietà ci possiamo

aspettare tra i lavoratori? Questo però non significa che

questa coscienza e questa solidarietà non si possa ricercare,

anzi. Uno dei motivi per cui mi hai telefonato è il mio appello

scritto nell’intenzione di creare consapevolezza. Ovvero, tu

puoi continuare a scrivere gratis, ma devi essere consapevole

che se lo stai facendo stai danneggiando in maniera anche

indiretta la tua categoria di lavoratori e di conseguenza anche

te stesso.

EM: A mio modo di vedere editori e collaboratori sono

entrambi colpevoli, pur in maniera differente. Se l'operato dei

primi potrebbe essere controllato dalla Legge, per i secondi

può bastare una presa di coscienza collettiva?

CG: La presa di coscienza collettiva non l’abbiamo avuta

quando perfino l’ultimo degli operai andava in giro con i libri

sotto il braccio, figuriamoci se ce l’abbiamo adesso dopo

vent’anni di stordimento televisivo o con i social network che

si stanno sostituendo alla televisione come armi di distrazione

di massa. Io penso che la soluzione debba arrivare nei canali

tradizionali, cioè in una normativa che impedisca anche a

tutela del lettori di utilizzare lavoro non retribuito in una

testata registrata che fa anche peraltro profitti. Questo

dovrebbe essere chiaro per legge: io domani non posso

mettere su un’impresa edile con il muratore che mi viene a

lavorare gratis perché così fa esperienza, si fa notare, cerca la

visibilità. No, in tal caso arriva l’ispettorato del lavoro e mi

denuncia, perché quello è lavoro nero. Così, analogamente, il

306

percorso legale in un paese che ha partorito lo statuto dei

lavoratori, in un paese che ha avuto tra i sindacati più forti

d’Europa, quando ancora erano sindacati dei lavoratori e non

erano sindacati interlocutori dei gioverni, io mi auguro che

esista una normativa e che possa esistere una trattazione

sindacale tale per cui certe forme di sfruttamento da una parte

diventano illegali e dall’altra certi diritti vengono affermati in

contratti collettivi e nazionali. Credo che oggi le speranze

siano poche di arrivare a questo risultato, ma io non vedo altre

strade. I diritti della categoria si devono affermare su due

binari: nel rispetto di alcuni principi di Legge che vanno

stabiliti in Parlamento e nel riconoscimento di alcuni diritti

che va stabilito nel rapporto tra editori e lavoratori mediato

dai sindacati. Il problema è che nello stato dell’arte di questo

rapporto tra editori e lavoratori mediato dai sindacati, la

figura del giornalista freelance non esiste, non è menzionata,

nonostante produca gran parte della produzione giornalistica.

Il problema quindi è che ci sono dei professionisti individui

che restano ognuno per i cazzi suoi, pensando al loro privato,

al loro meschino interesse personale e che non hanno tempo,

voglia, possibilità o visione strategia per organizzarsi in

maniera più efficace.

EM: Nella raccolta delle fonti in Rete, mi sono imbattuto in

posizioni antitetiche rispetto alla tua. Ovvero a difesa della

scrittura non retribuita. Tra le diverse interpretazioni date,

una mi ha colpito in particolare. Il giornalismo viene spesso

rappresentato come un lavoro non equiparabile agli altri,

dotato di caratteristiche tali che lo rendono soggetto al lavoro

non retribuito. Perché secondo te?

CG: Questo ce lo dovrebbero spiegare loro. Io non credo che

il mio tempo, il valore della mia esperienza professionale,

307

delle tecniche che ho imparato, del mestiere che ho

accumulato in questi vent’anni che scrivo sia inferiore al

valore professionale dell’avvocato che accumula esperienza

in vent’anni che scrive cause, arringhe, memorie difensive.

Ognuno di noi sviluppa un tipo diverso di scrittura, la sua è

una scrittura tecnica, la mia è una scrittura giornalistica, però

non vedo perché debba esserci questo divario nel compenso

di un avvocato e quello di un giornalista. Altrimenti ci

dovrebbero dire che quello che era un lavoro retribuito è

diventato un hobby. Le conseguenze sarebbero che

l’informazione, cioè la fotografia del paese non verrà più fatta

da rappresentanti di tutte le classi sociali, ma dai

rappresentanti delle classi agiate che possono permettersi di

scrivere gratis. È un futuro quello del giornalismo

profondamente classista se diventa un hobby, cioè se si

legittima l’idea che chi campa di giornalismo è solamente

colui che ha incarichi di responsabilità, che ha dei giornalisti

sotto di sé, mentre quello che scrive un articolo non lavora

realmente. Io vorrei chiamare l’idraulico e dirgli: “che hai

fatto? Un’ora, mi hai cambiato un tubo; ti do i soldi dei pezzi

e ringraziami pure”. Ma invece io devo pagare il suo lavoro.

Ed è giusto. Io sono stato culturalmente abituato a riconoscere

la professionalità dell’idraulico, quella dell’ingegnere, devo

abituarmi a riconoscere la professionalità del giornalista.

Anche qui è una questione di cultura. Oggi siamo talmente

ignoranti che il giornalismo non vale più niente, anche perché

c’è sempre meno gente in grado di distinguere la differenza

tra un giornalismo fatto con mestiere e le cazzate copiate e

incollate, piene di bufale, di complottismi e di fuffa raccattata

dalla Rete.

308

EM: Ritieni che lo sviluppo di Internet e del Web 2.0 abbiano

avuto un ruolo importante nel proliferare del fenomeno

avendo garantito l'accesso alla produzione dei contenuti ad un

pubblico precedentemente tagliato fuori?

CG: Questa è un’ottima domanda. Secondo me c’è il fattore

tecnologico e il fattore sociologico. Il fattore tecnologico è

l’avvento dei blog, la diffusione sempre più massiccia delle

tecnologie Internet, il fatto che chiunque può scrivere

eccetera. Ma c’è anche il fattore sociologico. Ovvero,

impregnati di un ventennio di ignoranza televisiva,

lobotomizzati dalla subcultura che ha circolato e dilagato, il

dato sociologico ci impedisce di distinguere il buon

giornalismo, la buona inchiesta, il buon lavoro investigativo,

anche semplicemente l’articolo scritto in un buon italiano

dalla monnezza fatta tanto per riempire una colonna, dalla

propaganda politica, dalla disinformazione, dal complettismo

o dalle bufale varie che hanno trovato spazio anche sui

quotidiani senza che nessuno dicesse niente, senza che

nessuno perdesse il posto per questo.

EM: Navigando in Internet ho notato come il dibattito

riguardo a questo fenomeno sia molto più intenso all'estero,

specie negli Stati Uniti, di quanto non lo sia in Italia. Perché

non viene dato il giusto risalto a questa situazione?

CG: Perché in Italia i primi a difendere il padrone sono i servi.

Perché i più accaniti nel dirmi “tu mi stai imbavagliando, tu

mi stai limitando nella mia espressione”, sono stati dei

blogger che lavorano gratis e rivendicano il diritto di farlo. In

Italia forse c’è meno sensibilità riguardo a questo tema perché

ci piace essere servi ben riconosciuti, non economicante, ma

con una bella vetrina su un blog di grido. Piuttosto che essere

309

padroni di noi stessi e di quello che scriviamo. Ogni volta mi

sembrava assurdo dovere ripetere che ognuno era libero di

scrivere dove e come meglio credeva, ma che se c’è qualcun

altro che si mette dei soldi in tasca bisognerebbe porsi delle

domande. Perché questo crea un problema anche agli altri,

non solo a chi decide di scrivere gratis. Io dico: se ti piace il

mestiere della scrittura devi capire che lo stai rovinando con

questo atteggiamento, non solo per te, non solo per i tuoi

colleghi ma anche per gli anni e per i decenni a venire, se

veramente diventeremo un hobby per borghesi con la pancia

piena. Il giornalismo è un mestiere, ci devo dedicare le mie 8

ore e mi devono dare il mio stipendio.

EM: La situazione complica la vita agli aspiranti giornalisti?

CG: No, perché noi paghiamo per essere giullari a casa

d’altri, per essere in vetrina sul blog dell’Annunziata o di

Luca Sofri o di altri, ma non siamo capaci di farci noi degli

spazi. L’accessibilità del Web viene sfruttata nel senso che

tutti possono scrivere, ma poi tutti lo fanno a casa d’altri. Il

“tutti possono scrivere” lo interpreto in maniera diversa,

ovvero nel senso che tutti possono fondare una testata con le

tecnologie del Web. Tutti possono fondare una rivista con le

tecnologie di microeditoria che oggi ti consentono anche

bassissime tirature: stampatevi la vostra rivista, fatevi il

vostro gruppo redazionale, perché non sarà la testata a dare il

valore alla vostra firma, sarete voi stessi e come saprete

costruire un giornalismo a vostra misura; non adattarvi voi ad

un contenitore su un piano editoriale esterno. Quindi è vera

la frase che è più difficile scrivere, ma bisogna aggiungere la

postilla: è più difficile scrivere se si vuole farlo all’interno di

grandi gruppi editoriali che garantiscono la pappa pronta di

una buona visibilità. Ma allora togliti il pannolino, createlo tu

310

un pubblico, createla tu una testata. Sii originale, sii diverso.

Il tuo futuro professionale deriva da ciò che di nuovo avrai tu

da dire rispetto a quello che è stato detto prima, non solo

rispetto al contenuto ma anche rispetto alla forma. Meglio

essere padroni a casa nostra, pur con le pezze al culo, che

servi a casa d’altri comunque con le stesse pezze al culo.

Perché se andando da un’altra parte facessi i milioni ti capirei,

ma gratis per gratis almeno scrivi gratis per te stesso.

4.5.2 Silvia Bencivelli

La seconda intervista che propongo è quella realizzata

grazie alla gentile collaborazione di Silvia Bencivelli. Anche

in questo frangente, affido la narrazione biografica alle parole

pubblicate sul sito omonimo silviabencivelli.it: «Sono nata il

20 luglio del 1977 e sono cresciuta a Pisa. Nel luglio del 2002

mi sono laureata in medicina e chirurgia all’Università di Pisa

e nel novembre del 2004 ho conseguito il Master in

comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste. Oggi vivo

a Roma. Ho cominciato a fare la giornalista scientifica

lavorando nella sede romana dell’agenzia Zadig, per cui ho

scritto lanci di agenzia e articoli per quotidiani e riviste e dove

ho avuto modo di seguire alcuni progetti editoriali, in

particolar modo di editoria scolastica. Dal 2005 al 2011 ho

lavorato nella redazione di Radio3 Scienza, il quotidiano

scientifico di Radio3 Rai, e saltuariamente sono ancora tra i

conduttori del programma. Sono stata inviata della prima

serie di Cosmo, trasmissione scientifica di Rai3 ideata da

Gregorio Paolini e da Hangar e condotta da Barbara Serra,

che è andata in onda la domenica in seconda serata nella

311

primavera del 2011. Da novembre 2011 a giugno 2013 ho

collaborato con Rai3 per Presa Diretta, di Riccardo Iacona e

Francesca Barzini. Collaboro anche con giornali e riviste (Le

Scienze, La Stampa nel canale Tuttogreen, Mente e Cervello,

a volte con Panorama e Focus, e ho collaborato con il

manifesto, per cui, per qualche anno, ho scritto la pagina di

Chips and Salsa dedicata alla scienza nell’inserto culturale

Alias), con scuole di comunicazione e master (Master SGP

dell’Università La Sapienza di Roma, Master in

comunicazione della scienza della Sissa di Trieste, Istituto

per la formazione al giornalismo di Urbino), case editrici (Il

Saggiatore, Sironi, De Agostini scuola), agenzie di

comunicazione (La Fabbrica, effecinque). E partecipo come

relatore e come moderatore a eventi culturali per il grande

pubblico e per le scuole. Ho pubblicato un po’ di libri: Perché

ci piace la musica (Sironi editore, febbraio 2007, e in seconda

edizione marzo 2012) e Il sesso a test (Alpha test editore,

maggio 2008), entrambi tradotti in francese dalla casa editrice

Belin. Il libro sulla musica è stato anche tradotto in inglese

(Music World Media) e in spagnolo (Rocaeditorial). Si

trovano anche Tosse e altre catastrofi e Pappa che passione,

libri del bimestrale Un Pediatra per Amico, che ho curato

insieme a Sonia Bozzi. A maggio è uscito Cosa intendi per

domenica – La mia (in)dipendenza dal lavoro, per LiberAria

edizioni. E a settembre Comunicare la scienza, con Francesco

Paolo de Ceglia, per Carocci editore nella collana Bussole.

Sono stata selezionata per la fellowship Giovanni Armenise

– Harvard Medical School Foundation, in collaborazione con

l’Ugis (Unione giornalisti italiani scientifici) nel maggio

2008, e per la fellowship Eicos (European Initiative for

Communicators of Science) al Max Planck Institute di

Göttingen nel giugno 2009. A novembre 2010 ho vinto il

312

Premio speciale per la divulgazione scientifica e sociale

sull’Hiv/Aids del Premio giornalistico Riccardo Tomassetti.

Ho vinto il primo premio del concorso Short on Work,

concorso internazionale di documentari brevi e videoricerca

sul lavoro promosso dalla Fondazione Marco Biagi, nel

settembre 2012, con 2033, girato insieme a Chiara Tarfano.

Nel novembre 2012 mi è stato assegnato il premio Piazzano

per il giornalismo scientifico. Il 19 gennaio 2013 ho

partecipato allo spettacolo della Sora Cesira all’auditorium di

Roma: Felicità, all’interno del Festival delle Scienze di

Roma, con i miei monologhi su scienza e felicità. Sono

autrice del documentario Segna con me, per la regia di Chiara

Tarfano, che ha appena ricevuto il premio Miglior Film

dell’Ens (Ente nazionale sordi) al Cinedeaf (Festival

internazionale di cinema sordo), seconda edizione (2013).

Sono nel board di Swim – Science Writers in Italy,

associazione di giornalisti scientifici italiani che aderisce alla

European Union of Science Journalists’ Associations

(EUSJA) e alla World Federation of Science Journalists

(WFSJ)552».

Emanuele Mastrangeli: Hai mai scritto senza essere

retribuita? Se sì, perché lo hai fatto?

Silvia Bencivelli: Sì, certo che mi è successo. Alle volte per

errore, nel senso che non sapevo che non sarei stata retribuita.

Ad esempio giornali che poi non hanno pagato i collaboratori

o che avevano il vizio di dimenticarsene. A me è successo

diverse volte anche con testate nazionali. Non di recente,

devo dire, anche perché una volta che mi è successo e non 552 http://silviabencivelli.it/curriculum/.

313

sono riuscita a farmi pagare ho smesso di collaborare. Se io

continuassi a collaborare anche gratis potrei dire che scrivo

per 3 o 4 testate nazionali e ci farei una figura migliore,

mentre al momento dico di collaborare con un unico

quotidiano nazionale con testate mensili nazionali sempre

dello stesso gruppo anche perché sono in buoni rapporti e so

che non ci sono rischi.

EM: Quindi non hai mai accettato volontariamente di

lavorare pur non venendo pagata, è una situazione che è

subentrata poi nel momento in cui determinati pagamenti non

sono arrivati?

SB: Ultimamente non ho fatto lavori gratis a meno che non

ritenga che possa avere un risvolto sociale o morale. Capita a

tutti di fare un regalo e quindi ogni tanto regalo la mia

prestazione, lo posso fare con mio padre, con un amico vero

o di fronte ad una questione sociale che mi preme o in

situazioni di confine come può essere la promozione di un

libro. Ad esempio, se mi chiedono di scrivere un pezzo su un

tema che ho affrontato in un libro e in calce viene scritto che

è un estratto del mio libro diventa un sistema promozionale

per vendere copie. E’ come quando fai le presentazioni dei

libri, non ti fai pagare. Mi è capitato poi di scrivere contributi

gratis per dei libri, me ne vengono in mente almeno due di

recente. Ti viene detto che si tratta di un’operazione culturale

che ti costa poco perché hai già scritto a riguardo, hai già tutto

il materiale ecc. Probabilmente è anche vero però il confine è

sempre molto sottile. Ma io vivo di scrittura e devo

ovviamente cercare di farmi pagare quello che faccio per il

tempo che investo nelle cose che produco per il semplice

motivo che vivo di quello. C’è poi una motivazione di tipo

etico che è quella di preservare il mercato. Questo non accade

314

in nessun altro tipo di mercato lavorativo, perché per il

mercato della penna lo dovresti fare? Il mercato intellettuale

è un mercato come gli altri e lo difendi come difendi gli altri.

EM: Tralasciando le ragioni maggiormente legate all'ambito

professionale come possono essere la speranza di ottenere

una retribuzione in futuro, il desiderio di fare esperienza o di

ottenere visibilità, credi che il narcisismo giochi un ruolo

importante nel processo decisionale di coloro che scrivono e

non vengono pagati?

SB: Può darsi che ci sia anche una motivazione di questo tipo.

Io tutte le volte che ho avuto a che fare con colleghi che

scrivono gratis ho visto anche una lagna terrificante, molto

inconsapevole, che vede nella loro narrazione loro descritti

come povere vittime e dall’altra parte la figura del direttore

che non paga promettendo e non mantenendo. Loro non lo

ammettono però sicuramente questo aspetto del narcisismo

c’è, oltre a questo vittimismo che è un po’ stucchevole.

EM: Molte persone sembrano non capire una semplice legge

di mercato: le aziende possono permettersi di offrire "zero"

perché ci sono persone che accettano di lavorare pur non

venendo retribuite. Ovvero, in altri termini, se nessuno

accettasse di scrivere gratis, gli editori sarebbero costretti ad

offrire un compenso. Perché quest'argomento spesso non

viene recepito?

SB: In primo luogo perché noi collaboratori esterni siamo

tanti. Quindi è abbastanza facile tra di noi trovare qualcuno

che accetta dei compensi infimi per motivazioni sciocche e

con l’unica reale motivazione di poterselo permettere, cioè di

avere una famiglia alle spalle. Quindi significa che il direttore

del giornale invece di avere a disposizione 3 collaboratori, ne

315

ha 100 di cui 80 disposti a scrivere gratis, e ne sceglierà 1 tra

questi 80. Magari non con grossa attenzione alla qualità. Io

mi occupo di scienza ed è molto facile trovare online o sui

giornali di carta cose di scienza scritte veramente male. Però

evidentemente ai “nostri” direttori dei giornali questa qualità

non interessa molto, in fondo l’articolo lo paghi zero euro…E

per questo motivo secondo me questo sistema rovina il

mercato. Tutto ciò è anche profondamente disonesto nei

confronti del lettore perché il lettore sul momento non ha gli

strumenti per capire cosa è stato pagato zero e cosa no, cosa

vale zero e cosa no. Noi dovremmo scrivere sempre tendendo

alla qualità migliore possibile ma la qualità si paga, perché

vuol dire tempo, studio, ricerche, non un articolo scritto così

perché tanto è gratis.

EM: Credi che il fenomeno sia anche figlio di Internet, del

Web 2.0, del fatto che l’accesso alla produzione dei contenuti

editoriali si sia ampliato enormemente?

SB: Sì, hai perfettamente ragione. C’è un malinteso sulla

parola democrazia. Oggi per democrazia si intende che

ognuno può parlare e io sono d’accordo sul fatto che ognuno

può parlare e sulla posizione di non censurare la Rete. Però

per altre cose c’è chi ha l’autorità per parlare e chi non ce l’ha.

Come ad esempio se parliamo di ricerca e sperimentazione,

l’opinione di uno scienziato dovrebbe valere di più di quella

di un religioso, di un mistico o di un umanista, gente insomma

che si occupa di tutt’altro. Invece oggi si tende a confondere

le cose e il Web contribuisce in tal senso. Del resto un mio

articolo che finisce sulla pagina di un quotidiano nazionale tu

lo leggi gratis, come leggi gratis pagine di complotti che

dicono che le scie chimiche vengono buttate nel cielo per

farci morire tutti. Perché il giornale dovrebbe pagarmi più di

316

zero? Il sostenitore del complotto lo fa per zero, il lettore per

zero legge entrambi e magari ritiene che abbiano lo stesso

valore. La differenza dovrebbe essere che il quotidiano

dovrebbe essere interessato a considerarsi fonte autorevole.

Ma tu considera che ci sono quotidiani online che accettano i

blog di chiunque lo richieda perché tanto non paga e quindi ti

trovi blog con il bollino di un quotidiano che dicono una cosa

ma anche l’esatto opposto.

EM: Questo anche perché alla fine ai giornali online interessa

principalmente il numero di click che ricevono piuttosto che

la qualità?

SB: Certo, nel momento in cui tu mi porti traffico io giornale

online ti pubblico, senza curarmi di ciò che scrivi. Inoltre i

blog dei quotidiani non si distinguono tanto bene dagli

articoli dei quotidiani. E se un blogger scrive gratis, un

giornalista non può ambire a grandi cifre. E’ un momento in

cui sembra che tutti possano parlare di tutto. Peraltro questo

è molto pericoloso perché se ci pensi Internet esiste da una

decina d’anni con questa diffusione così aperta, però non

abbiamo ancora sviluppato un modello di business, quindi

non sappiamo ancora come far fruttare l’editoria in Rete,

tranne che per la pubblicità, che però rende molto di meno

della pubblicità su tv. Ed è un problema internazionale, non

solo italiano. A quanto ho capito per un giornale ci vogliono

più o meno 20.000 click al giorno per essere redditizi sul

lungo termine. Ad esempio Repubblica.it fa un sacco di soldi,

un giornale molto più piccolo fa molta più fatica. Tra l’altro

le cose non sono così chiare nemmeno per noi che ci

scriviamo sopra, tutto è ancora molto fumoso. Io intravedo in

tutto ciò l’inizio della fine del giornalismo vecchio stile. Se

io scrivo un articolo sul mio blog ci metto lo stesso tempo che

317

ci metto per un giornale online, forse anche di più perché poi

c’è davvero il mio nome e quindi il mio tempo comincia ad

essere diviso tra lavoro retribuito e hobby. E’ abbastanza

complicato pensare a come andrà avanti. Nel mio settore,

quello scientifico, prima o poi dovrà esserci un grande

investimento da parte delle istituzioni, che saranno le uniche

forse a mantenere un bollino di autorevolezza. Anche se devi

considerare che le istituzioni scientifiche in Italia oggi non le

considera quasi nessuno autorevoli, vedi il caso Stamina. C’è

un problema di credibilità e di indipendenza: cioè, se io vengo

pagata soltanto dalle istituzioni scientifiche, poi come faccio

a dire che quello che dicono non sia corretto? Quindi

bisognerà trovare una soluzione, ma intanto il mercato va a

puttane. Anche se ci sono problemi ancora più gravi come

quelli legati all’indipendenza del giornalista,

sull’autorevolezza di quel che scrive, sulla competizione tra

una cosa verificata e una cazzata scritta da chiunque.

EM: Navigando in Internet ho notato come il dibattito

riguardo a questo fenomeno sia molto più intenso all'estero,

specie negli Stati Uniti, di quanto non lo sia in Italia. Perché

non viene dato il giusto risalto a questa situazione?

SB: Sì, è vero. In Italia il dibattito è un po’ più timido.

Quando abbiamo cominciato a discuterne tra collaboratori in

RAI – e in RAI a volte le condizioni per i collaboratori esterni

sono terribili, frustranti, umilianti – i miei colleghi della RAI

avevano molta paura di parlarne. Perché tutto sommato poter

dire di lavorare per la RAI è una cosa ancora prestigiosa e

quindi era difficile partecipare ad una manifestazione

pubblica o fare interviste per un giornale. Ero sempre io

quella che si esponeva. E’ anche vero che questa cosa poi mi

ha portato un po’ di onore, mi hanno fatto scrivere un libro,

318

ne ho parlato in trasmissioni televisive importanti, questo

anche a dimostrazione che alle volte l’onestà viene premiata.

Purché non sia ovviamente incoscienza: io non mi metto a

parlar male della mia azienda anche perché alla RAI devo

molto per la mia crescita professionale. Però per come

funziona il sistema dei collaboratori onestamente no; lavorare

per 9 mesi sottopagato, poi stare 3 mesi ad aspettare che ti

rifacciano il contratto non è il massimo della vita. Anzi, è una

condizione umiliante a cui tu ti sottoponi solo se duranti quei

3 mesi hai modo di mantenerti in qualche altra maniera. O

facendoti un gran mazzo lavorando per chissà chi o avendo

alle spalle la solita famiglia generosa, che però ad una certa

età dovresti anche salutare e ringraziare. Ad ogni modo sì, in

Italia il dibattito non è così importante. In Italia passi anche

per rompicoglioni. Ad esempio se guardi sul mio blog, su

silviabencivelli.it, e apri il secondo articolo più cliccato, «Il

colpevole siamo noi», ci sono più di 100 commenti e la gente

quasi mi insulta dicendomi che non mi posso permettere di

dire certe cose perché questa cosa del mancato pagamento è

una garrota alla quale la gente non si diverte a sottoportsi ma

che è necessaria per realizzare i propri sogni. E poi la storia

dei sogni, il lavoro dei sogni è una stronzata. Io faccio il mio

lavoro ed alle volte faccio delle cose assolutamente pallose,

ma io ci devo campare, il lavoro non è un hobby. Non credo

che per inseguire il lavoro dei tuoi sogni puoi ritrovarti a 40

anni ancora a scrivere gratis. Anche se hai una famiglia

facoltosa alle spalle, ci sono altre persone che non se lo

possono permettere e magari sono molto più brave di te.

Allora tu non vieni scelto sulla base della tua bravura, ma

sulla base del fatto che tuo padre è generoso. Non mi pare un

sistema molto gratificante per diventare adulti.

319

EM: Un'ultima domanda. La ricercatrice e giornalista

americana Sarah Kendzior, che ho avuto il piacere di

intervistare, ritiene che questo fenomeno si collochi

all'interno di un quadro più ampio da lei definito "post-

employment economy", ovvero: lavori sottopagati o non

retribuiti diventati prassi in una società dove il continuo

richiamo alla crisi fa credere che tutto ciò sia un passaggio

inevitabile. Lo sfruttamento divenuto normalità. Credi che

l'antropologa americana abbia ragione e che questo sia ciò

che sta accadendo anche in Italia?

SB: Sì, mi sembra un buon punto. Aggiungo soltanto una

cosa, anche per lasciarti con un messaggio d’ottimismo. Io

vedo una grossa differenza tra la precarietà del mondo

intellettuale e il libero professionismo del mondo

intellettuale. La precarietà nel mondo intellettuale è una cosa

abbastanza rara e ha tutto un altro percorso. Ma per quelli

come me è tutto sommato normale e anche positivo che

lavorino da liberi professionisti con partita iva. Perché io

lavoro con partita iva per un sacco di soggetti diversi,

ciascuno di questi soggetti mi chiede aggiornamenti riguardo

a temi diversi e io cresco professionalmente avendone tanti.

Conviene a tutto il sistema. Quando la RAI mi fa lavorare a

partita iva, purché mi paghi decentemente senza far ricadere

su di me tutto il rischio professionale, mi permette di

ritagliarmi dell’altro tempo per studiare, per viaggiare, per

l’università, per cose che arricchiscono la mia cultura. E

siccome io vivo con la cultura, non posso pensare che il mio

futuro sia quello di dipendente in un unico posto. Voglio dire,

se un giorno una casa editrice mi assumerà io sarò felice, ma

al momento a me va benissimo avere la partita iva, purché sia

pagata in una maniera decente, perché ci vedo l’opportunità

320

di fare un percorso professionale che sia solo mio, che mi

arricchisca dal punto di vista culturale, che sia molto

personale e che crei una fisionomia professionale sul mio

mercato vincente e gratificante.

4.5.3 Francesco Sellari

Ho inoltre intervistato Francesco Sellari, un blogger e

freelance, che ha scritto per un periodo senza venire retribuito

decidendo poi di smettere.

Emanuele Mastrangeli: Perché per un periodo hai scritto

anche senza venire retribuito? Quando e per quale motivo hai

smesso di farlo?

Francesco Sellari: Ho scritto gratis per differenti realtà di tipo

editoriale: associazioni, siti internet più o meno importanti,

un quotidiano locale, in un paio di occasioni anche per un

cartaceo nazionale. Le motivazioni erano diverse: per la

necessità che sentivo di "fare la gavetta" di migliorarmi, di

scrivere meglio, più velocemente, imparando a seguire i

criteri più importanti del racconto giornalistico; per poter

entrare in contatto con dei professionisti; per la speranza di

poter entrare a far parte di progetti editoriali dai quali trarre

anche un beneficio di tipo economico. Ho smesso

innanzitutto perché la mia occupazione (lavoro da alcuni anni

in uffici stampa e comunicazione) e altri impegni non mi

hanno più consentito di farlo. E poi, nel momento in cui ho

visto riconosciuta la mia professionalità da realtà editoriali di

321

livello nazionale, la mia capacità di fare il mestiere del

giornalista, di saper riconoscere e trattare una notizia, ho

deciso di dare priorità a quei progetti che avrebbero potuto

assicurarmi un ritorno economico perlomeno dignitoso.

EM: Tralasciando le ragioni maggiormente legate all'ambito

professionale come possono essere la speranza di ottenere

una retribuzione in futuro, il desiderio di fare esperienza o di

ottenere visibilità, credi che il narcisismo possa giocare un

ruolo importante nel processo decisionale di coloro che

scrivono e non vengono pagati?

FS: Cos'è il narcisismo in questo ambito? Il desiderio di veder

pubblicata la propria firma su un quotidiano nazionale o su di

un importante sito internet? La ricerca del successo? La

volontà di diventare famosi? Sicuramente può influire un

certo desiderio di visibilità, più che altro figlio della necessità

di accumulare un "capitale reputazionale" da sfruttare nella

ricerca di lavoro e collaborazioni retribuite. Probabilmente ci

sono persone che pensano in questo modo di ottenere il loro

"quarto d'ora di notorietà" su internet ma credo che siano una

piccola minoranza. Oggi il narcisismo trova una valvola di

sfogo e più immediate gratificazioni nei meccanismi dei

social network.

EM: Non pensi che le aziende possano permettersi di offrire

"zero" anche perché ci sono persone che accettano di lavorare

non venendo retribuite? Ovvero, in altri termini, non credi

che se nessuno accettasse di scrivere gratis, gli editori

sarebbero costretti ad offrire un compenso?

FS: Mi sembra improbabile la concreta possibilità che non ci

sia più nessuno disposto a scrivere gratis, soprattutto on line.

E’, tra l'altro, l'ipotesi prospettata da quei giornalisti, più o

322

meno affermati, che quando hanno potuto hanno scritto

gratis, magari con le più nobili motivazioni, e che oggi

criticano i giovani, ingenui ma appassionati, che provano a

farsi strada nel giornalismo e vengono accusati di contribuire

a svalutare la professione.

Certo, se tale scenario si avverasse qualche editore potrebbe

essere costretto ad attivare qualche altra collaborazione

retribuita. Non posso escluderlo del tutto. Ma nell'attuale

contesto di difficoltà crescenti per gli editori, dovute

all'aumentata concorrenza e al crollo degli investimenti

pubblicitari, non posso neanche escludere che gli editori

potrebbero scegliere di continuare a risparmiare sul costo

delle risorse umane, aumentando il carico di lavoro sui

giornalisti in organico, pregiudicando ulteriormente la qualità

dell'informazione.

Poi bisognerebbe anche capire cosa si intende per "scrivere

gratis" oggi che l'informazione si fa sempre più on line.

Pubblicare su internet materiali a carattere informativo

significa quasi sempre contribuire ad aumentare il profitto di

un'azienda. I contenuti del più insignificante blog su una

qualsiasi piattaforma gratuita generano, indirettamente o

direttamente, profitti per l'azienda che tale piattaforma offre.

Questo non è forse scrivere gratis?

EM: Navigando in Internet ho notato come il dibattito

riguardo a questo fenomeno sia molto più intenso all'estero,

specie negli Stati Uniti, di quanto lo sia in Italia. Perché non

viene dato il giusto risalto a questa situazione?

FS: Una ragione potrebbe essere il fatto che ngli Stati Uniti

l'informazione on line - l'ambito nel quale è più diffuso il

lavoro non retribuito - è nata prima e prima ha raggiuto una

323

sua importanza e una sua rilevanza nel dibattito pubblico. Più

in generale, nel mondo anglosassone il giornalismo ha da

sempre un'autorevolezza che gli organi di informazione

italiana non hanno saputo guadagnarsi. Forse è anche per

questo motivo che lì il fatto che un giornalista scriva gratis,

eserciti cioè una professione fondamentale per una società

democratica, faccia più notizia che da noi dove i giornalisti

godono di pessima fama e per alcuni sono ancora dei

privilegiati.

EM: Ti rigiro la domanda che poni alla fine del tuo post: come

pensi si possa consentire a chi vuole fare questo mestiere di

non essere costretto a lavorare gratis?

FS: Il problema del lavoro non retribuito è un problema

comune alla stragrande maggioranza dei giovani, ovvero di

coloro che sono agli inizi della loro carriera professionale.

Faccio questa premessa per dire che, secondo me, alcune

misure necessarie a contrastare il ricorso al lavoro gratuito e

sottopagato nel giornalismo in realtà hanno una portata

generale e riguardano tutto il mercato del lavoro.

Bisognerebbe ad esempio fare in modo che gli stage, di

qualsiasi natura essi siano, prevedano sempre un rimborso

minimo, meglio se con standard fissati in sede europea.

Quindi questo dovrebbe valere anche per tutte le scuole di

giornalismo e soprattuto per quelle poche e costosissime

riconosciute dall'ordine. Se poi l'Ordine riconoscesse un

maggior numero di scuole, i costi da sostenere per

frequentarle sarebbero più accessibili. Questo invoglierebbe

più persone a tentare questa strada per accedere alla

professione, una strada la cui efficacia è tutta da verificare,

ma che perlomeno consentirebbe di fare esperienza nelle

redazioni e di arricchire il proprio portfolio di contatti

324

professionali, piuttusto che provare a scrivere gratis nella

speranza di essere notato.

Andrebbero poi sanzionate quelle realtà editoriali che hanno

fatto e continuano a fare un ricorso massivo al lavoro gratuito

promettendo in cambio la maturazione dei requisiti per

l'iscrizione nell'albo dei pubblicisti. Sono realtà note ai vari

Ordini dei Giornalisti regionali. Questo potrà significare

meno opportunità per potere ottenere il tesserino (e magari

contribuirà ad aprire una discussione sulla sua utilià e più in

generale sulle distinzioni tra i diversi albi) ma sicuramente si

potrà lanciare un segnale contro la vulgata che purtroppo per

poter coltivare la speranza di fare questo lavoro bisogna

accettare qualsiasi compromesso al ribasso.

Poi sarebbe da affrontare tutto il discorso sul sostegno

all'occupazione giovanile in questo settore. Per quelle poche

realtà che ancora ricevono contributi diretti per l'editoria se

ne potrebbe vincolare parte dell'erogazione alla stipula di

convenzioni per nuove collaborazioni retribuite o per percorsi

di inserimento professionale per i giovani. Se ci fosse la

volontà politica si potrebbero recuperare risorse per sostenere

nuovi progetti di giornalismo cooperativo destinate

principalmente ai giovani.

Se poi si volesse dare un segnale, visto che ormai il dibattito

è aperto, le testate e gli editori potrebbero impegnarsi con un

sorta di "carta di intenti" a non sfruttare collaborazioni

gratuite o sottopagate.

325

4.5.4 Valentina Orsini

Un’altra intervista è stata realizzata grazie alla gentile

collaborazione di Valentina Orsini, blogger di

CriticissimaMente. La giovane scrittrice, dopo un periodo in

cui ha accettato di collaborare anche gratuitamente pur di

provare ad avere successo nell’universo giornalistico, ha poi

deciso di aprire un blog personale. Così come Francesco

Sellari, Valentina Orsini respinge le accuse che vengono

rivolte alla manodopera, incolpando invece un sistema che

non offre opportunità al di fuori dello sfruttamento.

Emanuele Mastrangeli: Presentati: chi sei? cosa hai studiato?

quando hai iniziato a scrivere online? scrivere rappresenta la

tua fonte di sostentamento primaria?

Valentina Orsini: Presentarsi è sempre difficile, non sai mai

se quello che stai per raccontare di te possa davvero bastare a

far capire chi sei. Oppure semplicemente a convincere chi

legge che, fermarsi due minuti davanti alla tua storia, possa

valere la pena. Dico sempre che la mia storia non ha nulla di

particolare, anzi. E' solo lo specchio di una situazione che

mette tutti sullo stesso piano, e ci si riflette l'uno nell'altro. Mi

chiamo Valentina Orsini, sono una blogger, critico

cinematografico e speaker web radiofonica. Come si fa ad

essere tante cose insieme e nulla in sostanza? Questa è la

domanda che pongo a me stessa da un po' di tempo. Certo

quando mi iscrissi a Lettere, scegliendo con gli occhi gonfi di

gioia e speranze, il corso in Letteratura, musica e spettacolo,

non avevo in serbo domande. Mi sono laureata nel 2011, e ho

326

iniziato a scivere per una testata cartacea sportiva. Ero una

giornalista a tutti gli effetti, o meglio, quella sarebbe stata la

mia cosiddetta gavetta per arrivare lontano. O almeno

arrivare. Mi occupavo di calcio giovanile fino alla Serie D,

seguendo dalle tre alle sei partite ogni week end. Ovviamente

tutto a mie spese, a me la sola gloria di imparare ( a detta loro)

la professione e, ottenere il tanto ambito tesserino da

pubblicista. Così è stato per otto mesi, poi qualcosa mi ha

dato un motivo per fermarmi e pensare, valutare ciò che stavo

facendo. E capii che non era così che doveva essere. Non era

giusto. I miei articoli, così come quelli degli altri

collaboratori, riempivano le pagine di un giornale venduto

tutti i giorni a 1 euro. E a noi quale merito? Nel frattempo

diventavo madre. Ho abbandonato questa strada ed ho

iniziato a mandare curriculum in ogni dove, per fare però

quello che realmente sognavo di fare, scrivere di cinema. Chi

risponde e chi no. Finché qualcuno non inizia a dimostrare un

certo interesse, mi scrive proponendomi una collaborazione e

tutte, dico TUTTE le loro mail recitavano così: "La

collaborazione è da intendersi a titolo gratuito. Ma andrete al

cinema gratis". (Pensa...) Quale fortuna sotto i miei occhi

senza mai essermene accorta!

EM: Scrivi o hai mai scritto per altri siti al di fuori del tuo

blog? Se sì, sei o sei stata retribuita?

VO: C'ho provato, ho scritto per un paio di siti e un mensile

on line di critica cinematografica, poi ho lasciato tutto.

Durante un corso di Giornalismo culturale ho messo a fuoco

una possibilità diversa. Quella di investire su un progetto che

sarebbe stato solamente mio. Un blog. CriticissimaMente

nasce così, come uno spiraglio di luce nuova, un'opportunità

libera da vincoli dannosi e umilianti. Scrivere non è mai stata

327

la mia fonte di sostentamento primaria. No. Almeno non in

termini economici. Sono stata pagata per scrivere qualche

volta, le conto sul palmo di una mano. Mi hanno pagato 80

euro per recensire un determinato film, questo è accaduto tre

volte. Poi una volta, una nota tv mi ha chiesto di pubblicizzare

un servizio, e anche lì, previsto compenso. Scrivere mi

sostiene e mi salva la vita. Non mi fa campare, ma mi aiuta a

vivere. E' come un paradosso micidiale, dal quale non puoi

venir fuori. Forse è questo che mi ha spinto per un po' a farlo

senza pretese alcune. Ripenso a tutte le volte in cui la gente

mi ha riso in faccia: "Ah perché tu vuoi fare il critico

cinematografico come professione? Ahahah.". Sì, io

immaginavo una cosa del genere.

Con CriticissimaMente qualcosa è cambiato. Alla fine impari

ad andare avanti e ad alimentare le tue speranze, con l'affetto

dei lettori. Riesci a fare degli apprezzamenti, delle mail piene

di dimostrazione di stima e tante piccole cose, il compenso

più grande. Ma questo non basta per fare del tuo sogno la tua

professione. Io oggi ho 28 anni e sono madre di due bambini.

Una volta un amico giornalista mi ha detto che non avevo da

lamentarmi perché alla fine io avevo fatto la mia scelta.

Avevo scelto di diventare madre. Assurdo. Come se

realizzarsi nella vita fosse l'alternativa al diventare genitori.

Come se una cosa escludesse l'altra. Certo se ancora oggi

esistono persone che vedono questo nel futuro dei giovani, è

dura. Io non credo sia giusto alimentare e contribuire ad

allargare questo sistema. Perché saremmo non solo vittime,

ma anche carnefici di questa uccisione di massa ai danni della

cultura nel nostro paese.

EM: Nella tua risposta al post di Carlo Gubitosa scrivi: "noi

che scriviamo si, per passione, ma anche perché crediamo che

328

prima o poi, qualcuno, qualcosa, si smuova". Come credi che

le cose possano cambiare?

VO: Quando parlai con Gubitosa ero ancora piena di rabbia e

coraggio. Convinta che avrei cambiato il mondo. A distanza

di un anno non è che io non condivida più quanto detto

nell'articolo. Ammetto che scrivere gratis sia sbagliato, ma

continuo a non tollerare quell'atteggiamento che condanna le

vittime di questo sistema, senza cercare una soluzione. Perché

non aiuta, non cambia le cose. Un giovane aspirante

giornalista o critico che sia, oggi, in Italia, ha due possibilità:

accettare lo sfruttamento che duri due anni e sentirsi pure

colpevole della morte della professione, oppure rinunciare.

Fare in modo che in quella tanto sospirata casta di

professionisti nessuno entri, nessuno esca. Perché l'Italia è

così. Un circolo vizioso e asfissiante. Una stanza buia e

senz'aria. La scelta è la nostra salvezza, ma scegliere non è

mai semplice. Io oggi non mi vergogno di dire che scrivo per

passione. E' stata una mia scelta. Una di quelle che fai, ed è

qui il vero male, quando davanti non hai alternative. (Scrivo

per passione, ma non dimentico mai di ricordare a me stessa

quali siano, da sempre, le mie vere ambizioni).

Le cose possono cambiare eccome. Ma finché si continua a

cercare la colpa (sbagliando) e non il rimedio, la vedo dura.

Il lavoro è lavoro. Tutti i giovani che stanno scrivendo ora, e

sognano di farne una professione, non devono buttarsi e

cedere a baratti ignobili. "Tu scrivi per me però vai al cinema

gratis". Non esiste! Il mio consiglio e la mia speranza è che

nessuno più faccia del proprio talento, la propria passione.

("Non si accontenti di sopravvivere. Lei deve pretendere di

vivere in un mondo migliore, non soltanto sognarlo". Penso a

329

un film di Ozpetek, regista che tra l'altro neanche amo.

La finestra di fronte).

4.5.5 Emanuele De Vito

Ho ritenuto fosse interessante proporre anche delle

interviste realizzate con degli aspiranti giornalisti. I due

ragazzi a cui ho posto le mie domande hanno portato la loro

testimonianza evidenziando le difficoltà che incontrano

coloro che desiderano avvicinarsi alla professione. Il primo

ragazzo intervistato, Emanuele De Vito, laureando presso

l’Università degli Studi di Roma Tre, sottolinea la propria

disillusione prodotta dalla conoscenza ravvicinata dei sistemi

di accesso alla professione.

Emanule Mastrangeli: Presentati: chi sei? cosa hai studiato?

Emanuele De Vito: Ciao, sono Emanuele, ho 23 anni e sto

studiando Scienze della Comunicazione presso l’Università

degli Studi di Roma Tre, a breve conseguirò la laurea con una

tesi in Filosofia Politica sulla Crisi della Democrazia.

EM: Come e perché hai iniziato a scrivere? Per chi lo fai o lo

hai fatto?

EDV: Ho iniziato a scrivere perché, come molti che hanno

deciso di intraprendere questo corso di studi, avevo il sogno

di diventare giornalista. La conoscenza un po' più ravvicinata

di questo mondo, insieme a una serie di eventi esterni, mi ha

fatto però cambiare idea. Ho scritto per un periodo di circa un

330

anno per due giornali. Il primo era uno dei quotidiani locali

della mia città, Salerno, dove mio cugino in passato, lui poi

diventato in seguito giornalista professionista, aveva iniziato

a praticare la professione. E' stato un mio familiare dunque a

presentarmi al direttore. Il secondo era un magazine a tiratura

nazionale riguardante il fenomeno ultras, a cadenza

quattordicinale. In questo caso, andai io a presentarmi dal

direttore. Per quanto ne ricordi, alcuni miei articoli sono stati

pubblicati anche su alcuni siti, ma senza alcuna regolarità.

EM: Sei o sei mai stato retribuito per il tuo lavoro? Se non lo

sei, perché hai accettato?

EDV: No, ed aggiungo ovviamente no. In quel giornale e in

altri nella mia citta tutto il lavoro fatto prima del

conseguimento del titolo di pubblicista era quasi sempre non

retribuito, o pagato somme ridicole che però ti legavano

giorno e notte alla redazione. Il capitolo retribuzione non è

mai stato neanche sfiorato da nessuno dei miei “datori di

lavoro”, anche se neanche mi sento di chiamarli cosi' data la

precarietà del “rapporto lavorativo”. Pur trattandosi di un

lavoro a tempo pieno a tutti gli effetti, ho cercato di vivere

l'esperienza più come uno stage dove imparare il mestiere.

Dovendo io conseguire il tesserino di giornalista pubblcista,

la mia “paga” era la possibilita' di scrivere per questa testata

e di avere cosi la possibilita di conseguire il titolo di

giornalista. Ovviamente poi dopo due anni il direttore

avrebbe dovuto firmare un foglio dichiarando che la mia paga

era stata di tot, come la procedura per conseguire il titolo

prevede. Non sono mai arrivato a quel punto, ma questa era

la pratica standard. Condizioni simli per tutti coloro che

dovevano iniziare. Il lavoro era comunque abbastanza duro,

a volte anche 7 giorni a settimana, ed ero spesso in redazione

331

a svolgere a volte anche il lavoro dei redattori: impaginare,

titolare e correggere strafalcioni altrui. A volte per motivi

giornalistici mi recai anche con mezzi personali in luoghi

della provincia distanti piu di 80 km dal capoluogo nonché

mio luogo di residenza: ovviamente nessun rimborso venne

mai dato. Accettai perché, essendo già a conoscenza del

funzionamento, non avevo alcuna aspettativa riguardante

l'aspetto retributivo.

EM: Ritieni sia giusto scrivere gratis per blog o testate for-

profit?

EDV: Domanda retorica: lavorare gratis non e' mai giusto.

Tuttavia, il settore è in crisi dato che le entrate sono sempre

meno (carta stampata) e su Internet non si è ancora riusciti a

trovare un modo remunerativo di scrivere se non tramite

marketing e pubblcità.

EM: Non credi che questo fenomeno inquini il mercato?

EDV: E' ovvio che questo fenomeno inquina il mercato. E'

chiaro che, essendo quella da me descrita la situazione

(almeno nella mia città e nella mia regione), solo chi ha una

famiglia dietro che mantiene può permetttersi di

intraprendere questa via. E’ chiaro che se solo chi appartiene

alla classe benestante e dominante svolge questo mestiere,

centrale per la salute della democrazia stessa, il modo in cui

lui o lei vede il mondo o lo riporta rispecchierebbe la visione

del mondo della classe dominante stessa, andando poi quindi

il giornalista a perdere quella funzione di critica sociale, di

cane da guardia della democrazia, che dovrebbe svolgere. La

situazione e' un po' meno tragica di come la descrivo,

fortunatamente. Ma questa, ahimé, e un po’ la situazione

italiana qualcunque mestiere uno prenda in considerazione,

332

ovvero il non essere pagati per i primi anni quando si

comincia a lavorare.

4.5.6 Lorenzo Fusco

L’altro ragazzo intervistato, laureato presso l’Università

degli Studi di Roma Tre, sottolinea invece come l’amore per

la professione l’abbia spinto a cercare di trovare la propria

strada anche senza essere pagato.

Emanuele Mastrangeli: Presentati: chi sei? Cosa hai studiato?

Lorenzo Fusco: Mi chiamo Lorenzo Fusco e sono dottore in

Lettere Primarie ed Italianistica presso l'Università degli

Studi di Roma Tre.

EM: Perché hai iniziato a scrivere?

LF: Ho iniziato a scrivere per la grande passione che mi ha

sempre spinto verso la letteratura, la linguistica e il

giornalismo, soprattutto quello su carta stampata.

EM: Come hai iniziato a scrivere?

LF: Ho cominciato con il sito di informazione sportiva

calcioweb.com. Si trattava di una agenzia di stampa che, a

cavallo degli anni '90 e 2000, era tra le prime nel campo

dell'informazione sportiva in Italia. Poi, l'assenza di fondi ha

costretto l'agenzia a cessare la propria attività. Il sito, però,

non ha mai smesso di esistere. E' rimasto nelle mani di un

unico proprietario che, coincidenza ha voluto, è stato anche il

333

mio insegnante di giornalismo in un corso privato tenuto

presso i locali di una nota emittente radiofonica.

EM: Sei mai stato retribuito per il tuo lavoro?

LF: Ovviamente no. Inizialmente il lavoro sul portale era

finalizzato ad esercitare la scrittura per l'agenzia di stampa.

Successivamente, però, abbiamo deciso di avviare un serio

progetto di riqualifica del sito per farlo ritornare ad essere

quello di un tempo. In questa seconda fase, ho assunto non

solo il ruolo di articolista ma anche di caporedattore.

Nonostante la nuova qualifica assunta, però, anche in questo

caso, non si è mai parlato di paga.

EM: Allora perché hai accettato?

LF: Perché il progetto era nato all'interno di un corso di

formazione di un anno e dunque in un clima familiare. Non

mi sembrava il caso di rifiutare. Le intenzioni e le ambizioni,

poi, mi sembravano serie e importanti e il mio amore per la

professione giornalistica mi ha convinto ancora di più.

Inoltre, se dovevo scrivere gratuitamente, tanto valeva farlo

per una persona che conoscevo e di cui mi fidavo, che mi

avrebbe sicuramente aiutato a diventare pubblicista.

EM: Ritieni sia giusto scrivere gratis per blog o testate no

profit?

LF: A mio giudizio, dipende dalle situazioni. Nel mio caso,

non posso certo dire di essermi sentito “sfruttato”. Stesso

discorso nel caso di chi considera la scrittura su blog o testate

giornalistiche, principalmente come un passatempo. Per tutti

gli altri casi, certo, non lo ritengo assolutamente giusto.

EM: Non credi che questo fenomeno inquini il mercato?

334

LF: Assolutamente si, perché si produce una corsa al ribasso

che sminuisce il giornalismo sia dal punto di vista economico

che dal punto di vista professionale, ed è un peccato. Perché

questa è la base su cui si fonda il sistema giornalistico

italiano. Se la base è corrotta, poi non ci si può lamentare se

esistono pochi e troppo osannati giornalisti veri in Italia.

335

5 L’estero e la situazione economica e

sociale

«We unfortunately can’t pay you for it, but we do reach 13

million readers a month553». Potere in qualche modo riportare

l’espressione facciale di Nate Thayer, giornalista freelance,

di fronte all’offerta ricevuta dalla global editor di Atlantic,

Olga Khazan, sarebbe maggiormente significativo di tante

righe d’inchiostro. Il freelance, così come spiega un post

pubblicato sul suo blog NateThayer che riporta passo dopo

passo lo scambio di email tra lui e Olga Khazan, ha rispedito

l’offerta al mittente554.

«Thanks Olga:

I am a professional journalist who has made my living

by writing for 25 years and am not in the habit of

giving my services for free to for profit media outlets

so they can make money by using my work and efforts

by removing my ability to pay my bills and feed my

children. I know several people who write for the

Atlantic who of course get paid. I appreciate your

553 «Purtroppo non ti possiamo pagare, ma raggiungiamo 13 milioni di

lettori al mese». Thayer N., A Day in the Life of a Freelance Journalist—

2013 in natethayer.wordpress.com, 4 marzo 2013

(http://natethayer.wordpress.com/2013/03/04/a-day-in-the-life-of-a-

freelance-journalist-2013/). 554 Atlantic ha chiesto a Nate Thayer di riadattare un suo pezzo («25 Years

of Slam Dunk Diplomacy: Rodman trip comes after 25 years of basketball

diplomacy between U.S. and North Korea») pubblicato su NKNews.org.

336

interest, but, while I respect the Atlantic, and have

several friends who write for it, I have bills to pay and

cannot expect to do so by giving my work away for

free to a for profit company so they can make money

off of my efforts. 1200 words by the end of the week

would be fine, and I can assure you it would be well

received, but not for free. Frankly, I will refrain from

being insulted and am perplexed how one can expect

to try to retain quality professional services without

compensating for them. Let me know if you have

perhaps mispoken555».

Con estrema tranquillità Olga Khazan ha sottolineato

come il giornale non disponesse di fondi da dedicare ai

freelance. Tuttavia, molti giornalisti secondo la global editor

555 «Grazie Olga: sono un giornalista professionista che ha

avuto come sostentamento primario la scrittura per 25 anni

e non è mia abitudine concedere i miei servizi

gratuitamente a gruppi mediatici for-profit in modo che

loro possano fare soldi utilizzando il mio lavoro e i miei

sforzi eliminando invece la mia capacità di pagare le mie

bollette e sfamare i miei figli. Conosco diverse persone che

scrivono per Atlantic e che vengono naturalmente pagate.

Apprezzo il vostro interessse, ma, anche se rispetto

Atlantic, e nonostante abbia molti amici che scrivono per

esso, ho bollette da pagare e non posso pensare di farlo

concedendo il mio lavoro gratis ad un’azienda for-profit per

consentire loro di fare soldi grazie ai miei sforzi. 1200

parole entro la fine della settimana andrebbero bene, e

posso assicurarti che le riceveresti, ma non gratis.

Francamente, mi asterrò dall’essere insultato e sono

perplesso riguardo a come qualcuno possa aspettarsi di

provare a ottenere servizi professionali di qualità senza

pagare. Fammi sapere se ti sei spiegata male». Ibidem.

337

di Atlantic utilizzano il sito come cassa di risonanza per

godere di visibilità e per questo motivo riteneva che Nate

Thayer sarebbe potuto essere interessato alla proposta556. Ma

così non è stato:

«I am sure you are aware of the changing,

deteriorating condition of our profession and the

difficulty for serious journalists to make a living

through their work resulting in the decline of the

quality of news in general. Ironically, a few years

back I was offered a staff job with the Atlantic to write

6 articles a year for a retainer of $125,000, with the

right to publish elsewhere in addition […]. I am sure

you can do what is the common practice these days

and just have one of your interns rewrite the story as

it was published elsewhere, but hopefully stating that

is how the information was acquired. If you ever are

556 «I completely understand your position, but our rate even for original,

reported stories is $100. I am out of freelance money right now, I enjoyed

your post, and I thought you’d be willing to summarize it for posting for

a wider audience without doing any additional legwork. Some journalists

use our platform as a way to gain more exposure for whatever professional

goals they might have, but that’s not right for everyone and it’s of course

perfectly reasonable to decline». Ovvero: «Capisco perfettamente la tua

posizione, ma la nostra tariffa persino per storie originali è di 100 $. Non

dispongo di fondi per i freelance al momento, mi è piaciuto il tuo pezzo e

ho pensato che avresti accettato di riassumerlo per pubblicarlo per un

pubblico più ampio senza dover fare nessun lavoro aggiuntivo. Alcuni

giornalisti utilizzano la nostra piattaforma per guadagnare visibilità per

qualsiasi interesse professionale loro possano avere, ma questo non è

giusto per tutti ed è perfettamente ragionevole rifiutare». Ibidem.

338

interested in a quality story on North Korea and wiling

to pay for it, please do give me a shout557».

Nate Thayer ha deciso di pubblicare lo scambio di email

per offrire una testimonianza delle condizioni in cui versa il

lavoro giornalistico nei nostri giorni. La situazione all’estero,

al contrario di quanto si potrebbe credere, non è affatto

migliore di quella italiana; ma il dibattito, specie negli Stati

Uniti è molto più intenso, con giornalisti e antropologi che si

interrogano riguardo al fenomeno e si schierano contro o a

favore di quest’ultimo.

557 «Sono certo che tu sia consapevole delle diverse e

deteriorate condizioni in cui versa la nostra professione e

della difficoltà dei giornalisti seri di vivere del proprio

lavoro e del risultato dell’abbassamento qualitativo

dell’informazione. Ironicamente, alcuni anni fa, mi venne

offerto un lavoro da Atlantic per scrivere 6 articoli in un

anno per un compenso di 125.000 $ […]. Sono certo che tu

possa fare quella che è la pratica più comune al giorno

d’oggi e chiedere ad uno dei tuoi redattori interni di

riscrivere la storia così come è stata pubblicata altrove, ma

possibilmente esplicitando come l’informazione è stata

ottenuta. Se mai dovessi essere interessata ad una storia di

qualità sulla Corea del Nord e volessi pagare per essa,

contattami pure». Ibidem.

339

5.1 Who pays writers? Il dibattito fuori

dall’Italia

Quasi nessuno, si potrebbe rispondere. La domanda che dà

il nome al paragrafo è così attuale che un sito di

crowdsourcing558 si occupa – tramite i vari contributi dei

partecipanti – di fotografare la situazione riportando il

tariffario di siti e riviste. Il sito, gestito da una blogger

chiamata Manjula Martin, esprime la propria missione con

queste parole: «A place to list whether, and how much,

magazines and websites pay their writers. We'll post 'em as

you report 'em. Intended to be informational, not

judgmental559». Who pays writers? è un infinito elenco dove

ogni post riporta la retribuzione offerta da un dato sito o una

data rivista. Ecco alcuni esempi:

558 Il crowdsourcing (da crowd, "folla", e outsourcing, "esternalizzazione

di una parte delle proprie attività") è un modello di business nel quale

un’azienda o un’istituzione affida la progettazione, la realizzazione o lo

sviluppo di un progetto, oggetto o idea ad un insieme indefinito di persone

non organizzate precedentemente. Questo processo viene favorito dagli

strumenti che mette a disposizione il web. Il crowdsourcing inizialmente

si basava sul lavoro di volontari ed appassionati che dedicavano il loro

tempo libero a creare contenuti e risolvere problemi. La community open

source è stata la prima a trovarne beneficio. L'enciclopedia Wikipedia

viene considerata da molti un esempio di crowdsourcing volontario.

Fonte: Wikipedia. 559 «Un posto dove riportare se, e quanto, riviste e siti pagano i loro

scrittori. Li pubblicheremo così come li riportate. Questo spazio vuole

esssere informativo, non giudicante». Who pays writers? in

whopays.tumblr.com, (http://whopays.tumblr.com/).

340

«Vintage Life Magazine

Report: “Doesn’t Pay—will give you an

advertisement” in exchange for an 800-word feature

in 2013.

RELEVANT Magazine

Report: 10 cents/word for print, nothing for web

“unless it’s commissioned/short deadline/urgent.”

VICE

Report: $75 for a 1200-word feature. “Thoughtful

edits, which is nice.”

Vanity Fair, circa 1992

Blast from the past: A writer reports recurring

assignments for pieces on pop culture/ “hip new

things” at $2 a word for 150-300 words. “Aahhh, the

good ole days”560».

560 «Vintage Life Magazine – Reseconto: “Non paga – ti

offrei uno spazio pubblicitario” in cambio di un pezzo di

800 parole nel 2013. Relevant Magazine – Resoconto: 10

centesimi a parola per la carta stampata, niente per il web

“a meno che non sia commissionato/a breve

scadenza/urgente”. VICE – Resconto: 75 $ per un pezzo di

1200 parole. “Modifiche ponderate, che è apprezzabile”.

Vanity Fair, 1992 – Tuffo nel passato: uno scrittore riporta

incarichi ricorrenti per pezzi sulla cultura pop/nuove cose

341

Who pays writers? può rappresentare un ottimo strumento

per entrare nel merito della questione. All’estero, in particolar

modo negli Stati Uniti, il fenomeno ha una rilevanza di gran

lunga maggiore nell’agenda mediatica rispetto all’Italia.

Sono stati già riportati ed analizzati casi eclatanti come quello

di Nate Thayer o l’azione legale dei blogger guidati da

Jonathan Tasini nei confronti dell’Huffington Post. Il

dibattito va in scena su testate di primissimo piano come

possono essere Atlantic o The New York Times. Dalle pagine

online del giornale newyorkese è arrivata una denuncia molto

forte, firmata da Tim Kreider. Il suo articolo «Slaves of the

Internet, Unite!561» ha dato il via ad un dibattito intenso

ospitato dal palcoscenico di Twitter, oltre ad aver generato

repliche illustri su altre testate. «I received, in a single week,

three (3) invitations to write an original piece for publication

or give a prepared speech in exchange for no ($0.00)

money562». Kreider sottolinea immediatamente come sia

diventata una prassi la pretesa di ottenere un lavoro senza un

esborso economico nel momento in cui si parla di

giornalismo. Il canovaccio, poi, è sempre lo stesso: «They

often start by telling you how much they admire your work,

alla moda” a 2 $ a parola per 150-300 parole. “Aahhh, i

vecchi tempi”», ibidem. 561 «Schiavi di Internet, Unitevi!». Krieder T., Slaves of the

Internet, Unite! In nytimes.com, 26 ottobre 2013

(http://www.nytimes.com/2013/10/27/opinion/sunday/slav

es-of-the-internet-unite.html?_r=1&). 562 «Ho ricevuto, in una sola settimana, tre (3) inviti a

scrivere un pezzo originale per la pubblicazione o a

concedere un discorso in cambio di nessun soldo (0.00 $)».

Ibidem.

342

although not enough, evidently, to pay one cent for it.

“Unfortunately we don’t have the budget to offer

compensation to our contributors...” is how the pertinent line

usually starts. But just as often, they simply omit any mention

of payment563». Così come pertinentemente sottolineato da

Silvia Bencivelli, anche Kreider evidenzia come la moneta

più utilizzata sul Web sia la visibilità, dal giornalista chiamata

exposure. E pur non nascondendo il fatto che spesso le

richieste di esecuzione di un lavoro non retribuito provengano

da persone che realmente non dispongono di un budget

adeguato564, Krieder attacca tanto gli editori senza scrupoli

sempre pronti a risparmiare laddove possibile, quanto chi a

suo modo partecipa a rendere tutto ciò possibile: coloro che

accetano di lavorare gratis565. In questo senso il pensiero di

563 «Spesso iniziano dicendoti quanto ammirano il tuo lavoro, sebbene

non abbastanza, evidentemente, da pagare un centesimo.

“Sfortunatamente non disponiamo di un budget per offrire un compenso

ai nostri collaboratori…” è la formula utilizzata solitamente. Ma molto

spesso, semplicemente non viene menzionato nulla riguardo al

pagamento». Ibidem. 564 «In fairness, most of the people who ask me to write things for free,

with the exception of Arianna Huffington, aren’t the Man; they’re editors

of struggling magazines or sites, or school administrators who are

probably telling me the truth about their budgets». Ovvero, «In tutta

onestà, la maggior parte delle persone che mi chiede di scrivere cose

gratuitamente, con l’eccezione di Arianna Huffington, non sono l’Uomo;

sono editori di riviste o siti in difficoltà, oppure amministratori scolastici

che stanno probabilmente dicendo la verità riguardo ai loro fondi».

Ibidem. 565 «I know there’s no point in demanding that businesspeople pay artists

for their work, any more than there is in politely asking stink bugs or

rhinoviruses to quit it already. It’s their job to be rapacious and shameless.

But they can get away with paying nothing only for the same reason so

many sleazy guys keep trying to pick up women by insulting them:

because it keeps working on someone. There is a bottomless supply of

343

Krieder si colloca sul solco di quanto scritto da Carlo

Gubitosa e l’appello che il giornalista americano lancia alla

fine del suo pezzo ricorda quello pubblicato dallo stesso

Gubitosa sul suo sito:

«So I’m writing this not only in the hope that everyone

will cross me off the list of writers to hit up for free

content but, more important, to make a plea to my

younger colleagues. As an older, more accomplished,

equally unsuccessful artist, I beseech you, don’t give

it away. As a matter of principle. Do it for your

colleagues, your fellow artists, because if we all

consistently say no they might, eventually, take the

hint. It shouldn’t be professionally or socially

acceptable — it isn’t right — for people to tell us, over

and over, that our vocation is worthless566».

ambitious young artists in all media who believe the line about exposure,

or who are simply so thrilled at the prospect of publication that they’re

happy to do it free of charge». Ovvero, «So che non ha senso domandare

a uomini d’affare di pagare gli artisti per il loro lavoro, non più di quanto

ne abbia chiedere cortesemente alle cimici o al rhinovirus di andarsene. Il

loro lavoro richiede di essere rapaci e senza vergogna. Ma loro possono

andarsene senza aver pagato nulla solamente per la stessa ragione per cui

così tanti ragazzi malfamati continuano a provare di abbordare donne

insultandole: perché continua a funzionare su qualcuno. C’è un

rifornimento senza fondo di giovani artisti ambiziosi in tutti i media che

credono nella visibilità, o che sono semplicemente così eccitati dall’idea

di essere pubblicati che sono felici di farlo gratuitamente». Ibidem. 566 «Sto scrivendo tutto questo non solamente nella speranza che tutti mi

cancellino dalla lista di scrittori da contattare per contenuti gratuity ma,

più importante, per lanciare un appello ai miei giovani colleghi. In qualità

di artista più anziano, più esperto e ugualmente fallito, vi imploro, non

darlo via. Per una questione di principio. Fallo per i tuoi colleghi, per i

344

Tuttavia, i professionisti del settore non sono unanimi

nell’accogliere e condividere appelli di questo tenore567. C’è

chi crede che l’esposizione garantita dalla vetrina dei siti sia

una moneta di valore (Dan Lewis), chi ritiene che scrivere

tuoi compagni artisti, perché se noi dovessimo tutti insieme

dire di no loro potrebbero, eventualmente, recepire il

messaggio. Non dovrebbe essere né provfessionalmente né

socialmente accettabile – non è giusto – che delle persone

ci dicano, ancora e ancora, che la nostra vocazione non ha

valore». Ibidem. 567 Altra importante presa di posizione sulla falsariga di

Krieder è quella di Kathleen Geier che dalle pagine online

di Washington Monthly scrive: «The reason I insist on

being paid for my writing is not only because my time and

services are valuable and doing unpaid work for someone

else is insulting. There’s also a principle of solidarity at

work. Every time a writer agrees to work for free, she drives

down writers’ wages and makes it harder for other writers

to make an adequate living from their craft». Ovvero, «La

ragione per cui insisto nell’essere pagata per I miei lavori

non è solamente che il mio tempo e miei servizi hanno

valore lavorare gratuitamente per qualcun altro è offensive.

C’è anche un principio di solidarietà al lavoro. Ogni volta

che uno scrittore accetta di lavorare gratis, abbassa gli

stipendi degli altri scrittori e rende più difficile per gli altri

scrittori vivere del proprio lavoro». Geier K., Op-ed of the

day: Tim Kreider in the New York Times, “Slaves of the

Internet, Unite!” in washingtonmonthly.com, 27 ottobre

2013 (http://www.washingtonmonthly.com/political-

animal-

a/2013_10/oped_of_the_day_tim_kreider_in047523.php).

345

gratis in determinate circostanze possa rivelarsi molto utile

(Daniel D’Addario), chi pur deprecando il lavoro non

retribuito pensa che pretendere che nessuno accetti più di

collaborare gratuitamente sia utopico (Derek Thompson). E

ancora, all’estremo opposto rispetto a un Gubitosa o un

Krieder, si trova chi crede che i cambiamenti tecnologici,

economici e sociali rendano il fenomeno inevitabile,

irreversibile e al contempo tutt’altro che dannoso (Mathew

Ingram), o chi ritiene che la scrittura gratuita sia un enorme

benificio per la società (Matthew Yglesias).

Dan Lewis dalle pagine di Medium fa sapere che

l’esposizione, la visibilità offerta da alcune piattaforme può

portare – percorrendo vie secondarie – dei guadagni. E’

quanto è successo a lui e al suo progetto, decollato grazie alla

cassa di risonanza ottenuta tramite la scrittura di pezzi non

retribuiti. «The goal of “exposure” isn’t “experience” or to

add to the “I’ve written at X, Y, and Z” line on your resume.

It’s to convert some of the publisher’s audience to your own.

That’s it568». Esistono due regole imprescindibili secondo

Lewis per perseguire quest’obiettivo: in primo luogo l’editore

deve dimostrare che la sua piattaforma verrà utilizzata per

deviare parte del pubblico verso lo spazio gestito dal

collaboratore; dall’altra parte quest’ultimo deve fare in modo

di sfruttare l’esposizione ottenendo un beneficio a lungo

termine. Lewis, alla fine del suo post, sottolinea come grazie

alla visibilità sia diventato uno scrittore in grado di 568 «L’obiettivo della visibilità non è l’esperienza o il poter aggiungere

“Ho scritto su X, Y e Z” sul vostro curriculum vitae. L’obiettivo è far

diventare parte del pubblico dell’editore il vostro pubblico. Tutto qui».

Lewis D., It’s Totally Okay to Write Stuff for Free to Get Exposure…if

that’s what you’re actually doing in medium.com, 28 ottobre 2013

(https://medium.com/i-m-h-o/1b361d512b5).

346

guadagnare dalla propria attività: ha pubblicato un libro, ha

qualche cliente pagante, gestisce una pubblicazione

all’interno della quale può piazzare degli annunci

pubblicitari. Quello che Lewis sembra però non considerare

è che quanto ha vissuto in prima persona non può essere

trasformato in una legge universale. Nessuno nega che

l’esposizione possa portare dei benefici, ma nella maggior

parte dei casi questi hanno effetti trascurabili, se non

inesistenti. In primo luogo perché affinché la visibilità offerta

da un sito sortisca un effetto, il traffico dello stesso dev’essere

importante. In altri termini, quali risultati si possono ottenere

accettando un’offerta di lavoro non retribuita da parte di una

realtà online frequentata da qualche decina di utenti? Esiste

una contraddizione difficilmente risolvibile a tal proposito:

l’esposizione ha valore569 solamente nel momento in cui il

blog o la testata generino un traffico di un certo spessore, ma

traffici intensi accumulano guadagni altrettanto importanti,

quindi per quale motivo si dovrebbe concedere il proprio

lavoro gratuitamente in favore di imprese che producono dei

capitali sostanziosi? Secondo Daniel D’Addario, giornalista

di Salon, il quale si schiera contro l’appello lanciato da

Krieder su The New York Times, dal momento che la

situazione della professione è radicalmente cambiata e le

opportunità si sono ridotte e impoverite, in alcuni casi diviene

inevitabile scrivere senza ricevere un compenso. Quando un

giovane scrittore dovrebbe scrivere gratis?570 Si chiede

569 Manca in ogni caso la certezza di ricevere in cambio qualche beneficio.

Si tratta comunque di un investimento con alto coefficiente di rischio, al

contrario di un pagamento sicuro e prestabilito. 570 D’Addario D., When should a young writer write for free? In

salon.com, 29 ottobre 2013

347

D’Addario nel suo post. La risposta è che a volte non può non

farlo. Se il sistema funziona secondo queste logiche, i giovani

non possono che attraversare il lavoro non retribuito come

una tappa che non è possibile aggirare. Dalle righe di Salon,

D’Addario attacca Krieder e il suo j’accuse nei confronti di

coloro che accettano di scrivere gratuitamente. La colpa,

spiega D’Addario, è degli editori, non di coloro che vivono

una situazione di sfruttamento, sottopagati e condannati al

precariato. Anche Derek Thompson dalle pagine online di

Atlantic cerca di confutare alcune delle posizioni esposte da

Krieder. In primo luogo, a Thompson preme sottolineare

come scrivere non sia equiparabile ad altri lavori,

semplicemente perché in fondo tutti scrivono gratis. Della

stessa idea è anche Farhad Manjoo, un giornalista americano

che lavora per il Wall Street Journal (figura 28).

«You might not think you do, but you almost certainly

do. Maybe you publish opinions and thoughts on

Facebook and Twitter. Maybe you have diary, a

Tumblr, or a personal blog, to share ideas and work

out theories. Maybe you write long letters or emails or

talks to colleagues, students, newspapers, mentors,

and mentees. This is all free writing. Sometimes, it is

done on sites with paid advertising, sometimes with

sites with editors, sometimes in private windows and

notebooks, and while writing is never "easy," it is

easier than ever, and so it is done, often free of charge,

all over the place. The Web is awash with words, and

if everybody insisted on publishing only those words

(http://www.salon.com/2013/10/29/when_should_a_young_writer_write

_for_free/).

348

agreed upon by paid contract, the Internet and the

world of letters would be considerably more

empty571».

(figura 28 – Il tweet di Farhad Manjoo572)

571 «Potresti non credere di farlo, ma quasi certamente lo

fai. Forse pubblici opinioni e pensieri su Facebook e

Twitter. Forse hai un diario, un Tumblr, o un blog

personale, dove condividi idee e sviluppi teorie. Forse

scrivi lunghe lettere o email o chiacchiere a colleghi,

student, giornali, mentori e allievi. Tutto ciò è scrittura

gratuita. A volte, questo viene fatto su siti che hanno

annunci pubblicitari a pagamento, a volte su siti che hanno

degli editori, a volte su finestre private e mentre scrivere

non è mai “facile”, è comunque più facile di quanto lo sia

mai stato e per questo viene fatto, spesso gratuitamente,

ovunque. Il Web è inondato da parole e se tutti insistessero

nel pubblicare solamente quelle parole concordate tramite

un contratto retribuito, Internet e il mondo delle lettere

sarebbe considerabilmente più vuoto». Thompson D.,

Writing for Free in theatlantic.com, 28 ottobre 2013

(http://www.theatlantic.com/business/archive/2013/10/wri

ting-for-free/280918/). 572 «Le persone scrivono gratis. Succede in ogni momento.

Perciò se gestisci una rivista e non stai chiedendo alle

persone di scrivere gratis, stai sbgliando».

349

Leggendo le parole di Derek Thompson risulta inevitabile

collegare questo articolo con il caso di Nate Thayer, al quale

– come descritto in precedenza – è stato proposto di adattare

un pezzo per Atlantic senza ricevere un compenso; infatti, il

pezzo firmato da Thompson è pubblicato sullo stesso giornale

statunitense. Al di là di questa considerazione, la posizione

del giornalista di Atlantic mostra più di una falla, o quanto

meno più di una omissione. Thompson inserisce senza

criterio nello stesso calderone un post su Facebook, una email

inviata ad un amico e il lavoro non retribuito, condito da

commissioni, scadenze, regolamentazioni, direttive. Il

giornalista ricorda più avanti che scrivere è anche una

professione e in quanto tale la sua natura possa scontrarsi con

l’idea di un lavoro svolto senza un compenso economico.

Tuttavia, nonostante egli ritenga che gli scrittori andrebbero

pagati, Thompson rifiuta l’idea che scrivere gratis sia un

problema tout court. «So, do websites that accept free writing

foreclose our industry to people who can't afford to write for

free, or open our industry to anybody who wants to write for

free? Maybe both573». Il giornalista di Atlantic omette un

passaggio: nessuna posizione critica, come ad esempio quella

di Krieder, afferma che scrivere gratuitamente sia sbagliato

in ogni sua accezione, dalla scrittura su un blog privato alla

concessione di articoli verso siti no-profit; bensì, si cerca di

esprimere il dissenso etico, morale e professionale nei

573 «Quindi, i siti che accettano la scrittura non retribuita

precludono l’accesso alla nostra industria alle persone che

non possono permettersi di scrivere gratis, oppure aprono

la nostra industria a chiunque voglia scrivere

gratuitamente? Forse entrambe le cose». Ibidem.

350

confronti del lavoro non retribuito svolto a favore di imprese

for-profit. Secondo Thompson nel momento in cui scrivere

gratis sul Web aumenta il numero di contenuti disponibili –

al di là del livello qualitativo –, il fenomeno non può essere

considerato negativo. Mentre sotto tutt’altra luce vengono

visti i tirocinii non retribuiti:

«The fact that so many people write for free, all the

time, sits uncomfortably with the fact that writing is

also, occasionally, a profession. And we have, in this

country, a fairly clear sense that work deserves

compensation. This is, for example, why I consider

unpaid internships morally repugnant, since we're

essentially asking that entry-level jobs, for which

there is a minimum wage, be performed for free

because somebody replaced the word "job" with

"internship”574».

Quello che Thompson non riesce a spiegare con

sufficiente convinzione– volontariamente o meno – è la

natura della differenza tra il giornalismo e la scrittura in un

senso più generale e le altre professioni. Il fatto che chiunque

574 «Il fatto che così tante persone scrivano gratuitamente, in ogni

momento, non si concilia con il fatto che scrivere sia anche,

occasionalmente, una professione. E noi abbiamo, in questo paese,

un’idea sufficientemente chiara che il lavoro debba essere retribuito.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, io considero i tirocinii non pagati

moralmente disdicevoli dal momento che stiamo essenzialmente

chiedendo che lavori che consentono l’accesso, per i quali esiste una paga

minima, vengano svolti gratuitamente per il solo motivo che qualcuno ha

rimpiazzato la parola “lavoro” con la parola “tirocinio”». Ibidem.

351

abbia scritto e scriva qualcosa gratuitamente in determinati

contesti è un argomento fuorviante a sostegno della tesi che

il giornalista di Atlantic cerca di proporre. Anche Carlo

Gubitosa respinge l’idea di un giornalismo qualitativamente

differente dalle altre professioni: «Io non credo che il mio

tempo, il valore della mia esperienza professionale, delle

tecniche che ho imparato, del mestiere che ho accumulato in

questi vent’anni che scrivo sia inferiore al valore

professionale dell’avvocato[…]. Ognuno di noi sviluppa un

tipo diverso di scrittura […] però non vedo perché debba

esserci questo divario nel compenso di un avvocato e quello

di un giornalista575». Un esempio chiarirà meglio questa presa

di posizione. Si pensi alla cucina. Internet, tra le tante

rivoluzioni messe in atto, ha consentito di accedere ad un

database di ricette sterminato. Ogni piatto che si vuole

riproporre viene accompagnato da descrizioni testuali,

fotografie e video, oltre a collegamenti ipertestuali che

rimandano ad altre capacità eventualmente richieste dalla

ricetta576. Diventare dei buoni cuochi richiede solamente un

pizzico di impegno e laddove manchino le abilità manuali e

la predisposizione, si potrebbe comunque compensare con la

conoscenza. Molte persone cucinano in casa propria per la

famiglia o gli amici senza ricevere un compenso, ma questo

non implica che un cuoco in un ristorante debba o possa

lavorare senza venire retribuito. Il ristorante è un’impresa for-

profit che offre dei servizi dietro un pagamento e dove parte

del totale dei guadagni viene speso per il costo della

manodopera. La pretesa di un datore di lavoro di far lavorare

575 Estratto dall’intervista fatta a Carlo Gubitosa. 576 Ad esempio, se un utente volesse cimentarsi nella preparazione di una

quiche, potrebbe volere utilizzare una pasta brisé fatta in casa, piuttosto

che comprarla già pronta.

352

gratis un proprio dipendente perché esistono migliaia di

persone che cucinano in casa senza venire pagate sarebbe

etichettata come follia. Ma se questo stesso datore di lavoro

potesse contare su delle persone disposte a lavorare nel suo

ristorante senza venire retribuite, la proposta del principale

assumerebbe un’altra prospettiva: pur continuando ad essere

eticamente e moralmente inaccettabile, si approprierebbe di

una valenza pratica differente. Ne consegue che la differenza

tra il giornalismo e gli altri lavori non è qualitativa, non è

intrinsica, ma figlia di uno stato di cose a sua volta derivante

da processi che verranno più avanti analizzati. Il ricatto

dell’editore è possibile nel momento in cui esiste una

disponibilità di produttori di contenuti che non comportano

alcun esborso, che è stata generata da fattori che ne hanno

favorito l’esplosione. Ma né Derek Thompson, né nessun

altro, ha spiegato per quale motivo il giornalista sia diverso

dal cuoco, se non per il fatto che esistono persone disposte,

per svariate ragioni, a svolgere questa professione

gratuitamente; anche e soprattutto perché hanno l’opportunità

e il modo di farlo. E allora il tutto si riduce ad una legge di

mercato, come quella descritta da Silvia Bencivelli nel suo

articolo pubblicato su Linkiesta. «Why do people write for

nothing? – si chiede Mathew Ingram sulle pagine di

PaidContent – Is it because some capitalistic conspiracy has

decided that their work is of no value, as many of Kreider’s

supporters seem to think? No. In some cases it’s because they

like to do it, and don’t need the money. In other cases it’s

because writing helps publicize other things that make money

[…]577». Le cose sono cambiate, sottolinea Ingram, e se da

577 «Perché lo fanno? È forse perché qualche complotto capitalista ha

deciso che il loro lavoro non ha alcun valore, come molti dei sostenitori

di Kreider sembrano pensare? No. In alcuni casi è perché gli piace farlo ,

353

una parte il fenomeno crea problemi ad alcune persone,

dall’altra molte altre stanno avendo la possibilità di fare

qualcosa che amano raggiungendo un pubblico di una certa

portata o interagendo con altri autori578: And that’s not a bad

thing at all. Non è affatto male, sostiene Ingram. Soprattutto

perché non sembra esserci grande differenza qualitativa tra i

contenuti prodotti dietro pagamento e quelli gratuiti, come

sostiene Hunter Walk, un ex membro dello staff di YouTube

in uno scambio di Tweet con lo stesso Ingram (figura 29).

e non hanno bisogno di soldi. In altri casi è perché la scrittura aiuta a

pubblicizzare altre cose che invece fanno fare soldi». Ingram M., No,

writing for free isn’t slavery, and other misconceptions about the

economics of online media in paidcontent.org, 28 ottobre 2013

(http://paidcontent.org/2013/10/28/no-writing-for-free-isnt-slavery-and-

other-misconceptions-about-the-economics-of-online-media/). 578 «Is this a bad state of affairs for many people? Sure it is, just as the

amateurization of photography and other fields is difficult for some

professionals in those fields. But it’s arguably good for many others —

some of whom can now create a life that includes doing something they

love, reaching an audience or connecting with other artists, and maybe

even getting paid for it». Ovvero, «E ‘una brutta situazione per molte

persone? Certo che lo è, proprio come la amatorizzazione della fotografia

(ad esempio) crea forti difficoltà per molti professionisti del settore. Ma è

senza dubbio un bene per molti altri – alcuni dei quali possono ora crearsi

una vita in cui c’ è anche la possibilità di fare qualcosa che si ama,

raggiungendo un pubblico o collegandosi con altri artisti , e che forse

potranno anche essere pagati per questo». Ibidem.

354

(figura 29 – Il tweet di Hunter Walk rivolto a Mathew

Ingram579)

Tuttavia, anche il giornalista di PaidContent aggira il

punto cruciale attorno a cui ruota la tesi di Krieder – così

come quella di Gubitosa e di altri –, ovvero che la scrittura

gratuita e il giornalismo professionale potrebbero

tranquillamente convivere e perfino alimentarsi a vicenda.

Quel che si cerca di combattere è il lavoro non retribuito

svolto a favore di imprese for-profit, non la scrittura online

tout court. «If you do enjoy writing and you don't have a

money-making writing opportunity, you should definitely be

writing for free. The tough choice is whether you want to

write for free for some other publications or just under your

own header580». Rispondendo alla constatazione di Matthew

579 «Ma come mai l’apparente differenza di qualità tra coloro che scrivono

per soldi e coloro che scrivono gratis è così sottile?». 580 «Se ti piace scrivere e non hai un’opportunità di lavoro che possa farti

guadagnare, dovresti assolutamente scrivere gratis. La scelta difficile è se

vuoi farlo gratis per altre pubblicazioni o solamente sotto la tua stessa

355

Yglesias apparsa sulle pagine di Slate, se la scelta ricadesse

sul rifiuto della concessione di contenuti gratuiti in favore di

imprese for-profit, ne gioverebbero tutti (figura 30): i

giornalisti professionisti, che non vedrebbero il proprio

lavoro dequalificato e sottopagato (o non pagato affatto); i

freelance, i blogger, gli appassionati e quant’altro, che

otterrebbero qualcosa dai propri sforzi oltre all’esposizione e

a qualche complimento; i lettori, che disporrebbero forse di

un minor numero di contenuti, ma di maggiore qualità581; gli

editori, per la stessa ragione legata alla qualità media dei

contenuti. Perché, dopotutto, l’obiettivo primario delle

imprese resta quello di offrire un servizio qualitativamente

alto. Oppure no?

guida». Yglesias M., People Writing for Free on the Internet Is an

Enormous Boon to Society in slate.com, 5 marzo 2013

(http://www.slate.com/blogs/moneybox/2013/03/05/writing_for_free_on

_the_internet_it_s_a_huge_boon_to_society.html). 581 In un mercato non inquinato in cui i contenuti sono pagati, quei lavori

che non spingono all’esborso forse non spiccano per qualità. E in ogni

modo potrebbero essere pubblicati gratuitamente su piattaforme personali

o no-profit.

356

(figura 30 – Un tweet di Ted Weinstein582, un autore e agente

letterario americano)

5.2 A new economy: cosa è cambiato

Si è fatto riferimento, disseminando in più occasioni delle

tracce, a dei cambiamenti strutturali, di carattere tecnologico,

economico e sociale, che hanno favorito e consentito

l’emergere del fenomeno del lavoro non retribuito, in

particolar modo quello giornalistico, di interesse primario in

questa sede. La prima parte di questa ricerca ha analizzato in

maniera approfondita le modifiche che la professione ha

dovuto metabolizzare a causa dell’evoluzione tecnologica di

Internet, strumento che ha ridefinito le regole giornalistiche e

ridisegnato le competenze del singolo professionista. Ma la

Rete ha fatto molto di più, contribuendo per sua stessa natura

582 «Se ogni scrittore smettesse di scrivere gratis, gli editori dovrebbero

pagare o non pubblicare più».

357

all’esplosione del fenomeno che è oggetto di studio di questo

lavoro. Quando sono state analizzate le diverse vesti del

giornalismo online, è stato evidenziato come il Web abbia

ospitato forme di comunicazione, ancora prima che forme

giornalistiche, rivoluzionarie. Internet ha messo nelle mani di

ogni singolo utente una chiave che per un’infinità di anni era

stata in possesso di un’oligarchia inarrivabile, una chiave che

ha consentito ad un pubblico precedentemente relegato ad un

ruolo passivo di interagire prima, di creare poi. Bisogna

riconoscere che la professione giornalistica, o la scrittura in

un’accezione più generale, ha sempre esercitato un grande

fascino, forse anche perché alimentata nel tempo da una serie

di mitologie non esattamente corrispondenti alla realtà. E’

questo il punto che a molti critici preme sottolineare, come

mostrato nel paragrafo precedente: ci sarà sempre qualcuno

disposto a scrivere gratuitamente, per svariati motivi. C’è di

più: ci sono sempre state persone che avrebbero voluto

scrivere pur non venendo retribuite. La differenza è che negli

ultimi anni tutto ciò è diventato possibile grazie a Internet,

che ha letteralmente aperto le porte del paradiso. «I suppose

people who aren’t artists assume that being one must be fun

since, after all, we do choose to do it despite the fact that no

one pays us. They figure we must be flattered to have

someone ask us to do our little thing we already do. I will

freely admit that writing beats baling hay or going door-to-

door for a living, but it’s still shockingly unenjoyable

work583», scrive Tim Krieder nel suo articolo per The New

583 «Immagino che le persone che non sono artisti pension che esserlo

debba essere divertente dal momento che, dopotutto, noi scegliamo di

farlo nonostante nessuno ci paghi. Immaginano che noi dobbiamo essere

lusingati di avere qualcuno che ci chieda di fare questa cosa insignificante

che già facciamo. Ammetto candidamente che scrivere sia meglio di

358

York Times. Rimane semplicemente un lavoro, si potrebbe

aggiungere, soprattutto nel momento in cui esistono delle

direttive, delle commissioni, delle scadenze, degli orari e

quant’altro. Ma ciò che si para dinnanzi ai sostenitori delle

idee di Jonathan Tasini, Carlo Gubitosa, Silvia Bencivelli,

Tim Krieder – per citarne alcuni – è una new economy, una

serie di cambiamenti strutturali che hanno trasformato il

mercato nell’arena del ribasso. «There will always be people

who want to write for free – scrive Mathew Ingram –, and

that’s not necessarily a bad thing. Unless, of course, you are

one of those writers who used to profit from the lack of

marketplace competition584». La morte di una professione,

secondo Ingram, is not necessarily a bad thing. E potrebbe

aver ragione, se il mercato editoriale fosse completamente

avulso da logiche economiche, se la sepoltura della

professione e la nascita di uno spazio corale non

contribuissero al consueto arricchimento di pochi. In tal caso,

coloro che cercano di combattere questo fenomeno

accetterebbero il cambiamento figlio dell’evoluzione

tecnologica e cesserebbero di gridare all’ingiustizia. Ma la

new economy, in questo senso, indossa solamente un vestito

nuovo, mantenendo intatte le vecchie abitudini di un

raccogliere il fieno o fare porta-a-porta per campare, ma rimane

comunque un lavoro assolutamente non divertente». Krieder T., Slaves of

the Internet, Unite! In nytimes.com, 26 ottobre 2013 (cit.). 584 «Ci saranno sempre persone che vorranno scrivere gratis, e questa non

è necessariamente una brutta cosa. A meno che, ovviamente, tu non sia

uno di quegli scrittori che guadagnava grazie alla mancanza di

competizione sul mercato». Ingram M., The new economics of media: If

you want free content, there’s an almost infinite supply in

paidcontent.org, 6 marzo 2013 (http://paidcontent.org/2013/03/06/the-

new-economics-of-media-if-you-want-free-content-theres-an-almost-

infinite-supply/).

359

capitalismo che trattiene per i suoi vertici la quasi totalità

della ricchezza.

La veste della new economy è caratterizzata da un dominio

della domanda, come la definisce Ingram. «The reality is that

media or content broadly speaking has gone from being

primarily supply-driven to almost totally demand-driven, and

that has changed the economics in some fundamental

ways585». L’abbondanza, per utilizzare le parole del teorico

dei media Clay Shirky, pesa nel cambiamento molto più della

scarsità. Questo perché, come scrive Ann Michael su The

Scholarly Kitchen, «we know how to ration, save, and

preserve when we need to do so. It’s much harder to set

priorities and find our path when information abounds. We

may drown. We may get side-tracked. We may shut down.

But, in any case, abundance confuses and distracts us more

than scarcity does586». La new economy si è quindi plasmata

in un contesto di abbondanza in cui il valore dell’offerta è

crollato: «Writing hasn’t become free or cheap because no

585 «La realtà è che i media o il contenuto in senso lato sono passati da

una situazione di monopolio dell’ offerta a una situazione, opposta, di

dominio della domanda, che ha radicalmente cambiato i dati economici

essenziali del settore». Ingram M., No, writing for free isn’t slavery, and

other misconceptions about the economics of online media in

paidcontent.org, 28 ottobre 2013 (cit.). 586 «Sappiamo come razionare, risparmiare e preservare quando

dobbiamo farlo. È molto più complicata scegliere delle priorità e trovare

il nostro percorso quando l’informazione abbonda. Potremmo affogare.

Potremmo essere depistati. Potremmo arrestarci. Ma, in ogni caso,

l’abbondanza ci confonde e distrae molto di più di quanto faccia la

scarsità». Michael A., Shirky at NFAIS: How Abundance Breaks

Everything in scholarlykitchen.sspnt.org, 2 marzo 2010

(http://scholarlykitchen.sspnet.org/2010/03/02/shirky-at-nfais-how-

abundance-breaks-everything/).

360

one wants it any more, it has become free or cheap because

there is so much of it that its intrinsic value has eroded — and

the advertising content that used to help pay the freight for

that writing has eroded just as quickly587». Un’abbondanza

che ha privato l’offerta non solamente di un valore

economico, ma anche di un valore che si potrebbe definire

intellettuale, estetico, artistico. Internet è diventato infatti

anche palcoscenico della trasformazione delle opere

artistiche, tutte raccolte sotto la fredda etichetta di

“contenuti”.

«The first time I ever heard the word “content” used

in its current context, I understood that all my artist

friends and I — henceforth, “content providers” —

were essentially extinct. This contemptuous coinage

is predicated on the assumption that it’s the delivery

system that matters, relegating what used to be called

“art” — writing, music, film, photography,

illustration — to the status of filler, stuff to stick

between banner ads588».

587 «La narrazione non è diventata gratuita o poco costosa perché nessuno

la vuole più ma perché ce n’ è così tanta in circolazione che il suo valore

intrinseco è stato eroso – e il contenuto pubblicitario che serviva per

sostenere la diffusione della scrittura ha perso valore altrettanto

rapidamente». Ingram M., No, writing for free isn’t slavery, and other

misconceptions about the economics of online media in paidcontent.org,

28 ottobre 2013 (cit.). 588 «La prima volta che ho sentito la parola “contenuto” utilizzato nel suo

senso corrente, ho capito che io e tutti i miei amici artisti – poi divenuti

“fornitori di contenuti” – eravamo essenzialmente estinti. Questo

srezzante neologismo si basa sul presupposto che è il sistema di consegna

che conta, relegando quello veniva definita “arte” – scrittura, musica,

361

Il fenomeno della scrittura non retribuita affonda le sue

radici in un terreno che trascende la professione giornalistica

e cui si è fatto cenno sul finire della prima parte di questa

lavoro. La realtà descritta in queste pagine si colloca nel più

ampio contesto di quella che l’antropologa, ricercatrice e

scrittrice americana Sarah Kendzior definisce post-

employment economy. Ho avuto il piacere e l’onore di porle

qualche domanda via email e utilizzerò stralci delle risposte

per arricchire il comparto informativo della realtà che si cerca

di descrivere, infine riporterò l’intervista integrale.

5.3 The post-employment economy

«From every institution in the United States, there is a

message broadcast on all channels to America’s educated

youth that hopes to enter active economic life, ‘Dude, why

are you all hung up on money? RELAAAAAAAX!”. Take a

step back, take a deep breath and consider this message in the

context of the rest of American life. Are you breathing?

WOW, WHAT AN AMAZING LOAD OF BULLSHIT589».

film, fotografia, illustrazione – allo stato di riempitivo, roba

da attaccare in mezzo a degli annunci pubblicitari». Krieder

T., Slaves of the Internet, Unite! In nytimes.com, 26 ottobre

2013 (cit.). 589 «Da ogni istituzione degli Stati Uniti, arruva un

messaggio diffuso in tutti i canali rivolto alla gioventù

americana istruita che spera di entrare a far parte della vita

economica, “Ehi, perché siete tutti ossessionati dai soldi?

362

Eric Garland, autore americano e direttore di Transitionistas,

non utilizza mezzi termini nel suo post intitolato «Sexy dirty

money». Il riferimento è alla realtà degli Stati Uniti, ma le

affinità con le condizioni economiche e sociali

dell’Occidente, Italia compresa, sono tali che il suo

messaggio può facilmente travalicare i confini americani.

«Money matters in America590». I soldi sono importanti in

America. Non solamente lì, si potrebbe aggiungere. Sarebbe

bello se così non fosse, ma questo slancio idealistico non

cambia la realtà dei fatti. I soldi contano, chi lo nega mente

oppure ha le spalle economicamente ben coperte. Eppure, c’è

chi – le istituzioni, chi detiene il potere economico, le imprese

– vuole convincere del contrario. «They are looking at

America’s young people and honestly asking with a straight

face - hey, what do you need money for, anyway? YOU

SHOULD BE FULFILLED JUST TO BE WORKING

HERE! YOU’RE LUCKY TO HAVE A CHANCE…591».

Per gran parte dei giovani laureati – americani e non –

l’accesso al mondo del lavoro è stato rimpiazzato da un

susseguirsi di tirocinii non retribuiti. Questo sistema è

diventato nel tempo consuetudine: «In one generation,

working for free for people who can pay you went from

something laughable, to something wealthy people were

Calma!”. Fate un passo indietro, prendete un respire profondo e

considerate questo messaggio in relazione al resto della vita americana.

State respirando? Wow, che incredibile cazzata!». Garland E., Sexy dirty

money in transitionistas.com, 6 marzo 2013

(http://www.transitionistas.com/2013/03/06/sexy-dirty-money/). 590 Ibidem. 591 «Guardano ai giovani americani e gli chiedono onestamente e

sinceramente – hey, a cosa ti servono i soldi, in ogni caso? Dovresti

sentirti appagato solo per il fatto di lavorare qui! Sei fortunato ad avere

un’opportunità…». Ibidem.

363

doing in a few fields, to something everyone was

recommended to do, to something almost everyone has to do.

Entry-level jobs were replaced with unpaid internship592».

Sarah Kendzior ha descritto il fenomeno definendolo scam,

ovvero un imbroglio, su Twitter. Questi i 10 tweet pubblicati

dalla studiosa americana che hanno attirato grande attenzione

e alimentato un interessante dibattito:

«Here is how the internship scam works. It’s not about

a “skills” gap. It’s about a morality gap.

1) Make higher education worthless by redefining

“skill” as a specific corporate contribution. Tell young

people they have no skills.

2) With “skill” irrelevant, require experience. Make

internship sole path to experience. Make internships

unpaid, locking out all but rich.

3) End on the job training for entry level jobs.

Educated told skills are irrelevant. Uneducated told

they have no way to obtain skills.

4) As wealthy progress on professional career path,

middle and lower class youth take service jobs to pay

off massive educational debt.

592 «In una sola generazione lavorare gratis per persone che possono

permettersi di pagare si è trasformato da qualcosa di divertente, in

qualcosa che persone benestanti facevano in qualche campo, poi in

qualcosa che veniva raccomandato di fare, infine in qualcosa che quasi

tutti devono fare». Bakkila S., Why You Should Never Have Taken That

Prestigious Internship in polycimic.com, 14 giugno 2013

(http://www.policymic.com/articles/48829/why-you-should-never-have-

taken-that-prestigious-internship).

364

5) Make these part-time jobs not “count” on resume.

Hire on prestige, not skill or education. Punish those

who need to work to survive.

6) Punish young people who never found any kind of

work the hardest. Make them untouchables —

unhireable.

7) Tell wealthy people they are “privileged” to be

working 40 hrs/week for free. Don’t tell them what

kind of “privileged” it is.

8) Make status quo commentary written by unpaid

interns or people hiring unpaid interns. They will tell

you it’s your fault.

9) Young people, it is not your fault. Speak out. Fight

back. Bankrupt the prestige economy593».

593 «Così funziona l’imbroglio dei tirocinii. Non è un

problema di mancanza di capacità. È un problema di

moralità. 1) rendere l’istruzione di alto livello inutile

ridefinendo la capacità come uno specificio contributo

aziendale. Dire ai giovani che non hanno capacità. 2) Una

volta rese unitili le capacità, richiedere l’esperienza.

Rendere i tirocinii l’unica strada per fare esperienza.

Rendere i tirocinii non retribuiti, escludendo tutti al di fuori

dei ricchi. 3) Porre fine all’apprendistato per le posizioni

d’ingresso. Agli istruiti viene detto che le capacità non

contano nulla. Ai non istruiti viene detto che non hanno

possibilità di maturare quelle capacità. 4) Mentre i

benestanti fanno strada, i giovani delle classi medie e

povere fanno lavori umili per saldare gli ingenti debiti

maturati per la loro istruzione. 5) Rendere questi lavori

part-time inutili sui curricula. Assumere sulla base del

prestigio, non per le abilità o l’istruzione. Punire coloro che

hanno bisogno di lavorare per sopravvivere. 6) Punire il più

severamente possibili i giovani che non hanno mai trovato

365

Il fenomeno del giornalismo online non retribuito si

muove anche in questo scenario più ampio, che coinvolge

altre professioni, legate o meno all’utilizzo della Rete. Lo

sottolinea Francesco Sellari nell’intervista che ho realizzato

con lui: «Il problema del lavoro non retribuito è un problema

comune alla stragrande maggioranza dei giovani, ovvero di

coloro che sono agli inizi della loro carriera professionale.

Faccio questa premessa per dire che, secondo me, alcune

misure necessarie a contrastare il ricorso al lavoro gratuito e

sottopagato nel giornalismo in realtà hanno una portata

generale e riguardano tutto il mercato del lavoro». Si tratta

del post-employment economy che Sarah Kendzior definisce

come: «[…]the replacement of steady jobs that pay a living

wage with contingent and poorly paid or unpaid labor – and

the expectation that this is normal, and that these positions are

a required stepping stone to a “real job”. People no longer

work for pay, they pay to work594». Il risultato prodotto da

lavoro. Renderli intoccabili – non assumibili. 7) Dire alle

persone benestanti che sono dei priveligati siccome

lavorano 40 ore settimanali gratuitamente. Non dire loro

che tipo di privilegio esso sia. 8) Fare il modo che il

commento della situazione sia scritto dai tirocinanti non

pagati o dalle persone che assumano tirocinanti non pagati.

Ti diranno che è colpa vostra. 9) Giovani non è colpa

vostra. Ditelo. Reagite. Fate fallire l’economia del

prestigio». Kendzior S., The moral bankruptcy of the

internship economy in sarahkendzior.com, 9 giugno 2013

(http://sarahkendzior.com/2013/06/09/the-moral-

bankruptcy-of-the-internship-economy/). 594 «E’ il rimpiazzo di lavori sicuri che permettono il

sostentamento con altri temporanei sottopagati o non pagati

affatto – e l’idea che questo sia normale e che queste

366

questa situazione, come giustamente sottolinea l’antropologa

americana, non è semplicemente la svalutazione

dell’istruzione o delle capacità, ma quella delle persone595.

Un elemento cruciale utilizzato per sostenere questo sistema

è il continuo richiamo alla crisi. La contingenza che richiede

dei sacrifici, delle rinunce inevitabili. Ma la situazione è

realmente questa? Where is all the money going? Dove vanno

i soldi? Chiede Sarah Kendzior in un suo articolo pubblicato

su Al Jazeera596. L’Huffington Post – dopo essere stato

ceduto per oltre 300 milioni di dollari ad AOL – non può

permettersi di sborsare una cifra superiore allo zero per i

contributi dei suoi blogger? L’Atlantic, con i suoi 13 milioni

di lettori, non poteva offrire un compenso a Nate Thayer per

il riadattamento del suo pezzo sulla Corea del Nord? Eppure,

Sarah Kendzior scrive: «The Atlantic is two things every

legacy publishing company would like to be: profitable and

more reliant on digital advertising revenues than on print [...].

2012 brought the Atlantic a record profit, beating out the

record profit of 2011, with 59 percent of earnings coming

from digital revenues597». La sperequazione economica, pur

posizioni siano un passaggio inevitabile per raggiungere un “vero lavoro”.

Le persone non lavorano più per guadagnare, ma pagano per lavorare».

Questa risposta è presa dall’intervista che ho fatto a Sarah Kendzior. 595 «It is not skills or majors that are being devalued. It is people». Ovvero,

«Non sono le capacità o le università che vengono svalutate. Sono le

persone». Kendzior S., Surviving the post-employment economy in

aljazeera.com, 3 novembre 2013, (cit.). 596 Kendzior S., Managed expectations in the post-employment economy

in aljazeera.com, 12 marzo 2013 (cit.). 597 «L’Atlantic può suscitare l’invidia di ogni impero mediatico per due

motivi: produce dei guadagni e i suoi introiti derivanti dalla pubblicità

online superano quelli del cartaceo […]. Il 2012 ha portato ad Atlantic un

367

venendo considerate ingiusta, perde la sua efficacia

argomentativa nel momento in cui il continuo richiamo alla

crisi ha convinto dell’assolutà normalità della situazione. E’

per questo che Sarah Kendzior definisce la crisi economica

come una crisi che ha manipolato le aspettative delle

persone598; in questo contesto lavorare senza venire pagati

diviene normalità. O, per utilizzare il pungente sarcasmo di

Eric Garland, si potrebbe dire:

«You’re only 28. Or 33. You have a long career ahead

of you. You can get paid later! After all, we don’t have

budget for interns this year. We used that money to

increase executive pay at a rate five times greater than

the cost of living. Because the economy is terrible

right now! And we’re at all time record highs of

corporate cash reserves and profits. But it’s terrible!

Hey – why are you getting angry? YOU KIDS

TODAY EXPECT SO MUCH!599».

guadagno record, battendo quello precedente del 2011, con il 59% delle

entrate derivanti dalla versione digitale». Ibidem. 598 «The economic crisis is a crisis of managed expectations. Americans

are being conditioned to accept their own exploitation as normal».

Ovvero, «La crisi economica è una crisi di aspettative manipulate. Gli

americani sono stati convinti a considerare il loro stesso sfruttamento

come normale». Ibidem. 599 «Hai solo 28 anni. O 33. Hai una lunga carriera davanti a te. Puoi essere

pagato più avanti! Del resto, non abbiamo un budget per i tirocinanti

quest’anno. Abbiamo utilizzato quei soldi per aumentare le paghe dei

dirigenti fino a cinque volte tanto il costo della vita. Perché l’economia è

terribile in questo periodo! E noi abbiamo profitti record! Ma è terribile!

Hey – perché vi state arrabbiando? Voi ragazzi al giorno d’oggi vi

aspettate troppo!». Garland E., Sexy dirty money in transitionistas.com, 6

marzo 2013 (cit.).

368

Di fronte a questa situazione, ho chiesto a Sarah Kendzior

cosa potrebbe essere fatto concretamente. Secondo la

ricercatrice americana:

«People are already organizing and working for

change […]. We need to realize that almost everyone

is suffering from the same economic plight – it is only

a matter of degrees. People need to stand up for each

other and form broader coalitions. We also need to

address problems without shame. Exploiters should

feel ashamed, not the exploited. Feelings of shame,

humiliation keep people from discussing their

personal situation, but it helps people to know they are

not alone600».

Secondo Sarah Kendzior per quanto concerne l’universo

della scrittura online, il risveglio collettivo si trova ad un

livello più avanzato rispetto ad altri campi lavorativi, anche

600 «Le persone si stanno già organizzando e stanno già

lavorando per il cambiamento […]. Dobbiamo realzzare

che quasi tutti stiamo soffrendo la stessa situazione

economica – è solo una questione di livelli. Le persone

lottare anche per gli altri e formare delle coalizioni.

Dobbiamo anche nominare il problema senza vergogna. Gli

sfruttatori dovrebbero vergognarsi, non gli sfruttati.

Sentimenti di vergogna, umiliazione impediscono alle

persone di discutere la loro situazione personale, ma le

persone vengono aiutate dal fatto di sapere che non sono

sole». Questa risposta è presa dall’intervista che ho fatto a

Sarah Kendzior.

369

grazie a prese di posizione pubbliche come quelle contro

l’Huffington Post o l’Atlantic.

«Media is an interesting field, because you are finally

seeing some pushback in terms of unpaid and

exploited labor, which you are not yet seeing in policy

and other fields. You can also track the erosion in

quality in online publications that do not pay their

writers.

The idea that a journalist should not be paid anything

for their work — that “exposure” is an acceptable

currency — is very recent and is a product of the

recession. It stemmed both from a loss of revenue for

media companies throughout the 2000s, peaking in

2008, and from the desperation of young writers who

could not find jobs in media but wanted their names

in print […].

What I am seeing now is the rejection of prestige for

money. I see writers who used to work for the

Atlantic, HuffPost or other non-paying publications

move to lesser-known publications that do pay. The

quality of the paying publications is going up, while

the quality of the non-paying publications is going

down, because you get what you pay for. There are

exceptions to this on both ends, but basically it is

true601».

601 «Quello mediatico è un campo interessante, perché

finalmente si vede qualche ribellione per quanto riguardo il

lavoro non pagato e sfruttato, cosa che non si vede in altri

campi professionali. È possibile inoltre notare un crollo

qualitativo nelle pubblicazioni online che non pagano i loro

370

Si conceda spazio ad un ultimo caso che ritengo sia

meritevole di essere visionato602. La protagonista

dell’accaduto è Danielle Lee, una ricercatrice della Oklahoma

State University che, tra le altre cose, gestisce un blog

chiamato The Urban Scientist603. Venerdì 11 ottobre 2013, la

biologa riceve una email da un redattore di un blog chiamato

biology-online.com, descritto come tra i più seguiti nel campo

scientifico grazie ai suoi visitatori mensili pari a circa 1,6

milioni di utenti unici. Ofek – così si presenta il redattore del

blog – si dichiara affascinato dal blog gestito da Danielle e

chiede alla ricercatrice di entrare a far parte della schiera di

guest blogger di Biology Online tramite qualche piccolo

contributo mensile. In prima istanza la biologa della

scrittori. L’idea che un giornalista non dovrebbe essere

pagato per il proprio lavoro – che la visibilità sia una

moneta accettabile – è molto recente ed è il prodotto di una

recessione. Deriva sia dal calo degli introiti dei media

durante gli anni 2000, in particolar modo nel 2008, sia dalla

disperazione dei giovani scrittori che non potevano trovare

un lavoro ma volevano il loro nome sulla stampa […].

Quello che vedo ora è il rifiuto del prestigio e la richiesta di

soldi. Vedo scrittori che lavoravano per l’Atlantic, per

l’Huffington Post o per altre compagnie che non pagano i

propri dipendenti andare a lavorare per pubblicazioni meno

famose ma che pagano. La qualità dei pezzi pagati sale,

mentre quella dei lavori non pagati sta scendendo, perché

alla fine ottieni quello che paghi. Ci sono eccezioni da

ambo le parti, ma grossomodo è vero». Bakkila S., Why You

Should Never Have Taken That Prestigious Internship in

polycimic.com, 14 giugno 2013 (cit.). 602 Ringrazio la gentilissima Silvia Bencivelli per la

segnalazione. 603 http://blogs.scientificamerican.com/urban-scientist/.

371

Oklahoma State University si dichiara interessata, decidendo

così di chiedere ad Ofek l’ammontare della retribuzione. La

replica del redattore del blog scientifico è molto chiara: i

guest blogger non vengono pagati, ma possono godere di

grande visibilità e aumentare il proprio traffico personale

ottenendo poi di riflesso un accrescimento degli introiti

pubblicitari. La replica della dott.ssa Lee è molto civile:

«Thank you very much for your reply. But I will have to

decline your offer. Have a great day. DnLee604». La reazione

del redattore di Biology Online non è stata invece altrettanto

civile (figura 31).

(figura 31 – La risposta di Ofek e la successiva reazione della

dott.ssa Lee)

604 «Grazie per la sua risposta. Ma devo declinare la sua offerta. Buona

giornata. DnLee». Lee D., Responding to No name Life Science Blog

Editor who called me out of my name in scientificamerican.com, 11

ottobre 2013 (http://blogs.scientificamerican.com/urban-

scientist/2013/10/11/give-trouble-to-others-but-not-me/).

372

Danielle Lee, dopo essere stata etichettata come “puttana”,

ha deciso di pubblicare lo scambio di email online, così come

delle foto e un video605 che mostrano la sua reazione.

«Seriously, all anger aside…this rationalization of working

for free and you’ll get exposure is wrong-headed. This is

work. I am a professional. Professionals get paid. End of

story. Even if I decide to do it pro bono (because I support

your mission or I know you, whatevs) – it is still worth

something606». La storia si è conclusa con le scuse del team

di Biology Online607 e il licenziamento di Ofek. Reagire non

è inutile, specie nel momento in cui tutto può essere condiviso

online come ha brillantemente fatto la ricercatrice americana.

O, per utilizzare le parole di Sarah Kendzior: «Exploiters

should feel ashamed, not the exploited». Gli sfruttattori

dovrebbero vergognarsi, non gli sfruttati.

5.3.1 Intervista a Sarah Kendzior

Affido la chiusura di questa parte alle domande che ho

rivolto a Sarah Kendzior, che ringrazio ancora una volta per

605 http://www.youtube.com/watch?v=Q9kTZx1vq7c. 606 «Seriamente, rabbia a parte…questa giustificazione del lavoro gratuito

in cambio di visibilità è ridicola. Questo è lavoro. Sono una professionista.

I professionisti vengono pagati. Fine della storia. Anche se decido di farlo

pro bono (perché supporto le tue idee o perché ti conosco, o per qualsiasi

motivo) – vale comunque qualcosa». Lee D., Responding to No name Life

Science Blog Editor who called me out of my name in

scientificamerican.com, 11 ottobre 2013 (cit). 607 http://www.biology-online.org/biology-forum/about34647.html.

373

la sua grande disponibilità. Dopo lo scambio originale,

troverà posto una traduzione in italiano.

Emanuele Mastrangeli: Briefly: what is the post-employment

economy?

Sarah Kendzior: The post-employment economy is the

replacement of steady jobs that pay a living wage with

contingent and poorly paid or unpaid labor – and the

expectation that this is normal, and that these positions are a

required stepping stone to a “real job”. People no longer work

for pay, they pay to work.

EM: In your article "Managed expectations in the post-

employment economy", you wrote that «Americans are being

conditioned to accept their own exploitation as normal».

According to you, how did this happen?

SK: I explain this in some detail in this interview:

http://www.policymic.com/articles/48829/why-you-should-

never-have-taken-that-prestigious-internship

EM: In your article "Surviving the post-employment

economy" you wrote that «choices of today’s workers are

increasingly limited». But you also wrote that people «can

organise and push for collective change». What do you think

people should do?

SK: People are already organizing and working for change.

The fast food strikes last week are a good example of this. We

need to realize that almost everyone is suffering from the

same economic plight – it is only a matter of degrees. People

need to stand up for each other and form broader coalitions.

374

We also need to address problems without shame. Exploiters

should feel ashamed, not the exploited. Feelings of shame,

humiliation keep people from discussing their personal

situation, but it helps people to know they are not alone, that

contrary to media mantras, this is not their fault.

EM: Talking about journalism, you wrote that the problem is

that people are writing for free for companies that are making

a profit. Jonathan Tasini led a lawsuit against The Huffington

Post on behalf for unpaid bloggers. Nate Thayer refused to

give his article for free to the Atlantic. Is something

changing? Can these actions increase people's awareness?

SK: Yes, and they have. There have been similar campaigns

regarding unpaid internships in journalism. Under pressure,

publications began paying interns and/or increased wages.

Once unpaid labor is seen as a source of embarrassment –

instead of something sanctioned and normal – policies begin

to change.

EM: If nobody accepted to write for free, companies should

offer a compensation. Why do this still happen? Is it because

nobody wants to be the first?

SK: Things have already started changing, both in terms of

people demanding compensation and companies getting it.

We still have a long way to go though.

EM: Do you think Internet had an active role in the

phenomenon of unpaid writing?

SK: Yes. And I’m not opposed to people writing for free on

their own volition, like on a personal blog. I’m opposed to

people writing for free for large corporations that profit off

their work and refuse to pay them.

375

EM: I'm getting my degree in Journalism. In Italy, to be a

practicing journalist, you take exams and get certified. In

order to do that, you must write for a newspaper - either

offline or online - for 2 years being regularly paid. I spent one

year living in Edinburgh, Scotland, where I found a job in a

delicatessen. I had a decent wage, I lived on my own. I came

back in Italy in september 2013 in order to get my degree. I'm

jobless and I came back living with my mother. Did I make

mistake?

SK: That’s a personal question that I can’t answer, but it

seems to me like you did everything right and then re-entered

a terrible economy with little opportunity for young people.

Your situation is typical and does not reflect your talents and

abilities. Don’t think of it as a matter of whether you made a

mistake. Think of it as a situation in which most people are

denied opportunity and need to push for structural change.

You’re not alone.

EM: Brevemente: cos’è la post-employment economy?

SK: E’ la sostituzione di lavori sicuri che permettono il

sostentamento con altri temporanei sottopagati o non pagati

affatto – e l’idea che questo sia normale e che queste posizioni

siano un passaggio inevitabile per raggiungere un “vero

lavoro”. Le persone non lavorano più per guadagnare, ma

pagano per lavorare.

EM: Nel tuo articolo "Managed expectations in the post-

employment economy", scrivi che «Gli americani sono stati

convinti ad accettare il loro sfruttamento come normale».

Secondo te, come è successo tutto ciò?

376

SK: Lo spiego in questa intervista:

http://www.policymic.com/articles/48829/why-you-should-

never-have-taken-that-prestigious-internship

EM: Nel tuo articolo "Surviving the post-employment

economy" scrivi che «le scelte dei lavoratori sono limitate».

Ma aggiungi che le persone «possono organizzarsi e premere

per dei cambiamenti». Cosa pensi che dovrebbe essere fatto?

SK: Le persone si stanno già organizzando e stanno già

lavorando per il cambiamento. Gli scioperi nei fast food della

scorsa settimana608 sono un buon esempio. Dobbiamo

realizzare che quasi tutti stiamo soffrendo la stessa situazione

economica – è solo una questione di livelli. Le persone

devono lottare anche per gli altri e formare delle coalizioni.

Dobbiamo anche nominare il problema senza vergogna. Gli

sfruttatori dovrebbero vergognarsi, non gli sfruttati.

Sentimenti di vergogna, umiliazione impediscono alle

persone di discutere la loro situazione personale, ma le

persone vengono aiutate dal fatto di sapere che non sono sole.

EM: Parlando di giornalismo, hai scritto che il problema è che

le persone scrivono gratis per imprerse for-profit. Jonathan

Tasini ha condotto un’azione legale contro l’Huffington Post

in nome dei blogger non retribuiti. Nate Thayer ha rifiutato di

concedere il suo articolo gratuitamente all’Atlantic. Qualcosa

sta cambiando? Queste azioni possono accrescere la

consapevolezza collettiva?

608 http://www.usatoday.com/story/money/business/2013/12/05/fast-

food-strike-wages/3877023/

377

SK: Sì e lo stanno facendo. Ci sono state campagne simili

riguardanti i tirocinii non pagati nel mondo giornalistico. Una

volta sotto pressione, le pubblicazioni hanno cominciato a

pagare i tirocinanti e/o ad aumentare i salari. Una volta che il

lavoro non retribuito viene visto come qualcosa di

imbarazzante – piuttosto che come qualcosa di normale – le

abitudini cominciano a cambiare.

EM: Se nessuno accettasse di scrivere gratis, le imprese

dovrebbero offrire un compenso. Perché questo ancora

succede? Dipende dal fatto che nessuno vuole fare il primo

passo?

SK: Le cose stanno già cambiando, sia in termini di persone

che richiedono una retribuzione, sia per quanto concerne le

aziende che iniziano a pagare. C’è ancora molto da fare

tuttavia.

EM: Credi che Internet abbia avuto un ruolo importante nel

proliferare del fenomeno della scrittura non retribuita?

SK: Sì. E non sono contro le persone che scrivono gratis per

loro stessi, come su un blog personale. Sono contro le persone

che scrivono gratis per grandi imprese che guadagnano sul

loro lavoro e si rifiutano di pagare.

EM: Sto per prendere una laurea in Giornalismo. In Italia, per

diventare un giornalista, devi sostenere un’esame ed avere

una certificazione. Per farlo, devi scrivere per un giornale –

sia offline che online – per 2 anni venendo regolarmente

retribuito. Ho vissuto per un anno a Edimburgo, in Scozia,

dove avevo un lavoro in un negozio. Avevo uno stipendio

dignitoso e vivevo per conto mio. Sono tornato in Italia nel

settembre del 2013 per finire l’università. Sono senza lavoro

378

e sono tornato a vivere con mia madre. Ho commesso un

errore?

SK: Questa è una domanda personale a cui non posso

rispondere. Mi sembra che non hai commesso degli errori,

ma semplicemente sei rientrato in un’economia terribile che

concede poche opportunità ai giovani. La tua situazione è

tipica e non riflette le tue capacità. Non credere che il punto

sia se hai commesso o meno un errore. Pensa che si tratta di

una situazione che nega alla maggior parte delle persone delle

opportunità e necessità di essere cambiata. Non sei solo.

379

Conclusione

Recita un famoso proverbio italiano: i giornalisti lodano

chi li paga, e mordono chi li disprezza. Gli editori meno

propensi ad aprire il portafogli possono stare tranquilli: non è

così. Non lo è più, perlomeno. Certo non vale per ogni

giornalista. Volendo peccare di malizia si potrebbe arrivare a

dire che le le lodi sono garantite a priori, soldi o non soldi.

Ma non è il momento di esultare, i difensori della libertà di

stampa possono smorzare il proprio entusiasmo. Se il

proverbio denunciava infatti una particolare sensibilità al

denaro della categoria, il venir meno di questa peculiarità non

garantisce affatto la trasparenza o la qualità dell’esercizio

della professione. Bisogna tuttavia riconoscere che i

giornalisti continuano a mordere chi li disprezza; ma anche

qui qualcosa è cambiato. Il disprezzo, ma sarebbe meglio dire

la critica, non arriva più dall’universo editoriale, dai vertici

della piramide, bensì dalla base, da quei pochi colleghi che

lanciano il proprio j’accuse. Pur cambiando il mittente, il

destinatario reagisce alla stessa maniera: mordendo.

Difendendo il proprio territorio, il proprio orticello fatto di

sogni, speraze ed egocentrismo. E, perché no, servilismo.

Si faccia un passo indietro, alla domanda cardine da cui è

sbocciato questo lavoro. Perché si è arrivati alla non

retribuzione della prestazione intellettuale, in particolar modo

quella giornalistica sulla Rete609? Il processo di risposta a

questo quesito è stato – come si è visto – lungo e ha richiesto

609 Riguardo all’esistenza del fenomeno credo che ogni dubbio sia stato

ampiamente fugato.

380

un avanzamento graduale. In primo luogo si è resa necessaria

una descrizione dettagliata del contesto di riferimento, da un

duplice punto di vista diacronico e sincronico. Era

impossibile non riportare, pur brevemente, l’intrecciarsi

dell’evoluzione tecnologica di Internet con l’universo

giornalistico. La vera rivoluzione – al di là dei cambiamenti

che hanno riguardato la notizia, la professione o i formati – è

stata quella dell’accesso. Il fenomeno descritto è in primo

luogo figlio del Web 2.0 e della sua liberalizzazione degli

accessi. Il risultato è stato la sconfinata abbondanza

dell’offerta di cui si è parlato trattando la cosiddetta new

economy, che ha portato ad una situazione di mercato in cui

la domanda si è ritrovata a simulare un m’ama, non m’ama

nel bel mezzo di un prato infinito. Un’ulteriore conseguenza,

molto più sottile, è stata quella della sottrazione di dignità. Il

mescolarsi torbido di amatoriale e professionale, falso e

veriterio, attendibile e non attendibile, tipico della Rete, ha

generato l’idea che il lavoro online fosse meno nobile di

quello classico. Non solo, è stato – forse anche scientemente

– insinuato il dubbio che forse di lavoro non fosse neppure

lecito parlare. In fondo, spesso e volentieri lo si fa da casa,

senza orari fissi, senza mai incontrare di persona i propri

colleghi o superiori. E non manca la concorrenza; molte

persone premono per accapararsi questo lavoro/non lavoro,

addirittura gratis.

Già, gratis. Dopo aver vissuto il fenomeno in prima

persona, dopo averlo ricercato, dibattutto, raccontato, la

parola “gratis” ancora suscita un non so che di inesplicabile

in relazione al mio concetto di lavoro. Una parte

fondamentale di questa tesi ha riguardato l’indagine delle

ragioni che hanno spinto e spingono tanti giovani e non ad

381

offrire il proprio tempo, la propria disponibilità, le proprie

energie, il proprio impegno, la propria conoscenza, le proprie

abilità senza venire retribuiti610. Ciò che è emerso,

naturalmente, è stata una molteplicità di ragioni, una

compartecipazione di più fattori che insieme hanno

contribuito e contribuiscono, con maggiore o minore peso

specifico, alla proliferazione del fenomeno in questione.

Senza ripetere in maniera didascalica quanto già

dettagliatamente riportato nell’ultima parte di questo lavoro,

è possibile aggiungere che il fenomeno risulta essere il

prodotto tra delle condizioni preesistenti611 e l’opportunità

che queste si concretizzassero, di cui è principale artefice la

Rete. In altri termini, lontani dal voler demonizzare

Internet612, il Web si è limitato a consentire l’espressione di

spinte già esistenti, che hanno trovato nell’universo digitale

il terreno della propria realizzazione. Il fenomeno non può

essere spiegato in assenza di una di queste due componenti,

610 Dato per assodato, come già ampiamente sviscerato nelle pagine

precedenti, che la visibilità non sia una moneta degna di essere

considerata tale. Questo è perlomeno il pensiero di diverse personalità che

hanno prestato la propria voce nella coralità di questo lavoro, pensiero

affine a quello del sottoscritto. 611 Ho suddiviso le ragioni delle persone che decidono di scrivere gratis

in due categorie. Una prima, maggiormente inserita nell’ambito della

professionalità, raccoglie le motivazioni di coloro che vedono la

collaborazione gratuita come necessaria per il raggiungimento di altri

obiettivi (il tesserino da pubblicista, una retribuzione futura, l’esperienza,

la visibilità). La seconda categoria invece racchiude in sé realtà legate

maggiormente all’universo amatoriale, dove la scrittura è considerata non

un lavoro ma un hobby, o piuttosto una passione da coltivare ad ogni

costo. In questo contesto entrano in gioco dinamiche differenti, come ad

esempio il narcisismo o la gratificazione egocentrica. 612 Credo fermamente nell’assoluta neutralità degli strumenti, i cui effetti

sono quasi esclusivamente il risultato dell’utilizzo che ne viene fatto.

382

entrambe parimenti essenziali. L’assenza di una delle due, fa

cadere la logica che sostiene il discorso.

Una volta delineate le ragioni, il passo successivo è quello

dell’attribuzione di responsabilità613. Anche in questo caso la

soluzione non è univoca. Ritengo che il ragionamento debba

procedere analizzando tre piani differenti. In primo luogo c’è

il piano legislativo e istituzionale. In particolar modo per

quanto concerne l’aspetto meno trasparente del fenomeno,

quello legato alla trasformazione del tesserino da pubblicista

in merce di scambio, si evidenziano le colpe di un sistema

caratterizzato da lacune, contraddizioni e un generale

anacronismo. Questioni come la legittimità dell’Ordine dei

Giornalisti, la sua modernità rispetto alla dirompenza

dell’evoluzione tecnologica, la selezione economica e

classista prodotta dalla sua articolazione, si propongono come

centrali ed incredibilmente attuali di fronte al fenomeno del

lavoro non retribuito. Da parte delle istutizioni emerge invece

un generale disinteresse nei confronti del problema, che è

possibile evincere in primo luogo constatando l’assenza quasi

totale di un dibattito a riguardo nelle arene pubbliche. Un

altro piano di riferimento è quello degli editori, secondo

alcuni gli unici meritevoli di essere additati come colpevoli.

La questione va scissa. Da una parte ci sono gli editori

disonesti tout court, che si muovono nel campo dell’illegalità:

si sta parlando di coloro che attraverso l’emissione di fatture

false consentono ai loro collaboratori di presentare la

documentazione richiesta per essere ammessi all’Esame di

Stato per l’ottenimento del tesserino da pubblicista,

fenomeno descritto in più occasioni nelle pagine precedenti.

613 Questo, naturalmente, nel momento in cui il fenomeno viene

considerato dannoso, sotto diversi punti di vista.

383

Dall’altra parte ci sono coloro che pur rimanendo nell’ambito

della legalità, possono essere accusati di non sottrarsi, per

minimizzare i costi e aumentare i profitti, a logiche di

sfruttamento e ricatto nei confronti dei propri collaboratori.

Pagamenti iniqui o più spesso assenti, annullamento di

qualsiasi rischio imprenditoriale, ma soprattutto prese di

posizione che godono di un enorme squilibrio di potere che

deriva non soltanto dal possedimento di un capitale, spesso

poco rilevante, ma dai privilegi garantiti da un sistema che

favorisce tutto ciò. In primo luogo il sistema si autoalimenta

attraverso una tautologia: funziona così perché funziona così.

Ma soprattutto, l’editore può utilizzare come arma di ricatto

la dimensione sterminata dell’offerta che propone il mercato:

di fronte ad un rifiuto sporadico, ci sono innumerevoli

persone non solo disposte, ma ben propense ad accettare. Di

conseguenza, tanto da un punto di vista concettuale, quanto

da uno meramente pragmatico, il sistema riesce ad

alimentarsi e ad approfittare di questo sono tutti quegli editori

senza scrupoli che mirano esclusivamente a massimizzare i

guadagni. Sulla scia di questo ragionamento è facile spostarsi

al terzo ed ultimo piano dell’attribuzione di responsabilità,

quello che genera maggiori controversie e disaccordi. Il piano

dei collaboratori. Le posizioni in merito sono difficilmente

conciliabili. Questa ricerca ne ha individuate tre. La prima è

quella di coloro che reputano il lavoro non retribuito online

assolutamente normale o addirittura come di grande benificio

per la società. Nel mezzo si trova invece l’idea che concedere

il proprio lavoro gratuitamente614 sia sbagliato, ma che i

collaboratori siano le vittime e gli editori e il sistema i

614 Si parla sempre di lavoro svolto presso aziende for-profit,

naturalmente.

384

carnefici. L’ultima posizione, quella che come è evidente

viene abbracciata in questa tesi, non assolve coloro che

scrivono gratis, ma gli attribuisce delle precise responsabilità.

Principalmente quella di aver contribuito e di contribuire

all’inquinamento di un mercato oramai difficilmente

recuperabile e consequentemente quella di aver da una parte

danneggiato la categoria dei professionisti già formati,

dall’altra quella di aver trasformato l’accesso alla professione

in una palude da cui risulta incredibilmente difficile uscire, in

particolar modo puliti615.

Si presenta forse il caso di mitigare il pessimismo che

emerge dal quadro sin qui descritto. Tutto questo significa,

potrebbe essere lecito chiedersi, che diventerà sempre più

complicato poter vivere esercitando la professione

giornalistica? I lavoratori dipendenti continueranno a

diminuire con il passare degli anni? L’accesso alla

professione eserciterà sempre più una selezione economica e

classista616? La retribuzione verrà relegata definitivamente ad

una pretesa assurda o ad una chimera? Si smetterà di parlare

di professione giornalistica lasciando piuttosto spazio al

semplice hobby? In assenza di determinati cambiamenti,

ritengo che sia sufficiente una sola risposta a tutte queste

domande: sì. I cambiamenti cui si fa cenno hanno diversa

natura, sia legislativa sia di mentalità. Sono tuttavia

d’accordo con quanto sostenuto da Carlo Gubitosa e che per

molteplici ragioni l’idea che possa maturare una coscienza

collettiva sia utopica. Utilizzando le parole di Gubitosa: «I

diritti della categoria si devono affermare su due binari: nel

615 Soprattutto in assenza di un equipaggiamento all’avanguardia, quindi

particolarmente costoso. Sempre rimanendo nei confini della metafora. 616 E di propensione etica, si potrebbe aggiungere.

385

rispetto di alcuni principi di Legge che vanno stabiliti in

Parlamento e nel riconoscimento di alcuni diritti che va

stabilito nel rapporto tra editori e lavoratori mediato dai

sindacati617». Dal punto di vista legislativo, si parla di «una

normativa che impedisca anche a tutela del lettori di utilizzare

lavoro non retribuito in una testata registrata che fa anche

peraltro profitti. Questo dovrebbe essere chiaro per legge: io

domani non posso mettere su un’impresa edile con il

muratore che mi viene a lavorare gratis perché così fa

esperienza, si fa notare, cerca la visibilità. No, in tal caso

arriva l’ispettorato del lavoro e mi denuncia, perché quello è

lavoro nero618». Si è anche visto come il problema sia più

ampio e riguardi per certi versi il mondo del lavoro tout court,

come sostenuto da Sarah Kendzior. A tal proposito condivido

la linea di Francesco Sellari quando tra le misure necessarie

a contrastare il ricorso al lavoro non retribuito o sottopagato

parla del bisogno di fare in modo che gli stage, al di là della

loro natura, prevedano sempre un rimborso minimo. Si tratta

di processi che, anche qualora dovessero attivarsi – e non è

detto che questo si verifichi –, necessiteranno di molto tempo

prima che se ne possano testare gli effetti. Cosa dovrebbe fare

allora un aspirante giornalista? Quale la strada che un giovane

neolaureato dovrebbe intraprendere? Le risposte in tal senso

potrebbero essere molteplici. Nel momento in cui si decide di

respingere lo scenario del lavoro non retribuito credo esistano

tre diverse possibilità. La prima, sotto alcuni punti di vista la

più auspicabile, è quella di imbattersi nelle persone giuste al

momento giusto. Trovare una collaborazione retribuita

617 Queste parole sono prese dall’intervista che ho realizzato con Carlo

Gubirosa. 618 Queste parole sono prese dall’intervista che ho realizzato con Carlo

Gubirosa.

386

dignitosamente che dia la possibilità di crescere

professionalmente e fare esperienza senza dover accettare

compromessi scomodi. Senza peccare di cinismo, questa

rimane la via meno probabile, per quanto non impossibile. La

seconda possibilità affonda le proprie radici nelle potenzialità

della Rete. Ogni utente può diventare autore ed editore di sé

stesso. Se si crede nelle proprie capacità e nelle proprie idee,

non è peccato tentare perlomeno una volta di avviare un

proprio progetto. Nel momento in cui si deve scrivere gratis,

che sia almeno fatto per sé stessi. L’ultimo scenario è forse

quello più doloroso per coloro che amano questa professione:

dedicarsi ad altro, trovare un’altra strada, affidarsi ad una exit

strategy. Ritengo che le possibilità offerte dalla vita siano

infinite, ma soprattutto imprevedibili. La capacità di sapersi

reinventare è preziosa e l’essere costretti a farlo non ha

necessariamente accezione riduttiva, ma può invece essere

occasione di crescita e di arricchimento. Perché, utilizzando

le parole di Silvia Bencivelli, «la storia dei sogni, il lavoro dei

sogni è una stronzata619». Oppure, per utilizzare parole più

morbide, l’idea del lavoro dei sogni andrebbe quantomeno

ridimensionata: «Non credo che per inseguire il lavoro dei

tuoi sogni puoi ritrovarti a 40 anni ancora a scrivere

gratis620».

Lascio alcune righe a disposizione di una riflessione

conclusiva. Credo di aver scritto queste pagine

principalmente a scopo terapeutico. La scelta dell’argomento,

come già accennato nell’introduzione, nasce dall’esperienza

619 Queste parole sono prese dall’intervista che ho realizzato con Silvia

Bencivelli. 620 Queste parole sono prese dall’intervista che ho realizzato con Silvia

Bencivelli.

387

personale. Quando ho iniziato a lavorare a questa tesi, sapevo

già, approssimativamente, quello che avrei trovato. Perché

questo mondo lo conoscevo piuttosto bene. Nel mio percorso

di – quantomeno cercata – crescita professionale ho respinto

al mittente, o semplicemente scartato, decine di offerte inique

come quelle riportate in questo lavoro. Complessivamente ne

ho accettata una manciata: tutte retribuite, non molto, ma

perlomeno in linea con l’impegno e il tempo richiesti. Ma

questo almeno un paio d’anni fa. In seguito le proposte

dignitose sono lentamente scomparse, sparite, evaporate nel

mare magnum della Rete. E quel che è rimasto non era poi

così accattivante. E’ stato allora che ho cominciato a

guardarmi intorno, provando a regalare alla mia vita scenari

alternativi, al di fuori dell’universo giornalistico. Questo

lavoro è con ogni probabilità la mia ultima carezza a quel

mondo, che amo, ma non al punto di scendere a compromessi

per me inaccettabili. Nulla merita di sottostare a simili

condizioni: l’amore, quello maturo, adulto, è un’altra cosa. In

fondo questa ricerca non vuole neppure essere una denuncia,

manca completamente quella carica di rabbia morale

necessaria e qui assente, poiché svanita lentamente nel tempo.

Si tratta più probabilmente di una definitiva presa di

coscienza, una fotografia con cui riassumere i motivi di un

abbandono, di un “no, grazie”. Se un giorno nutrissi il

desiderio di riavvicinarmi a questo mondo, lo potrei fare per

altre vie, quelle comunque straordinarie offerte da Internet,

autogestendomi, come suggerito a più riprese da Carlo

Gubitosa. Nel frattempo mi dedicherò ad altro, concludendo

il mio percorso universitario di pari passo con il termine di un

processo di maturazione dettato più che altro dalla

disillusione. Sarebbe altrettanto necessario interrogarsi sulla

questione universitaria, con le sue lacune e contraddizioni.

388

Ma servirebbe qualche altra centinaia di pagine. Sarà per la

prossima volta, forse.

389

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