Giorgio Agamben Quando Linoperosita e Sovrana

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7/23/2019 Giorgio Agamben Quando Linoperosita e Sovrana http://slidepdf.com/reader/full/giorgio-agamben-quando-linoperosita-e-sovrana 1/4 Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana - Toni Negri, 19.11.2014 Saggi.  «L’uso dei corpi» del filosofo italiano affronta il problema di una vita felice da conquistare politicamente. Ma dopo aver preso congedo dalle teorie marxiste e anarchiche sul potere, l’esito è uno spaesante sporgersi sul nulla È un gran libro metafisico, questo di Giorgio Agamben che esplicitamente conclude la vicenda dell’  Homo sacer  (  L’uso dei corpi , Neri Pozza Editore, pp. 366, euro 18). Proprio perché metafisico è anche un libro politico, che in molte sue pagine ci restituisce l’unico Agamben politico che conosciamo (quando «politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio, alla maniera dei giuristi e degli ideologi), quello de La comunità che viene. Ma in senso inverso, rovesciato. Il problema è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente ma, dopo  vent’anni, questa ricerca non conclude né alla costruzione di una comunità possibile né alla definizione di una potenza – a meno di non considerare tale la «potenza destituente», auspicata in conclusione della ricerca. In quella prospettiva, la felicità consisterebbe nella singolare contemplazione di una «forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella disattivazione della loro separazione, imposta dal dominio. Nella «forma di vita» così definita, la potenza si presenta come uso inoperoso; la «nuda vita» non sarebbe allora più isolabile da parte del potere; qui invece starebbe il principio del comune: «comunità e potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del carattere necessariamente potenziale di ogni comunità». Solo allora avremmo di nuovo una politica della felicità. E qui comincia il difficile: quel «solo allora», quel futuro… Se tutto ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana teleologia, questo percorso: una forma di vita che è anche una forma di speranza? Comunque, già nell’«Avvertenza»,  Agamben ci svezza da ogni illusione – questo libro non è «né un nuovo inizio né una conclusione», la teoria «sgombera solo il campo dagli errori», e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teoria apre alla pratica.  Assenza di movimento Se le cose stanno così, occorrerà in primo luogo fissare uno strumento, costruire un punto di vista che insegua quell’orizzonte non ancora finito. Come dare futuro alla forma di vita e potenza all’inoperosità: alla «potenza destituente»? La trama del libro si concentra su questo compito. Ritorniamo un momento indietro. Si sa che nella nuda vita risiede la condizione dell’esercizio del potere. È nell’eccezione che l’homo sacer  è incluso/escluso dalla città ed è sull’eccezionalità che il potere si fonda. Questa, di tono schmittiano, è null’altro che una nuova maniera di dire Thomas Hobbes. Su questo snodo, tuttavia, l’insistenza è stata estrema. Come uscire da questa condizione?  La comunità che viene nel ’90 ci mostrava il negativo, la mancanza, riscoperti e coperti dal desiderio – oggi invece vi è solo potenza destituente, la convinzione che non vi sia alternativa alla fuga nel confronto con il potere. Il potere è dominio. Esso non ha interna dinamica né relazione, sostiene  Agamben. Nessun movimento: quindi, per esempio, ogni potere costituente non è eterogeneo ma consustanziale al potere costituito; ed ogni arché è insieme origine e dominio, sorgente e ordine – quindi questi rapporti vanno in ogni caso disinnescati perché in quella prospettiva l’archeologia filosofica può solo raggiungere un punto di origine ambiguo, e si tratta, secondo Agamben, di disattivare questa origine. La sua disattivazione è l’inoperosità. Resta il problema: e se invece il rapporto archetipo, origine-comando, fosse solo modello di mistificazione, di legittimazione di un

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Giorgio Agamben, quando l’inoperosità

è sovrana

- Toni Negri, 19.11.2014

Saggi. «L’uso dei corpi» del filosofo italiano affronta il problema di una vita felice da conquistarepoliticamente. Ma dopo aver preso congedo dalle teorie marxiste e anarchiche sul potere, l’esito èuno spaesante sporgersi sul nulla

È un gran libro metafisico, questo di Giorgio Agamben che esplicitamente conclude la vicenda dell’ Homo sacer  ( L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, pp. 366, euro 18). Proprio perché metafisicoè anche un libro politico, che in molte sue pagine ci restituisce l’unico Agamben politico checonosciamo (quando «politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio, allamaniera dei giuristi e degli ideologi), quello de La comunità che viene. Ma in senso inverso,rovesciato. Il problema è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente ma, dopo

 vent’anni, questa ricerca non conclude né alla costruzione di una comunità possibile né alladefinizione di una potenza – a meno di non considerare tale la «potenza destituente», auspicata inconclusione della ricerca. In quella prospettiva, la felicità consisterebbe nella singolarecontemplazione di una «forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella disattivazionedella loro separazione, imposta dal dominio.

Nella «forma di vita» così definita, la potenza si presenta come uso inoperoso; la «nuda vita» nonsarebbe allora più isolabile da parte del potere; qui invece starebbe il principio del comune:«comunità e potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ognipotenza è funzione del carattere necessariamente potenziale di ogni comunità». Solo allora avremmo

di nuovo una politica della felicità. E qui comincia il difficile: quel «solo allora», quel futuro… Setutto ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana teleologia, questopercorso: una forma di vita che è anche una forma di speranza? Comunque, già nell’«Avvertenza»,

 Agamben ci svezza da ogni illusione – questo libro non è «né un nuovo inizio né una conclusione», lateoria «sgombera solo il campo dagli errori», e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teoria apre allapratica.

 Assenza di movimento

Se le cose stanno così, occorrerà in primo luogo fissare uno strumento, costruire un punto di vistache insegua quell’orizzonte non ancora finito. Come dare futuro alla forma di vita e potenza

all’inoperosità: alla «potenza destituente»? La trama del libro si concentra su questo compito.Ritorniamo un momento indietro. Si sa che nella nuda vita risiede la condizione dell’esercizio delpotere. È nell’eccezione che l’homo sacer  è incluso/escluso dalla città ed è sull’eccezionalità che ilpotere si fonda. Questa, di tono schmittiano, è null’altro che una nuova maniera di dire ThomasHobbes. Su questo snodo, tuttavia, l’insistenza è stata estrema. Come uscire da questa condizione? La comunità che viene nel ’90 ci mostrava il negativo, la mancanza, riscoperti e coperti dal desiderio– oggi invece vi è solo potenza destituente, la convinzione che non vi sia alternativa alla fuga nelconfronto con il potere. Il potere è dominio. Esso non ha interna dinamica né relazione, sostiene

 Agamben. Nessun movimento: quindi, per esempio, ogni potere costituente non è eterogeneo maconsustanziale al potere costituito; ed ogni arché è insieme origine e dominio, sorgente e ordine –

quindi questi rapporti vanno in ogni caso disinnescati perché in quella prospettiva l’archeologiafilosofica può solo raggiungere un punto di origine ambiguo, e si tratta, secondo Agamben, didisattivare questa origine. La sua disattivazione è l’inoperosità. Resta il problema: e se invece ilrapporto archetipo, origine-comando, fosse solo modello di mistificazione, di legittimazione di un

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potere sovrano? È a questa questione che deve rispondere il filosofo politico: che fare? Come aprirela temporalità?

 Agamben si era a questo scopo in passato affidato a Heidegger – ora non più. Già nel Regno e la

gloria, l’allontanamento da Heidegger era sembrato particolarmente forte. Qui, è confermato, e loè in maniera definitiva. La rottura infatti riguarda la dimensione stessa dell’essere heideggeriano, lasua costitutiva relazione temporale, la tonalità emotiva fondamentale che domina il pensiero di

Heidegger. È una possibilità ancora troppo densa, troppo piena di temporalità: essa assegna ancoraall’uomo l’umanità come compito e questa determinazione può sempre aprirsi ad un’indicazionepolitica, ad un compito politico (affermativi? reali? il nazismo di Heidegger lo è certo stato). Edanche quando il vivente si è nell’ultimo Heidegger ridotto ad un esserci che ha afferrato la suaanimalità e ha fatto di questa la possibilità dell’umano, Agamben considera tutto ciò ancora internoad una storia metafisica dell’essere, lo imputa all’incapacità di sottrarsi alla relazione e all’opera.Che estrema, ma anche strana, conclusione! Per evitare una risposta al quesito sulla temporalità,ripiega anche lui – Agamben – sull’animalità, retrogredendo il problema, lo adagia su un naturalismomitico. L’intero «Intermezzo II» mostra la disarticolazione della temporalità e del progetto inHeidegger come definitivamente contradditorie ed insolubilmente legate all’incapacità di distinguere

l’«essere-gettato» e l’«essere-portato».

Le coppie irriducibili

 Anche a Foucault, Agamben aveva dato fiducia nel tentare di risolvere quel problema dellatemporalità. Ora non più. Altrettanto violenta è infatti qui la rottura con il pensiero di Foucault e conla tematica biopolitica. Ciò che ad Agamben è insopportabile in Foucault è il fatto che egli abbiaevitato quel confronto con la storia dell’ontologia che Heidegger si era dato come compitopreliminare (ma non era appunto quanto si rimprovera ad Heidegger?). La forma di vita in Foucaultnon si distacca mai dalla relazione con sé e con gli altri, rimanda ad una soggettivazione etica che

s’organizza in rapporti strategici – tutto ciò è da Agamben vivamente rigettato. È solonell’ingovernabile, nell’inoperoso, dunque, visto dal punto di vista etico, che la vita si dà.Nell’«Intermezzo I», Agamben fa i conti con Foucault e li fa di nuovo attorno alla coppia poterecostituente-potere costituito, soggettivazione-governo che costituiscono per lui un rapportoontologicamente irriducibile. «Ciò che Foucault non sembra vedere … è la possibilità di unarelazione con sé e di una forma di vita che non assumano mai la figura di un soggetto libero; cioè (sele relazioni di potere rimandano necessariamente ad un soggetto) di una zona dell’etica del tuttosottratta ai rapporti strategici, di un Ingovernabile che si situa al di là tanto degli stati di dominioche delle relazioni di potere».

Non era difficile immaginare che sarebbe andata a finire così e cioè nella ripetizione di una fuga

dall’essere nella quale anche lo sbattere sul niente viene riconvertito nella felicità. Agamben, dopotanti anni, corre il rischio di ritrovarsi d’accordo con Massimo Cacciari. Che quella inoperositàdovesse realizzarsi in un amplesso senza gioia di generare e dove solo il contatto, puntualee disperato col nulla, portasse testimonianza dell’essere – i volumi precedenti, l’intero corso di Homo

sacer lo aveva fatto sospettare. Ora è detto. Quanto dolore ci sta dentro.

Il problema della tecnica

Ma prendiamole una per una queste derive dell’inoperosità. Prendiamo ad esempio l’affermazioneche il potere costituente sia del tutto legato e null’altro che immanente a quello costituito. Il potere

costituente è, prima di tutto, lotta contro il potere costituito: certo, ma anche lotta contro se stesso.Il potere costituente è, sempre, desiderio, movimento, rapporto di forza. Nel biopolitico essoè ricondotto al concetto di lavoro-vivo, è dunque posto in una relazione che lo rende, ad un tempo,asimmetrico rispetto al potere costituito e decisivo tuttavia non solo nel riqualificare la realtà di

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quest’ultimo ma anche nel superarne la determinazione. Se la deriva inoperosa di Agamben è intesaa chiarire questa dinamica costituente e quindi (senza che egli lo voglia) a chiarirne anche l’effettodestituente che in esso vige, la deriva è utile.

C’è un altro punto particolarmente interessante in questo libro ed è l’analisi largamente portata da Agamben sul pensiero heideggeriano della tecnica. La prende da lontano, Agamben, questa storia,dalla figura dello schiavo così come è definito in Aristotele – per giungere a conclusioni che

rovesciano la destinalità nihilista della tecnica in Heidegger. «La schiavitù sta all’uomo antico comela tecnica all’uomo moderno: entrambe, come la nuda vita, custodiscono la soglia che consente diaccedere alla condizione veramente umana ed entrambe si sono rivelate inadeguate allo scopo, la

 vita moderna rivelandosi alla fine non meno disumana dell’antica». Eppure, dietro la sconsolataconstatazione, c’è qui un recupero (finalmente!) della corporeità, dell’ergon (lavoro) come usooperoso del corpo – se la tecnica ha un destino eticamente negativo, vi è tuttavia qui per la prima

 volta un recupero del corpo al destino, una «strumentalità animata», dietro la quale appare con forzaquella stessa relazione costitutiva-destitutiva che il potere costituente proponeva. Unariappropriazione di capitale-fisso da parte del lavoro vivo?

E ancora, quando vogliamo esperire il mondo come bene supremo, quando ponendo il rifiuto dellaproprietà, del proprio, riconosciamo l’uso in relazione all’inappropriabile – anche in questo casoquell’ambiguità intrinseca della relazione si spacca: perché da un lato c’è nell’uso il rischio diannullarsi nell’inappropriabile; dall’altro, dentro questa tensione all’inappropriabile, riconosciamol’enorme positività dell’essere comune della potenza. All’animale la prima destinazione, all’uomo laseconda. Il francescanesimo ha vissuto questa alternativa.

Ed è così ovunque, in questo libro, dove ogni qualvolta la relazione pone con tutta la sua forzal’opera a confronto dell’effetto negativo del dominio che la divora e la distrugge, ogni volta ciritroviamo nell’alternativa fra il chiudere la relazione fuori dalla relazione stessa, nell’illusione

astrattamente logica di un esser fuori da ogni relazione – di immergersi in una sorta di béance, unainoperosità come vuoto impossibile da riempire – oppure, come in ogni radicale esperienzadell’immanenza (come in Spinoza), lì si trova l’altro corno della contraddizione, quello della pienezzaoperosa, etica, politica della beatitudine.

Il fondamento del soggetto

 A me, che sono marxista, queste parabole agambeniane fanno l’effetto di assistere ad uno spettacolonel quale qualcuno ha colto il problema e non vuole, meglio, non può più risolverlo. Che cosa vuoldire disattivare il dispositivo dell’operare? Per un marxista significa disattivare la relazione fra ildominio capitalista e il lavoro vivo: una relazione che è sempre chiusa dentro il capitale ma che, allo

stesso tempo, è sempre fuori, asimmetrica, autonoma dal capitale – una relazione che il lavoro vivomostra del tutto fuori-misura sul lato della produttività che solo il lavoro vivo produce. Può il lavoro

 vivo staccarsi dal capitale o essere staccato dal capitale? Lo può, organizzandosi e rompendo ilrapporto. Una rottura mai piena, ma che sempre si ripete e si ripeterà, inscrivendosiontologicamente nella storia dell’essere. Rifiutare di vedere questa relazione come l’unico destinopresente all’opera, è il difetto di Agamben.

 Agamben, in questo suo lavoro, ha tuttavia in modo netto e positivo definita l’attuale situazione dellaricerca ontologica. Dopo Heidegger, nel postmoderno, l’ontologia si definisce non più come ilfondamento del soggetto ma come una macchina linguistica, pratica e cooperativa, come tessuto

della praxis, ed il dispositivo ontologico come asse di ricomposizione costituente dell’operare e dellinguaggio nel comune. Questa riqualificazione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Unabanda di «filosofi non professionisti», da Nietzsche a Benjamin a Foucault, ha cominciato a leggerequesto nuovo rapporto ontologico come decisivo sull’orizzonte dell’operare. Ed ha riaperto a Marx

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un terreno di azione. Questo Agamben sembra il disegno in negativo di questa vicenda – ma ilriconoscimento di una nuova epoca dell’ontologia è pieno. Grazie!

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