2015 L'Avventura (Giorgio Agamben)

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nottetempo Giorgio Agamben L'aentura sassi nello stagno l filosofia

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filosofia

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� nottetempo

Giorgio Agamben L'avventura

sassi nello stagno l filosofia

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Ogni uomo si trova preso nell'avventura, ogni

uomo ha, per questo, a che fare con Demone,

Eros, Necessità e Speranza. Essi sono i volti -

o le maschere - che l'avventura ogni volta gli

presenta.

Giorgio Agamben, filosofo, è autore di un'ampia

opera tradotta in tutto il mondo. Con nottetem­

po ha pubblicato, tra gli altri titoli, Profanazioni (2005), Nudità (2009), Pilato e Gesu (2013) e fl

fuoco e il racconto (2014).

7,50 Euro

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ISBN 978-88-7452-555-3 © 2015 nottetempo srl nottetempo, piazza Farnese, 44 - 00186 Roma www.edizioninottetempo.it [email protected] Progetto grafico: Studio Cerri Associati Stampa: Grafiche del Liri s.r.l., Isola del Liri (FR)

Prima edizione giugno 2015

MISTO �

--� .. --

FSc- C108426

Giorgio Agamben

L'avventura

nottetempo

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l. Demone

Chi può confidare, nell'ascesa ver­so l'etere, di saper padroneggiare il tiro a cinque Daimon, Tyche, Eros, Ananche, Elpis?

AbyWarburg

Nei Saturnali di Macrobio, uno dei personaggi che partecipano al convito attribuisce agli Egi­ziani la credenza che alla nascita di ogni uomo presiedano quattro divinità : Daimon, Tyche, Eros, Ananche (il Demone, la Sorte, l'Amore e la Necessità). "Gli Egiziani legano il significa­to del caduceo alla generazione degli uomini, che si chiama genesis, ricordando che quattro dèi assistono come garanti alla nascita di un uomo: il Demone, la Sorte, l'Amore e la Ne­cessità. Credono che i primi due siano il sole e la luna, perché il sole, da cui provengono lo spirito, il calore e la luce, è genitore e custode della vita umana, e per questo è ritenuto Dai­mon, cioè dio, del nascente, mentre Tyche è

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la luna, perché questa è preposta ai corpi che sono soggetti ai cambiamenti fortuiti. L'Amore è simboleggiato dal bacio, la Necessità da un nodo" (Sat. 1,19).

La vita di ogni uomo deve pagare il suo tri­buto a queste quattro divinità, senza cercare di eluderle o di imbrogliarle. A Daimon, perché deve a lui il proprio carattere e la propria natu­ra; a Eros, perché da lui dipendono fecondità e conoscenza; a T yche e ad Ananche, perché l'arte di vivere consiste anche nel piegarsi nella giu­sta misura a ciò a cui non si può in nessun caso sfuggire. n modo in cui ciascuno si tiene in rap­porto con queste potenze definisce la sua etica.

Nel 1817, Goethe s'imbatté per caso nel passo di Macrobio mentre leggeva lo studio di un filologo danese, Georg Zoega, su Tyche e Nemesis. Nell'ottobre dello stesso anno, egli compone gli Urworte, le "Parole originarie" , in cui, riflettendo sulla sua vita - ha ormai ses­santotto anni -, cerca di pagare a suo modo il proprio debito alle divinità di Macrobio, alle

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quali aggiunge come quinta Elpis , la Speranza. Nulla piu di queste cinque strofette "orfiche" (Urworte. Orphisch è il titolo completo) e dei brevi commenti in prosa che le accompagnano tradisce la superstizione cui Goethe ha consa­crato la sua vita: il culto del demone. Qualche anno prima, in un celebre passo di Poesia e verità, egli aveva già descritto la sua ambigua relazione con questa potenza inconcepibile: "Egli credette di scoprire nella natura, vivente e morta, animata e inanimata, qualcosa che si manifestava solo in contraddizioni e non po­teva essere colto in nessun concetto, e tanto meno in una parola. Non era divino, perché pareva irrazionale; non era umano, poiché era privo di intelligenza; non era diabolico, poiché era benefico; non era angelico, perché rivela­va spesso qualcosa di maligno. Somigliava al caso, poiché non mostrava nessuna coerenza; somigliava alla provvidenza, perché alludeva a una connessione. Tutto ciò che ci limita sem­brava per esso penetrabile; pareva governare a suo arbitrio gli elementi necessari della nostra

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esistenza; abbreviava il tempo e ampliava lo spazio. Pareva compiacersi solo dell 'impossibi­le e respingere da sé il possibile con disprezzo. A questo essere, che sembrava mescolarsi a tut­ti gli altri, diedi il nome di demonico, secondo l'esempio degli antichi e di quelli che avevano avvertito qualcosa di simile. Cercai di salvarmi da questo essere temibile" .

Una lettura appena un po' attenta delle Pa­role mostra che la devozione, che nell'auto­biografia era espressa con qualche riserva, qui viene organizzata in una sorta di Credo, in cui confluiscono astrologia e scienza. Poiché ciò che per il poeta era in questione nel demone, era il tentativo di costruire come un destino il nesso fra la sua vita e la sua opera. li Daimon che apre l'elenco non è p ili, infatti, un essere inconcepibile e contraddittorio, ma, come te­stimonia l'inserzione delle strofe nel contesto degli scritti sulla Metamorfosi delle piante, esso è diventato una potenza cosmica e una sorta di legge di natura:

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Come nel giorno che al mondo ti ha prestato il sole stava al saluto dei pianeti, cosi subito avanti hai proceduto seguendo la legge, secondo cui eri apparso. Cosi devi essere, non puoi sfuggire, cosi dissero Sibille e profeti. Non vi è tempo né potere che spezzi forma plasmata che vivendo evolve.

"Il demone, " aggiunge con forza il com­mento in prosa, "significa l 'individualità ne­cessaria e limitata, espressa immediatamente al momento della nascita [ . . . ] , la forza innata e la proprietà che determina piu di ogni altra cosa il destino dell 'uomo" . E come, nell 'au­tobiografia, il caso non era che un aspetto del demonico, cosi ora la parola orfica che segue - Tyche, il Fortuito (das Zu/éillige) - è solo l 'elemento mutevole che, soprattutto nei giovani , accompagna e distrae "con le sue in­clinazioni e i suoi giochi " il demone che rie­sce ogni volta a conservarsi attraverso di essi . Stringendo insieme ip un destino personale il

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demone e il caso, Goethe ha dato espressione alla sua credenza piu segreta.

Piu complicata è la resa dei conti con Eros. Poiché, rispetto a questo terzo nume, Goethe non poteva certamente ignorare di essere ri­masto inadempiente. L' "indecisione erotica" e l"' omissione" , che Benjamin gli rimprovera nell'articolo per l'Enciclopedia Sovietica e nel saggio sulle Affinità elettive, erano, in realtà, la rinuncia a condurre fino in fondo una rela­zione amorosa. È significativo che la sola re­lazione che egli non abbia interrotto sia stata quella con Christian e Vulpius, l 'operaia in una fabbrica di fiori artificiali da cui ebbe un figlio e che dopo quindici anni decise di sposare, proprio perché l 'incolmabile differenza socia­le che li separava gli impediva di vedere nel matrimonio altro che un risarcimento dovuto alla madre del suo unico figlio. Non stupisce, pertanto, che Eros appaia nelle Parole orfiche in una luce decisamente sfavorevole. Poiché, nell'amore - cosi spiega il commento in prosa

lO

- il demone individuale si lascia irretire dalla "Tyche tentatrice" e, "mentre sembra obbedire solo a se stesso e lasciar campo libero alla sua volontà , " in realtà si sottomette a "casualità ed elementi estranei che lo allontanano dalla sua via: crede di prendere, e in verità si imprigiona; crede di vincere e invece è sconfitto" .

Nell 'ultima, cupa divinità di Macrobio, Ananche, la Necessità, Goethe non vede altro che il potere che, contro le deviazioni di Tyche e di Eros, riannoda piu strettamente il legame destinale fra il singolo e il suo demone. Essa nomina, in questo senso, la stessa forza astrale della "legge" ( Gesetz) che già definiva il demo­ne nella prima strofa:

Ora è di nuovo, come vollero le stelle: condizione e legge; ogni volontà è solo volere perché cosi dovevamo, e di fronte al volere, l'arbitrio tace; la cosa piu amata viene scacciata dal cuore, al duro " devo" si piegano volontà e capriccio.

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Cosi noi siamo dopo molti anni liberi da parvenze solo piu stretti dove eravamo all'inizio.

Nelle Parole orfiche Goethe ha di fatto pa­gato il suo tributo a una sola divinità: il Dai­mon. Questa scelta chiarisce anche la strategia che ha guidato il poeta: iscrivendo la propria esistenza in una costellazione demonica, egli intendeva sottrarla a ogni giudizio etico. Le Parole orfiche sigillano cosi la dichiarazione di irresponsabilità che il poeta trentenne aveva professato nel frammento Sulla natura: "Essa mi ci ha messo, essa me ne trarrà fuori. Ho fi­ducia in lei. Che faccia di me quello che vuo­le; non potrà odiare la sua opera [ . . . ]. Sua è tutta la colpa, suo tutto il merito". Ma - dal momento che la responsabilità è un concetto giuridico e non etico - il gesto che pretende di declinarla è altrettanto estraneo all'etica di quello che vorrebbe assumerla. Esso tradisce, anzi, un disagio, di cui il poeta non poteva non essere consapevole. Poiché il demone, con cui egli aveva stretto un patto informale, ma non

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meno ferreo di quello di Faust , è l 'ambigua po­tenza che assicura all'individuo il successo, a condizione di rinunciare a ogni decisione etica. È grazie a questo patto che Goethe ha potuto costruire la propria vita come se l'episodio piu insignificante o la massima piu occasionale mo­strassero la segnatura demonica che ne sanciva l 'immancabile esito, che uno stuolo di scrivani e assistenti (Eckermann, Riemer, Miiller) dove­va occuparsi di registrare. Vita e scrittura, che il demone aveva congiunto in un destino, era­no ciascuna per l 'altra garanzia sufficiente della propria riuscita.

È, forse, per la consapevolezza di questa fuga di fronte alla responsabilità che Goethe ha dovuto aggiungere ai quattro nomi divini di Macrobio un quinto, per il quale dichiarava di aspettarsi un commento "etico e religioso". Elpis , la Speranza, che chiude il prosimetro, non è qui che un travestimento di Daimon, che, con il suo colpo d'ala, dovrebbe elevare la vita del singolo al di là della terra e del tempo

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('' un colpo d'ala e dietro noi gli Eoni"). Manca, a quest 'ultima parola orfica, la fede, la quale soltanto, secondo il dettato paolina, potrebbe darle sostanza ("La speranza vista non è piu speranza" - Rom. 8,25; "La fede è sostanza delle cose sperate" - Heb. 11,1) . Elpis rimane imprigionata nella sfera superstiziosa del de­mone. È da questo, e non dalla speranza, che il poeta aspetta la salvezza. Ma necessariamente superstiziosa è la pretesa di comporre il caos informe della propria vita in un ordine demo­nico che la conduce infallibilmente al successo; autentica pietà è, al contrario, quella che rico­nosce proprio nella sobria accettazione di quel caos la sola condizione per la ricerca di una via d'uscita da ogni ordine apparente.

Menzionando Tyche fra le divinità che cu­stodiscono e orientano la vita degli uomini, Macrobio si riferiva a una tradizione che, già a partire del IV secolo a.C. , riconosceva a essa un rango eminente (è significativo che Edipo definisca se stesso "figlio della Tyche" - Oed.

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rex v. 1080). In un passo di Diane Crisostomo, che Macrobio poteva conoscere, questo rango della Tyche si traduce in un insospettato allar­gamento delle sue competenze, che la porta a usurpare quelle tradizionalmente riservate ad altre - in apparenza piu possenti - divinità . "Tyche," scrive Diane, "ha ricevuto tra gli uo­mini molti nomi. La sua imparzialità [to ison] è stata chiamata Nemesis , la sua invisibilità [to adelon], Elpis ; la sua inevitabilità, Moira; la sua giustizia, Themis - veramente una dea dai mol­ti nomi e dalle molte vie" (Orat. 64,8).

Non è un caso che, fra i nomi di Tyche, com­paiano qui quelli di almeno due divinità degli Urworte: Elpis , la Speranza, e Ananche (Moira, il Destino, è figlia della Necessità) . Ma anche sotto la tetra maschera di Nemesis (da nemein, assegnare, "colei che assegna") è possibile rico­noscere il volto imberbe di Daimon (daimon, da daiomai, significa letteralmente "colui che compartisce e assegna a ciascuno il suo carat­tere"). Tyche non è soltanto il caso: è, anche, per quanto questo possa apparirci contraddit-

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torio destino e necessità. Essa è veramente la pote�za "dai molti nomi" , che governa in ogni ambito le vie e le sorti degli uomini.

Un celebre aforisma di Ippocrate compendia l 'arte medica articolando insieme cinque ter­mini: "La vita [bios] è breve, l 'arte [techne] è lunga, l 'occasione [kairos] è fuggevole [o�ys: "aguzza" , "difficile da afferrare" ] , l ' espenen­za [peira] è ingannevole, il giudizio [krùù] difficile" .

Una segreta corrispondenza unisce questo drastico elenco, in cui è in gioco la breve av­ventura della vita umana, alle cinque quasi­divinità di Macrobio e di Goethe. ll kairos e la krùù, l 'istante del giudizio in cui il medico deve decidere se il malato sopravviverà, evo­cano la parte piu oscura di Daimon e Tyche. E nell 'esperienza - ma peira significa anche il ci­mento, il mettersi alla prova - Necessità e Spe­ranza sembrano per un attimo congiungersi in una peripezia, il cui esito è inseparabile dalla possibilità dell 'inganno e dell'illusione.

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2. Aventure

"Siete dunque voi, dama Av­ventura?"

Wolfram von Eschenbach

Nel prologo di uno dei piu sorprendenti poemi cavallereschi di Chrétien de Troyes, l 'Yvain, il protagonista si presenta con queste parole:

'7e suz;'' /et il, "uns chevaliers qui quier ce que trover ne puis; assez ai quis, et rien ne truis".

"Et que voldroies tu trover?"

"Aventure, por esprover ma proesce et mon hardement.

Or te pri et quier et demant, se tu sez, que tu me consoille ou d' aventure ou de mervoille". "A ce, " /et il, "/audras tu bien: d' aventure ne sai je rien n' oncques m es n' en oi'parler".

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" Sono," disse, "un cavaliere che cerca ciò che non può trovare; molto ho cercato e nulla ho trovato" . " Che cosa vorresti trovare?" "Avventura, per mettere a prova la mia prodezza e il mio coraggio. Dunque ti prego e ti domando se tu lo sai, che mi consigli di avventura o di meraviglia" . "Questo," disse, " tu solo lo puoi fare: di avventura io non so nulla mai ne ho sentito parlare" . (Yvain, vv. 358-69)

TI termine - aventure - con cui il cavaliere definisce l'oggetto delle sue ricerche - e, a t­traverso questo, anche se stesso - non doveva essere immediatamente chiaro, se il suo inter­locutore può candidamente dichiarare di non averne mai sentito parlare. La sola cosa sicura è che esso ha a che fare con la meraviglia (d'a­venture ou de mervoille) e che dovrà fungere da prova per il coraggio di Yvain. Non s'intende,

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però, la sottigliezza semantica di questo passo, se non si ricorda che il verbo antico-francese trover non significa semplicemente "trovare" . Sebbene sulla sua etimologia non vi sia accordo fra i filologi, è certo, però, che esso era in ori­gine un termine tecnico del vocabolario poe­tologico romanzo, il cui significato era "com­porre poesia" (per questo i poeti chiamavano se stessi trobadors, trouvères o "trovatori").

Yvain, che cerca ciò che non può trovare, può essere allora una cifra di Chrétien che "trova" l'argomento del suo poema: l 'avventura del ca­valiere è la stessa avventura del poeta.

Un'indagine sulla possibile etimologia del termine deve cominciare col revocare in dub­bio la facile ipotesi di Meyer-Liibke che riman­da a un supposto latino ·�<adventura. Non soltan­to il termine non è attestato nel latino classico, ma l 'interpretazione, cosi spesso ripetuta - che vede in esso il neutro plurale del participio fu­turo di advenio -, non ha fondamento, almeno da quando è stato dimostrato che i sostantivi

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latini in -ura non derivano necessariamente dal participio futuro.

Che la derivazione sia, com'è probabile, dal latino classico e cristiano adventus (l 'avvento di un principe o del messia) o, come proponeva il vecchio Du Cange, da eventus, in ogni caso il termine designa l 'accadere a un certo uomo di qualcosa di misterioso o meraviglioso, che può essere tanto positivo che negativo. Signi­ficativa, in questo senso, è la connessione con advena e adventicius, termini che designano lo straniero. Ad ogni modo, come ha osservato Eberwein, decisivo è "il momento dell 'accade­re efficace all'interno di un contesto reale co­nosciuto" (Eberwein, p. 32).

Per questo, nei romanzi cavallereschi, Aventure sembra avere non meno signifi­cati di Tyche. Come questa, essa designa sia il caso che il destino, sia l 'evento ina­spettato che mette il cavaliere alla prova sia una catena di fatti che necessariamente si verificheranno. Dal primo significato, de-

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rivano l 'espressione avverbiale par aventu­re, "per caso " e l 'aggettivo aventureux nel senso di "rischioso " (la lande aventureuse l et la rivière perilleuse- Guing. vv. 357 -58) ; dal secondo, le molteplici accezioni del termine nel senso di "evento provvidenziale" o "buo­na sorte " , "destino avverso " o "sventura". Decisivo è, però, sempre l ' irresistibile coin­volgimento del soggetto nell 'avventura che gli accade. Com'è stato suggerito (Ranke, pp . 16-29), l 'avventura è per il cavaliere tanto in­contro con il mondo, che incontro con se stes­so e, per questo, fonte insieme di desiderio e sbigottimento. In un !ai di Maria di Francia, il protagonista, dopo l ' incontro con l 'amata, torna a casa in cosi grande turbamento che dubita di sé e di ciò che ha visto:

De s' aventure vait pensa n t

e en sun curage dotant esbaiz est, ne seit que cret'r[e] il ne la quide mie a veir[e].

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Va pensando della sua avventura e dubitando nel suo cuore è sbigottito, non sa che cosa credere e non gli pare che sia vera. (Lanval, vv. 1 97-200)

E, tuttavia, tanto p ili strana e rischiosa è l' av­ventura, tanto piu essa è desiderabile:

Mes con plus granz est la mervotlle

et l' aventure plus grevainne, plus le covoite et plus se painne.

Ma quanto piu grande è la meraviglia e piu rischiosa l'avventura, tanto piu la desidera e ne è attratto. (Erec, vv. 5644-46)

È stato J acob Grimm, il geniale coautore dei Kinder- und Hausmti'rchen, il primo a osservare il doppio significato del termine alto-tedesco dventiure e di quello antico-francese aventure,

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da cui esso deriva. "Accanto al significato di evento [Erezgnis] e accadimento, dventiure ha preso quello di racconto [Erzahlung], descri­zione, cosi come ' storia' [Geschichte] designa non solo ciò che è avvenuto [das Geschehene] , ma anche il racconto [Bericht] di esso" (Grimm, p. 6). I;aventure (o dventiure) può essere meravigliosa o fortuita (il significato sembra qui coincidere con "caso" ) , benefica o malefica (si dirà allora bonne o male aventure, e il termine sembrerà equivalente a "sorte" , "fortuna" ) , piu o meno rischiosa ( e varrà al­lora per il cavaliere come prova del suo ardi­mento) : ad ogni modo, però, distinguere tra l'evento e la sua trasposizione in parole non è sempre agevole. Di questa difficoltà testimonia l' incipit di molti testi tanto romanzi che alto­tedeschi - Ici commence l' aventure . . . , Als uns diu dventiure zalt . . . , o, nel Parzival, l 'afferma­zione che "Flegetanis scrisse l 'avventura del Graal" (Flegetdnis schreip von grales dventiur

- Parz. 453,30). Ciò che comincia o è scritto è innanzitutto il racconto, ma questo coincide

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senza residui con l'avventurosa vicenda del protagonista. Per questo l'avventura, come un libro o un essere vivente, ha un nome, "molto bello da nominare" : "L}aventure, ce vas plevis, l La ]aie de la Cort a non" (Erec, vv. 5464-65) .

Proprio questa coincidenza ha fatto si che tra i possibili significati del termine figuri an­che quello di "destino" : il destino non è infatti che una serie di eventi detti o predetti da una parola autorevole. il dio Apollo, si legge in un poemetto antico-francese,

Bien dit a chascun s' aventure,

mes sa responsse est mout obscure.

Dice bene a ciascuno la sua avventura, ma il suo responso è molto oscuro. (Roman de Thèbes, vv. 191 -92 )

D'altra parte,

Aventure qui estre dit ne poet remaindre qu' el ne seit,

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e chose qui deit avenir ne poet por nule chose /aillir.

Avventura che deve essere non può succedere che non sia, e cosa che deve avvenire per nessuna ragione può fallire. (Roman de Rou, vv. 5609-612)

Avventura e parola, vita e linguaggio si con­fondono e il metallo che risulta dalla loro fusio­ne è quello del destino.

Contemporanea di Chrétien, Maria di Fran­cia fa del vocabolo aventure il termine tecnico per eccellenza della sua poetica. Esso mantie­ne, per questo, tutta la ricchezza semantica e tutta l'ambiguità descritta da Grimm. Occor­re, però, lasciare da parte la lectio facilior, che vede nell'avventura solo il contenuto narrativo del l ai , la storia che esso racconta. Se s'intende, infatti, sulle tracce di Spitzer, la particolare cor­nice temporale che Maria crea per i suoi lais, si

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comprende anche che l'avventura non precede il racconto come un evento cronologico, ma resta fin dall 'inizio inseparabile da esso. Certo, nel prologo, la poetessa dichiara di trascrive­re e mettere in rima dei lais che ha ascoltato e che, a loro volta, erano stati composti "per rimembranza" (pur remembrance) delle avven­ture udite; ma queste "avventure" - è detto con chiarezza nel Guigemar- sono sempre già "racconti" , sono, anzi, sempre già scritte:

Les contes ke jo sai verrais,

dunt li Bretun un t /ait !es lais, vos conterai assez brie/ment.

El chief de cest comencement,

sulunc la lettre et l' escriture vos mosterai une aventure.

I racconti che io so veraci, dei quali i Bretoni hanno fatto i lais, vi racconterò brevemente. All'inizio, per cominciare, secondo la lettera e la scrittura

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vi mostrerò un'avventura. (Guigemar, vv. 1 9-24)

Simile alla Pathos/ormel di Warburg, l 'avven­tura è il cristallo intemporale che tiene insieme la catena della memoria in cui Maria inserisce i suoi lais: e, nella remembrance, evento e rac­conto coincidono. L'avventura è, in questo sen­so, sempre l' aventure d'un lai: I: aventure d'un autre lai l cum ele avient, vus cunterai ( "L'av­ventura di un altro lai, l come avvenne, vi rac­conterò" - Lanv. vv. 1-2).

Maria può raccontare l 'avventura immediata­mente nel suo avvenire (a differenza di coment

' cum ha nei lais valore temporale) perché essa non è un evento situato in un passato cronolo­gico, ma è sempre già evento di parola.

Piu volte Maria di Francia allude alla verità di ciò che racconta, ma lo fa in modo tale che verità e avventura sembrano confondersi. Cosi Eliduc riprende alla lettera la formula citata del Lanval, sostituendo, però, ad aventure, verité:

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"Cosi come avvenne vi racconterò l la verità ve ne dirò" (Si cum avient vus cunteraz� l la verité vus en dirrai- Elid. vv. 27 -28).

E nella conclusione di Chevrefoil, la poetessa dichiara di aver raccontato "la verità del/ai" cosi come altrove diceva di raccontarne l' av­ventura: "Detta vi ho la verità l del lai che qui ho raccontato" (Dit vus en ai la verité l del/ai que j' ai ici cunté- Chevr. vv. 117-18) .

La verità che è qui in questione non è quella apofantica della logica né quella storica. È una verità poetica. Non si tratta, cioè, della corri­spondenza fra eventi e racconto, fra fatti e pa­role, ma del loro coincidere nell'avventura. E non ci sono due cose: l'avventura-evento e l' av­ventura-racconto, vera se riproduce fedelmente la prima e falsa se non lo fa. Avventura e verità sono indiscernibili, perché la verità avviene e l'avventura non è che l'avvenire della verità.

Nella poesia dei Minnesanger l' avventu­ra viene personificata in una donna diventa frau Aventiure. Nel Parzival di Wolfram von

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Eschenbach, essa appare bruscamente al poeta e gli chiede di farla entrare nel suo cuore:

"Iì �.{f" "lVT � lVT A • �}) uot u1. wemr wer szt zrr

"Ich wil inz herze hin zuo dir". "So gert ir zengem rume". "Waz denne, belibe ich kume? min dringen soltu selten klagen,

ich wil dir nu von wunder sagen". "]a sit irz, frau Aventiure?"

"Apri!" "A chi? Chi siete?" "Voglio entrare nel tuo cuore". "È uno spazio stretto" . " Che cosa importa? Anche se non v'è spazio, non avrai da dolertene. Ti dirò cose meravigliose " . " Siete dunque voi, dama Avventura?" (Parzival, 433,1-7 )

Benché, tanto nel poema di Wolfram che in altri testi piu tardi, si tratti sempre indub­biamente di una creatura in carne e ossa, frau

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Aventiure è, altrettanto indubbiamente, la stessa storia narrata. Parlandole, è allo stesso racconto che sta scrivendo che Wolfram rivol­ge la parola. Per questo, r;el Frauendienst di Ulrich von Liechtenstein, Aventiure bussa alla porta del poeta non col pugno, ma con parole ('' Apri! Io busso con parole, !asciami entrare" - Frauend. v. 5 15), e, nel Wilhelm von Orlens di Rudolf von Ems, essa può addirittura presen­tarsi dicendo: "Chi mi ha letta?" (Wer hat mich guoter her gelesen?- Wilh. von Or!. v. 2 143). Impersonato in dama Avventura è l 'atto stes­so dello scrivere e del narrare: ma, in quanto coincide con gli eventi narrati, esso non è un libro, ma il corpo vivo di una donna. L'enig­matica affermazione di Wolfram: "Non è un libro [buoch] : io non conosco nessuna lettera [ine kan decheinen buochstap]" (Parz. 115,27), diventa in questa prospettiva perfettamente comprensibile. Non si tratta, come alcuni in­terpreti hanno creduto, di una dichiarazione di ignoranza, ma della consapevolezza che l'avventura non si situa né solo in un testo né

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soltanto in una serie di eventi, ma nel loro coin­cidere - cioè cadere insieme . Come non ha mancato di notare Grimm, in quanto essa è una "personificazione della storia narrata" , non vi è una sola dama Avventura ma "altrettante particolari Aventiure, quanti s�no i singoli racconti" (Grimm, p. 22). E ogni av­v

.entura cerca "un Meister che la metta in poe­sia e al quale essa possa rivelare tutti i suoi se­greti" ( ibid. ) .

. È que�to indeterminarsi di evento e parola

m /rau Aventiure che può rendere in qualche modo comprensibile il particolare di un altro episodio del Parzival che è sempre parso oscu­ro agli interpreti. Il giovane eroe, folle e ine­s��rto, giunge a un certo punto in un campo vicino alla foresta di Brizljan e vede una donna addormentata in una tenda.

Diu /rouwe was entslà/en. Si trouc der minne wd/en, einen munt durchliuhtic rot,

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und gerndes ritters herzen not. Innen des diu /rouwe slie/, der munt ir von einander lief

der trouc der minne hitze fiur.

La donna era addormentata e portava l'arma dell'amore: una bocca rossa scintillante, turbamento per il cavaliere. Dormiva la donna con le labbra dischiuse, ardenti per il fuoco d'amore. (Parzival, 130,3-9)

n fatto singolare è che il termine avventura, che compare a questo punto, si riferisce non all'esperienza che sta vivendo Parzival, ma alla stessa donna addormentata: "Cosi giaceva la meravigliosa avventura" (Sus lac des wunsches aventiur- ivi, 130,10). Se Wolfram può chia­mare qui la donna " avventura" , è perché il suo corpo è la cifra tanto dell'avventura che Parzi­val sta vivendo, quanto del racconto che il poe-

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t a sta narrando. Incontrando J eschute - questo è il nome della donna - Parzival ha incontrato la sua propria storia.

Grimm rimanda la genealogia di frau Aventiure alla personificazione dell'ispirazio­ne poetica in una dea che si trova tanto nella tradizione classica (la "Musa" ) che in quella germanica (nell'Edda, la Saga è definita come una dea, asynja) . " Il concetto tedesco che stava alla sua base viene cosi trasferito da una Saga che dice e racconta, a ciò che è detto e narrato. Anche ' Saga' designava l'evento in quanto era detto e non in quanto era avvenuto. Wolfram non ha inventato nulla di nuovo o di sconosciu­to; lo ha solo chiamato con un nome straniero, che lo determinava e restringeva" (Grimm, p. 22). Egli si lascia sfuggire, in questo modo, proprio la particolare segnatura che definisce l'avventura. Una spia di questa diversità è che, come Grimm non può non notare, l'incontro con frau Aventiure non avviene all'inizio del poema, ma nel corso della narrazione e non ha

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mai, pertanto, come nella tradizione classica, la forma di un'invocazione.

Aventiure appare nel mezzo della storia, perché essa non è, come la Musa, la potenza numinosa che preesiste al racconto e dà al poeta la parola: piuttosto, essa è il racconto e vive solo in esso e attraverso di esso. La donna non è, qui, colei che dà la parola: è lo stesso evento di parola - non è il dono del racconto, ma il racconto stesso.

A venture (aventiure) è un termine tecnico essenziale del vocabolario poetico medievale. Come tale esso è stato riconosciuto dagli stu­diosi moderni, che hanno sottolineato il signi­ficato poetologico che il vocabolo acquista in Hartmann von Aue (ma era già implicito in Chrétien de Troyes - Mertens, p. 339), e il ca­rattere performativo che il testo poetico acqui­sisce, nella misura in cui atto del raccontare e contenuto del racconto tendono a identificarsi (Strohschneider, pp. 379-80).

Dell'avventura ci interessa, però, qui anche un altro aspetto. In quanto esprime l'unità in-

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scindibile di evento e racconto, cosa e parola, essa non può non avere, al di là del suo valo­re poetologico, un significato propriamente ontologico. Se l'essere è la dimensione che si apre agli uomini nell'evento antropogenetico del linguaggio, se l'essere è sempre, nelle pa­role di Aristotele, qualcosa che " si dice" , allora l'avventura ha certamente a che fare con una determinata esperienza dell'essere.

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3. Eros

Arturi regis ambages pulcerrime.

Dante Alighieri

Prima di provarci a definire questa esperienza, sarà opportuno sgombrare il campo d�lle �on­cezioni moderne dell'avventura, che nsch1ano di ostruire l'accesso al significato originario del termine. La fine del Medioevo e l'inizio dell'e­tà moderna coincidono, infatti, con un'eclissi e una svalutazione dell'avventura. I Grimm, nel loro vocabolario, citano un esempio significati­vo dell'uso peggiorativo del termine in Lutero che, parlando dell'efficacia del battesimo, af­ferma: "li battesimo non consiste in un evento, questo è un'avventura" (Die tau/e s!�ht nicht au/ eventum, das ist ebenthewr). Ma e m Hegel che la condanna dell'avventura è sancita senza riserve. Nel capitolo intitolato "Le avventure" della sezione delle Lezioni di estetica dedicata alla Forma d'arte romantica, Hegel prende di

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mira il romanzo cavalleresco e la poesia medie­vale in generale. Ciò che definisce l 'avventura è che in essa lo spirito si riferisce al mondo ester­no "non come una realtà da lui compenetrata, ma come qualcosa di meramente esteriore e da lui separata," che, proprio per questo, "si svol­ge da sé, si complica e si muove come un' ac­cidentalità che infinitamente scorre, si muta e s 'inviluppa" (Hegel, p. 656). Questa esteriori­tà e accidentalità dei fini rispetto al soggetto che li persegue, "introducendo scontri fortuiti e ramificazioni che si intrecciano reciproca­mente in modo fuori dall'ordinario, costituisce l'avventuroso che, per la forma degli eventi e delle azioni, offre il tipo fondamentale del ro­mantico" (ivi , p. 657). Come esempio di questo carattere accidentale dell'avventura medieva­le, Hegel cita "la ricerca del Sacro Graal" e, curiosamente, la Commedia dantesca. Anche nel nesso cosi stretto che sembra legare nella letteratura medievale l 'avventura all 'amore, si ritrovano la stessa accidentalità e la stessa esteriorità: "Cosi qui le azioni dell'amore non

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hanno per la maggior parte, nel loro contenu� to specifico, altra determinazione che quella di offrire una prova della fermezza, della fedeltà e della durata dell'amore e di mostrare che la realtà circostante, con l'intero complesso dei suoi rapporti, vale solo come materiale per manifestare l'amore. Perciò l'atto concreto di quella manifestazione, dal mome�to che

_ha

importanza solo come prova, non si det�rn:ma da se stesso, ma è abbandonato al capnccio e all'umore della dama e all'arbitrio di acciden­talità esterne" (ivi, p. 660). E proprio perché l'avventura amorosa della cavalleria resta ester­na al soggetto, essa, secondo Hegel, finisce fa­talmente, in Ariosto e Cervantes , col condur­re alla dissoluzione la forma d'arte romantica che essa incarna: "Tutta questa avventurosità [Abenteuerez], realizzata fino in fondo, si mo­stra tanto nelle sue azioni che nelle sue con­seg�enze, come un mondo comico di eventi e destini che si autodissolve" (ivi, p. 661).

È difficile immaginare un fraintendimento piu completo dell'intenzione medievale: non

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solo l'avventura, come abbiamo visto, non re­sta mai esteriore al cavaliere che la vive ma anc?e rispetto al poeta, essaA risulta cosi �oc� acc�dentale che, come /rau Aventiure, penetra anzi nel suo cuore e s'identifica col testo stesso che egli sta scrivendo.

L'idea che essa sia qualcosa di estraneo - e quindi, di eccentrico e stravagante - rispett� alla vita ordinaria definisce la concezione mo­derna dell'avventura. Questa idea è presente anche nel saggio, pur penetrante, che Simmel ha dedicato al tema. "La forma dell' avventu­ra, nella su_a accezione piu vasta, " si legge qui fin dalla pnma pagina, "consiste nell'uscir fuo­ri dall'insieme dei fatti della vita " . Per questo essa è avvicinata ai sogni, che si situano fuori della connessione significativa che contraddi­s�ingue "_il tutto della vita " (Simmel, p. 15). Simmel si accorge, tuttavia, che, sebbene l' av­ventura scorra al di fuori della continuità della vita, essa "è diversa da tutto quel che si può dare di semplicemente casuale ed estraneo " )

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perché non si limita a sfiorarne la superficie, ma "è congiunta in qualche modo al suo cen­tro" (ibid .). Simile , in questo, all'opera d'arte, che ritaglia una parte nella serie infinita delle esperienze e le conferisce una forma autono­ma, l'avventura, pur essendo soltanto una par­te dell'esistenza individuale, "viene tuttavia sentita come un tutto, come un'unità chiusa in se stessa" (ivi, p. 17). n concetto di avventura è definito, cioè, dal fatto che qualcosa d'isolato e casuale contenga un senso e una necessità e "nonostante la sua contingenza e la sua extra­territorialità nei confronti della vita, debba far parte integrante della natura e del destino di chi se ne fa portatore, secondo una necessità misteriosa e un senso che oltrepassa gli eventi piu razionali della vita" (i vi, pp. 17- 18) .

Simmel sembra qui rendersi conto dell' in­sufficienza di una concezione dell'avventura, qual è quella moderna, che la colloca fuori del contesto dell'esistenza comune. Vi è, anzi, nel saggio un passo in cui egli, che pure cita come esempi di avventurieri soltanto Casanova e il

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giocatore, si avvicina in qualche modo all' espe­rienza medievale ed evoca la possibilità che "la vita nel suo insieme possa essere sentita come un'avventura" (ivi, p. 19). "Per questo non è necessario essere degli avventurieri , né portare a compimento molte singole avventure. Chi ha questa speciale disposizione nei confronti della vita deve sentire che vi è una piu alta unità al di sopra di essa considerata nel suo insieme: una sorta di sopra-vita che ha con essa il medesimo rapporto della totalità vitale immediata rispet­to alle singole esperienze che sono per noi con­crete avventure" (ibid.) .

Di questa duplice natura dell'avventura - di essere soltanto una parte dell'esistenza e tutta­via conferire a essa una superiore unità - Sim­mel non riesce a venire a capo. L'avventura gli si presenta per questo come . essenzialmente contraddittoria: essa mostra insieme i caratte­ri dell'attività e della passività, della sicurezza e dell'insicurezza, per cui, da una parte, ci fa prendere possesso del mondo in maniera vio­lenta e decisa, dall'altra, fa si che ci ab bando-

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niamo a esso con difese e riserve infinitamente minori di quelle che usiamo nell'esistenza or­dinaria. "L'unità in cui riuniamo in ogni mo­mento l'attività e la passività nei confronti del mondo, quell'unità che è anzi in un certo senso la vita, conduce i suoi elementi alla piu estre­ma tensione, quasi non fossero altro che i due aspetti di una sola e medesima vita misteriosa­mente indivisa" (ivi, p . 20).

Ciò è evidente anche nel nesso costitutivo che Simmel istituisce fra l' awentura e l 'amore. Questo nesso è cosi stretto, che " quando usia­mo la parola awentura, ci riesce difficile non darle un senso erotico" (ivi, p. 22). Nell'amore si ritrova, infatti, la stessa duplicità che defini­sce l' awentura: esso unisce in sé "la forza della conquista e la concessione che non può essere estorta con la forza, il risultato ottenuto grazie alle proprie capacità e l 'abbandono alla fortu­na che ci fa dono di qualcosa di imprevedibi­le e che non dipende da noi" (ibid.) . E questi due poli dell 'esperienza erotica - la conquista

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e la grazia - che nella donna sono strettamente uniti, nell'uomo si oppongono in maniera piu netta, in modo che il loro improwiso coinci­dere nell'amore conferisce a quest'ultimo quel carattere di awentura che è, secondo Simmel, specificamente maschile. La connessione fra l'esperienza amorosa e l' awentura è, tuttavia, ancora piu profonda. Come l' awentura sem­bra trascendere la corrente unitaria della vita e, nello stesso tempo, legarsi " agli istinti piu segreti e allo scopo ultimo della vita come tale" (ivi, p. 23), cosi anche l 'amore vive proprio di questo intrecciarsi di un carattere tangenziale e momentaneo con qualcosa che sta al cen­tro dell'esistenza umana. "Esso può dare alla nostra vita uno splendore soltanto momenta­neo, come il lampo che guizzando via illumina dall'esterno uno spazio interno; in tal modo viene però soddisfatto un bisogno [. . . ] che, lo si chiami pure fisico, psicologico o metafisi­co, permane per cosi dire atemporalmente nel fondamento o nel centro della nostra essenza" (ibid.). Ed è proprio la relazione a questo centro

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erotico profondo che conferisce all'avventura la sua pretesa di totalità e, insieme, fa di essa "una forma che, a causa del suo simbolismo temporale, è già destinata in partenza ad acco­gliere un contenuto erotico" (ibt"d.).

Proprio alla fine del saggio, Simmel definisce gli uomini " avventurieri della terra" (ivi, p. 27) e sembra intuire che nell'avventura la vita va al di là dei suoi materiali e dei suoi episodi. Essa resta, però, fino all'ultimo, un "tempo rubato" al processo degli eventi che costituiscono l'esi­stenza. Non è un caso che Simmel, per la sua ri­flessione sull'avventura, non abbia preso in con­siderazione quei poemi cavallereschi in cui essa era apparsa per la prima volta nelle letterature europee. Qui l'avventura, per l'individuo a cui avviene, s 'identifica infatti senza residui con la· vita, non soltanto perché essa investe e trasfigura la sua intera esistenza, ma anche e innanzitutto perché trasforma il soggetto stesso, rigeneran­dolo come una nuova creatura (che si chiama, convenzionalmente, " cavaliere" , ma non ha nul­la a che fare con l'omonima figura sociale) . E

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se eros e avventura vi sono spesso intimamente intrecciati, ciò non è perché l'amore dia senso e legittimità all'avventura, ma, al contrario, per­ché solo una vita che ha la forma dell'avventura può incontrare veramente l'amore.

Un tentativo di costruire una teoria filosofica dell 'avventura si deve a uno dei primi allievi di Heidegger, Oskar Becker. Nel pensiero del maestro, l 'esistenza umana è definita dal suo poter-essere; tuttavia le possibilità che cosi si aprono non sono possibilità vuote, ma sempre "gettate" in questa o quella situazione deter­minata. La tonalità emotiva, in cui l 'uomo si apre al mondo, lo rivela già sempre nel suo essere " consegnato a quell'ente che egli esi­stendo, ha da essere" (Heidegger l, p. 134), cioè nel suo essere gettato in una situazione a cui non può sfuggire e che, tuttavia, gli rima­ne impenetrabile. Per questo l 'esistenza - il Daset"n - può essere a volte definita come un peso e un "fardello" che l'uomo deve prende­re su di sé.

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A questo pathos dell ' " esser-gettato" , Becker oppone la leggerezza dell'esser-portato ( Ge­tragensein), che definisce l"' avventurosità" dell 'esistenza dell'artista. L'espressione "esser­portato" non è da prendere alla lettera, quasi che ci fosse anche qui un peso che deve essere sostenuto. Si deve piuttosto pensare alla pe­culiare mobilità priva di pesantezza del firma­mento secondo la concezione antica delle sfere celesti. Si tratta, cioè, di un esser-portati senza che vi sia nulla che ci sostenga, cioè di un' espe­rienza vitale in cui a orientarci non è la situa­zione a cui siamo consegnati né il compito che dobbiamo assumere, ma un'assoluta mancanza di peso e di compito.

Becker chiama " avventura" la condizione di un'esistenza - qual è quella dell'artista - che si situa nel mezzo "fra l 'estrema insicurezza dell'esser-gettato e l'assoluta sicurezza dell'es­ser-portato, fra l 'estrema problematicità di ciò che è storico e l 'assoluto non-far-problema di ogni essere naturale" (Becker, pp. 31-32). Si tratta, cioè, di interrogarsi su "quale sia l 'esi-

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stenza dell'uomo estetico" , di descrivere "l 'at­timo fecondo e forse anche terribile" (ibzd.) che è vissuto dall'artista quando porta a termi­ne l 'opera. Egli non l'ha creata in base a una decisione, ma essa gli si è data e lo ha "portato" fino al compimento della sua opera. "La sicu­rezza del genio," egli scrive, "ha in sé qualcosa di sonnambolico; egli è vigile e illuminato con estrema chiarezza, non però semplicemente vi­gile e sobrio, ma rapito dalla divina mania".

È significativo che a prendere il posto del cavaliere come soggetto dell'avventura, sia qui proprio l 'artista. La condizione esistenziale dell'esser-portato è in realtà cosi strettamente modellata su quella dell'esperienza estetica che è difficile sottrarsi all'impressione che in que­stione sia qui per Becker nient'altro che un'e­stetizzazione dell'esistenza, che ha nei Roman­tici tedeschi il suo archetipo. Non stupisce, pertanto, che a definire l ' avventurosità dell' ar­tista sia chiamato il concetto di ironia, cosi caro ai Romantici. "L'artista, intento al com­pimento della sua opera, è istantaneamente

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e eterno; egli è entrambe le cose insieme e sa che è questo inconciliabile; egli sa, con ciò, di essere inessenziale, fenomeno puro, avventu­riero metafisica e svelato come tale; il suo es­sere è, insieme, parvenza e verità: è ironia" (i vi, p. 35).

Nulla di piu lontano dall'avventura del cava­liere medievale, che non soltanto non conosce l'ironia, ma nemmeno può mai concepire l' av­ventura come un'estetizzazione dell'esistenza.

Non è un caso se il saggio di Becker si chiu­de con una citazione dagli Urworte goethiani, che esemplifica proprio nel demone "lo stato d'animo dell 'esser-portato" (ivi, p . 42). Contro il monito di Benjamin, che raccomanda di non confondere la vita e l 'opera, si tratta, ancora una volta, di unire indebitamente l'opera d' ar­te all'esistenza del suo autore.

Un'obiezione decisiva contro l'avventura era stata tacitamente levata alla fine del Medioevo. Essa risulta implicitamente dal fatto singolare che Dante non usa mai - se non due volte, nella

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Vita nuova (XIV, lO) e nel Convivio (II, XI, 8) ­in entrambi i casi nel sintagma avverbiale "per aventura" - la parola, che pure era familiare alla lingua del suo tempo e, nella forma negati­va " disaventura" , era anzi diventata nella poe­sia del suo "primo amico" , Guido Cavalcanti, un termine tecnico dell'esperienza amorosa ( "La forte e nova mia disaventura" - XXXIV, l; "Io temo che la mia disaventura" - XXXIII, l; ma anche: "Quanto aventurosa l fue la mia disi'anza" - I, 21-22).

Che nei piu di quindicimila versi che com­pongono la Commedia, il termine, che aveva avuto tanto rilievo nella tradizione cavalleresca cosi familiare ai poeti d'amore, non compaia, tradisce qualcosa come un'intenzione consape­vole. Non solo l'esperienza amorosa, ma, piu in generale, la vita dell'uomo sulla terra, nella vi­cenda che lo conduce attraverso il peccato e lo smarrimento fino alla salvezza, non si presenta

D ) (( " per ante come un avventura . Un termine in qualche modo vicino è usato da

Dante nel De vulgari eloquentia, quando, pro-

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prio al momento di menzionare la materia ca­valleresca scritta nella lingua d' oil, egli evoca le Arturi regis ambages pulcerrime (De vul. el. I, X, 2). Ambages - che indica letteralmente (amba­go) un movimento tortuoso, un girare in cer­chio - è un vocabolo virgiliano che, nell'Enezde, ha un significato decisamente negativo (longa est iniuria, longae l ambages - Aen. I, 341-342; horrendas canit ambages - VI, 99; dolos tecti am­bagesque - VI, 29 - in riferimento al labirinto di Dedalo) . In senso ugualmente negativo, esso compare in Par. XVII, 31-33: "Né per ambage, in che la gente folle l già s 'inviscava pria che fosse anciso l l'Agnel di Dio" . Nel De vulgari, tuttavia, le ambagi, la tortuosa erranza di Artu e dei suoi cavalieri, sono definite "bellissime" . Rifiutando, piu tardi, il termine "avventura" , Dante non ha quindi in mente semplicemente un giudizio poetico, ma qualcos' altro, che con­cerne la stessa concezione della vita umana e ha, pertanto, delle implicazioni a un tempo filosofi­che e teologiche.

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Nella lettera a Can Grande, Dante descrive il soggetto del suo poema in questi termini: "Soggetto è l'uomo, in quanto, meritando o demeritando attraverso la libertà del volere, è sottoposto alla giustizia del premio e della pena" (Ep. XIII, 24). Poco dopo egli precisa che il genere della filosofia a cui il poema ap­partiene è l'etica (morale negotium sive ethica - ivi, 40). È questa concezione della vicenda umana che ha determinato il distacco di Dante dalle "bellissime ambagi" dei cavalieri arturia­ni e il suo ripudio dell'avventura. La vicissitu­dine umana che si rivela al poeta "nel mezzo del cammin di nostra vita" non è un'avventura, non procede in cerchio in un'ambage bellis­sima, ma tortuosa e interminabile, che, come tale, si situa decisamente fuori dall'etica e dal paradigma teologico-giuridico della pena e del premio, della condanna e della salvezza. Essa procede in linea retta, dal peccato alla reden­zione, senza nulla concedere alle incertezze e alle casualità, alle digressioni e alle tergiversa­zioni dell'avventura cavalleresca.

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In questo senso, anche l'esperienza amorosa, già a partire almeno della Vt'ta nuova, è sottratta alla sfera dell'avventura. Certo anche Beatrice, come frau Aventiure, è un in discernibile di poe­tato e vissuto, di racconto e di evento, di lin­gua e realtà: essa non è mai, tuttavia, soltanto la protagonista o la meta di una meravigliosa o losca avventura, che non esce mai completa­mente dalle pagine che la raccontano. L'amore - questa è, forse, la differenza che separa la con­cezione dantesca da quella di Cavalcanti - non è un'avventura né una disavventura: è un' espe­rienza salvifìca, un cammino che procede, len­to ma diritto, dall'oscurità alla coscienza, dallo smarrimento alla redenzione, dalla parola a ciò che va al di là di essa. Che il nome di Lancillot­to sia corsivamente evocato proprio a proposi­to del peccato di Paolo e Francesca, ciò mostra che se l 'amore resta imprigionato nell'ambito dell'avventura e del libro ('' quando leggem­mo . . . " ) , esso non può che perdersi.

Sempre nella lettera a Can Grande, il titolo del poema è spiegato dicendo che mentre la

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tragedia comincia in modo quieto e meravi­glioso (admirabilis), per finire poi orribilmen­te, la commedia comincia con una " asperità" e finisce felicemente. La vita umana non è un'avventura - è, in questo senso speciale del termine, semplicemente una commedia.

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4. Evento

I.: evento non è quel che accade.

Gilles Deleuze

Nel 1952 Carlo Diano pubblica sul Giornale critico della filosofia italiana il saggio Forma ed evento, forse il suo scritto teorico piu am­bizioso. Qui egli contrappone la forma, l' eidos di Platone e Aristotele, compiuto in se stesso e immutabile al di fuori di ogni relazione, all'e­vento, sempre iscritto in una relazione e mai sostantivabile in un'essenza, di cui gli stoici fa­ranno un concetto centrale del loro pensiero. Quel che qui c'interessa non è, però, l 'opposi­zione e l'articolazione fra queste due categorie, di cui Diano si serve per la sua interpretazione del mondo greco, quanto piuttosto la sua defini­zione dell'evento, che egli riconduce alla tyche. n termine tyche - egli osserva - che deriva dal verbo tynchano, " accadere" , si forma dal

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tema dell'aoristo e significa quindi l'accadere momentaneo e indeterminato - l'opposto, in questo senso, della moira e dell' heimarmene, che, formati dal tema del perfetto, indicano la necessità e l'immutabilità di ciò che è stato. La tyche non è in questo senso che "una ipo­statizzazione dell'evento" (Diano, p. 20), ma non dell'evento nella sua casualità indifferente, ma dell'evento in quanto accade a qualcuno. "Evento è perciò non quicquid evenit, ma id quod cuiquè evenit [. . . ] . La differenza è capita­le. Che pidva, è qualcosa che accade, ma que­sto non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me" (ivi, p. 72).

È facile riconoscere qui i caratteri dell' avven­tura, che coinvolge sempre e immediatamente il cavaliere che la vive. Se, in quanto e-ventus, essa avviene istantaneamente provenendo non si sa da dove, in quanto ad-ventus, essa avviene sempre a e per qualcuno e in un certo luogo. Come scrive Diano, "l'evento è sempre hic et nunc. Non vi è evento se non nel preciso luogo

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dove io sono e nell'istante in cui l 'avverto" (ivi, p. 74). L'avventura, avvenendo, esige un "chi" a cui avvenire. Ciò non significa, però, che l'e­vento - l'avventura - dipenda dal soggetto: "Non sono l' hic et nunc che localizzano e tem­poralizzano l 'evento, ma è l'evento che tempo­ralizza il nunc e localizza l'hic" (ibid. ). n "chi" non preesiste come un soggetto - si potrebbe dire, piuttosto, che l 'avventura si soggettivizza, perché è parte costitutiva di essa l'avvenire a qualcuno in un certo luogo.

È stato Émile Ben veniste a mostrare che il qui e l'ora - come anche i pronomi io e tu - a dif­ferenza dei termini che rimandano a una real­tà lessicale, sono indicatori dell'enunciazione, hanno, cioè, significato soltanto in relazione all'istanza di discorso che li contiene e, in ulti­ma analisi, al locutore che la pronuncia. Come "io" - il soggetto - non può essere definito che in termini di locuzione e non è che colui che dice " io" nell'istanza presente di discorso, cosi "qui" e "ora" non sono identificabili oggettiva-

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mente, ma delimitano l'istanza spaziale e tem­porale coestensiva e contemporanea all'istanza di discorso contenente " io " .

S i comprende allora perché l'evento sia sem­pre anche evento di linguaggio e l 'avventura indissociabile dalla parola che la dice. L'essere che avviene qui e ora avviene a un " io " e non è, per questo, senza relazione col linguaggio: esso si definisce, anzi, ogni volta rispetto a un'istan­za di enunciazione, è sempre un dicibile, che, come tale, esige di essere detto. Per questo, co­lui che è implicato nell'evento-avventura, vi è implicato e convocato in quanto essere parlan­te , e dovrà provarsi, secondo la regola impre­scrittibile della Tavola rotonda, a raccontare la sua avventura. L'avventura, che lo ha chiamato nella parola, è detta dalla parola di colui che ha chiamato e non esiste prima di questa.

Già nel 1908, Émile Bréhier, nel suo geniale opuscolo sulla Teoria degli incorporei nell'antico ftoicismo, aveva richiamato l'attenzione sul ca­rattere incorporeo degli eventi e sul loro nesso

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con quell'incorporeo per eccellenza che è per gli stoici il lecton, il "dicibile" (o, come Bréhier preferisce dire: l'esprimibile) . n dicibile non è né qualcosa di soltanto linguistico né qualcosa di semplicemente fattuale: secondo una fonte antica, esso è un medio tra il pensiero e la cosa, fra la parola e il mondo. Non la cosa separata dalla parola, ma la cosa in quanto è detta e no­minata; non la parola come segno autonomo, ma la parola nell'atto in cui nomina e manifesta la cosa. Owero, come si potrebbe anche dire, la cosa nella sua pura dicibilità, nel suo accadere nel linguaggio. Gilles Deleuze, riprendendo nel 1969 in Logica del senso le idee di Bréhier, può scrivere che "l'evento non è quel che accade (l'accidente) , è, in ciò che accade, il puro espri­mibile che ci fa segno e ci aspetta" (Deleuze, p . 204). In questo senso esso è qualcosa che, al di là della rassegnazione e del risentimento, deve essere voluto e amato da colui a cui accade, per­ché, in quel che accade, egli vede innanzitutto l'avventura che lo coinvolge e che deve saper riconoscere, per esserne all'altezza.

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È bene precisare che nell'adesione del singo­lo all'avventura che gli avviene non è in que­stione la libera scelta di un soggetto, non si tratta di un problema di libertà. Volere l'even­to significa semplicemente sentirlo come pro­prio, avventurarsi, cioè mettersi integralmente in gioco in esso, ma senza bisogno di qualcosa come una decisione. Solo cosi l 'evento, che in sé non dipende da noi, diventa un'avventura, diventa nostro - o, come si dovrebbe piuttosto dire, noi diventiamo suoi.

Tutta la dottrina nietzschiana dell'amor /ati va rivista in questa prospettiva. Fato e avven­tura, Ananche e Tyche non coincidono. Dire si al "pensiero piu terribile" , volere che l'evento tomi infinitamente è il contrario di un' avven­tura. E non perché, come mostra fin troppo esplicitamente la letteratura cavalleresca, l' av­ventura non possa essere ripetitiva, ma perché mancano in essa tanto la necessità dalla parte dell'oggetto (l'evento è in sé puramente con­tingente) che, dalla parte del soggetto, l' affer-

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mazione suprema della volontà che, volendo l'eterno ritorno, vuole innanzi tutto se stessa. Chi si avventura nell'evento, certo ama, trema e si emoziona - ma, anche se potrà alla fine ri­trovarsi, non può che perdersi in esso, con leg­gerezza e senza riserve.

Anche la dottrina stoica secondo cui occorre volere e accettare di buon grado l'evento tra­disce in parte il significato dell'avventura che cerchiamo di definire. "Vi sono due motivi " '

scrive Marco Aurelio, "per cui devi essere sod-disfatto di ciò che ti capita: primo, perché è per te che è capitato, per te è stato ordinato e a te è riferito, intrecciato col tuo destino fin dalle cause piu remote; secondo, perché ciò che ac­cade individualmente a ogni uomo contribui­sce alla prosperità, alla perfezione e, per Zeus, anche alla conservazione di colui che regge l'universo. L'universo è come mutilato, se ci si sottrae alla connessione e alla catena delle cause e delle sue parti . Tu rompi questa con­nessione, per quanto dipende da te, quando

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sei scontento degli eventi e, in questo senso, li distruggi" (V, 8, 13) .

Volere l'evento significa qui non contrastarlo né impedirlo e soltanto cosi, lasciando che av­venga, contribuire a causarlo. Ma si tratta, alla fine, di una forma di impassibilità che sa che gli eventi, in sé perfetti, sono in ultima analisi indifferenti e che solo l'uso che il singolo sa­prà farne accettandoli è importante. In questo modo, gli eventi sono separati dal soggetto e l'unità di evento e di colui a cui accade che costituisce l 'avventura è spezzata. Poiché solo nell'avventura a cui si dà interamente e con turbamento Perceval conosce se stesso e il suo nome; soltanto avventurandosi, contro l'avvi­so del suo nocchiero, nel castello incantato e giacendo sul Letto della Meraviglia, Gauvain compie la sua storia e il suo destino.

A partire della seconda metà degli anni tren­ta del XX secolo, le riflessioni di Heidegger si concentrano con sempre maggiore intensità intorno a un vocabolo, in cui tutte le diverse

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linee del suo pensiero sembrano convergere: Ereignis. Il termine, che Heidegger cerca di ricondurre al verbo eignen, "appropriare" , e all 'aggettivo eigen, "proprio" , significa in te­desco semplicemente "evento". In questione, nell 'evento, è, però - come nell 'Assoluto di Hegel - nulla di meno che la fine della storia dell'essere, cioè della metafisica. Se la meta­fisica - si legge in Zur Sache des Denkens -è la storia degli invii epocali dell 'essere, che resta ogni volta nascosto in essi, in modo da lasciar apparire soltanto l 'ente, per il pensiero "che prende dimora nell 'evento [ . . . ] la storia dell'essere è finita" (Heidegger 2, p. 44). Ciò che avviene nell 'evento è, cioè, l'essere, al di là della differenza antologica di essere ed ente e prima delle sue destinazioni epocali. Si trat­ta di pensare lo Es in Es gibt Sein, i l "si" in "si dà l'essere".

Decisivo è, però, che ciò che è in questione nell'evento non è semplicemente l'essere, ma la coappartenenza e l 'appropriazione reciproca di essere e uomo. Prendere dimora nell'evento

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- si legge in Identità e Differenza- significa in­fatti "esperire quell'esser proprio [Eignen] , in cui l 'essere e l'uomo si appropriano l'uno all'al­tro" (Heidegger 3, p. 24). L'evento è, innan­zitutto, evento dell'essere insieme di uomo ed essere ("l'evento appropria uomo e essere nel loro Insieme [Zusammen] essenziale" - ibid.).

Se l'uomo non preesiste all'essere né l 'essere all'uomo, ciò significa che nell'evento è in que­stione, per cosi dire, l'evento degli eventi, cioè il diventare umano dell'uomo. Il vivente diven­ta umano - diventa un Dasein - nell'istante e nella misura in cui l 'essere gli avviene: l 'even­to è, insieme, antropogenetico e ontogenetico, coincide col diventar parlante dell'uomo e con l'avvenire dell'essere alla parola e della parola all'essere. Per questo Heidegger può scrive­re che il linguaggio è coessenziale all'evento: "Noi abitiamo nell'evento, solo in quanto la nostra essenza è appropriata al linguaggio" (ivi, p. 26).

È possibile, allora, che l 'avventura che ab­biamo cercato di definire presenti piu di un'a-

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nalogia con l'Ereignis . Non soltanto evento e parola si danno insieme nell 'avventura, ma questa - lo abbiamo visto - esige sempre un soggetto a cui avviene e da cui dev'essere det­ta. E il soggetto non preesiste in realtà all' av­ventura, come se dipendesse da lui porla in essere - piuttosto ne deriva, quasi che fosse l 'avventura stessa a soggetti varsi, perché è parte costitutiva di essa avvenire a qualcuno e in un certo luogo. Per questo Perceval, prima di partire per l 'avventura, non ha nome e solo alla fine saprà di chiamarsi Perceval il galle­se. Come essere e uomo nell'Ereignis, cosi nell 'avventura evento e cavaliere si danno in­sieme, come le due facce di una stessa realtà .

Che l'avventura abbia a che fare col diventar uomo del vivente è implicito in Bisclavret, uno dei piu bei lais di Maria di Francia. Il lai nar­ra la storia di un barone che, ogni settimana, dopo aver nascosto le sue vesti sotto una pie­tra, si trasforma per tre giorni in lupo manna­ro (bisclavret) e vive nel folto della foresta di

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prede e di rapina (Al plus espès de la gaudine l s'i vt/ de preie e de ravine- Bisci. vv. 65-66). La moglie, che pure lo ama, s ' insospettisce per queste assenze, riesce a strappargli la confes­sione della sua vita segreta e lo convince a ri­velarle il luogo dove nasconde le vesti, benché egli sappia che se le perdesse o fosse sorpreso nell'atto di indossarle, resterebbe per sempre lupo. Servendosi di un complice, che divente­rà il suo amante, la donna sottrae le vesti dal nascondiglio e il barone resta lupo mannaro fino al giorno in cui, grazie all'incontro col sovrano, riesce a recuperare le vesti e ridiven­tare uomo.

Il lai chiama esplicitamente " avventura" la trasformazione dell 'uomo in lupo e del lupo in uomo: s'aventure li cunta (ivi, v. 6 1) si dice della confessione del marito ed è questa " av­ventura" ciò che atterrisce la donna e la spin­ge al tradimento (de l' aventure s'es/rea - i vi , v. 99). Come mostra la speciale segretezza che circonda il momento in cui l 'uomo si toglie e indossa nuovamente le vesti, che deve avvenire

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assolutamente senza testimom, m questione nel l a i è la soglia attraverso la quale l 'animale diventa uomo e l 'uomo ridiventa animale. Il passaggio di questa soglia è l 'avventura delle avventure.

"Avventura" è, in questo senso, la traduzio­ne piu corretta di Ereignis. Esso è, dunque, un termine genuinamente antologico, che nomina l'essere in quanto avviene - cioè nel suo mani­festarsi all'uomo e al linguaggio - e il linguag­gio in quanto dice e rivela l'essere. Per questo nei poemi cavallereschi è impossibile distin­guere tra l 'avventura-evento e l 'avventura­racconto; per questo il cavaliere, incontrando l'avventura, incontra innanzi tutto se stesso e il suo essere piu profondo. E se l 'evento che è in questione nell'avventura non è altro che l 'an­tropogenesi, cioè il momento in cui il vivente, con una trasformazione di cui è impossibile conoscere le modalità, ha separato - per poi riarticolarle insieme - la sua vita e la sua lingua, ciò significa che, diventando umano, esso si è

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votato a un'avventura che è ancora in corso e di cui non è facile prevedere gli esiti.

Karl Rosenkranz ha osservato una volta acu­tamente che il Graal - che egli definisce "una specie di simbolo" - " in quanto non ha storia in se stesso, ma solo nella relazione con esso di esseri coscienti, diventa per questo motivo del­le loro azioni" (Rosenkranz, p. 57). Nel Perce­v al di Chrétien, il Graal non ha nulla di sacro, è soltanto una scodella di metallo prezioso che una damigella tiene fra le mani e a cui l 'eroe non presta particolare attenzione. Esso assomi­glia a quegli oggetti misteriosi, come il Falcone mal tese nel fìlm di J ohn Huston, per ottenere i quali i personaggi sono pronti a uccidere e a rischiare la vita, ma che si rivelano alla fine privi di qualsiasi valore e significato. Solo piu tardi teologi e poeti lo investiranno di un si­gnificato religioso e lo identificheranno con il calice dell'Ultima Cena, quello stesso nel quale Giuseppe di Arimatea raccoglie il sangue che sgorga dal costato del crocifisso.

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Il Graal è, in questo senso, la cifra perfetta dell'avventura. L'evento antropogenetico in sé non ha storia ed è, come tale, inafferrabile: e, tuttavia, esso getta gli uomini in un'avventura che ancora non cessa di avvenire.

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5. Elpis

C è speranza, ma non per noi.

Franz Kafka

Ogni uomo si trova preso nell'avventura, ogni uomo ha, per questo, a che fare con Daimon, Eros, Ananche, Elpis . Essi sono i volti - o Ìe maschere '- che l'avventura - la tyche - ogni volta gli presenta. Quando l'avventura gli si rivela come demone, la vita gli appare meravi­gliosa, quasi che una forza estranea lo sorreg­gesse e guidasse in ogni situazione e in ogni nuovo incontro. Presto, tuttavia, la meraviglia cede al disincanto, il demonico si traveste da routinier, la potenza che portava la vita - Arie­le, Genio o Musa - si oscura e nasconde, come un gabbamondo che non mantiene le sue promesse.

Mantenersi fedele al proprio demone non significa, infatti, abbandonarsi ciecamente a lui, confidando che in ogni caso ci condurrà

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al successo - se siamo poeti, che ci farà scri­vere le poesie piu belle; se siamo uomini dei sensi, che ci darà la felicità del piacere . Poesia e felicità non sono i suoi doni: è lui, piuttosto, il dono estremo che felicità e poesia ci fanno nel punto in cui ci rigenerano, ci fanno nasce­re nuovamente. Come la Daena della mistica iranica, che ci viene incontro dopo la morte, ma che siamo stati noi a plasmare con le no­stre azioni buone o malvagie, il demone è la nuova creatura che le nostre opere e la nostra forma di vita sostituiscono all'individuo ana­grafico che credevamo di essere - egli è l 'auto­re anonimo, il genio cui possiamo attribuirle senza invidia né gelosia. E si chiama " genio" non perché, come dicevano gli antichi, ci ha generato, ma perché, facendoci nascere nuo­vamente, ha reciso il legame che ci univa alla nostra nascita. Questo significa che al demone appartiene costitutivamente il momento del congedo - che, nel momento in cui lo incon­triamo, dobbiamo separarci da noi stessi .

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Il demone - cosi si dice - non è un dio, ma un semidio. Ma semidio può solo significare: potenza, possibilità e non attualità del divino. Per questo - perché mantenersi in relazione con una potenza è la cosa piu ardua - il demo­ne è qualcosa che incessantemente si perde e a cui dobbiamo cercare di restare a ogni costo fedeli . La vita poetica è quella che, in ogni av­ventura, si mantiene ostinatamente in relazio­ne non con un atto, ma con una potenza, non con un dio, ma con un semidio.

Il nome della potenza rigeneratrice che, al di là di noi stessi, dà vita al demone è Eros . Certo amare significa "essere portati" , abban­donarsi all 'avventura e all'evento senza riser­ve né scrupoli ; e, tuttavia, nell'atto stesso in cui ci abbandoniamo all'amore, sappiamo che qualcosa in noi resta indietro, in difetto. Eros è la potenza che, nell'avventura, costitutiva­mente la eccede, cosi come eccede e scavalca colui a cui essa avviene. L'amore è piu forte dell'avventura - e questa è forse la certezza

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che aveva spinto Dante a uscire dal cerchio magico dei poemi cavallereschi; ma proprio per questo nell ' amore noi facciamo ogni volta l'esperienza della nostra incapacità d'amare, di andare al di là dell'avventura e degli even­ti - e, tuttavia, proprio questa incapacità è l'impulso che ci spinge all'amore. Come se l 'amore fosse tanto piu ardente e intriso di nostalgia, quanto piu forte si rivela in esso l'incapacità di amare.

L'appagamento dei sensi è il "piccolo mistero della morte" (cosi gli antichi chiamavano il sonno) attraverso il quale gli uomini cercano di venire a capo della loro incapacità di amare. Poiché in esso l 'amore sembra quasi spegnersi e congedarsi da noi - ma non, secondo il pre­giudizio borghese, per disincanto e tristezza, quanto piuttosto perché, nell'appagamento, gli amanti perdono il loro segreto, cioè si con­fessano l'un l'altro che non vi è, in essi, alcun segreto. Ma proprio in questo vicendevole smagarsi dal mistero, essi - o il demone in loro

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- accedono a una vita nuova e piu beata, né animale né divina né umana.

L'amore è, in questo senso, sempre senza speranza e, tuttavia, soltanto a lui appartiene la speranza. E questo è il senso ultimo del mito di Pandora. Che la speranza, l'ultimo dono, resti chiusa nel vaso, ciò significa che essa non aspetta il suo adempimento fattuale nel mon­do. E non perché rimandi la sua soddisfazione a un invisibile al di là, ma perché essa è stata in qualche modo già sempre esaudita.

L'amore spera, perché immagina e imma­gina, perché spera. Spera che cosa? Di esse­re esaudito? Non veramente, perché proprio della speranza e dell'immaginazione è di le­garsi a un inesaudibile. Non perché esse non desiderino ottenere il proprio oggetto, ma perché, in quanto immaginato e sperato, il loro desiderio è stato già sempre esaudito. Che, secondo le parole dell'apostolo, "nella speranza noi siamo stati salvati" (Rom. 8,24), è, per questo, insieme vero e non vero . Se

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oggetto della speranza è l'inesaudibile , è solo in quanto insalvabili - già salvi - che abbiamo sperato nella salvezza. Cosi come supera il suo esaudimento, la speranza oltrepassa anche la salvezza - anche l 'amore.

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Indice

l. Demone 5

2 . Aventure 17

3. Eros 36

4. Evento 54

5 . Elpis 69

Bibliografia 75