Gigi Proietti - Tutto sommato

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In cinquant’anni di carriera Proietti ha conquistato generazioni di spettatori, contaminando la cultura “alta” e quella “bassa” senza pregiudizi. In "Tutto sommato" ci restituisce quella voglia di mischiare le carte in tavola, intrecciando le gioie della vita a quelle del palco e lasciando sempre sullo sfondo la sua Roma, città eterna e fragile, tragica e ironica, cinica e innamorata.

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Gigi Proietti

Tutto sommato

Qualcosa mi ricordo

Rizzoli

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Proprietà letteraria riservata

© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-06875-8

Prima edizione: novembre 2013

Impaginazione e redazione: studio pym / Milano

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Tutto sommato

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Alla mia famigliache mi ha sopportato

e che ancora mi sopporta

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Prologo

Lo schiaffo del prete

Un’autobiografia? Io? Tutt’al più quattro chiacchiere sul passato, sperando che a qualcuno interessi. Riordi-nare l’album dei ricordi è un lavoraccio infame. Ci si di-mentica sempre di qualcuno, si tende a idealizzare ogni momento della propria gioventù e si finisce per raccon-tare una sfilza di aneddoti nei quali ci assegniamo la par-te del protagonista che salva la situazione. Alla fine, più che un libro, viene fuori una lista di belle figure. No, un’autobiografia proprio no. Senza contare che tornare sui luoghi della propria infanzia può essere doloroso. E io l’ho sperimentato anni fa.

Ero con Lello, un vecchio amico, e passeggiavamo nel quartiere che mi aveva visto crescere: il Tufello, la borgata romana della mia adolescenza nel dopoguerra. Era una vita che non ci passavo.

Ormai mi guadagnavo da vivere come attore, avevo raccolto i miei successi e mi ero ritagliato una discreta notorietà. L’idea di rivedere quei luoghi mi metteva un po’ in soggezione, non volevo sembrare lo spaccone che torna per dire a tutti: «Ce l’ho fatta». Per quello non ci mettevo piede da quarant’anni.

Ripercorremmo le strade di sempre e ci ritrovammo in uno dei posti preferiti della mia infanzia. Lì dove fini-

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Tutto sommato

vano le case e cominciava la campagna c’era la parroc-chia della Santissima Assunta.

«Chissà se c’è ancora don Luigi» chiesi a Lello.«E chi è?»«Il prete che gestiva l’oratorio.»Chiamai da sotto la finestra della canonica e si af-

facciò proprio lui, il pretone di sempre, un po’ imbian-cato. Mi guardò sorpreso e mi disse: «Aspetta, nun te mòve!».

Scese di corsa e me lo ritrovai davanti. Non disse una parola e mi allentò uno schiaffone che manco ai vecchi tempi.

«Brutto puzzone! Nun te sei fatto più vivo!» gridò abbracciandomi, mentre io cercavo di riprendermi dal-lo sganassone. Sapevo che tornare è un po’ soffrire, ma non pensavo fino a questo punto.

Ricordare è un mestiere rischioso, perché ha bisogno di stimoli forti. E la mano di quel pretone stampata sul-la mia guancia è uno stimolo che consiglierei a chiun-que voglia rinfrescarsi la memoria: è una vera macchi-na del tempo. In un secondo mi sentii catapultato nel mio corpo di ragazzino, nelle mie braghette, nelle mie scarpe sfondate. Come un attimo prima di morire, pare che succeda a chi sta affogando, mi passò tutto davanti. All’impatto dello schiaffone vidi le stelle, il primo amo-re, il confessionale, gli amici di allora, la santa messa, le processioni: respirai di nuovo l’aria dei miei tredici anni.

Raccontare la propria vita non è cosa da tutti. Certo, chiunque può ricordare gli episodi, cercare di storiciz-zare, fare riflessioni su come passa il tempo e come cam-biano le cose. Ma l’odore della povertà misto a quello del sugo della domenica, i richiami delle mamme ai fi-

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Prologo

gli discoli che non tornano per cena, l’allegria irrecupe-rabile del mercato, le chiacchiere sui marciapiedi… E poi i «faccio un goccio d’acqua» sui muri ancora freschi di calce, la partita a tressette, la vita in strada, le donne ai davanzali, i discorsi dei disoccupati… Tutto questo, come puoi farlo rivivere in chi legge se non c’era?

Forse non è stato neppure come lo ricordi tu, perché nel ricordo hai enfatizzato qualcosa, e qualcos’altro hai rimosso.

C’è chi ha descritto la periferia come topos del Tragi-co, magari con accenti nobilissimi, ma con l’occhio ine-vitabilmente distaccato dell’intellettuale che riflette e si sforza di soffrire sulla condizione umana. Io non preten-do tanto. Preferisco raccontare qualcos’altro e, a guardar bene, non so nemmeno cosa, o chi; so solo che c’è qualcu-no che mi sembra doveroso far rivivere per un attimo nei miei pensieri. Ma senza nostalgia, per l’amor d’Iddio. No, semmai con la gioia per un passato che la mente riscrive come vuole, come un sogno voluto e gestito, e mai subìto.

Raccontare senza essere prolissi, inseguendo la sem-plicità e non la facilità, è come trovare l’inquadratu-ra giusta. Vista a occhio nudo qualsiasi cosa racconta, mentre attraverso un obiettivo, chiusa nei limiti di quel-la cornice, la stessa cosa può non significare nulla. O es-sere solo una bella immagine, niente di più.

Raccontarsi, poi, è difficilissimo. Richiede una buo-na dose di onestà e un grande sforzo di memoria. So già che trascurerò molti dettagli, alcuni per riserbo, altri perché li ho persi per strada, ma le cose davvero impor-tanti non le ho mai dimenticate.

Tutto sommato, qualcosa mi ricordo.